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MONOGRAFIE
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ARCHEO MONOGRAFIE
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VIAGGIO IN GRECIA
• Atene e l’Acropoli • Il Peloponneso
• La magia di Delfi • Lungo la via Egnazia • In Macedonia, sulle orme
di Alessandro • La Calcidica • Le isole dello Ionio • Le Cicladi
VIAGGIO IN GRECIA
N°14 Agosto 2016 Rivista Bimestrale
€ 7,90
VIAGGIO IN GRECIA ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ OCCIDENTALE
testi di Carlo Casi, Tsao T. Cevoli, Alessandra Costantini, Valentina Di Napoli, Christoph Hausmann, Fabrizio Polacco, Andreas M. Steiner, Lidia Vignola
ATENE
VIA EGNAZIA
La maestà del potere
Sulla via per l’Oriente
ACROPOLI DI ATENE
MACEDONIA
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Tutta la storia su una collina
PELOPONNESO 42
Terra d’incontro
DELFI 60
«Parlami, o Pizia...»
70
82
Alla ricerca del mito
ISOLE IONIE 106
Un’altra Grecia
ISOLE CICLADI 122
Come perle di collana
LA MAESTÀ DEL POTERE Atene porta sulle spalle il peso di un’eredità straordinaria: è opinione corrente, infatti, che la capitale dell’Attica (e oggi della Grecia) sia stata la culla culturale e politica dell’Occidente. Ma quali prove si possono oggi rintracciare di quell’antica grandezza, se per un momento mettiamo da parte l’Acropoli, che si staglia come una candida nave? Ecco un itinerario insolito, sulle orme di filosofi, statisti e tiranni...
di Fabrizio Polacco
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Atene, l’Acropoli e l’Olympieíon, acquerello e matita di Carl Anton Joseph Rottmann. 1836. Monaco, Staatliche Graphische Sammlung.
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ai una volta sola ad Atene. Anzitutto per superare la prima, imprevista reazione di incredulità. È davvero quello il Partenone, cosí ingombrante per la rocca su cui è posato? Tanto vicino, quasi da poterlo toccare, rispetto alla città bassa? E l’Acropoli tutta intera, spunta davvero cosí, tra un semaforo e l’altro, meteora precipitata da un lontano pianeta sul traffico assordante dei viali? E quel tempio chiamato Theseion, che troneggia troppo perfetto e assurdamente completo sul Kolonòs Agoraíos (il «Colle dell’Agorà»), affacciato sui binari di una vecchia ferrovia cittadina, è vero o è un falso (cosí come è in effetti falsa, cioè ricostruita, la prospiciente Stoà di Attalo)? La sensazione di improbabile autenticità si accresce non appena entri in uno dei musei archeologici della capitale. Il contenuto ti pare
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Atene dimenticata L’Atene dimenticata è quella che ci appare nei disegni dei viaggiatori e dei primi studiosi fino all’inizio dell’Ottocento. Un piccolo centro di scarsa importanza, sormontato da una rocca profondamente diversa da quella attuale: un complesso fortificato dove le rovine classiche, molto meno evidenti di quanto non siano ora, erano disperse o inglobate negli edifici cresciuti successivamente su di esse. Il Partenone, per esempio, fu prima riutilizzato come residenza dal sovrano ellenistico Demetrio Poliorcete (dal 304 a.C.), poi trasformato in Chiesa della Vergine con abside inserita tra le colonne sotto Giustinano (VI secolo d.C.); quando Atene venne conquistata dai Franchi nel 1204, fu sormontato da una torre difensiva, che i Turchi (1458-1830) trasformarono poi nel minareto di una moschea che sostituí la chiesa. Usato finanche come polveriera, esplose, crollando in gran parte a causa di un
Atene. Una veduta panoramica dell’Acropoli, che oggi si staglia sulla città moderna.
bombardamento dei Veneziani (1687). I Propilei, invece, già rimasti incompiuti allo scoppio della guerra del Peloponneso (432/31 a.C.), per la loro posizione sull’unico agevole accesso alla rocca divennero una fortezza sotto i Franchi, a cui seguí la trasformazione in palazzo da parte della famiglia fiorentina degli Acciaiuoli, che governò Atene dal 1388 al 1458. Un’alta torre difensiva medievale troneggiava del resto sull’edificio fino alla metà dell’Ottocento. L’Eretteo, trasformato anch’esso in una chiesa, di cui la Loggia delle Cariatidi costituiva il battistero, fu usato poi come abitazione, ma anche come polveriera, sotto i Turchi. Il tempietto di Atena Nike era stato addirittura abbattuto nel 1678 per utilizzarne il materiale nelle fortificazioni, all’interno delle quali venne in effetti ritrovato dagli archeologi dell’Ottocento. Paradossalmente, dunque, i visitatori di oggi vedono un’Acropoli che è molto piú «classica» o «periclea» di quella che poterono vedere gli uomini dei precedenti 1500 anni.
subito eccessivo: se fossimo in America la diremmo quasi pacchiana, tutta quella roba, cosí perfetta e messa insieme. E però non siamo nella villa di un miliardario californiano: siamo ad Atene. E tutta quella roba è vera.
Campioni della jeunesse dorée I primi kouroi arcaici, spropositatamente muscolosi e tuttavia leggiadramente sorridenti e pettinati, per di piú truccati in origine con qualche manciata di colore, sembrano salutarti con l’ironia di chi aspetta da millenni che tu, modesto visitatore, venga a rendere loro omaggio: loro, la jeunesse dorée – privilegiata anche dopo la morte – della piú potente, orgogliosa e bella città dell’Ellade. Lo diceva anche Tucidide, presago di nostre future impressioni: Atene parrà, a chi ne
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Acropoli di Atene
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Una città da scoprire 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Propilei Eretteo Partenone Pnice Stoà di Attalo Theséion (Hephaisteion) 7. Teatro di Filopappo
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8. Stadio 9. Zappeion 10. Parlamento 11. Agorà romana 12. Torre dei Venti 13. Biblioteca di Adriano 14. Arco di Adriano 15. Museo dell’Acropoli
16. Museo Benaki 17. Museo d’Arte cicladica 18. Museo Bizantino e Cristiano 19. M useo della Guerra 20. M useo del Ceramico 21. Politecnico
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Museo Archeologico Nazionale
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Accademia di Platone
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ATENE
22. M useo Epigrafico 23. Monumento a Lisicrate 24. A ghios Eleftherios 25. Aghia Aikaterini 26. A ghia Triada 27. A ghii Apostoli 28. Kapnikarea
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contempli un giorno le rovine, aver avuto «una potenza doppia di quella reale». E anche una bellezza doppia, verrebbe da aggiungere. Ecco, forse è proprio quella bellezza a sembrarci oggi cosí improbabile, inautentica. In fondo, noi moderni non riusciamo ancora a credere che un popolo intero abbia preso tanto sul serio per secoli una qualità che a noi sembra un po’ frivola e leggera, quasi immeritevole di impegno eccessivo. «Mai una sola volta ad Atene», si è detto: per tralasciare – ebbene sí – empiamente, almeno in uno dei tuoi soggiorni, proprio quella rocca troppo celebre e visitata. Perché non è vero, come dicono i turisti frettolosi, che «ad Atene di bello c’è solo l’Acropoli». Che, quando arrivi in aereo, ti appare da mille metri d’altezza nella sua slanciata, imprevista forma di nave: primigenia trireme di roccia, anticipazione del futuro della città. Ma in questa città dagli edifici bianchi e relativamente bassi rispetto alle altre capitali europee – estrema nostalgia dei villaggi cicladici e costieri lasciati dagli Ateniesi appena due o tre generazioni fa –, non ci sono solo auto, asfalto e smog, come recita un’ingenerosa quanto diffusa vulgata. Oggi poi, modernissime metropolitane e nuove linee di trasporti in superficie hanno davvero alleggerito la tenaglia del traffico attorno ai monumenti e alle vie respiratorie dei suoi milioni di abitanti.
Nella pagina accanto cartina del centro di Atene con, in evidenza, i principali monumenti. In basso Edipo a Colono, olio su tela di JeanAntoine-Théodore Giroust. 1788. Dallas, Dallas Museum of Art.
finalmente non da cartolina, o da libro di storia dell’arte. Del resto, la stessa Acropoli non è mai stata come noi ora la vediamo. Né quand’era ben piú completa e sfavillante di oggi, dopo l’impero di Adriano, né durante i lunghi secoli dell’oblio, quando sovrastrutture bizantine, franche, ottomane l’avevano infine trasformata in un fortino (vedi box alle pp. 8-9). Fu nell’Ottocento patriottico e risorgimentale che si decise di «liberarla» dalle concrezioni degli ultimi due millenni, per isolare le vestigia di un solo periodo: quello classico. Te ne ricordi quando ti accorgi, con sorpresa, che il tempietto di Atena Nike è scomparso, come volatilizzato, dal podio su cui risplendeva: smontato dai restauratori degli ultimi tempi quasi fosse un giocattolo, con la stessa facilità con cui era stato riassemblato, in quell’empito romantico del XIX secolo, dai suoi tanti tronconi dispersi e inglobati qua e là. Tanto vale ammetterlo subito: altrettanto e talvolta piú dei fulgori classici, di Atene mi attrae il loro contrasto con le immense periferie, i margini poco illuminati dei viali, i sobborghi limitrofi come piccoli paesi dotati di
Come un lago di latte Eppure, la visione generale che si ha dal Licabetto, a settentrione dell’Acropoli, è sempre quella di un immenso lago di latte che si dilata dal mare fino ai quattro monti circostanti – l’Egaleo, il Parnete, il Pentelico e l’Imetto – andando a colmare tutta quella pianura attica un tempo coltivata, e oggi sovraffollata piú di ogni altro angolo dell’Ellade. Una volta ridiscesi in mezzo a quelle costruzioni, occorre però prendere il coraggio a due mani e voltare le spalle, per una volta, agli splendori di Pericle e di Fidia, per andare a rovistare attorno a quei vialoni caotici alla ricerca dei residui frammenti di un’Atene
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ATENE
vita propria, i mercati popolari inesauribili e levantini, i seminterrati fatiscenti dei palazzi adibiti a magazzini stracolmi d’ogni ben di Dio, i garage all’aperto inventati negli spazi lasciati liberi dalle demolizioni, le piazzette che si animano a sera tra le pallonate dei ragazzini, i commenti degli anziani seduti tutt’attorno sulle panchine e quelli dei giovani alla moda che invece prediligono i sedili imbottiti dei caffè.
Gli abissi del tempo Una vita ancora pulsante e mediterranea: che però, di tanto in tanto, si spalanca sugli abissi del tempo. Come a Colono. Nessuna indicazione porta a questa piccola altura, fuori dall’antica cinta muraria, da cui si dice provenisse la famiglia di Sofocle, e dove il suo Edipo andò a morire, quasi trasfigurandosi. Ma la pietas dei costruttori moderni, o degli amministratori che li hanno provvidenzialmente fermati, l’ha salvata dalla frenesia edilizia. Oggi Colono è un giardinetto con quell’aria un po’ sacrale e sospesa che è tipica di tanti piccoli spazi pubblici verdi di questo Paese, dove il silenzio della natura prende improvvisamente il sopravvento, e al crepuscolo torni a sentire gli usignoli, quegli
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stessi cantati da Edipo. Un anziano che prende il fresco su un gradino della soglia di casa mi conferma che sí, proprio quel vialetto ben sistemato porta al luogo mitico in cui trovò riposo dalle sue sventure Edipo «ò tyrannos», come ancora oggi lo chiamano i Greci.
Sepolture illustri Ovviamente, non vi trovo che nella mia immaginazione gli scampoli di vita del re di Tebe; solo le tombe di Karl Otfried Müller, filologo tedesco dell’Ottocento (1797-1840; tra i primi studiosi del Partenone e delle antichità di Atene), e quella dell’archeologo francese suo contemporaneo Charles Lenormant (1802-1859) si levano l’una a fianco dell’altra in un esiguo spazio recintato al culmine della collina: entrambe vicine, secondo le ultime volontà di Müller, al luogo di sepoltura di Platone, che si trovava sempre qui, nei pressi dell’Accademia. Sono sovrastate, rispettivamente, da una stele e da un’urna, alla foggia antica, che è facile osservare anche nelle non lontane tombe del Ceramico, il cimitero dell’Atene classica. Procedo dall’alto verso il basso. L’antico corso dell’Ilisso, il celebre fiume che traversava Atene a sud dell’Acropoli e presso il quale si soffermarono a chiacchierare di Eros e di retorica Socrate e il suo allievo Fedro, è oggi un letto avvallato e prosciugato, interrotto da una
In alto veduta odierna dell’Olympieíon o tempio di Zeus Olimpio, dalla collina dell’Acropoli. Nella pagina accanto rilievo marmoreo con leonessa che attacca un toro. Probabilmente parte dei rilievi del Partenone originario. 570 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli.
grata che chiude il condotto nel punto in cui sottopassa gli asfalti moderni. Questa anonima sistemazione è quanto resta di quello che fu forse il primo locus amoenus della letteratura occidentale, zeppo di fiori e di uccellini, pervaso dal canto delle cicale e abbellito di piccoli altari devoti.
Il fantasma di Socrate E sempre il fantasma di Socrate aleggia, con l’eco della sua chiacchiera ironica e seducente, in un lembo meno frequentato dell’agorà, dove le tracce di due file di stanzette allineate lungo un breve corridoio corrispondono forse a un carcere: quello in cui il filosofo del «sapere di non sapere» fu detenuto in attesa dell’esecuzione. Un ambiente troppo angusto, vien da pensare, per un evento dalla portata gigantesca. Comunque, le permanenze in quel carcere furono sempre brevi: in attesa di un’ammenda, dell’esilio, o della morte. Tra le pene degli antichi Greci non era infatti
prevista quella di tenere gli uomini in gabbia per anni, come criceti. Tuttavia, i ricordi letterari e filosofici non ci devono fuorviare piú di tanto, perché rischiano di edulcorare eccessivamente la vera essenza della «superiorità» ateniese. Tucidide, uno storiografo che fa impallidire per acutezza tanti odierni campioni di quella che oggi è diventata una delle «scienze umane», non ci parla nei suoi libri né di arte, né di poesia; ma solo di fatti, di forze, di intelletti protesi all’azione: che è gesto e parola insieme. Non dimentichiamo che questi creatori di cose belle, raffinate e gentili, non erano in fondo che uomini come tanti altri. Uomini all’eccesso, forse: piú spregiudicati, piú insaziabili. A tratti, terribili. Come capita sovente, sono proprio i nemici a tracciare, senza volerlo, il nostro ritratto piú bello. Come quello che Tucidide fa pronunciare ai Corinzi in occasione dell’ennesimo successo militare degli Ateniesi: «Sono innovatori e rapidi a far progetti e a realizzare le loro
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Il cantiere infinito di Zeus Il gigantesco tempio di Zeus Olimpio venne inaugurato dall’imperatore Adriano al termine dell’estate del 131 d.C., durante il suo ultimo viaggio privo di finalità militari nelle province orientali. Esso sorge su un basso rilevamento del terreno a sud-est dell’Acropoli, dove il culto di Zeus aveva una tradizione molto antica. L’arco celebrativo che lo precede, tuttora in piedi e dedicato allo stesso imperatore dagli Ateniesi, ricorda in un’iscrizione sua morte (163 a.C.), eresse un primo colonnato corinzio, poi in parte trasportato da Silla a Roma per essere utilizzato nel tempio di Giove Capitolino. Adriano, 650 anni dopo l’avvio del progetto, portò finalmente a termine i lavori: il risultato fu un tempio ottastilo triptero sui due lati brevi, un «icosastilo» (con venti colonne) diptero sui lati lunghi, per un totale di 104 colonne corinzie. Tutte in marmo pentelico (quelle dei Pisistratidi erano in calcare). Quindici di queste gigantesche membrature, alte 17,25 m e larghe 1,30 m all’altezza del capitello, sono oggi ancora in piedi. Infine, Adriano collocò anche la sua statua all’interno della cella templare, a fianco di quella crisoelefantina di Zeus.
che da un lato sorgeva la precedente Atene, detta «di Teseo», dall’altro quella non piú di Teseo, ma «di Adriano». Tuttavia, il piú antico progetto dell’edificio risaliva alla fine del VI secolo a.C., ed era stato concepito dai discendenti del tiranno ateniese Pisistrato affinché rivaleggiasse, per grandiosità di proporzioni, con i contemporanei, colossali templi dell’Asia Minore (l’Heraíon di Samo, l’Artemísion di Efeso, ecc.). Il crepidoma (il basamento sul cui perimetro si sviluppa il colonnato, n.d.r.), l’unica parte dell’edificio che i tiranni portarono a termine prima della loro cacciata (510/9 a.C.), misurava ben 107,70 x 49 m. Ma la nascente democrazia non volle ultimare quello che appariva come un simbolo dell’oppressione, e si dovette attendere il sovrano ellenistico di Siria Antioco IV Epifane (quello della rivolta dei Maccabei in Giudea), il quale, prima della
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In alto ricostruzione virtuale del tempio di Zeus Olimpio, preceduto dall’arco celebrativo. Nella pagina accanto, a sinistra le colonne superstiti del tempio, che fu inaugurato da Adriano nel 131 d.C., ma il cui piú antico progetto, voluto dai Pisistratidi, risale alla fine del VI sec. a.C. Nella pagina accanto, a destra l’arco celebrativo che precedeva l’Olympieíon.
decisioni (…) Audaci oltre le proprie forze, sfidano il pericolo oltre il pensabile e sperano sempre bene anche nelle situazioni gravi (…) Se vincono, perseguono il loro vantaggio quanto piú è possibile; se sono vinti, indietreggiano il minimo (…) Inoltre, per la loro patria sacrificano il corpo come se non appartenesse loro, ma usano la mente come della cosa piú personale per agire in favore di essa (…) Se poi non ottengono ciò che hanno progettato, pensano di essere stati privati di qualcosa di proprio, mentre ciò che conseguono in un’impresa lo considerano poco in confronto a quel che si aspettano di ottenere con le azioni future (…) Se pure falliscono in un tentativo, compensano l’insuccesso con altre speranze. Essi soli sperano e ottengono contemporaneamente quel che progettano, poiché rapidamente realizzano le loro decisioni». I Corinzi avranno sicuramente frastornato gli Spartani, loro riluttanti alleati, con questo ritratto a pennellate di fuoco dei comuni rivali; e contro di questi riusciranno alla fine a trascinarli in una guerra. Una guerra che schiacciò Atene. Era autentico, questo quadro degli Ateniesi, o fortemente deformato dal malanimo degli avversari?
La legge del piú forte C’è uno dei primi frontoni monumentali arcaici rinvenuti sull’Acropoli, che lascia davvero senza parole. Due leoni abbattono due vitelli, sovrastandoli con tutta la loro massa selvaggia, ineluttabile. Tutto qui? Tutto qui. Non sembrano parte di una piú ampia scena mitologica, né giustificati da una vicenda di caccia o da un mito eroico o cosmogonico. Quelle belve rimandano solo a se stesse. O meglio, esprimono quella «legge del piú forte» che, un secolo e mezzo piú tardi, i facondi ambasciatori ateniesi esposero con serafica tranquillità alle loro vittime designate, gli allibiti cittadini della piccola isola di Melo: deducendola, quella legge, come un implacabile sillogismo, da modelli divini ai quali essi stessi neppure piú credevano, solo per conferirle un sigillo che si approssimasse alla fatalità.
Intendiamoci: i leoni trionfanti erano un simbolo assai comune in tutto il Vicino Oriente di allora, e da laggiú probabilmente fu importato. Ma qui in Grecia, proprio qui ad Atene, madre delle belle lettere e delle belle arti, ci appare del tutto inatteso: una dissonanza che improvvisa trascolora il quadro delle nostre attese, a metà tra scolastiche e accademiche. Atene fu anche violenza. E il suo splendore fece piangere molti, nell’Ellade. All’altro capo della vicenda di questa città, scavalcando le glorie classiche ed ellenistiche in genere predilette dalle guide, troviamo l’ultimo suo grandioso monumento. Poche colonne alzate bastano a suggerire l’imponenza del tutto. Forse un millesimo dei visitatori dell’Acropoli scende a passeggiare qui nell’Atene di Adriano, imperatore filelleno iniziato ai misteri di Eleusi, che volle risarcire con splendide costruzioni la bella città decaduta della conquista subita da parte di Roma circa tre secoli prima. L’Olympieíon, il tempio dedicato a Zeus, sommo dio dell’Olimpo, ci parla di un’altra grandezza, speculare e contrapposta a quella arcaica del frontone, poiché questa volta importata da Occidente. La lontana città sul Tevere rendeva cosí omaggio, un omaggio tanto significativo quanto invadente, alla vinta, ancora celeberrima Atene. Quel padrone assoluto di un impero completò, dopo quasi sette secoli, questo tripudio di colonnati maestosi, progettato per la prima volta proprio dagli antichi tiranni ateniesi, i Pisistratidi, a manifestazione della loro potenza grandiosa e indiscussa (vedi box a p. 14). Quella stessa simboleggiata da Zeus, appunto: ma in un mondo che ormai già lentamente inclinava, pur senza saperlo, verso monoteismi altrettanto assoluti, benché posti al di là del cielo. Alle espressioni della maestà del potere, tanti altri popoli ci hanno abituati, in tutte le lande del globo. Ma tra il tempo primordiale dei leoni e quello sempre ricorrente dei tiranni si era aperto per la prima volta, ad Atene, un varco nella storia: un paio di secoli in cui gli uomini, soli, avevano provato a darsi un diverso destino.
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TUTTA LA STORIA SU UNA COLLINA L’Acropoli di Atene è un palinsesto straordinario, nel quale si possono ripercorrere tutte le vicende che piú hanno segnato la vita della grande città dell’Attica. Secoli di grandi imprese architettoniche, devastazioni, saccheggi e rinascite, ora riassunti anche da un museo che, in pochi anni, si è affermato come una realtà di valore mondiale
di Valentina Di Napoli
Un suggestivo montaggio fotografico nel quale sono associati, in una prospettiva «impossibile», i due monumenti piú celebri dell’Acropoli di Atene: il Partenone (sulla sinistra) e l’Eretteo, con la Loggia delle Cariatidi.
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ACROPOLI DI ATENE
L
a storia dell’Acropoli di Atene affonda le sue radici nella preistoria greca, quando i primi abitanti della città scelsero di installarsi su questa collina: perché le pendici, scoscese su tre lati, ne permettevano una difesa agevole; perché la sommità piana ben si adattava alle necessità di un insediamento; e perché la presenza di sorgenti d’acqua la rendeva autosufficiente, anche in caso di assedio. Allora, la piccola comunità dell’Acropoli, governata da un signore che risiedeva in un megaron, un palazzo collocato là dove poi sorse l’Eretteo, era solo una delle tante comunità stabilitesi nell’Attica; ma verso la fine dell’epoca micenea, alla fine del II millennio a.C., le varie comunità attiche furono unificate attorno a quella dell’Acropoli da un re:Teseo secondo il mito, uno degli eroi fondatori della stirpe attica. L’Acropoli fu allora dotata di mura di fortificazione, fatte di enormi blocchi irregolari e definite «ciclopiche» in età storica.
I latifondisti al potere Il megaron del signore miceneo era allo stesso tempo anche il centro religioso della comunità: qui si doveva venerare una dea femminile, preposta alla tutela della fertilità dell’uomo e della natura. Con la scomparsa dell’istituzione della monarchia ereditaria, si passò a un governo aristocratico, in cui il potere era nelle mani di un ristretto numero di proprietari terrieri. Il centro amministrativo fu trasferito alla città bassa, mentre l’asty, la città alta, fu deputata ad accogliere il culto di Atena innanzitutto, ma anche di altre divinità, divenendo cosí un polo a carattere esclusivamente religioso. Forse risale già all’VIII secolo a.C. la costruzione di un tempio di Atena sul megaron miceneo, ormai in rovina; qui si conservava la veneranda statua della dea, realizzata in legno d’olivo e, secondo la leggenda, caduta dal cielo; accanto al tempio erano alcuni segni prodigiosi della presenza divina, poi inglobati nel futuro Eretteo. Nel VI secolo a.C. si registra un’intensa attività edilizia sull’Acropoli: il vecchio tempio di Atena fu ricostruito e ampliato, e tuttavia si continuò
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Due secoli di restauri I primi lavori di età moderna sull’Acropoli risalgono al periodo del regno di Ottone I, che, nel 1834, incaricò Leo von Klenze, un esperto della corte bavarese, di stilare un programma di restauro, poi eseguito ad litteram negli anni successivi; furono demolite le aggiunte medievali e turche, restituendo al santuario gran parte dell’aspetto antico, nonostante errori tecnici imputabili alle scarse cognizioni dell’epoca. Dopo la costruzione del Museo dell’Acropoli (1865-74), la successiva fase d’intervento massiccio risale al periodo 1885-1909, quando vennero realizzati i restauri al Partenone (1898-1900) e condotti scavi su tutta l’area dell’Acropoli, diretti da Panagiotis Kavvadias. La decisione di affidare all’ingegnere Nikolaos Balanos il controllo dei lavori, significò riconoscere la tecnicità degli interventi, per i quali furono impiegati materiali all’avanguardia, importati dall’estero. Balanos fece largo uso di barre di ferro per consolidare i monumenti e spesso integrò il materiale antico in maniera arbitraria, ma il suo intervento resta a tutt’oggi un caposaldo nella storia dei restauri, sebbene già all’epoca fosse stato aspramente criticato da alcuni. Affidati a una commissione speciale del Ministero Ellenico della Cultura (ESMA), nonché a un Servizio dello stesso Ministero (YSMA), i lavori di anastilosi sono oggi una vera sfida per gli archeologi, gli architetti, gli ingegneri e i restauratori. L’ossidazione dei ferri inseriti in passato nei monumenti, le loro precarie condizioni statiche, l’inquinamento atmosferico e la gran folla di turisti che visita l’area sono i principali problemi da affrontare; l’impiego di materiali specifici (barre di titanio e malte a base di cemento bianco) ha fatto notevolmente progredire i lavori, che da interventi conservativi si sono trasformati in opere di restauro monumentale. Oltre a catalogare gli elementi architettonici e i pezzi erratici, l’équipe del Ministero svolge un progetto di controllo del comportamento sismico dell’area, in
collaborazione con l’Istituto Geodinamico dell’Osservatorio Astronomico di Atene. L’Eretteo è stato il primo monumento di cui siano stati completati i restauri (1979-1987). In età franca il tempio era stato trasformato in palazzo e, all’epoca della dominazione ottomana, ospitava l’harem del comandante della guarnigione turca; i restauri novecenteschi di Balanos ne avevano alterato considerevolmente la statica. Dopo il trasferimento delle Cariatidi nel Museo dell’Acropoli, per proteggerle dall’inquinamento atmosferico, sono state effettuate operazioni di ricostruzione che hanno coinvolto un totale di ben 720 membrature architettoniche; una replica della trabeazione del settore orientale, asportata da Elgin, è stata collocata al posto di quella originale. Dopo l’età classica, il Partenone rimase a lungo inalterato; solo Alessandro Magno, dopo la battaglia del Granico (334 a.C.), dedicò alcuni scudi sull’architrave orientale, là dove, quattro secoli piú
tardi, gli Ateniesi stessi apposero un’iscrizione a lettere di bronzo in onore di Nerone, sfruttando i fori lasciati dagli scudi (61 d.C.). Intervennero poi i cristiani, che ne fecero una chiesa, quindi i Turchi, che lo trasformarono in moschea e poi in polveriera; l’esplosione del 1687 lo danneggiò gravemente. Durante il dominio franco, i Propilei divennero la residenza del governatore locale; i restauri di Balanos (1909-1917), ne hanno peggiorato la statica, poiché l’ampio uso di barre di ferro ha causato fratture nel marmo. Oggi è già stato ricostruito e ricollocato in situ il soffitto a cassettoni di parte dell’ala sia occidentale, sia orientale, mentre in quest’ultima è stata anche restaurata la trabeazione. Infine, il tempio di Atena Nike era rimasto intatto fino al 1686, quando fu smontato dai Turchi per approntare opere difensive; nella prima metà dell’Ottocento ne fu avviata la ricostruzione. Smontato tra il 2000 e il 2002, è stato ricomposto quasi del tutto e integrato in molte parti mancanti. Il Partenone. L’aspetto attuale è frutto della ricostruzione avviata nel 447 a.C. da Pericle, nell’ambito della risistemazione dell’Acropoli, dopo le devastazioni persiane del 480 a.C. Dedicato ad Atena Parthenos (Vergine), il tempio, tutto in marmo pentelico, fu costruito sui resti di un precedente santuario dagli architetti Ictino e Callicrate, sotto la completa direzione di Fidia, che realizzò la decorazione scultorea.
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ACROPOLI DI ATENE
A
Cosa accadeva sull’Acropoli... II millennio a.C. (epoca micenea) Prima fortificazione. VIII secolo a.C. Costruzione luogo di culto dedicato ad Atena Poliade e di un altare. VI secolo a.C Ricostruzione del tempio di Atena Poliade e costruzione di un nuovo tempio per Atena Pallade. Innalzamento sulla piana dell’Acropoli di statue di korai (fanciulle) e kouroi (fanciulli) e dedica di oggetti votivi. Prima fase del tempio di Atena Nike. Costruzione di un santuario dedicato ad Artemide Brauronia, protettrice delle gravidanze e dei parti.
C | GRECIA | 20 |
490-480 a.C. Ultima fase del tempio di Atena Pallade. 480 a.C. I Persiani saccheggiano Atene e danno fuoco ai monumenti dell’Acropoli. 479 a.C. Costruzione cinta di mura dell’Acropoli. Colmata persiana: i resti degli edifici e delle opere d’arte distrutti dai Persiani vengono accuratamente seppelliti, e, a futura memoria, alcuni rocchi di colonna del pre-Partenone vengono inglobati nelle mura dell’Acropoli. 447-432 a.C. Fidia e i suoi allievi lavorano alla costruzione del Partenone e alla decorazione
dei frontoni e dei fregi. Costruzione dell’Arrephorion, Casa delle arrefore, fanciulle dedite al culto di Atena. Costruzione della Calcoteca, in cui si custodivano dediche in metallo. 437-432 a.C. Costruzione dei Propilei. Ricostruzione tempio di Atena Nike. 421-410 a.C. circa Costruzione dell’Eretteo, dedicato al mitico re di Atene Eretteo. I secolo a.C.-I secolo d.C. Costruzione del monumento ad Agrippa e del tempio di Roma e Augusto; restauro dell’Eretteo.
B Sulle due pagine ricostruzioni dell’Acropoli in varie fasi della sua frequentazione: A. la collina in epoca micenea, intorno al 1200 a.C.: sono riconoscibili il palazzo (megaron) e le mura; B. l’Acropoli intorno al 520 a.C., con i due templi di Atena: a destra, il piú antico edificio monumentale, innalzato nel 560 a.C.; a sinistra, l’archaios naos, con il tetto in marmo (520 a.C.); C. l’Acropoli in epoca classica (479-323 a.C.); D. l’Acropoli e il fianco meridionale della collina cosí come dovevano presentarsi dopo la conquista romana.
...e in Grecia VIII sec a.C. Governo aristocratico e nascita della polis. VI secolo a.C. Tirannide di Pisitrato e dei Pisistratidi. Si riorganizzano le Panatenee, feste in onore di Atena.
e inizio dell’età d’oro di Pericle. 431-404 a.C. Guerre del Peloponneso, che fanno registrare la vittoria di Sparta a Egospotami nel 405 a.C. 428 a.C. Pericle muore durante l’epidemia di peste.
500-449 a.C. Guerre persiane. 490 a.C. Vittoria dei Greci a Maratona.
1205 I Franchi conquistano Atene e molti monumenti dell’Acropoli diventano chiese.
480-479 a.C. Vittoria dei Greci a Salamina e Platea.
1456 I Turchi conquistano l’Acropoli.
460 a.C. Ad Atene si afferma Pericle, capo del partito popolare.
1687 I Veneziani di Morosini colpiscono il Partenone.
446 a.C. Pace tra Atene e Sparta
ancora a chiamarlo «tempio antico» (archaios naos); inoltre, verso la metà del secolo, fu probabilmente costruito un altro tempio, dedicato anch’esso ad Atena, e definito hekatompedos naos («tempio di cento piedi») per le sue dimensioni. Mentre l’Atena venerata nel primo aveva l’attributo di Poliade, era cioè patrona dei raccolti e della fertilità, quella venerata nell’hekatompedos naos era un’Atena Pallade, dal carattere guerriero e quindi protettrice della città. Oltre a questi due templi, sull’Acropoli di età arcaica si trovava un certo numero di oikemata, o edifici minori; la loro presenza è attestata da iscrizioni, nonché da numerosi elementi architettonici e scultorei che non possono essere pertinenti, considerate le loro dimensioni, ai due templi maggiori.
Una stagione di grande prosperità Nel periodo della tirannide di Pisistrato e dei Pisistratidi (decenni centrali del VI secolo a.C.), si registra un notevole aumento delle dediche votive sulla Rocca Sacra: chiaro riflesso della prosperità economica e artistica dell’Atene di
1833 L’Acropoli torna in possesso dei Greci.
D
quegli anni. Statue di marmo, statuette bronzee e fittili, vasi, oggetti di vario genere dedicati dai fedeli ad Atena si stipavano nei templi, ma erano anche esposti all’aperto, in piena luce: e soprattutto le korai, le statue in marmo di fanciulle, dovevano risplendere nella magica atmosfera del cielo attico. Il 490 a.C. è l’anno della vittoria di Maratona: guidati da Milziade, gli Ateniesi, da poco sotto un regime democratico, sbaragliarono i Persiani e a seguito di ciò eressero un nuovo tempio per Atena Pallade. Il basamento del tempio era già stato terminato, se ne scolpivano le
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ACROPOLI DI ATENE
colonne, quando, nell’estate del 480 a.C., inaspettatamente, i Persiani invasero Atene e misero a ferro e fuoco l’Acropoli: tutto ciò che si trovava sulla Rocca Sacra fu prima distrutto e poi bruciato. Alcune settimane piú tardi, però, i Greci vincevano nella battaglia navale di Salamina e, nel 479 a.C., sventavano definitivamente la minaccia persiana con la vittoria di Platea. Tornati in città l’anno successivo, gli Ateniesi si trovarono davanti a un cumulo di rovine; Temistocle, il vincitore di Salamina, fortificò la parte settentrionale dell’Acropoli e la città intera, facendo innalzare le mura che in seguito presero il suo nome; nel frattempo si decise di seppellire con devozione tutto ciò che i Persiani avevano distrutto, per livellare il terreno e preparare l’Acropoli alla ricostruzione: è quella che gli archeologi chiamano la «colmata persiana», prezioso punto di riferimento cronologico, singolare elemento di datazione. La vittoria contro i Persiani, ma soprattutto la
A destra una foto scattata intorno al 1864, durante gli sterri per la costruzione del primo Museo dell’Acropoli. Nell’immagine si riconoscono il Moscoforo (portatore di vitello), una testa di Atena appartenente al gruppo della Gigantomachia, il torso dell’Efebo di Crizio e un torso di Atena, offerto come ex voto. In basso particolare del Moscoforo. 570 a.C. circa. Atene, Museo dell’Acropoli.
creazione della Lega delio-attica, un’alleanza anti-persiana guidata da Atene, trasformarono la città in una potenza a livello mediterraneo. Cimone, figlio di Milziade, fece costruie le Lunghe Mura, che collegavano Atene al Pireo, fortificò il lato meridionale dell’Acropoli (le «mura cimoniane») e gettò le basi per la rinata prosperità della nuova potenza. Il trasferimento del tesoro della Lega da Delo ad Atene (454 a.C.) e la breve pace del 446 a.C. tra Atene e la sua nemica storica, Sparta, offrirono l’occasione propizia al nuovo leader delle forze democratiche, Pericle, per inaugurare un ambizioso programma edilizio sull’Acropoli, il cui artefice principale fu lo scultore e architetto Fidia. Da questa cesura fondamentale nella storia dell’Acropoli prende le mosse la nostra passeggiata sulla Rocca Sacra.
Alla scoperta della Rocca Sacra Se si esclude l’età micenea, in cui all’Acropoli si saliva anche dal lato nord-orientale, l’accesso alla Rocca Sacra è sempre avvenuto dalla parte occidentale, l’unica che offra un passaggio meno aspro e scosceso. Nel 566 a.C. la riorganizzazione delle Panatenee, la festa in cui numerosissimi fedeli ascendevano all’Acropoli per venerare Atena, fu l’occasione per creare
una rampa nell’area poi occupata dai Propilei; il suo aspetto rimase inalterato fino all’età romana, quando l’imperatore Claudio la sostituí con una scalinata monumentale (52 d.C.). Sulla sinistra di chi si dirige verso i Propilei si erge il monumento di Agrippa, una delle pochissime aggiunte post-classiche agli edifici dell’Acropoli: un basamento quadrangolare alto 9 m circa, destinato a sorreggere una quadriga bronzea. L’iscrizione sul lato occidentale, in cui il demos dedica l’opera al suo benefattore Marco Agrippa, assicura che il destinatario era proprio il genero di Augusto, il cui legame con Atene è noto; ma un esame piú attento ha provato che il basamento è di epoca anteriore e che l’iscrizione si sovrappone a un’altra, precedente, poi cancellata. L’archeologo statunitense William Bell Dinsmoor (1886-1973) ipotizzò che il basamento ospitasse in origine una quadriga bronzea dedicata da Eumene II di Pergamo (197-158 a.C.) dopo la vittoria alle Panatenee del 178 a.C.; l’opera sarebbe poi stata sostituita, alla metà del I secolo a.C., da un gruppo statuario in cui Antonio e Cleopatra erano effigiati nelle vesti di Dioniso e Iside e, infine, pochi anni dopo, dalla quadriga di Agrippa.
L’ingresso monumentale Il termine propylon, che designa un ingresso piú o meno monumentale a una città, un’agorà o un santuario, trova una delle sue espressioni piú imponenti nei Propilei dell’Acropoli, edificati in età classica sulle fondazioni in poros (pietra calcarea locale) di un precedente propylon di età arcaica. Prima dell’assalto persiano all’Acropoli, questo ingresso monumentale in poros era già stato sostituito, almeno in parte, da un’analoga struttura in marmo, ma la costruzione fu interrotta dall’arrivo degli invasori: cosí, bisogna attendere il 437 a.C., quando all’architetto
In basso il frontone occidentale del tempio di Atena Pallade noto come hekatompedos naos («tempio di 100 piedi»). 570-550 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli. Al centro, seppur frammentaria, si intuisce una leonessa, insolitamente provvista di criniera, che sbrana un vitello; sulla sinistra si riconosce invece Eracle in lotta con un Tritone, mentre a destra è raffigurata una creatura mostruosa, con tre corpi maschili, ciascuno dei quali regge un elemento: l’acqua, il fuoco e un uccello (che simboleggia l’aria).
Mnesicle fu affidata la realizzazione dei nuovi Propilei, quelli ancora oggi visibili. Se l’ingresso a un santuario deve, innanzitutto, preparare il fedele a ciò che lo attende all’interno, Mnesicle, senza dubbio, riuscí nell’impresa di trasmettere ai pellegrini che salivano all’Acropoli quel senso di monumentalità, di compiutezza architettonica e di armonia che li avrebbe accompagnati anche tra i templi della Rocca Sacra. Stando alle fonti antiche, i Propilei furono costruiti molto rapidamente, tra il 437 e il 432 a.C., e costarono una cifra astronomica: 2012 talenti.
Un’opera grandiosa, ma incompiuta Le bugne sui blocchi delle pareti dell’edificio e altri dettagli della sua edilizia provano che i Propilei non furono mai portati del tutto a termine, forse per via dell’approssimarsi della guerra con Sparta; neppure in un momento successivo si intrapresero tentativi di completarli, forse a causa dei costi elevati, forse perché le bugne, necessarie per il sollevamento dei blocchi con funi, furono a un certo punto ritenute elementi decorativi. I Propilei consistono di un corpo principale, fiancheggiato da due ali laterali. L’edificio principale, suddiviso in due parti, presenta un portico di ordine dorico sul lato rivolto verso l’esterno dell’Acropoli; il frontone non aveva decorazione scultorea. Due file di colonne ioniche, poste lungo il passaggio centrale, sostenevano una copertura a cassettoni, ognuno decorato da una stella dorata su fondo blu. La parte successiva del corpo principale, posta a un’altezza superiore e accessibile grazie ad alcuni gradini, era rivolta verso l’interno del santuario, ed era anch’essa dotata di un soffitto a cassettoni; un frontone, neppure questo decorato, si imposta su un portico di 6 colonne doriche. Le due ali laterali erano destinate a scopi
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diversi: in quella sul lato nord-occidentale, un ambiente dotato di finestre, erano esposte opere d’arte, dipinti soprattutto, cosa che le valse il nome di Pinacoteca (dal termine pinakes, «quadri, dipinti»); ma è probabile che in essa trovassero anche ristoro i pellegrini piú facoltosi, su klinai (letti da banchetto), come accadeva in numerosi santuari greci. L’ala sud-occidentale, simmetrica alla prima, aveva una pianta molto irregolare per rispettare l’adiacente recinto sacro di Atena Nike; era funzionale anch’essa, forse, ai pellegrini che si recavano all’Acropoli.
Un capolavoro di leggerezza Alla destra dei Propilei, per chi sale verso l’Acropoli, si nota il piccolo ed elegante tempio di Atena Nike: un capolavoro di leggerezza, impostato sul luogo in cui si perpetuava un culto che prendeva le mosse dall’epoca micenea. Qui sorgeva una torre delle mura «ciclopiche» preistoriche; una doppia esedra, posta nella facciata occidentale di questa torre, era il luogo sacro in cui, secondo l’ipotesi di Seraphim Charitonidis, i pellegrini potevano deporre le loro offerte ad Atena, già da allora signora dell’Acropoli. Gli studiosi, tuttavia, dibattono ancora su quale fosse la prima divinità qui venerata: se fosse Atena, in quanto dea della vittoria, o Nike, la personificazione della Vittoria, poi trasformata in paredra di Atena. Tuttavia questa divinità non concedeva la vittoria in battaglia, perlomeno inizialmente, bensí nelle gare sportive; solo dopo le guerre persiane le fu attribuito anche un ruolo politico e militare. All’epoca di Pausania (II secolo d.C.), la Nike qui venerata doveva essere nota con l’attributo di apteros («priva di ali»), secondo una tradizione per cui alla dea erano state tolte le ali, affinché la vittoria non potesse mai abbandonare la città. Al di sotto del bastione del tempio classico sono stati rinvenuti resti importanti, relativi alle fasi pre-classiche del santuario (oggi accessibili tramite una botola, su permesso speciale); è perciò certo che un primo tempio, in materiale deperibile, era presente già dall’epoca arcaica.
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L’invasione persiana provocò la distruzione del tempietto, ma non della statua di culto lignea, preventivamente messa al sicuro; tornati in città, gli Ateniesi ripristinarono la statua della dea nella sua collocazione originaria. Forse dopo la battaglia dell’Eurimedonte (468 a.C.), all’epoca di Cimone, fu costruito il primo tempio in pietra: un tempietto in calcare, rinvenuto assieme al relativo altare al di sotto del bastione del tempio classico. Negli anni della pace di Callia fu presa la decisione di risistemare tutta l’area sacra: il bastione miceneo fu allora sostituito da una torre in muratura a blocchi, mentre il tempietto in calcare fu rimpiazzato da un edificio in marmo, la cui costruzione fu affidata a Callicrate, uno dei due architetti del Partenone. Il risultato è l’edificio che ammiriamo oggi: un tempietto ionico anfiprostilo (con colonne e frontone sia sul lato anteriore, sia su quello posteriore, n.d.r.), con 4 colonne sulle due facciate; sull’architrave a tre fasce corre un fregio che raffigura un gruppo di divinità in assemblea attorno a Zeus in trono (lato est), una battaglia tra Greci e Persiani (lato sud), nonché battaglie con opliti greci (lati nord e ovest: ma queste scene sono di interpretazione controversa). Anche i frontoni erano decorati: secondo la teoria di Georgios Despinis, quello orientale con una Gigantomachia e quello occidentale con un’Amazzonomachia. Le fonti letterarie menzionano una statua di culto di legno (xoanon), che raffigurava la dea con una melagrana nella destra e un elmo nella sinistra, per alludere, dunque, sia al suo carattere bellico, sia a quello fecondatore. La parte superiore del bastione, su cui si imposta il tempio classico, fu dotata di un magnifico parapetto protettivo in marmo, sul quale furono scolpite a rilievo elegantissime e delicate figure di Nikai alate e di Atena, uno dei capolavori dell’arte classica. All’epoca di Pisistrato, il tiranno nato nel demo attico di Brauron, sull’Acropoli fu realizzato il santuario di Artemide Brauronia, patrona delle gravidanze e dei parti. Questo piccolo luogo di culto, che si trova a est dei Propilei e
Una veduta del versante occidentale dell’Acropoli, sul quale fu realizzato l’ingresso monumentale alla collina, segnato dai Propilei.
del tempio di Atena Nike, può essere considerato una «filiale» del santuario principale della dea, che aveva sede a Brauron per l’appunto; gli scavi ne hanno individuato membrature architettoniche e numerose dediche votive, ma scarsi resti monumentali, poiché l’area fu ampiamente usata, già in antico, come cava di materiale da costruzione (oggi sono visibili solo alcuni tagli nella roccia).
Abiti sontuosi per l’effigie della dea Il santuario ha la forma di un rettangolo irregolare e non era dotato di un tempio vero e proprio; un portico aperto sul lato verso l’Acropoli era destinato ad accogliere la statua di culto di Artemide, probabilmente lignea. Le donne che supplicavano la dea in cerca di aiuto ne vestivano la statua con abiti sontuosi; iscrizioni testimoniano che nel santuario, nel 346 a.C., fu eretta una seconda statua di Artemide, e Pausania aggiunge che era opera di Prassitele. Accanto a questo santuario si conservano le
fondazioni di un lungo edificio rettangolare, aderente alle mura di cinta dell’Acropoli e forse costruito verso la metà del V secolo a.C.: si tratta della cosiddetta Calcoteca, il luogo in cui, secondo le iscrizioni, venivano custodite le dediche in metallo. Un decreto del IV secolo a.C. stabilisce che tutti gli oggetti presenti nella Calcoteca dovessero essere inventariati e l’elenco iscritto su una stele di marmo, da esporre davanti all’edificio stesso; di questa interessante costruzione sopravvivono oggi solo alcuni tagli nella roccia. Si arriva cosí al Partenone: il tempio piú imponente dell’Acropoli. Era dedicato ad Atena Parthenos, la dea-vergine, Atena Pallade, la dea che proteggeva Atene in pace e in guerra; fu il primo tempio che gli Ateniesi decisero di ricostruire dopo l’invasione persiana, nell’ambito del programma pericleo di rinnovare il santuario. Prima del Partenone che oggi vediamo, doveva esservi un altro edificio, le cui fondazioni di calcare, scoperte durante i primi scavi
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ACROPOLI DI ATENE
sull’Acropoli a opera di Ludwig Ross (1855), furono poi impiegate nel Partenone classico. Esso viene convenzionalmente chiamato «prePartenone»: si tratta del tempio che, come già detto, fu costruito dopo la vittoria di Maratona e venne distrutto dai Persiani nel 480 a.C. A sua volta, esso potrebbe essere stato preceduto da un altro tempio della fine del VII o degli inizi del VI secolo, posto nello stesso punto e chiamato Urparthenon e cioè «Partenone originale», la cui esistenza è però messa in dubbio da alcuni studiosi.
I migliori ingegni del tempo Il Partenone che oggi si erge sull’Acropoli doveva essere anch’esso, come il tempio del 490 a.C., espressione della gratitudine nei confronti di Atena, che aveva aiutato i Greci in momenti cruciali della loro storia; e Pericle, deciso a costruire il piú perfetto e il piú ricco di tutti i templi, ma anche forte delle finanze ateniesi in quel felice periodo di prosperità, chiamò a collaborarvi i piú rinomati artisti e scultori del tempo, assieme a maestranze cosí
In basso, a sinistra gli originali delle Cariatidi che sostenevano la Loggia omonima, nel complesso dell’Eretteo. Atene, Museo dell’Acropoli.
varie e numerose da essere ancora ricordate, secoli dopo, da Plutarco. Fidia, scultore già noto, fu scelto per sovrintendere ai lavori; Ictino e Callicrate ne furono gli architetti: il primo è celebre per il tempio di Apollo Epicurio a Bassae, il secondo è il già citato architetto del tempio di Atena Nike. I lavori cominciarono nel 447 a.C. e furono completati appena 9 anni piú tardi; l’inaugurazione del tempio, con una processione solenne, coincise con la grande festa delle Panatenee del 438 a.C., anche se i lavori alle sculture proseguirono fino al 432 a.C. L’edificio, quasi completamente di marmo
pentelico, è circondato da una peristasi (colonnato che circonda un tempio, n.d.r.) di 8 x 18 colonne doriche, scanalate in modo da guidare lo sguardo verso l’alto. Il Partenone presenta sull’architrave un fregio a metope e triglifi che raffigura scene di lotta: tra Dèi e Giganti (lato est), tra Ateniesi e Amazzoni (lato ovest), tra Lapiti e Centauri (lato sud) e tra Greci e Troiani, con la caduta della città (lato nord); il fregio fu notevolmente danneggiato dapprima dagli zelanti scalpellini cristiani, che lasciarono però intatta la metopa occidentale del lato nord, credendo si trattasse di un’Annunciazione, quindi dall’esplosione del
L’Acropoli alla fine del II secolo d.C. 1. Rampa di accesso, parzialmente sostituita da una gradinata in età imperiale 2. Terrazza inferiore settentrionale dei Propilei, con pilastro poi consacrato ad Agrippa 3. Propilei di Mnesicle 4. Sala per banchetti dell’area nord dei Propilei, detta «pinacoteca» 5. Terrazza del santuario di Atena Nike 6. Zona attribuita al santuario di Artemide Brauronia 7. Zona consacrata al culto di Atena Igea 8. Zona della cisterna post-antica 9. Cisterna arcaica 10. Statua di Atena Promachos di Fidia; zona riservata all’esposizione delle offerte e dei testi ufficiali 11. Calcoteca 12. Rampa scavata nel banco roccioso 13. Terrazza ricostruita da Gorham P. Stevens 14. Postierla ricavata nel muro settentrionale
15. Locale di servizio attribuito alle arrefore 16. Luogo in cui era situato l’opistodomo del tempio «antico», restaurato dopo il 479 a.C. 17. S antuario di Pandroso 18. Eretteo 19. A ltare di Atena Poliade (?) 20. Temenos di Zeus Polieus 21. M onoptero di Roma e Augusto 22. S antuario di Pandione; laboratorio di Fidia (?) 23. Partenone 24. P ozzi di Clessidra 25. Peripatos: percorso circolare che permetteva di raggiungere i santuari dislocati sui fianchi della rocca 26. S antuario di Afrodite Urania 27. Santuario di Aglauro 28. S antuario di Dioniso Eleuterio 29. S antuario di Asclepio 30. Pozzi arcaici 31. Tempio di Iside 32. Zona delle fonderie 33. S antuario di Afrodite Pandemos 34. Odeon di Erode Attico
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1687. I due frontoni furono decorati per ultimi (437-432 a.C.); anche qui fu scelto un soggetto mitologico, al quale fu però conferito un piú profondo significato politico. Il frontone orientale, piú importante perché sovrastante l’ingresso principale al tempio, era ornato dalla nascita di Atena. Zeus e Atena, appena spuntata dal capo di suo padre, erano il fulcro della scena, circondati da altre divinità; il carro del Sole e quello della Luna occupavano gli angoli della composizione, a rappresentare il giorno nuovo che sorge, l’alba della potenza ateniese sotto l’egida della sua patrona. Sul frontone occidentale Posidone e Atena erano in contesa per il possesso del territorio ateniese; le divinità, al centro della scena, In basso particolare del frontone orientale del Partenone. Sulla sinistra, si conserva l’unico elemento del timpano ancora in loco, raffigurante il carro del Sole.
Qui sopra: pianta del Partenone, tempio periptero ottastilo (circondato su tutto il perimetro da una fila continua di colonne, di cui 8 in facciata) di ordine dorico: 1. pronao; 2. hekatompedon (la cella del tempio cosí chiamata perché la sua lunghezza era pari a 100 piedi attici); 3. sala delle Vergini; 4. naiskos.
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erano in vivace movimento, ciascuna intenta a offrire il proprio dono: l’olivo Atena, il mare Posidone; altri dèi, giudici e spettatori al tempo stesso, completavano la composizione. Le sculture frontonali, realizzate da Fidia, Agoracrito, Alcamene e altri, nonostante il loro cattivo stato di conservazione, sono tra le opere migliori della scultura classica, paradigma di come il marmo possa essere tramutato in viva carne, abiti fluttuanti, corpi pulsanti. Alle estremità dei frontoni, acroteri in forma di fiori d’acanto si protendevano verso il cielo, mentre quattro teste di leone, non forate come le tradizionali sime-gocciolatoi, erano poste agli angoli del tempio, aggiungendosi alla decorazione dell’edificio. In alto ricostruzione tridimensionale del Partenone in epoca classica.
Il sacrificio dei 100 buoi Per il fregio continuo che decorava la parte esterna della cella, visibile in alto, tra le colonne della peristasi, si preferí invece un tema tratto dalla vita ateniese: la processione delle Panatenee, la festività celebrata nel mese di Ecatombeone (luglio-agosto) in onore di Atena. I riti della festa comprendevano sacrifici (primo tra tutti l’ecatombe, cioè l’uccisione di 100 buoi), gare sportive e musicali; dopo 12 giorni di festeggiamenti, si celebrava la nascita della dea: allora la città tutta donava ad Atena un peplo sfarzoso, decorato con scene di battaglia tra Dèi e Giganti; il peplo, sospeso all’albero di una nave nel tratto dal Ceramico all’Areopago, veniva poi portato a mano fino all’Acropoli, dove i sacerdoti della dea si incaricavano di vestire con esso la statua. La ricca processione fu scelta come soggetto del fregio, per il quale Fidia dovette approntare i modelli, eseguiti poi da Fidia stesso e da numerosi altri scultori: si parte dall’angolo sud-ovest del Partenone, dove la composizione si biforca, procedendo in due direzioni parallele sui lati della cella, fino a ricomporsi sul lato orientale, là dove è la scena in cui il sacerdote, sotto gli occhi di un’assemblea di divinità, riceve il peplo sacro. Cavalieri, esponenti delle famiglie aristocratiche di Atene, si preparano alla processione o sono già al galoppo, preceduti da guerrieri appiedati;
Tavola ottocentesca raffigurante il probabile aspetto della statua di Atena, che, stando alle fonti, era un’opera crisoelefantina alta 12 m circa, realizzata da Fidia. Parigi, Bibliothèque des Arts Decoratifs.
giovani conducono buoi e arieti al sacrificio; musici, anziani che recano ramoscelli, portatori di anfore si dirigono verso il centro della composizione, in gruppi piú o meno densi di figure. Nonostante il soggetto sia una processione che effettivamente aveva luogo ad Atene, e sebbene molti dettagli siano fedelmente rappresentati, il fregio non può essere considerato una raffigurazione realistica delle Panatenee; l’assenza di un’ambientazione reale di paesaggio, il fatto che i vari momenti della processione appaiano raffigurati come contemporanei e la presenza degli dèi dell’Olimpo che assistono alla scena, ne fanno
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una rappresentazione ideale della processione. Altro non era dato vedere ai pellegrini dell’Acropoli: tutto il resto del Partenone, ciò che era racchiuso al suo interno, restava precluso agli occhi dei fedeli ed era accessibile solo ai sacerdoti.
La statua d’oro e d’avorio Il tempio vero e proprio è costituito da 4 parti: un pronao, cioè un portico, con 6 colonne doriche connesse da una griglia su tutta l’altezza; un opistonao, posto sul lato opposto e simile al pronao (assieme a quest’ultimo, fungeva da deposito per ex voto e dediche di valore); una cella, la parte principale del tempio; e un opistodomo (vano posteriore della cella, n.d.r.), a ovest di quest’ultima. Una sontuosa porta di legno dava accesso alla cella, sul fondo della quale era la statua di culto di Atena, un’opera crisoelefantina alta 12 m circa, capolavoro di Fidia. Di essa, portata a Costantinopoli nel V secolo, restano descrizioni antiche e probabili repliche in scala ridotta; le parti in vista del corpo (volto, collo, braccia, gambe) erano in avorio, il resto era in oro, per un peso totale di 44 talenti (1140 kg circa): si trattava del tesoro dello Stato, il cui peso, registrato su una stele bronzea posta presso la statua, poteva essere regolarmente controllato, rimuovendo le lastre d’oro dal nucleo ligneo della statua. Atena indossava il peplo dorico delle vergini, il petto era coperto dall’egida con la testa di Gorgone; recava un elmo decorato da grifoni, una sfinge, Pegaso alato; con la sinistra reggeva lo scudo ornato all’interno da una Gigantomachia, all’esterno da un’Amazzonomachia (secondo la leggenda, Fidia fu accusato di empietà per aver ritratto se
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stesso e Pericle in altrettante figure dello scudo); il serpente sacro ad Atena era acciambellato tra lo scudo e la dea, presso una lancia; nella mano destra Atena recava una figura di Nike, anch’essa d’oro e avorio; le suole dei sandali della dea erano decorate da una Centauromachia; infine, sul basamento della statua era un fregio che rappresentava la nascita di Pandora. Un bacino d’acqua, posto davanti alla statua, assicurava il giusto grado d’umidità per l’avorio; al simulacro di Atena, nel II secolo d.C., fu aggiunto quello dell’imperatore Adriano, mentre sappiamo che numerose dediche votive (soprattutto bottini di battaglie) erano deposte nella cella, perfino sospese all’architrave o alle colonne interne. All’opistodomo non si accedeva dalla cella, ma da una porta bronzea riccamente decorata, posta sul lato occidentale del tempio; qui fu deposto il tesoro dello Stato nel 433 a.C. e qui Demetrio Poliorcete, che nel 304 a.C. aveva liberato Atene, organizzò banchetti e orge.
Una struttura viva e pulsante Numerosi accorgimenti fanno del Partenone un vero e proprio unicum tra i templi greci: la particolare soluzione della contrazione angolare, che risolve il problema del rapporto tra il fregio dorico, a metope e triglifi, e il sottostante colonnato; il perfetto rapporto tra il crepidoma (basamento a gradini, avente la funzione di sopraelevare l’edificio, n.d.r.), il colonnato e l’architrave, che infonde un senso di armonia ed equilibrio; la leggera curvatura dei gradini del crepidoma, funzionale all’estetica e a sua volta bilanciata dall’inclinazione delle colonne della peristasi verso l’interno, per evitare che tutta la struttura
Il fregio continuo del Partenone, ricostruito nel Museo dell’Acropoli di Atene. La composizione rappresenta la processione delle Panatenee, la festività celebrata nel mese di Ecatombeone (luglio-agosto) in onore di Atena.
Frammenti del frontone orientale del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.
dia l’impressione di scompaginarsi; la cosiddetta entasis delle colonne, un rigonfiamento poco al di sotto della metà dell’altezza, che conferisce loro elasticità e forza al tempo stesso; la distanza sempre diversa tra le colonne (intercolumnio), che evita l’impressione di monotonia. Tutto ciò, frutto di complicati calcoli matematici, fa del Partenone una struttura viva e pulsante, un tentativo, riuscito, di trasformare in creazione estetica un edificio funzionale.
Per la gloria di Roma e Augusto Poco a est del Partenone, i resti di una struttura circolare sono stati riconosciuti fin dai primi scavi come il tempio di Roma e Augusto. Un’iscrizione monumentale sull’architrave, che si data generalmente tra il 17 e il 10 a.C., precisa che si tratta di una dedica da parte del popolo alla dea Roma e ad Augusto, molto probabilmente nella speranza di placare l’ira dell’imperatore poiché Atene si era schierata,
nella lotta tra Ottaviano e Antonio, dalla parte di quest’ultimo. I resti architettonici sopravvissuti permettono di ricostruire l’aspetto dell’edificio: un monoptero (tempio con una sola fila di colonne esterne, n.d.r.) di ordine ionico, con alzato in marmo e tetto conico. Le 9 colonne della peristasi imitano quelle dell’Eretteo, il che ha permesso di supporre che l’architetto di questo tempietto fosse lo stesso che, in quegli stessi anni, riparò l’Eretteo danneggiato da un incendio. Va menzionata la proposta dell’architetto Wolfgang Binder (1969), secondo il quale questi resti sarebbero di epoca medievale e il sito del monoptero di Roma e Augusto andrebbe invece cercato nell’area a est dell’Eretteo. Non lontano, nella zona nord-orientale dell’Acropoli, vanno collocati alcuni monumenti i cui resti sono molto esigui: tra essi, il santuario di Pandione, posto all’estremità orientale della collina, in gran parte coperto dall’edificio ottocentesco del Museo
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dell’Acropoli e costituito da un ampio spazio recintato dotato di un propylon. Qui si venerava Pandione, eroe e mitico re di Atene, in onore del quale si celebravano feste dette Pandia, che avevano luogo in primavera ed erano probabilmente a carattere politico.
Un auspicio di fertilità Il santuario di Zeus Polieus, posto a est del Partenone, doveva consistere di una corte all’incirca rettangolare; da qui si accedeva al recinto vero e proprio, che racchiudeva un tempietto in antis, dalle fondazioni in pietra e l’elevato in legno. Un pozzo scavato nella roccia, all’interno del tempietto, accoglieva le ceneri dei sacrifici. Il santuario era sede di un rituale singolare: le Diipoleia, un sacrificio risalente al mitico re Eretteo che prevedeva l’uccisione di un bue, mentre numerosi altri erano lasciati aggirarsi liberamente attorno all’altare. Il rito si celebrava nel mese di Sciroforione (fine di giugno), per propiziare la fertilità della terra; orzo misto a grano veniva In basso acquerello di James Stephanoff raffigurante una sala del British Museum: si riconoscono alcune metope del Partenone e altri marmi portati in Inghilterra da Lord Elgin, tra cui una Cariatide dell’Eretteo. 1819. Londra, British Museum.
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La contesa dei marmi La storia del ciclo scultoreo del Partenone, cominciata all’epoca d’oro di Atene, continua ben oltre il V secolo a.C., seguendo innanzitutto le vicende storiche del monumento stesso, trasformato dapprima in chiesa, poi in moschea, quindi in polveriera (e fatto saltare in aria dai cannoni del veneziano Morosini, nel 1687). All’inizio dell’Ottocento Lord Thomas Bruce Elgin, ambasciatore britannico presso la Sublime Porta, assistito dallo scultore napoletano Lusieri, rimuove dal Partenone oltre la metà delle sculture superstiti, avvalendosi di un firmano (della cui autenticità si è dubitato) del governatore ottomano ad Atene; quindi porta in patria il carico, che nel 1816 vende al British Museum. Da allora, le sculture entrano a far parte della storia di questo museo e vengono esposte allo sguardo ammirato di milioni di visitatori che accorrono da ogni parte del mondo. Nel 1835 e poi nel 1864 la Grecia chiede invano al governo britannico la restituzione delle sculture, quindi reitera la richiesta nel 1924, in occasione del centenario della morte di Lord Byron, celebre filelleno. Nel 1940-41, al fine di
indurla a schierarsi contro le forze nazi-fasciste, la Gran Bretagna fa intravedere alla Grecia la possibilità di un ritorno dei marmi; lo stesso scenario si ripete negli anni Cinquanta, se si fossero placati gli atti terroristici a Cipro, e ancora all’epoca della dittatura dei colonnelli (1967-74), in cambio di un ritorno alla democrazia. Dal 1982, quando Melina Mercouri era Ministro della Cultura, la Grecia ha intavolato con la Gran Bretagna trattative diplomatiche ancora oggi in corso, che trovano il British Museum decisamente contrario alla possibilità di una restituzione: perché i marmi Elgin fanno ormai parte della storia del museo, che li espone gratuitamente al pubblico da quasi due secoli; perché l’atto di Elgin fu legale all’epoca; perché la coesistenza, all’interno del museo, di opere d’arte provenienti da tutto il mondo permette di studiare questi capolavori in maniera completa ed esauriente; perché queste sculture «fanno parte della cultura comune di noi tutti, trascendendo qualsiasi barriera culturale» (sulla posizione ufficiale del British Museum, si veda www.britishmuseum.org, mentre su quella del Ministero Ellenico, www.culture.gr). Da non perdere è il video del regista Costa-Gavras, che racconta la storia del Partenone nel corso del tempo: www.youtube.com/watch?v=aGitmYl6U90
sparso sull’altare, quindi il bue prescelto, quello spinto a mangiare i grani sull’altare, era sacrificato dal sacerdote con un’ascia. I fedeli, che in ossequio al rito non potevano vedere il sacerdote, attribuivano all’ascia la colpa della morte del bue e, per allontanare la colpa, decretavano che l’arma fosse gettata oltre i confini dello Stato oppure lanciata in mare. L’altare di Atena Poliade doveva trovarsi a est dell’Eretteo e a nord del Partenone. Attestato nelle fonti già dall’epoca omerica, quando Eretteo e Atena vi venivano venerati assieme, l’altare fu in uso senza soluzione di continuità fino all’epoca romana, come dimostrano diversi frammenti architettonici.
Sovrano o demone? Si arriva cosí a uno dei monumenti piú eleganti dell’Acropoli, un tempio dalla forma architettonica molto complessa: l’Eretteo. Il nome evoca uno dei re mitici dell’Atene preistorica, Eretteo, appunto, ben presto identificato col demone ctonio Erittonio (di cui potrebbe anche essere la personificazione). La costruzione del singolare edificio dovette cominciare all’epoca della pace di Nicia (421-415 a.C.) e fu sospesa forse in occasione della tragica spedizione di Sicilia (413 a.C.); un’iscrizione che testimonia la ripresa dei lavori nel 409/8 a.C., sotto la supervisione di un A sinistra Hestia, Dione e Afrodite, dall’ala destra del frontone orientale del Partenone. 438-432 a.C. Londra, British Museum.
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altrimenti ignoto architetto di nome Filocle, permette di connettere questa fase alle vittorie ateniesi del 410 a.C. e al ritorno di Alcibiade sulla scena politica. Uno dei tratti piú caratteristici dell’Eretteo è l’inusuale forma architettonica, che differisce da quella degli altri templi greci; tre le cause principali di questa peculiarità: le differenze altimetriche tra le varie parti dell’edificio, che resero necessaria una struttura su piú livelli; l’esigenza di includere nel tempio diversi luoghi di culto e «segni sacri» preesistenti; e il tipo stesso di culto praticato in questo edificio, a carattere misterico e quindi connesso a una struttura meno canonica di un comune tempio. L’Eretteo era dedicato a due divinità principali, entrambe associate all’Attica: Atena e Posidone, di cui il secondo fu, a un certo punto, identificato con Eretteo. Forse proprio perché dedicato a due divinità diverse, il tempio si compone di due parti fondamentali: una piú spaziosa, quella orientale, e una, quella occidentale, meno ampia. La successiva trasformazione in chiesa ha alterato la ripartizione interna dell’Eretteo, impedendo agli studiosi di precisare numerosi dettagli della pianta, ancora oggi oscuri.
doveva essere riempita d’olio una sola volta l’anno; questa sezione del tempio era dotata di un soffitto ligneo a cassettoni e qui erano custodite notevoli spoglie e dediche, come la lancia bronzea del generale persiano Mardonio, strappatagli nella battaglia di Platea. Il settore occidentale dell’Eretteo si trova a un livello di 3 m inferiore rispetto a quello orientale; qui si veneravano Poseidone-Eretteo, il dio Efesto e l’eroe Butes, fondatore eponimo della casata aristocratica degli Eteobutadi. L’area si articola in una cella e un pronao, dotato di tre ingressi; quello settentrionale è costituito da un portico con splendide colonne ioniche, un soffitto a cassettoni dipinti e un’elaborata porta elegantemente ornata. Qui si trovava un antichissimo altare destinato a libagioni, posto là dove secondo la tradizione era collocata la tomba di Eretteo, ucciso da un fulmine scagliato da Zeus. Altri antichi segni della presenza divina erano racchiusi in questo settore dell’edificio: il «mare di Eretteo», cioè il punto da cui sgorgava acqua salata, là dove
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La corona di foglie d’olivo L’ingresso al settore orientale era assicurato da un portico esastilo di ordine ionico; qui doveva avere luogo il culto di Atena Poliade e qui si credeva fosse custodita la piú antica e sacra statua di culto della dea: forse stante, forse seduta, comunque antichissima, con una corona di foglie d’olivo sul capo, un’egida col gorgoneion sul petto, una coppa d’oro in una mano: una statua divina, che era infatti detta diipetes xoanon e cioè «statua caduta dal cielo». A essa veniva portato ogni anno il peplo tessuto dalle arrefore e a questa dea, non ad Atena Parthenos, erano dedicate le Panatenee; una volta l’anno, in occasione della festa detta Plynteria, il peplo sacro veniva lavato in mare e cosí purificato. Davanti alla statua brillava una lampada miracolosa, opera del celebre scultore Callimaco; miracolosa in quanto
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Il capolavoro di Filocle La planimetria dell’Eretteo, tempio ionico dell’architetto Filocle, costruito sull’Acropoli durante l’ultimo trentennio del V sec. a.C.: 1. pronao esastilo (con 6 colonne); 2. cella di Atena Poliade; 3. cella di Poseidone-Eretteo; 4. portico settentrionale; 5. Loggia delle Cariatidi; 6. tomba di Cecrope.
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Una veduta dell’Eretteo, che sorge nel settore settentrionale dell’Acropoli. Sul lato meridionale del tempio, spicca la Loggia delle Cariatidi, le cui statue originali, sostituite da copie, sono attualmente conservate nel Museo dell’Acropoli. Tutte meno una, rimossa nell’Ottocento da Lord Elgin e oggi collocata al British Museum di Londra.
Posidone aveva infisso il suo tridente durante la contesa con Atena; la tana del serpente sacro ad Atena; la tomba del mitico re Cecrope. L’elemento piú famoso dell’edificio è però il portico del lato meridionale, ornato dalle celebri Cariatidi: sei fanciulle su un alto podio, che reggono col capo un capitello su cui s’imposta l’architrave del portico. Le figure flettono una gamba, tratto che conferisce loro un aspetto sinuoso, sono vestite di peplo dorico e mantello e dovevano recare una coppa in una delle mani. Note semplicemente come korai, «fanciulle», queste statue furono denominate Cariatidi in epoca tardo-antica; qualunque sia l’origine, ancora dibattuta, del loro nome, queste statue dall’aspetto fiero e al tempo stesso delicato sono celebrate come una delle opere piú note dell’antichità classica, attribuite allo scultore Alcamene o, da altri, all’altrettanto celebre Callimaco. Attorno a tutto l’Eretteo, eccezion fatta per il portico delle Cariatidi, correva un fregio, non continuo, costituito da figure isolate di marmo pentelico
bianco, fissate con grappe al fondo di marmo grigio di Eleusi. Non è chiaro il soggetto raffigurato in questo fregio, sebbene se ne siano conservate molte figure; si doveva probabilmente trattare di miti relativi ai primi re di Atene: Cecrope, Eretteo e altri. L’Eretteo fu danneggiato da un violento incendio nel I secolo a.C., forse durante l’assedio di Silla ad Atene (86 a.C.); fu riparato in età augustea, probabilmente grazie all’intervento dello stesso architetto che lavorò al tempio di Roma e Augusto.
Segni divini Vanno infine menzionati alcuni santuari e monumenti situati nell’area nord-occidentale dell’Acropoli: innanzitutto il santuario di Pandroso, una delle mitiche figlie di Cecrope, posto a ovest dell’Eretteo. Bordato da un portico ionico su due lati, racchiudeva alcuni segni ritenuti divini: l’olivo sacro di Atena, spuntato per volere della dea nella contesa con Posidone, bruciato dai Persiani e
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miracolosamente rinato dopo due giorni; l’altare di Zeus Herkeios, costruito nel punto in cui un culto era attestato fin dall’età micenea; e la tomba di Cecrope, in parte custodita anche all’interno dell’Eretteo, sotto il portico delle Cariatidi. Nella stessa area, tra l’Eretteo e il Partenone, si trova anche l’archaios naos di Atena; se ne conservano solo le fondazioni, poiché fu distrutto già in antico. Si trattava di un imponente tempio di ordine ionico, periptero, anfidistilo in antis, la cui cronologia rappresenta uno dei problemi piú dibattuti dell’archeologia classica. Wilhelm Dörpfeld (1853-1940) e Theodor
VI secolo andrebbero assegnati al cosiddetto Urparthenon; infine, Ioannis Travlos (1908-1985) propose che vi fosse dapprima un antichissimo tempio dedicato ad Atena ed Eretteo, a sud dell’Eretteo, al quale poi si sarebbero aggiunti vari templi successivi. Le fonti parlano di un archaios naos, un «tempio antico» che va identificato con le fondazioni scoperte a sud dell’Eretteo; esso sorse sulle rovine dell’antico megaron del signore miceneo, mentre l’Eretteo, costruito in un’epoca posteriore a questo tempio, accolse la statua di culto lignea di Atena, prima custodita nell’archaios naos. Della fase geometrica del «tempio antico» Particolare di lastre appartenenti al fregio orientale del Partenone. Londra, British Museum. La scena si riferisce alla processione che si organizzava ad Atene in occasione delle Panatenee; in particolare, sulla destra, un’arrefora piega un peplo, aiutata da un giovane inserviente.
Wiegand (1864-1936) erano dell’avviso che il tempio avesse avuto una fase degli anni attorno al 570 a.C. (solo cella e pronao) e un’altra del periodo 529-20 a.C., quando, per volere dei Pisistratidi, fu aggiunto il peristilio.
Fasi e ipotesi A giudizio di Walter Herwig Schuchhardt (1900-1976), invece, il tempio avrebbe avuto sí due fasi costruttive, ma le stesse dimensioni fin dall’inizio. Ancora, William Bell Dinsmoor riteneva che il tempio avesse avuto una sola fase, quella degli anni 529-20 a.C., mentre gli altri elementi architettonici relativi agli inizi del
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resta molto poco, poiché l’elevato era in materiali deperibili: due basi in pietra, destinate a colonne lignee, e un magnifico acroterio in lamina di bronzo con testa di Gorgone. Il tempio del VI secolo, piú complesso, era costituito da una cella, che accoglieva la veneranda statua lignea di Atena, e da un’altra cella, formata da 3 ambienti, dedicati rispettivamente al culto di Posidone Eretteo, Efesto e Butes. All’elevato del tempio degli anni intorno al 570 a.C. e a quello del 520 a.C. circa sono variamente attribuiti dagli archeologi, a seconda delle presunte fasi cronologiche, elementi architettonici e decorativi.
L’archaios naos fu distrutto dai Persiani nel 480 a.C.: al ritorno degli Ateniesi in città, molte delle sue membrature architettoniche furono inglobate nel settore nord del muro di cinta dell’Acropoli, a guisa di monito per le generazioni future. Si pensa tuttavia che la parte occidentale del tempio sia stata riparata e abbia continuato a essere in uso come tesoro dello Stato ateniese («il tesoro di Atena»), a cui fu aggiunto anche il tesoro delle città alleate, quando, nel 454 a.C., le finanze della Lega delio-attica furono trasferite ad Atene. Con la costruzione del Partenone, il tesoro fu spostato nella cella di quest’ultimo, mentre la realizzazione dell’Eretteo soppresse del tutto il «tempio antico», di cui già alla metà del IV secolo a.C. si era persa ogni traccia.
Assistenti delle sacerdotesse A nord-est dell’Eretteo si trovano i resti di un piccolo edificio di età classica, formato da un ambiente principale e da un portico aperto verso sud: è l’Arrephorion, la «Casa delle arrefore», le fanciulle di età compresa tra i 7 e gli 11 anni, che aiutavano le sacerdotesse a tessere il peplo di Atena e partecipavano a un rituale misterico, di cui, data la sua natura, si sa poco. Nel mese di Sciroforione (giugno-luglio) le arrefore in processione, portando oggetti coperti, ignoti sia alle fanciulle stesse sia alle sacerdotesse di Atena, si recavano al santuario di Afrodite en kepois («nei giardini»), al di fuori dell’Acropoli. Qui depositavano gli oggetti in un passaggio sotterraneo e ne ricevevano a loro volta altri che portavano all’Acropoli. Esiste una testimonianza nella quale si legge che questi oggetti erano modellini di serpenti, falli, figure umane e altro, suggerendo che doveva dunque trattarsi di un rituale connesso alla fertilità. Infine, non si può non ricordare che tutta l’Acropoli, oltre agli edifici sacri piú o meno imponenti, era punteggiata di dediche votive, delle dimensioni piú svariate, spesso opera di celebri scultori. Quando Pausania, nel II secolo d.C., visitò la Rocca Sacra, le numerose korai di età arcaica erano state distrutte dai Persiani e ormai sepolte accuratamente; ma il santuario
di Atena rimaneva uno dei luoghi cruciali della religiosità greca, dove si erano accumulate, col passare del tempo, dediche di età classica, ellenistica e romana, statue di divinità, stele infisse nel suolo che rendevano pubblici i decreti dello Stato. Se si eccettua l’aggiunta progressiva delle dediche votive, l’aspetto dell’Acropoli rimase inalterato dall’età classica fino ai primi secoli della nostra era, con la sola costruzione, come abbiamo visto, del monoptero di Roma e Augusto alla fine del I secolo a.C. L’avvento della cristianità comportò la trasformazione di molti templi in chiese, mentre numerose dediche venivano distrutte, trasportate a Costantinopoli o «cristianizzate». Nel 1205, quando Michele Akominatos, l’ultimo arcivescovo di Atene, fu avvisato che i Franchi avevano già preso Atene, abbandonò in fretta e furia la sua sede nei Propilei, consegnando l’Acropoli nelle mani degli invasori. Dopo essere stata dominio dei franchi De La Roche, dei Catalani, della famiglia di mercanti fiorentini degli Acciaiuoli, l’Acropoli fu presa dai Turchi nel 1456 e trasformata in una cittadella priva di importanza, dove erano accampati gli uomini della guarnigione con le loro famiglie. L’attacco dell’ammiraglio veneziano Francesco Morosini, nel 1687, causò seri danni al Partenone, che era utilizzato come polveriera, mentre l’anno precedente il tempio di Atena Nike era stato già smontato dai Turchi stessi per costruire opere difensive. L’Acropoli rimase in mano turca fino alla guerra d’Indipendenza greca, mentre, nel frattempo, il governatore ottomano aveva concesso a Lord Elgin di asportare sculture ed elementi architettonici dai monumenti (vedi box alle pp. 32-33). Nel 1833, dopo alterne vicende, l’Acropoli tornò a essere finalmente greca, fu quindi dichiarata sito archeologico e vi cominciarono subito lavori di restauro e di scavo. La storia successiva, quella di età moderna, è stata scandita dai tentativi di restituire ai monumenti dell’Acropoli il loro aspetto originario, di età classica, in un possente e lungo sforzo, da parte dei Greci, di riappropriarsi del loro passato.
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La magnifica arroganza Il lungo percorso che ha portato all’inaugurazione, il 20 giugno 2009, del nuovo Museo dell’Acropoli inizia con il concorso nazionale del 1976, seguito dal concorso internazionale del 1991 (vinto dallo studio italiano Passarelli in collaborazione con Manfredi Nicoletti) e da quello del 2001, vinto dall’architetto svizzero Bernard Tschumi, associato allo studio greco di Michalis Fotiadis. La necessità di un nuovo museo si era rivelata impellente già da tempo, data l’inadeguatezza del piccolo edificio ottocentesco sull’Acropoli: troppo angusti gli spazi espositivi, inadatto ad accogliere le folle di turisti, insufficienti i magazzini, stracolmi di materiale. Il risultato del
nuovo museo è imponente: un poderoso edificio di cemento e vetro, una struttura ai piedi dell’Acropoli definita dallo stesso Tschumi «umile e al contempo arrogante». Come nel caso del progetto italiano, anche nell’edificio di Tschumi la galleria del Partenone è il cuore pulsante del museo: una denuncia al mondo intero, una forte rivendicazione della proprietà greca dei celebri marmi Elgin, strappati alla loro collocazione naturale. Un’istanza impellente da parte della Grecia, al punto che nel bando di concorso era esplicitamente richiesto che le dimensioni della galleria delle sculture del Partenone fossero tali da poter ospitare il fregio nella sua interezza. I simboli di una nazione D’altra parte, questo museo si propone anche come luogo-simbolo del glorioso passato ellenico: i primi musei greci, a differenza della maggior parte di quelli europei, non nascono da collezioni private poi passate allo Stato, ma affondano le loro radici nel periodo successivo alla liberazione dal dominio turco, ai primi dell’Ottocento. Fu allora che, all’indomani della recente indipendenza, il re bavarese Ottone I e i suoi consiglieri compresero quanto lo spirito della neonata e rinata nazione greca esigesse simboli sui quali proiettare la propria identità: e furono cosí prescelti l’ortodossia cristiana, l’uso della lingua greca e il richiamo alle radici classiche, tre elementi che col tempo si sono radicati profondamente nella cultura greca moderna. Appare quindi logico che il sospirato ritorno dei marmi del Partenone, oltre che porre un problema di carattere archeologico, sia stato ben presto sentito dai Greci come una questione di orgoglio nazionale. La vicenda delle trattative tra la Grecia e il British Museum è lunga (vedi box alle pp. 32-33), molti i sostenitori di entrambe le parti;
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La sala della scultura arcaica del Museo dell’Acropoli, al cui interno le opere sono immerse nella luce solare, come nell’antichità: l’ambiente, infatti, prende luce da cassettoni di vetro e, di giorno, non è illuminato artificialmente. In basso la statua nota come Cavaliere Rampin (dal nome del collezionista francese che ne acquistò la testa, oggi al Museo del Louvre). 550 a.C. Il personaggio ritratto ha il capo cinto da una corona di foglie di quercia, segno della vittoria riportata in una competizione equestre.
tra le molte voci, merita d’essere ricordata la proposta avanzata in anni recenti da Francesco Buranelli: che il British Museum conservi la proprietà dei marmi Elgin, ma che essi siano collocati nel Museo dell’Acropoli, che diventerebbe cosí il primo museo «extraterritoriale» d’Europa. Un cantiere difficile È stato un cantiere difficile da realizzare (Tschumi era ad Atene ogni due settimane, per aggiornamenti e, soprattutto, per escogitare soluzioni per i mille problemi pratici sorti durante i lavori); l’idea di impostare tutto l’edificio su 43 imponenti colonne realizzate secondo avanzati criteri antisismici, che partono dallo scavo sottostante e arrivano fino alla galleria del Partenone; un programma espositivo che diverge completamente da quello,
dell’Acropoli e si arriva, in una sorta di culmine finale, alla galleria del Partenone. Superati il controllo e la biglietteria e dopo uno sguardo allo shop – senza darsi troppa pena, ce n’è un altro, piú fornito, al secondo piano –, si viene proiettati su un pavimento di vetro inclinato, a rampa, che lascia fino a 9 m di vuoto sotto i piedi, perché il vetro preserva e al contempo rende visibile il quartiere bizantino sottostante, rinvenuto durante gli scavi per la costruzione delle fondamenta. Ai lati della rampa di vetro, i rinvenimenti dei santuari alle pendici dell’Acropoli fanno capolino dalle vetrine incassate nei muri: gli spettacolari vasi del santuario delle Ninfe, il celebre rilievo di Telemaco dall’Asklepieion, il tesoro del santuario di Afrodite Urania, le maschere e i rilievi con fanciulle danzanti dal santuario di Dioniso Eleuthereus, le Nikai-acroteri fittili di età romana.
oramai datato, del museo che lo precede; un sapiente uso della luce e dell’architettura: questo museo è tutto ciò, ma, come vedremo, anche tanto altro. Le differenze cromatiche dei pavimenti agevolano il visitatore nel percepire la transizione da un’area all’altra: è stato usato un marmo beige nelle zone espositive, un marmo scuro nelle zone di passaggio e uno speciale vetro antiscivolo in settori d’importanza strategica. Le didascalie sono poste in maniera tale da non distrarre chi li sta osservando; vanno quindi «ricercate» perché raramente sono collocate sulla parte frontale. Il percorso espositivo Illustriamo dunque, passo dopo passo, il percorso espositivo: che segue un itinerario a spirale, in cui si parte dai rinvenimenti dei santuari alle pendici
Centellinare le emozioni Ma lo sguardo già corre in avanti, verso una scalinata di vetro al termine della rampa, in cima alla quale si distingue il grosso frontone dell’hekatompedon. Bisogna non farsi prendere dalla fretta, però, e cercare di andare con ordine: cominciando dall’angolo nord-orientale della sala (a sinistra di chi sale, per intendersi), dove sono esposti un modellino dell’Acropoli in età micenea e i reperti di età geometrica – splendido il disco di lamina bronzea con testa di Gorgone, dal tempio tardo-geometrico di Atena Poliade. Si possono poi, finalmente, ammirare i resti dei frontoni dei templi di Atena di età arcaica: con leoni che divorano un toro, Tritone e un mostro a tre corpi. Troppo tardi, non si riesce a soffermarsi a lungo: ci si ritrova già nella sala della scultura arcaica, una delle folgorazioni visive del museo. L’ambiente è ampio, il soffitto altissimo, la luce penetra dalle pareti di vetro e dai cassettoni superiori, regolata da un sistema che varia durante l’arco della giornata.
Uno degli obiettivi principali dell’esposizione è «di non presentare gli oggetti come opere d’arte da ammirare in sé, bensí di inserirli nel particolare contesto storico e artistico in seno al quale essi furono creati», come recita il prospetto informativo. Ma quando ci si ritrova in questa sala non si può non sentirsi invitati a girare attorno alle sculture, a danzare con loro, a farsi inondare dalla luce che le disegna e modella, proprio come quando erano all’aria aperta, esposte sulla Rocca Sacra. Il cavaliere e le fanciulle Le tante colonne che scandiscono lo spazio, con ritmo irregolare (sono le stesse della galleria del Partenone, ma la sala è ruotata d’asse rispetto a quest’ultima), accompagnano le sculture. La luce stessa, che muta col passare delle ore, riproducendo le condizioni originarie delle sculture esposte en plein air, esorta ad avvicinarsi e a osservare il marmo, comprenderne la grana, notarne i minimi dettagli, «entrare» nell’opera, gustandone la squisita fattura. Il Cavaliere Rampin ci sorride, la kore col peplo ci attira a guardarla, il bellissimo esemplare di cane in marmo si staglia elegante e perfino la piccola kore 683, detta «dalle babbucce rosse», in questa luce sembra meno goffa. Accanto alle molte korai, dediche votive alla divinità, si erge maestoso il frontone della Gigantomachia del cosiddetto archaios naos (il «tempio antico») di Atena, col gigante Encelado in lotta contro la dea patrona di Atene; sul fondo della sala, le prime opere dello stile severo, successive cioè alla cesura dell’invasione persiana (480 a.C.), introducono all’arte dell’età classica. Prima di lasciare questa sala, non si può fare a meno di volgersi un’ultima volta all’indietro, per imprimersi negli occhi e nella mente il fulgore di questo luminoso ambiente e la selva di sculture che fluttuano liberamente nell’ampio spazio.
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ACROPOLI DI ATENE
Arrivati alla base della scala mobile che conduce al secondo piano, si possono ammirare, per la prima volta da vicino, il fregio del tempio di Atena Nike, lo splendido parapetto con le Nikai a rilievo, i cassettoni della copertura dei Propilei e i fregi dell’Eretteo; modellini in scala dei monumenti permettono anche ai non specialisti di avere un’idea di come essi apparissero. E, subito dopo, salendo di poco, un altro colpo d’occhio straordinario: il ballatoio con le Cariatidi. Le statue esposte sono solo 5, collocate nell’ordine esatto in cui erano nel portico dell’Eretteo; un pesante vuoto incombe sul punto in cui si sarebbe dovuta trovare la sesta, attualmente al British Museum: una denuncia ripetuta, o meglio annunciata, prima di arrivare alla galleria del Partenone. È il momento di salire al secondo piano, di riprendere fiato: un altro ballatoio permette di gettare un rapido sguardo, ma dall’alto stavolta, alla sala della scultura arcaica e alla rampa d’ingresso, il caffè regala un attimo di ristoro e una vista splendida sull’Acropoli, lo shop offre la possibilità di portare un ricordo di questa esperienza. La galleria del Partenone E si arriva cosí al piano superiore, all’acme del viaggio. Il pavimento di vetro di parte dell’antisala – una vertigine! – apre uno squarcio fino alla rampa del pianterreno, ma non si fa a tempo a soffermarsi che già si viene «risucchiati» dalla galleria del Partenone: la luce filtra abbagliante e le sculture chiamano a viva voce il visitatore. La forza centripeta della galleria è tale che i piú si soffermano Particolare della kore «dagli occhi a mandorla», una delle sculture piú eleganti fra quelle rinvenute sull’Acropoli. Marmo pario, 500 a.C. circa. Nella pagina accanto l’edificio del Museo dell’Acropoli, realizzato su progetto di Bernard Tschumi e inaugurato nel 2009.
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solo alla fine, uscendone, a osservare ciò che è esposto nell’antisala: due modellini dei frontoni, che ricostruiscono la probabile collocazione delle sculture nei timpani; iscrizioni che preservano descrizioni minuziose del Partenone e della statua di Atena Parthenos; e un filmato, che
racconta la storia del Partenone e delle sue sculture. La sala, come già detto, ha le stesse dimensioni della cella del Partenone. Lo scopo che si intendeva raggiungere è evidente: dare la sensazione precisa di quali volumi fossero chiamati in gioco nel tempio antico e, al contempo, rimarcare quante
lacune oggi violino l’integrità della sua decorazione. Le metope, che si librano in alto intervallate da colonne, sono in gran parte ricostruite grazie a calchi; le parti superstiti dei frontoni, nelle molte copie e nei pochi originali oggi ad Atene, sono esposte alle due estremità della galleria; e, soprattutto, il celebre fregio continuo, posto ad altezza d’occhi, finalmente riunito (seppur virtualmente) nella sua interezza, è una denuncia e una ferita aperta: calchi delle lastre espatriate e dei frammenti oggi all’estero si incastonano tra i pezzi originali, trasmettendo attraverso la differenza cromatica l’entità della lacuna. Guardare verso l’Acropoli, che si staglia dietro le pareti di vetro della sala, è inevitabile: perfino il visitatore meno accorto non può non comprendere che quei reperti erano un tempo collocati sulla sacra collina. Il Partenone sembra esigere che le sue sculture tornino alla loro originaria destinazione. Dopo questa sensazione forte, di fulgida bellezza, ma al tempo stesso di vuoto, lacuna, smarrimento, il percorso ridiscende al primo piano; qui si incontra la sezione finale dell’esposizione, in cui opere che si datano fino al V secolo d.C. restituiscono l’immagine dell’Acropoli post-classica: ritratti di sacerdoti e filosofi, rilievi onorari e votivi, copie romane di opere classiche, il bellissimo ritratto di principe barbaro dal teatro di Dioniso... Una scommessa vinta Il nuovo Museo dell’Acropoli è una delle principali novità espositive mondiali degli ultimi anni. Polemiche ne hanno accompagnato la costruzione, terminata con ritardo (si sperava di presentarlo per le Olimpiadi del 2004): i detrattori hanno obiettato che è un edificio troppo ingombrante, che è un «ecomostro», che è troppo vicino all’Acropoli, che sorge su un’area archeologica, che visto dall’esterno ha un aspetto sgradevole. Potrei
concordare, in parte, solo con quest’ultima critica: le dimensioni dell’edificio sono state in pratica imposte dal bando di concorso; in termini di ecosostenibilità, è, nei limiti concessi da una simile struttura, molto avanzato; la vicinanza all’Acropoli è un vantaggio per il percorso di visita; l’area archeologica sottostante è stata accuratamente scavata prima della costruzione. Visto da vicino, il museo è senz’altro troppo ingombrante e, soprattutto, è «soffocato» dai palazzi adiacenti: ma bisognerebbe vedere a chi vada imputato il torto, se gli espropri non sono stati completati come da progetto, e, soprattutto, se non si è osato costruire l’edificio in un’area piú aperta, piú a ovest, là dove hanno prevalso le pressioni e gli interessi economici di
uno dei piú lussuosi ristoranti di Atene. E poi, come non ammirare il risultato? 4000 reperti di fattura pregiatissima presentati con eleganza e con spirito innovativo; un’esposizione in cui architetto e archeologo hanno finalmente lavorato all’unisono, per valorizzare al meglio, grazie all’architettura, ciò che le fatiche dell’archeologia hanno riportato alla luce: un museo, insomma, degno di reggere il confronto con rivali temibilissimi, all’altezza di celebri musei esteri e ben al di sopra della media di quelli greci. Atene aspetta ancora tanti visitatori, vengano essi per la prima volta o siano «veterani», curiosi di immergersi nell’atmosfera di questa novità, ed è pronta ad accoglierli a braccia aperte. Il suo museo ha saputo dare un volto nuovo a opere antiche.
DOVE E QUANDO MUSEO DELL’ACROPOLI 15, Dionysiou Areopagitou, 11742 Atene Orario apr-ott: lu, 8,00-16,00; ma-do, 8,00-20,00 (gio, apertura fino alle 22,00); nov-mar: lu-gio, 9,00-17,00; ve, 9,00-22,00; sa-do, 9,00-20,00; chiuso 1° gennaio, domenica di Pasqua, 1° maggio, 25 e 26 dicembre Info www.theacropolismuseum.gr; e-mail: info@theacropolismuseum.gr
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TERRA D’INCONTRO Battezzata dal nome di Pelope, eroe mitico che veniva considerato il fondatore dei giochi olimpici, la regione peninsulare del Peloponneso racchiude luoghi che hanno fatto la storia della Grecia. Da oltre un secolo, gli archeologi sono impegnati nella loro riscoperta, muovendosi sulle orme del piú celebre pioniere di questa avventura: Heinrich Schliemann
di Tsao T. Cevoli e Lidia Vignola
Sulle due pagine la fortezza di Pilo (Pylos), in Messenia. Ricostruita dai Turchi sui resti di un piú antico fortilizio veneziano, domina la baia di Navarino, teatro di due importanti battaglie navali, nel 425 a.C. e nel 1827. La seconda segnò la conquista dell’indipendenza della Grecia dall’impero ottomano.
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PELOPONNESO 2
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icene «ricca d’oro», con la rocca di Agamennone scoperta da Heinrich Schliemann, Omero alla mano. Pilo, con il palazzo del vecchio Nestore; Argo, regno di Diomede; Olimpia, culla degli agoni piú celebri dell’antichità, la fiera e battagliera Sparta; Epidauro, con il teatro greco piú spettacolare del mondo. Chi ama l’archeologia non può che restare ammaliato dal Peloponneso, dai suoi tesori, ma anche dai suoi paesaggi e dalle sue bellezze naturali. Terra di incontro tra i Balcani e il mare, una penisola che la caparbietà dell’uomo ha trasformato nella piú grande isola della Grecia. Con i suoi mille paesaggi, tutti simili eppure diversi, con le sue piccole continue insenature, il Peloponneso è il luogo ideale da girare in bus, ancor meglio in auto, magari svoltando di tanto in tanto verso l’interno, per abbandonare le località piú frequentate e perdersi alla scoperta del suo volto piú recondito e vero: i monti dell’Arcadia, gli oliveti della Laconia e della Messenia, i mille paesi dell’entroterra, nei quali la vita scorre lenta, nel solco della tradizione.
A destra una ricostruzione ipotetica dell’area centrale del santuario di Zeus ad Olimpia, con l’indicazione di alcuni dei monumenti piú importanti: 1. tempio di Zeus; 2. tempio di Hera; 3. palestra; 4. Leonidaion; 5. bouleuterion; 6. terme orientali; 7. Metroon; 8. tesori. In basso cartina della Grecia con la localizzazione dei principali centri.
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Lamia
Eubea Orcomeno
Lebadeia
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Delfi
Patrasso
Atene ACAIA Zacinto
ELIDE
Zante
Pyrgos
Corinto Istmia Nemea CORINZIA
Pireo
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Mantineia Micene Midea Epidauro ARCADIA NauplionARGOLIDE Asine Megalopoli Tegea
Olimpia
Idra
Kiparissia MESSENIA
Mar Ionio
Kalamata Pylos
Mistràs
Sparta LACONIA
Mare Egeo
Monemvasià
Cerigo
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Luoghi in cui ci si può imbattere in rovine archeologiche forse meno celebri, talvolta ancora in parte celate dalla terra e dalla natura, ma forse proprio per questo ancor piú suggestive. Per chi parte dall’Italia in nave, il viaggio alla scoperta del Peloponneso non può che iniziare da Patrasso (in greco moderno Pàtras), uno dei maggiori porti greci.
Porta della Grecia La sua posizione geografica ne fa una vera e propria porta della Grecia verso l’Adriatico e la Penisola italiana, e, sin dall’antichità, Pàtrai è stata il centro piú importante dell’Acaia, prima delle sette regioni del nostro itinerario. Questa sua posizione, però, l’ha anche «condannata» a essere una città di transito, che di solito i turisti attraversano distrattamente. Eppure, fermandosi qualche ora, si scopre che Patrasso cela non poche sorprese. Secondo la leggenda, sarebbe stata
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A sinistra testa di Zeus in bronzo, dall’area dello stadio di Olimpia. VI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
fondata nell’XI secolo a.C. dagli Achei fuggiti da Sparta dopo l’arrivo dei Dori nel Peloponneso. Ma le sue origini affondano ancora piú lontano, nel III millennio a.C., come prova la recente scoperta di un insediamento occupato in età epoca proto-elladica. Durante l’epoca micenea, tra il 1580 e il 1100 a.C., sono attestati già diversi abitati e necropoli, e cominciano tracce di frequentazione sulla collina di Panachaicò, da cui lo sguardo domina tutto il golfo, e che, in età arcaica e classica, divenne l’acropoli di Patrasso, con templi dedicati ad Artemide e ad Atena, e piú tardi, nel Medioevo, fu trasformata in una fortezza vera e propria. Avendo ancora del tempo, si può visitare l’Odeion, costruito nel II secolo d.C., che Pausania definí uno dei piú belli di tutta la Grecia. Patrasso è anche una base di partenza ideale per visitare l’Elide. A 100 chilometri dalla città, lungo la costa occidentale del Peloponneso, nella valle del fiume Alfeo, troviamo Olimpia,
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uno dei siti archeologici piú importanti e piú visitati della Grecia. Nella città sorgeva il santuario di Zeus piú importante di tutta l’Ellade, e nonostante la posizione geografica piuttosto isolata, Olimpia divenne la culla dei piú famosi giochi dell’antichità, che si celebravano ogni quattro anni in onore del padre di tutti gli dèi. L’origine del culto di Zeus risale al X-IX secolo a.C., mentre i primi giochi in suo onore furono celebrati nel 776 a.C. In quell’occasione Ifito, re dell’Elide, Cleostene, re di Pisa, e Licurgo, re di Sparta, diedero vita a una tradizione sacra destinata a diventare un simbolo per tutto il mondo antico e moderno: la «tregua olimpica», da allora in poi proclamata a ogni edizione dei giochi, per consentire agli atleti di giungere sino a Olimpia a gareggiare, attraversando senza pericoli anche le città nemiche. Le ultime Olimpiadi dell’antichità si svolsero nel 393 d.C., poi furono vietate dall’imperatore bizantino Teodosio I. Nei secoli successivi il sito fu colpito da ripetute alluvioni, che lo seppellirono sotto una coltre di fango dello spessore di circa 7 m.
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La sua riscoperta si deve agli archeologi francesi, che iniziarono a portarla alla luce nel 1829. Piú tardi, nel 1875, le ricerche passarono nelle mani degli archeologi tedeschi dell’Istituto Archeologico Germanico di Atene, che ancora oggi non solo vi conduce scavi, ma anche, d’intesa con il Ministero greco della Cultura, un importante piano di restauri.
La furia della terra Passeggiando per Olimpia, è difficile immaginare il suo aspetto nell’antichità, la mole del tempio di Zeus e degli altri edifici. Tutta colpa di due terribili terremoti che, nel 522 e nel 551 d.C., provocarono il crollo di tutto ciò che aveva resistito all’abbandono e alla trasformazione in chiave cristiana di numerosi edifici. La distruttiva, impressionante veemenza del sisma, si percepisce subito, osservando i massicci rocchi delle colonne del tempio di Zeus caduti con un «effetto domino», come carte da gioco. Tra i luoghi da non perdere, ricordiamo ancora il tempio di Hera, e la bottega
Sulle due pagine particolare del frontone ovest del tempio di Zeus a Olimpia, raffigurante Apollo che assiste al combattimento dei Lapiti e dei Centauri. Inizi del V sec. a.C. Olimpia, Museo Archeologico. Secondo la tradizione mitologica, i Lapiti erano i piú antichi abitanti della Tessaglia.
di Fidia, in cui lavorò il maestro in persona, uno dei piú grandi scultori dell’antichità. Il monumento che piú attrae i visitatori è tuttavia l’antico stadio. Seppure sia ufficialmente vietato, per garantire il «decoro» del sito, è difficile resistere alla tentazione di farsi fotografare sulla linea di partenza della gara di corsa, pronti a scattare e a emulare le imprese degli atleti di quasi tremila anni fa. E poi a Olimpia non si può non rimanere estasiati dalla visita del Museo Archeologico, che vanta alcuni dei massimi capolavori della scultura antica, quali l’Hermes di Prassitele, le celebri sculture del tempio di Zeus, i raffinati bronzi geometrici e orientalizzanti e la Nike di Peonio. Capolavori sopravvissuti a saccheggi e spoliazioni nel corso della storia: soprattutto dopo la conquista romana della Grecia, quando molte opere d’arte furono portate in Italia per andare a decorare le sontuose ville dei vincitori. Infine, si possono visitare anche i due musei inaugurati in occasione delle Olimpiadi di Atene del 2004: il Museo della Storia degli Scavi e il Museo delle Antiche Olimpiadi.
Scendendo lungo la costa occidentale del Peloponneso, a 110 km circa da Olimpia, si incontra Pilo (in greco Pylos), graziosa cittadina dominata dal castello di Niokastro, dal quale si possono ammirare l’isolotto di Sphacteria (o Sphagia; in greco moderno Sfaktiria) e la baia di Navarino, famosa anche per essere stata teatro di due epocali battaglie navali. La prima si combatté nel 425 a.C., durante la guerra del Peloponneso, ed ebbe come protagonisti gli Ateniesi, che inflissero agli Spartani una sconfitta memorabile. La seconda ebbe luogo il 20 ottobre 1827, durante la guerra di Indipendenza combattuta dalla Grecia contro l’impero ottomano: la flotta turca, nella quale erano schierate anche navi egiziane, fu sbaragliata e distrutta da un’armata formata da navi britanniche, francesi e russe. A combattere per la libertà, a fianco dei rivoluzionari greci, vi erano anche giovani provenienti dall’Italia e dal resto d’Europa, mossi dall’ideale romantico della Grecia antica, dal sentimento filellenico, dall’amore per l’Ellade e per la sua civiltà millenaria. L’episodio è rimasto negli annali anche per una
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circostanza singolare: si trattò, infatti, dell’ultima battaglia navale che sia stata combattuta soltanto con navi a vela.
Un’identificazione suggestiva Non lontano dalla baia di Navarino, in località Pano Englianòs, si trova uno dei palazzi micenei tra i meglio conservati di tutta la Grecia, detto «di Nestore», dal nome del leggendario re della Messenia menzionato da Omero. A proporre l’identificazione di questo complesso architettonico con il palazzo del
giorni di vita del palazzo, i filologi sono riusciti a ricostruire non solo molti aspetti dell’economia micenea, a cogliere la capacità di quelle genti nello sfruttare il territorio attraverso una sapiente amministrazione delle attività agricole e produttive, ma anche a scoprire, forse, alcuni indizi della situazione di crisi e di minaccia militare che incombeva sul regno di Nestore e che ne avrebbe provocato la fine.
Quattro guerre per la libertà sovrano fu Carl Blegen (1887-1971), uno dei maggiori protagonisti dell’archeologia micenea. Si tratta di un complesso architettonico originariamente costituito da almeno due livelli, con oltre un centinaio di ambienti solo al pianterreno. Il palazzo era decorato da pitture murali, nelle quali gli studiosi cercano oggi elementi per ricostruire la storia e la vita quotidiana dei Micenei. Tra gli ambienti piú rilevanti vi è la cosiddetta «sala del trono», con il grande focolare circolare al centro della stanza, e un ambiente vicino, con una splendida vasca in terracotta. Il palazzo di Pilo fu distrutto alla fine del XIII secolo a.C. da un incendio devastante, che, però, determinò anche la cottura, e quindi il salvataggio, di centinaia di tavolette in Lineare B, custodite negli archivi e che altrimenti, essendo fatte di argilla cruda, si sarebbero perse per sempre. Grazie a quelle tavolette, redatte negli ultimi
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Spostandosi verso est, sulle pendici occidentali del monte Ithòmi, sorge la città di Messene. Nonostante le tracce millenarie di frequentazione umana – sin dal Neolitico –, scoperte dagli archeologi, la sua storia inizia ufficialmente in un momento ben preciso, nel 369 a.C. Prima di allora la Messenia conosceva un plurisecolare dominio da parte di Sparta. Per liberarsene, aveva combattuto ben quattro guerre. Alla fine riuscí nell’intento, grazie alla sconfitta subita dagli Spartani nella battaglia di Leuttra in Beozia nel 371 a.C. Due anni piú tardi, lo stratega tebano Epaminonda fondò la nuova città, che divenne la capitale della Messenia. Quando Pausania visitò Messene, trovò un centro ancora abbastanza vivo e animato, vi poté osservare numerosi edifici piú antichi ancora perfettamente conservati e persino l’impianto ortogonale della città, creato secoli addietro. La sua riscoperta risale alla fine del XIX secolo. Negli ultimi decenni, gli scavi sono
In alto Messene. L’Odeion. L’edificio non era utilizzato soltanto per spettacoli musicali e teatrali in occasione delle feste in onore di Asclepio (particolarmente venerato dagli abitanti della città), ma anche per lo svolgimento di assemblee e riti religiosi. A sinistra uno degli ambienti interni del Palazzo di Nestore a Pilo, vicino alla «sala del trono», nel quale si conserva una grande vasca in terracotta. Il complesso palaziale di Pilo fu distrutto alla fine del XIII sec. a.C.
stati portati avanti da Pétros Thémelis, sotto l’egida dell’antica e prestigiosa Società Archeologica di Atene (Archeologikí Etería). Oggi, all’interno dell’area delimitata dalle mura del IV secolo a.C., possiamo vedere alcuni edifici, come il tempio di Zeus e l’Acropoli. Da non mancare è il teatro, uno dei piú grandi dell’antica Grecia. Sorto intorno al III-II secolo a.C., fu piú volte rimaneggiato in età romana. Oggi appare in parte privato della sua grandiosità, perché in età bizantina, caduto oramai in disuso, fu utilizzato come cava di materiali da costruzione: e infatti, alcuni elementi architettonici che gli appartenevano sono riconoscibili nelle murature della vicina basilica bizantina.
Ai piedi del Taigeto Una settantina di chilometri a est di Messene, su un’alta pianura posta sotto lo sguardo vigile del monte Taigeto, lungo il corso del fiume Eurota, si incontra la fiera e temibile rivale di Atene: Sparta, la città greca la cui forza
Un nome che si è fatto leggenda Nel 480, Leonida guidò l’esercito alleato alle Termopili contro i Persiani. Dopo aver tenuto il passo per due giorni nonostante l’enorme inferiorità delle sue forze (4000 Greci contro 300 000 Persiani), resosi conto che i Persiani stavano per aggirarlo, congedò gli alleati e restò, coi leggendari 300 Spartani, ad affrontare il sacrificio totale. A destra busto di guerriero, tradizionalmente identificato con Leonida, dall’acropoli di Sparta. 490 a.C. circa. Sparta, Museo.
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militare era tanto grande da aver fatto dire orgogliosamente ai suoi abitanti, come ricorda lo storico Tucidide, di non aver bisogno di mura perché «Le mura di Sparta sono le braccia degli Spartani». Se a visitarla si rischia di restare delusi dal confronto con città come Atene, ricche di monumenti, è bene ricordare ciò che scriveva lo stesso Tucidide, quasi anticipando i nostri pensieri e le nostre impressioni: «Se Sparta restasse deserta e rimanessero solo i templi e le fondamenta degli edifici, le generazioni future non crederebbero che la potenza spartana fosse pari alla sua fama (...) raccogliendosi la città intorno a un unico nucleo privo di templi e costruzioni sontuose, con la sua struttura in villaggi sparsi, secondo l’antico costume greco, parrebbe una mediocre potenza» (Guerra del Peloponneso, I, 10). Semplice e scarno, dunque, era l’arredo della città, cosí come si addiceva a un popolo rude e bellicoso. Non bisogna pensare, però, che gli Spartiati mancassero di finezza e cultura: basti ricordare gli esponenti della letteratura greca che hanno avuto i natali a Sparta, come Senofonte, Terpandro – che sostituí la cetra dorica a quattro corde con quella lidia e lesbia a sette corde (eptacordo) –,Taleta – che istituí le Gimnopedie –, Alcmane e il poeta zoppo Tirteo, che, cantando, infiammava i soldati, incitandoli a morire in guerra, sacrificando la propria gioventú per la patria.
Lo stupore di Menelao Dell’antica città possiamo vedere ben poco. Niente a confronto di quanto la città deve aver conosciuto sin dall’età micenea: Omero racconta che quando Telemaco arrivò nel palazzo spartano di Menelao, rimase abbagliato dalle ricchezze e dal lusso. Il primo mitico re della regione fu Lelegas. Sua discendente fu una fanciulla di nome Sparta, che sposò Lacedemona, figlio di Giove e di Taigeti. Oggi si conservano i resti di un santuario dedicato ad Artemide Orthia, risalente agli inizi del IX secolo a.C., il tempio di Atena Chalkioikos («della casa di bronzo») sull’acropoli, un teatro della prima età imperiale
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e alcune botteghe. Rimane qualche traccia anche delle prime mura, costruite solo nei primi decenni del III secolo a.C., sotto la minaccia di Demetrio e di Pirro. Il piú celebre monumento di Sparta è la «tomba di Leonida» o Leonidaion, il cenotafio (letteralmente la «tomba vuota») del celebre comandante, che alle Termopili, nel 480 a.C., morí eroicamente insieme a tutti i suoi 300 uomini per difendere la Grecia e l’onore di Sparta, resistendo consapevolmente fino all’ultima goccia di sangue dell’ultimo uomo all’avanzata dell’enorme esercito guidato da Serse, dando cosí ai Greci il tempo di ritirarsi e di organizzare le difese. Intorno al cenotafio di Leonida vi sono i resti di alcune ville romane di età imperiale, decorate da pavimentazioni a mosaico, a provare la prosperità che Sparta visse anche nei secoli successivi. Il Museo Acheologico di Sparta, aperto nel 1874, espone una ricca collezione di mosaici, maschere teatrali, statuette di scuola arcaica, bronzi e vasi del periodo miceneo, che permettono di ripercorrere e rivivere le tappe cruciali della storia della città. A sud di Sparta sorge Amyclai, il secondo piú importante centro religioso e politico della Laconia, ove si svolgevano le famose feste spartane Hyakinthia, per simboleggiare la riconciliazione politica della dorica Sparta (Apollo) con il popolo dell’Acaia di Amyklai (Hyakinthos). Nel 1890 l’archeologo greco Chrístos Tsountas (1857-1934) portò alla luce il famoso santuario di Apollo e Hyakinthos e il trono di Apollo Amyklaios, datato al periodo arcaico e decorato con bassorilievi e composizioni plastiche.
Il fascino della città-fortezza E, non lontano da Sparta, s’incontra anche la splendida città-fortezza di Mistràs, che in epoca bizantina fu uno dei maggiori centri culturali e artistici di tutto il Peloponneso. Dichiarata nel 1989 dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità, oggi è anche monumento nazionale greco. Costruita sulle pendici del Taigeto, la città fu abbandonata dagli anni
Mistràs. Una panoramica aerea dei resti del villaggio. Si distingue, in basso, il monastero di Pantanassa, l’unico luogo oggi ancora abitato.
Cinquanta del Novecento, e oggi vi abitano solo le monache del monastero di Pantanassa (XV secolo). Sulla cima della collina domina il Kastro (il castello), il luogo piú visitato e spettacolare della città. Da Mistràs si può scegliere di proseguire verso la penisola di Mani, nella zona a sud di Areopolis, una delle tre «dita» del Peloponneso. Per chi invece voglia spostarsi piú a est, la vera scoperta è Monemvasià (nome che in greco significa «un solo ingresso», a testimoniare le difficoltà di accesso alla città), conosciuta dai Franchi come
Malvasia: una cittadina fortificata medievale che sorge su una piccola penisola lungo la costa orientale del Peloponneso. Fu fondata nel 583 da Greci che cercavano di sfuggire dall’imperversare delle invasioni barbariche. Nei secoli successivi divenne un importante centro commerciale marittimo, anche grazie alla sua fortezza, che ha resistito per quasi mille anni a ripetuti tentativi di conquista. La città rimase, infatti, nelle mani dei Bizantini fino al 1471. Da allora in poi cadde, alternativamente, nelle mani dei Veneziani e degli Ottomani. La città è nota anche per aver
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PELOPONNESO
dato i natali a Yànnis Rítsos (1909-1990), uno dei quattro piú grandi poeti greci del XX secolo.
La terra ideale dei poeti Lasciando la costa per tagliare verso l’interno, troviamo l’Arcadia, cuore montuoso del Peloponneso, la piú grande prefettura della regione, di cui rappresenta il 18% dell’intero territorio. Le sue origini sono legate al mitico Arcàs, figlio di Zeus e della Ninfa Callisto, che secondo la leggenda la dea Hera trasformò in un orso, tanto che oggi in greco moderno «orso» si dice per l’appunto arkouda.
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Sin dall’antichità è nota per la bellezza della sua natura e dei suoi paesaggi, che ispirarono persino il poeta Virgilio. Anche grazie a lui, l’Arcadia, nella conoscenza degli Occidentali, finí per perdere le sue connotazioni reali, per diventare un ambiente poetico idealizzato. Cosí la vedevano i poeti riunitisi intorno alla regina Cristina di Svezia, che nel 1690 fondarono un circolo letterario che si volle chiamare proprio Accademia dell’Arcadia e che propugnava il ritorno alla semplicità della natura, a una sentimentale vita bucolica, libera dal superfluo della civiltà.
Micene. La Porta dei Leoni, che fungeva da accesso monumentale alla città. Il nome deriva dalla decorazione soprastante l’architrave, che raffigura due leoni affrontati, ai lati di una colonna, scolpiti su una lastra triangolare.
Le due città piú importanti dell’Arcadia erano Tegea e Mantineia. La prima, abitata fin dall’età micenea, era nota in età classica per il santuario di Atena Alea, dal nome del mitico re della città, Aleo. Nel tempio, secondo la leggenda, si conservavano i resti del cinghiale calidonio, la terribile bestia uccisa da Meleagro, e una famosa statua d’oro e avorio della dea, che piú tardi Augusto portò a Roma. Distrutto da un incendio nel 395 a.C., il santuario fu ricostruito intorno al 350 a.C. in forme ancor piú magnifiche da Scopa, che lo decorò con le sue sculture.
La città cara ad Adriano La seconda, situata a 13 km da Tripoli, venne fondata nel V secolo a.C. e conserva resti dell’impressionante cinta muraria difensiva, dell’agorà, del teatro e di altri edifici pubblici. Mantineia ebbe un ruolo strategico rilevante nell’ambito del Peloponneso, e, infatti, fu teatro di due celebri battaglie: nel 418 a.C. quella tra Sparta e Atene, che si concluse con una decisiva vittoria spartana; piú tardi, nel 385 a.C., sempre la contrapposizione con Sparta per il controllo della regione provocò la distruzione della città. La popolazione fu divisa in cinque comunità territoriali autonome, ognuna delle quali aveva l’obbligo di fornire un contingente di opliti alla Lega Peloponnesiaca. In età ellenistica, nel 223 a.C., il re macedone Antigono III fece radere al suolo Mantinea, per costruire una nuova città, che chiamò presuntuosamente Antigoneia. Piú tardi l’imperatore romano Adriano le restituí l’antico nome: Mantinea gli era particolarmente cara, perché il centro della Bitinia dov’era nato Antinoo era considerato una sua colonia. L’Arcadia è una regione da girare, pianta alla mano, perdendosi nel suo affascinante paesaggio, dove non è raro imbattersi in rovine immerse in suggestivi scenari, come il teatro di Orchomenòs o quello di Megalòpolis. Ma oggi l’Arcadia non è piú il luogo isolato e fuori dal mondo: pur senza perdere il suo forte legame con la tradizione, si è aperta allo sviluppo, per esempio grazie all’autostrada
Tripolis-Atene, che ne fa uno snodo importante nella rete di comunicazioni dell’intero Peloponneso e permette di raggiungere la capitale greca in poco piú di due ore.
Micene e i suoi satelliti Una delle regioni archeologicamente piú ricche del Peloponneso è certamente l’Argolide, nel cui territorio sorse la piú grande potenza militare e commerciale di tutta la Grecia micenea, la cittadella di Micene. Situata al margine settentrionale della piana argolidea, era contornata da una serie di centri satellite di non poco rilievo, come Tirinto, Midea e Argo, ma anche altri certamente meno noti ai turisti, ma storicamente rilevanti, come Lerna, Asine e Trezene. In poche decine di chilometri sono, dunque, concentrati molti tra i piú rilevanti siti archeologici preclassici di tutta la Grecia. Su tutti primeggia Micene, la possente rocca governata dalla stirpe degli Atridi, il cui piú celebre rappresentante è Agamennone, capo di tutti i Greci nella guerra contro Troia. Ai piedi della rocca di Micene sono visibili alcune delle ricche tombe dei re e dei principi di Micene: il Circolo A, il Circolo B, la Tomba di Clitemnestra o il Tesoro di Atreo, noto anche come tomba di Agamennone. L’immagine piú celebre di Micene, ma anche quella che piú resta impressa nei ricordi di ogni visitatore, è la vista delle imponenti mura ciclopiche, erette intorno al 1300 a.C., il cui spessore varia dai 3 agli 8 m. Su di esse si staglia, nella sua maestosa semplicità, la Porta dei Leoni, sovrastata da un imponente monolite sul quale sono appunto raffigurati due leoni che si fronteggiano ai lati di una colonna, che verosimilmente reggeva una statuetta. Non sappiamo che cosa o chi vi fosse raffigurato, se una divinità, un sovrano o un animale sacro: ed è un peccato, perché la sua posizione, sulla sommità della porta d’ingresso del maggiore centro del mondo miceneo, ci indica che doveva essere senz’altro la piú importante divinità o il piú importante simbolo della civiltà micenea stessa. E proprio la porta dei Leoni, e l’impressione
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suscitata nell’archeologo tedesco Heinrich Schliemann (1822-1890), furono determinanti per la scoperta di Micene. Già dal 1840-41 l’archeologo greco Kyriakos Pittàkis (1798-1863), su incarico della Società Archeologica di Atene aveva iniziato a portare alla luce la facciata della tomba di Atreo e la porta dei Leoni. Nessuno, però, aveva immaginato quali tesori si potessero celare dietro quella porta: nessuno tranne il genio di Heinrich Schliemann, il quale memore della Micene imparare da solo il greco per poter leggere le gesta degli eroi dell’Iliade –, si mise all’opera per dimostrare di avere ragione. Per questo, ancora oggi, il merito della scoperta di Micene viene attribuito all’archeologo tedesco.
La reggia del wanax
In alto maschera funebre in oro, dalla tomba V del Circolo A di Micene. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Tradizionalmente attribuita ad Agamennone, il mitico re di Micene che guidò gli Achei contro Troia, la maschera si data al XVI sec. a.C.: è quindi di almeno tre secoli piú antica della guerra e non può essere appartenuta al leggendario sovrano. Qui sopra Micene. Resti del recinto delle sepolture reali di Micene, detto anche Circolo A. La scoperta di queste tombe si deve all’archeologo tedesco Heinrich Schliemann, che qui lavorò dal 1876, seguendo, come già aveva fatto a Troia, le «indicazioni» di Omero.
«ricca d’oro» ricordata da Omero, intuí che dietro quella porta doveva nascondersi una città non meno importante e ricca di Troia, che egli stesso stava portando alla luce sull’altra sponda dell’Egeo. Cosí, trascinato solo da quella incondizionata fede nei poemi omerici – che lo aveva portato a
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Dietro la Porta dei Leoni si aprono le abitazioni e la maestosa reggia del sovrano di Micene. Qui, guardandosi attorno, ripercorrendo le stanze, gli stretti sentieri o le scalinate che s’inerpicano appunto verso il palazzo del monarca (il wanax), è facile lasciarsi andare all’immaginazione, scorgere il fuoco che bruciava nel megaron, udire risuonare nei corridoi i passi leggeri delle sue ancelle o quello, piú pesante e cadenzato, dei suoi temibili guerrieri. Merita una visita anche il Museo Archeologico, situato proprio ai piedi della cittadella, nel quale si può ripercorrere la storia degli scavi, rievocata da una mostra fotografica, e ammirare oltre 2500 reperti, tra cui alcuni dei maggiori capolavori dell’arte micenea, che ci aiutano ancor piú a comprendere culti e vita quotidiana dei Micenei e l’alto livello di raffinatezza e ricchezza raggiunto dalla loro civiltà. Una civiltà di guerrieri, abili navigatori e
Sulle due pagine disegno ricostruttivo ipotetico della cittadella di Micene.
Palazzo Reale Sorto sulla sommità dell’acropoli, intorno al 1350-1330 a.C., l’edificio, incentrato su un vasto megaron, era organizzato su piú livelli con propilei, cortili, ambienti di servizio e residenziali distribuiti in parte su due piani, accessibili per mezzo di scale. Oltre alla pietra, i materiali architettonici usati dovevano essere lo stucco, il legno e i mattoni crudi.
Cinta Muraria Formata da grossi blocchi di pietra grezza, l’imponente fortificazione si estende per circa 900 m e raggiunge spessori compresi tra i 3 e gli 8 m. Erette alla metà del XIV sec. a.C., le mura furono ampliate verso la metà del secolo successivo.
Circolo A Porta dei Leoni Alta 3,10 m e larga 2,95, la porta, principale accesso all’acropoli, prende il nome dai due felini scolpiti sul timpano ai lati di una colonna. Si apre perpendicolarmente alle mura, al termine di un corridoio stretto tra queste e un bastione a esse parallelo. 1250 a.C. circa.
La necropoli reale, compresa entro il circuito delle mura ciclopiche nel 1250 a.C. circa, fu in uso tra il 1600 e 1500 a.C. Comprendeva 6 tombe a fossa contrassegnate da stele funerarie, al cui interno giacevano 19 defunti inumati con ricchissimi corredi, cinque delle quali scavate da Heinrich Schliemann e identificate, erroneamente, con quelle di Agamennone e dei suoi familiari.
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commercianti che riuscí persino a sottrarre ai Minoici il controllo dei traffici marittimi nel Mediterraneo, come mostrano i tanti manufatti di provenienza esotica. Dall’odierna Micene, una strada che passa dal villaggio di Monastiraki conduce verso l’area del santuario di Hera, che, nel I millennio a.C., divenne uno dei piú importanti centri religiosi del Peloponneso, tanto che persino il calendario di Argo, la città che dopo la fine della civiltà micenea prese il posto di Micene come maggiore centro della piana argolica, si basò sull’elenco e sugli anni di sacerdozio delle sacerdotesse dell’Heraion.
Un conflitto lungo e logorante Dall’Heraion, attraversando il paese di Chonikà, si arriva ad Argo, che sorge in una pianura chiusa a ovest dalla collina di Larissa e a nord dal colle del Profítis Ilías (Deiràs). Secondo la tradizione si tratta di una delle città piú antiche della Grecia. Conquistata dai Dori, sotto Fidone, nel VII secolo a.C., Argo impose il proprio dominio sulla maggior parte del Peloponneso, fino al VI secolo a.C., quando inizia una lunga contesa con Sparta. Per tutta l’età classica cercò di contrastare Sparta, alleandosi con Corinto o Atene. A fianco di quest’ultima si schierò anche durante la lunga e logorante guerra del Peloponneso, il cui esito, favorevole agli Spartani, avrebbe segnato l’inizio del declino di Argo e della stessa Atene. Nel 229 a.C. aderí alla Lega Achea e nel 146 a.C. venne accorpata alla provincia romana di Acaia. La scoperta di Argo si deve in gran parte alla Scuola Archeologica Francese, che iniziò le sue ricerche agli inizi del secolo scorso. Gli scavi oggi hanno riportato alla luce il teatro, uno dei piú grandi della Grecia, con una capienza di 20 000 spettatori, l’agorà, nella quale Pausania durante la sua Periegesi contò ben diciotto templi, i resti delle mura, dell’acropoli e di numerosi altri edifici. Tra i monumenti piú notevoli è il kriterion, costituito da una terrazza artificiale larga 21 m e lunga 35, decorata con iscrizioni e rilievi votivi
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raffiguranti divinità legate alla giustizia. Anche per la sua somiglianza con l’Areopago di Atene è stato interpretato come un tribunale: qui, secondo uno dei piú famosi miti greci, quello delle Danaidi, Danao avrebbe giudicato sua figlia Ipermestra per aver disobbedito, unica tra le sorelle, all’ordine di uccidere il marito Linceo durante la prima notte di nozze. Altri studiosi, però, preferiscono riconoscere il tribunale di Argo in un’altra zona, presso il santuario di Afrodite, teatro di un altro episodio leggendario: qui nel 494 a.C. le donne di Argo, con a capo la poetessa Telesilla, si armarono e riuscirono a respingere l’attacco dei Lacedemoni, che avevano già annientato l’esercito di Argo. Un rilievo conservato nel santuario raffigura proprio Telesilla, con i libri sparsi ai suoi piedi, mentre indossa l’elmo, accingendosi all’eroica battaglia. Il Museo di Argo vanta una notevole collezione di crateri decorati con episodi mitologici e di coppe con soggetti dionisiaci.Vi sono custodite anche alcune rarità, come una lira fatta con un carapace di tartaruga e alcuni spiedi di ferro (obeloi), che rappresentano una sorta di prima moneta usata in Grecia: i sei obeloi che un uomo poteva racchiudere in una mano formavano un «pugno», cioè una dracma. Il secondo centro miceneo piú importante dell’Argolide è Tirinto, fondata, secondo la leggenda, da Proteo, fratello di Acrisio re di Argo. Abitata già dal III millennio a.C., Tirinto raggiunse il massimo splendore in epoca micenea, tra il 1400 e il 1200 a.C. In età classica, nella prima metà del V secolo a.C., fu distrutta da Argo e quindi abbandonata. Del suo antico splendore restano oggi le mura, dello spessore di 7,5 m circa, formate da giganteschi blocchi squadrati, che pesano fino a 13 tonnellate ciascuno, e le rovine del palazzo nella parte sud dell’acropoli, scoperto anch’esso da Schliemann. Alla città sono legati numerosi miti, come quelli di Bellerofonte, di Perseo, di Preto, di Eracle, di Euristeo, di Anfitrione. Ma non solo all’epoca micenea ci riporta l’Argolide. Infatti, nell’entroterra, tra dolci colline e boschi verdeggianti, si trova una
Epidauro. Una veduta del teatro. Progettato da Policleto il Giovane (350 a.C.) e considerato uno dei piú perfetti del mondo greco, viene usato ancora oggi per rappresentazioni drammatiche e musicali.
delle meraviglie della Grecia: il teatro di Epidauro. Il paesaggio sembra essersi fermato a 2400 anni fa, all’epoca della costruzione del teatro. L’aria salubre che si respira indusse i Greci a stabilire qui un rinomatissimo luogo di cura consacrato ad Asclepio, il figlio di Apollo, capace di guarire ogni male grazie ai segreti delle erbe selvatiche.
La culla della tragedia Il teatro di Epidauro è famoso soprattutto per la sua acustica perfetta: basta sussurrare qualcosa sulla scena, da far arrivare la voce fin sulle file piú alte delle gradinate, che potevano ospitare 14 000 spettatori. Oggi, ogni estate, il teatro rivive nella sua antica funzione, grazie al Festival di Epidauro: da tutto il mondo migliaia di spettatori se ne contendono i biglietti, per assistere alle tragedie dei grandi autori greci nel massimo teatro dell’antica Ellade. Il giro dell’Argolide non può che concludersi nella piccola e suggestiva Nauplion, soprannominata dai Veneziani, che la ebbero
per diversi secoli sotto il loro dominio, la «Napoli di Romania». Pur non essendo molto grande, il suo porto è noto fin dall’antichità, ed Euripide lo cita piú volte nelle sue tragedie: «A tua madre daranno sepoltura Menelao – scrive il tragediografo – che solo ora, da quando prese Troia, è approdato a Nauplia» e nell’Elena, dove con la spada in pugno Menelao cosí invoca il dio dei mari «Posidone, signore degli oceani, e voi caste figlie di Nereo, concedeteci di raggiungere Nauplia, fateci uscire salvi me e mia moglie da questo paese». Nel XIII secolo Nauplion, che fino ad allora aveva fatto parte dell’impero bizantino, venne occupata dai crociati di Ottone de la Roche, che ne fece un proprio possedimento. Nel 1388 passò ai Veneziani, e, due secoli piú tardi, cadde sotto il dominio ottomano. Proprio qui si accese la prima scintilla della guerra per l’indipendenza della Grecia dall’impero ottomano. E, nel 1822, all’indomani della vittoria, questa cittadina fu proclamata prima capitale del neonato, libero Stato
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ellenico. Sempre qui, nel 1833, i vescovi greci annunciarono l’indipendenza della loro Chiesa dal patriarcato di Costantinopoli. Nel Museo Archeologico di Nauplion sono conservati alcuni manufatti di età micenea, classica ed ellenistica, anche se buona parte dei reperti trovati in zona sono stati trasferiti nei Musei Archeologici di Micene e di Atene. Ma Nauplion non è solo storia, è anche una romantica cittadina affacciata sul mare che ammalia i turisti con il suo scenario da cartolina. L’ora ideale per raggiungerla è la sera, quando le luci ne illuminano le mura, che si specchiano nel mare. È il momento adatto per perdersi nei ricordi e nelle reminescenze letterarie, sognando, per esempio, di veder tornare in patria, stremati da anni di lotte, i Greci condotti da Menelao.
Il leone invincibile Risalendo verso nord, si raggiunge Nemea, città legata al ricordo di Eracle. Qui, infatti, l’eroe compí la prima delle sue dodici fatiche, uccidendo il leone nemeo, una bestia ferocissima e invulnerabile che devastava la regione intorno all’omonimo santuario: Eracle lo uccise serrandolo e quindi stritolandolo nella morsa delle sue potenti braccia. Quindi cercò di scuoiarlo, ma il ferro non intaccava la pelle della fiera, e quindi per avere la pelliccia si dovette servire degli artigli della belva stessa. La pelle del leone di Nemea, la leontè, lo accompagnò poi in tutte le altre imprese. Ogni due anni, tra giugno e luglio, a Nemea si svolgevano i Giochi Nemei o Nemee, in onore di Zeus Nemeo o dell’eroe locale Ofelte Archemoros. I giochi ebbero inizio nel 573 a.C. e consistevano in gare ginniche, atletiche, equestri, musicali e poetiche. Ai vincitori veniva data in premio una corona di sedano selvatico. A fondare i giochi fu, secondo la leggenda, Adrasto di Argo, ai tempi della spedizione dei Sette a Tebe, oppure Eracle, dopo l’uccisione del leone nemeo. Le Nemee
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In alto Nemea. Una veduta della spianata dello stadio. In basso anfora attica con raffigurazione di Ercole e il leone di Nemea. Ceramica a figure nere. VI sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.
divennero festa panellenica dal 573 a.C. La località vale una visita anche per degustare il tipico vino locale, il Nemea, uno dei rossi piú prelibati e rinomati di tutta la Grecia. Da Nemea ci si può quindi dirigere in direzione di Corinto, ultima tappa di questo itinerario. La maggior parte dei turisti che attraversano l’omonimo istmo, oggi trasformato ormai in canale, probabilmente ne ignora la storia millenaria: il primo a tentare l’impresa di tagliarlo fu Nerone, intenzionato a creare un canale che permettesse di passare dal Mar Ionio al Mar Egeo e viceversa, senza dover circumnavigare il Peloponneso, risparmiando cosí piú di 400 chilometri. Dopo Nerone, che morí prima di poter completare l’opera, furono in molti a tentare di riprendere l’impresa: Erode Attico, i Bizantini, poi i Veneziani. Nessuno vi riuscí, a causa delle difficoltà di realizzazione, e il taglio dell’istmo di Corinto fu ultimato solo nel 1893. Oggi il canale, lungo 6345 m, è attraversato ogni anno da oltre 10 000 navi. Non si può lasciare Corinto senza assistere allo spettacolo del passaggio di una nave in quella stretta fessura di terra, frutto del lavoro di migliaia di uomini. Oltre al canale, vale una visita anche l’antica città di Corinto, situata ad appena 10 km di distanza in direzione sud-ovest. Fondata,
secondo la tradizione, dai Dori o da Sisifo, figlio di Eolo, nel XV secolo a.C., fu una delle città piú importanti della Grecia antica, grazie alla sua posizione strategica tra Attica e Peloponneso, tra Mar Ionio e Mar Egeo, che controllava grazie ai suoi due porti: il Lecheo sul golfo di Corinto e il Cencreo sul golfo Saronico. Tra il IX e l’VIII secolo a.C. Corinto, fondando una serie di scali commerciali e colonie, arrivò a estendere progressivamente la sua rete commerciale e a diventare uno dei principali centri di scambi commerciali dell’intero Mediterraneo. E proprio una contesa intorno alla colonia corinzia di Corcira fece scoppiare la guerra tra Atene e Sparta, anche se in realtà, al di là di questo occasionale casus belli, le ragioni del conflitto erano ben piú profonde. All’inizio Corinto, guidata da un’aristocrazia moderata, si schierò al fianco di Sparta, poi, con un rovesciamento di alleanze, si ritrovò alleata di Atene contro Sparta.
Una fine drammatica In basso Corinto. I resti del tempio di Apollo. Età arcaica, metà del VI sec. a.C.
La fine della città è drammaticamente segnata dalla guerra tra Roma e la Lega Achea. Sconfitto il nemico, i Romani, guidati dal generale Lucio Mummio, detto poi l’Acaico, si accanirono su Corinto con violenza inaudita: la
città fu rasa al suolo, tutti i beni depredati e la popolazione uccisa o ridotta in schiavitú. La città risorse nel 44 a.C., quando Giulio Cesare vi stabilí una colonia di veterani. Piú tardi divenne capitale della provincia romana di Achaia, arricchendosi di numerosi edifici pubblici, tra cui il foro, l’anfiteatro e le terme. Di grande interesse è anche il Museo Archeologico di Corinto: depredato nel 1990 dai ladri, che ferirono e immobilizzarono i custodi e riuscirono a portar via ben 270 opere d’arte antica, è rinato grazie al recupero di numerosi reperti da parte delle autorità greche. La collezione del museo comprende migliaia di reperti: mosaici, vasi micenei e corinzi, sculture, bassorilievi e manufatti in terracotta. Altro straordinario monumento da visitare nei pressi di Corinto è Acrocorinto, il piú grande e antico castello del Peloponneso, situato a sud della città nuova, che domina dai suoi 575 m di altezza. Costruito su una vetta inviolabile, che tuttavia vale la pena «scalare», il castello risale all’epoca bizantina, ma d’allora in poi ha sempre rivestito una grande importanza strategica in tutte le fasi della storia del Peloponneso, passando dalle mani dei Bizantini a quelle dei Veneziani e poi degli Ottomani. Dal castello si dipartivano le lunghe mura che scendevano fino al golfo di Corinto e una lunga via lastricata, affollata di botteghe. A Corinto si conclude dunque il nostro itinerario alla scoperta della penisola del Peloponneso. Dall’altra parte del canale si spalanca un altro mondo: l’Attica, porta dell’Egeo e della Grecia continentale. Altri paesaggi, altra concezione del mondo, altra storia.
DOVE E QUANDO Per informazioni generali sulle località descritte nell’itinerario, si può consultare il sito ufficiale dell’Ente Nazionale Ellenico per il Turismo: www.visitgreece.gr (anche in lingua inglese) Informazioni sui musei e le aree archeologiche possono invece essere reperite sul portale Odysseus, curato dal Ministero Ellenico per la Cultura: http://odysseus.culture.gr (anche in lingua inglese)
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Delfi GRECIA
Mare Egeo
Delfi Atene
Mar Ionio
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«PARLAMI, O PIZIA...»
Delfi è uno dei luoghi simbolo della Grecia antica. Qui, fin da tempi remoti, la realtà delle cose quotidiane si è mescolata con eventi e creature ritenuti soprannaturali. E nessuno, mai, osò mettere in dubbio l’attendibilità delle sentenze che il suo celeberrimo oracolo si degnava di emettere... di Fabrizio Polacco
I resti del tempio di Apollo, il luogo di culto piú importante di Delfi. L’edificio aveva origini antichissime e, secondo la tradizione, nella sua prima versione sarebbe stato fatto di fronde d’alloro della Valle di Tempe. Dopo la prima costruzione in pietra, fu piú volte distrutto e l’ultimo ripristino venne ultimato intorno al 330 a.C.
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DELFI
H
a ancora un senso per l’uomo del terzo millennio ripercorrere le inquiete giravolte che salgono all’oracolo di Delfi? Oggi che abbiamo a disposizione fior di specialisti da consultare nelle piú diverse occasioni, l’idea che per oltre mille anni gli antichi siano venuti qui a interrogare su questioni fondamentali una povera donna ignorante – la Pizia –, che li accoglieva nei penetrali del tempio seduta su un calderone di bronzo e probabilmente allucinata da sostanze naturali, ci sembra, ammettiamolo, un po’ sconcertante. E che cosí facessero proprio i Greci, poi, gli inventori della filosofia e del pensiero razionale… Eppure non solo i poeti drammatici e lirici, ma anche i filosofi, gli oratori e gli storici dell’epoca ci informano di verdetti decisivi e dall’efficacia dirompente che sarebbero stati emessi proprio
Rilievo in marmo raffigurante la contesa tra Apollo ed Eracle per il possesso del tripode. II sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico. Secondo la leggenda, il prezioso manufatto era stato miracolosamente pescato nelle acque di Mileto.
da queste parti, e che nessuno avrebbe mai osato sottovalutare. Anche Apollo del resto, succeduto nella notte dei tempi a Gaia e poi a Temi e Febe nel possesso dell’oracolo, non era un dio come gli altri. Tra tante baruffe e meschinità troppo umane che agitano la famiglia divina nell’Iliade, il dio di Delfi è il solo a uscirne sempre a testa alta, senza scadimenti di ruolo, né cadute di gusto. Non quando, tenebroso e indistinguibile come la notte, bersaglia con frecce fatali i guerrieri Achei colpevoli di aver bistrattato il suo sacerdote. Né quando decide che Achille deve farla finita di straziare il cadavere di Ettore. E men che mai quando, infastidito dall’impeto armato di Diomede nei suoi confronti, lo allontana da sé, ricordandogli che tra un uomo e un dio c’è pur sempre una bella differenza: e che lui è il dio.
Un monito per i pellegrini A renderne piú inquietante la figura c’erano poi i due motti che accoglievano i pellegrini, quando, aggirato come noi il muro poligonale di sostegno del santuario, salivano al pronao del tempio. Alcuni sapienti, in tempi antichissimi, li avevano incisi come monito per i propri simili; ma la prima impressione doveva essere che fosse stato proprio lui, il dio, a dettarli. Il primo, «nulla di troppo», era senz’altro in linea con l’Apollo dell’Iliade: sei un mortale, hai i tuoi limiti – prima di tutto la morte –, e ogni eccesso in una direzione lo pagherai con una caduta nell’altra. L’arco e la lira, avrebbe aggiunto Eraclito, funzionano entrambi secondo il principio delle tensioni contrapposte, che alla fine, inevitabilmente, si ricompongono. E il dio tendeva a piacere ora la corda dell’uno, ora quelle dell’altra. A seconda che volesse distribuire morte, oppure saggezza. La morte l’aveva data anzitutto al drago, o meglio alla dragonessa: mostro preistorico legato al primordiale culto della Terra (Gaia appunto) e che dovette precederlo in questa zona ricca di anfratti e di sorgenti d’acqua (vedi box a p. 65). Il dio l’aveva fulminata con le sue frecce e poi lasciata lí a marcire, a pyein, o meglio a putrefarsi: parola da cui forse derivano
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Quel che resta di Delfi 1. I ngresso 2. Toro di Corcira 3. Monumento votivo degli Ateniesi 4. Monumento votivo degli Spartani 5. Monumento votivo di Argo 6. Tesoro di Sicione 7. Tesoro dei Sifni 8. Tesoro di Megara 9. Tesoro di Tebe 10. T esoro dei Beoti 11. T esoro di Potidea 12. T esoro degli Ateniesi 13. T esoro dei Cnidi 14. Bouleuterion 15. Asclepieion 16. Rocce e sorgenti sacre 17. C olonna dei Nassi 18. Tesoro di Corinto 19. T esoro di Cirene 20. Prytaneion 21. T ripode dei Plateesi 22. M onumento votivo di Rodi 23. Altare di Chio 24. M onumento votivo dei Siracusani 25. T esoro di Acanto 26. Temenos di Neottolemo 27. Monumento votivo dei Tessali
Un tempio anomalo Secondo la tradizione, successivi edifici sacri si sovrapposero sul luogo dell’oracolo. Il primo era fatto con fronde d’alloro, mentre di cera e piume sarebbe stato il secondo, costruito dalle api. Il terzo, bronzeo, era attribuito al dio Efesto. Ai mitici architetti Agamede e Trofonio veniva invece assegnato il quarto (il primo ad aver lasciato tracce di sé): distrutto da un incendio nel 548, fu ricostruito sul finire del VI secolo e già presentava la struttura che vediamo ancora oggi (nella foto qui accanto, il santuario in un plastico ricostruttivo). Ma ciò è dovuto solo al fatto che l’ultima ricostruzione della seconda metà del IV secolo a.C. ne rispettò nella sostanza le proporzioni e le forme. L’àdyton, la parte piú nascosta, adibito agli oracoli, è posto in modo asimmetrico nella cella, e giace a 2 m circa sotto il livello del pavimento. Pare contenesse inoltre uno scarico per acqua sorgiva: forse quell’acqua Cassotide che si accompagnava alle emissioni di idrocarburi vaporizzati, che avrebbero provocato la trance della Pizia.
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sia il termine Pito – altro nome di Delfi –, sia quello della stessa Pizia. E da allora nessuna femmina, a parte la sacerdotessa, doveva azzardarsi a porre piede nella zona in cui venivano emessi gli oracoli: l’àdyton del tempio, il santo penetrale. La lira, d’altra parte, fu strumento di sapienza in tutta l’antichità, poiché inizialmente non v’era forma del conoscere che non fosse tramandata in versi.
Un dio bellissimo e sapiente E quando metteva mano alle sue corde, Apollo si univa al canto sovrumano delle Muse per distribuire graziosamente la conoscenza ai mortali. Non solo in astratto, non solo nell’immaginazione dei fedeli: a Pito si gareggiava davvero con la cetra e con il canto, con la recitazione e la melodia. Il teatro, scosceso e imponente, era una delle sedi degli agoni pitici, che si svolgevano ogni quattro anni, come le Olimpiadi, e quasi le uguagliavano per importanza. Tuttavia, mentre a Olimpia erano previste soltanto competizioni atletiche, qui a Pito assieme alle prodezze del corpo erano richieste anche quelle dello spirito: omaggio a un dio che, oltre a essere perfettamente bello, era anche assolutamente sapiente. Ne erano ben consci i famosi «sette sapienti» che un tempo dedicarono a Delfi un tripode di bronzo, forse non molto diverso da quello che accoglie i visitatori nelle sale dell’odierno
museo. Era stato pescato miracolosamente in mare nei pressi di Mileto, e non si sapeva proprio a chi dovesse andare. La Pizia, interrogata in proposito, dichiarò che era «di chi su tutti primeggia per sapienza». Il primo a cui venne consegnato con grandi onori fu Talete, sapiente di Mileto; il quale, tuttavia, considerandosene indegno, lo passò a quello degli altri sei che considerava piú sapiente di sé; ma anche costui lo donò a un altro ancora; e cosí via, finché ritornò inopinatamente nelle mani del suo primo possessore. Talete decise allora che si doveva in qualche modo porre fine al dilemma. E lo risolse in favore di Apollo: al quale il tripode fu appunto consacrato.
I simboli dell’orgoglio ellenico La storia del pensiero occidentale si apre quindi a Delfi, emblematicamente, con un bell’atto di modestia. E del resto l’inizio di questa nostra prodigiosa avventura del pensiero che prese le mosse proprio qui in Grecia con il nome di «ricerca della verità» (historía, philosophía), non sarebbe potuto avvenire se non in quanto preceduto dalla consapevole ammissione della nostra umana ignoranza. Eppure, la prima sensazione che si prova accedendo al recinto del santuario non è certo quella di una conclamata modestia. Ai lati della via sacra si scorgono, ancora imponenti e quasi addossate l’una all’altra, le
L’interno di una coppa a figure rosse con Zeus che interroga l’oracolo di Delfi. 440 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen.
L’etilene della Pizia Solo nel 1996 un gruppo di ricerca, organizzato dall’archeologo John R. Hale e dal geologo Jelle Z. de Boer, ha individuato due faglie che si intersecano proprio sotto il tempio di Apollo, in corrispondenza di quelle che erano state individuate come «anomalie» architettoniche dell’edificio. Tracce di colate di calcite bituminosa rinvenute negli immediati dintorni misero poi questi studiosi sulla traccia giusta: evidentemente l’attrito creatosi tra le faglie produceva un calore che causava
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la vaporizzazione e poi la fuoriuscita degli idrocarburi dal sottosuolo. L’etilene, presente tra questi idrocarburi insieme al metano, ha invero un proprio odore dolciastro. Di piú: esso provoca in chi lo aspira stati di leggera trance, o, in dosi maggiori, addirittura perdita di coscienza. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il soggetto resta cosciente e in grado di rispondere a delle domande, sia pure con sensazioni di distacco dal corpo e di euforia.
Ascesa e declino del santuario 1400 a.C. circa Prime tracce di insediamento umano, individuate nell’area in cui sorse poi il futuro santuario di Apollo. VIII-VII secolo a.C. Vengono costruiti i primi edifici sacri. Il rinvenimento di numerosi ex voto in bronzo, databili all’VIII secolo, attesta la pratica del culto tributato ad Apollo Pizio. VI-IV secolo a.C. Massima fioritura del santuario. Riorganizzazione dei Giochi Pitici. Nel santuario, le città greche dedicano sacelli votivi, i thesauroi, in cui si custodiscono ex voto in oro, argento, avorio e legno. La fama dell’oracolo varca i confini della Grecia ed egli viene consultato anche da sovrani stranieri.
III-II secolo a.C. Durante l’età delle conquiste di Alessandro e dell’espansione di Roma, il santuario di Delfi subisce il contraccolpo della perdita di potere politico delle città greche. Per il complesso religioso inizia un periodo di sopravvivenza. I secolo a.C.-III secolo d.C. Divenuta provincia dell’impero romano, la Grecia conosce un lungo periodo di pace. Il santuario di Delfi partecipa al generale declino culturale e intellettuale del Paese. L’imperatore Adriano visita due volte Delfi. Il santuario subisce la spoliazione dei suoi preziosi doni e dei monumenti. V-VI secolo d.C. Fine del culto di Apollo e trionfo del cristianesimo.
fondamenta di quelli che furono i simboli piú prestigiosi dell’orgoglio ellenico: i thesauroí delle vittorie, i monumenti e le cappelle votive che celebravano le imprese belliche delle singole città greche. Le iscrizioni antiche sono ormai quasi illeggibili, ma Plutarco, dai tempi in cui detenne il sacerdozio qui a Delfi, ce ne ha lasciato un prezioso campione nei suoi Dialoghi. Si tratta perlopiú di vittorie conseguite da una polis greca ai danni dell’altra: «Brasida (spartano, n.d.a.) e gli abitanti di Acanto, sugli Ateniesi»; «Atene, per la vittoria sui Corinzi»; «I Focesi, per la vittoria sui Tessali»; e cosí via, in un crescendo di lotte fratricide che portarono i Greci a esaurire le proprie forze nel giro di meno di un secolo.
A destra la fonte Castalia, che sgorgava dalla spaccatura situata fra le due rupi Fedriadi, che sovrastano Delfi. Qui si svolgevano i riti di purificazione prima di accedere all’antro della Pizia.
La fonte Castalia Prima di accedere al tempio di Apollo per la consultazione dell’oracolo, sia gli interroganti che la Pizia dovevano purificarsi con l’acqua della celebre fonte Castalia, in prossimità della quale passava la via che, movendo dall’Attica e dalla Beozia, saliva al santuario. La sorgente nasceva da una spaccatura che separa le due imponenti rupi Fedriadi (o «Splendenti») che sovrastano Delfi, e si riversava poi piú in basso nel fiume Pleisto. Monumentalizzata in due punti diversi, una prima volta in età arcaico-classica, una seconda durante l’occupazione romana, la Castalia era solo una delle fonti presenti a Delfi. Un’altra, la Cassotide, sgorgava poco a monte del tempio e, passando poi sotto di esso, forniva alla Pizia il suo potere profetico.
Il generale «barbaro» Le statue dei condottieri vittoriosi assieme a quelle degli eroi cittadini troneggiavano superbe su questi zoccoli di marmo: a esaltare tante singole vittorie che sfociarono però in una solenne débacle collettiva. E difatti, con una sequenzialità quasi didascalica, alla sommità della via sacra, a sinistra del tempio di Apollo, un piedistallo eretto per ospitare la statua del
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La terrazza dei marmi Qualche centinaio di metri piú a est della fonte Castalia, in una zona battezzata nel Novecento Marmarià per i numerosi blocchi di marmo che la costellavano, si trovano i resti del secondo recinto sacro di Delfi, dedicato ad Atena. Un grande altare (sul quale si sacrificava alla dea) accanto a un tempio dorico di età tardo-arcaica (VI-V secolo a.C.) – il tempio di Atena Pronaia («custode del tempio»), con ancora alcune colonne in piedi – accolgono il visitatore. Pochi passi in direzione ovest e si incontrano le fondamenta di due thesauroí, risalenti alla prima metà del V secolo a.C. Il monumento a essi contiguo è forse il piú noto di Delfi: si tratta di una tholos, un elegante tempietto dorico dalla pianta rotonda, databile alla prima metà del IV secolo a.C. Delle originarie venti colonne che si elevavano su un basamento composto da tre scalini ne sono state rialzate solo tre, delle altre restano i frammenti in situ. All’interno, la cella era decorata con semicolonne corinzie e pavimentata con lastre di marmo nero. L’esterno della cella era ornato da un fregio con triglifi e metope (ora nel Museo di Delfi). I resti, in pietra calcarea, di un secondo edificio templare piú recente (IV secolo a.C.), il cosiddetto «nuovo» tempio di Atena Pronaia, concludono l’itinerario di visita al recinto sacro dedicato alla dea.
re macedone Perseo fu invece occupata da quella del generale «barbaro» che sottomise la Grecia: il console romano Lucio Emilio Paolo. Ma non mancavano neanche i donarii di collettività beneficiate inaspettatamente dalla scoperta di miniere d’oro, come gli abitanti dell’isola di Sifno. Il fregio del thesauròs da essi eretto nel VI secolo a.C. occupa con le sue figure in rilievo una delle sale piú appassionanti del Museo Archeologico di Delfi. Vi sono rappresentati dèi e giganti, Troiani e Achei, che si affrontano come tanti opliti delle pòleis dell’epoca: plastica auto-rappresentazione di un popolo che non si stancò mai di combattere e di celebrare la vittoria sopra ogni altra cosa. E forse proprio la consapevolezza di questa insaziabile ricerca del primato, destinata spesso a sfociare nella dismisura, indusse le
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pòleis a dedicare al geloso «dio del limite» (sempre Apollo, ovviamente) una decima parte dei propri bottini: quasi a scongiurare in anticipo ben maggiori sottrazioni, dovute però questa volta all’alternanza delle sorti.
«L’ombelico» della Terra «Nulla di troppo», ammoniva quindi l’aureo precetto morale della «misura»: che qui a Delfi pareva confermato non solo da un’astratta sanzione religiosa, ma anche da una sua tangibile collocazione geografica. Il «centro del mondo» si trovava infatti esattamente nel tempio di Apollo, nel famoso àdyton, a un passo dal luogo in cui la Pizia vaticinava. Lí si poteva ammirare una grossa pietra rilevata e dalla punta tondeggiante, detta «l’ombelico» della Terra, l’omphalòs.
L’area del santuario di Atena Pronaia, sulla terrazza di Marmarià. Si riconoscono la tholos, i resti del tempio di Atena Pronaia e quelli di un edificio forse destinato ad abitazione dei sacerdoti.
In basso un particolare del rilievo che ornava il Tesoro dei Nassi e che raffigura la battaglia fra dèi e giganti. VI sec. a.C.
A quel tempo, si sa, il mondo aveva ancora confini chiari, limiti ben individuabili, e perciò non fu difficile a Zeus stabilirne il centro: gli fu sufficiente far volare dai suoi punti estremi due aquile, lanciandole l’una verso l’altra. I regali uccelli s’incrociarono proprio qui, sopra questa valle scoscesa tra i monti e che s’allunga fino al mare, scintillante come una gemma lontana. Eschilo definisce l’oracolo il mègas stòmion, la «grande bocca»: da qui parlava il dio, e, prima di lui, la Terra stessa. C’era stata davvero una fenditura, nell’àdyton, da cui esalavano quegli effluvi dall’effetto inebriante che la profetessa assorbiva, e di cui ci parlano le fonti antiche?
Per quasi un secolo la si è considerata solo una leggenda e gli archeologi francesi che a cavallo tra Otto e Novecento scavarono il sito non videro in effetti che una roccia compatta sotto il tempio. E invece, piú di recente, la rivelazione: due faglie terrestri si intersecano ancora, benché richiuse, proprio al di sotto dell’àdyton; sfregandosi a vicenda avrebbero prodotto la risalita dal sottosuolo di esalazioni di idrocarburi, dal sentore dolciastro e dall’azione stordente (vedi box a p. 64). Quelle della Pizia erano quindi parole in libertà? Sicuramente no. Come si spiegherebbe altrimenti la fama di autorevolezza dell’oracolo,
1. I ngresso 2. Toro di Corcira 3. Monumento votivo degli Ateniesi 4. Monumento votivo degli Spartani 5. Monumento votivo di Argo 6. T esoro di Sicione 7. Tesoro dei Sifni 8. T esoro di Megara
mantenuta per oltre un millennio ed estesa anche a molti popoli non greci? Perfino città lontane come Agilla (Cerveteri), e perfino Livia, la potente moglie di Augusto, mandarono ricchi doni – con relative richieste – a Delfi.
Verdetti ambigui e sfuggenti Ma le domande poste dai consultanti non riguardavano in genere impossibili previsioni sul futuro: erano piuttosto richieste di consigli, indicazioni sulle migliori scelte da compiere, individuali o collettive; spesso formulate come alternative secche, alle quali rispondere con un sí o con un no, al fine di ridurre i margini di ambiguità del verdetto. È probabile, infatti, che l’oracolo si rifugiasse in una ambigua oscurità, se messo di fronte a domande piú adatte a degli indovini.
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Del resto anche Eraclito di Efeso affermava: «Il Signore cui appartiene l’oracolo di Delfi non dice né nasconde, ma accenna». Chi si aspettasse dal dio Apollo una rivelazione definitiva, univoca e universalmente valida – come quella propria delle religioni monoteistiche e rivelate – dimostrerebbe di aver compreso ben poco dei Greci e della loro spiritualità. Soltanto verità parziali, temporanee, espresse oralmente uscivano di volta in volta dai penetrali del tempio, in una sorta di «rivelazione continua» e perennemente incompiuta: come appunto ha da essere ogni autentica ricerca della verità.
Paese degli Iperborei. E lasciava cosí il santuario in mano a Dioniso, dio a lui opposto ma complementare: dio della dismisura e dell’istintualità, simbolo della morte e della periodica rinascita d’ogni cosa. Perché la saggezza di Apollo era tale da comprendere perfino il proprio contrario: l’ebbrezza e l’accecamento tumultuoso del baccanale, il corteo dionisiaco che procedeva sbandando tra gli stordimenti del vino. E al solstizio d’inverno, nel pieno dell’oscurità, sulle balze del monte Parnaso le baccanti dette Tiadi, «le furenti», celebravano con torce di pino la rinascita di un
Nella pagina accanto, in alto la Sfinge che sormontava la colonna votiva dei Nassi, consacrata nel 550 a.C. Delfi, Museo Archeologico.
nuovo piccolo Dioniso, già dilaniato dai Titani. L’equilibrio tra gli opposti non era a Delfi solo una dichiarazione di principio: essa sarebbe risultata incompleta, se non avesse compreso in sé anche la propria negazione. E perfino Apollo sapeva bene quando era giunto il momento di allontanarsi.
In alto la pietra nota come omphalòs (l’«ombelico»), che fu posta sul presunto centro del mondo, nell’àdyton del tempio di Apollo. Delfi, Museo Archeologico. Nella pagina accanto, in basso la statua bronzea dell’Auriga, uno dei simboli di Delfi. La dedica ha permesso di datare l’opera al 475 a.C. Delfi, Museo Archeologico.
Un interrogativo radicale Ogni consultante doveva avere ben presente tale limitazione, e lo stesso oracolo si premurava di metterlo in allerta fin dal principio. Finora infatti si è menzionato solo il primo dei due motti iscritti nel pronao del tempio, quello relativo al mantenimento della misura. Ma il secondo, ben piú inquietante, aveva piuttosto l’aspetto di una domanda, di un interrogativo radicale, che non di un precetto etico da seguire. «Conosci te stesso», intimava il dio al pellegrino che si avvicinava alla sua soglia. Il che forse non era proprio un rimandarlo indietro, ma quasi. «Sappi che il mio responso – intendeva dire –, qualunque esso sia, non ha significato se non rapportato a te. Sta a te, in ultima analisi, decifrarlo. A te rispettarlo, rifiutarlo, oppure trovare il modo di farlo tuo». L’omphalòs, che accoglieva il visitatore dentro l’àdyton, era un ombelico dalla forma particolare, non infossato, come quello degli uomini, ma rilevato e sporgente, come quello dei neonati, come la parte di cordone ombelicale reciso che lega alla madre, alla Terra: in sostanza, al mistero della nostra nascita. È dunque un «centro» inteso piuttosto come origine, come passaggio tra la vita e la morte, e viceversa. E difatti, a due passi dall’omphalòs, c’era anche la tomba di un dio, Dioniso. Nei tre mesi invernali, si diceva, Apollo si allontanava da Delfi assieme al Sole in declino: andava a svernare presso il mitico e delizioso
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Il mistero della nostra origine L’idea dell’ombelico inteso anche come sorgente di vita non è del tutto infondata: nel nome stesso di Delfi, gli antichi vedevano un riferimento alla delfys, cioè alla matrice femminile, all’utero. «Conoscere se stessi» era dunque anche un rimandare al mistero della propria origine, a ciò che determina la nostra identità di uomini. È l’interrogativo supremo
DOVE E QUANDO MUSEO E AREA ARCHEOLOGICA DI DELFI Orario tutti i giorni, 8,00-20,00; chiusure o riduzioni di orario in occasione delle principali festività civili e religiose (vedi info) Info http://odysseus.culture.gr
introducevano le domande, proprio come un nostro «se»: essi chiedevano «se» questo o «se» invece quello, «se» dovessero fare questo «oppure» quest’altro, «se» ciò fosse preferibile o invece non lo fosse.
La smentita di Socrate che, una volta tanto, non l’uomo rivolgeva al dio, ma il dio all’uomo: in un’inversione dei ruoli sorprendente per chiunque giungesse all’oracolo con qualche illusione di troppo. «Apollo, il nostro dio, sa medicare e risolvere, a quanto pare, i dubbi della vita, dando responsi a chi lo interroga; ma i dubbi dell’intelletto è lui stesso a suscitarli e a proporli agli uomini che possiedono un’indole di amanti della sapienza, risvegliando nelle loro anime la passione per la verità» (Plutarco, Dialoghi delfici). Plutarco, sacerdote e insieme filosofo, mostra di aver ben compreso il senso ultimo di una salita qui a Delfi. Piú oltre definirà Apollo, senza mezzi termini, «il dio filosofo». Ad accrescere l’inquietudine degli interroganti, un simbolo misterioso era posto all’ingresso del tempio: una lettera «E», originariamente di legno, ma poi anche di bronzo e d’oro, ai cui numerosi tentativi d’interpretazione lo stesso Plutarco dedica un intero suo dialogo filosofico. Giunto anch’io finalmente alle poche colonne oggi rialzate del tempio di Apollo, sento però di dovermi discostare dall’interpretazione prescelta da Plutarco, e di preferirne una che egli scarta, ma che ritengo piú affascinante. Quella lettera antica ricordava ai Greci una loro particella interrogativa («ei»), la formula con cui
Sulla facciata del tempio troneggiava cosí dinanzi ai devoti un ambiguo quanto sorprendente «punto interrogativo». Unico fra tutti gli dèi, Apollo non elargiva dogmi o verità indiscusse. Piuttosto era lui che interrogava, suscitando indagini e ricerche. Come quella che fece Socrate ad Atene quando venne a sapere che il dio di Delfi l’aveva indicato – sí lui, proprio lui – come il piú sapiente tra gli uomini. Ostentando una modestia che forse non aveva, Socrate si affannò a smentire il responso andando a consultare tutti gli specialisti della sua epoca, che in quella città all’apice dello splendore certo non mancavano: medici, sofisti, artigiani, poeti, avvocati. Per scoprire infine, con una punta di compiacimento, che il suo «sapere di non sapere», quello di Socrate, valeva almeno qualcosa in piú a confronto della pretesa e tanto decantata altrui sapienza. E che il dio aveva, ancora una volta, ironicamente ragione. E quanto al cosiddetto «centro» del mondo, poi: Epimenide di Creta, nel VI secolo a.C., come un copernicano in anticipo sui tempi già sospettava che «né la terra né il mare hanno un centro o un ombelico; se ne esiste uno, sono gli dèi e non gli uomini a sapere dove si trova». Ha ancora un senso, per l’uomo del terzo millennio, ripercorrere le inquiete giravolte che salgono all’oracolo di Delfi?
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SULLA VIA PER L’ORIENTE
Prolungamento transadriatico dell’Appia, la regina viarum, l’Egnazia assicurava ai Romani i collegamenti con Bisanzio. Un’arteria nevralgica, dunque, che è tuttora in uso, seppur nelle forme di una moderna autostrada. E lungo il cui tracciato si succedono località solo all’apparenza minori di Tsao T. Cevoli e Lidia Vignola
La baia di Parga, località dell’Epiro situata a poca distanza da Igoumenitsa, la città portuale che segna l’inizio dell’odierna via Egnazia. In primo piano, l’isolotto di Panaghía.
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VIA EGNAZIA
BULGARIA Orestiada
F.Y.R.O.M. Drama
Xanthi Soufli
Edessa
Florina
ALBANIA
Pella
Alexandroupoli
TURCHIA
Kozani Katerini
Siatista
Grevena
Amphipolis
Salonicco
Veria Galatini
Kavala
Kilkis
Konitsa
Ioannina Igoumenitsa
Metsovo
Meteora
Elassona
Kalambaka
Masio Scampa Adrianople Caenophrurium Philippi Dyrrachium Heraclea Lyncestis Melantias Traianoupolis Florina Aproi Pella
Larissa
Trikala Brindisi
Dodona Karditsa
Parga
Apollonia Lychnidos Claudiana Edessa
Neapolis Kypsela Amphipolis Aenus Thessaloniki Pydna
Arta
Byzantium Perinthus
Prèveza Karpenissi
D
Lamia
alla costa dell’Epiro alle cime del Pindos, dalle pianure della Tessaglia all’imponente vetta del Monte Olimpo, viaggiare attraverso la Grecia continentale significa scoprire una Grecia insolita: la bicromia bianco-azzurro dell’Egeo si dissolve nel verde dei boschi e nel marrone delle tegole dei tetti a spiovente, il ritmato infrangersi delle onde cede il passo al costante fruscio dei fiumi, che scorrono, a tratti rapidi, altrove lenti, sotto antichi ponti di pietra. Qui l’archeologia è immersa nella natura, che si fa essa stessa custode vivente di miti e di storie: ogni fiume, ogni palude, conserva memoria di leggende, conquistatori e battaglie. Ricalcando in gran parte il percorso dell’arteria romana, la nuova via Egnazia – un’autostrada che taglia tutto il continente ellenico da Igoumenitsa fino a Salonicco e poi fino ai confini della Grecia – permette di scoprire questo territorio dal fascino straordinario, immaginando di ripercorrere i passi di un antico viaggiatore dalla capitale dell’impero d’Occidente a quella dell’impero d’Oriente. Il nostro viaggio ideale nel continente ellenico
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inizia dallo sbarco a Igoumenitsa, il primo grande porto della Grecia che si affaccia verso l’Italia. Siamo in Epiro, terra di oscuri oracoli e di battaglie epocali, nella quale incontriamo siti archeologici come Dodona, Azio, Nicopoli e l’affascinante Nekromanteion. Ma non solo archeologia e musei offre l’Epiro, che vanta una delle coste piú belle della Grecia: Mega Ammos, Mikrí Ammos, Aghia Paraskeví, Syvota, Valtòs, Kryonèri e Lychnos sono solo alcune delle sue tante splendide spiagge, spesso affiancate da tratti rocciosi. La macchia mediterranea riempie i promontori protesi sul mare, che si alternano a insenature improvvise, regalando panorami mozzafiato.
Un angolo di paradiso Tutto l’Epiro è un angolo di paradiso, da scoprire perdendosi. Da Igoumenitsa, prendendo la strada statale in direzione sud, verso Preveza, si costeggia il Mar Ionio. Lo sguardo domina la città e le vicine isole di Corfú e Paxi. Con una piccola deviazione dalla strada principale si raggiunge Parga, una delle
In alto cartina dei territori attraversati dalla via Egnazia e ora dall’autostrada che ne ha in gran parte ricalcato il percorso originario (vedi riquadro).
Da Roma a Bisanzio La via Egnazia era una delle piú lunghe e importanti vie romane. La sua costruzione iniziò nel II secolo a.C. e fu la prima grande strada realizzata al di fuori dell’Italia. Partiva dalle città di Apollonia e Durazzo in Illiria, l’odierna Albania, e attraversava poi la Grecia: dalla Macedonia alla Tracia. Da qui proseguiva fino all’Ellesponto e a Bisanzio, poi Costantinopoli. Ma a Occidente la via Egnazia, grazie alla breve traversata in nave dell’Adriatico, si ricongiungeva idealmente alla via Appia, che conduceva da Roma a Brindisi. Complessivamente, quindi, il sistema viario Appia-Egnazia collegava Roma e Costantinopoli, la capitale al Ponto Eusino e alle province d’Oriente. Ne conosciamo il percorso non solo grazie agli scavi archeologici, ma anche per le descrizioni di fonti come l’Itinerarium Provinciarum Antoninii Augusti e la Tabula Peutingeriana, copia del XIII secolo di una carta geografica che ci svela fiumi, strade e città dell’impero romano dalla Bretagna all’India. L’importanza strategica della via Egnazia, sia dal punto di vista militare che commerciale, era enorme. Proprio per questo anche durante le guerre, civili o esterne, i condottieri e gli imperatori romani, da Cesare a Ottaviano a Marco Aurelio, cercarono di non farsene sfuggire mai il controllo. Ma non fu sempre usata solo a scopi bellici: se ne serví, per esempio, anche l’apostolo Paolo, nel suo cammino di diffusione del messaggio di Cristo dalla Palestina a Roma. Nel IV secolo l’imperatore Costantino rinnovò e prolungò la via Egnazia per dare vigore all’impero e alla nuova città da lui fondata. Dopo la caduta dell’impero bizantino divenne la piú importante arteria di comunicazione tra l’impero ottomano e l’Europa. Il suo abbandono coincide con l’inizio di un periodo di instabilità nei Balcani e con le guerre mondiali. Il suo recupero è iniziato, dal punto di vista archeologico, grazie alla costruzione della nuova via Egnazia, un’autostrada a tre corsie che dai confini orientali della Grecia, in Tracia, fino alla Macedonia occidentale ricalca quasi integralmente il percorso della via romana. A differenza di quella, la nuova strada a ovest si conclude a Igoumenitsa piuttosto che ad Apollonia e Durazzo, rimanendo, dunque, nei confini della Grecia moderna. La nuova autostrada consente oggi di arrivare in auto da Igoumenitsa a Salonicco in meno di quattro ore.
località turistiche piú graziose di questo tratto di costa. Il porticciolo, costellato da ristoranti, caffè e taverne, affiancato da una tranquilla piccola spiaggia, abbraccia l’isolotto di Panaghía, che dista appena 200 m dalla riva e si può raggiungere a nuoto o in barca. Sullo sfondo verde della fitta vegetazione risalta la sagoma di una chiesetta, costantemente imbiancata di calce per resistere agli attacchi della salsedine. Su un promontorio che domina tutto il golfo sorge la fortezza veneziana, a ricordarci il lungo dominio della Serenissima.
L’oracolo dei morti A pochi chilometri da Parga, su un’altura che domina la palude Acherousia, alla confluenza dei fiumi Acheronte, Cocito e Piriflegetonte, si trova il Nekromanteion, l’oracolo dei morti, dal greco nekròs. I suoi resti sono stati individuati tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento sotto il monastero di Haghios Ioannis Prodromos. Gli archeologi vi hanno anche scoperto tracce di frequentazione umana molto piú antiche: intorno al 2000 a.C. vi è infatti attestata la presenza della tribú ellenica dei Tesproti, alla quale, nel XIV secolo a.C., succedette un insediamento miceneo. Già Pausania aveva notato che Omero, narrando la discesa negli Inferi di Ulisse, citava questi fiumi e descriveva uno scenario molto simile a questo. Per gli antichi Greci il Nekromanteion, oltre a essere la porta di accesso agli Inferi, era soprattutto un luogo di comunicazione tra i vivi e i morti. Qui si venivano a interpellare i defunti, che i Greci ritenevano avere poteri profetici. Ma le anime, soprattutto quelle dei giovani e di chi era deceduto per morte violenta, erano pericolose e vendicative. Quindi, per interrogarle, era necessario prepararsi con digiuni e purificazioni, e offrire loro libagioni e sacrifici. Circondato da un recinto in opera poligonale, il santuario comprendeva gli alloggi dei sacerdoti e le camere di preparazione all’incontro ultraterreno. Dopo alcuni giorni di digiuno e diversi rituali magici, si percorreva un corridoio tortuoso, il cosiddetto «labirinto», e
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si giungeva a una sala ipogea. Qui, nella notte, avveniva la comunicazione con i morti. L’atmosfera suggestiva che ancora oggi vi aleggia, accresciuta dal buio e dalla luce delle fiaccole, contribuiva certamente a creare un’atmosfera da oltretomba. Tuttavia, a rafforzare questa impressione, forse contribuiva qualche piccolo «trucco» scenico: durante gli scavi, sulla parete di fondo dell’ambiente ipogeo, infatti, sono state trovate tracce di ruote e carrucole che probabilmente servivano a far comparire e scomparire gli «spettri» dei defunti.
Una vittoria epocale Proseguendo oltre Parga la strada verso Prèveza, incontriamo un promontorio affacciato sul versante meridionale dello stretto che chiude il Golfo di Ambracia, che oggi si può attraversare comodamente in auto grazie a un tunnel sottomarino. Qui sorge Azio, località il cui nome è legato a una delle battaglie navali piú importanti della storia antica, quella che si
combatté il 2 settembre del 31 a.C. tra Ottaviano, da un lato, e Antonio e Cleopatra, dall’altro. A determinarne l’esito fu l’improvvisa fuga della regina d’Egitto, prontamente seguita da un Antonio accecato dalla passione. I soldati romani ai suoi ordini videro la fuga come un tradimento e abbandonarono le armi. La vittoria di Ottaviano segnò la fine della guerra civile e di ogni illusione di far risorgere la Roma repubblicana, aprendo la strada alla nascita dell’impero. Da vedere, oltre allo scenario della battaglia, la fortezza veneziana, nella quale sono inglobati alcuni elementi architettonici provenienti dal tempio di Apollo. All’indomani della vittoria, Ottaviano fondò poco lontano una città, che chiamò Nikopolis (Nicopoli), che in greco significa «città della vittoria». Le concesse vari privilegi finanziari e politici, tra cui quello di avere una propria zecca, e, per popolarla, costrinse gli abitanti delle zone limitrofe – Ambracia, Etolia, Acarnania e Leucade – a colonizzarla, portando con sé dalle città di origine tesori e le migliori In alto resti dell’acquedotto romano di Nicopoli. A sinistra Arta. La chiesa della Panaghia Parigotíssa, (Vergine Consolatrice). L’edificio fu costruito intorno al 1290 dal despota Niceforo, reimpiegando materiali provenienti dall’antica Nicopoli.
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gare atletiche e musicali, e, negli anni a seguire, si celebrarono a Nicopoli ogni quattro anni, a memoria dell’imperatore e della battaglia. Volle parteciparvi anche Nerone, riportando la vittoria nella corsa dei carri.
La lungimiranza di Ottaviano
Qui sopra Arta. Il ponte a schiena d’asino sull’Aráchthos, realizzato nel periodo in cui la città era sotto il dominio dei Turchi, che l’avevano conquistata nel 1449.
opere d’arte. A perenne memoria della vittoria Ottaviano volle erigere un monumento su una collina dalla quale si domina con lo sguardo tutta la zona, nel luogo in cui aveva tenuto il suo quartiere generale fino al giorno della battaglia. Sul basamento del monumento mise i rostri di bronzo delle navi nemiche, e lo dedicò ad Apollo Aktios, ad Ares e a Poseidone. Ottaviano ripristinò anche le Aktia: un’antica festa locale, in onore di Apollo Aktios, che comprendeva
Fondando Nicopoli, Ottaviano aveva avuto una straordinaria intuizione: nei secoli successivi, infatti, la città ebbe un importante ruolo strategico nelle rotte tra Oriente e Occidente. I commerci la resero prospera almeno fino al III secolo, quando crisi economica, terremoti e invasioni ne causarono il declino. Si riprese, almeno in parte, a partire dal V secolo, diventando un centro di diffusione del cristianesimo. Oltre al monumento della vittoria di Ottaviano, molti sono i monumenti che vale la pena vedere: l’odeion, il teatro, lo stadio, l’anfiteatro, le mura e poi le basiliche cristiane. A questi si aggiunge il piccolo Museo Archeologico, situato nell’angolo sud-orientale
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della città, non lontano dalla strada per Prèveza. Esso conserva alcuni dei reperti provenienti dagli scavi, che forniscono un chiaro quadro dello sviluppo della città dall’età romana a quella bizantina. Il piú significativo esempio del cambiamento culturale nel passaggio tra un’epoca e l’altra è una grande base marmorea: inizialmente reggeva la statua di un imperatore, Traiano o Adriano, poi fu riutilizzata come pulpito in una delle basiliche cristiane. Di conseguenza, l’Amazzonomachia che la decorava fu in parte cancellata per lasciare spazio a un mosaico con raffigurazioni di santi.
Ascesa e declino di una colonia Sul versante interno del golfo di Ambracia troviamo Arta, città moderna sorta sulle rovine dell’antica Ambracia, colonia di Corinto fondata nel 625 a.C., che arrivò a contare molti di piú dei 16 000 attuali abitanti. Pirro ne fece la sua base di partenza per le
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In alto il teatro di Dodona, che poteva accogliere fino a 18 000 spettatori.
scorrerie in Grecia e Italia, riempiendola di templi, monumenti e bottini di guerra. La conquista romana nel 189 a.C. segna la fine del periodo d’oro di Ambracia. Poco dopo, nel 167 a.C., Emilio Paolo saccheggia e distrugge tutte le città dell’Epiro. Ambracia è messa a ferro e fuoco, le sue mura rase al suolo. Durante la sua periegesi (termine usato dai Greci per indicare la descrizione topografica di un paese con l’esposizione dei fatti storici antichi e dei costumi degli abitanti, n.d.r.) della Grecia, Pausania vi trovò soltanto rovine. Risorse intorno al XIII secolo, divenendo un centro propulsore dell’ortodossia. Oltre a chiese e monasteri, caratteristico è il ponte a schiena d’asino del XVII secolo che si incontra entrando in città. Sia da Prèveza che direttamente da Igoumenitsa, tramite la via Egnazia, tagliando verso l’interno si può raggiungere uno dei siti archeologici piú affascinanti dell’Epiro, situato al centro di una valle nei
pressi del monte Tomaros: è il santuario di Dodona, il cui oracolo, sacro a Zeus, era ritenuto dagli stessi Greci il piú antico di tutta la Grecia.
Il volo delle colombe nere La leggenda della fondazione del santuario ci è raccontata da Erodoto, che l’aveva appresa da una sacerdotessa quando visitò di persona Dodona: da Tebe d’Egitto erano partite due colombe nere, mandate da Zeus; una si era posata in Libia, ove fu fondato il santuario di Zeus-Ammone, e l’altra su una quercia a Dodona, ordinando, con voce umana, che in quel luogo fosse fondato l’oracolo. Ma questa storia apparve poco credibile allo stesso Erodoto, che quindi riportò anche un’altra versione, fornita da alcuni sacerdoti
egiziani: due sacerdotesse egiziane sarebbero state rapite dai Fenici e vendute come schiave, una in Libia e l’altra in Epiro, dove fondarono i rispettivi culti. La leggenda avrebbe trasformato la sacerdotessa di Dodona in una «colomba nera», perché era nera di pelle e al suo arrivo in Epiro parlava una lingua incomprensibile come il verso di una colomba. In ogni caso, proprio in relazione a questi miti le sacerdotesse di Dodona presero il nome di «peleiades», cioè «colombe». Tuttavia, gli unici a saper interpretare la volontà di Zeus, manifestata attraverso il fruscio delle foglie della quercia sacra, erano i sacerdoti appartenenti a una casta particolare, i «Selloi», famosi già ai tempi di Omero – come ci racconta nell’Iliade – per due curiose abitudini: quella di dormire a terra, anche in mezzo alla
Dodona e i suoi monumenti Planimetria dell’area archeologica di Dodona, con l’indicazione dei monumenti piú importanti: A. stadio; B. teatro; C. santuario di Zeus; D. casa sacra; E. basilica cristiana; F. cinta muraria dell’acropoli.
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F E
D C
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Nella pagina accanto bronzetto raffigurante Zeus che scaglia un fulmine, da Dodona. Inizi del V sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung A destra statuetta in bronzo raffigurante una fanciulla in corsa, da Dodona. VI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
neve, e quella di non lavarsi i piedi. E le leggende legate a Dodona non finiscono qui: si racconta anche che Giasone, prima di partire con gli Argonauti per le sue imprese, venne a prendervi un ramo della quercia, da legare alla prua della nave per assicurarsi la protezione divina. Durante le sue peregrinazioni anche Ulisse venne a consultare l’oracolo, per sapere se fare ritorno a Itaca di nascosto o in maniera palese. Il santuario di Dodona potrebbe avere radici ancora piú antiche di quanto ci racconta Erodoto. Lo dimostra la presenza di ceramica micenea risalente al XV secolo a.C. A quell’epoca forse già vi sorgeva, ai piedi di una grande quercia, il santuario di una divinità pre-ellenica: la Grande Dea Madre, che in un sigillo scoperto a Micene è raffigurata proprio sotto un albero.
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VIA EGNAZIA
A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. Dodona fu sede dell’Alleanza e poi della Lega Epirota, che combatté a fianco di Perseo contro Roma. Il prezzo della sconfitta fu altissimo: i villaggi e il santuario furono incendiati e distrutti, e 150 000 persone vennero ridotte in schiavitú. L’area archeologica si compone di tre settori: gli edifici pubblici, il santuario e l’acropoli. Uno dei monumenti piú celebri è il teatro: poteva accogliere fino a 18 000 spettatori e, insieme a quello di Epidauro, detiene la palma del teatro antico meglio conservato di tutta la Grecia.
La fine del «leone ribelle» Superata Dodona, la strada giunge a Ioannina, capoluogo dell’Epiro. La città sorge sulla riva del lago Pamvotida. Gli abitanti di Ioannina, forse a causa delle sue dimensioni, rapportate a quelle della città, lo vivono quasi come un lungomare. Ed è proprio questa l’impressione che si prova passeggiando sul lungolago, tra caffè e ristoranti. In battello è possibile fare il giro del lago e raggiungere l’isolotto di Nissí, con il suo piccolo villaggio e i suoi cinque monasteri. Qui fu decapitato dai Turchi Ali Pascià, il «leone ribelle», che, dal 1788 al 1822, era riuscito a sottrarre la città al controllo turco e a renderla un fiorente crocevia di commerci e di idee. All’interno del Kastro, la rocca che con le sue mura domina il lago, si trova il palazzo, oggi sede del Museo Bizantino. A conservare memoria di un passato islamico sono anche i minareti sparsi nel centro della città, molti dei quali, purtroppo, versano in stato di abbandono. Risalendo dal lago la centralissima via Averof, si incontra, infine, una miriade di negozietti e botteghe specializzati in oggetti d’argento, la cui lavorazione è il principale vanto dell’artigianato epirota. In una traversa che si apre sulla stessa strada, si trova il ricco Museo Archeologico. Uscendo dalla città, a soli 4 km, si incontra
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Pèrama, la cui maggiore attrazione sono le grandi grotte, nelle quali si può visitare un percorso lungo oltre 1 km. Poco dopo Metsovo, uscendo dalla via Egnazia, si può raggiungere Meteora, uno dei piú grandi e importanti complessi monasteriali della Grecia, insieme a quello del Monte Athos, che, nel 1988, l’UNESCO ha incluso nella lista dei luoghi considerati Patrimonio dell’Umanità. L’etimologia del nome significa «rocce in aria», ed è questa l’impressione che si riceve avvicinandosi a questi enormi pilastri naturali, che incombono grigi, come sentinelle, sulla valle del Peneo, dalla quale si staccano come altrettanti meteoriti piovuti dal cielo. Qui sorge un complesso monasteriale nato intorno all’XI secolo, quando vi si stabilirono i primi monaci eremiti. Erano anacoreti in cerca di un luogo irraggiungibile e lo trovarono in vetta a queste esili e altissime rocce.
Un vuoto vertiginoso Né avrebbero potuto scegliere un luogo piú adatto: ancora fino agli inizi del secolo scorso, i monasteri – cresciuti intorno ai loro primi rifugi – si potevano raggiungere soltanto con lunghe scale di corda, oppure servendosi di ceste che i monaci issavano con le carrucole. In alcuni casi neppure oggi la salita è agevole: occorre, infatti, affrontare lunghe scalinate, intagliate nei fianchi della roccia, e attraversare esili ponti gettati su un vuoto vertiginoso. Ma difficilmente, visitando Meteora, verrà da guardare verso il basso. Ci si sentirà, invece, proiettati verso l’alto: tutto qui anela all’isolamento, alla contemplazione, all’elevazione. Persino i pellegrini e i turisti, risalendo a piedi, lentamente, le lunghe scalinate, man mano che si avvicinano alla vetta iniziano a smorzare le voci, in un naturale segno di riverenza, rispettosi di uno spontaneo silenzio che permette di apprezzare pienamente il luogo e il paesaggio. Il primo monastero che si
Meteora. Il monastero di Varlaam, che prende nome dal monaco che, alla metà del XIV sec., scelse il sito per costruirvi una chiesa e alcune celle. Due secoli piú tardi il complesso venne rifondato e assunse l’aspetto che tuttora conserva.
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incontra, percorrendo i tornanti che salgono da Kastraki, è quello di Ágios Nikólaos Anapausas, la cui decorazione, risalente al 1527, è opera del capostipite della scuola cretese Teophanis Strelitzas (1490-1559), noto anche come Teofane di Creta.
Nel nome di santa Barbara Alla metà del XVI secolo risale anche il monastero di Roussánou, dedicato a santa Barbara, le cui pareti continuano perfettamente
il profilo a picco della roccia sottostante, come in un’immensa colonna. Il monastero di Varlaam, costruito nel 1542, fu sede, tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, del piú importante scriptorium di Meteora, la cui tradizione amanuense è testimoniata dai manoscritti esposti nel suo museo. Il monastero piú grande e piú alto di tutti è, infine, il Mégalo Metéoro o Monastero della Trasfigurazione – in greco Metamórfosis –, eretto alla metà del XIV secolo sulla prima
Sulle due pagine una veduta dell’Olimpo, il monte che i Greci consideravano la residenza degli dèi.
Alla conquista del vello d’oro La Tessaglia ci riporta a una delle leggende piú famose dell’antica Grecia, quella di Giasone e degli Argonauti: una storia nota sin dai tempi di Omero (Odissea, X, 135 e sg., XII, 59 e sg.), alla quale fanno accenno tantissimi autori greci. Il racconto piú completo lo abbiamo, però, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Tutto inizia da un oracolo che aveva rivelato a Pelia, re di Iolco e usurpatore del trono, che egli sarebbe stato ucciso da un giovane discendente di Eolo che si sarebbe presentato davanti a lui con un solo sandalo ai piedi. Proprio cosí gli comparve davanti Giasone, figlio di
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Esone, il legittimo erede al trono che fino a quel momento era rimasto nascosto ed era stato educato dal centauro Chirone. Egli aveva, infatti, perduto un sandalo nell’aiutare una vecchia, che in realtà altri non era che la dea Era sotto false sembianze. Per liberarsi di Giasone, Pelia gli promette di restituirgli il trono, a patto che egli riesca a portargli il vello d’oro, una pelle di ariete custodita nella grotta di Ares nella lontana Colchide, all’estremità orientale del Mar Nero. L’impresa è ardua: il vello è, infatti, sorvegliato da un terribile drago e per giungere in Colchide occorre affrontare
un viaggio lungo e pieno di insidie. Ma Giasone non si perde d’animo e, con l’aiuto di Atena, riesce a organizzare la spedizione, alla quale si uniscono molti intrepidi eroi. Il loro numero varia a seconda delle fonti. Apollodoro (Bibl. I, 9) ne elenca quarantasei, tra i quali compaiono, insieme a Giasone, famosi eroi come Eracle, Teseo, Orfeo e i dioscuri Castore e Polluce. Riunitisi nella città di Pagase, in Tessaglia, salpano per la Colchide sulla nave Argo. Da qui cominciano le loro innumerevoli imprese, che per secoli riempiranno di sogni e di lacrime le pagine dei poeti e dei tragediografi greci.
pietra posta da sant’Attanasio, proveniente dal Monte Athos. Da qui chi non soffre di vertigini può affacciarsi per godere di una vista unica e magari ammirare qualcuno di quei rari avvoltoi, che, soli, osano avventurarsi a queste ardue altezze. Dopo Meteora, proseguendo verso est, incontriamo Trikala, l’antica Tríkke, ricordata dalle fonti come patria di Asclepio. La sua piú antica menzione si trova nell’Iliade, nel cosiddetto «catalogo delle navi», l’elenco delle città e dei condottieri greci che partecipavano alla spedizione contro Troia. Omero dice che Tríkke partecipava alla guerra con 30 navi, a capo delle quali erano i due fratelli Machaone e Podaleirio, figli di Asclepio, che avevano appreso dal padre l’arte della medicina. Il geografo Strabone, nel I secolo a.C., sostiene che qui c’era, infatti, il piú antico e famoso Asklepieion di tutta la Grecia. Gli archeologi nel 1902 ne hanno scoperto i resti, risalenti però all’età tardo-ellenistica e romana.
La dimora degli dèi La città, attraversata dal fiume Letheo, popolato dalle oche, è quasi del tutto pianeggiante, trovandosi ai margini della pianura tessala. Luogo ideale, quindi, per lunghe passeggiate in bicicletta. All’età
classica, tra il V e il IV secolo a.C., risale, invece, l’impianto originario del castello, che subí diversi rifacimenti, sia all’epoca dell’imperatore Giustiniano, sia nel XVII secolo, durante la dominazione ottomana. Capitale della Tessaglia è Larissa, città nella quale il presente appare soffocare il passato, a giudicare dalle costruzioni che sovrastano le rare testimonianze superstiti: come il teatro ellenistico in via Venizelou. Una modernità che lascia trasparire il desiderio dei suoi abitanti di dimenticare i cinquecento lunghissimi anni vissuti da Larissa sotto il dominio ottomano, dal 1389 al 1881. E proprio una moschea abbandonata è stata recuperata per ospitare il locale Museo Archeologico. Grazie all’estensione delle sue due ampie pianure, la Tessaglia, tra le regioni della Grecia antica, fu la piú ricca di prodotti agricoli, in particolare cereali, e di bestiame, soprattutto cavalli. In età micenea vi sorgeva la mitica Iolco, la città degli Argonauti, da cui Giasone e i suoi cinquanta compagni, scelti tra i piú grandi eroi della Grecia, partirono per la loro grande avventura alla ricerca del vello d’oro. La Tessaglia era anche la terra dei Lapiti e dei Centauri, mezzi uomini e mezzi cavalli, che vivevano sul monte Pelia. A chiudere a nord la Tessaglia è il piú alto e celebre dei monti della Grecia, l’Olimpo, dove il mito collocava le case degli dèi ellenici. Occorre aggirarlo per proseguire in direzione di Salonicco. Al di là del monte si scopriranno grandi città e favolosi tesori, la terra di quei Greci che sottomisero mezzo mondo: la Macedonia di Alessandro Magno.
DOVE E QUANDO
Quadretto ad affresco nel quale si vede Giasone che mostra il vello d’oro a Medea. Collezione privata.
Per informazioni generali sulle località descritte nell’itinerario, si può consultare il sito ufficiale dell’Ente Nazionale Ellenico per il Turismo: www.visitgreece.gr (anche in lingua inglese) Informazioni sui musei e le aree archeologiche possono invece essere reperite sul portale Odysseus, curato dal Ministero Ellenico per la Cultura: http://odysseus.culture.gr (anche in lingua inglese)
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ALLA RICERCA DEL MITO | GRECIA | 82 |
Mosaico raffigurante la caccia al leone da parte di Alessandro (a sinistra) ed Efestione, da Pella. 320 a.C. circa. Pella, Museo.
In Macedonia tutto sembra parlare del suo figlio piú celebre, Alessandro: una presenza costante, anche se spesso solo presunta. Eppure, per quanto inafferrabile, il ricordo del sovrano capace di dare vita a uno dei piú vasti imperi della storia è ancora vivissimo. E si accompagna alla stupefacente ricchezza dei tesori che la ricerca archeologica non cessa di svelare di Carlo Casi e Andreas M. Steiner
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MACEDONIA Insediamento preistorico (Collina 133) Tumulo di Kasta
M
orbidamente adagiata su un’ondulata collina, Anfipoli dominava la valle verdeggiante che il fiume Strimone taglia come una rilucente lama d’acciaio prima di gettarsi in quel mare antico dal quale Alessandro Magno salpò alla volta dell’Asia. Città da sempre agognata, ha visto passare Ateniesi, Spartani, Macedoni, Traci, Romani, Bizantini e Ottomani; tutti hanno lasciato e tutti hanno preso: benessere e cultura in cambio dell’oro e dell’argento del vicino Monte Pangeo. Atene la fondò nel 437 a.C. come apoikia (colonia), dopo che già Pisistrato, nella seconda metà del VI secolo a.C., si era qui arrichito. Ma non fu certo cosa semplice sconfiggere gli indigeni Edoni che avevano in questo luogo un centro urbano dal singolare nome di Le Nove Vie (Ennea Hodoi): un primo e non riuscito tentativo causò la morte di 10 000 Ateniesi in quel di Drabesco nel 465-464 a.C. E non ebbe comunque vita facile la nuova città, nonostante le imponenti mura che la recingevano. Già nel 424 a.C., infatti, Sparta spostò la guerra del Peloponneso sulle rive dello Strimone dove, con un audace colpo di mano, le truppe comandate da Brasida, entrarono in città, superando in maniera rocambolesca la cinta
Anfipoli Mura cittadine del periodo classico ed ellenistico Mura di fortificazione interne Necropoli
Ponte antico Torre bizantina Museo
Muro di età romana
Acropoli
Necropoli di età classica Casa ellenistica Ginnasio
Monumenti di età paleocristiana
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1 Km.
Ponte moderno Strimone
Leone di Anfipoli
Verso Eione e il delta
Eubea
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Serres Macedonia Centrale
Anfipoli
Pella Salonicco Verghina
Taso
Stagira
Penisola Calcidica Olinto
Samotracia Monte Athos
Monte Olimpo
In basso Anfipoli. Il grande leone riferibile a un monumento funerario del IV sec. a.C., appartenuto probabilmente a Laomedone, un generale di Alessandro Magno.
Lemno
Mar Egeo
muraria all’altezza del ponte. Nemmeno lo storico Tucidide, all’epoca comandante ateniese, riuscí a scongiurare la presa di Anfipoli e le drammatiche conseguenze si riscontrarono nella cruenta battaglia del 421 a.C., nella quale persero la vita lo stesso Brasida e il capo dell’esercito ateniese Cleone. Anche Filippo II la volle per sé e la annetté al regno macedone insieme a Filippi e alla Tracia.
In lotta per la successione Qui Androstene di Taso, uno dei suoi ammiragli vi abitò. Rossane e Alessandro IV, rispettivamente moglie e figlio del grande Macedone, invece, vi morirono, nel 310-309 a.C., per mano di Cassandro, uno dei diadochi in lotta per la successione che aveva già ucciso anche la madre, Olimpiade, qualche anno prima, nel 316 a.C., a Pidna. La scoperta del tumulo monumentale attribuito alla mano di Dinocrate, l’architetto di fiducia di Alessandro, e risalente all’ultimo quarto del IV secolo a.C., ha posto molti quesiti.
Nella pagina accanto Anfipoli (Macedonia centrale). La collina di Kasta con il grande tumulo macedone individuato da Dimitris Lazaridis nel 1964 e oggi in corso di scavo. Sullo sfondo, si nota l’alta sagoma del Monte Pangeo, nel quale si trovano ricche miniere d’oro e d’argento.
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Il cerchio perfetto che il possente muro descrive, realizzato in blocchi di marmo di Taso e alto 3 m, si sviluppa per quasi 500 m. Il portale è incorniciato da un arco in pietra che contiene due bellissime sfingi, purtroppo acefale, oltre il quale si accede a un corridoio pavimentato a mosaico riproducente il ratto di Persefone. In fondo, emerge un secondo portale contraddistinto dalla presenza di due artistiche cariatidi, che chiude l’accesso alla camera funeraria vera e propria. È possibile che una struttura cosí monumentale e ben rifinita possa essere stata appannaggio della famiglia reale macedone? E, se sí, a quale o a quali dei membri va ascritta la tomba di Kasta? Varie sono le ipotesi avanzate a riguardo: c’è chi pensa alla sepoltura della madre o della moglie di Alessandro, di un suo generale o anche del Macedone stesso.
Mistero insoluto Torna quindi alla ribalta il mistero dell’ultima dimora del grande sovrano: il suo feretro partí da Babilonia dopo piú di due anni dalla sua morte, avvenuta nel 323 a.C., ma, a oggi, non abbiamo alcuna certezza sulla località di arrivo. Diodoro ci ha lasciato l’impressionante descrizione del corteo funebre, probabilmente
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In alto la coppia di Sfingi che sormonta l’architrave della porta d’ingresso. In basso particolare di una delle due cariatidi, scolpite nel marmo dell’isola di Taso, che incorniciano la porta della camera funeraria principale della tomba rinvenuta nel tumulo di Anfipoli. Entrambe sono alte piú di 2 m e presentano chiare tracce di colore rosso e blu.
raccolta da una fonte dell’epoca che assistette ai lavori – forse Ieronimo di Cardia –, e suggerisce l’oasi di Siwa (nel deserto egiziano) quale meta finale. Pausania, invece, è convinto che il corpo di Alessandro dovesse rientrare in Macedonia, forse a Ege, e solamente grazie a
un colpo di mano di Tolomeo, raggiunse Menfi, come sembra confermare anche il cosiddetto Marmor Parium, un’iscrizione marmorea proveniente dall’isola di Paros e riferibile al 321320 a.C.: «Alessandro fu collocato a Menfi e Perdicca, avendo condotto una spedizione contro l’Egitto, morí».
L’omaggio di Augusto Che la salma di Alessandro si sia trovata in Egitto lo racconta anche Svetonio quando, nella sua biografia su Augusto, descrive la visita alla tomba del Macedone ad Alessandria: «In quello stesso tempo, fatta tirar fuori dalla tomba l’arca con il corpo di Alessandro, lo guardò a lungo, quindi vi pose una corona d’oro
In alto Anfipoli. Il mosaico policromo raffigurante il ratto di Persefone da parte di Ade, che la porta con sé su un carro trainato da due cavalli, preceduti dal dio Ermes. Fine del IV-inizi del III sec. a.C.
La tomba di Alessandro
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Il Museo Archeologico di Anfipoli Sulle rive dello Strimone, a pochi chilometri dal mare e non troppo distante dalle miniere d’oro del monte Pangeo, naturalmente protetta su tre lati dall’ansa del fiume e da possenti mura sul quarto lato, l’antica Anfipoli (che prima della colonizzazione di Atene nel 437 a.C. era detta «Nove strade») vanta una storia lunga e appassionante, oggi narrata nel Museo Archeologico, allestito in un edificio moderno, a ridosso degli scavi. L’esposizione segue l’ordine cronologico e si apre con i reperti provenienti da siti frequentati nel Neolitico (6000-3000 a.C.), tra cui spiccano le numerose figurine antropomorfe rinvenute presso la «Collina 13», un insediamento sviluppatosi su una collina in prossimità dell’antica città. L’età arcaica è rappresentata dai corredi funebri dell’età del Ferro delle necropoli piú antiche di Anfipoli, tra le quali i tumuli di Kasta: già in questo periodo le vicine miniere d’oro vennero abilmente sfruttate per realizzare capolavori di oreficeria. All’età classica e al periodo ellenistico rimandano invece statue di divinità e di figure mitologiche, monete, terrecotte e almeno due raffinate corone con foglie in oro, una rinvenuta presso una sepoltura maschile risalente al IV secolo, l’altra scoperta all’interno di un urna cineraria in argento.
e vi sparse fiori e poi richiesto se volesse vedere anche quelle dei Tolomei rispose che era venuto per vedere un re, non dei morti». E almeno sino al tempo dell’imperatore Caracalla (188-217 d.C.), pervaso di mistico fanatismo nei suoi confronti, in Egitto dovette restare. Da quel momento in poi la tomba del re macedone sembra sparire nel nulla e già alla fine del IV secolo d.C., san Giovanni
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Al momento della conquista da parte di Roma del regno di Macedonia, nel 168 a.C., Anfipoli divenne la capitale della provincia Macedonia Prima: alla dominazione romana risalgono alcuni mosaici e porzioni di affreschi parietali provenienti da aristocratiche domus urbane. Protagonista della diffusione del cristianesimo ad Anfipoli fu l’apostolo Paolo, che negli anni 49-50, in viaggio da Filippi a Tessalonica, sostò nella città. La comunità cristiana si sviluppò precocemente e, già nel IV secolo d.C., Anfipoli, che allora occupava l’antica acropoli, divenne sede di diocesi. Alcuni reperti in mostra al Museo Archeologico rimandano a questo felice periodo della vita della città. L’esposizione si completa con reperti provenienti dalle aree portuali della città, Agilos e Eion, e con una sezione dedicata alla scoperta e al restauro del Leone di Anfipoli, la grande scultura rinvenuta nel 1913 in prossimità dello Strimone.
DOVE E QUANDO MUSEO ARCHEOLOGICO DI ANFIPOLI Serres, Macedonia Orario ma-do, 8,00-14,30; lu chiuso Info www.macedonian-heritage.gr
Crisostomo cosí recitava: «Dov’è, dimmi, la tomba di Alessandro? Mostramela, e dimmi in che giorno mori!». La scomparsa va quindi collocata tra la fine del III e la fine del IV secolo, un periodo nel quale distruzioni e terremoti si accavallano nella città sulla foce del Nilo e che fece registrare l’affermazione definitiva del cristianesimo. A celare per sempre il monumento funerario
In alto corona aurea a foglie di quercia da una tomba maschile del IV sec. a.C.
Gli anni dell’impero universale 334 a.C. Alessandro attraversa l’Ellesponto e raggiunge le forze macedoni già in Asia. 334 a.C. Alessandro sbaraglia i Persiani al Granico e annette i territori e le città della costa dell’Asia Minore. Poi entra in Paflagonia, Cappadocia e Cilicia. L’esercito avanza verso la Siria. 333 a.C. Alessandro rovescia l’esercito persiano, condotto dallo stesso Dario III, nella battaglia di Isso. Dario fugge, ma lascia la famiglia prigioniera dei Macedoni. 332 a.C. Occupazione delle città della Fenicia, della Siria e dell’Egitto. Qui viene accettato dai sacerdoti di Menfi come un nuovo faraone. L’oracolo dell’Oasi di Siwa lo proclama «Figlio di Amon». 331 a.C. Nuova vittoria macedone a Gaugamela, in Mesopotamia. Alessandro giunge a Babilonia, sacrifica al dio Marduk e riceve l’antico titolo sumero-accadico di «re delle 4 parti del mondo».
Arrivato a Susa, nel Khuzistan, recupera le statue dei Tirannicidi che i Persiani avevano rubato ad Atene. 330 a.C. Giunge a Persepolis (Parsa), a Pasargade, poi a Ecbatana, e si impadronisce del tesoro reale persiano. Incendio di Persepoli. Dario III fugge verso l’Ircania, la sponda sudorientale del Mar Caspio, dove il satrapo Besso lo cattura, e, all’arrivo di Alessandro, lo fa pugnalare a morte. 330-327 a.C. Conquista e sistemazione dei regni orientali: Ircania, Partia (attuale Khorassan), Aria (Afghanistan centrale), Drangiana (Sistan), Gedrosia (Makran, Beluchistan meridionale), Aracosia (Afghanistan meridionale, regione di Kandahar). Nel 329 occupa la Battriana. Qui fonda «Alessandria Estrema», «Ultima», a segnare un’altra tappa della sua impresa: la conquista dell’Oriente fino alle frontiere dell’India. 327 a.C. Fondazione della città di Nikaia («Vittoria») a sud di
Kabul (attuale Begram). I Macedoni attraversano il Ghandara e occupano la città di Peucelaotis (attuale Charsadda). Alessandro entra nella regione delle valli del Bajaur, del Dir e del fiume Swat, impadronendosi di città e fortezze. Alla confluenza con l’Indo, gli viene consegnata la città di Taxila. L’esercito macedone si spinge verso il Punjab (la valle formata dai 5 affluenti dell’Indo). 326 a.C. Un re del Punjab, Poros (l’indiano Paurava) sbarra la strada ad Alessandro sulle sponde dell’Idaspe (odierno Jhelum). Alessandro riesce ad avere la meglio sull’esercito indiano e i suoi elefanti da guerra, ma, impressionato dal coraggio del re, lo reinsedia sul trono. Avanza lungo l’Idraote (oggi Ravi) verso il Kashmir e giunge all’Ifasi (Beas), confine ultimo con la valle del Gange. Qui i suoi soldati si rifiutano di procedere e gli impongono il ritorno. L’esercito marcia alla volta della confluenza dei rami dell’Indo. Occupazione del Sindh ed esplorazione del delta del grande fiume.
del Macedone fu forse una forma di damnatio memoriae del suo culto, visto in quel momento come un elemento di disturbo all’immagine dell’altro re, quello dei Giudei, morto anch’esso a 33 anni? E poco importa, in questo caso, se secondo altri il corpo di Alessandro è nascosto sotto mentite spoglie a Venezia, nella cattedrale di S. Marco. Di certo, se il corteo funebre fosse diretto in Macedonia, visti i due anni occorsi per la realizzazione del mastodontico carro aureo, ci sarebbe stato tutto il tempo per allestire un monumento funerario degno di tal nome. Qualcuno ha persino ipotizzato che possa essere identificato con il tumulo reale di Verghina, scoperto nel 1977 da Andronikos.
325 a.C. Alessandro e un esercito di truppe scelte tentano la traversata dei deserti della Gedrosia. L’impresa dura due mesi e si rivela fatale per gran parte dei soldati. Nearco, al comando della flotta, naviga la costa nord del Golfo Persico verso lo Stretto di Hormuz. Di qui raggiunge le bocche del Tigri. Alessandro con i superstiti raggiunge la Carmania (Kerman) e consolida i regni dell’Iran centro-orientale. Restaura con tutti gli onori la tomba di Ciro il Grande, violata a Pasargade. 324 a.C. Alessandro giunge a Susa e si dedica al rafforzamento del regno. Deve sedare una rivolta scoppiata in Mesopotamia tra le sue truppe. Combatte nelle valli dei monti Zagros e procede verso ovest. 323 a.C. Accompagnato da sinistri presagi, Alessandro entra a Babilonia. Vi muore il 10 giugno, all’età di 33 anni, vittima di una malattia o, secondo altre versioni, di avvelenamento, mentre prepara una grande spedizione navale diretta alle coste dell’Arabia.
E se, invece, fosse proprio quello grandioso di Anfipoli? Un sepolcro, quindi, preparato per lui ma mai usato a tale scopo? E, se cosí fosse, a chi appartengono allora le ossa dei cinque individui seppelliti nel gigantesco tumulo? Solo il prosieguo degli scavi, tuttora in corso, potrà forse risolvere il dilemma. Ma la storia di Anfipoli non finisce certo con il dominio macedone: sotto Roma, infatti, a partire dal 168 a.C., la città diventa la capitale della Macedonia Prima e le sue case si affacciano sulla piú importante arteria di comunicazione dell’epoca, la via Egnatia. Anche Paolo di Tarso, la visitò nel 50 d.C., prima di recarsi a Salonicco.
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Da Anfipoli si dipana comunque il sottile filo rosso che lega tutto il territorio sul quale regnò la dinastia degli Argeadi, caratterizzandone le produzioni e le manifestazioni: l’oro macedone. Oro che trasuda da tutti i pori di questa terra, ricca non solo di miniere. E cosí basta spostarsi di poco e raggiungere la già citata Verghina, l’antica Ege, ed entrare nell’eccezionale ricostruzione del tumulo fatto erigere da Antigono II Gonata nel 270 a.C., per evitare probabilmente che si potesse ripetere il saccheggio dei Galati, avvenuto qualche anno prima e narrato da Plutarco nella Vita di Pirro. L’allestimento attuale rende piena giustizia all’importanza dei personaggi lí sepolti e una penombra affascinante avvolge il contrasto di emozioni che pervadono il visitatore. Emergono a poco a poco gli oggetti favolosi che hanno accompagnato i defunti nel loro ultimo viaggio. Dapprima fanno bella mostra di sé, disposte in fila come per una parata militare, alcune stele funerarie dipinte con i nomi dei defunti, unici resti dell’antica razzia; poi incontriamo le spoglie di una tomba distrutta e, salendo di qualche metro ci avviciniamo a un heroon che domina la vicina Tomba di Persefone, purtroppo saccheggiata anch’essa già in
Nella pagina accanto, in alto la facciata della «Tomba di Filippo II», il cui architrave è sormontato da un fregio dipinto raffigurante una battuta di caccia alla quale partecipano Alessandro Magno e il padre.
antico. Per fortuna, però, sono ancora visibili i resti delle pitture con il ratto della dea che dà nome alla sepoltura, databili intorno alla metà del IV secolo a.C.
In sella a Bucefalo L’oro torna prepotentemente alla ribalta nelle vetrine dedicate alla cosiddetta «Tomba di Filippo II», con reperti che sembrano quasi brillare di luce propria. E il vicino ingresso alla tomba rievoca l’ambientazione della fortunata scoperta grazie ai sigilli volutamente lasciati in posto, dominati dall’idilliaco affresco raffigurante una mitica battuta di caccia in cui Filippo uccide un leone sotto lo sguardo del già coronato Alessandro che monta l’irrequieto Bucefalo. Certamente l’immagine che se ne ricava è molto distante da quanto lasciatoci da Demostene nella sua Terza Filippica: «Eppure non solo egli non è un greco e non ha nessuna affinità con noi, ma non è neppure un barbaro originario di una regione che è onorevole menzionare, ma è una peste di Macedone, di una regione dalla quale prima non era nemmeno possibile acquistare uno schiavo di valore». Anche in questo caso, tuttavia, l’attribuzione della tomba al padre della Macedonia non è da tutti accettata. C’è chi ha addirittura
Il Museo Archeologico di Serres Capoluogo dell’omonima prefettura, Serres è la seconda città della Macedonia e il suo Museo Archeologico è allestito in un suggestivo edificio che evidenzia l’articolata storia locale: «Bezesteni» era infatti un mercato al coperto costruito nella seconda metà del XV secolo, durante la dominazione ottomana; venne trasformato in museo nel 1970, quando fu inaugurato esponendo due piccole collezioni che raccoglievano principalmente sculture e iscrizioni di epoca tarda. Nel corso degli anni l’esposizione si è arricchita con i reperti provenienti dai numerosi scavi e siti del territorio, appartenenti un ampio orizzonte cronologico, che va dall’epoca preistorica a quella bizantina. Oggi l’esposizione offre dunque un quadro piú dettagliato sulla vita delle popolazioni che sin dal tardo Neolitico si sono insediate nella regione: nella sezione dedicata alla preistoria
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risultano di particolare interesse i reperti provenienti dall’insediamento di «Promachonas», in prossimità del confine con la Bulgaria: vasi, strumenti in pietra e oggetti in osso lavorato che fanno luce sulle attività quotidiane. In epoca storica, la presenza del fiume Strymon ha consentito lo sviluppo e la comunicazione tra i diversi insediamenti della valle, e ha inoltre favorito i contatti e gli scambi con la Tracia interna e i Balcani: come Sirris (antico nome di Serres), anche Vergi, Argilos e altri centri hanno dunque beneficiato della loro posizione geografica in termini di continuità e di prosperità dell’insediamento, come dimostrano i vasi, le monete, le oreficerie e le sculture rinvenuti nei recenti scavi in atto nel territorio della Prefettura. Le due grandi porte di marmo provenienti dalle tombe di Anfipoli, i frammenti di un letto funebre e alcuni vasi sono gli
riproposto la teoria secondo la quale i resti del corpo di Alessandro Magno, rientrati a Ege proprio sotto il salvatore del tumulo, Antigono II Gonata, sarebbero contenuti dall’urna d’oro rinvenuta in questa tomba. Ma come spiegare, allora, i racconti dei famosi personaggi che gli resero omaggio
In basso veduta del Museo di Serres con, in primo piano, uno dei grandi pilastri che sorreggono l’edificio di età ottomana.
in seguito ad Alessandria, per alcune centinaia d’anni? Si dovrebbe ammettere anche una nascosta sostituzione del cadavere, della quale, però, non vi è traccia. Meno affascinante ma piú realistica sembra la proposta di riconoscere nel tumulo di Verghina, la sepoltura
unici reperti di epoca macedone esposti nel museo di Serres, mentre la successiva epoca romana è ben testimoniata da iscrizioni, statue, vasi e vetri: un ricco repertorio di oggetti, indice della vivacità e prosperità della città che, senza soluzione di continuità, caratterizza ancora l’epoca bizantina, alla quale appartiene anche una solenne icona marmorea raffigurante Cristo Benefattore.
DOVE E QUANDO MUSEO ARCHEOLOGICO DI SERRES Serres, piazza Eleftherias Orario ma-do, 8,00-14,30; lu chiuso Info www.macedonian-heritage.gr
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dell’epilettico Filippo III Arrideo, fratellastro di Alessandro fatto uccidere da Olimpiade nel 317 a.C., magari piú coincidente dal punto di vista cronologico, ma non del tutto convincente in un’ottica storica, poiché mancano all’appello sua moglie Euridice e sua suocera Kynna, che secondo le fonti furono invece seppellite con lui. Anche se non si può escludere che i resti di una giovane donna, rinvenuti nell’anticamera, siano proprio quelli di Euridice. Piú sicura risulta l’attribuzione della Tomba del Principe, anch’essa rinvenuta intatta da Andronikos. Le analisi sui resti ossei suggeriscono che il defunto fosse morto intorno ai 14 anni d’età, mentre il corredo si segnala come inequivocabilmente maschile e riferibile alla fase finale del IV secolo.
Un omicidio da dimenticare Inoltre, la presenza della corona a foglie di quercia in oro rimanda con certezza a un membro della dinastia argeide: indizi in base ai quali l’unico nome possibile è quello di Alessandro IV, figlio di Rossane e di Alessandro Magno, nato nell’anno, il 323 a.C., e nel luogo della morte del padre (Babilonia). L’altro candidato, Eracle, presunto figlio di Barsine e Alessandro, va escluso, dal momento che l’età supposta alla morte doveva essere intorno ai 17/18 anni. I due giovani furono uccisi nel 309 a.C. dalla stessa mano assassina, quella di Cassandro, e vennero seppelliti nella nuda terra, nel tentativo di occultarne l’omicidio. È possibile perciò che sia proprio Eracle il cremato regale rinvenuto nel 2008 all’interno della fossa terragna posta nel recinto del santuario di Eukleia nell’agorà di Ege.
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In alto la moderna ricostruzione del tumulo di Antigono II Gonata a Verghina che racchiude al suo interno l’esposizione museale comprendente le tombe dette «di Filippo II» e «del Principe» con i loro regali corredi. A destra una delle stele funerarie dipinte con iscritto il nome del defunto, probabile residuo della razzia perpetuata ai danni del cimitero macedone dai Galati nel 274 a.C., motivo per il quale Antigono II Gonata realizzò nel 270 a.C. il tumulo «protettivo».
Altri ori, e non solo, provenienti dalle tombe dell’antica Aigai sono destinati al futuro museo di Verghina, in corso di realizzazione, degno riconoscimento alla prima capitale macedone. Ma la storia di questo centro comincia molto prima, già nel III millennio a.C., quando una società ben organizzata costruí i primi tumuli sepolcrali lungo le sponde del fiume Aliacmone. Da allora in poi, gli eventi riguardanti si succedono ininterrottamente,
In basso la facciata di una delle due tombe rinvenute intatte nel 1977 da Manolis Andronikos e forse attribuibile ad Alessandro IV, figlio del «Grande» e di Rossane.
fino a che il sito viene scelto dagli Argeadi come loro residenza principale. L’area urbana è oggi parzialmente visitabile e qui risalta maestosamente il profilo del palazzo reale che sovrasta il teatro in cui, nel 336 a.C., Filippo II perse la vita per mano di Pausania di Orestide e dove il giovane Alessandro venne acclamato dalle truppe suo successore. (segue a p. 96)
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ATENE
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Il tesoro dei Re All’interno del grande tumulo ricostruito sopra le tombe regali di Verghina, è stato allestito un museo che espone i ricchissimi corredi funerari, emersi dagli scavi condotti da Manolis Andronikos.
Nella pagina accanto, dall’alto, in senso antiorario la corazza del re macedone, in ferro decorata in oro, insieme al suo scudo e alla spada. I gambali di bronzo e la faretra aurea decorata con guerrieri in lotta, insieme ad altri oggetti del corredo. La grande larnax e la corona d’oro con 313 foglie di quercia e 68 ghiande, dalla cosiddetta «Tomba di Filippo II». (seconda metà del IV sec. a.C).
In alto particolare del coperchio della larnax, decorata con la stella macedone a 16 raggi. A sinistra urna cineraria d’argento, con la corona d’oro a foglie di quercia, contenente le ceneri di un giovane di 14 anni, probabilmente Alessandro IV, figlio di Alessandro Magno e Rossane.
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Tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., la corte si trasferisce però a Pella, forse topograficamente piú confacente alle nuove strategie di sviluppo che si stavano imponendo in quel momento. Sotto Filippo II, la città diviene un’importante metropoli con una grande agorà centrale, santuari e lussuose case private, come quella di Dioniso e quella del Ratto di Elena riccamente decorate da mosaici, risalenti alla fine del IV secolo a.C.
Città natale del divino Alessandro Qui, il 20 luglio del 356 a.C., nacque Alessandro e, ancora oggi, visitando l’estesa area archeologica, non è difficile immaginarlo bambino mentre viene redarguito dall’epirota Leonida, suo primo e austero maestro, o mentre apprende i segreti dell’oratoria grazie ai suggerimenti di Anaximenes, altro suo insegnante che proveniva dall’Asia Minore. La visita di Pella non può che cominciare dal nuovo Museo Archeologico, grazie al quale si rinnova il legame con il metallo piú prezioso: qui intere parure auree arricchiscono i corredi delle sepolture piú aristocratiche. D’oro sono anche le corone regali che da sempre studia Sulle due pagine il pavimento a mosaico nell’agorà di Pella. III sec. a.C. Nella pagina accanto l’interno del Museo archeologico di Pella.
Il Museo Archeologico di Pella L’antica Pella fu scelta quale capitale del regno di Macedonia da Archelao I (413-399 a.C.), che nel suo palazzo reale ospitò musicisti, poeti e tragediografi, come Euripide, nonché artisti come Zeusi, il piú noto pittore dell’antichità. La città diede poi i natali a Filippo II (nel 382 a.C.) e a suo figlio, Alessandro Magno (nel 356 a.C.): i loro nomi rievocano dunque un passato importante ed è per questo che la visita agli scavi archeologici, dove si cammina tra antiche domus, edifici pubblici e santuari, è un’esperienza emozionante. Come la visita al Museo archeologico, allestito in un edificio moderno alla periferia del piccolo abitato odierno, collocato a metà tra l’area degli scavi dell’agorà antica a sud, e quella del Palazzo reale, poco piú a nord. Come in uno scavo stratigrafico, i tre diversi livelli del museo, in comunicazione con l’antico sito attraverso le vetrate della struttura, narrano la storia di Pella e dei suoi abitanti, primo fra tutti Alessandro Magno, ritratto in una raffinata testa marmorea che lo presenta con il capo leggermente reclinato e incorniciato da capelli.
La ricostruzione di una porta lignea introduce alla sezione sulla vita quotidiana degli abitanti di Pella, le cui residenze erano sontuosamente decorate da pavimenti musivi, che raffigurano scene di caccia o immagini tratte dalla mitologia e realizzati utilizzando come tessere piccoli ciottoli. La vita quotidiana è indagata poi attraverso gli oggetti di uso quotidiano, l’abbigliamento e gli utensili rinvenuti negli scavi. Altro tema dell’esposizione riguarda la vita pubblica: i reperti provengono principalmente dall’agorà. Si tratta di iscrizioni, monete e sculture monumentali che illustrano gli aspetti relativi all’amministrazione della città, mentre un ampio repertorio di ceramiche introduce al tema delle produzioni locali e dei commerci. Oggetti votivi e mosaici provenienti da santuari affrontano il sentimento religioso degli antichi abitanti di Pella, i cui rituali funerari sono trattati nell’ultima sezione tematica del museo.
DOVE E QUANDO MUSEO ARCHEOLOGICO DI PELLA Strada Statale Salonicco-Edess Orario estivo: lu, 12,30-21,00; ma-ve, 8,00-21,00; sa e do, 8,30-17,00; invernale: ma-do, 8,00-14,30, lu chiuso Info www.pella-museum.gr
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Bettina Tsigarida, la direttrice del museo e degli scavi. E proprio grazie a lei e a Nikolas Zirganos (un giornalista greco), che un’operazione di polizia internazionale è riuscita a smascherare un’organizzazione dedita a traffici illeciti di opere d’arte e a far rientrare dal J. Paul Getty Museum di Malibu la famosa corona intrecciata di foglie e fiori di mirto che oggi apre sontuosamente il percorso espositivo del Museo Archeologico di Salonicco.
Una posizione felice Bettina Tsigarida si occupa anche di un altro importante centro impregnato di storia macedone: Olinto. La felice posizione dominante sull’incontaminata baia di Cassandra ha fatto di questa città, sin dall’epoca della sua fondazione per mano calcidese, nel VI secolo a.C., merce ambita per gli Ateniesi, per gli Spartani e per i Macedoni. Citata anche da Demostene nelle Olintiche, pronunciate inutilmente un anno prima della sua distruzione per convincere Atene a intervenire in sua difesa, fu poi rasa al suolo nel 348 a.C. da un inferocito Filippo II, che ridusse in schiavitú tutti i sopravvissuti. Il benessere raggiunto da Olinthos, soprattutto nel periodo in cui fu a capo della Lega Calcidica, filtra ancora oggi tra le rovine che occupano le due piatte colline, affacciate sull’omonimo fiume in prossimità della foce. Allontanandoci di poco, in direzione est, si raggiunge un altro dei luoghi mitici macedoni: Stagira. Meta straordinariamente evocativa per aver dato i natali ad Aristotele (384 a.C.), presenta comunque una lunga storia che
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In alto il corredo aureo da una delle tombe di Pella. In basso un’altra immagine del mosaico dalla Casa a peristilio di Pella, con Alessandro ed Efestione a caccia del leone. 320 a.C.
Pella. Statua equestre di Alessandro Magno a cavallo del suo Bucefalo. L’opera, di epoca moderna, è una riprova dell’immortalità del mito del Macedone.
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Il Museo Archeologico di Salonicco Il Museo Archeologico di Salonicco espone i tesori dell’antica Macedonia, supportandoli con un coinvolgente apparato didattico multimediale, all’interno di un edificio che, progettato nel 1962 dal noto architetto greco Patroklos Karantinos, è stato oggetto di recenti ampliamenti. Non si tratta solamente di un museo, ma di un vero e proprio centro di cultura: oltre all’esposizione permanente e alle mostre temporanee, vi si svolgono conferenze, seminari, eventi e programmi didattici. L’esposizione
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si divide in sette sezioni tematiche. La vita degli abitanti di questa nobile regione è indagata sin dalla preistoria: le risorse alimentari, la fabbricazione di utensili, i costumi funerari, l’apparire di una differenziazione sociale in epoca micenea e la rete di scambi che si amplia con il progredire della storia. Un fenomeno che viene quindi approfondito nella sezione dedicata alla nascita delle città, indagata nel divenire delle dinamiche sociali che hanno portato alla specializzazione delle attività e alla nascita di un potere riconosciuto e centrale. Trasformazioni che si riflettono negli articolati ritrovamenti effettuati nelle necropoli dell’età del Ferro (XI-VIII secolo a.C.) della regione. La Macedonia dal VII secolo a.C. fino alla tarda antichità è il tema della terza sezione, una storia che va dall’avvento della sovranità macedone fino all’età romana, attraverso l’epopea di Alessandro Magno e degli Argeadi, le cui tombe sono mirabilmente descritte grazie a un innovativo apparato didattico multimediale. La proiezione di rappresentazioni teatrali di drammi greci e l’esecuzione di musiche antiche, effettuata grazie allo studio dei simboli musicali raffigurati su una stele del III secolo a.C. rinvenuta a Vrasna, nella provincia di Salonicco, rendono particolarmente suggestiva la visita di questa parte del museo. È dunque la volta della storia di ThessalonikiSalonicco: una metropoli antica svelata non solo attraverso i reperti rinvenuti nell’area urbana, dove si imponeva il palazzo voluto da Galerio, ma anche dalle statue che narrano della dominazione romana e dalle architetture sapientemente riproposte. L’ oro di Macedonia è uno dei veri protagonisti della storia di questa regione dell’antica Grecia e, di conseguenza, anche del museo. Al prezioso metallo, alle tecniche di estrazione e di lavorazione, e alle associazioni con le credenze e i rituali di vita e di morte è dedicata la quinta sezione dell’esposizione permanente, che presenta tra i molti reperti provenienti dalle necropoli della regione, un capolavoro della toreutica antica, il «Cratere di Derveni». Si tratta di un’urna cineraria alta ben 91 cm, appartenuta ad Astion, che fu ufficiale tessalo dell’esercito di Filippo II, il cui
nome è scritto in lettere d’argento applicate sull’orlo del cratere. Il vaso è in bronzo dorato, arricchito da raffinate decorazioni a sbalzo e statuine applicate raffiguranti Dioniso, Arianna, menadi, satiri danzanti e altri personaggi che compongono un insieme dal significato escatologico complesso, nel quale è inoltre possibile individuare precisi rimandi alla tragedia di Euripide, Baccanti, scritta a Pella, città della Macedonia, presso la corte del re Archelao. Una moneta d’oro di Filippo II, rinvenuta all’interno del cratere, ha consentito di datare lo splendido vaso a un periodo compreso tra gli anni finali del regno di Filippo II e l’inizio del regno di Alessandro. Ne fu artefice forse Antipatro, citato da Plinio come uno tra i toreuti celebri dell’antichità (Naturalis Historia, XXXIII, 156). Le ultime due sezioni sono di recente allestimento: un’area a cielo aperto, «Memorie di pietra», con
comincia già alla metà del VII secolo a.C. quando alcuni coloni provenienti dall’isola di Andros la fondarono. Prima distrutta e poi ricostruita in onore del filosofo da Filippo II, Stagira sorge in posizione arroccata nella penisola di Liotopi. Gli scavi hanno messo in luce resti di edifici e porzioni dell’imponente cinta muraria, rendendo la visita, insieme alla posizione quasi a strapiombo sul mare, particolarmente suggestiva.
Sentinella del golfo Altro breve spostamento e si raggiunge Salonicco, la città che controlla il Golfo Termaico. Anche questo centro ha un passato macedone: fu infatti fondata alla fine del IV secolo a.C. da Cassandro, che la chiamò Thessalonike, in onore della sua sposa e forse
monumenti funerari, sarcofagi e altari provenienti dalle necropoli; e «Macedonia». Dai frammenti ai pixel, un allestimento all’avanguardia dove, grazie alle tecnologie avanzate, l’archeologia e la storia della Macedonia sono riproposte come esperienze interattive e dove il gioco si trasforma in conoscenza attraverso rappresentazioni digitali degli antichi reperti e appassionanti viaggi nel tempo e nello spazio.
DOVE E QUANDO MUSEO ARCHEOLOGICO DI SALONICCO Salonicco, Manolis Andronikos, 6 Orario tutti i giorni, 9,00-16,00; chiuso 25 e 26 dicembre, 1° gennaio, 25 marzo, 1° maggio e domenica di Pasqua Info www.amth.gr
Nella pagina accanto il «Cratere di Derveni», in bronzo dorato. Alto ben 91 cm, è oggi simbolo stesso del museo. In alto la corona a foglie di mirto in oro. Il reperto, oggi esposto al Museo di Salonicco, è rientrato dagli Stati Uniti grazie alla scoperta di un traffico illecito di opere d’arte.
sorella di Alessandro Magno. Dopo la conquista romana, Salonicco diventò, nel 146 a.C., capitale della provincia di Macedonia e, poco a poco, estese il controllo anche sulla Mesia, sulla Tracia e sull’Illiria. Galerio volle qui realizzare, nel III secolo d.C., un grande arco per celebrare la vittoria sui Persiani e vi fece erigere il suo mausoleo. Posta al centro di uno straordinario golfo che separa momentaneamente la Penisola Calcidica dalla terraferma, Salonicco è una città dalla doppia anima, con lo sguardo proteso verso Bisanzio e l’Oriente, ma con le spalle ben appoggiate al roccioso massiccio dell’Olimpo. Una storica dicotomia, della quale soffrí anche il piú grande dei Macedoni. Costantemente in bilico tra il rispetto della tradizione e l’ansia della scoperta.
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Il mare dentro La Penisola Calcidica è un fantastico gioco di scatole cinesi in cui il mare si alterna d’improvviso alla terra e dove la storia s’incrocia con il mito. Antico e privilegiato molo macedone, diede i natali al piú grande dei filosofi: Aristotele. Da sempre magico scrigno di misteri e di misogini ordini religiosi, deve il suo nome ad arcaici fondatori partiti dalla città di Calcide, in Eubea. La scura piramide del Monte Athos (2033 m) si erge prepotentemente da quel tumultuoso mare che si insinua provocatorio fra le tre «dita» sporgenti, arrivando a lambire il cuore interno della regione. Mare che entra tra le rocce ripide e verdeggianti, ma anche, e soprattutto, nei costumi e nell’animo
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della gente. Le coste frastagliate sono infatti tappezzate di insediamenti, a volte minuscoli, che spesso si sovrappongono a presenze piú antiche, con l’unica grande eccezione rappresentata dal territorio amministrato dalla Repubblica Monastica autonoma del Monte Sacro (o Athos). La visita ai suoi celebri monasteri bizantini è consentita solamente per motivi di studio o religiosi e per pochi giorni; alle donne è, ancora oggi, interdetto l’accesso. Ma l’alone mistico che circonda il monte ormai da piú di mille anni si intuisce facilmente anche dal ponte dei numerosi battelli che quotidianamente ne inseguono il profilo. Risale infatti al 963 la fondazione della prima comunità (lavra) da parte di sant’Atanasio, nel luogo in cui oggi sorge il monastero della Grande Lavra (Megiste Lavra) e solo nove anni piú
Calcidica
Nigrita
Salonicco
Laptokarya
Kavala
Stavros Stagira
Akanthos Ouranopolis Olinthos Psakoudia Dafni Monte Kallithea Athos Toroni
tardi venne emanata la prima costituzione teocratica. Una visita della Calcidica non può che cominciare da Stagira, nell’alta costa orientale. Meta straordinariamente evocativa per essere stata la città natale di Aristotele (384 a.C.) e, secondo le ultime ricerche, forse anche il suo luogo di sepoltura, vanta comunque una lunga storia, che comincia già alla metà
del VII secolo a.C. quando venne fondata da coloni provenienti dall’isola di Andros. Prima distrutta e poi ricostruita in onore del grande filosofo da Filippo II, Stagira sorge in posizione arroccata nella Penisola di Liotopi. Gli scavi hanno messo in luce alcuni edifici e alcune porzioni dell’imponente cinta muraria rendendo la visita, insieme alla
posizione quasi a strapiombo sul mare, particolarmente suggestiva. Abbandonata Stagira, in direzione sud, verso il Monte Athos, si incontra il moderno centro di Ierissos, sviluppatosi sull’area della necropoli dell’antica Akanthos. Dall’alto di una ondulata collina, essa domina, ormai inutilmente, l’area funeraria disposta su uno dei
Sulle due pagine il tratto terminale della penisola di Hàgion Oros, il «dito» orientale della Calcidica, sul quale svetta il Monte Athos, che raggiunge i 2033 m. In basso Stagira. I resti della poderosa cinta muraria che proteggeva la città, celebre per avere dato i natali ad Aristotele, nel 384 a.C.
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CALCIDICA
pochi tratti di costa bassa e sabbiosa, interrotta, a sud, da un allungato promontorio roccioso che raggiunge ripidamente il mare. Nel piccolo golfo si è impiantato l’odierno porticciolo, principalmente a servizio dei pescatori. Fondata anch’essa da coloni provenienti da Andros nel VII secolo a.C., Akanthos assunse una certa importanza nella regione. Successivamente, nel 424 a.C., durante la guerra del Peloponneso, si arrese allo spartano Brasida e la sua indipendenza fu poi garantita da Sparta e da Atene nella pace di Nicia 421 a.C. Venne quindi incorporata dal regno di Macedonia e, nel 200 a.C., durante la seconda guerra macedonica, fu saccheggiata dai Romani. Lo scavo della necropoli ha consentito il recupero di oltre 13 000 tombe, realizzate tra il VII secolo a.C. e l’epoca romana imperiale; sicuramente d’effetto
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è il recente allestimento quale museo all’aperto di una piccola ma significativa porzione del sepolcreto. A pochissima distanza, in prossimità di Nea Roda e in direzione di Tripiti, è ancora riconoscibile a occhio nudo la depressione del cosiddetto Canale di Serse, un’opera di ingegneria militare persiana descritta da Erodoto e confermata da recenti studi. Probabilmente, nel 480 a.C., il canale permise la navigazione della flotta persiana, evitando le insidie del pericoloso periplo del promontorio di Athos, che avevano precedentemente causato il disastroso naufragio della spedizione guidata dal generale Mardonio nel 492 a.C. Comunque già allo stesso Erodoto dovette sembrare sproporzionata l’idea di tagliare l’istmo piú orientale per consentire il passaggio in sicurezza
delle navi, tanto che attribuí il fatto alla smisurata ambizione del re persiano. Forse, l’ipotesi piú credibile è quella che, come nel caso del ponte di barche sull’Ellesponto, interpreta l’opera come il tentativo di Serse di attuare una sorta di guerra psicologica preparatoria all’invasione della Grecia. Continuando verso Ouranopolis, ultimo porto prima del confine con il Monte Athos, si apre la splendida baia dominata dall’elegante Isola di Amouliani e dai suoi isolotti satelliti. A Ouranopolis, in prossimità dell’imbarco, fa bella mostra di sé una torre bizantina perfettamente conservata, costruita nel XII secolo e conosciuta anche con il nome di Phosphori. Superata la cittadina, si segue la costa sino alla frontiera con la Repubblica Monastica e proprio qui è possibile visitare il Monastero Zygou,
recentemente restaurato. Venne fondato prima dell’anno Mille e dedicato al profeta Elia; nel 1206 venne poi trasformato in una fortezza franca. Tornati a Ierissos, si lascia alle spalle la penisola del Monte Athos per quella di Sithonia, dirigendoci direttamente quasi sulla punta, in località Toroni. Qui, sullo splendido promontorio delicatamente poggiato su di una lingua di spiaggia bianca, gli scavi iniziati nel 1975 hanno messo in evidenza una frequentazione che ebbe inizio almeno a
partire dall’età del Bronzo Antica. Una grande necropoli a incinerazione compresa tra l’XI e il IX secolo a.C., strutture murarie di età classica ed ellenistica, bizantina e post-bizantina dimostrano appunto come la località sia stata frequentata per un lunghissimo arco cronologico. Lasciamo Sithonia e ci spostiamo sulla Penisola di Kassandra, in località Kallithea, dove, a seguito di lavori edilizi, sono riemerse le strutture del Tempio di Zeus Ammone, eretto nel IV
Nella pagina accanto Olinthos. Resti dell’impianto urbano della città, fondata nel VI sec. a.C. da coloni calcidesi. In alto Monte Athos. Il complesso monastico di S. Anna Maggiore (al centro della foto)
compreso nella Megiste Lavra, il piú importante degli insediamenti religiosi, fondato nel 963 da sant’Atanasio. In basso Kallithea. Resti del tempio dedicato a Zeus Ammone.
secolo a.C. e piú volte rimaneggiato. Nelle sue vicinanze, all’interno di una grotta, sono state trovate tracce della pratica di culti legati a Dioniso, almeno sin dal VI secolo a.C., mentre nell’area sono stati rinvenuti materiali risalenti all’età del Bronzo. Sull’altra costa, quella occidentale, a Capo Possidi, si trova una struttura templare affacciata sul mare e dedicata a Poseidone, dove sono ancora visibili le tracce di due edifici di culto. Nelle vicinanze, vale una sosta la città di Mende, fondata da coloni provenienti da Eretria con tracce risalenti già all’età del Bronzo. Si può quindi risalire nell’interno, sino a raggiungere Olinthos. La felice posizione dominante sull’incontaminata baia ha fatto di questa città, sin dall’epoca della sua fondazione per mano calcidiese, nel VI secolo a.C., un sito ambito da Ateniesi, Spartani e Macedoni. Citata anche da Demostene nelle Olintiche, pronunciate inutilmente un anno prima della sua distruzione per convincere Atene a intervenire in sua difesa, fu poi rasa al suolo nel 348 a.C. da un inferocito Filippo II, che ridusse in schiavitú tutti i sopravvissuti. Il benessere raggiunto da Olinthos, soprattutto nel periodo in cui fu a capo della Lega Calcidica, filtra ancora oggi tra le rovine che occupano le due piatte colline, affacciate sull’omonimo fiume in prossimità della foce. Carlo Casi
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UN’ALTRA
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Vicine, non solo geograficamente, all’Italia, le isole dello Ionio custodiscono testimonianze archeologiche di eccezionale importanza. E, soprattutto, evocano le vicende di uno dei piú celebri «viandanti» della storia, l’astuto Ulisse, re di Itaca e artefice della vittoria achea sui Troiani
di Tsao T. Cevoli e Lidia Vignola
Corfú. La fortezza di Angelokastro, sulla costa nordoccidentale dell’isola, nei pressi di Palaiokastritsa.
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ISOLE IONIE ALBANIA
L
Arta Lefkada (Leucade)
e ni Io
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Ioannina Igoumenitsa
Kèrkyra (Corfú)
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a posizione geografica ha segnato il destino delle Isole Ionie, facendo dell’arcipelago una terra di mezzo, una Grecia alle soglie dell’Occidente. Ogni luogo qui rievoca miti e leggende di mari e di naviganti, cela le rovine delle civiltà che nel corso dei millenni si sono contese questa collocazione strategica nel Mediterraneo: dai resti in cui Heinrich Schliemann volle riconoscere la reggia di Ulisse, alle tracce del passaggio dei Romani, dei Bizantini, dei Veneziani e degli Ottomani. Nelle Isole Ionie ogni pietra e ogni luogo è un concentrato di storie e leggende, una chiave per viaggiare con la fantasia in un passato mitico. Il modo migliore per affrontare un viaggio in questi luoghi è portare con sé l’Odissea e farsi guidare, come Heinrich
Katerini Grevena Trikala Larissa
Volos
GRECIA Lamia
Agrinion
Amfissa
Calcide
Missolungi
Ithake (Itaca)
Patrasso
Megara Corinto
Zakhyntos (Zacinto)
In basso Ulisse e Nausicaa, olio su tela di Michele Desubleo. Dopo il 1564. Napoli, Museo di Capodimonte.
Mar Egeo
Pirgo
Tripolis
Pe l o p o n n e s o Kalamata Sparta
Atene
Un’isola contesa Le ricerche archeologiche rivelano che i primi insediamenti umani a Corfú risalgono all’epoca paleolitica. L’isola entra poi nella storia intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. circa, quando si popola di colonie fondate da genti provenienti dall’Eubea e da Corinto. La convivenza tra Corfioti e Corinzi è a tratti pacifica e proficua, a tratti conflittuale: Tucidide riferisce, infatti, di una battaglia navale combattutasi tra Corfú e Corinto, all’altezza del promontorio di Lefkimmi (435-434 a.C.). Piú tardi l’isola entra volentieri nell’orbita romana. I Corfioti vedono in Roma un’ancora di salvezza contro le incursioni dei pirati e, in effetti, sotto il dominio romano Corfú vive un periodo di relativa pace e prosperità, sfruttando al meglio la sua posizione strategica, sia militare che commerciale, tra Roma e l’Oriente. Piú tardi, per questo stesso motivo, nei secoli del declino e della caduta dell’impero romano sarà tra le prime vittime delle grandi invasioni barbariche, fino al travolgente attacco dei Goti nel VI secolo, che costringe gli abitanti dell’isola ad
In alto replica in dimensioni ridotte dell’Afrodite Cnidia di Prassitele. Corfú, Museo Archeologico.
abbandonare definitivamente le coste e a cercare riparo nell’entroterra. A contendersela nel Medioevo sono inizialmente i Bizantini e i Normanni, ma, alla fine, a spuntarla fra i due contendenti è la Serenissima di Venezia, che riesce a conquistare Corfú e a tenerne poi saldamente il controllo per ben quattro secoli (dal 1386 al 1796), facendone uno dei capisaldi della difesa degli interessi veneziani nel Mediterraneo contro l’avanzare dell’impero ottomano. L’illuminata politica di Venezia, che lascia ai Corfioti molte libertà in campo religioso ed educativo, assicura all’isola una stagione florida, sottraendola, tra le pochissime aree della Grecia moderna, alla pesante esperienza del dominio ottomano. Le successive dominazioni, prima francese, con Napoleone Bonaparte, e poi britannica, fanno di Corfú, divenuta capitale di una sorta di Stato unitario delle Isole Ionie, seppure ancora sotto controllo straniero, una delle zone piú sviluppate della Grecia: a quest’epoca risalgono, infatti, la nascita dell’Accademia Ionica delle Scienze e delle Arti, della Biblioteca e della prima Università greca. Nel 1864 l’isola viene infine annessa alla Grecia.
Schliemann, dal racconto dell’avventuroso viaggio del re di un minuscolo regno pietroso, da parole che hanno fatto e fanno sognare lettori antichi e moderni.
Alle porte dell’Occidente La prima delle Ionie che si raggiunge in traghetto, sia direttamente dall’Italia, sia dalla Grecia continentale, è Corfú, Kèrkyra in greco. Si approda nell’omonima città capoluogo dell’isola (Kèrkyra), il cui porto è il principale accesso. La vista che ci accoglie è quella di una vera e propria città portuale, con un lungomare affollato di alberghi, ristoranti, bar, agenzie di viaggio e autonoleggi. E, soprattutto, i colori e le architetture ci fanno subito capire come,
rispetto all’Egeo, le Isole Ioniche siano un altro mondo: una Grecia vissuta per millenni alle porte dell’Occidente, nutritasi dei suoi gusti e della sua cultura, prosperata proprio grazie a questa privilegiata condizione di «ponte». Secondo la leggenda, il nome dell’isola deriva dalla ninfa Kèrkyra, nata dal fiume Asopò e amata da Poseidone, che qui concepí con lei Feacas, capostipite dei Feaci. Apollonio di Rodi ricorda l’isola come luogo di sosta per Giasone e gli Argonauti nel viaggio alla conquista del Vello d’Oro. Ma il racconto piú celebre è quello che ha come protagonista Ulisse. Omero la chiama «Schería», e la dice abitata dal popolo dei «Feaci felici». Qui fa approdare, naufrago,
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Lo sguardo che fulmina Le collezioni del Museo Archeologico di Corfú confermano l’importanza dell’isola nell’antichità. Opere d’arte e reperti testimoniano lo splendore raggiunto da Kèrkyra soprattutto tra il VI e il V secolo a.C. Tra i materiali esposti, spicca un frontone con una scena di banchetto, rinvenuto nel 1973 e che probabilmente decorava un tempio dedicato a Dioniso, e la statua leonina arcaica, risalente al 600 a.C. circa, rinvenuta nel 1843 a Garitsa, che un’epigrafe in alfabeto corinzio ci informa essere il monumento funebre che gli abitanti dell’isola vollero dedicare a Menecrate, un benefattore di Corfú morto in un naufragio. A farla da padrone su tutta l’esposizione, tanto da occupare un’intera sala del museo, è però il frontone del tempio dorico di Artemide, alto 2,60 m e largo ben 17 m, risalente ai primi decenni del VI secolo a.C. Sul manufatto compare una delle raffigurazioni della Gorgone piú celebri di tutta l’arte greca: con la corta veste da cacciatrice è affiancata da due pantere ai lati, in posizione araldica, ma anche dai due figli Pegaso e Chrysaor, contravvenendo alla leggenda secondo la quale essi sarebbero nati, invece, dal tronco della Gorgone insieme al sangue sgorgato quando Perseo la uccise tagliandole la testa.
l’eroe, quando, dopo essere riuscito a sfuggire a Calipso, non riesce a raggiungere Itaca perché l’irato Poseidone trasforma la sua nave in roccia. A trovarlo sulla spiaggia sarà la figlia del re Alcinoo, la bella Nausicaa dalle bianche braccia, che lo raccoglie e lo porta alla reggia, dove sarà curato e ristorato, come impone il dovere di ospitalità, uno dei valori piú sacri degli antichi Greci. Qui Odisseo ricorda e narra le innumerevoli avventure trascorse a causa
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dell’ira di Poseidone, che da dieci anni lo fa vagare nei mari senza raggiungere Itaca. Commosso, Alcinoo promette aiuto a Odisseo: saranno proprio cinquantadue giovani Feaci, robusti e abili marinai, a riportarlo a Itaca, sfidando i flutti del mare e l’ira di Poseidone. Ma la vendetta del dio non tarderà ad arrivare: al ritorno da Itaca, quando la loro nave è ormai prossima all’approdo a Schería, affinché tutti i Feaci assistano dalla riva alla punizione divina,
A sinistra il frontone occidentale del tempio dorico di Artemide (della cui facciata, in alto, si propone la ricostruzione grafica). Primi decenni del VI sec. a.C. Kèrkyra, Museo Archeologico di Corfú. Lo spazio centrale è occupato dalla gigantesca Gorgone in veste di cacciatrice, affiancata dai figli, Pegaso e Chrysaor.
In alto una veduta della chiesa bizantina della Panaghia Vlacherna sull’isola di Corfú.
egli la colpirà e la trasformerà in pietra. Diversi sono i luoghi di Corfú tradizionalmente legati a questa leggenda: l’isolotto di Karavi (che in greco significa appunto «nave») nella baia di Aghios Georghios ton Pagon, dalla forma simile proprio a una nave, nella quale già Plinio riconosceva la nave pietrificata dei Feaci.
Come una nave pietrificata Ma anche l’isolotto di Pontikonissi (letteralmente «Isola dei Topi»), raggiungibile con barche a vela o a motore dalla penisola di Kanoni, per visitare la chiesa bizantina del Pantokrator, partendo dalla suggestiva piccola baia del monastero di Vlacherna, che è a sua volta un piccolo isolotto unito alla terraferma da uno stretto ponte. E infine Kolovri, un isolotto situato nello splendido golfo di Paleokastritsa, poco piú grande di uno scoglio, che la tradizione identifica, invece, con la nave
pietrificata di Ulisse. Dall’archeologia arriva la conferma del mito: già nell’antichità Kèrkyra era una città marinara, il cui porto, detto «di Alcinoo», che coincide con l’odierno golfo di Garítsa, fu attivo probabilmente dall’età arcaica sino a quella romana, con funzioni prevalentemente militari. La città fu distrutta dalle truppe di Ottaviano nel 31 a.C., poco prima della vittoria decisiva che il futuro Augusto riportò ad Azio contro le truppe di Marco Antonio.Verso la fine del secolo le sue macerie furono utilizzate addirittura per far avanzare la linea di costa: un’azione ripetutasi anche in epoca medievale. La scoperta delle rovine dell’antico porto nel corso di scavi di emergenza, ha spinto le autorità a espropriare la zona per farne un’area archeologica. Della città antica sono stati portati alla luce alcuni resti nel sito noto come Palèpoli, la cui fondazione, alla fine dell’VIII secolo a.C., si
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deve a genti provenienti da Corinto. La sua vita sembra proseguire ininterrottamente durante l’epoca ellenistica e romana, forse fino al V secolo d.C. Lo attestano diverse testimonianze archeologiche, tra cui terme decorate da mosaici, un odeion e una basilica paleocristiana. Le prime scoperte sull’isola risalgono al XIX secolo, all’epoca del dominio britannico. Tra i pionieri dell’archeologia a Corfú primeggia Wilhelm Dörpfeld (1853-1940), l’architetto-archeologo che già era stato il braccio destro di Schliemann in molte delle sue imprese. A lui si deve, nel 1914, la scoperta di alcuni edifici dell’antica acropoli di Kèrkyra sulla collina di Anàlipsis, esplorati poi in modo estensivo solo negli anni Sessanta. Si tratta delle rovine di un santuario dedicato a Era, che oggi si possono ammirare in un suggestivo scenario naturale. Nel 1831 l’acropoli ebbe infatti la fortuna di essere inglobata nel grande parco naturale realizzato tutt’intorno al Mon Repos Palace, la reggia estiva dei sovrani della Grecia. Del complesso, purtroppo oggi quasi del tutto distrutto, restano strutture risalenti alla fine del VII secolo a.C. e al V secolo a.C. Il santuario viene definitivamente abbandonato in età ellenistica. Il centro della città antica era l’agorà, di cui sono stati finora portati alla luce scarsi resti. Del suo millenario ruolo di ponte tra le due anime del Mediterraneo, Corfú conserva memoria anche nelle architetture. Il lungomare
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del capoluogo è dominato dal Neo Frourío (la «Fortezza Nuova»), sulla cui porta, oggi quasi nascosta tra le palme in Platía Spilià, domina il leone alato, segno del dominio della Serenissima su questi mari. E, non a caso, entrambe le fortezze della città, la vecchia e la nuova (dette rispettivamente Palió Frourío e Neo Frourío), furono progettate da celebri architetti veneziani. Riparate e modificate a piú riprese, per adeguarsi progressivamente alle esigenze difensive richieste dall’evoluzione della tecnica bellica, sono rimaste in uso praticamente fino ai nostri tempi.
Le due anime dell’isola Per trovare il volto piú caratteristico di Kèrkyra dobbiamo però abbandonare il lungomare, lasciando l’automobile, e addentrarci a piedi nella «città vecchia», dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Tra le prime particolarità che si incontrano vi è il campanile della chiesa di Aghios Spirídion. La chiesa, che oggi custodisce in un sarcofago d’argento i resti del santo, oggetto di grande devozione, è, con il suo soffitto splendidamente affrescato e le sue architetture, un tipico esempio di commistione tra Oriente e Occidente. Tutta la città vecchia è un dedalo di viuzze, con edifici, spesso in stile veneziano, alti e addossati gli uni agli altri: soluzione resasi necessaria al tempo della minaccia ottomana, per offrire rifugio a una crescente popolazione
In alto Corfú, Il tempio dorico a Kardaki, presso l’antica Paleopolis, immerso nel parco della residenza neoclassica del Mon Repos, sulla penisola di Kanóni. Fine del VI sec. a.C. Nella pagina accanto particolare dell’Achille morente, una delle sculture neoclassiche di Ernst Herter che decorano i giardini dell’Achilleion, la villa voluta dall’imperatrice Elisabetta d’Austria, sull’isola di Corfú, a pochi chilometri da Kèrkyra.
nel ristretto spazio disponibile. Nel centro di Kèrkyra c’è posto persino per un piccolo angolo in stile parigino: è il Liston, la lunga strada porticata, progettata nel 1807, durante il breve dominio francese sull’isola. A volerne la costruzione fu lo stesso Napoleone, che desiderava per Corfú una via simile alla rue de Rivoli di Parigi. Davanti c’è la distesa erbosa dell’Explanade, la piazza piú grande di Corfú, nata come piazza d’armi in epoca veneziana e poi trasformata in giardino dai Francesi. Intorno si conservano alcuni tra i piú importanti palazzi nobiliari dell’epoca, tra cui il palazzo dei Santi Michele e Giorgio, oggi sede del Museo d’Arte Asiatica, una raccolta unica nel suo genere, che custodisce 11 000 opere d’arte e oggetti provenienti da tutta l’Asia. Tra i manufatti esposti si trovano vasi cinesi in bronzo risalenti alla fine del II millennio a.C., idoli cinesi dal VI al
IX secolo d.C., porcellane cinesi di ogni epoca, armi e armature dei samurai giapponesi dal XVI al XVIII secolo, stampe, ecc. Spiccano inoltre alcune statue di provenienza asiatica ma di chiara influenza ellenistica, frutto di quella commistione di stili e culture prodotta dalle conquiste di Alessandro Magno.
La residenza di Sissi A circa dieci chilometri dal capoluogo si trova l’Achilleion, la splendida residenza fatta costruire dall’imperatrice Elisabetta d’Austria, piú nota come Sissi. I restauri hanno fatto rinascere l’edificio dalle ferite delle due guerre mondiali, e si può ammirarlo con i suoi lussuosi arredi di tipico gusto ottocentesco, e i suoi profumati e freschi giardini, che sono un vero e proprio inno alla classicità, con decine di statue di marmo e di bronzo che riproducono alcuni dei massimi capolavori dell’arte greco-romana. A esse si aggiungono originali opere di stile neoclassico, tra cui l’Achille morente, capolavoro di Ernst Herter, che mostra l’eroe dolorante nel suo tentativo estremo di strappare via la freccia che gli ha fatalmente trafitto il tallone. Corfú è famosa anche per le spiagge: da Paleokastritsa, perfetta combinazione di costoni rocciosi, bianchi arenili e natura lussureggiante, a Sidari, sulla costa nord-occidentale, dall’acqua calda e la soffice sabbia argillosa, meta prediletta degli innamorati, per via della leggenda secondo la quale le coppie che fanno il bagno nel Canale dell’Amore resteranno unite per tutta la vita. Infine Logas, con le sue spiagge difficili da raggiungere e forse proprio per questo cosí spettacolari. Agli amanti della montagna Corfú offre, invece, il Pantokrator (914 m), nella zona nord-orientale dell’isola, dalla cui vetta cui lo sguardo può spaziare fino alle coste dell’Epiro e dell’Albania. Un’isola e una penisola allo stesso tempo: questa è oggi Lefkada, grazie al ponte mobile rotante che la divide dalla terraferma, consentendo, alternativamente, il transito sia alle barche, che ai veicoli. A Lefkada si può
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dunque arrivare in auto o in bus, seguendo da Igoumenitsa la costa in direzione sud, passando da Preveza e da punti panoramici di rara bellezza, dai quali lo sguardo domina le Isole Ionie, e poi attraversando il nuovo tunnel sottomarino di Aktion.
Alla ricerca dell’Itaca omerica Anche a Lefkada, come a Corfú, le prime importanti scoperte archeologiche si devono a Wilhelm Dörpfeld, che finalizzò le sue ricerche a un obiettivo ben preciso: portare a termine la piú grande impresa archeologica incompiuta dello scopritore di Troia e Micene, Heinrich Schliemann, la scoperta dell’Itaca omerica. In particolare, concentrò la sua attenzione sulla zona di Nydrí, al centro della costa orientale di Lefkada, oggi una delle piú rinomate località turistiche dell’isola.Tra il 1908 e il 1913 Dörpfeld scoprí a Nydrí quelle che battezzò «tombe reali», scavate poi piú sistematicamente a partire dagli anni Settanta: si tratta di 33 sepolture databili tra l’antica e la media età del Bronzo, cioè tra il 3200 a il 1600 a.C. circa. In base a queste e ad altre scoperte
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successive, l’archeologo tedesco, che proseguí i suoi scavi sull’isola fino alla morte nel 1940, si convinse sempre piú che l’Itaca omerica fosse in realtà proprio Lefkada. Le sue ricerche, insieme a quelle dell’archeologo Panagiotis Kavadias a Cefalonia, svelarono anche che le piú antiche tracce di frequentazione umana delle Isole Ionie risalgono all’epoca neolitica. Malgrado scavi passati e presenti, dell’archeologia di Lefkada non si conservano molte testimonianze, soprattutto nel suo capoluogo, anche a causa dei devastanti terremoti che l’hanno duramente colpita alla metà del XX secolo. Restano, invece, tracce importanti della sua storia medievale e moderna, come la fortezza franca di Aghia Maura (Santa Maura), costruita nel XIV secolo. Vi si conservano ancora intatti e nella loro collocazione originale i cannoni, spesso di produzione italiana, utilizzati dai difensori durante gli ultimi attacchi subiti dalla fortezza. Particolari sono anche le chiese, di rito ortodosso, ma dall’architettura e dalla decorazione artistica fortemente influenzate dallo stile veneziano, come quelle di Aghios Nicolaos e del Cristo Pantokrator, entrambe del XVIII secolo, e quella di Aghios Dimitrios, del XVII secolo, ricche di dipinti attribuibili alla cosiddetta «Scuola Ionica», una corrente artistica iniziata nel XVII secolo a opera di pittori cretesi rifugiatisi qui dopo la caduta di Creta nelle mani dell’impero ottomano. Sin dall’antichità Lefkada si caratterizzava per la sua natura rigogliosa. E nelle sue caverne e boschi trovarono particolare diffusione i culti di Pan e delle Ninfe, attestati anche dal ritrovamento di numerose statuette fittili votive, ora nel Museo Archeologico del capoluogo. Assai diffuso era anche un altro culto legato alla natura selvatica, quello di Artemide, raffigurata persino sulle monete locali e con un’iconografia del tutto particolare, cioè con un mortaio sulla testa: la leggenda vuole che ladri provenienti dall’Epiro avessero sottratto la corona d’oro dalla statua della dea, sostituendola con un mortaio utilizzato per pestare l’aglio. Scoperto il furto, gli abitanti di
A sinistra esemplare di uno strumento musicale, la chelys-lyra, la cui cassa di risonanza era costituita dal carapace di una tartaruga. Lefkada, Museo Archeologico.
In alto Lefkada. La fortezza di Aghia Maura. XIV sec.
Lefkada posero sulla testa della statua una nuova corona, che però continuava a cadere. Interrogato, l’oracolo di Delfi svelò che desiderio della dea era che il mortaio le fosse lasciato in testa, e da quel momento gli abitanti di Lefkada cosí fecero.
Le prediche di san Paolo I resti di un tempio arcaico di Artemide, immerso nella natura, sono stati individuati 3 km a sud del capoluogo, sulla strada per il villaggio di Tsoukalades. Su quegli avanzi oggi sorge il monastero di Aghia Faneromeni, eretto tra il XVI e il XVII secolo, nel luogo in cui, secondo la tradizione, avrebbe predicato san Paolo. Un altro santuario dedicato, invece, al fratello di Artemide, Apollo, doveva trovarsi secondo la tradizione sulla costa meridionale dell’isola, caratterizzata in gran parte da coste alte e molto frastagliate. La tradizione, che ne assegna la costruzione a uno dei compagni di Ulisse, Lefkos, da cui avrebbe poi preso il nome l’intera isola, ricorda anche sacrifici umani in onore del dio. Secondo Strabone, la vittima sacrificale veniva precipitata in mare dalla punta del promontorio piú meridionale
dell’isola, Capo Leukatasa. Prima di essere gettato dalla rupe lo sfortunato veniva però ricoperto di piume, per dargli una minima possibilità di salvezza. Se sopravviveva al salto, cosa che veniva evidentemente interpretata come volontà del dio, veniva tratto in salvo e bandito dall’isola. Sempre secondo la leggenda da questo stesso promontorio, che perciò oggi è detto anche «Salto di Saffo», si sarebbe gettata suicidandosi la celebre poetessa, disperata per l’amore non corrisposto per la giovane Faona o per il giovane Faone, e addirittura la dea Venere, sempre per causa d’amore, dopo essere stata abbandonata da Adone. Difficile da raggiungere per via di terra, il promontorio può essere ammirato anche dal mare, affittando una barca per raggiungere le sue piccole insenature, oppure imbarcandosi nella baia di Vassiliki, per raggiungere le altre isole dell’arcipelago, Itaca, Cefalonia e Zante. Da Vassilikí, in un’ora circa di traghetto, si raggiunge Cefalonia. Si sbarca al piccolo porto di Fiskardo, all’estremità settentrionale dell’isola, l’unico villaggio tradizionale sopravvissuto al devastante terremoto del 1953.
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Secondo la leggenda Cefalonia deriva il suo nome (in greco Kefalonia) da Kefalos, che divenne re dell’isola dopo essere stato esiliato da Atene per aver ucciso involontariamente la moglie. Da suo nipote Laerte nacque Ulisse, re della vicina Itaca. Questa è l’origine dello stretto legame dell’eroe omerico con l’isola di Cefalonia: da qui provenivano, infatti, i tronchi d’albero del suo palazzo itacese, nonché le sue guardie del corpo. A confermare l’importanza di Cefalonia in età micenea è, d’altronde, una delle piú importanti scoperte archeologiche fatte nelle Isole Ionie negli ultimi decenni: quella della piú grande tomba a tholos micenea mai rinvenuta nella Grecia nordoccidentale, portata alla luce nel 1991 da Lazaros Kolònas nei pressi del moderno villaggio di Tzanata, nella zona sud-orientale dell’isola. Risalente al 1300 a.C. circa, la tomba, pur essendo stata depredata nell’antichità, ha restituito reperti importanti – fra cui gioielli, sigilli, vasi e una minuscola doppia ascia in oro – esposti nel Museo Archeologico di Argostoli, insieme a quelli provenienti dalle altre necropoli micenee di Livathos, Metaxata, Lakithra, Kokolata e Mazarakata.
Quattro mesi di resistenza La leggendaria fierezza degli abitanti dell’isola, da sempre contesa per la sua posizione strategica, è confermata da un episodio storico: nel 189 a.C. gli abitanti di Sami, la piú importante località portuale, situata sulla costa orientale, riuscirono a resistere per ben quattro mesi all’attacco romano, arroccati sull’acropoli di Kiati. I Romani, che miravano a conquistare le Ionie per utilizzarle come base per le operazioni militari in Grecia, furono costretti a chiamare rinforzi, ma alla fine espugnarono la città e la punirono per la strenua resistenza, saccheggiandola e vendendo come schiavi i cittadini superstiti. A testimoniare la presenza romana sono oggi i resti di terme e altri edifici, sparsi nelle stradine attorno al porto, in via Dichalion e intorno alla cittadina moderna. Dell’antica acropoli di Kiati restano invece lunghi tratti delle mura in opera poligonale.
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Altrettanto o forse ancora piú inespugnabile si rivelò, molti secoli dopo l’episodio di Kiati, anche la penisola di Assos, lungo la costa occidentale dell’isola. Unita alla terraferma da uno stretto lembo di terra, con i suoi 155 m di altitudine e la sua conformazione geografica, essa apparve ai Veneziani una collocazione ideale per una nuova potente fortezza con cui difendere gli interessi della Serenissima nelle Isole Ionie contro la minacciosa avanzata ottomana. I lavori di costruzione, iniziati nel 1593, terminarono in soli due anni, come riportato da un’iscrizione in latino sulla porta centrale, anche se poi l’edificio conobbe diversi rifacimenti fino al XVII secolo. Nel 1685 il geografo veneziano Vincenzo Coronelli scriveva che all’interno del castello, circondato da possenti mura e difeso da cinque bastioni, c’erano 60 edifici pubblici e 200 privati. Ma Cefalonia non è fatta solo di epiche battaglie: l’isola possiede angoli in cui la natura regala piccoli spicchi di paradiso. Sulla costa occidentale dell’isola, su una strada sinuosa affacciata su un panorama straordinario, si incontra la Baia di Mirtos, eletta fra le spiagge piú belle del mondo. Per raggiungerla, da Divarata, si imbocca una strada ripida e abbastanza sdrucciolevole. La spiaggia di ciottoli bianchissimi e l’acqua di un verde smeraldo, al tramonto danno vita a uno spettacolo incredibile. D’altra parte ogni elemento e forma del paesaggio ha qui a Cefalonia un’aura speciale: merito del riverbero della luce solare sulle bianchissime rocce dell’isola, che produce un effetto del tutto particolare. Già nel IV secolo a.C. Aristotele descriveva e provava a spiegare un curioso fenomeno che si verifica qui a Cefalonia: le capre, che oggi invadono frequentemente le strade, sembrano avere denti d’oro. La causa è proprio la combinazione fra la composizione della terra e questa luce particolare. Sul versante opposto dell’isola, attraverso una strada che si snoda nell’entroterra tra pascoli e resti di vecchi mulini a vento e ad acqua, si raggiunge Aghia Efimia, un caratteristico villaggio che d’estate è una delle mete
Cefalonia. La baia di Mirtos.
turistiche piú rinomate dell’isola, nei cui pressi sono stati scoperti i resti di una villa romana decorata da mosaici. Proseguendo la strada per Sami si incontra la deviazione per lo spettacolare lago sotterraneo di Melissani: la volta crollata fa sí che le sue acque assumano colori che variano dal blu al verde a seconda dell’angolazione dei raggi che filtrano dall’alto. L’acqua arriva alla grotta dal mare, attraverso le Katavotres, spaccature nelle rocce costiere, nelle quali l’acqua del mare viene risucchiata e si infiltra nel sottosuolo fino a ricomparire nella grotta, a decine di chilometri di distanza. Qui, tra il 1951 e il 1963, sono stati effettuati importanti ritrovamenti archeologici riferibili al culto di Pan e delle ninfe, tra cui una lucerna, un idoletto fittile e un disco con la raffigurazione di una danza circolare. Sulla scorta di queste scoperte alcuni studiosi, avvalorando la verosimile ipotesi che l’Itaca omerica sia in realtà Cefalonia, hanno proposto di riconoscere in quella di Melissani la grotta delle Ninfe descritta nell’Odissea. Famosa a Cefalonia è anche un’altra grotta, quella di Drogarati. Le luci elettriche rubano un po’ di fascino e di mistero alla sua fredda e umida oscurità, ma permettono di ammirarne meglio le forme, cosí come i concerti estivi nella Sala dell’Apoteosi ne fanno apprezzare l’acustica unica.
Vino, timo e salvia Cefalonia è un’isola da esplorare. Girando per le sue coste e per il verde entroterra sono, infatti, tanti i luoghi da scoprire, dove natura, storia e archeologia si intrecciano indissolubilmente, come nel caso delle rovine delle mura poligonali di Krani e del tempio della dea Demetra, nei pressi del villaggio di Razata, dove si produce il famoso vino greco Robola. Ricca di archeologia è anche la zona di Skala, dove le costruzioni diventano piú rade, cedendo spazio alle montagne profumate di timo e salvia. Qui si produce, invece, un rinomato miele di timo. Prima di Skala, lungo la strada, vicino la chiesetta di S. Giorgio, si conservano le labili
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«Sissia», un nome che potrebbe essere appunto un’alterazione di «Assisi»: il monastero, in origine cattolico, venne infatti fondato nel XIII secolo dai Francescani o dallo stesso san Francesco. La natura trionfa, infine, sul monte Enos, il piú alto dello Ionio, sul quale sorgeva un tempio dedicato a Zeus e dove anche nei secoli successivi si ambientano numerose leggende: nei registri del governo veneziano del 1509 si parla, per esempio, di un «enorme drago alato» divoratore di uomini, ucciso dai valorosi fratelli Brescani, il cui coraggio fu ricompensato con la donazione di grandi appezzamenti di terra. Nel 1962 per preservare la bellezza di questi boschi, popolati di specie uniche, come l’abete cefalonita, piccole mandrie di cavalli selvatici e numerose erbe aromatiche e medicinali, è stato istituito il Parco Nazionale dell’Enos.
Contesa fra Atene e Sparta Da Cefalonia, partendo da Pessada, si può lasciare il regno dei «magnanimi Cefaloniti» per proseguire in traghetto per Zakynthos (Zacinto o Zante in italiano), ben collegata anche al continente greco, tramite il porto di Kyllini, nel Peloponneso. Approdandovi si ha l’impressione, come già a Lefkada, che lo spirito isolano sia anche qui in qualche modo tracce di uno dei piú antichi templi arcaici in stile dorico della Grecia, risalente al VI secolo a.C., mentre nel centro cittadino sono i resti di una villa di età romana, con mosaici raffiguranti un giovane divorato dalle belve e animali sacrificali. E sempre nei dintorni di Skala, una stradina di campagna sale verso il Pozzo di San Gerasimo, dove la devozione popolare crede che nel 1559 il santo, patrono di Cefalonia, il cui monastero sorge invece presso Omalà, si fermò per dissetarsi.
La Madonna di Assisi? Di un altro santo, il Poverello di Assisi, troviamo invece le tracce lungo la strada per Pessada, da cui una deviazione porta alle suggestive rovine del monastero della Madonna di
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Qui sopra Cefalonia. Particolare di uno dei mosaici pavimentali della villa romana rinvenuta nel villaggio di Skala, sulla punta sud-orientale dell’isola. Le composizioni raffigurano vari animali destinati al sacrificio.
Scaltrezza e umanità di un eroe immortale Itaca e le Isole Ionie sono innanzitutto la patria di Ulisse (Odisseo in greco). Figlio di Laerte, come sostiene Omero, o di Sisifo, con il quale Euriclea, come maliziosamente riporta Igino, lo avrebbe concepito la notte prima di andare in sposa a Laerte, Ulisse è segnato sin dalla nascita dalla doppiezza, dal dubbio e dall’inganno. E infatti, nell’Iliade, Ulisse è un eroe coraggioso, ma soprattutto ingegnoso, il piú furbo dei Greci, lo scaltro e spregiudicato consigliere di Agamennone. Suo è il piú grande inganno, il cavallo di legno, che sarà fatale ai Troiani. Nell’Odissea è un uomo che lotta contro un destino avverso e contro l’ira di Poseidone, mosso dalla nostalgia per la terra natale e la famiglia, dal desiderio di riabbracciare una donna, Penelope, a cui ha potuto offrire piú notti di solitudine che d’amore. Un uomo che, alla fine, vince gli ostacoli di Poseidone, ma che, tornato a casa, come gli aveva predetto l’indovino Tiresia, bramerà nuovi viaggi, per «arrivare tra gli uomini che non conoscono il mare». Nel mare si svolge il suo destino: vi perde compagni e ricchezze nelle tempeste scatenate da Poseidone, lo guarda impotente bloccato nell’isola di Calipso, lo solca sotto la
In alto busto di epoca moderna raffigurante Ulisse, che gli abitanti di Itaca hanno voluto esporre all’ingresso del locale Municipio, per ricordare il leggendario re dell’isola. Nella pagina accanto in alto Zakynthos. La spiaggia di Navajo, sul versante occidentale dell’isola.
protezione di Atena per tornare a Itaca, vi trova, infine, la morte, nella sua ultima avventura. Nell’immaginario collettivo, Ulisse è l’eroe umano per eccellenza, nel bene e nel male, che compie imprese eccezionali non grazie a una forza fisica soprannaturale e divina, ma con la forza dell’animo e della mente, con la passione che lo spinge sempre ad andare avanti. Per questo, forse, la sua leggenda, da Omero in poi, ha ispirato scrittori e poeti di ogni tempo: da James Joyce a Ugo Foscolo, da Giovanni Pascoli a Gabriele D’Annunzio. Tuttavia, da Omero in poi, la citazione piú celebre di Ulisse è quella di Dante, che, nel XXVI canto dell’Inferno, lo pone, pur senza nascondere una sorta di personale venerazione, tra i consiglieri fraudolenti e lo punisce per la rovina alla quale ha portato i suoi compagni con la sua sfida presuntuosa alle leggi di Dio, mossi dalla consapevolezza che «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». È questa, forse, l’immagine piú eterna di Ulisse, prototipo dell’eroe moderno, massima personificazione dell’umano desiderio, o talvolta dell’insana pretesa, di conoscere il mondo e di dominare con la ragione le forze della natura.
affievolito. Per entrambe le isole il motivo va forse cercato in una vicinanza con il continente greco, che detta tempi e ritmi ben diversi da quelli di Cefalonia e di Itaca. Omero fa derivare il nome di Zakynthos da quello del figlio di Dardano, che partendo dall’Arcadia, sarebbe venuto a portarvi la civiltà. Lo storico Tucidide la dice invece popolata dagli Achei nel II millennio a.C. Quale che sia la verità, la posizione geografica ne determinò il destino, ponendola al centro delle ambizioni sia degli Ateniesi, che vedevano in essa una testa di ponte per accerchiare e dividere gli Spartani su due fronti, sia degli stessi Spartani, che, per lo stesso motivo, non potevano permettersi di tollerare che l’isola fosse retta da un governo a loro ostile. Durante la guerra del Peloponneso,
Zakyntos si schierò dalla parte di Atene. Questo, nel 430 a.C., le costò un duro attacco da parte degli Spartani. Dopo la disfatta ateniese fu costretta all’alleanza con Sparta, dalla quale anche in seguito in piú occasioni cercò di liberarsi.
La terra di mezzo dei poeti Caduta prima nelle mani dei Macedoni, entrò successivamente a far parte dell’impero romano, poi di quello bizantino per cadere infine nell’orbita culturale e politica della Serenissima di Venezia, come testimonia la fortezza veneziana, che alcuni vogliono edificata sulle rovine dell’antica acropoli. Zakynthos divenne da quel momento una terra di mezzo tra Oriente e Occidente: si spiega
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ISOLE IONIE
La grande epopea del viaggio infinito L’Odissea appartiene all’immaginario di tutti coloro che i grandi viaggi non necessariamente li hanno fatti, ma li hanno sognati, romantici e non, e che sono pronti a stupirsi davanti alle descrizioni di mostri, divinità irascibili, popoli sconosciuti e Paesi misteriosi. E non c’è, quindi, da stupirsi che le avventure e i leggendari luoghi toccati dall’eroe errante abbiano ispirato l’opera di decine di pittori, scrittori, autori di teatro, scultori, dall’antica Grecia ai giorni nostri. Molti archeologi, geografi e letterati hanno speso le loro carriere e le loro vite nella ricerca dei «veri» luoghi descritti da Omero: fin da Strabone, che già in età augustea, Odissea alla mano, girava la Grecia alla ricerca della vera Itaca. Il piú celebre di questi viaggiatori è però Heinrich Schliemann che, con Pausania e Omero alla mano,
cosí come sia possibile che nella stessa isola siano nate, ad appena venti anni di distanza l’una dall’altra, due tra le massime personalità letterarie dell’Ottocento, quali sono considerati rispettivamente l’italiano Ugo Foscolo e uno dei piú grandi poeti greci, Dionysios Solomos, autore, tra l’altro, dell’inno nazionale ellenico. Li unisce la terra, ma li divide la lingua e quindi la patria e il destino: se a Solomos e ad Andreas Kalvos (poeta nativo anch’egli di Zante, 1792-1869) è dedicato un mausoleomuseo nella centralissima piazza di San Marco, in ricordo di Ugo Foscolo, che pure ha dedicato all’isola versi immortali, vi sono soltanto un busto e un’epigrafe, seminascosti nel luogo della casa natale. Di quest’animo diviso di Zante resta oggi traccia nelle architetture civili e soprattutto religiose e nelle loro decorazioni
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dedicò molti viaggi alla ricerca di questi luoghi, da Itaca, a Troia, a Micene, in molti casi compiendo scoperte archeologiche che nessuno prima di lui avrebbe mai osato immaginare. Agli inizi del Novecento Victor Bérard, il traduttore francese di Omero, si mise in mare con la sua barca per verificare «sul campo» il testo, in una sorta di «filologia sperimentale», in poche parole per cercare i luoghi di Polifemo, di Circe, dei Feaci e degli altri leggendari scenari del poema. Ieri come oggi filologi, storici e archeologi hanno provato a collocare la vicenda dell’Odissea nel Mar Nero, in Sicilia, a Creta, e addirittura nel Mar Baltico, allontanandosi da quello che è, quantomeno, lo scenario piú naturale e scontato, le Isole Ionie.
pittoriche, dove la ferrea e apparentemente immutabile tradizione iconografica bizantina si incontra con i venti di profondo rinnovamento artistico che soffiano da Occidente, dando vita a soluzioni uniche, come gli affreschi della chiesa del Pantocrator e di Aghios Dimitríou, conservati insieme a un migliaio di icone datate dal XII al XX secolo – tra cui straordinari esempi della «scuola cretese» e della «scuola ionica» – presso il Museo Bizantino di Zakynthos, in piazza Solomos, costruito per raccogliere le testimonianze artistiche sopravvissute al terremoto del 1953. Nella zona sud-occidentale dell’isola si trova, invece, il Parco Marino Nazionale di Zante, dove nidificano le tartarughe Caretta caretta, una specie a rischio di estinzione. Il luogo piú spettacolare di Zakynthos è però la
Un tipico paesaggio costiero dell’isola di Itaca.
bianchissima spiaggia di Navajo, grazie a un relitto in secca che le dona un’atmosfera a metà tra l’archeologia industriale e un immaginario da storie di pirati e di naufragi. La si può ammirare dall’alto, dal monastero di Aghios Georghios.
Ricca di rocce e di luce Benché solo un breve tratto di mare la separi dalla vicina Cefalonia, lasciamo Itaca come ultima tappa di questo nostro ideale viaggio sulle orme di Ulisse. Qui, in una terra «ricca di rocce» e «piena di luce», crebbe l’astutissimo Ulisse. Anche a Itaca la storia dell’archeologia è segnata dalla visita di Heinrich Schliemann. Il garzone di bottega che divenne ricco commerciante e fu poi autore di imprese archeologiche eccezionali, vi sbarca nel 1868 e annota nel suo diario: «Ogni colle, ogni pietra, ogni ruscello, ogni bosco d’ulivi mi ricorda Omero». È approdato per mettersi alla ricerca del palazzo reale di Ulisse. A guidarne i passi sono i poemi omerici, per lui inseparabile «guida», fonte e termine di confronto di ogni intuizione e teoria archeologica. Per ogni rovina, per ogni luogo e paesaggio che visita, Schliemann cerca un possibile riferimento nei poemi omerici, come le rovine sulla collina Aetos, a poca distanza dal porticciolo di Piso Aetos, che diventano cosí i resti del «Palazzo di Ulisse», come ancor oggi li indica la gente del posto, anche se per gli archeologi questa interpretazione è assai controversa. Il paesaggio dell’isola pullula di siti identificati da Schliemann o dalle credenze popolari come luoghi omerici: dalla Fonte Aretusa, ai campi in cui Ulisse, appena tornato a Itaca, sotto mentite spoglie, viene ospitato dal porcaro Eumeo, nonostante non l’abbia riconosciuto, alla cosiddetta «Grotta delle Ninfe», situata sulla strada per Vathi e tradizionalmente identificata con la grotta delle Naiadi che Omero descrive nel porto di Itaca e nella quale Ulisse depone i ricchi doni ricevuti dai Feaci (Odissea, XIII, 102-112). A illustrare l’amore di Schliemann per Itaca e
quello dei suoi abitanti per lui è un episodio particolare, riportato dallo stesso archeologo in un racconto suggestivo, e forse anche un po’ romanzato: nel luglio del 1868, credendo di aver trovato nel toponimo Agros Laertou, nei pressi del paesino di Aghios Ioannis e della meravigliosa spiaggia di Aspros Ghialòs, il luogo in cui il vecchio re Laerte si era ritirato ad aspettare, povero e stremato, il ritorno del figlio Ulisse, mentre ricordava l’incontro tra padre e figlio, declamando i versi del XXIV canto dell’Odissea, Schliemann venne circondato dai contadini, i quali dapprima rimasero ammaliati ad ascoltarlo, poi lo portarono in trionfo in paese, accogliendolo e festeggiandolo nelle loro umili case. Dalle ricerche archeologiche successive è giunta, in effetti, una conferma della presenza micenea sull’isola, alla quale sembrano connesse mura ciclopiche del II millennio a.C. Questi e molti altri piccoli angoli di archeologia e di mito nasconde Itaca, un’isola da scoprire. Tra i luoghi da visitare la «Scuola di Omero», portata alla luce negli anni Trenta del Novecento dalla Scuola Archeologica Britannica, e il Museo Archeologico di Stàvros, nel quale si conserva un’iscrizione che svela la presenza di un culto dedicato all’eroe Ulisse. In quanto a grandezza e monumentalità oggi Itaca ha poco da offrire, tanto che basta una giornata per visitarla. Eppure al tramonto, mentre torna al porto di Piso Aetos, chiunque di noi sia cresciuto nutrendosi di letture classiche, capisce che Itaca non è un brullo scoglio nel Mar Ionio, ma un eterno luogo dell’anima.
DOVE E QUANDO Per informazioni generali sulle località descritte nell’itinerario, si può consultare il sito ufficiale dell’Ente Nazionale Ellenico per il Turismo: www.visitgreece.gr (anche in lingua inglese) Informazioni sui musei e le aree archeologiche possono invece essere reperite sul portale Odysseus, curato dal Ministero Ellenico per la Cultura: http://odysseus.culture.gr (anche in lingua inglese)
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COME PERLE DI COLLANA L’arcipelago delle Cicladi descrive un cerchio, nel blu profondo dell’Egeo. Le isole maggiori vantano storie che affondano le proprie radici in epoche remote, fin da quando l’ossidiana di Melos divenne una delle materie prime piú apprezzate e ricercate dalle culture preistoriche europee e vicino-orientali. Vicende plurisecolari, dunque, ambientate in un paesaggio di straordinaria bellezza
di Alessandra Costantini e Christoph Hausmann
Veduta di Mykonos, con i suoi inconfondibili mulini a vento.
Isole Cicladi Chio
Atene
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ISOLE CICLADI
O
gni volta che si arriva su un’isola delle Cicladi, la prima cosa che si nota è la luce: abbagliante, magica. Il bianco è piú candido, i colori sono piú vivaci; tutto splende con una nitidezza e brillantezza che sembrano provenire da una forza divina. E infatti, le isole Cicladi (dal greco Kyklades, circolare) si dispongono a cerchio intorno a Delos, l’isola sacra dove nacque Apollo, dio della luce e della musica. Mykonos affiora dal Mar Egeo con i suoi bianchissimi edifici e gli antichi mulini a vento. Difficile non perdersi nel labirinto di case, vicoli, taverne e locali alla moda. All’ora del tramonto consigliamo una passeggiata nel quartiere della Piccola Venezia, dove nel Settecento i pescatori costruirono le loro case a ridosso della battigia.
Una guerra epica Durante il percorso si incontra la bella chiesa della Panaghia Paraportiani, tipico esempio di architettura cicladica del XVI secolo, con le sue cinque piccole cappelle che si uniscono a formare un unico edificio. Infine, non può mancare una visita al Museo Archeologico, che conserva un importantissimo pithos in terracotta con la piú antica raffigurazione della guerra di Troia (VII secolo a.C.). Il giorno seguente, di buon ora, suggeriamo di proseguire il viaggio con la visita del sito
In alto Mykonos. La chiesa della Panaghia Paraportiani. XVI sec. In basso pithos con la raffigurazione della guerra di Troia. VII sec. a.C. Mykonos, Museo Archeologico.
archeologico di Delos. L’isola si raggiunge in barca, unicamente da Mykonos, e solo al mattino. Appena sbarcati, si comincia a percepire l’incantevole sacralità del luogo. Delos è piccola – si allunga per poco piú di 5 km, per una larghezza massima di 1,3 km circa–, arida e rocciosa: non è altro che uno scoglio di granito nel mare con un unico corso d’acqua, l’Inopo, che riempiva il piccolo Lago Sacro, oggi prosciugato. Delos è sacra: poco dopo il 540 a.C., il tiranno ateniese Pisistrato ne ordinò la purificazione, rimuovendo tutte le tombe dall’area del santuario, perché Apollo odiava la morte.
La seconda purificazione Una seconda purificazione ebbe luogo nel 425 a.C. e questa volta tutte le sepolture furono trasferite nella vicina isola di Renea. Una nuova legge stabilí che «nessuno piú, per l’avvenire, dovesse morire nell’isola, né alcuna donna partorirvi: all’occorrenza, si dovevano trasportare nell’isola Renea» (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, III,104). Finora è stato scavato piú o meno un quarto dell’antica città, insistendo su diverse grandi zone. La visita comincia con l’area del santuario di Apollo. Una via centrale partiva
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Qui sotto Delos. La Terrazza dei Leoni, che prende nome dalle statue innalzate dai Nassi nel VII sec. a.C. Quelle oggi visibili sono copie, in quanto gli originali sono stati trasferiti nel Museo Archeologico. Se ne conservano interi soltanto cinque, ma, sulla base dei frammenti rinvenuti, è stato calcolato che potessero essere ben sedici, allineati lungo la via che dall’antico porto di Skardana proseguiva fino ai templi di Latona e di Apollo. In basso Delos. Resti del santuario di Apollo.
dal vecchio porto e attraversava la grande piazza del mercato fiancheggiata da botteghe (Agorà dei Competaliasti); in seguito venne delimitata da lunghi portici (Stoà di Filippo e Stoà Sud), destinati a diverse attività commerciali e finiva ai Propilei, l’ingresso monumentale al santuario. Questa zona di vita pubblica e commerciale venne costruita in età ellenistica (III-II secolo a.C.). Il santuario, invece, era in uso almeno dal VII secolo a.C. e fu piú volte rimaneggiato. L’edificio piú
Medioevo venne fatto a pezzi, alcuni dei quali furono abbandonati per il troppo peso a soli 80 m di distanza, di fronte all’Artemision.
interessante si trova immediatamente a destra dei Propilei: l’Oikos dei Nassi, eretto nella forma attuale verso la metà del VI secolo a.C. Si tratta del primo edificio della storia costruito completamente in marmo, dalle fondamenta alle tegole del tetto. Davanti all’Oikos si trova la grande base della statua colossale di Apollo, il Colosso dei Nassi, risalente alla fine del VII secolo a.C. In un tentativo di furto nel
Nicia. Il terzo tempio, in stile ionico, fu costruito anch’esso dagli Ateniesi, ma molto prima, già verso la fine del VI secolo a.C. Disposti a semicerchio intorno a questi templi si trovano i resti di cinque thesauroi, piccoli edifici costruiti da diverse città greche all’interno dei quali si custodivano i preziosi doni per Apollo. Alle spalle del santuario comincia la zona del lago. Il lago sacro, dove nacque Apollo, non era
I tre templi di Apollo A nord dell’Oikos dei Nassi si trovano i resti dei tre templi di Apollo. Il primo, un periptero di stile dorico, venne iniziato nel 476 a.C. dai Delii con i fondi della Lega Delia, ma non fu mai ultimato. Segue il tempio degli Ateniesi, inaugurato nel 417 a.C. dallo stratega ateniese
Quattro colonne per diventare visibile Per l’ira di Era, Latona, gravida di Zeus, fu costretta a vagare per il Mar Egeo in cerca di un rifugio dove dare alla luce Apollo e Artemide. Latona chiese ospitalità a Delos, un’isola vacillante e alla deriva, emersa dalle onde, e le promise fama e ricchezza. L’arida e rocciosa Delos si rallegrò e accolse la dea, ma la fece giurare che suo figlio Apollo avrebbe eretto un santuario sul posto. Le doglie durarono nove giorni e nove notti finché Ilizia, la dea del parto, non giunse sull’isola. Finalmente Latona mise al mondo Artemide, poi «cinse con le braccia la palma, e puntò le ginocchia / sul soffice prato; sorrise sotto di lei la terra, / e il dio balzò fuori alla luce: le dee, tutte insieme, levarono un grido» (Inni Omerici, III,117-119). Gli dèi fissarono l’isola con quattro colonne al fondo del mare e d’ora in poi fu delos, «visibile». E infatti, Delos divenne famosa in tutto il mondo greco per il suo santuario di Apollo.
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ISOLE CICLADI
Delos
altro che una grande palude di forma ellittica alimentata dal fiume Inopo. Nel 1925 gli archeologi francesi lo prosciugarono per motivi di igiene ed eressero un recinto in muratura che ne segue piú o meno la riva. A sud si trova l’Agorà degli Italiani, la costruzione piú grande di Delos, cominciata intorno al 110 a.C. e usata fino alla metà del I secolo a.C. La piazza serviva ai coloni italici come luogo di riunione, di commercio, ma anche d’incontro e di svago con palestre, terme e sale per banchetti oltre alle usuali botteghe tipiche delle altre agorà. Di fronte al lago, tra il santuario di Apollo e la foce del fiume Inopo si passa per la famosa Terrazza dei Leoni, un dono votivo dei Nassi della fine del VII secolo a.C. I leoni – in situ sono delle copie, gli originali si trovano nel museo – sono rappresentati seduti, ma all’erta e pronti a difendere il santuario. In origine, nella stessa zona era nata anche l’Artemide Delia, sorella di Apollo, venerata dai primi coloni ioni come discendente della Signora degli Animali (potnia theron), e poi, sempre in questa veste, anche nell’età arcaica. Il culto di Apollo si impiantò a Delos in un secondo momento,
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sostituendo gradualmente quello della sorella. Piú verso nord, in direzione di una collina, segue un quartiere abitativo di età ellenistica con case private eleganti, sedi di associazioni, ma anche palestre e, ancora piú a nord, impianti sportivi tra cui il ginnasio e lo stadio. Tornando indietro, si passa davanti al Museo, che conserva un’importante collezione di sculture databili dall’età arcaica fino all’epoca romana. Di particolare rilievo sono i kouroi e le korai arcaici del VII-VI secolo a.C. e gli originali dei leoni dalla terrazza. Davanti al Museo, in direzione del porto si trova il santuario di Dioniso, facilmente riconoscibile grazie ai resti di due falli colossali su pilastri, con rilievi che raffigurano soggetti del mondo dionisiaco.
Per gli dèi stranieri Seguendo il sentiero verso il Monte Cinto (in realtà, un’altura di 112 m), si passa per i santuari delle Divinità Straniere, costruiti su terrazzamenti sopra il pendio settentrionale del monte. Il monumento di maggior spicco è il Tempio di Iside nel Serapeion, il santuario delle divinità egiziane. Il piccolo tempio dorico
1. A gorà dei Compitaliasti 2. Via sacra 3. Stoà di Filippo V 4. Stoà meridionale 5. Agorà dei Delii 6. Propilei sudoccidentali 7. Oikos dei Nassi 8. E dificio arcaico 9. T empio di Apollo 10. Tempio degli Ateniesi 11. Porinos naos 12. Thesauroi 13. Stoà dei Nassi 14. Keraton 15. Tempio di Artemide 16. «Monumento dei tori» 17. Stoà di Antigono 18. Agorà di Teofrasto 19. «Sala ipostila» 20. Tempio dei dodici dèi 21. Tempio di Latona 22. Agorà degli Italiani 23. Terrazza dei Leoni 24. Lago sacro
Rovesciata da una palma di bronzo Della colossale statua di culto di Apollo, opera di scultori nassi, rimangono attualmente in situ solo pochi frammenti del corpo e la base che reca l’iscrizione «Io sono della medesima pietra della statua e della base»; la mano sinistra attraversata da un foro circolare si trova nel museo di Delos e parte del plinto con tre dita del piede sinistro e un frammento del quarto è conservata nel British Museum di Londra. La fonte piú antica che attesta l’esistenza del colosso a Delos è Plutarco, il quale, nella Vita di Nicia, riferisce che la statua dedicata dai Nassi nel santuario di Apollo fu colpita dalla palma in bronzo offerta al dio da Nicia e si rovesciò. Le ulteriori testimonianze di questo enorme kouros provengono esclusivamente dai viaggiatori che tra il XV e il XVIII secolo si fermarono a Delos. Nel 1445 l’umanista Ciriaco d’Ancona disegnò la statua ancora completa della testa e del volto, già in due frammenti: quello inferiore che comprende la vita e tutte le cosce, quello superiore che presenta una figura maschile con lunghi capelli, cinti da una tenia, che cadono sulle spalle. L’analisi stilistica della scultura ci riporta intorno al 600 a.C., includendola tra le piú antiche statue colossali della bottega nassia, seguita dal kouros incompiuto della cava di Pharangi (secondo quarto del VI secolo a.C.), il kouros di Melanes (580 a.C. circa), e infine dalla statua colossale di Dioniso nelle cave di Apollona, il piú recente (metà del VI secolo a.C.).
In alto il Colosso dei Nassi, torso di statua arcaica forse raffigurante Apollo, opera dei Nassi VII sec. a.C.
distilo venne dedicato verso il 130 a.C. dagli Ateniesi, come anche la statua di culto di Iside, conservata in situ, alla quale manca la testa. Piú a nord, si trova il santuario delle Divinità Siriache, costruito verso la fine del II secolo a.C. dalla comunità dei mercanti orientali. Anche il piccolo teatro retrostante faceva parte del santuario e venne probabilmente usato per cerimonie religiose. Proseguendo verso la cima del Cinto, si arriva all’antro omonimo. La grotta si trova in una crepa naturale a cui è stato aggiunto un tetto a due spioventi, eretto con dieci grandi blocchi rettangolari di granito. All’interno sono i resti della base di una statua di Eracle; davanti all’antro si trova un altare tondo di marmo con un grande incavo. La costruzione si data in età ellenistica e faceva parte di un santuario dedicato a Eracle. Una scalinata conduce alla sommità del monte, dove si trovano i resti del Kynthion, il santuario ellenistico di Zeus Kynthios e di Atena Kynthia (= del Cinto). Scendendo dal Monte Cinto e dirigendosi verso il porto, si passa per la Casa di Hermes, l’unica dimora privata a tre piani, fortemente
ricostruita. Proseguendo si incontra il Quartiere del Teatro, costruito in età ellenistica, con strade, sontuose case private, botteghe e laboratori; in fondo è il teatro con circa 5500 posti, anch’esso del III secolo a.C. Le case piú importanti nell’area sono quelle di Dioniso, Cleopatra e Dioskourides e del Tridente, tutte e tre tipici esempi di abitazione aristocratica durante la fioritura di Delos nel III-II secolo a.C.
Fertile e ricca d’acqua Celebrata dal mito per l’incontro tra Dioniso e Arianna, abbandonata lí da Teseo durante il suo ritorno a Creta, Naxos è la maggiore delle Cicladi per estensione (416 kmq) e la piú ricca di risorse naturali. Importante centro fin dall’età preistorica, l’isola raggiunse la sua massima fioritura tra il VII e la metà del VI secolo a.C., sotto il governo degli aristocratici. Ricca di sorgenti d’acqua e di fertili pianure, si distinse soprattutto per la produzione scultorea realizzata in una pregevole qualità di marmo, bianco e a grossi cristalli, di cui abbondava il sottosuolo. La magnificenza delle offerte nel santuario di Delos e i colossali kouroi rimasti
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incompiuti, ancora oggi visibili nelle cave di Pharangi, Melanes e Apollona, testimoniano la potenza e la ricchezza di Naxos che, grazie alla sua posizione geografica, esercitò un ruolo predominante nell’Egeo. Dalla metà del VI secolo a.C. la produzione del marmo di Naxos cominciò a diminuire per la forte concorrenza del pentelico e del pario, sia nella scultura sia nell’architettura, fin quando, con l’avvento del tiranno Ligdami (540-520 a.C.), si arrestò del tutto. Nell’età di Ligdami il marmo fu impiegato soprattutto localmente, come testimoniano le poche sculture conservate nel museo locale.
Il tempio incompiuto A questo periodo risale anche il tempio nell’isoletta di Palati, la cui porta monumentale è considerata il simbolo di Naxos. Il monumento si erge sul promontorio, di «sto Palati» (il palazzo), collegato alla costa da una colmata artificiale, mentre in antico era raggiungibile percorrendo una stretta lingua di terra naturale. La costruzione del tempio, tutto in marmo, fu iniziata intorno al 530 a.C. sotto la tirannide di Ligdami, ma con la sua caduta i lavori furono interrotti e l’edificio rimase incompiuto. Preceduto in età geometrica da un santuario all’aperto, il tempio arcaico era stato progettato come un periptero ionico di 6 x 12 colonne e doppi colonnati tra i lati stretti. L’ingresso era a ovest e quanto rimane oggi in
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In alto l’enorme portale marmoreo che si staglia sullo sfondo del mare è quanto resta dell’incompiuto tempio dedicato ad Apollo dal tiranno di Naxos Ligdami, nella seconda metà del VI sec. a.C. In basso Naxos. Il kouros incompiuto che si può ancora oggi vedere nella cava di Melanes.
situ è il portale che introduceva al vestibolo della cella, divisa nella sua lunghezza in tre navate. Sembra che il tempio fosse dedicato ad Apollo Delio e, nel V-VI secolo d.C., fu trasformato in basilica, come prova la base dell’altare maggiore conservata nella cella. La moderna Naxos occupa il sito della città antica. Gli scavi condotti nelle poche aree libere da costruzioni hanno consentito di ricostruire sommariamente la topografia dell’antico centro. La città alta, denominata Kastro, costituiva l’acropoli. La parte bassa dell’abitato si estendeva verso la spiaggia settentrionale, la «Grotta», dove affiorano scarsi resti dell’antico insediamento. Avanzi dell’agorà sono visibili nell’area della cattedrale ortodossa. La visita dell’isola non può prescindere da un’escursione nei dintorni. Appena fuori da Naxos città (Chora), in località Iria, rimangono i resti di un grande tempio in granito e marmo attribuito a Dioniso. L’utilizzo sacro dell’area iniziò già in età micenea, e quattro edifici si sono succeduti nel corso dei secoli. I resti oggi visibili appartengono a un tempio ionico del VI secolo a.C. in uso fino all’epoca romana, prima d’essere trasformato in basilica cristiana. Un secondo, importante, santuario si incontra nei pressi del villaggio di Sangrí, nel sito di Ghyroulas. Il tempio era in stile ionico e aveva una insolita forma quadrata. La facciata presentava cinque colonne ioniche tra i pilastri. Due porte introducevano dal pronao alla cella,
divisa da un colonnato trasversale ugualmente di cinque colonne. Il tetto era interamente in marmo, coperto da tegole sottili che lasciavano penetrare all’interno una luce soffusa. Il tempio risale al 530-20 a.C. e, per la sua forma particolare, riscontrata nei luoghi dove si riunivano i fedeli, era probabilmente dedicato a Demetra, come sembrano del resto confermare i frammenti epigrafici provenienti dalla zona. Nel VI secolo d.C. fu anch’esso trasformato in una basilica cristiana. Il territorio dell’isola è inoltre punteggiato dai resti di numerose torri di avvistamento – come
quella ellenistica del Chimarro (IV-III secolo a.C.), conservata per circa 20 m di altezza – e dalle antiche cave, in alcune delle quali si conservano resti di statue monumentali, lasciate incompiute. Nella valle di Melanes, in località Fleriò, giace disteso in un giardino privato, un colossale kouros arcaico alto 6,5 m (VI secolo a.C.). Proseguendo verso nord-est, presso Apollona, si trova un’altra enorme statua, alta circa 10,50 m, rimasta incompiuta nella cava, identificata con Dioniso. Valgono infine una visita il Museo Archeologico di Naxos, allestito in un edificio eretto tra il 1600 e
In basso veduta aerea dell’isolotto di Despotikò, a ovest di Paros, dove sono venuti alla luce i resti di un importante santuario arcaico, che, sulla base di testimonianze epigrafiche, è stato attribuito al culto di Apollo e Artemide.
il 1800, e quello minore, ma ugualmente interessante, di Apiranthos, villaggio tradizionale a est di Naxos.
Da Atena a san Costantino Le prime tracce della presenza umana a Paros risalgono all’epoca micenea e si concentrano soprattutto nei dintorni di Parikía, la moderna capitale dell’isola, nell’area del Kastro, e a Koukounaríes, sopra l’insenatura di Nàussa. La pittoresca chiesa di S. Costantino, situata sulla sommità del Kastro, ha inglobato parte delle fondazioni di un tempio arcaico (550 a.C. circa), di ordine ionico, dedicato ad Atena, che presenta alcune affinità con il tempio di Apollo a Palati (Naxos). Frammenti architettonici provenienti dal tempio di Atena e da altri edifici di età classica ed ellenistica sono stati incorporati nella Fortezza Veneziana di Parikía, risalente al 1260. Fuori da Parikía si trovano i pochi resti di due importanti santuari, l’Asclepieion (IV secolo a.C.) a sud-ovest del paese e il Delion (VI secolo a.C.) a nord. Proseguendo sulla strada Parikía-Naoussa, si giunge a Trís Ekklisiès (le tre chiese), dove anticamente si trovava l’Archilocheion, l’heroon del poeta Archiloco di Paros, vissuto nel VII secolo a.C. Nell’entroterra si può raggiungere Marathi per vedere le cave da cui si estraeva il rinomato marmo pario. Nel paese, infine, meritano una tappa il Museo Archeologico e la chiesa della Panaghía Ekatontapilianí, gioiello dell’architettura bizantina, sotto il cui pavimento è stato rinvenuto un magnifico mosaico romano che raffigura le fatiche di Ercole.
DOVE E QUANDO Per informazioni generali sulle località descritte nell’itinerario, si può consultare il sito ufficiale dell’Ente Nazionale Ellenico per il Turismo: www.visitgreece.gr (anche in lingua inglese) Informazioni sui musei e le aree archeologiche possono invece essere reperite sul portale Odysseus, curato dal Ministero Ellenico per la Cultura: http://odysseus.culture.gr (anche in lingua inglese)
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MONOGRAFIE
n. 14 (agosto 2016) Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma tel. 02 00696.352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Gli autori: Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Tsao T. Cevoli è archeologo. Alessandra Costantini è archeologa. Valentina Di Napoli è archeologa. Christoph Hausmann è archeologo. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Lidia Vignola è archeologa. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 8/9, 13, 14 (centro e basso), 16-19, 25, 27, 28/29 (basso), 32-33, 35, 46/47, 50-53, 54 (sinistra), 59, 60/61, 66, 67 (basso), 68, 69 (alto), 70/71, 75 (alto), 76/77, 78/79, 80/81, 96/97, 99, 102/103, 105 (alto), 106/107, 122/123, 124 (alto), 125, 128 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 6/7; The Art Archive: pp. 82/83, 124 (basso); AGE: p. 104 – Bridgeman Images: p. 11; Photo Tarker: p. 12; Archives Charmet: p. 29; Ancient Art and Architecture Collection: p. 81 – Dimitrios Tsalkanis, www.ancientathens3d.com: pp. 14 (alto), 20-21, 28/29 (alto) – Da: Great Moments in Greek Archaeology, Kapon Editions, Atene 2007: p. 22 (alto) – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 22 (basso), 58 (basso); Archivio J. Lange: pp. 54 (alto), 65; A. Garozzo: p. 58 (alto) – Doc. red.: pp. 23, 26, 30-31, 36-43, 44/45, 45, 48-49, 54/55, 56/57, 62-64, 69 (basso), 74, 75 (basso), 76, 77, 84-95, 97 (alto), 98, 100-101, 109-110, 112-120, 127, 129 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais/The Trustees of the British Museum: p. 32 – Cortesia dell’autore: pp. 103, 105 (basso) – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: p. 108 – Marka: Hans-Peter Merten: pp. 110/111 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 10, 44, 60, 72, 102, 108, 123. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: i resti del tempio di Poseidone a Capo Sunio, promontorio situato sulla punta meridionale dell’Attica, una settantina di chilometri a sud di Atene.
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