NEL MONDO DEI MITI
NEL MONDO DEI MITI Dèi ed eroi greci, tra archeologia e storia delle religioni di Sergio Ribichini
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MONOGRAFIE
€ 7,90 N°16 Dicembre 2016 Rivista Bimestrale
ARCHEO MONOGRAFIE
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NEL MONDO DEI MITI dèi ed eroi, tra archeologia e storia delle religioni di Sergio Ribichini
6. Quei sacri racconti all’origine della realtà 10. Gli dèi prima dell’Olimpo 17. La fabbrica degli eroi 22. Quale verità nei miti? 24. Una famiglia numerosa
26. Creature celesti 28. Elio. La sentinella divina 31. Estia\Vesta. La vergine del focolare 34. Apollo Sminteo. Il signore dei topi 37. Era. L’antica legge del talamo 40. Eros. Tormenti d’amore 44. Artemide. La signora degli animali 48. Demetra. Triste, ma bellissima 52. Atena. Caduta dal cielo 56. Dioniso. Nato due volte 60. Ermes. Il ladro di buoi 63. Efesto. Ridere dello storpio
66. Fatiche e avventure 68. Cadmo. I denti del drago 71. Eracle. Il piú grande tra gli uomini 76. Teseo. La danza delle gru 80. Gli Argonauti. Giasone e i suoi compagni 85. Gli eroi della guerra di Troia. La fine dell’età eroica 88. Ulisse. Il signor Nessuno 93. Enea. L’ultimo approdo del fuggitivo 96. Antenore. Traditore e fondatore?
98. Storie senza tempo 100. L’oltretomba. Nell’Ade gagliardo 103. Il giardino delle Esperidi. Quasi un paradiso terrestre 108. L’oracolo di Delfi. L’ombelico del mondo 112. Sacrifici umani. Bambini cotti e mangiati 116. Le Amazzoni. Un agguerrito popolo di donne 120. La sfinge. L’enigma venuto dall’Egitto 126. Medusa. Lo sguardo che uccide
Quei Sacri racconti all’origine della realtà
L
a storia delle religioni, come l’archeologia, è una disciplina storica: non già una scienza del sacro e della sua morfologia, e neppure una semplice addizione delle singole esperienze religiose, studiate nel loro ristretto contesto culturale, bensí ricerca comparata, che tiene conto di tutte le formazioni religiose del passato e del presente, per interpretare, con la storia, le analogie e le differenze osservate. L’archeologo che pubblica il resoconto di scavo di un tempio – e parimenti l’epigrafista che interpreta un testo mitico appena ritrovato – non s’improvvisa dunque, per questi impegni, come storico delle religioni; egli offre, piuttosto, nella propria autonomia scientifica, materiali di cui potrà poi servirsi anche l’altro specialista. D’altro canto, almeno per le civiltà antiche, spetta all’archeologia il compito di verificare la credibilità del quadro storico-religioso d’insieme, modificando, integrando o confutando i dati già noti. E di fronte al solo dato materiale sarà ancora l’archeologo a suggerire una posizione estremamente prudente o la possibilità di procedere oltre nella creazione di un modello storico. Deriva da simili considerazioni l’opportunità d’intendere questa collaborazione interdisciplinare
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secondo istanze scientifiche precise: o lo specialista archeologo studia la religione di una determinata civiltà come storico delle religioni, con la coscienza, cioè, della problematica e del metodo corrispondenti, o sarà quest’ultimo studioso a specializzarsi nell’altra disciplina. Ma la diversità d’interessi e la tendenza ad articolare sempre meglio gli studi suggeriscono altresí una terza possibilità, quella di un lavoro di équipe, in cui archeologi, storici delle religioni e altri specialisti lavorino insieme, sullo stesso tema e con approcci diversi. È anche vero, d’altra parte, che nella nostra cultura il termine «mito» si carica di significati molto distanti da quelli che valgono a spiegarne la presenza nelle società del mondo antico o in quelle di livello etnologico: basti pensare all’uso che si fa del vocabolo in contesti come la pubblicità, la moda, la politica, lo sport e lo spettacolo, oppure alle proposte editoriali che presentano i miti in modo analogo ad altri generi narrativi, quasi fossero soltanto piacevoli storie, inventate per il diletto dell’ascoltatore. Al fine di precisare gli argomenti e la terminologia qui adottati, conviene dunque proporre qualche riflessione ulteriore sui valori del mito nelle società antiche. I miti di cui ci occupiamo sono quei
La Caduta dei Giganti, affresco di Giulio Romano. 1532-1535. Mantova, Palazzo Te, Camera dei Giganti.
Cratere a figure rosse, con scena raffigurante Zeus sul monte Olimpo. IV sec. a.C. Atene, Museo Kanellopoulos.
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racconti delle civiltà antiche che hanno a protagonisti gli esseri sovrumani oggetto della fede di quei popoli; e sono racconti tradizionali, nel senso che quelle storie, originariamente orali e ricche di varianti, narravano l’origine delle cose importanti di una società, a cominciare dal cosmo e dalla sua articolazione, dalla formazione del mondo divino e dalla realtà della condizione umana; vicende che erano concepite come accadute in un tempo diverso da quello attuale (e per questo talora apparentemente assurde) e ritenute capaci di dare stabile fondamento all’esistenza, ormai immutabile proprio a seguito di quegli avvenimenti lontani. Mutuando la definizione elaborata da un grande storico delle religioni, Angelo Brelich, diremo pertanto che il mito è una storia sacra, che non spiega razionalmente la realtà, ma la fonda in tutti i suoi aspetti, positivi e negativi; il mito dà senso alle condizioni dell’esistenza raccontandone le origini. Esso appartiene dunque alle tradizioni religiose di un popolo, che lo ripete nei momenti speciali (nel Capodanno, per esempio, quale festa di rinnovamento annuale) e lo trasmette, di generazione in generazione, perché tutte le componenti della realtà trovino in esso il necessario e incontestabile fondamento. Cosí i miti sono racconti importanti, affidati alla memoria di specialisti (sacerdoti, aedi, poeti) e messi per iscritto anzitutto in funzione della loro trasmissione. Essi, poi, si legano e s’interpretano l’uno con l’altro, sicché la mitologia, intesa come
insieme dei miti di una singola civiltà, è un sistema coerente, dove eventuali varianti di un racconto non contraddicono il primo ma lo integrano e lo chiariscono, riflettendo mutazioni nella funzione mitica e nella tradizione locale. Potremmo anche dire, con Marcel Detienne e con un riferimento specifico al mondo greco di cui qui trattiamo, che la mitologia è una struttura di pensiero, un linguaggio che rivela quel particolare modo di sapere, di rappresentare e di classificare l’universo che una società si è dato, attraverso l’esperienza e la riflessione. Entrare nel mondo dei miti avrà dunque per noi un significato piú profondo della semplice conoscenza di avventure fantastiche. Con l’esame di personaggi e d’intrecci narrativi mostreremo i problemi di una mitologia e proporremo per essa una lettura che ne faccia risaltare il riferimento alla concreta realtà culturale testimoniata dall’archeologia; con l’analisi di una storia o di un personaggio illustreremo i metodi con i quali è possibile risalire al sistema di valori che quei racconti sottendono; con la comparazione di temi e motivi ricorrenti metteremo in evidenza le somiglianze e le divergenze delle narrazioni mitiche. Cercheremo, insomma, di proporre, in queste pagine, una «archeologia delle cose divine», recuperando il significato che a questa espressione si dava ancora nel I secolo a.C., quando Marco Terenzio Varrone scriveva a Roma le sue Antiquitates rerum divinarum in cui trattava, al primo posto, proprio di miti e di mitologie.
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Mantova, Palazzo Te. L’affresco sulla parete d’ingresso della Camera dei Giganti, al quale Giulio Romano lavorò fra il 1532 e il 1535 . I Giganti vengono travolti dalla caduta di un edificio, abbattuto dalla furia di Zeus e delle divintà olimpiche.
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Gli Dèi prima dell’Olimpo L
eggendo l’Iliade e l’Odissea, si apprende com’era organizzato, per i Greci, il mondo divino. Sul trono piú alto sedeva il dio della tempesta Zeus, che aveva accanto a sé Era, sorella e sposa gelosa, signora del talamo nuziale; con lui dividevano il potere i fratelli Poseidone, dominatore del mare, e Ade, sovrano del mondo sotterraneo. Vi erano poi le sorelle Estia, vergine protettrice del focolare domestico, e Demetra, la signora dei cereali. Completavano questo gruppo i figli di Zeus: Ermes dio messaggero e imbroglione, Artemide cacciatrice, Apollo dio della profezia, della peste e del canto che guarisce, Ares signore della guerra, Atena bellicosa e intelligente, Ebe l’eterna giovinezza, Efesto il dio artigiano, Dioniso signore del vino, infine Afrodite, bella e amabile come nessuno, per la quale si conosceva però anche un’altra origine, oltre la discendenza da Zeus. Questo era l’Olimpo, nel senso che, per i Greci, tali divinità, con una schiera numerosa di altre Potenze nate dalle loro unioni, dimoravano sulla catena montuosa cosí chiamata, tra la Tessaglia e la Macedonia. Al contempo, questo era anche il cosmo, nel senso che ciascuna divinità rappresentava uno o piú aspetti di quel mondo in cui l’uomo greco conduceva la propria esistenza. E se i legami familiari tra gli dèi riprendevano e sublimavano le strutture sociali del gruppo umano, i poteri di ciascuno descrivevano le rispettive competenze, nella natura e nella società. Zeus, per esempio, come dio «che tuona dall’alto» e «scaglia i lampi», era al tempo stesso la pioggia e il fulmine e poi anche il «padre celeste» che dà consiglio, potere e vittoria.
Tutto ebbe inizio con un figlio che spodesta il padre Se questo era dunque l’universo attuale, regolato dalla legge di Zeus e configurato dalle Potenze dell’Olimpo, come si era giunti a tale ordine? Quali figure divine avevano generato quelle olimpiche? Cosa accadde, in breve, nel tempo prima del tempo? Lo racconta Esiodo, poeta di Ascra in Beozia, che poco dopo il 700 a.C. raccolse e ordinò le tradizioni circolanti al suo tempo in una Teogonia, cioè in un poema che narrava l’origine degli dèi. Da lui apprendiamo che per conquistare il potere Zeus aveva dovuto estromettere suo padre Crono, figlio della Terra primordiale, cacciarlo dal mondo e fulminare i Titani alleati di quello; poi lottare e sotterrare i mostruosi Giganti che si erano opposti al suo regno; infine fronteggiare l’altrettanto orrido dragone Tifeo e scaraventarlo nel Tartaro. Altre possenti generazioni divine, insomma, secondo il racconto di Esiodo,
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Scena dal lato settentrionale dell’altare di Pergamo. Le Moire, dee del fato, combattono contro i Giganti. 164-156 a.C. Berlino, Staatliche Museen, Pergamon Museum.
avevano preceduto gli dèi dell’Olimpo e la sistemazione definitiva del cosmo, da quando, all’inizio, nulla esisteva se non il caos, l’abisso. «Prima di ogni cosa», scrive il poeta, «venne a esistenza Caos; poi Gaia (la Terra) dall’ampio seno, dimora eterna e sicura degli Immortali, che abitano l’Olimpo e il Tartaro nebbioso, nei recessi del suolo. Quindi venne Eros (Amore), che dissipa ogni cura degli uomini e dei Numi».
In principio era il Caos Dunque, in principio era il Caos. Possiamo intenderlo come un vuoto o un’assenza, rispetto alla solidità dell’altro elemento che subito lo affianca: la Terra, creatrice e sostegno degli esseri futuri. Rimane per un po’ in disparte la terza figura, Eros-Amore, che solo in seguito interviene a regolare i processi generativi. Emanano dal Caos entità opposte e complementari, che segnano l’origine del tempo e dello spazio, di quello buio e di quello luminoso: «Da Caos ebbero vita Erebo (Tenebra) e nera Notte. Nacquero Etere (Chiarore) ed Emera (Giorno) da Notte, che a Erebo unita l’uno e l’altro diede alla luce». Dalla Terra prende vita, invece, il primo abbozzo dell’universo, nella forma del Cielo stellato, dei flutti del mare e delle asperità montane: «Gaia generò per primo, uguale a sé, Urano cosparso di stelle, che tutta potesse coprirla e insieme sede fosse dei beati, sicura. E generò le alte Montagne, amena dimora delle Ninfe; e senza amore a Ponto dié vita, che è un immane pelago, ribollente e furioso». Qui s’interrompe la procreazione solitaria della Terra, per dare luogo alla costituzione dell’universo, con tre serie di figli (Titani, Ciclopi e
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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Centimani), che nascono dalla sua unione col principio maschile da lei stessa emanato: «E Gaia, con Urano giaciuta, generò Oceano profondo, e Ceo, Creio, Iperione, Giapeto, Mnemosine (Memoria), Temis, Rea, Teia, l’amabile Tetis e Febe dall’aurea corona. Dopo di loro il fortissimo Crono venne alla luce, di scaltro consiglio, che prese in odio terribile il padre Urano. E i Ciclopi generò dal cuore superbo, che dettero a Zeus il tuono e gli forgiarono il fulmine. E altri tre figli nacquero a Gaia e a Urano, di somma arroganza; a essi cento mani spuntavan dagli omeri, e cinquanta crescevano teste». Siamo alla prima generazione divina, che narra un cosmo ancora imperfetto;
La nascita di Afrodite dalla spuma del mare, scena centrale del trittico in marmo di Thasos noto come Trono Ludovisi, opera databile alla metà del V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.
si evidenzia in specie il gruppo dei Titani e tra questi Crono, che poi si unirà alla sorella Rea per dare vita alla generazione degli Olimpici. Ma quando l’universo comincia a essere generato tutto è ancora in forse: disteso continuamente su Gaia, quasi incollato a essa in un rapporto senza soste, Urano non permette ai figli di lasciare il seno della Terra. Cosí, oppressa e indignata, Gaia è costretta a uno stratagemma per liberare i figli e aprire il cosmo all’esistenza: «In un baleno creò un metallo durissimo e ne fece una falce»; poi esortò i figli a punire gli affronti del padre. È l’atto cosmogonico decisivo: il Cielo si separa dalla Terra e lo spazio si apre alla diversificazione dei viventi; s’interrompe l’unione sessuale e il cosmo si avvia all’articolazione delle generazioni divine. Ma il colpo di falce è anche un atto di ribellione, che apre la strada alla violenza e all’inganno. L’evirazione di Urano completa inoltre la sua discendenza, introducendo sulla scena Potenze di opposta natura: odio e violenza, da un lato, con le Erinni vendicatrici; amore e armonia dall’altro, con la dolce Afrodite. «Quante sprizzarono stille di sangue, tutte le accolse la Terra; e col passare degli anni le Erinni generò tremende; e gl’immani Giganti, in armi splendenti; e le Ninfe, che chiamano Melie sulla terra sconfinata. Il membro, poi, scagliato nel mare, a lungo vagò sulle onde, mentre intorno sorgea bianca schiuma; e in esso nutrita una fanciulla ne fu, la divina Afrodite, che dal mare poi uscí, vereconda e bella».
I figli della Notte Anche la stirpe di Caos, a questo punto del racconto esiodeo, trova il suo completamento; e con i discendenti di Urano il mondo si popola dei figli della Notte: «A luce Ella dié l’odiato Destino, la Parca negra, la Morte, il Sonno e la stirpe dei Sogni. Poi il Biasimo partorí, e la dolorosa Sventura. E nacquero le Esperidi, che curano gli alberi dai frutti dorati di là dall’immenso Oceano. E le dogliose Moire, che infliggono crudi tormenti. E Nemesi generò, flagello degli uomini. Vita poi diede la Notte all’Inganno, alla Foia, alla rovinosa Vecchiaia, alla Contesa dal cuore animoso». Esiodo, s’è detto, non inventò dal nulla il suo racconto; piuttosto diede ordine e veste poetica alle tradizioni allora circolanti. Non le uniche, peraltro, giacché i poemi omerici conoscono una coppia divina primordiale, formata da Oceano e da Teti, mentre Aristofane parla di un Uovo pieno di Vento, emanato dalla Notte nel seno sconfinato di Erebo. È anche possibile che l’origine di alcuni temi esiodei (l’evirazione di Urano e le varie lotte per la sovranità, per esempio) risalga a culture diverse da quella greca, poiché si trovano per essi confronti puntuali e significativi in varie tradizioni cosmogoniche del Vicino Oriente antico. Ma l’invocazione alle Muse che apre la Teogonia di Esiodo non è un artificio letterario: il poeta si sentiva realmente ispirato da forze soprannaturali e la sua produzione fu veramente considerata come sacra dai Greci, con un concetto d’ispirazione e di sacralità molto piú coinvolgente di quanto non lo sia il nostro. Come tale esso va dunque letto, come «un canto bello, che un giorno le Muse ispirarono a Esiodo, mentre pasceva gli armenti, perché egli cantasse ciò che sarà e ciò che è, e cosí celebrasse la stirpe dei Beati, sempre viventi».
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A sinistra Esiodo e le Muse, olio su tela di Gustave Moreau. 1860. Parigi, MusĂŠe Gustave Moreau.
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La fabbrica degli Eroi L In basso cratere attico a figure rosse raffigurante Eracle e gli Argonauti (o, secondo una diversa interpretazione, Eracle a Maratona), da Volsinii (Orvieto). Attribuito al Pittore delle Niobidi, 460-450 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
a piú completa formulazione della figura dell’eroe, nei caratteri che ancora oggi le riconosciamo, si deve all’antica Grecia, ai suoi poeti e pensatori, ai numerosi artisti che tanti documenti ci hanno lasciato, resi ancor piú attuali ai nostri giorni da scoperte come quella dei bronzi di Riace o del giovane di Mozia, che portano la figura e il nome stesso dell’eroe alla piú viva attualità. Lo stesso termine, del resto, ci viene dai Greci, che in origine lo usarono come titolo onorifico, dandogli il senso di «signore» o
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«protettore», e poi gli attribuirono un significato specifico maggiore, in riferimento a esseri sovrumani diversi dagli dèi e dalla gente umana dei tempi reali. Gli eroi greci sono immaginati come antichi personaggi forti e virili, atleti e avventurieri eccezionali, principi e sovrani regnanti, fondatori di razze, città, gruppi sociali. Hanno i nomi di Eracle, l’eroe delle dodici fatiche; di Giasone e dei suoi compagni Argonauti, partiti alla conquista del vello d’oro; di Agamennone, Menelao, Achille e di quanti altri parteciparono alla guerra di Troia; del navigatore Ulisse, sovrano di Itaca; di Teseo, principe ateniese uccisore del Minotauro; dei tebani Edipo, Eteocle e Polinice; di Cadmo, Adone, Oreste, Dedalo, Orfeo e della miriade di altri mitici protagonisti di culti, poemi, opere d’arte e di teatro. Molti di loro vantano genitori divini, nascite miracolose, infanzie difficili. Alcuni sono stati abbandonati e allattati da un animale; altri hanno ripetutamente rischiato la morte, prima di giungere all’età adulta, quando il pericolo diventa per tutti abitudine. Folto è il gruppo di quelli che appaiono segnati da difetti e deformazioni fisiche, sebbene non manchino, nell’insieme, personaggi di sovrumana e splendida perfezione.
Imprese prodigiose e singolari Alcuni eroi sono comuni a tutto il mondo greco; altri, invece, sono conosciuti quasi soltanto nelle città che li onorano come antenati. Alcuni sono personaggi isolati; altri partecipano insieme a grandi imprese e danno vita ad ampi cicli epici. Eroiche, nel senso primario di prodigiose e singolari, sono costantemente le loro avventure, che mal si conciliano con gli ideali umani di una corretta vita civile. Quello degli eroi è un mondo intriso di sangue e furore: rapimenti di donne e d’armenti, violenze carnali, incesti, omicidi, sacrilegi, inganni e metamorfosi di vario tipo marcano la loro esistenza abituale, con una frequenza fin troppo caratterizzante. Per di piú, gli eroi finiscono tutti col morire: per caso, per invidia, per sfida o per vendetta, quasi sempre per morte violenta. Eppure le vicende degli eroi greci non sono casuali né fantasiose: esse fondano, invece, molti aspetti della realtà esistenziale dell’uomo: dagli elementi del paesaggio e del cielo all’ineluttabilità della morte, dalle lettere dell’alfabeto al giusto amore fecondo tra uomini e donne. Per questo in Grecia gli eroi erano al centro di un culto pubblico, che ne ricordava le attività mitiche e ne confermava le capacità d’intervento su quella realtà che essi avevano contribuito a realizzare. Per questo il loro sepolcro aveva tanta importanza nella società, al punto da costituire spesso la sede delle assemblee e dei consigli cittadini. Per questo, infine, eroe si poteva anche diventare, se si partecipava ad avvenimenti ritenuti basilari: liberando per esempio la patria dalla tirannide, bloccando gli invasori e cadendo in battaglia, conquistando perfino memorabili vittorie negli agoni sportivi. Non si tratta perciò di esseri divini caduti di rango o di comuni antenati saliti al prestigio di un culto, come proponevano vecchie e superate interpretazioni.
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In basso particolare della testa di Ulisse dal gruppo marmoreo dell’accecamento di Polifemo, dalla grotta di Tiberio, presso Sperlonga. I sec. d.C. Sperlonga, Museo Archeologico Nazionale.
Gli eroi greci non sono neppure un prodotto di fantasia letteraria, destinato al piacere passivo di lettori o spettatori. Il mondo eroico, piuttosto, è in Grecia un aspetto della religione pubblica, un complesso di miti e di culti costituitosi pian piano nella coscienza comune, sulla base di credenze e di rituali piú antichi. Come nasce dunque, storicamente, l’eroe greco?
I primi abitatori dell’universo
In alto particolare della decorazione di una pelike attica a figure rosse raffigurante Eracle che uccide il re Busiride e i suoi sacerdoti egiziani. Attribuita al Pittore di Pan, V sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Alcune radici del fenomeno possono risalire fino alla preistoria della civiltà ellenica, prima ancora della formazione del suo politeismo. Nei miti degli eroi greci confluiscono infatti tutti i temi che nelle mitologie cosiddette primitive sono caratteristici di esseri situati nel tempo del mito e privi di un coinvolgimento attivo nella vita delle società che raccontavano le loro storie. Si parla in questi casi di esseri che hanno esaurito il loro ruolo alle origini del mondo, d’inventori e fondatori in lotta contro avversari caotici e mostruosi, di protagonisti d’avventure comiche e grossolane, osceni e crudeli, di primi abitatori umani dell’universo. Tuttavia, gli eroi greci sono anche dotati di culto, e questo li rende attivi e potenti, benché defunti, in quella realtà che nel tempo del mito hanno contribuito a fondare; sono, cioè, in larga misura, dei morti-antenati, capaci di offrire protezione alla comunità e alla stirpe. Per l’origine degli eroi greci si deve cosí sottolineare una seconda componente, rappresentata dal probabile influsso di una civiltà la cui religione era fortemente centrata sul culto degli antenati. Il discorso si volge, a questo punto, all’azione esercitata sulla civiltà greca dalle culture del Vicino Oriente antico. È la Siria del II millennio a.C., piú precisamente, che ci offre testimonianze archeologiche sull’esistenza di un complesso di credenze e di culti relativi ad antenati mitici o pseudo-storici, posti in rapporto con la morte e la regalità, con la divinazione e la medicina, con la fertilità dei campi e le vicende del passato. I protagonisti di un simile complesso sono qui chiamati Refaim, un termine che ci è noto dai testi di Ugarit, da iscrizioni fenicie e dall’Antico Testamento: essi rappresentano una collettività di morti privilegiati, antichi abitatori del Paese di Canaan, antenati del sovrano regnante, responsabili del benessere e della continuità dinastica. Per queste caratteristiche, dunque, i Refaim della tradizione siriana possono ben rappresentare l’ultimo stadio di uno schema epico-regale certamente diffuso nel Vicino Oriente preclassico e probabilmente usato come modello per la caratterizzazione della figura eroica greca. Un’analogia che fu colta,
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peraltro, anche dagli antichi traduttori del testo biblico in greco, giacché resero il termine Refaim ricorrendo a quelli di Giganti e di Titani, cioè ai nomi greci di due grandi collettività mitiche. Un terzo elemento caratterizzante, nel processo che stiamo seguendo, è poi costituito dal fatto che molti miti eroici erano raccontati dai Greci come se fossero accaduti in un passato non troppo lontano, nell’epoca gloriosa della civiltà minoico-micenea dell’età del Bronzo. Sono proprio sepolture di questo periodo, d’altro canto, che vengono spesso scelte nella Grecia arcaica per dare avvio al culto tombale degli eroi, sicché doveva essere chiaro, a quel tempo, quale fosse l’epoca nella quale andava identificata l’età eroica.
Un tempo trascorso e non piú auspicabile Questo tuttavia non significa che si debba intendere la mitologia eroica come semplice sopravvivenza della religione micenea. L’archeologia ha dimostrato infatti che la venerazione degli eroi era quanto meno assai rara nel mondo miceneo, mentre è del tutto evidente che per la Grecia classica gli eroi erano, anzitutto, personaggi concepiti come morti, protagonisti di un tempo mitico ormai trascorso e non piú auspicabile. La collocazione minoico-micenea di molte avventure eroiche s’interpreta cosí come un meccanismo, di cui la mitologia greca si è servita per situare in un tempo anteriore al suo presente le vicende degli eroi, e distinguere in tal
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In alto particolare di un’anfora a figure nere raffigurante Teseo che uccide il Minotauro, da Canino (Vulci). 540 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
modo l’umano-reale dall’eroico-mitico. Allo sviluppo di tale meccanismo contribuí in larga parte la diffusione della poesia epica, soprattutto quella omerica, come anche il ricordo delle conquiste raggiunte dai Micenei, mantenuto vivo dalle grandiose vestigia archeologiche.
Un’epoca di profonde trasformazioni
In basso particolare del collo di una oinochoe (brocca da vino) raffigurante Arianna e Teseo. 675-640 a.C. Iraklion, Museo Archeologico.
Ma il sorgere del culto eroico appare sempre meglio collegato a un’epoca precisa, segnata da profonde trasformazioni sociali e politiche: quella della seconda metà del secolo VIII a.C. A questo periodo risalgono infatti le piú antiche prove archeologiche di culti su tombe in forme non semplicemente funerarie. Intorno all’800 a.C. si colloca, per esempio, l’istituzione del culto di Ulisse nella grotta di Polis, a Itaca; alla stessa epoca risalgono quello di Agamennone, in un tempietto scoperto a circa un miglio dall’acropoli di Micene, e quello di Elena e Menelao, in un santuario presso Sparta ricordato da Pausania e riportato alla luce dagli scavi. Accanto alle tombe piú celebri, vi sono poi quelle di eroi meno noti, ma ugualmente importanti in tradizioni e storie locali, spesso identificate con sepolture di età micenea. La concentrazione alla fine dell’VIII secolo dell’avvio di molte forme di culto per pretesi antenati locali, unita al fatto che quasi sempre gli eroi non si concepiscono se non nel quadro della religione della città, spinge cosí a sottolineare un ulteriore elemento caratterizzante: la funzione politica del culto eroico. I processi di eroizzazione appaiono e si sviluppano parallelamente al sorgere della città, alla nascita della città-stato, non piú segnata dall’immagine del sovrano miceneo ma da un mosaico di magistrature collettive e di funzioni sociali specializzate. Di piú: lo stabilirsi di nuove forme di organizzazione economica richiama l’attenzione sull’importanza della tomba dell’eroe locale come segnacolo della proprietà di un territorio fin dall’epoca vetusta in cui monarchia, caccia e pastorizia partecipavano allo sfondo della vita comunitaria. Gli eroi, antenati, re, guerrieri, defunti proprietari del territorio, a partire dall’VIII secolo a.C. costituiscono dunque, nei riguardi dei singoli centri urbani, un modello fondamentale, rispetto al quale è necessario differenziarsi, come da un’epoca definitivamente passata, ma anche confrontarsi, per recuperare ai vari gruppi sociali il prestigio e le prerogative scomparsi con l’abolizione della regalità e del sistema economico miceneo.
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Quale Verità nei Miti? I
Greci si chiesero a piú riprese quale fosse il senso dei loro miti e cercarono per essi spiegazioni razionali. Se guardiamo alla storia dell’analisi mitologica, possiamo distinguere infatti, già nell’antica Grecia, diversi modi di credere e di affrontare la questione. Tra il popolo e gli artigiani, la massa prestava credito ai cicli mitici piú conosciuti, peraltro continuamente attualizzati dalle cerimonie del culto. In queste classi sociali e anche in quelle piú elevate in cui si leggeva, Omero ed Esiodo rimasero a lungo considerati come grandi maestri, coloro che «avevano insegnato agli Elleni le origini degli dèi, avevano dato a essi i loro epiteti e stabilito le sfere di competenza di ciascuno» (cosí riferisce Erodoto nel V secolo a.C.). L’autorità di questi antichi sapienti non dava motivo di dubitare dell’autenticità del loro insegnamento. Tuttavia, la diffusione della scrittura e la nascita di due nuove forme per indagare sulla realtà (la storica e la filosofica), favorirono tra i piú dotti una speculazione sui miti che finí per privare questi racconti del loro aspetto piú caratteristico, cioè della loro sacralità. Da un lato l’indagine sulla storia, intesa come ricostruzione degli eventi umani, mosse i primi passi con una letteratura delle origini, che, trascurando i miti degli dèi e utilizzando la prosa anziché i versi, trattava i racconti degli eroi alla stregua di una storia passata, risalendo nelle genealogie delle grandi famiglie aristocratiche viventi fino al
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tempo di Cadmo, di Eracle, di Teseo e di altri mitici loro antenati. Nacque insomma, grazie a scrittori come Ecateo, Erodoto e Tucidide, una nuova autorità, non piú dettata dal prestigio dell’ispirazione poetica e dalla sacralità della materia trattata, ma dalla verosimiglianza delle loro storie, che adesso raccontavano gli avvenimenti di un passato pienamente umano e ne ricercavano le cause terrene. Questa operazione modificava il tempo del mito, separando il mondo degli dèi da quello degli eroi e rendendo quest’ultimo
analogo a quello attuale. Cosí le generazioni eroiche vennero datate, in una cronologia che concordava il tempo del mito con il resto della storia umana, distinguendolo solo come non verificabile, in quanto precedente alla guerra di Troia, e rifiutando soltanto quanto appariva inverosimile. Questa critica ebbe largo successo nell’antichità, al punto che, ancora al tempo degli scrittori cristiani, nessuno dubitava della storicità di Eracle, Teseo, Ulisse ed Enea; i Padri della Chiesa, piuttosto, seguendo tale metodo storico, si
In basso piatto in ceramica raffigurante Menelao ed Ettore in duello sopra il cadavere dell’eroe troiano Euforbo (uccisore di Patroclo), che giace a terra, da Rodi. 600 a.C. circa. Londra, British Museum.
In alto particolare di un cratere a figure rosse sul quale sono raffigurati Oreste ed Elettra sulla tomba di Agamennone, da Paestum. 340-330 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
adoperarono per concordare le tradizioni greche e quelle orientali con la storia biblica, per esempio datando la guerra di Troia rispetto al tempo di Abramo. Per altro verso, anche nello sviluppo del pensiero filosofico i miti degli dèi dettero luogo a un ripensamento interpretativo. La maggior parte dei filosofi greci, anzitutto, cercò di stabilire un’idea di dio che fosse degna della maestà divina, rifiutando nella forma gli insegnamenti degli antichi maestri. Cosí per esempio, già nel VI secolo a.C., Senofane di Colofone poteva scrivere che Omero ed Esiodo «avevano attribuito agli dèi tutto quello che tra gli uomini è vergognoso e riprovevole». Piú o meno contemporaneamente, in area
ionica, i primi fisici (Talete, Anassimandro, Anassimene) dettero avvio a un processo di revisione delle tradizioni cosmogoniche reinterpretandole in chiave naturalistica. I miti degli dèi, insomma, finirono per essere letti come una verità mascherata, con un invito a non lasciarsi trarre in inganno dalle falsità poetiche e a riconoscere il loro significato piú profondo, diverso da quello letterale. Nasce in questo modo la spiegazione allegorica dei miti, che ebbe tra i primi assertori Teagene di Reggio, Eraclito, Ferecide e lo stesso Platone. Quest’ultimo, in particolare, pur utilizzando il termine mythos con valore spregiativo, come un «discorso di frottole» in opposizione al logos, la «parola»
che provoca una seria discussione, non rinuncia a qualche «antico racconto» per illustrare il suo pensiero. Con l’epoca ellenistica, s’impone appieno la spiegazione allegorica, che recupera filosoficamente la mitologia sia in chiave fisica che in quella morale. Per altro canto, matura anche l’interpretazione storicizzante, con un metodo che si disse evemeristico dal nome di Evemero di Messene, vissuto intorno al 300 a.C. e autore di un trattato nel quale gli dèi erano descritti come antichi sovrani, benefattori del popolo, in seguito divinizzati con le loro famiglie. Si sviluppa, in terzo luogo, una letteratura mitografica, che raccoglie in forma ordinata tutto il patrimonio mitologico e vuole divertire il lettore. Storia alterata o ingigantita dai posteri, allegoria delle verità naturali o morali, messaggio pedagogico leggibile in vario modo: la critica razionale del mito nel mondo antico, in definitiva, muove di pari passo con l’evoluzione del pensiero storico e filosofico, ma finisce per dimenticare quella dimensione specifica di storia sacra che aveva giustificato la creazione dei miti. Ci vorrà la riscoperta delle tradizioni vicino-orientali nell’archeologia e di quelle dei popoli illetterati nell’etnologia per ricondurre l’analisi del mito ai valori specifici di questi racconti, che sono storia vera, per chi crede in essi, in quanto racchiudono tutta la cultura di un popolo, sviluppata per immagini, personaggi, episodi.
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Urano + Gea Oceano
Iperione
Elio
Crono + Rea
Eos
Selene
Estia
Poseidone Pegaso
Ermes | NEL MONDO DEI MITI | 24 |
Artemide
Ade
Bellerofonte
Apollo
Ares
una famiglia numerosa Sulle due pagine L’Olimpo, olio su tela di Andrea Appiani. 1806. Milano, Pinacoteca di Brera. L’Olimpo, massiccio montuoso (2917 m) situato tra la Macedonia a nord e la Tessaglia a sud, era per i Greci la sede degli dèi: qui, in una dimora fabbricata dal dio Efesto, sospesa tra il cielo e la cima del monte, essi vivevano come in un complesso retto da Zeus. Su come si fosse giunti a questo assetto siamo stati informati dal poeta Esiodo, il quale, poco dopo il 700 a.C., raccolse e ordinò le tradizioni circolanti al suo tempo in una Teogonia, cioè in un poema che narrava l’origine degli dèi. Nell’albero genealogico che qui pubblichiamo sono dunque riassunti i legami di parentela tra le diverse divinità.
Urano + Gea Tifone
Zeus
Giapeto
Epimeteo
Atlante
Era
Demetra
Mnemosine
Prometeo
Muse
Dioniso
Afrodite
Persefone
Atena
Ebe
Efesto
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Ulisse e Diomede rubano il Palladio, olio su tela di Gaspare Landi. 1783. Parma, Galleria Nazionale.
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CREATURE
CELESTI POTENZE DIVINE DALL’ASPETTO UMANO: I FIGLI DI ZEUS SI PRESENTANO COME PERSONALITÀ COMPLESSE, TALVOLTA AMBIGUE. GRAZIE ALLE LORO FACOLTÀ SOVRUMANE, DETTANO LEGGE, GOVERNANDO IL MONDO DEI VIVI E DEI DEFUNTI. PUR RISPECCHIANDO TUTTE LE DEBOLEZZE TIPICHE DEI COMUNI MORTALI
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CREATURE CELESTI
la sentinella divina
Q
uando Hammurabi di Babilonia, poco prima del 1750 a.C., fece incidere sulla stele di basalto nero che oggi si ammira al Louvre il codice delle leggi da lui promulgate, si fece raffigurare, in cima al testo cuneiforme, in atteggiamento deferente dinanzi al dio Shamash. La scena non è casuale, giacché questa divinità nell’antica Mesopotamia identificava il Sole, cioè il «Signore dall’occhio veggente», che per questa peculiare capacità era venerato anche quale «Principe di equità e di giustizia». Shamash è «il re dei cieli e della terra», recita un inno composto verso la metà del II millennio a.C.; «a lui appartiene il compito di fissare i destini e prescrivere le norme. Senza Shamash, Anu ed Enlil non organizzano assemblee nell’alto dei cieli, non tengono consiglio per il Paese, non suscitano raccolti d’estate né rugiada d’inverno». Si spiega bene, dunque, la scelta di Hammurabi, che a questo Giudice supremo chiede poi nel testo di far brillare su tutto il Paese le leggi emanate. L’attribuzione di eccezionali qualità divine all’astro che splende solitario nel cielo, peraltro, è un fenomeno presente in molte tradizioni religiose.
ELIO
L’occhio di Ra Nell’Egitto dei faraoni, per esempio, il Sole era l’occhio di Ra, il dio che rinasce ogni giorno e sale alto come un falcone: su una barca egli percorreva l’arco celeste e di notte spariva nelle profondità della terra, viaggiava su una seconda imbarcazione verso Oriente e risorgeva al mattino, rotolante come la pallina che lo scarabeo stercorario spinge sulla sabbia. Tre diverse entità manifestavano gli stati successivi dell’astro: egli era Khepri all’alba, Harakhte a mezzogiorno e Atum la sera. Inoltre, nel corso della storia, con lui s’identificarono tutte le divinità concepite con un carattere di dio universale, come Amon, Chnum e Aton.
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Un’importanza primaria sembra essere riconosciuta al dio Sole anche nei miti greci, dove con il nome di Elio egli è signore del tempo e delle stagioni, e soprattutto, come insegna un inno omerico, è «sentinella degli dèi e degli uomini, che volge lo sguardo raggiante dall’alto dell’etere chiaro». Instancabile, ci dicono il mito e l’iconografia, Elio percorre la volta celeste su un carro trainato da bianchi cavalli, fino all’estremo Nella pagina accanto medaglione in oro raffigurante la testa di Elio, dio del Sole, coronata dai raggi. IV-III sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso particolare della stele in basalto nota come Codice di Hammurabi, rinvenuta a Susa, da Babilonia. 1792-1750 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Occidente; qui si tuffa nell’oceano, viaggia dormiente negli Inferi su una coppa d’oro e riappare al mattino, ogni giorno. Anche in Grecia, insomma, il Sole è un dio che tutto vede e tutto ascolta, testimone del giusto e garante dei giuramenti. A lui si rivolgono perfino gli dèi per conoscere ciò che sfugge alla loro intelligenza divina: Elio è l’unico, per esempio, che può informare la dea Demetra su quanto è accaduto alla figlia scomparsa, rapita da Ade; ed è sempre lui a rivelare a Efesto il tradimento di Afrodite.
Un dio emarginato Tuttavia, benché guardiano onniveggente di ciò che accade nel mondo e nume indispensabile per il calore e la luce, il Sole dei Greci è un dio privo di potere reale: non abita nell’Olimpo, né partecipa alle assemblee divine; preso dalla sua ininterrotta fatica, Elio non è in grado neppure d’intervenire a proprio vantaggio. Su questo il mito è chiaro: racconta per esempio l’Odissea che un giorno, affamati, i compagni di Ulisse offesero il Sole, rubando e mangiando il bestiame a lui sacro. Per avere giustizia, Elio dovette ricorrere a Zeus, il dio supremo. E, in tale occasione, la sua minaccia fu seria: «Se per i buoi che quelli m’uccisero a me non daranno un degno compenso, scenderò nell’Ade e splenderò tra i defunti!». Ma Zeus lo rabboní facilmente, prendendo su di sé la vendetta: «Risplendi pure, Elio, sulla terra feconda. Io presto la nave veloce con folgore ardente colpirò sul mare scintillante!». L’immagine di un dio emarginato emerge anche da un altro racconto, tramandato dal
poeta Pindaro: quando Zeus distribuí il dominio del mondo tra gli dèi, solo alla fine si accorse di aver dimenticato l’assente Elio: questi chiese per sé l’isoletta di Rodi, che giusto in quel momento stava sorgendo dal mare. È vero che il mito fonda in tal modo l’importanza del culto di Elio sull’isola, e di ciò fanno fede sia le iscrizioni, che informano sul sacerdozio e sulle feste ivi celebrate in suo onore, sia le testimonianze letterarie sul famoso Colosso di Rodi, che era per l’appunto una gigantesca statua del Sole; ma resta, sul piano narrativo, la sottolineatura del ruolo marginale di Elio nel mondo divino. Confermano questo dato le testimonianze relative al culto ufficiale delle città greche, dove Elio è poco attestato. E se i Greci rifiutavano come una sorta di eresia l’idea del filosofo Anassagora che l’astro fosse soltanto un globo incandescente, è anche vero che Platone e Aristofane ritenevano trascurabile il suo culto, giudicandolo quasi una grossolana ingenuità dei popoli barbari, adoratori di astri. Insomma: per i Greci il Sole, pur non essendo la semplice astrazione di un fenomeno naturale, era un dio dal potere limitato. Gli studiosi hanno cercato di spiegare tale situazione in vario modo. Si è affermato, per esempio, che essendo strettamente collegato con una stella il Sole non poteva assumere i caratteri umani che hanno invece gli dèi olimpici, a cominciare da Zeus; ma è facile obiettare con il riferimento alla documentazione iconografica, che nel frontone
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Piatto ansato a figure rosse raffigurante la quadriga di Elio. 320 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
orientale del Partenone di Atene e in pitture vascolari del V secolo a.C. mostra Elio come un auriga divino perfettamente umanizzato. Si è anche osservato che altri dèi, e Apollo in particolare, assumono caratteri solari, che occupano cioè, almeno in parte, il suo campo di azione; ma già nelle opere attribuite a Omero Elio è un dio secondario, mentre l’Apollo solare è un’invenzione posteriore. Altri sostengono poi che la figura di Elio sarebbe stata ridimensionata dai progressi dell’astronomia greca; ma la preminenza del dio Sole nei culti ellenistici e poi romani sembra piuttosto dimostrare il contrario.
Una generazione di sconfitti Una spiegazione piú semplice e insieme piú profonda ci è offerta dalla stessa mitologia greca. Il Sole, insegnano Omero ed Esiodo, è figlio del titano Iperione, come le sorelle Luna e Aurora. Elio, dunque, appartiene a una generazione precedente e diversa rispetto a quella degli dèi che reggono le sorti del mondo attuale; una generazione, quella dei Titani, che da tempo immemorabile è stata sconfitta dagli Olimpici e sottomessa al potere sovrano di Zeus, cioè organizzata in un mondo dove il
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rischio di una turbativa cosmica è ormai superato per sempre. Per questo, come Oceano e le altre potenze nate dall’antico progenitore Urano, Elio rimane alla periferia del mondo olimpico, rispetta i suoi compiti e non esce dal tracciato. La possibilità che egli interrompa il suo muoversi ordinato nel cielo, insomma, è solo remota, come si legge nell’Odissea: che ciò non accada lo garantisce Zeus, a cui anche il Sole appare sottomesso. Cosí, nell’immaginario dei Greci, il Sole è una potenza di cui non si può fare a meno, per l’energia prodigata, ma anche un pericolo che si mantiene alla giusta distanza. Nel cielo, appartato, egli obbedisce ai voleri del Signore dell’Olimpo. Sulla terra, si avvicina al mondo degli uomini solo in regioni lontane: a Oriente nel Paese degli Etiopi, gli uomini dal volto bruciato; a Occidente presso Erizia, l’isola rossa dove si rimane scottati per la vicinanza dell’astro. È bene precisare, infine, che la situazione mitologica fin qui descritta è quella della Grecia classica; infatti, quando l’ellenismo favorí una generale mescolanza delle credenze e delle culture, il Sole crebbe d’importanza nella gerarchia divina e finí per assorbire numerose divinità, compreso Zeus. Poi i teologi dell’impero romano, sulla scia dei culti astrali dell’antico Vicino Oriente e del crescente rilievo di quello imperiale, elevarono la sua figura al rango supremo, simbolo del monarca terreno e sintesi di tutta la religione dello Stato. Cosí, quando la Chiesa, tra il 354 e il 360, decise di commemorare la nascita del Cristo Salvatore nella stessa data in cui si celebrava la festa pagana del «Sole invitto ed eterno», l’astro brillava sull’intero Mediterraneo non piú come sentinella infaticabile, bensí come Reggente dell’universo, Mente e Ragione di tutto, luminoso riflesso nel cielo dell’unità religiosa e politica realizzata in terra dal suo divino protetto, l’imperatore di Roma.
la vergine del focolare è una ragione che spiega perché il tempio della dea romana Vesta avesse forma rotonda anziché quadrangolare; cosí come c’è un motivo nel fatto che la sua corrispondente greca, chiamata Estia, fosse sempre presente nel culto, invocata all’inizio e alla fine di ogni cerimonia sacrificale. Per comprendere tali situazioni, occorre tenere conto delle funzioni svolte nelle rispettive culture dalle due divinità, immaginate come la personificazione del fuoco pubblico e privato, cioè il fuoco dell’altare e quello del focolare. Cominciamo con l’esaminare i dati greci. Come parola d’uso comune, hestía significa «focolare», in quanto strumento per la preparazione dei cibi e dei sacrifici; come dea, Estia esprime l’idea della centralità, derivata dalla posizione del focolare piantato al centro di ogni dimora, cuore della casa e della famiglia già all’epoca dei palazzi micenei. Come potenza divina del fuoco utile, Estia presiede al banchetto sacrificale, che per i Greci di età classica corrisponde a una commensalità che è divisione del cibo tra cittadini uguali.
Ogni rito sacrificale, dunque, si apriva e si chiudeva con una libagione a questa dea: «cominciare da Estia» si diceva, per indicare l’inizio di una cosa importante. Come personificazione della centralità del focolare nella casa, la dea è legata all’ambiente in cui il gruppo umano si raccoglie. Sul piano pubblico, Estia era conseguentemente presente nei luoghi del focolare comune, cioè negli spazi che individuavano il potere democratico e soprattutto nel Pritaneo, l’edificio nel quale risiedevano i magistrati.
Un fuoco per i coloni in partenza Estia si rivela dunque importante per il ruolo che occupa e sul quale troneggia: come dea del focolare essa è l’elemento attorno al quale lo spazio (e la conseguente vita in comune) si orienta e s’organizza. È lei, per esempio, la prima divinità invocata su una stele di Chio, che si data al 575-550 a.C. e contiene una delle prime leggi promulgate dal Consiglio popolare; è presso Particolare di una coppa attica raffigurante l’assemblea degli dèi, da Tarquinia. Opera del pittore Oltos, 525-475 a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.
ESTIA\VESTA
C’
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l’altare di Estia, nel Pritaneo di Atene, che sono affisse le leggi di Solone; ed è infine a questo ruolo di Estia che s’ispira la consuetudine di consegnare ai coloni in partenza per nuove fondazioni un fuoco acceso nel Pritaneo della madrepatria, da utilizzare per l’hestía nella nuova città. Calco di un rilievo raffigurante un sacrificio in onore della dea Vesta. Età imperiale. Già nella collezione Albani. Roma, Museo della Civiltà Romana.
Queste funzioni della dea trovano fondamento in una mitologia ridotta all’essenziale. La sua genealogia ci dice che si tratta senz’altro di una dea importante: secondo Esiodo, fu la prima e l’ultima figlia di Crono, in quanto primogenita dei figli generati da Rea e subito divorata come i successivi dal padre, con la sola eccezione di Zeus, che poi costrinse Crono a rigurgitare tutti i fratelli, in ordine inverso.
Sempre in disparte Generata due volte, significativamente per prima e per ultima come appare nei riti, Estia rimane però in disparte. Mentre gli altri dèi si affannano nel vasto universo per controllare e influenzare la vita degli uomini, Estia non prende parte a guerre, né a dispute; diserta perfino riunioni e processioni divine, per rimanere immobile a casa, inamovibile come il suo focolare. Un solo mito basta a fondare questa sua posizione. Si narra negli Inni omerici che Apollo e Poseidone l’avevano chiesta in sposa a Zeus; ma Estia aveva energicamente rifiutato tale onore e aveva anzi giurato di restare sempre vergine. Zeus, per compensarla, le aveva concesso il privilegio di avere un trono al centro di ogni abitazione, umana o divina. Da allora essa brilla nella fiamma di ogni sacrificio e in quella di ogni focolare, rispettata e invocata come dea d’incontaminata purezza: «vergine», cioè estranea alle regole del matrimonio, che obbligavano la donna a lasciare il focolare paterno per quello dello sposo; e poi «fissa», saldata al suolo e al centro dello spazio abitato. È forse per questa emarginazione privilegiata che nell’arte greca Estia sembra essere priva di elementi che ne consentano
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l’immediata identificazione. Questa impressione si ricava dal fatto che gli artisti scrivono spesso il nome della dea accanto alla sua immagine (cosí accade per esempio sui vasi attici del VI secolo a.C., ma anche su un rilievo del fregio nord del «tesoro dei Sifnii» a Delfi), oppure aggiungono alla sua figura qualche attributo significativo, come la torcia o lo scettro (per esempio nel rilievo del cosiddetto altare Borghese, di epoca ellenistica, e ancora nelle decorazioni di vasi attici del V secolo a.C.). Per di piú, il repertorio iconografico di questa dea non è abbondante, cosí come non lo sono i suoi miti. Il silenzio, insomma, è il suo destino, l’elemento che tuttavia la rende sempre presente, nel privilegio di una verginità che è al contempo trasposizione divina del rassicurante focolare domestico e garanzia di durata per ciò che attorno a esso avviene: procreazione e prolungamento della stirpe, autonomia delle decisioni e del potere, esperienze di solidarietà familiare e sociale.
Un tempio dai risvolti eccezionali Simile è la posizione di Vesta nella religione romana, con una accentuazione, tuttavia, delle valenze politiche. Anche qui la dea è signora del focolare, pubblico o privato, dea del luogo presso il quale risiedono i Lari e i Penati, cioè le immagini degli antenati della città o delle diverse famiglie. E come nell’abitazione domestica spetta alla dea (e al suo fuoco) un posto privilegiato, cosí nella città il suo tempio presenta risvolti eccezionali: anzitutto come santuario antichissimo, che la tradizione voleva istituito da Numa e che l’archeologia fa risalire almeno al VII secolo a.C.; poi per la sua struttura, non orientata secondo le direzioni del cielo come i templi delle altre divinità della Roma antica, ma circolare, che vuol dire centrale, equidistante da tutti i punti dell’orizzonte, permanente rispetto a tutto e insieme aperto a ogni direzione ed espansione. Anche la dea romana è vergine: il poeta
Ovidio racconta che un giorno Priapo ubriaco cercò di farle violenza. Vesta, addormentata, fu svegliata dal raglio di un asino e urlò con tutte le sue forze, facendo fuggire Priapo in preda a un comico terrore. Altre fonti documentano poi un suo ruolo come nutrice di Giove; ma anche per la romana Vesta la narrazione è ridotta al minimo, quel tanto che basta a sottolinearne lo stato verginale e il privilegio di una Potenza sovrumana chiamata a rappresentare un principio di permanenza, nel tempo e nello spazio: Vesta populi Romani, la chiama Cicerone, per dire che la dea indicava l’idea stessa della romanità, mentre Tito Livio cita il suo fuoco e la sua statua nel tempio come garanzia di durata della potenza nazionale. Cosí si giustifica il tratto piú caratteristico della dea, che è vergine perché nulla deve associarsi alla romanità da essa rappresentata. Cosí trova fondamento anche la verginità imposta alle sue sacerdotesse, che non ha confronti nel culto greco di Estia. Le sei Vestali, scelte per sorteggio tra le fanciulle romane, dovevano restare caste sotto pena di morte non solo a imitazione della dea che servivano, ma anche perché la loro cura era quella di non lasciare mai spegnere il fuoco sacro di Vesta, da mantenere sempre vivo, in quanto vincolo perenne della permanenza di Roma nella storia. Il fuoco che bruciava nel tempio circolare di Vesta era dunque diverso da quello sacrificale, acceso sugli altari degli altri dèi. Esso era il focolare pubblico di Roma, elemento essenziale per l’esistenza dello Stato e simbolo del suo radicamento alla terra, piú di quanto non lo era già il focolare comune acceso nelle città greche in onore di Estia. È, se si vuole, l’astrazione progressiva di un’idea di stabilità e di durata: la stessa che giustifica la povertà dei racconti e la rarità delle figurazioni concernenti l’una e l’altra divinità, e che insieme dà conto dell’importanza unica di queste due distinte immagini di una mitica vergine del focolare.
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il signore dei topi
APOLLO SMINTEO
I
n Asia Minore sorgevano i centri principali del culto di Apollo Sminteo (lo sterminatore di topi); e i santuari che in suo onore erano detti Smintheia; e la festa che con lo stesso nome si celebrava a Rodi; e il mese Sminthion, che in qualche calendario greco derivava il suo nome dall’epiteto divino. Sappiamo perfino di una statua di Apollo raffigurato nell’atto di schiacciare un topo col piede, realizzata da Scopa, celebre scultore del IV secolo a.C. Per capire bene il legame di Apollo con i piccoli roditori rileggiamo anzitutto l’Iliade. Gli Achei che assediano Troia hanno ridotto in schiavitú la giovane Criseide e il comandante Agamennone rifiuta di restituirla a suo padre, anziano sacerdote di Apollo, che viene anzi cacciato in malo modo dal campo greco. Vedendosi oltraggiato e respinto, egli chiama a vendetta il suo dio: «Ascoltami, o re dall’arco d’argento, che Crisa proteggi e Cilla divina, e regni sovrano su Tenedo. Odi, o Sminteo, la mia voce. Se mai un tempio gradito ti ho eretto, se mai pingui cosce di capre e di tori ho bruciato per te sull’altare, compimi questo voto: paghino i Danai il pianto mio con i tuoi dardi». Apollo non tarda a portare il suo aiuto. Scende nel campo di Agamennone e saetta impietoso uomini e animali: è la peste, che fa strage nell’esercito e costringe gli Achei a restituire la ragazza. Gli elementi essenziali della venerazione di Apollo Sminteo ci sono già tutti: le città del suo culto nella Troade, la fondazione di templi in suo onore e soprattutto il legame tra questo
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Signore dei topi e la pestilenza, interpretata come una punizione e raccontata con le frecce scagliate dall’arco divino. Cosí troviamo una prima spiegazione per l’epiteto del dio, ipotizzando che il ruolo dei roditori come propagatori delle epidemie fosse già noto a Omero. Apollo, insomma, sarebbe «Colui che manda i topi» (e con essi l’epidemia); ma anche «Colui che li scaccia» (e guarisce), a proprio piacere. Questa ambivalenza, del resto, è tipica della morfologia di Apollo nella mitologia greca: dio dell’arte divinatoria e maestro del canto, egli è anche il signore della salute e della pestilenza, e perciò capace di dare al contempo la vita o la morte. Dichiararlo Signore dei topi, dunque, equivale a stabilirne la signoria sui pericoli che questi rappresentano, per le epidemie che arrecano come per i danni che provocano alle colture. Non diversamente da tale ruolo, peraltro, Apollo viene anche invocato come Colui che stermina le cavallette, come Uccisore di lupi e poi come Colui che preserva (i cereali) dalla ruggine. Per l’epiteto Sminteo possiamo però dire di piú, attingendo all’opera di Eliano, che nel III secolo d.C. scrisse una Storia degli animali. Parlando dei topi e del dio in questione, lo scrittore dichiara anzitutto che gli abitanti di Amassito, città della Troade, venerano i topi, che chiamano «sminti», e li nutrono nel tempio del loro dio piú importante, Apollo Sminteo; sotto l’altare, poi, essi lasciano abitare dei topolini bianchi, mentre troneggia,
Nella pagina accanto didramma in argento della zecca di Alessandria Troade, 102-65 a.C. Al dritto, testa di Apollo con corona di alloro; al rovescio, il dio come Sminteo, qualifica che lo legava ai topi. A sinistra statua di Apollo Citaredo. Prima metà del II sec. d.C. (ma la testa e altre parti sono state aggiunte nel Settecento). Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps.
accanto al tripode di Apollo, l’effigie di un topo. Cosa ci facessero quei topolini in libertà tra i muri del santuario possiamo immaginarlo sulla base d’indicazioni che vengono da altri autori: Teofrasto, Plinio e il lessico della Suda parlano per esempio di topi utilizzati nell’arte di trarre gli auspici, di cerimonie interrotte dallo stridere dei sorci, giudicato funesto, e poi di topi bianchi, come in questo caso, la cui nascita era considerata presagio favorevole. È possibile, insomma, che questi topi, nel santuario del Signore della profezia, avessero una funzione divinatoria specifica. La sacra effigie del topo, per altro verso, può essere interpretata come un ex voto, simile a quelli che fecero i Filistei in Palestina, quando cercarono di porre fine all’epidemia che accompagnava il passaggio dell’arca di Yahweh, restituendo questa agli Israeliti insieme a «cinque bubboni d’oro e altrettanti topi d’oro», quale offerta riparatoria e immagine votiva del flagello che li aveva colpiti (1 Samuele, 5-6).
Il consiglio dell’oracolo Ma esaminiamo le tradizioni sull’origine del culto riferite da Eliano. La prima racconta che a seguito di una invasione di topi i campi erano diventati sterili, le messi rovinate, i raccolti perduti. Si consultò allora l’oracolo di Delfi, che suggerí di offrire sacrifici ad Apollo quale Signore che scaccia i topi; cosí fecero i Troiani, e tornarono a raccogliere il frumento come e piú di prima, imparando anche a venerare il
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Figurina in lega di rame raffigurante un topo. Età imperiale. Exeter, Royal Albert Memorial Museum.
dio Sminteo. Dietro questo racconto c’è un mito, che parlava di Crini, sacerdote di Apollo, che aveva provocato la collera del dio e attirato un flagello sui propri campi, devastati dai topi. Ma un giorno Apollo aveva visitato il Paese ed era stato accolto con grande ospitalità dal capo dei contadini di Crini e questo bastò a placare l’ira divina. Per liberare il Paese dal flagello, il dio stesso uccise i topi a frecciate, chiedendo in cambio l’erezione di un santuario in suo onore. Cosí fu fatto; da allora si venera nella Troade il nome del dio Sminteo e «sminti» si chiamano i topi.
Gli scudi rosicchiati L’altro mito, di cui parla ancora Eliano, raccontava di Teucro, l’antenato della famiglia reale di Troia. L’eroe era partito con suo padre Scamandro dall’isola di Creta, accompagnato da un oracolo apollineo che gli aveva suggerito di fondare un nuovo insediamento là dove essi sarebbero stati attaccati da «figli del suolo». Accadde che una notte, mentre i due erano accampati in una località della Troade, le loro armi, gli scudi e le corde degli archi vennero rosicchiati dai topi. Teucro e suo padre compresero di essere giunti nel luogo indicato dall’oracolo; vi si stabilirono e fondarono anzitutto il santuario di Apollo Sminteo. Proviamo ora a confrontare la vicenda di Teucro con un brano di Erodoto, per tentare qualche considerazione ulteriore. Egli narra che quando Sennacherib di Assiria mosse contro l’Egitto,
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intorno al 701 a.C., il faraone allora regnante si trovò in gravi difficoltà, dovendo fronteggiare una rivolta delle truppe. Piangendo la propria sventura, il sovrano entrò nel tempio di Ptah (che Erodoto chiama Efesto), si addormentò e nel sonno gli sembrò che il dio lo confortasse, assicurandogli il proprio aiuto. Con un esercito raccogliticcio il faraone mosse quindi contro gli invasori. Accadde un prodigio: una moltitudine di topi di campagna si riversò di notte nel campo nemico e rosicchiò il cuoio delle faretre, degli archi e degli scudi, cosí che il mattino dopo gli Assiri si ritrovarono senza difese e perirono in gran numero. Del faraone, conclude Erodoto, esisteva ancora al suo tempo una statua, che lo raffigurava con in mano un topo. Il racconto di Erodoto, che pure vuole essere storico, non può essere preso alla lettera. Sennacherib fu veramente costretto a ritirare il suo esercito in quel periodo a causa di un’epidemia; ciò accadde però durante l’assedio di Gerusalemme e la Bibbia parla in proposito di un angelo sterminatore (2 Re, 19, 35-36). La statua del faraone, che lo scrittore greco spiega con questa vicenda, indica piú verosimilmente un’immagine del dio Horo, l’Apollo egiziano, cui erano consacrati i topi e attribuita la padronanza della peste. L’intervento notturno dei roditori sembra senz’altro ricalcato sul motivo mitico di cui abbiamo parlato, qui rielaborato dallo scrittore per descrivere la pestilenza. Ritroviamo, infine, il motivo dell’oracolo divino, qui presentato nella forma di un sogno premonitore giunto al sovrano nel rito dell’incubazione. Seguendo Apollo, abbiamo rintracciato i suoi topolini e verificato i limiti di una diffidenza antica. Abbiamo però individuato anche le forme di un culto specifico e le spiegazioni che se ne davano sul piano mitico. Una «teologia dei topi», la definiva Eliano; che poi concludeva: «A questa ci ha portato la citazione di Apollo. E non sarà certo per noi di gran detrimento aver sostato un momento a comprendere i dettagli di una simile tradizione».
l’antica legge del talamo eus che carezza il mento di Era o che circonda la dea con un braccio e le sfiora il seno con la mano è un’immagine cara agli artisti greci e ben nota al loro pubblico. Compare infatti in una terracotta dal tempio di Era a Samo e, con qualche variante, anche su un frammento architettonico di Micene, su un fregio del Partenone ad Atene e ancora su un affresco di Pompei. La raffigurazione piú delicata compare su una metopa realizzata intorno a 470 a.C. per il tempio di Era a Selinunte: qui Zeus è seduto su un monte e accarezza il braccio della dea, che sta per togliersi il velo. Guida l’interpretazione di questa scena un passo omerico, che per primo raccolse l’episodio, quasi come un intermezzo Frammento di un fregio architettonico raffigurante le nozze tra Zeus ed Era, dal santuario di Apollo Liceo a Metaponto. 600 a.C. circa. Metaponto, Museo Archeologico Nazionale.
nel fragore delle armi sotto le mura di Troia. Gli Achei che assediano la città, si legge nel libro XIV dell’Iliade, sono in crisi, dopo un assalto dei nemici presso le navi; il dio Poseidone è pronto a combattere al loro fianco ed Era (che odia i Troiani perché Paride, chiamato a scegliere la dea piú bella, le aveva preferito Afrodite) gioisce dall’Olimpo, vedendolo ispirare coraggio agli Achei. Zeus però vigila, e impedisce che gli dèi intervengano a mutare le sorti della guerra.
Un inganno ben architettato Allora, senza troppo esitare, Era decide d’ingannare lo sposo. Chiude dietro di sé le porte della camera nuziale, con ambrosia purifica il corpo, lo unge e lo profuma; pettina le trecce lucenti, guarnisce la veste con fibbie dorate, indossa orecchini a tre perle, copre il capo con un candido velo. Poi lascia l’Olimpo; chiede e ottiene da Afrodite una fascia a vivi colori, che dia un tocco adeguato alla seduzione; adorna con essa il suo seno e raggiunge lo sposo. Come Zeus la vede, «subito la brama avvolge il suo cuore prudente, come quando la prima volta d’amore s’unirono, di nascosto dagli amati genitori»; dice alla sposa, che «mai cosí desiderio di dea o di donna mortale mi vinse» e la invita a giacere con lui. Ma Era, meditando l’inganno, rifiuta d’abbandonarsi all’amore «là dove tutto è in piena luce». Zeus però la rassicura: «Non temere, né uomo né dio ci vedrà, giacché tale nube dorata io verserò tutt’intorno che neppure il sole potrà penetrarla». Cosí dicendo il figlio di Crono accarezza e abbraccia la dea; insieme giacciono su crochi e giacinti, su tenera erba. Poi Zeus tranquillo s’addormenta, cedendo al sonno e all’inganno, mentre sulla spiaggia troiana il fratello Poseidone guida gli Achei in un vittorioso contrassalto. S’è voluto vedere in questa scena la consumazione del matrimonio divino, la rappresentazione artistica di un’unione che, in quanto inganno a Zeus, esalta il trionfo di Era come sposa. Parallelamente, si è proposta per Era un’interpretazione che
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ERA
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riconosce nella sua figura la divina custode del vincolo matrimoniale. Questa interpretazione trova del resto notevoli riscontri nella documentazione. Già nei testi micenei, per esempio, essa riceve offerte al fianco di Zeus; a Samo, ad Argo, a Olimpia, a Paestum, a Crotone e negli altri centri del suo culto, inoltre, Era è la dea garante della realizzazione matrimoniale, invocata dalle donne con l’appellativo di Teleia, che vuol dire «Perfetta», in riferimento specifico alla compiutezza del matrimonio legale. Sia Omero che altri scrittori, d’altro canto, si soffermano a caratterizzare Era come moglie severa e insieme come dea che «tutti nel vasto Olimpo rispettano», perché «regina e nobile sposa del re degli dèi», l’unica che «giace tra le braccia dell’altissimo» e siede sul trono di fronte a lui. Cosí la mostrano, peraltro, molte ceramiche e serie monetali: seduta sul trono, con lo scettro della regalità tra le mani, in pari dignità rispetto a Zeus. Si può dire, insomma, che i Greci sentivano Era come protettrice delle istituzioni familiari, come signora di quelli che Omero nell’Odissea, al momento d’introdurre finalmente nella camera nuziale Ulisse e Penelope, chiama «i diritti dell’antico letto», di cui godono legittimamente gli sposi. L’espressione omerica è stata anche tradotta come «l’antica legge del talamo», che meglio racchiude l’ambito sul quale Era regna sovrana, quello della donna nella legalità del matrimonio.
Una figura piú complessa Ma il personaggio di Era, quale traspare dai testi e dall’arte, è anche una figura piú complessa, che guida alla scoperta di ciò che i Greci immaginarono a fondamento della legalità matrimoniale, senza tuttavia lasciarsi racchiudere nel modello della divina custode della virtú coniugale. Zeus ed Era, raccontano i miti, sono fratelli, figli entrambi di Crono e di Rea; la dea si può dunque gloriare col coniuge d’una parità di nascita nobile e singolare. Zeus l’ha sposata, secondo Esiodo, in terze nozze, dopo Metis, ingoiata gravida di Atena per assimilarne le qualità, e la splendida Temis,
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Metopa raffigurante Zeus seduto su un monte che accarezza il braccio di Era, che sta per togliersi il velo, dal tempio selinuntino della dea. 470 a.C. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».
che gli generò le Stagioni. Ma Era non è semplicemente l’ultima moglie di Zeus: nella realtà attuale essa è la sposa legittima del Signore degli dèi, la sola che può vantare ed offrire (come fa a Paride) la supremazia regale. Era viene inoltre descritta come dea irascibile e violenta, «avida di lotta e di tumulto», nutrice perfino di mostri come l’Idra di Lerna e il Leone di Nemea. La sua personalità è quella di una donna ostinata, che cerca di penetrare i piccoli segreti del consorte, che non esita a ingannarlo; questi, dal canto suo, può preservare la sua supremazia solo minacciando percosse. A lei, per esempio, Zeus di nuovo sveglio dopo l’inganno sull’Ida ricorda di averla già una volta appesa con i piedi legati a due incudini e una catena alle braccia. Era, da parte sua, di fronte ai tradimenti del coniuge, resta fedele; ma reagisce sempre, perseguitando con odio di sposa gelosa le amanti del marito e i loro figli. Moglie litigiosa e vendicativa, per altro verso, Era non è madre affettuosa, come appare per esempio Demetra con Persefone.
A Zeus, per vero, Era ha dato dei figli, che sono Ebe l’eterna Giovinezza, Ilizia la dea che favorisce il parto, e soprattutto Ares violento, che le somiglia e che il padre considera come il figlio piú detestabile. Nato da Zeus e da Era è anche Efesto signore del fuoco; ma è un dio sciancato, che la madre non esita a gettare giú dall’Olimpo, per nascondere quel suo parto infelice, e che poi vive appartato dal consesso divino. Questo almeno racconta Omero; secondo Esiodo, invece, Efesto nacque dalla sola Era, partorito per ira verso Zeus che da Hydria (vaso per acqua) calcidica a figure nere raffigurante Zeus che scaglia il fulmine contro il mostro Tifone che Era partorí da sola. 540-530 a.C. Monaco, Antikensammlungen.
solo aveva generato Atena, ignorando la sposa. L’Inno omerico ad Apollo trasforma perfino questo conflitto coniugale in un contrasto cosmico: figlio della dea irata non è Efesto, ma il mostruoso Tifone, che Era partorí da sola, senza disonorare il suo talamo ma ben decisa ad avere un figlio «senza l’aiuto di Zeus, non meno forte di lui, anzi piú forte di lui». Tifone, in effetti, provò a spodestare Zeus, ma fu battuto, schiacciato dal dio sotto l’Etna, dal quale ancora vomita fiamme.
Regina del letto nuziale Cosí i miti di Era, come sostiene Marcel Detienne, esplorano i poteri del corpo femminile: affermano che la donna non è inferiore al maschio e può dare la vita spontaneamente; ma provano, al contempo, che la specie femminile risulta irrimediabilmente carente, incapace di produrre da sola una discendenza perfetta. Essi ci dicono poi che l’antica legge del talamo, che fa di Era la regina del letto nuziale, è solo un aspetto del rapporto tra due coniugi: quello legale, il piú importante. Per sedurre il suo sposo Era ha bisogno infatti delle arti di Afrodite, di quel nastro ricamato che stringe al suo seno, perché esso racchiude «tutti gli incanti d’amore». Era dunque ha le chiavi della camera nuziale, dalla quale attinge autorità sugli altri dèi e per la quale può essere venerata come Colei che unisce gli sposi nel talamo: ma la sua femminilità è circoscritta a questo spazio. Il piacere erotico, la cura del focolare domestico e l’educazione della prole non la riguardano, sono dominio d’altre divinità. La donna greca, compagna dell’uomo che ha firmato con suo padre il contratto di nozze, sarà dunque sposa legittima come Era, ma amante come Afrodite e nutrice come Demetra, dopo essere stata vergine come Artemide, la dea cacciatrice che vive nei boschi libera dal giogo matrimoniale.
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tormenti d’amore
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no dei papiri magici dell’Egitto greco-romano conserva in greco il testo di uno scongiuro chiamato «gladio di Dardano», da utilizzarsi per far innamorare una donna. Dardano era, verosimilmente, il nome di un mago famoso, mentre il rito era detto gladio «perché non ve ne sono altri con la stessa forza, altrettanto capaci d’attirare un’anima», come si legge all’inizio dell’incantesimo. Seguendo le istruzioni, si doveva incidere su una gemma l’immagine di Afrodite a cavalcioni della fanciulla Psiche e scrivere sopra la testa della dea una formula magica. Sotto le figure, poi, si doveva riprodurre quella del dio Eros, con una torcia accesa in atto di bruciare Psiche. Sull’altra faccia della pietra si dovevano invece raffigurare Eros e Psiche abbracciati e incidere altri caratteri magici. Perché l’incantesimo avesse pieno effetto, infine, si doveva porre la gemma sotto la lingua, volgersi verso la persona desiderata e rivolgere a Eros una preghiera di questo tipo: «Io invoco Te, autore della creazione, che distendi le ali sul mondo. Tu sei inavvicinabile, il primo nato, il fondatore dell’universo. Tu avvolgi i pensieri della ragione ed emani una cupa follia, che pervade segretamente ogni anima (...). Io invoco Te, armato di arco e di torcia, dispensatore dell’oblío, creatore del silenzio: volgi l’anima di costei verso di me, cosí ch’ella possa provare passione per me e donarmi ciò che è in grado d’offrire».
EROS
Duplice significato Il testo di questo gladio gioca sul termine psyché, che in greco vuol dire «anima», ma si usa anche per il personaggio di Psiche, raffigurata sull’oggetto e noto per l’amore che l’univa a Eros. Quest’ultimo, peraltro, è il vero protagonista dell’incantesimo, potente signore d’ogni forma d’innamoramento. A lui s’indirizzano nei papiri molti altri scongiuri d’amore, che suggeriscono anche di preparare figurine di Eros in atto d’infiammare Psiche o amuleti
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Psiche scopre Amore, olio su tela di Simon Vouet. 1626-1629. Lione, Musée des Beaux-Arts.
con la stessa effigie. Il ritrovamento di numerose pietre, raffiguranti il dio nell’atto d’infliggere tormenti, ci garantisce poi che le prescrizioni dei papiri erano effettivamente applicate; una gemma di diaspro nero di provenienza libanese, in particolare, riproduce con esattezza il gladio di Dardano, con Afrodite a cavalcioni di Psiche ed Eros con la torcia. Chi preparava o utilizzava questi oggetti conosceva senz’altro le narrazioni relative ai personaggi coinvolti, che si adattavano
bene ai riti della magia erotica. Il racconto per noi piú noto si legge nelle Metamorfosi di Apuleio, opera del II secolo d.C. Psiche era l’ultima e la piú bella di tre principesse, che per la sua eccessiva bellezza aveva suscitato la gelosia di Afrodite. La dea aveva chiesto pertanto a suo figlio Eros di far innamorare la fanciulla del piú disgraziato dei mortali; ma Eros, l’Amore, se ne era innamorato lui stesso. Maritate intanto le figlie maggiori, il padre di Psiche aveva appreso da un oracolo che avrebbe dovuto
esporre su un monte la fanciulla trascurata da tutti, offrendola a un mostro alato. Il re aveva obbedito e un corteo funebre aveva accompagnato la vergine per quelle nozze con la morte; quando però Psiche si era ritrovata sola, era stata condotta in un palazzo incantato, dove ogni notte un amante invisibile le faceva visita, dileguandosi prima dell’alba. La ragazza, felice, aveva promesso al suo misterioso visitatore che mai avrebbe cercato di conoscerne l’identità. Tuttavia, spinta dalla
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curiosità e dalle insinuazioni delle sorelle, una notte Psiche aveva voluto vedere il compagno addormentato, per scoprire, alla luce di una lampada, che non era un mostro, bensí il giovane e bellissimo Eros. Una goccia d’olio bollente era però caduta dalla lucerna sulla spalla del dio, che svegliatosi, subito volò via. Aveva cosí avuto inizio una lunga serie di sofferenze per Psiche, tormentata da Inquietudine e Tristezza, provata dalla vendetta di Afrodite, costretta
perfino a scendere negli Inferi. Eros, infine, aveva ottenuto da Zeus il permesso di sposare la fanciulla, che per entrare nell’Olimpo aveva comunque dovuto rinunciare alla natura mortale, nutrendosi dell’ambrosia, cibo divino. Questa, come s’è detto, era la storia che si raccontava al tempo di Apuleio, quando il mito di Eros e Psiche era ormai raccontato come un romanzo, arricchito e divulgato dalle numerose raffigurazioni del tema, elaborate dall’arte ellenistica e romana, alle quali facevano anche riferimento gli operatori di magia. Cosí confezionato, peraltro, il racconto si prestava a varie interpretazioni allegoriche: taluni filosofi, per esempio, utilizzarono il legame tra i due personaggi col significato simbolico dell’anima umana compenetrata dell’amore divino e accolta nel cielo dopo avere scontato i propri errori. Del racconto si serví anche l’arte cristiana, come immagine espressiva dell’esistenza oltremondana del defunto, particolarmente per la decorazione di sarcofagi e nella pittura catacombale.
Al servizio di Afrodite Ma restiamo a Eros e alle sue funzioni. Quando Apuleio scriveva il suo racconto e il mago Dardano preparava il suo gladio, s’era ormai fissata la tradizione che riconosceva Eros quale figura potente, attorno alla quale s’organizzava miticamente ogni forma di sessualità. Lo stabiliva in questa funzione anzitutto la genealogia, che lo faceva nascere dalla dea Afrodite. Lo esprimevano poi i miti e le immagini, che ponevano Eros al servizio della madre, armato dell’arco con cui scoccava le sue frecce d’amore. Cosí lo cantarono i lirici, a cominciare da Saffo, Pindaro, Simonide e Bacchilide, per i quali Eros incarna il desiderio sessuale, crudele e imprevedibile. Cosí lo Amore e Psiche, gruppo in marmo pario rinvenuto nel 1749 sul Colle Aventino. Seconda metà del II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
raffigurarono anche gli artisti della Grecia classica, che lo mostrano intento a turbare i cuori, infiammandoli con la torcia o ferendoli con le frecce. I poeti alessandrini e gli artisti d’epoca ellenistica e romana, per contro, elaborarono soprattutto l’immagine di un Eros fanciullo, servitore di Afrodite, fino a moltiplicarlo, in una decorativa pluralità di angioletti maliziosi, che giocano ai piedi della dea o si allattano al suo seno. Ma sotto le vesti dell’amorino apparentemente innocente s’indovina ancora la figura del dio, che causa ferite crudeli. La testimonianza del gladio di Dardano, oltretutto, ci dice che in quest’epoca non era venuta meno, e anzi s’era ulteriormente sviluppata, un’altra caratteristica che accompagna la figura di Eros fin dall’età arcaica: quella che, attribuendogli il potere di consentire ogni congiungimento sessuale, estende il suo campo d’azione a tutta l’esistenza. In tale funzione, in effetti, lo aveva cantato già Esiodo, facendo di Eros una delle potenze primordiali, insieme a Caos e a Gaia. Come principio cosmico lo avevano immaginato anche i filosofi presocratici, Ferecide, Parmenide, Empedocle e Acusilao. In un Eros bisessuato, nato dall’Uovo primordiale da cui tutto prese vita, avevano invece creduto gli Orfici, movimento religioso marginale nell’antica Grecia; vi accenna, per esempio, il commediografo Aristofane, che parla di un Eros scintillante nelle ali d’oro, il quale, «dopo essersi unito, di Lekythos attica a figure rosse con l’immagine di Eros, da Gela. 500-450 a.C. Oxford, Ashmolean Museum.
notte, al Vuoto alato, fece sbocciare la razza imperitura degli dèi beati». Il filosofo Platone, per parte sua, preferisce parlare di Eros come un dèmone, figlio di Povertà e di Espediente, dai quali avrebbe ereditato il carattere inquieto che lo distingue, continuamente macerato dalla mancanza di bello e di bene, e volto al loro possesso.
Un dio dai mille volti L’immagine che offrono di Eros i papiri magici, la letteratura e l’arte della tarda antichità, per concludere, eredita e sviluppa l’insieme dei miti elaborati dai Greci intorno al personaggio. Forse, guardando alla varietà della documentazione e valorizzando la testimonianza di Platone (che parla di lui come un dèmone intermediario tra uomini e dèi, ma ricorda pure che al suo tempo si faceva differenza tra l’Eros cosmico e il servitore di Afrodite, e si distingueva perfino tra l’accompagnatore dell’Afrodite Urania, nata dallo sperma del padre Urano, e quello dell’Afrodite Pandemia, figlia di Zeus e di Dione), sarebbe piú corretto parlare di una pluralità di Eros e non di un unico personaggio. Forse però, e piú semplicemente, conviene prendere atto della molteplicità delle immagini elaborate nel mondo antico, dall’Eros di Esiodo a quello di Dardano, e riconoscere in tutte la capacità del pensiero classico di adattare alle diverse circostanze la personalità di un essere che riassume in sé i poteri e i turbamenti dell’amore.
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la signora degli animali
«S
ARTEMIDE
ui monti se ne va Artemide saettatrice, lieta fra cinghiali e cerve veloci e con lei giocano le ninfe dei campi»: cosí recita un passo dell’Odissea, cantando le lodi di una delle dee piú venerate nel mondo classico. Gli fanno eco inni, poemi e citazioni varie, e, alle descrizioni dei poeti, fa da riscontro l’arte figurativa, che mostra Artemide come dea cacciatrice, signora degli animali. Gli artisti dell’epoca arcaica utilizzavano per essa un modello d’origini siriane e la raffiguravano con gli animali branditi nelle mani, spesso alata e talora in cima a un monte. Quelli dell’epoca classica preferivano invece porne in risalto la natura giovanile, la passione per la caccia, la maestria nel tirare con l’arco: splendida fanciulla, dunque, è l’Artemide raffigurata con i capelli dorati, la corta tunica da caccia, la faretra, l’arco e le frecce, quale si ammira nella pittura dei vasi attici, sui rilievi e sulle monete.
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Si potrebbe pertanto adottare, per Artemide, la definizione di «dea degli animali e della caccia», che rende bene l’elemento principale della sua personalità nella religione greca. Ma questa chiave interpretativa non basta a chiarire tutti gli aspetti del complesso personaggio divino, cosí come non basta a comprendere l’antichità della sua figura, la molteplicità degli epiteti, l’estrema diffusione e la particolare collocazione dei suoi santuari.
Erede di culti ancestrali È dubbia, per esempio, la sua presenza nei testi micenei, ma il suo nome compare fra gli dèi di Lidia e di Licia, mentre una divinità dei boschi e dei monti è già nota a Creta, sui documenti del XV secolo a.C. È probabile che nel personaggio di Artemide siano confluiti elementi religiosi di grande antichità, appartenenti a un mondo in cui la caccia
doveva essere l’aspetto preminente della struttura sociale ed economica, prima che l’agricoltura si affermasse e con essa l’organizzazione delle città e la divisione dei ruoli tra gli esseri umani. Di fatto, l’Iliade la qualifica come Pótnia therôn, «Signora delle fiere», epiteto peculiare che corrisponde in pieno al tipo iconografico della dea dominatrice e protettrice della natura selvaggia, documentato in Grecia tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C. Di questa origine pre-olimpica del personaggio di Artemide danno prova anche i miti (e le relative figurazioni), che la considerano senz’altro inserita tra le divinità dell’Olimpo, la vogliono figlia di Zeus e sorella di Apollo, partecipe delle lotte primordiali, ma la dicono anche pronta ad abbandonare il consesso degli dèi e quello degli uomini per tornare ai suoi giochi sui monti. «Lei, ancora bambina», narra Callimaco, «chiese un giorno a suo padre: “Dammi di conservare verginità eterna e ricchezza di titoli; dammi l’arco e le frecce; fa’ che io vesta il chitone frangiato, fino al ginocchio, per uccidere le bestie feroci. Delle città, invece, assegnami quella che vuoi: sui monti avrò dimora e visiterò le case degli uomini solo quando le donne tormentate da acute doglie m’invocheranno. In loro soccorso mi assegnarono le Moire quando nacqui, poiché mia madre portandomi in grembo non patí sofferenza e senza sforzo mi partorí dalle sue membra”». I miti giustificano cosí la ricchezza di questa figura divina, raccogliendo l’antica immagine della Pótnia therôn e
rielaborandola in funzione delle mutate condizioni esistenziali; essi motivano anche la pluralità degli epiteti di Artemide, che corrispondono ai suoi caratteri e ad altrettante specifiche iconografie. I poeti e gli artisti celebrano infatti la dea non solo come «Quella delle fiere» o come la «Signora delle montagne inospitali», ma anche come «Nutrice ed educatrice dei giovani», come «Protettrice delle partorienti» e «Custode dei porti», e ancora con altri appellativi che poco hanno a che fare con la sfera della caccia.
Da Sparta a Efeso Fra questi, alcuni sono piú propriamente connessi ai luoghi numerosi nei quali la dea era venerata: si conosce, per esempio, una Artemide Orthía, adorata presso Sparta, a sud-est della città, dove gli scavi hanno riportato alla luce molti ex voto, tra i resti di un santuario che risale al 900 circa a.C.; e poi una Artemide Brauronia, venerata a Braurone, presso Atene, in un santuario del quale
A destra cratere a campana a figure rosse raffigurante Artemide che finisce con un tiro del suo arco Atteone, che già è stato attaccato dai cani della dea. Pittore di Pan, 470 a.C. circa. Boston, Museum of Fine Arts. Nella pagina accanto rilievo raffigurante Zeus e la Trinità apollinea, ovvero Leto e i suoi figli Apollo e Artemide, dalla stoà del santuario di Artemide Brauronia. IV sec. a.C. Braurone, Museo Archeologico.
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rimangono resti importanti, vasi, statuette e iscrizioni del V secolo a.C.; e ancora una Artemide Munichia, dal porto attico sede di un suo celebre tempio, una Artemide Taurica, titolare dei santuari del Chersoneso taurico (Crimea), e una Artemide Efesina, dall’Artemision di Efeso, famoso dai tempi dei piú antichi re di Lidia fino all’impero romano. Frequentavano questi luoghi a lei consacrati non soltanto i cacciatori, ma anche i giovani prossimi a lasciare la pubertà, che vi trascorrevano un certo periodo, in vista del passaggio all’età adulta; qui venivano parimenti le puerpere, che ringraziavano la dea per l’assistenza ricevuta; in essi l’invocavano anche Cratere attico a figure rosse raffigurante il massacro dei Niobidi, da Volsinii (Orvieto). Attribuito al Pittore delle Niobidi, 460-450 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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le donne sterili e qui si conservavano le vesti di quelle morte di parto, che una credenza popolare riteneva saettate da Artemide. I santuari della dea, inoltre, con una frequenza significativa, erano costruiti ai confini dello spazio civico: presso sorgenti, fiumi e paludi, sulle cime dei monti o in riva al mare, ai margini delle terre coltivate e dello spazio abitato. Artemide, insomma, è la dea di ciò che è fuori dalle città e dai villaggi, fuori dalle opere degli uomini, come ha scritto Walter Burkert.
Confini reali e simbolici Essa però veglia non tanto sul mondo selvaggio, che pure le appartiene, bensí soprattutto su quello spazio di confine che consente di toccare il marginale; è la Signora delle eschatiái, come dicevano i Greci per definire le zone di frontiera tra la terra incolta e quella coltivata e insieme per rappresentare simbolicamente un altro passaggio, quello dall’infanzia e dall’adolescenza alla vita matura di cittadino, di guerriero, di sposo. Da qui il ruolo educativo di Artemide, che fa crescere i ragazzi, li accompagna nel tempo selvaggio della vita e li abbandona sulla soglia delle nozze e della vita civica; da qui anche la verginità della dea, inviolata e inviolabile, che protegge ed esige la castità dal corteggio chiassoso di giovani che a lei s’accompagna; da qui, infine, la gelosia di Artemide, che si lascia invocare da ogni ragazza che realizza il proprio destino di madre, ma che pure è responsabile della morte di ogni donna che non riesce a raggiungerlo. A ben guardare, anche i miti che parlano di Artemide quale patrona della caccia esprimono, in altro modo, questi stessi valori: la vergine che veglia sulle fiere, e consente di ucciderle, è anche la dea che chiede conto per ogni animale cacciato in modo errato, per ogni eccesso compiuto nello spazio su cui regna. In tutto questo, anzi, Artemide è dea scontrosa
Statua in marmo di Artemide, copia della statua colossale dell’Artemision, da Efeso. 125-175 d.C. Selçuk, Museo Archeologico di Efeso.
e vendicativa; le vittime, nei suoi miti, non si contano. Il cacciatore Ippolito voleva rimanere casto, dedito esclusivamente al culto di Artemide: finí travolto dai suoi cavalli imbizzarriti, vittima dell’offesa dea dell’amore Afrodite. Il gigantesco Orione, per contro, uccideva selvaggina a dismisura: morí ucciso da uno scorpione per aver sfidato o insidiato Artemide. Anche Atteone offese la dea, osando vederla mentre si bagnava nuda: lo dilaniarono i suoi cani fedeli. Oineo («l’uomo del vigneto») aveva offerto le primizie della sua raccolta a tutte le divinità; dimenticò però di sacrificare ad Artemide e quella mandò un cinghiale terribile, che devastò la sua vigna e tutto il Paese di Calidone. Callisto, vergine bellissima al seguito di Artemide, sedotta da Zeus, cercò di nascondere alla dea la sua gravidanza, ma fu scoperta e trasformata in un’orsa.
Valori piú ampi Nell’immaginario greco, per concludere, l’Artemide appassionata cacciatrice e divina protettrice della selvaggina, vergine libera dal giogo nuziale e gelosa custode d’ogni immatura sessualità, esprime valori ben piú ampi di quelli ereditati dall’antica figura sovrumana legata allo spazio selvaggio e agli animali da preda. In piú luoghi e in varie epoche, anzi, l’erede della Signora delle montagne e delle fiere finisce nel tempo col fondersi con altre divinità (come Iside, Atena, Demetra) e trasformarsi perfino in una grande dea cittadina (Tychè-Fortuna). A Efeso, in particolare, l’Artemide greca che aveva assimilato il culto di una divinità asiatica fu venerata in epoca ellenistica e romana arricchita da una peculiare funzione materna, plasticamente rappresentata dalle numerose mammelle che coprivano il suo petto divino, secondo l’iconografia che conosciamo da varie monete e da numerose statue.
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triste, ma bellissima
DEMETRA
È
conservata nel British Museum di Londra la Demetra di Cnido, una statua della scuola di Prassitele, databile intorno al 376-340 a.C.; faceva gruppo, probabilmente, con una effigie della figlia Persefone, come sembrano attestare le iscrizioni e gli ex voto del santuario da cui proviene. Demetra è raffigurata seduta, col volto segnato da una viva tensione; tutta la figura evidenzia un atteggiamento di grande mestizia, che pure non altera l’ideale bellezza. Caratteristico delle immagini della dea afflitta è spesso anche il velo, che ne copre parzialmente il volto e ne accentua la tristezza. Corrispondono a questo tipo iconografico varie testimonianze letterarie: le espressioni d’umana angoscia che l’autore dell’Inno omerico a Demetra utilizza ripetutamente per lei, per esempio, sembrano ispirate dalla vista di un’immagine plastica della dea addolorata nel suo tempio in Eleusi; «Affranta» è poi uno degli epiteti ricorrenti per Demetra; alle sue pene s’intitolava, parimenti, una festa in Beozia e ancora nel II secolo d.C. Clemente Alessandrino scriveva che nell’arte la dea si riconosce facilmente «per la sua infelicità». I motivi di tale mestizia sono al centro dei racconti su Demetra, che per il resto quasi la considerano personaggio marginale, nonostante l’altissimo valore nel culto. Tutto, nel mito, comincia quando la figlia Persefone, nata dall’unione di Demetra col fratello Zeus e spesso chiamata Core, viene rapita da Ade. Il ratto avviene in un lampo: la fanciulla è intenta a raccogliere fiori, quando s’apre la terra, viene fuori il Signore degli Inferi sul cocchio dorato, afferra Core e la porta con sé.
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Demetra, lontana, avverte il grido lanciato dalla ragazza e un acerbo dolore subito prende il suo cuore di madre; si strappa i capelli, getta sulle spalle un manto funereo e parte alla ricerca della figlia. Per nove giorni vaga sulla terra, senza nutrirsi o lavarsi, senza che nessuno osi dirle la verità; al decimo, infine, conosce l’accaduto dal Sole, sentinella divina. Questi le rivela che il rapimento è avvenuto con il consenso di Zeus, il quale ha concesso Core come florida sposa al fratello Ade, e l’invita ad accettare il destino della fanciulla, ormai Signora dai molti sudditi nell’oltretomba.
Il tormento di una madre La tristezza che si coglie nelle figurazioni di Demetra è dunque, con piú precisione, il tormento di una madre, anzi della «Madre» per eccellenza, giacché questo titolo racchiude in greco il nome Deméter, cosí come Kore vuol dire «Ragazza». Madre e Fanciulla, Demetra e Core, sono peraltro, nel mondo classico, due figure intimamente connesse, tanto che di loro si parla spesso, e piú semplicemente, come delle «due dee» o anche de «la Madre e la Figlia». Frequente, anche nell’arte, è l’associazione delle due divinità, in gruppi di statuette fittili, nelle immagini dei santuari, sulle monete e su altri oggetti; inoltre, se è la figlia a determinare l’effigie di Demetra come madre addolorata, questa talvolta è rappresentata come dea giovane e bella, tanto da confondersi con la figlia. Sarcofago decorato da un rilievo raffigurante il ratto di Persefone da parte di Ade. Inizi del III sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Statua di Demetra in trono, dal santuario della dea a Cnido (oggi in Turchia). 350-330 a.C. Londra, British Museum.
La mestizia non è però l’unico tratto caratteristico di Demetra: all’immagine di una madre angosciata si associa infatti quella di una «Signora delle messi, ricca di doni», aspetti sui quali convergono sia la tradizione mitica, sia i dati cultuali, sia l’espressione artistica. Nel piú noto rilievo del santuario di Eleusi, per esempio, Demetra è una nobile matrona, che porge un fascio di spighe; sulle monete e sulle pitture murali, poi, è quasi sempre raffigurata con una corona di spighe. Per lei, in occasione della semina del grano, le spose legittime celebravano le Tesmoforie, feste tipicamente agrarie. È lei, scrive l’autore dell’Iliade, che riempie il granaio del contadino, è lei che separa il grano e la pula al soffio dei venti. I Greci, oltretutto, chiamavano «frutti di Demetra» i prodotti della terra coltivata: quegli stessi frutti (orzo, frumento e spelta) che i Romani, con riferimento al nome latino della dea (Cerere), chiamarono poi cereali.
Doni preziosi per un dolore eccezionale Altro dono della generosa Demetra è l’istituzione dei «misteri», grandiose feste autunnali che i Greci celebravano a Eleusi con la speranza di avere in tal modo una sorte migliore, in vita e nell’aldilà. Doni preziosi, gli uni e gli altri, che giungono all’umanità, secondo il mito, proprio in connessione con il dolore eccezionale di quella madre divina. Saputo l’accaduto, prosegue infatti il racconto, un cordoglio piú aspro entra nel cuore di Demetra, mescolandosi all’ira, per l’inganno e la perdita. La dea abbandona l’Olimpo, camuffa il suo aspetto, vaga per le città e nelle fertili campagne abitate dagli uomini. Giunge infine a Eleusi, presso Atene, e simile a una vecchia viene accolta nella reggia; rifiuta cortesemente la coppa di vino mielato che la regina le porge, chiedendo invece un po’ d’acqua e farina mescolate con malva: insegna, cosí, a preparare il ciceone, la bevanda che i fedeli bevono durante i misteri eleusini. Accetta poi l’invito ad allevare il
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piccolo principe e se ne occupa da divina nutrice qual è: nutrendolo cioè con ambrosia e passandolo di notte nel fuoco, come un tizzone, per renderlo immortale. Il bimbo cresce bellissimo e somiglia sempre piú a un dio. La regina, meravigliata dal suo sviluppo prodigioso, vuole conoscerne il motivo: vede il figlio tra le fiamme, si allarma e interrompe la dea. Demetra rinuncia allora a rendere immortale il bambino, si mostra nella sua gloria divina, ordina che venga eretto per lei un grande tempio e insegna i riti che in esso gli uomini, da quel momento, devono celebrare; poi lascia il palazzo e si ritira nel santuario, struggendosi di nostalgia. Sopraggiunge nei campi una grande siccità; nulla germoglia e nulla cresce poiché Demetra nasconde i semi nei solchi e invano arano i buoi. La stirpe umana rischia d’estinguersi e gli dèi di non avere piú l’onore glorioso dei sacrifici. Accorrono in Eleusi i messaggeri di Zeus, per convincere Demetra a tornare tra gli immortali; ma la dea è irremovibile, vuole prima rivedere sua figlia. Il mondo degli Inferi deve perciò riaprirsi e Ade piegarsi a restituire la sposa. Ma Core, nell’oltretomba, ha già gustato il cibo infernale: un solo chicco di melagrana, sufficiente a legarla per sempre al regno delle tenebre. Si trova un accordo: Core trascorrerà un terzo dell’anno negli Inferi, per risalire poi tra gli immortali, nel tempo rimanente.
Il vero significato del mito Sarebbe facile, e tutto sommato anche banale, interpretare il periodico comparire e scomparire di Core come un’allegoria della natura e dell’annuale ciclo vegetativo; ma il mito è piú complesso. La carestia, peraltro, non è conseguenza diretta della scomparsa della Ragazza, bensí dell’ira di Demetra per tale avvenimento e la divisione del tempo, stabilita per Core, male si adatta al ritmo della crescita dei cereali nel Mediterraneo. In fondo, scrive Walter Burkert, il mito non parla di un ciclo: le cose non torneranno piú come prima del rapimento; con le storie di quella figlia alternativamente presente nell’Olimpo e negli
In alto rilievo raffigurante la dea Demetra in trono, con una kore davanti a lei che regge due torce. 480 a.C. circa. Eleusi, Museo Archeologico. Nella pagina accanto particolare del Cratere di Altamura (o dell’Inferno) raffigurante Ade e Persefone in un edificio che rappresenta la dimora delle divinità dell’Oltretomba, da Altamura. Produzione tarantina, 350 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Inferi, di quella madre che visita le case degli uomini, che accetta e ricambia la loro ospitalità col dono dei cereali e dei misteri, viene piuttosto legittimata una duplice esistenza, fra mondo dei vivi e mondo dei morti, una dimensione mortale della vita e una dimensione vitale della morte. I cereali, da un lato, stabiliscono la distinzione tra raccogliere e produrre cibo, assicurando cosí le condizioni del vivere civile; i misteri, dall’altro, costituiscono il frutto dell’immortalità mancata del principino di Eleusi, ma sono, al contempo, un’alternativa umana e culturale al destino mortale che tutti ci attende. Il mito, insomma, insegna che la terra non è solo il regno dei morti, al quale si può comunque guardare senza eccessivo timore per il conforto che danno i misteri, ma anche la riserva inestinguibile delle piante commestibili, che garantiscono il benessere dei viventi. Questo era il segreto rivelato nel corso dei riti notturni a Eleusi: che la Madre e la Figlia sono, con le loro vicende, speranza e sollievo, gioia e prosperità.
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caduta dal cielo
È
ATENA
forse di origine micenea la raffigurazione di Atena con elmo, corazza, scudo e lancia brandita; statuette di divinità femminili armate, ritrovate a Creta, o analoghe immagini su gemme, anelli e pitture di Micene, di Cnosso e d’altre località, possono infatti costituire il precedente per tale motivo iconografico. È tuttavia possibile anche una derivazione dall’antico Vicino Oriente, dove è ben attestata la riproduzione di un dio in armi, con lancia sollevata pronta al getto, e dove compare l’antecedente piú specifico per questa sovrumana guerriera, nei tratti dell’Anat canaanea, dea terribile, incitatrice nella mischia e guida degli eserciti. Di fatto, nell’arte greca Atena si riconosce immediatamente proprio per questi attributi militari, che le sono specifici come il fulmine
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lo è per suo padre Zeus, il tridente per il dio del mare Poseidone e l’arco per la cacciatrice Artemide. Pertanto Atena, considerata protettrice delle città e d’ogni forma d’ingegno, si presenta subito nella sua caratteristica principale, che è quella di una vergine armata, pronta a difendersi. Cosí la raffigurarono i grandi artisti del mondo greco, come l’ateniese Fidia, che verso la metà del V secolo a.C. realizzò statue gigantesche della dea in bronzo, in oro e in avorio; cosí la raccontavano i miti, per i quali Atena era uscita già completamente armata dal cranio di Zeus, aperto con la scure da Efesto. «Pallade», chiamavano gli antichi Greci la dea Atena in armi, con un epiteto che si affianca sovente al nome proprio e talora lo sostituisce. Da questo appellativo prendeva
Col termine «palladio» (questo appunto è il nome che si dava all’effigie di Atena, raffigurata immobile con la lancia brandita) si designava una statua di piccole dimensioni e di fattura non particolarmente accurata, dapprima realizzata in legno, poi rivestita con placche di bronzo, qual è testimoniata nell’arte greca fin dal VII secolo a.C. Stando ai testi, la città che custodiva il palladio aveva con esso garantita la propria invincibilità; da qui l’esistenza di piú copie dello stesso oggetto, create per proteggere l’originale dai furti. Secondo la tradizione
piú diffusa, anche se ignorata dall’Iliade omerica, il palladio era a Troia al tempo in cui vi giunsero gli Achei per riprendere Elena, che Paride aveva rapito allo sposo; ma si raccontava pure che esso fosse stato rubato a Sparta da Paride, insieme a Elena. Quel pegno di protezione divina, in ogni caso, impediva che Troia potesse essere conquistata; l’indovino Eleno aveva però rivelato la cosa a Ulisse, che una notte, travestito da mendicante e aiutato da Diomede, s’era introdotto in città, aveva rubato il palladio e lo aveva portato fino alle navi. È appunto questa la scena raffigurata con piú frequenza, sul palladio, soprattutto nelle decorazioni della ceramica greca. Cosí Troia era caduta e varie città potevano ormai vantare il possesso di quell’effigie; Argo, Atene, Sparta e Lavinio per esempio. Anche i Romani, almeno dalla fine dell’età
Nella pagina accanto anfora attica a figure nere raffigurante la dea Atena che nasce dalla testa di Zeus. 550-525 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
In alto particolare di un’anfora panatenaica raffigurante la dea Atena, armata di lancia e scudo, da Taranto. 500-450 a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.
nome anche una particolare forma di rappresentazione della dea, che sebbene non trovi confronto con la bellezza e la magnificenza delle grandi statue di culto, pure ha una sua storia, artistica e religiosa.
Garanzia di invincibilità
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repubblicana, asserivano di avere la statuetta: era nel tempio di Vesta, tra vari oggetti sacri custoditi con cura, poiché assicuravano l’assenso divino alla politica romana di espansione.
Versioni contrastanti Numerosi, del resto, erano i racconti che davano fondamento, nei vari luoghi, a tale possesso, in una sequenza di furti e d’inganni continui. Da un lato si narrava che il palladio troiano era finito nelle mani di Diomede, che l’aveva portato in Italia meridionale e l’aveva quindi restituito a Enea, quando il principe troiano s’era ormai stabilito nel Lazio per fondare Lavinio. Dall’altro si diceva che il palladio era ad Argo, dove l’aveva portato Agamennone, il conquistatore di Troia; o che qui era stato rubato da Leagro, che poi l’aveva donato ai re di Sparta. Altre tradizioni provavano invece, secondo gli Ateniesi, che il vero palladio era nella loro città, portatovi da Demofonte, che l’aveva avuto da Diomede; per ingannare Agamennone, venuto a reclamare il trofeo, Demofonte ne aveva fatto realizzare una copia e l’aveva consegnata solo dopo essersi battuto con l’esercito, cosí d’avvalorare l’inganno. Si raccontava, ancora, che i Troiani avevano nascosto accuratamente il palladio e ne avevano fatto scolpire una copia: solo questa era stata rubata da Ulisse e Diomede, mentre il vero palladio era stato posto in salvo da Enea, nella notte dell’incendio fatale, ed era con
lui giunto fino a Lavinio. Con la falsa copia rubata dagli Achei si spiegavano infine anche i miti e le raffigurazioni per i quali il palladio, al momento della caduta di Troia, era ancora nel tempio di Atena, dove la profetessa Cassandra, inascoltata figlia di Priamo, tentò invano di rifugiarsi e dove Aiace di Oileo, nella foga dell’inseguimento, urtò e fece cadere la statuetta, attirando su di sé l’ira della dea. Anche per l’origine del palladio romano, da ultimo, ci si rifaceva alla vera effigie troiana, rimasta nascosta in un muro prima d’essere trasportata a Roma. Queste, in breve, le vicissitudini del palladio, oggetto inamovibile eppure ripetutamente rubato. Come si vede, il suo valore era legato non tanto alla bravura del suo artefice o al materiale di cui era fatto, bensí alla sua presunta capacità di protezione, nonché ai numerosi racconti che, sul piano mitico, stabilivano il suo potere e lo fondavano, sia pure in vari luoghi, come eccezionale. Una tradizione registrata nel II secolo a.C. da Apollodoro, piú in particolare, lega l’unicità, il nome e i poteri del palladio alla storia della vergine Pallade, figlia di Tritone, con la quale l’ancor giovane Atena s’era addestrata alla guerra. Un giorno, per gioco, le due si sfidarono; Pallade era sul punto di colpire Atena quando Zeus, spaventato, intervenne e la distrasse con l’egida; cosí la dea, senza volerlo, colpí a morte Pallade, rimasta abbacinata. Addolorata per la fine dell’amica, Atena fabbricò una statua di legno a quella
L’interno di una coppa attica raffigurante Diomede che ruba il Palladio, forse da Valenzano (Puglia). 400-300 a.C. Oxford, Ashmolean Museum.
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identica, le coprí il petto con l’egida che l’aveva spaventata, la pose nell’Olimpo e le rese onore. In seguito la statua cadde dal cielo nella Troade, dove Dardano (o suo figlio Ilo) stava costruendo Troia: si diceva che Zeus, furioso per la resistenza opposta ai suoi ardori da Elettra, madre di Dardano, avesse scagliato giú il simulacro di Pallade, presso il quale la ragazza s’era rifugiata; oppure che Elettra avesse portato il palladio al figlio, quale protezione per la città che quello stava fondando; o ancora che Dardano stesso, avendo chiesto a Zeus un segno di approvazione per la nuova città, avesse trovato in pieno giorno, davanti alla sua tenda, il palladio caduto dal cielo; o infine che esso fosse disceso direttamente nel tempio di Atena, ancora in costruzione e senza tetto, sicché il palladio si sarebbe installato da solo nel luogo in cui venne poi custodito dai Troiani.
Un oggetto pericoloso Cosí, per concludere, aveva avuto origine il palladio; che era anzitutto effigie di Atena in quanto immagine del suo doppio guerriero, cioè della vergine Pallade. Questa, rigida nel simulacro costruito da Atena, che di lei aveva preso perfino il nome, aveva in sé quel potere abbagliante di cui lei stessa era stata la prima vittima. Sicché il palladio non era un’immagine da venerare sul piedistallo nel tempio, ma un oggetto pericoloso, intoccabile al pari della città che lo conservava: un feticcio, magico potremmo dire, da custodire in un luogo segreto e da non rimuovere perché segno della stabilità dell’insediamento. Ma l’effigie di Pallade/Atena, chiusa nell’armatura, era considerata immagine potente anche perché «caduta dal cielo», il che vuol dire venuta da un mondo diverso, cosí come lo erano i betili d’origine meteoritica, pietre sacre che non avevano foggia umana, come le splendide statue dei templi, e che tuttavia erano considerate immagini divine potenti, capaci di muoversi
e d’enunciare oracoli. Per questo tipo di simulacri divini i Greci usavano il termine xóanon e non ágalma, piú consueto per indicare la statua realizzata da un artigiano. Non a caso, dunque, anche di questo xóanon particolare, «non scolpito da uomo» secondo lo storico ateniese Ferecide, si raccontava che s’era mosso, aveva chiuso gli occhi, agitato la lancia, pianto e perfino trasudato, nelle mille avventure che lo avevano coinvolto. Cosí la taglia ridotta del palladio e la sua fattura non erano sinonimo di scarsa importanza cultuale; erano piuttosto la prova della veneranda antichità dell’oggetto, che risaliva ai tempi in cui gli eroi avevano combattuto per le loro città e le avevano fondate perché rimanessero durevoli in quei luoghi, come inamovibile era il loro palladio, la vera statua di Atena in armi, che garantiva la salvezza e la durata dell’insediamento.
La Atena Varvakeion, statuetta in marmo pentelico che replica in miniatura la statua di Atena Parthenos scolpita da Fidia per il Partenone e innalzata nel 438 a.C.: la piccola scultura misura poco piú di 1 m, mentre l’originale doveva essere circa 12 volte piú grande. 200-250 d.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
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nato due volte
DIONISO
S
tando a un mito raccolto già da Esiodo e dagli Inni omerici, la nascita di Dioniso, era andata piú o meno cosí: Semele, figlia di Cadmo re di Tebe, era rimasta incinta di Zeus. Era, la di lui sposa, convinse per gelosia la fanciulla a chiedere al divino amante di mostrarsi nella sua vera forma di dio celeste; quando Zeus l’accontentò, presentandosi tra tuoni e fulmini, Semele non sopportò quella vista e rimase folgorata. Zeus allora intervenne per salvare il feto, che trasse dal grembo materno e si cucí in una coscia. Finito il tempo della gestazione, Zeus generò Dioniso, sciogliendo i lacci che stringevano la gamba; Ermes raccolse il neonato e lo affidò alle cure di premurose nutrici, che lo allevarono al posto della madre, scomparsa nella lontana e misteriosa Nisa, al riparo dall’ira di Era. La scena, per vero, non è molto frequente nell’arte antica: solo pochi vasi attici e qualche cratere apulo testimoniano anzi l’interesse dei ceramisti greci per l’episodio, tra la metà del V secolo e gli inizi del IV a.C., mentre in Etruria esso compare su ceramiche e specchi del IV secolo a.C. e viene poi ripreso per la decorazione di alcuni sarcofagi romani. Piú diffuse, in epoca classica, sono le immagini desunte dai racconti della fanciullezza di Dioniso e soprattutto quelle che lo raffigurano adulto, strettamente collegato alla sfera del vino, cioè al dono principale che egli aveva fatto agli uomini quando aveva insegnato la coltivazione della vite e il buon uso del suo succo, temperato con l’acqua. Già nelle rappresentazioni del VII e VI secolo a.C., Dioniso compare avvolto in una lunga veste e spesso ritratto con in mano il cantaro, il particolare boccale a grandi anse che serviva per il vino. Nelle immagini di culto, poi, viene anche e piú semplicemente rappresentato da una maschera barbuta, appesa agli alberi e ornata con fronde e con tralci di vite. L’episodio della nascita aveva comunque un significato particolare, giacché Dioniso, grazie a esso, era invocato dai Greci come «Nato due volte», o anche come «Colui che ha due madri». Il motivo mitico era anche funzionale al
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culto di Dioniso quale Signore e protettore del feto e dei neonati: una legge del santuario del dio a Smirne, per esempio, proibiva l’ingresso alle donne che avevano interrotto volontariamente la gravidanza o esposto il proprio figlio alla nascita.
Il piú giovane degli immortali Per comprendere il significato del racconto e delle immagini dobbiamo guardare al complesso dei rapporti che questo dio ha con le altre divinità. Nelle raffigurazioni etrusche e greche con Zeus e Dioniso lattante appaiono Era, Ermes, Eros, Afrodite, Apollo, Artemide, le Ninfe, le Muse, Ilizia e altri personaggi. Gli dèi olimpici, insomma, ci sono tutti quando Dioniso nasce; egli è il piú giovane degli immortali. Il dio, oltretutto, è profondamente diverso dalle altre divinità e anzi si pone in contrasto con l’universo di valori che esse rappresentano per la società greca: egli è un dio che invita a provare l’eccesso e la trasgressione, che ama essere celebrato nel furore estatico e spinge le donne a disertare la spola e il telaio, per seguirlo sui monti a baccheggiare invasate; è un dio tumultuoso, che affascina chiunque si fermi a rimirarne l’immagine dagli occhi spalancati, con quella manía di cui egli stesso era rimasto vittima, quando era impazzito per la persecuzione di Era. Non a caso, nel corteo di divinità raffigurate di profilo sul cosiddetto Vaso François, Dioniso è l’unico rappresentato di fronte, con lo sguardo sbarrato sugli spettatori, in una fissità che richiama quella delle maschere che lo rappresentano e si ripete sulle coppe da bere. Anche i miti che narrano vari episodi di resistenza e persecuzioni nei confronti del dio registrano questo stato di cose: quanti si oppongono al suo divino delirio, quanti lo offendono o lo scacciano sono duramente puniti; le donne impazzite divorano crudi i propri figli, tutti sono praticamente costretti a riconoscerlo e onorarlo come dio. Particolare di un cratere apulo raffigurante Dioniso che nasce da una coscia di Zeus e viene accolto a braccia aperte da Era. Pittore della Nascita di Dioniso, 400-380 a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.
Lo spazio in cui si muove Dioniso, insomma, nel mito, nel rito e nell’arte, è quello del diverso, dove il normale viene stravolto e lascia spazio al suo opposto, dove si cancellano le barriere e i ruoli sociali, dove l’autocontrollo va in crisi e la coscienza individuale si altera. Vari studiosi, in passato, hanno pensato di poter trarre da queste indicazioni gli elementi per stabilire un’origine recente del dio, suggerendo che si trattasse di un culto venuto dalla Tracia e che Dioniso solo in un secondo tempo fosse stato accolto tra gli dèi dell’Olimpo. L’ipotesi è stata però contraddetta dal ritrovamento dei testi micenei, che
mostrano la presenza di questa divinità e di alcuni aspetti essenziali del suo culto già nella Grecia del II millennio a.C. È stato anche osservato che il suo arrivo inatteso e imprevisto di cui parlano i miti, è un elemento essenziale di tale figura: per sua natura egli è il dio che viene, l’ospite divino che si sposta continuamente, dalla Frigia alla Grecia, dall’Africa all’India, dall’Egitto alla Siria; ovunque egli rimette in discussione le regole, ma invita anche a scegliere il modo (greco) di essere uomini, né barbari né bestie, allontanandosi dal consumo di carne cruda o, peggio, umana, e da quello del vino non tagliato che provoca
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incontrollabile follia. Parimenti le sue feste, seppure si muovano sotto il segno del disordine e del mutamento della coscienza personale, servono appunto a canalizzare la trasgressione che il dio rappresenta in forme ritualmente limitate e controllate. Tutto questo ci dice insomma che per comprendere il motivo della doppia nascita di Dioniso dobbiamo nuovamente guardare al suo significato nel quadro della cultura greca e sul piano della narrazione mitica. Questa, in primo luogo, conosce anche un’altra nascita dal corpo di Zeus: quella di Atena, dea dell’ingegno e della forza, che era uscita in armi
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dalla testa di suo padre, dopo che il dio aveva divorato la madre Metis che l’aveva nel grembo, dea anch’essa. Dioniso, per contro, viene generato da una donna mortale: insistono su questo punto sia Esiodo che altri scrittori. Ora, nella mitologia classica dalle unioni delle divinità con gli esseri mortali nascono solitamente gli eroi, che sono personaggi destinati ineluttabilmente alla morte; e Dioniso appunto si presenta nei suoi miti come il piú eroico degli dèi, ripetutamente sottoposto al rischio di morire e quasi costretto a guadagnarsi l’Olimpo. Se dunque per Atena la doppia gestazione è funzionale a stabilire la
Nella pagina accanto particolare di un vaso attico a figure nere con Dioniso e con il suo corteggio. 525 -500 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
In alto particolare del Vaso François, con la processione degli dèi alla promessa di matrimonio tra Peleo e Teti. 570 a.C. circa. Firenze, Museo Nazionale Archeologico.
piena discendenza della dea astuta e intelligente dal sovrano di tutti gli dèi, nel caso di Dioniso la rinascita dal padre Zeus serve in certo modo a stabilirne la piena natura divina, a riconoscerne l’essenza immortale. Inoltre, se la vergine armata nasce da una parte nobile, qual è la testa, con chiaro riferimento al raziocinio che richiede ogni attività sottoposta alla sua protezione, Dioniso viene alla luce da una parte bassa del corpo paterno, con evidenti allusioni erotiche che da un lato rinviano alla sua ambigua sessualità (si diceva che fosse molto effeminato, per via dell’educazione ricevuta) e dall’altro si ritrovano nel culto, giacché le celebrazioni in suo onore combinavano insieme vino e piacere sessuale, con Dioniso rappresentato da un simulacro fallico.
e fatto a pezzi, ne avevano bollito la carne in un calderone e poi l’avevano arrostita sugli spiedi. Attratto dal profumo dell’arrosto, era giunto Zeus, che scoperto il crimine aveva fulminato i colpevoli. Il bambino era però sfuggito alla distruzione completa grazie al cuore, la sola parte del corpo non divorata nel banchetto: quel cuore era stato raccolto da Atena e aveva permesso a Zeus di ricostituire il corpo di suo figlio e consentirgli di tornare nuovamente alla vita. Inoltre, dalle ceneri dei Titani, che dopo essersi nutriti delle carni di Dioniso erano poi stati fulminati da Zeus, erano nati gli uomini. Cosí l’epicureo Filodemo, contemporaneo di Cicerone, poteva definire Dioniso come Trígonos, «Generato tre volte»; cosí gli Orfici potevano credere in un’origine soprannaturale del genere umano; cosí Dioniso poteva presentarsi vicino ai suoi fedeli, come dio sofferente e salvatore; cosí, venerando Dioniso, ciascuno poteva abbandonarsi a lui, lasciarlo agire dentro di sé, e perfino chiamarsi come lui, Bákchos, che in greco vale sia come nome divino, «Bacco», sia come termine per indicare il «baccante», cioè il fedele che si faceva iniziare a quel culto e confidava nel potere liberatorio di quel dio, concepito da una donna e poi rinato immortale.
Un macabro banchetto Un altro mito, di diversa tradizione, consente qualche considerazione ulteriore. Gli Orfici, cioè i seguaci delle dottrine di Orfeo, raccontavano che il neonato Dioniso, da loro venerato con l’appellativo di Zagreo e ritenuto figlio di Persefone e di Zeus, era rimasto vittima di un atroce delitto. Dietro suggerimento della gelosa Era, i Titani nemici di Zeus erano riusciti a impadronirsi del bambino, lo avevano ucciso
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il ladro di buoi
È
ispirata al primo giorno di vita di Ermes la decorazione di un’idria da Caere risalente al 530 a.C., oggi conservata nel Museo del Louvre. Vi si vedono Apollo, Maia e Zeus discutere attorno al dio che giace in una culla; alla loro destra, cinque bovini sono nascosti tra le fronde di un antro. Rispetto all’iconografia di Ermes piú diffusa nell’arte classica, che lo rappresenta adulto, col bastone di araldo, i sandali alati e il petaso a larga tesa, quest’immagine sembra insistere su temi diversi. La silhouette abituale del dio, in effetti, è quella del celere messaggero degli dèi, protettore dei viandanti e guida sicura di chi si muove lungo itinerari insidiosi o sconosciuti. Come tale, Ermes interviene in molti racconti e figurazioni: è lui, per esempio, che si preoccupa di Dioniso appena nato, è lui l’inviato di Zeus a Deucalione scampato al diluvio, è lui che veglia sul viaggio di Eracle nell’aldilà, è lui che conduce Era, Afrodite e Atena davanti a Paride perché il Troiano scelga tra loro la piú bella, è lui, ancora, che accompagna Ulisse e che trasmette a Calipso l’ordine di lasciar partire l’eroe per Itaca. Nel rappresentare queste scene, tuttavia, gli artisti greci trascurano la personale esistenza di Ermes e lo celebrano piuttosto per le sue funzioni; la sua figura, stretta nelle vesti del portavoce di decisioni altrui, resta confinata in un ruolo decorativo, quasi di contorno rispetto agli altri personaggi sovrumani.
ERMES
Figlio di Zeus e di una ninfa Da qui dunque l’interesse per l’immagine di Ermes neonato, che lo presenta invece al centro di un’azione, della quale è il vero protagonista. La scena, come s’è detto, riproduce gli avvenimenti relativi al suo primo giorno di vita, che sono narrati, con molti dettagli, nello splendido Inno omerico a lui intitolato. Il dio, si legge nel poemetto, era nato dall’amore segreto di Zeus per la
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Idria ionica raffigurante Ermes che, dopo avere rubato le giovenche di Apollo, finge di dormire nella sua culla, da Cerveteri. 540 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
ninfa Maia. Ermes nacque al mattino; a mezzogiorno già suonava la cetra e alla sera era ladro di buoi. S’alzò presto, infatti, il bimbo dalla culla, lasciò le fasce e uscí dalla grotta. All’ingresso, trovò per caso una tartaruga: in fretta la svuotò, ne sistemò il guscio con canne di giunco e budella di pecora e costruí, per primo, una lira; saggiò quindi le corde col plettro e intonò un’aria soave, cantando gli amplessi dei suoi genitori. Meditava, nel frattempo, altre imprese: veloce andò fino ai monti della Pieria, dove pascolavano gli armenti degli dèi, custoditi da Apollo; qui staccò dalla mandria cinquanta vacche e le portò via, per sentieri nascosti. Badò bene a non farsi tradire dalle impronte, coprendo i suoi piedi con fronde e spingendo le vacche a ritroso; le bestie, cioè, procedevano all’indietro e il
dio le seguiva. Col bottino, Ermes raggiunse le rive dell’Alfeo e qui nascose la mandria; prima, però, scelse due vacche, accese un fuoco (indicando per primo il metodo da seguire) e le uccise in sacrificio agli dèi. Fece quindi sparire ogni traccia e rapido tornò nella culla. Mentre giocava innocente con la coperta, arrivarono i primi rimproveri, da sua madre: «Che hai fatto briccone? Presto riattraverserai quell’uscita svergognato, trascinato in catene da Apollo; oppure fuggirai per le valli, come un brigante! Certo tuo padre, con te, ha generato un bel guaio, per gli uomini e per gli immortali!». Ma Ermes fu pronto a rispondere: «Perché mi spaventi, mamma? Non ho paura; mi dedicherò all’arte piú lucrosa di tutte e provvederò per il mio e il tuo futuro. Non resteremo a lungo in quest’antro senza offerte e senza preghiere, lontano dagli immortali. Avrò gli stessi privilegi di Apollo; e se mio padre non me li darà, allora sarò il Signore dei ladri; e se Apollo mi darà la caccia, m’introdurrò nel suo santuario e farò man bassa dei bei tripodi, dei lebeti e dell’oro». Apollo, comunque, non s’era lasciato ingannare dalle orme capovolte: eccolo entrare nella grotta e contestare il furto al neonato. Ermes, nella culla, negò tutto, giurando e spergiurando sulla propria puerile innocenza; altrettanto ripeté, sfrontato, davanti a Zeus, che sorrise alle bugie del furfantello, ma infine l’obbligò a restituire le bestie. Ermes obbedí; senza fatica riuscí pure a placare l’ira di Apollo, col suono armonioso della lira. Finí anzi per conquistare il suo avversario, che accettò di scambiare lo strumento con le bestie. Cosí la lira passò nelle mani di Apollo, che da allora è maestro mirabile di quella musica, mentre la mandria rubata rimase a pascolare nei boschi degli uomini, dove, da quel momento, accoppiandosi ai tori, le vacche partoriscono, per gli uomini, animali in abbondanza. I due figli di Zeus divennero
grandi amici: Ermes fece dono ad Apollo della zampogna, da lui ugualmente inventata, e giurò di non rubargli piú nulla. Apollo, in cambio, fece di Ermes il «mediatore perfetto tra uomini e dèi», donandogli il caduceo, la splendida verga d’oro, che perciò è simbolo araldico del dio, come l’inno conclude, che «aiuta raramente e infinite volte inganna le razze degli uomini, nella notte oscura».
Un personaggio speciale Il racconto, senza dubbio, è una storia divertente: ci dice che i Greci d’epoca arcaica sapevano ridere delle proprie divinità, senza che ciò comportasse offesa o sacrilegio. Ma la facezia e il sorriso partecipano anche alla creazione di un personaggio divino assolutamente speciale. Bastano le imprese compiute nel suo primo Busto in marmo pentelico di Ermes. V sec. a.C. Pireo, Museo Archeologico. Secondo la tradizione, il dio era nato dall’amore fra Zeus e la ninfa Maia.
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CREATURE CELESTI
giorno di vita a disegnare Ermes come ladro e imbroglione, rapido nel movimento e veloce nel cogliere l’occasione. Dietro la battuta e l’arguzia, s’individua il racconto di fondazione d’elementi importanti che la cultura greca pone sotto il segno di Ermes: le tenebre, teatro della nascita divina ma anche d’ogni furto e passo intermedio, tra la vita e la morte; l’accensione del fuoco, in funzione del sacrificio cruento; la metis, che è astuzia intelligente, abilità nell’allestire sotterfugi e capacità d’adattarsi alle situazioni piú diverse; la casualità della scoperta (hermaion in greco è l’oggetto trovato per caso e ogni guadagno inatteso); la perizia di chi sa creare strumenti musicali; la destrezza nel rubare (Ermes è dio del furto e dello spergiuro) e l’agilità nel muoversi da un luogo all’altro (Ermes sovrintende ai viaggi, anche a quello nell’aldilà); la prontezza allo scambio e all’accordo, che lo qualificano come Signore dei mercanti e dei commerci.
Buon pastore e mago Completano questa personalità divina le immagini che ritraggono Ermes come buon pastore, con l’agnello pacifico sulle spalle, oppure nelle vesti di un personaggio industrioso, Signore dell’abbondanza, della musica e della danza, o anche, specie in epoche piú tarde, in quelle di mago potente, annunciatore incomparabile di dottrina e di saggezza, sereno accompagnatore delle anime nel viaggio finale. Statua di Ermes che tiene nella sinistra il caduceo, una bacchetta con intorno due serpenti attorcigliati, il principale dei suoi attributi. Metà del II sec. d.C. Berlino, Antikensammlung.
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Nella duplice veste d’imbroglione e d’inventore, peraltro, Ermes esemplifica bene un personaggio presente nelle tradizioni di molti popoli che gli studiosi indicano col termine inglese trickster: si tratta, solitamente, di un avversario del protagonista del racconto, di un briccone, appunto, che fonda, casualmente o involontariamente, elementi essenziali per l’umanità. Nel caso greco (sicuramente antico, giacché il nome di Ermes compare già sulle tavolette micenee di Pilo, di Cnosso e di Tebe), questo trickster che nasce sulla terra e rimprovera a sua madre di vivere troppo appartata, dimostra agevolmente e in fretta il proprio rango divino, rivendicando il diritto ad abitare l’Olimpo e dimostrando concretamente, nell’azione, la sua appartenenza alla schiera degli immortali. Particolarmente significativo è l’episodio del sacrificio, che vede Ermes nella duplice veste di (primo) sacrificatore e di destinatario divino. Come un qualsiasi celebrante umano, Ermes preparò le carni rituali delle due bestie immolate, facendone dodici parti: tante quante le divinità maggiori dell’Olimpo (tra le quali i Greci contavano lo stesso Ermes). Lo colse, a questo punto, un desiderio fortissimo di mangiare quel cibo: «Benché immortale, infatti, l’attirava la dolce fragranza della carne». Ma era una voglia troppo umana, troppo caratteristica degli esseri mortali. Il dio seppe dunque resistere; rinunciò a gustare la carne e compí da solo il passaggio definitivo: da allora egli sta, com’è ovvio, dalla parte degli dèi, di coloro che si contentano dell’onore di vedere celebrato a propria gloria quel rito sacrificale che Ermes un tempo inaugurò, quando neonato osò rubare le mandrie degli altri immortali beati.
ridere dello storpio ell’Olimpo immaginato dai Greci non tutti gli dèi sono esenti da imperfezioni fisiche; Efesto, il dio Signore del fuoco e dei metalli preziosi, era sciancato, «tardo di piede», come lo definisce Callimaco. Omero lo chiama «storto di gambe» e descrive le risa suscitate in tutti gli dèi sull’Olimpo alla visione di Efesto che, ansimando e trascinando gli arti deformi, si era messo a servirli da coppiere. Claudicante lo raffigurano anche gli artisti del VI e V secolo a.C., nella pittura vascolare, mostrandolo appunto con uno o con entrambi i piedi ritorti. Nelle rappresentazioni dell’epoca classica e Bronzetto raffigurante Efesto, dall’area urbana di Bernalda (Metaponto). II-I sec. a.C. Metaponto, Museo Archeologico Nazionale.
posteriore il difetto non compare piú, ma è dato per noto: il dio si muove cavalcando un asino; si appoggia a un bastone o a un assistente, oppure si presenta seduto, al lavoro. I poeti, a cominciare da Esiodo, spiegavano questa divina infermità raccontando che Efesto era nato deforme, generato dalla sola Era per ira e sfida verso Zeus. La dea si sarebbe subito vergognata di quel figlio sgraziato, concepito senza il concorso dello sposo; perciò lo avrebbe gettato dall’alto; ed Efesto era precipitato in mare, dove, secondo Omero, fu accolto e curato per nove anni dalla dea marina Teti e da Eurinome figlia di Oceano. Dell’episodio lo stesso Omero conserva una variante nell’Iliade, là dove racconta che fu piuttosto Zeus a scaraventare giú dall’Olimpo Efesto, quando costui era intervenuto a difesa della madre, in una delle tante contese della coppia. Il dio cadde per un giorno intero; al tramonto finí sull’isola di Lemno: da qui il particolare legame che univa questa terra al personaggio divino.
I segreti della metallurgia L’assenza di Efesto dall’Olimpo favorí, secondo il mito, il suo apprendistato; nel periodo trascorso in una grotta sottomarina o sull’isola di Lemno, egli aveva elaborato i segreti della metallurgia, imparato a forgiare i metalli preziosi, fabbricato ogni sorta di gioielli per chi si occupava di lui. Del gesto di sua madre, d’altro canto, Efesto si era in seguito vendicato, fabbricando per lei un trono dorato dai legacci invisibili sul quale Era restò imprigionata; poi però l’aveva liberata, obbedendo alla volontà di un concilio divino, o piuttosto forzato a farlo con l’inganno, come raccontava un mito conosciuto anche da Platone e da Pausania. Fu Dioniso a ricondurlo sull’Olimpo, ubriacandolo di vino. L’antichità di questo episodio è confermata da testi letterari e opere d’arte; esso costituisce, oltretutto, il tema piú frequente, nelle poche raffigurazioni che riguardano il dio, sull’arte vascolare: è questa, per esempio, la scena utilizzata per rappresentare Efesto sul Vaso François.
EFESTO
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Cosí lo Sciancato prese il suo posto nella schiera delle divinità olimpiche, sposando Caris (la Grazia), come vuole l’Iliade, o la bellissima Afrodite, come si legge nell’Odissea, ma rimanendo comunque appartato, impegnato a realizzare capolavori: i fulmini e lo scettro di Zeus; il carro del Sole; la corazza d’oro di Eracle; le armi di Achille; i portici dell’Olimpo e la dimora di ogni dio; perfino la prima donna, Pandora, che egli plasmò nell’argilla su incarico di Zeus perché fosse compagna (e sventura) dell’uomo.
Poteri fuori dal comune Della menomazione di Efesto i mitologi moderni danno diverse spiegazioni, talune tecniche, per cosí dire, ricordando che i personaggi connessi con la metallurgia, in varie tradizioni, appaiono segnati da difetti fisici e richiamando il fatto che in molte società, non solo primitive, i fabbri, depositari di poteri fuori dal comune, sono spesso riconosciuti tramite segni o anomalie della persona per tutti evidenti. Si citano in proposito, come hanno fatto Marie Delcourt e Mircea Eliade, i casi numerosi di re-fabbri storpi e paralitici di tante saghe europee, le mutilazioni subíte dai maghi di certe società australiane, le torture iniziatiche degli sciamani della Siberia e perfino il caso biblico di Caino, segnato dal Signore con un marchio, dopo l’omicidio del fratello Abele, e con esso vagante da un abitato all’altro per esercitarvi la professione di fabbro-artigiano. La menomazione di Efesto viene insomma ricondotta alla sua iniziazione nelle arti della magia metallurgica: quasi il prezzo da pagare per la conoscenza di segreti professionali ammirati e insieme temibili. Di certo, l’Efesto dei Greci, non è semplicemente un dio-fabbro: nobili sono i metalli che egli lavora (oro, argento, bronzo) e mirabili sono le opere che costruisce. Dalle sue mani escono tripodi su ruote che si spostano da soli, mantici semoventi, automi forniti di mente, lo scudo di Achille che riproduce l’intero mondo. Prodigioso, parimenti, è il modo con cui Efesto immobilizzò sul trono la madre Era; e
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Affresco che illustra l’episodio dell’Iliade in cui si narra della dea Teti, madre di Achille, che si reca da Efesto per ritirare le armi che ella stessa aveva commissionato per il figlio, dalla Casa di Paccius Alexander a Pompei. I sec. a.C.-I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
portentosa è anche la rete dalle maglie sottili nella quale un giorno imprigionò la sposa Afrodite e il suo amante Ares, sorpresi in adulterio nel letto coniugale, per poi liberarli tra l’ilarità generale. L’arte di Efesto, in definitiva, non è quella della fabbricazione degli utensili piú semplici; essa sconfina piuttosto nei prodigi della magia: Efesto è un dio che incatena e che scioglie, che crea e che dà forma alle cose. D’altra parte, come i fabbri in molte società sono tenuti in disparte e guardati con venerazione mista a timore, anche Efesto è un essere marginale, quasi inferiore in quella società divina che pure ammira e utilizza i suoi capolavori: vive appartato nel palazzo che si è costruito sull’Olimpo, aiutato a muoversi da servitrici-robot, sempre sudato e coperto di fuliggine, sempre indaffarato tra fornaci, mantici, incudini. Della sua emarginazione danno testimonianza le tradizioni posteriori all’epopea, che immaginano il dio al lavoro non già sull’Olimpo, bensí nelle profondità di un monte sull’isola di Lemno, oppure nei vulcani delle Lipari o in quello dell’Etna.
Il divino artigiano che vive oltre il mare Tale marginalità figurava probabilmente tra le caratteristiche piú antiche del fabbro divino. Questo e altri aspetti della sua personalità si ritrovano infatti strettamente combinati nelle tradizioni del Vicino Oriente preclassico relative a un dio concepito come fabbro e architetto eccellente, mago ed esperto d’incantesimi. Nella mitologia cananea della fine dell’età del Bronzo e nelle successive tradizioni fenicie, piú precisamente, compare la figura di un divino artigiano che vive appartato in una dimora lontana, oltre il mare. Nei miti di Ugarit il personaggio ha il nome di Kothar, prepara gioielli preziosi e armi micidiali per le altre divinità, edifica ineguagliabili dimore divine, distribuisce saggi consigli e appare connesso con la musica e la magia. Nelle tradizioni fenicie il suo nome si evolve in quello di Chusòr, descritto come inventore del ferro e della sua lavorazione, primo navigatore, interessato a formule magiche, detti
sapienziali, oracoli, ed esplicitamente identificato con Efesto. Né Kothar né Chusòr, per quel che sappiamo dei loro miti, presentano difetti fisici, come accade invece per l’egiziano Ptah, nano deforme che già Erodoto accostava a Efesto; ma come entrambe le divinità orientali anche il dio greco è un architetto emarginato e insieme un saggio Signore dei legami. Torniamo all’infermità di Efesto: di essa si possono dare anche altre spiegazioni, meno tecniche, forse, ma piú aderenti all’immagine lasciata da scrittori e artisti del mondo classico. Efesto, osservano per esempio Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, non è sbilenco né zoppo in senso proprio. La storpiatura dei suoi arti inferiori, qual è raffigurata sui vasi greci, mostra i piedi girati all’indietro mentre il capo è volto in avanti, oppure diversamente orientati a destra e a sinistra, o ancora con una duplice orientazione, l’uno avanti e l’altro indietro. Si tratta, insomma, di un dio dotato di un doppio orientamento nel suo incedere, capace di racchiudere in sé le virtú del granchio (karkínos, in greco, come le tenaglie del fabbro), il crostaceo che non a caso è associato a Efesto sull’isola di Lemno, e come quello fornito del privilegio di una direzione duplice e divergente. Il difetto fisico, insomma, rispecchia le prerogative del dio, la sua abilità nel dominare potenze mutevoli e fluide come il fuoco, il vento, i minerali. E tuttavia, si dirà, gli dèi nell’Iliade ridono di questo storpio, che s’affanna a riempire le loro coppe. Segno del disprezzo con cui veniva guardato l’unico dio invalido, l’unica divinità intenta al lavoro in un Olimpo abitato da dèi senza affanni? Forse. In ogni caso, questa divina ilarità, suscitata da un «Efesto Pensiero Sapiente», come lo definisce Omero, pone termine a una situazione estremamente tesa tra gli dèi, che, mentre bevono e ridono, ascoltano i suoi pacati consigli, accantonano pian piano l’ira, banchettano tutto il giorno fino al calare del sole e poi si ritirano in pace, ciascuno nella dimora che per lui ha fabbricato lo «Zoppo ricco di gloria».
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FATICHE E
AVVENTURE RAFFIGURATO COME UN SEMIDIO, L’EROE GRECO INCARNA NON SOLO LE QUALITÀ DI CORAGGIO, FORZA E VALORE MILITARE MA, ATTRAVERSO LE SUE IMPRESE, MOSTRA DI POSSEDERE ANCHE NOTEVOLI DOTI DI ASTUZIA. DA ERACLE A TESEO, DAGLI ARGONAUTI A ULISSE, ECCO L’EPOPEA DI PERSONAGGI STRAORDINARI, LE CUI CONQUISTE HANNO FORGIATO LA MEMORIA COLLETTIVA E L’IDENTITÀ CULTURALE DEI POPOLI ELLENICI | NEL MONDO DEI MITI | 66 |
Ercole uccide il drago del giardino delle Esperidi, olio su tela di Peter Paul Rubens e della sua bottega. 1639-1640. Madrid, Museo del Prado.
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FATICHE E AVVENTURE
i denti del drago
CADMO
C
hi ha fondato Tebe in Beozia, patria di Epaminonda e di Pindaro, nonché città famosa per gli eroi che combatterono sotto le sue mura prima ancora della guerra di Troia? Qualsiasi manuale di storia greca c’informa che la città era già grande intorno alla metà del II millennio a.C., insieme a Micene e Tirinto nell’Argolide, a Pilo in Messenia e a Iolco in Tessaglia. Era, cioè, uno di quei regni micenei che fiorirono nella Grecia dell’età del Bronzo, con una struttura sociale organizzata attorno al palazzo del sovrano, un’economia fondata sull’agricoltura e sulla pastorizia, un’originale scrittura, utilizzata per rendere una lingua dalla quale si sarebbe poi sviluppata quella greca. La tradizione piú diffusa, riferita per esempio da Erodoto, attribuiva ai Fenici la costruzione del palazzo sull’acropoli e della stessa cittadella. Questi Fenici erano venuti dall’Oriente guidati da un certo Cadmo, avevano fondato Tebe e introdotto in Grecia molte nuove conoscenze, in particolare l’alfabeto. L’arrivo di Cadmo in Beozia veniva datato intorno alla metà del XIII secolo a.C. Per via archeologica, d’altro canto, sono testimoniati nella Tebe micenea di tale periodo contatti e scambi con l’area siro-palestinese; sicché la tradizione sull’origine straniera dei fondatori di Tebe è apparsa plausibile anche a molti studiosi moderni. I racconti relativi all’arrivo di Cadmo in Beozia sono stati anzi collegati ai dati archeologici, per verificare concordanze tra i due tipi di documentazione. Riprendendo le definizioni degli antichi, si è dunque chiamata Cadmea la cittadella di Tebe, cosí come Cadmeo ha preso nome il sontuoso palazzo miceneo rivelato dagli scavi sull’acropoli. Tuttavia, il racconto su Cadmo, pur se storicamente agganciato agli eventi storici, non può essere posto sullo stesso piano dei reperti degli scavi. Prove certe su una presenza fenicia in Beozia, nel periodo dell’età del Bronzo in cui viene collocata la venuta di Cadmo, non ve ne sono e difficilmente vi potrebbero essere, dal
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momento che la civiltà fenicia, come tale, si sviluppa piuttosto nella successiva età del Ferro. D’altro canto, i sigilli cilindrici, gli avori e i vasi orientali rinvenuti nell’acropoli di Tebe testimoniano l’esistenza di commerci con il Vicino Oriente, ma non provano l’insediamento di genti orientali in Beozia.
Un’attribuzione scelta a posteriori Ancora: le fonti letterarie che fanno di Cadmo un Fenicio cominciano alla fine del VI-inizi del V secolo a.C. (quando, appunto, i Fenici rappresentavano per i Greci i mercanti orientali per eccellenza), sicché si deve ipotizzare che tale connotazione etnica, per il fondatore di Tebe, sia un aspetto attribuito solo successivamente al personaggio. Vi sono, infine, elementi che non corrispondono nella topografia della Tebe micenea rispetto alla città celebrata dalla tradizione. Per tutto questo, dunque, gli storici che ancora oggi utilizzano i racconti su Cadmo a conferma di una L’interno di una coppa laconica del Pittore dei Cavalieri raffigurante Cadmo che combatte il drago di Tebe (o, secondo un’altra interpretazione, l’agguato di Achille a Troilo). 550-540 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
migrazione di popolazioni in Beozia hanno accantonato la tesi di un eroe fenicio in senso stretto, per ipotizzare piuttosto l’arrivo di un gruppo d’invasori dall’Asia Minore, dall’isola di Creta, o dalla costa siro-palestinese. La critica piú stringente sull’utilizzazione delle fonti su Cadmo nella ricostruzione storica, è che, per valorizzare il dato ritenuto piú importante (la venuta dell’eroe in Beozia), si trascura il fatto che esso è sempre inserito in un particolare contesto narrativo, che è quello, specifico, della narrazione mitica. Esaminiamo, allora, il racconto che i Greci facevano della fondazione di Tebe. Voleva la tradizione che Cadmo fosse un principe fenicio, partito per ricondurre in patria la sorella Europa. Costei era stata rapita da Zeus, che per averla s’era trasformato in un toro, sulle spiagge di Tiro; Agenore, sovrano della città e padre della fanciulla, aveva mandato i fratelli sulle sue tracce, verso Occidente. Cadmo la cercò invano per un certo tempo, vagando nell’Egeo; poi a Delfi consultò l’oracolo di Apollo e ricevette l’ordine di abbandonare al suo destino Europa (ormai unitasi a Zeus e già madre di Minosse, Radamante e Sarpedonte a Creta) per fondare invece una città, seguendo una giovenca fin dove questa, esausta, non fosse stramazzata al suolo. Cosí fece l’eroe; e l’animale lo condusse in Beozia, nel sito della futura Tebe.
Lanci di pietre contro i Seminati Cadmo si accinse alla fondazione sacrificando la giovenca alla dea Atena e inviò i suoi compagni ad attingere acqua per il rito, presso la vicina sorgente di Ares. Ma ecco un drago, posto da quel dio a guardia della fonte, alzarsi contro i giovani e trucidarli, prima di soccombere a sua volta, ucciso da Cadmo. Consigliato dalla dea Atena, il principe fenicio seminò i denti della bestia; subito vennero fuori dal suolo altrettanti uomini in armi, gli Sparti (cioè, in greco, i «Seminati»), che mossero minacciosi contro l’eroe. Cadmo si difese lanciando pietre tra gli avversari. Gli Sparti, incerti sul responsabile di quei colpi, si
Particolare di un’anfora attica del Pittore di Diosphos raffigurante le nozze di Cadmo e Armonia. 500-490 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
massacrarono a vicenda; cinque soli ne sopravvissero, e dettero origine alla prima nobiltà tebana. Cadmo, per parte sua, dapprima espiò l’uccisione del drago protetto da Ares, servendo per otto anni quel dio; poi sposò Armonia, figlia di Ares e di Afrodite. Cosí dunque, secondo la tradizione, nacque Tebe, che Cadmo disegnò con sette porte a imitazione dei pianeti e della quale fu re per qualche tempo; poi, sul finire della vita, abbandonò il trono ai discendenti e con Armonia regnò sull’Illiria; fu infine trasformato in serpente e da Zeus trasferito nei Campi Elisi, per godere un aldilà sereno e beato. Questa tradizione, come s’è detto, rappresentava per i Greci la storia piú antica della città: Erodoto stesso ne era convinto e ancora al tempo di Pausania i Tebani indicavano con precisione il palazzo di Cadmo e il luogo delle sue nozze con Armonia. S’è anche detto che se vogliamo considerarla storia al modo nostro, dobbiamo privare questa tradizione di ogni elemento narrativo o fantasioso. Ma cosí non facevano i Greci, che piuttosto narravano quegli avvenimenti per il loro valore sacrale, cioè per il fatto che quelle storie di draghi e di
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che un fatto storico: portatore di elementi culturali, Cadmo è orientale perché l’Europa, e con essa la Grecia, prima del suo arrivo ancora non ha nome e dunque non esiste. Che sia un elemento basilare anche la consultazione dell’oracolo di Delfi ce lo dicono le numerose fondazioni greche, specie le colonie in Occidente, che si creano proprio a seguito del vaticinio di quel santuario.
Il significato di un’uccisione
Idoletti femminili in terracotta dipinta, da una tomba della necropoli tebana di Kolonaki. Civiltà micenea, XIII-XII sec. a.C. Tebe, Museo Archeologico.
principesse rapite fondavano miticamente la realtà in cui essi vivevano. Proviamo pertanto a rileggere le avventure di Cadmo con un’ottica diversa e osserviamo le sequenze che rendono indubbio il loro carattere mitico. Il rapimento della fanciulla di Tiro da parte di Zeus, anzitutto, mette in moto il racconto, coerentemente con gli amori stravaganti di Zeus di cui la mitologia greca fornisce ampie testimonianze. Le peregrinazioni dell’eroe Cadmo, poi, sono un modo per offrire una descrizione dell’orizzonte geografico in cui il racconto si svolge, cioè, in termini mitici, un modo per fondare la realtà geografica e culturale conosciuta, cosí come, del resto, anche quelle dell’eroina Europa, che dà nome al Continente in cui si trova la Grecia. Partito con uno scopo, poi, quasi casualmente Cadmo ne ottiene altri: scopre miniere d’oro, introduce nuovi culti e i segni della scrittura, percorre itinerari e traccia rotte, realizza insomma lo spazio geografico e culturale in cui si muove la società ellenica. Cosí la sua origine fenicia è piú un dato mitico
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Similmente può dirsi della lotta col drago: motivo frequentissimo nei miti eroici, e non solo greci, l’uccisione del mostro equivale a rendere abitabile il territorio da quello controllato. I guerrieri nati dai denti seminati del drago, poi, ne sono in un certo senso la reincarnazione e annunciano la lotta fratricida con la quale si uccideranno i figli di Edipo, mostri anch’essi, sul piano genealogico, perché fratelli del proprio padre. Ma gli Sparti che danno origine alla nobiltà locale esprimono insieme il radicamento al suolo degli abitanti di Tebe, benché siano l’ultima razza di autoctoni (letteralmente nati dalla terra) in senso stretto; dopo di loro il giusto modo di popolare la città sarà quello del rapporto di parentela e la discendenza che ne consegue, con i figli di Cadmo che imparano i metodi della buona agricoltura, seminando il giusto seme (cioè il grano) che servirà loro di nutrimento. Infine le nozze, grandiose, di Cadmo e Armonia. Gli dèi che scendono dall’Olimpo per essere commensali degli uomini in quella straordinaria occasione, inaugurano nel banchetto un modo privilegiato di trattare con i mortali e quell’unione, quella prima festa nuziale, stabilisce anche le giuste regole del vivere civile, cioè l’harmonia, che ripete il nome della sposa e personifica il patto con gli dèi. Cosí nacque Tebe, costruita da Cadmo a immagine del cielo divino e da tutti giudicata antichissima per essere stata fondata alle origini stesse della civiltà ellenica, quando uomini e dèi potevano ancora sedere alla stessa mensa, spartirsi il cibo e celebrare insieme l’inizio delle condizioni esistenziali.
il piú grande tra gli uomini on v’è probabilmente museo archeologico che non conservi almeno un’effigie di Eracle, l’eroe con la clava e la pelle di leone. Può trattarsi, forse, di un’immagine cultuale, che testimonia della larghissima venerazione di questo personaggio, oppure della raffigurazione di uno degli innumerevoli racconti che lo vedono protagonista. Di fatto, il tebano Eracle, figlio della bellissima Alcmena amata da Zeus, è l’eroe piú famoso dei miti greci, il solo conosciuto, venerato e raffigurato ovunque. Sono state calcolate oltre settanta scene diverse, con ulteriori varianti, in cui egli compare, nelle vesti di lottatore infaticabile, personaggio sofferente e vincitore, in breve, come «il piú grande tra gli uomini», secondo ciò che proclama un Inno omerico a lui intitolato. Per Omero e per Esiodo, Eracle è il Forte per eccellenza, l’eroe vigoroso vissuto poco prima della guerra di Troia. In ogni immagine, in ogni testo, Eracle è un robusto lottatore che combatte in modo semplice contro avversari temibili, disprezza le armature e ricorre soprattutto alla forza dei muscoli. Ma il combattimento non esaurisce i suoi interessi, giacché Eracle, come molti eroi del mito greco, ha seguito la scuola di maestri abilissimi e ha appreso anche la musica, l’astronomia e la divinazione, la guida del cocchio, la filosofia e la poesia. Gli si attribuisce, insomma, un’educazione completa, che ricalca nel mito quella prevista per ogni giovane cittadino della Grecia reale.
L’Ercole detto Farnese, statua in marmo del III sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
ERACLE
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FATICHE E AVVENTURE
Si può dire, anzi, che non v’è aspetto dell’esistenza dell’uomo greco in cui la figura di Eracle non sia stata miticamente coinvolta. Egli è un obbediente servitore del re Euristeo, che gl’impone le dodici fatiche; è un umile garzone che ripulisce le stalle di Augia; è uno schiavo effeminato della regina di Lidia; è un gran mangiatore di carne e un amante di sorprendente capacità sessuale; è perfino un padre impazzito, che massacra i propri figli.
I mille volti di un eroe C’è un Eracle tragico e uno comico, un Eracle saggio e uno demente, uno devoto e uno irriverente, uno civile e un altro villano. La sua vita sofferta ripercorre insomma In basso fronte di un sarcofago raffigurante le dodici fatiche di Eracle. 240-250 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.
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Le dodici fatiche 1. Uccidere l’invulnerabile leone di Nemea e portare la sua pelle come trofeo; 2. Uccidere l’immortale Idra di Lerna; 3. Catturare la cerva di Cerinea; 4. Catturare il cinghiale di Erimanto; 5. Ripulire in un giorno le stalle di Augia; 6. Disperdere gli uccelli del lago Stinfalo; 7. Catturare il toro di Creta; 8. Rubare le cavalle di Diomede; 9. Impossessarsi della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni; 10. Rubare i buoi di Gerione; 11. Rubare i pomi d’oro del giardino delle Esperidi; 12. Portare vivo Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi, a Micene. Nella pagina accanto pelike attica del Pittore delle Sirene raffigurante Eracle e Deianira con il figlioletto Illo. 480 a.C. circa Parigi, Museo del Louvre.
grandezza e miseria della condizione umana. Ma il personaggio è soprattutto quello di un eroe instancabile, in continua tensione verso nuove conquiste. Mentre cammina alla ricerca di mandrie rubate o perdute, mentre affronta avversari mostruosi e doma fiere, mentre salva principesse e corteggia future spose, mentre combatte i Centauri e affianca gli dèi contro i Giganti, mentre vaga da un esilio all’altro e allontana invasori, Eracle esplora contrade e le rende abitabili, traccia rotte e segna confini, fonda città e innalza altari, consulta oracoli e istituisce giochi, delinea modelli di comportamento ai quali gli uomini che seguiranno dovranno attenersi. La pace per lui arriva solo con la morte, ripetutamente affrontata con coraggio e
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combattimento, nell’agonistica, nella fondazione di culti e di centri abitati, nella scoperta di luoghi e di costumi, come lui ghiottoni, violenti, rozzi e quanto altro. Forse proprio in virtú di questa sua capacità di rappresentare al meglio ogni aspetto della categoria degli eroi, la religione greca riconosce eccezionalmente all’Eracle defunto un doppio statuto, come eroe e come dio, anzi come l’unico eroe-dio.
Un mito «internazionale» Per questo i Greci, scriveva Erodoto, «giustamente hanno eretto doppi santuari a Eracle nelle loro città, all’uno sacrificando come a un immortale e all’altro rendendo onori funebri come a un eroe». Ed è ancora per la ricchezza della sua personalità, per il numero straordinario delle avventure in cui In alto anfora attica raffigurante la lotta tra Eracle e il dio marino Tritone, da Cerveteri. 540 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A destra particolare di un affresco raffigurante Eracle, Deianira e Illo di fronte al centauro Nesso, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
infine giunta inattesa, nella forma di una bella camicia, dono prezioso dell’ultima sposa Deianira ma anche insidia mortale, perché impregnata di sangue avvelenato. Quando Eracle, ignaro, la indossa, il veleno si scioglie al calore del corpo e si diffonde, lacerando la carne. Non c’è rimedio che valga: prostrato dai tormenti, l’eroe si lascia bruciare dalle fiamme di un rogo funebre. E mentre il fuoco incenerisce la parte mortale del suo essere, una nuvola scende dal cielo ad avvolgere l’altra, quella immortale che gli viene dal padre Zeus, per trasportarla sull’Olimpo. Cosí i miti di Eracle, tanto frequentemente raffigurati da rendere inutile l’esemplificazione, insegnano anzitutto ai Greci cos’è un eroe e in lui riassumono tutti i caratteri distintivi della figura eroica, combinando in modo originale elementi comuni ad altri personaggi, come lui impegnati nel
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si trova coinvolto, che Eracle venne usato dai Greci per interpretare tante figure sovrumane straniere, che somigliavano agli dèi olimpici ma anche agli eroi, nati dalle loro unioni con i mortali. Non è casuale, per esempio, che i viaggi di Eracle in Occidente ricalchino la diffusione lungo le coste del Mediterraneo del culto del suo corrispondente fenicio, il dio Melqart, immaginato come morto e risorto; né è solo per caso che l’Eracle dell’Ellenismo accompagni la conquista macedone dell’Oriente e identifichi importanti divinità di quelle regioni, dal babilonese Nergal all’indiano Krishna. Chi oggi ammira, pertanto, una delle tante rappresentazioni dell’Eracle greco non si trova di fronte a una specie particolare di Mister Muscolo, come si limitano a suggerire le utilizzazioni moderne dei suoi miti in chiave narrativa e spettacolare. Egli deve riconoscere, piuttosto, in quelle figurazioni, un personaggio sacro dai molteplici aspetti e dalle mille possibilità di adattamento.
I limiti della condizione umana L’Eracle immaginato dai Greci è il modello che fissa i limiti della condizione umana, marcandoli col suo desiderio di superare ogni eccesso. È anche il campione della cultura greca rispetto a quella dei Barbari che il mito gli fa incontrare nel corso di una faticosa esistenza. È poi lo strumento che giustifica, sul piano mitico, l’espansione ellenica, sicché il complesso delle sue prodezze aumenta di pari passo con l’esplorazione e la conquista di terre sconosciute. Si può anche dire che Eracle oltrepassi, con la sua storia, i limiti della stessa cultura greca, non solo perché viene poi ereditato da quella romana col nome di Ercole e con questo consegnato al patrimonio culturale di tutto l’Occidente moderno, ma anche perché egli è l’erede di vicende e personaggi piú antichi (sigilli della Mesopotamia del III millennio a.C., per
Anfora attica a figure nere con la lotta tra Eracle e le Amazzoni, da Cerveteri. 520-500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
esempio, presentano già la scena di un eroe che lotta contro un serpente a sette teste, che ben ricorda la lotta di Eracle con l’Idra di Lerna) ed è capace, a sua volta, di riassumere in sé i tratti caratteristici di altri eroi di tradizioni religiose diverse. Significativamente, già Erodoto faticava a riconoscere la patria originaria di Eracle, tra Egitto, Fenicia e Asia Minore; e non sorprende piú di tanto che Diodoro Siculo parli di tre eroi chiamati in tal modo, che Cicerone porti questo numero a sei e Varrone a quarantaquattro. Di certo, dall’Eracle pre-omerico a quello moderno la storia è lunga e complessa; ma le formulazioni che il mondo greco ha dato alla sua figura, combinando moduli narrativi forse indipendenti e continuamente adattando il personaggio al mutare delle conoscenze e delle circostanze, presentano in modo esemplare le infinite possibilità delle quali il mito dispone per creare i racconti sugli eroi e attribuire a essi valore universale.
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FATICHE E AVVENTURE
la danza delle gru
TESEO
S
ul collo del Vaso François di Firenze, capolavoro della pittura vascolare antica, è dipinta la scena di un gruppo di giovani, maschi e femmine, che danzano presso una nave: sono i ragazzi ateniesi scampati al Minotauro che festeggiano la liberazione dalla morte nel labirinto cretese. Nella pittura si vede anche Teseo, l’eroe vincitore del mostro, che suona la lira, mentre i fanciulli danzano uno dietro l’altro. Gli abitanti di Delo, racconta Plutarco, ripetevano ancora quella danza e la chiamavano géranos, la «danza delle gru», perché l’andirivieni dei giovani, che tenendosi per mano imitavano il cammino compiuto per entrare e riuscire dal labirinto, somigliava ai saltelli sinuosi e al volo di gruppo di quegli uccelli migratori. Questo labirinto, narrava il mito greco, era stato voluto dal re dell’isola Minosse, che vi aveva rinchiuso il frutto mostruoso dell’insana passione della regina Pasifae, sua sposa, per un toro selvaggio; da quell’unione era nato Asterio, che aveva il muso di toro e il corpo umano e venne perciò chiamato Minotauro. A quel tempo Minosse era signore del mare e aveva imposto agli Ateniesi un tremendo tributo: sette ragazzi e altrettante fanciulle da mandare periodicamente in pasto al solitario abitatore del labirinto. Al terzo invio, con i giovani giunse a Creta anche l’eroe Teseo, del quale s’innamorò Arianna, figlia di Minosse; la principessa offrí il suo aiuto a Teseo, che in cambio le promise di condurla sposa ad Atene. Arianna dunque, consigliata da Dedalo, dette a Teseo un gomitolo di filo, perché questi, attaccandone un’estremità alla porta d’ingresso e svolgendo la matassa lungo il
In alto l’interno di una coppa attica raffigurante Teseo che uccide il Minotauro. Inizi del V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
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cammino, potesse poi tornare sui suoi passi riavvolgendo il filo verso l’uscita. Cosí fece Teseo, che dopo aver trovato e ucciso il Minotauro, poté uscire dal labirinto, fuggire da Creta e tornare vittorioso ad Atene. Sulla via del ritorno, Teseo e i suoi compagni intrecciarono una danza, che ripeteva nelle cadenze il percorso seguito nel labirinto: quella appunto raffigurata sul Vaso François e ritualmente ripetuta in varie feste.
Come il sepolcro del faraone Secondo Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio, per realizzare la costruzione Dedalo s’era ispirato a un modello egiziano, cioè al sepolcro di Amenemeth III, che già Erodoto definiva come un labirinto; per Aristotele, i giovani deportati da Atene erano destinati alla schiavitú e il labirinto rappresentava la loro prigione. Sono due dei molti esempi possibili che Nella pagina accanto, in alto rovescio di uno statere cretese proveniente da Cnosso, sul quale è raffigurato il labirinto. III sec. a.C. Londra, British Museum.
mostrano come già nel mondo classico il labirinto cretese, del quale si erano perse del tutto le tracce, costituiva un enigma: luogo mitico o verità storica? Negli anni Venti, Arthur Evans, lo scopritore di Creta micenea, credeva di avere individuato il labirinto originario e lo identificava con il palazzo di Cnosso, rivelato dai suoi scavi con un groviglio di stanze, di scale e di corridoi, dove i muri mostravano spesso raffigurata la doppia ascia, la bipenne. La scoperta e decifrazione della lingua parlata dai Micenei, dopo la metà del nostro secolo, ha rimesso tutto in discussione: le tavolette in Lineare B di Cnosso e di Pilo hanno rivelato infatti l’uso del termine dapurito, corrispondente al greco labyrinthos, per indicare un luogo di culto specifico, sicuramente diverso dal palazzo reale; per il nome, poi, si è anche trovata un’altra spiegazione linguistica, con un significato di «costruzione in pietra tagliata». Oggi s’ipotizza pertanto che il dapurito, cioè il labirinto originario, doveva indicare un edificio complesso, artificiale o anche naturale (come
una caverna) e forse almeno in parte sotterraneo. Ma v’è di piú. I testi micenei testimoniano anche un altro termine, che indicava una particolare costruzione oppure una parte dello stesso dapurito: il dadareio, che corrisponde al greco daidaleion e richiama con tutta evidenza il nome di Dedalo, l’architetto immaginato come modello dell’artista e dell’artigiano. Dall’epigrafia cretese viene insomma la prova che il pensiero mitico greco, elaborando il racconto sul labirinto, ha utilizzato elementi culturali precisi del passato miceneo.
Il culto di una dea Si ripropone dunque in termini nuovi il quesito: cos’era il labirinto, prima di essere mito e poi in quanto mito? Perché, poi, quel legame con la danza delle gru? Il primo aspetto della questione, almeno in parte, è stato chiarito dall’archeologia. La presenza del termine dapurito nelle tavolette micenee ci dice che doveva trattarsi di un luogo adibito al culto di una dea. Nei testi infatti il termine è talora accompagnato dal nome Potnia, che vuol dire «Signora» ed è un appellativo divino bene
In basso particolare del collo del Vaso François: nella fascia piú alta, un gruppo di ragazzi danza al cospetto di Teseo, che li ha liberati dal Minotauro; piú sotto, Teseo e Piritoo lottano contro i Centauri. 570 a.C. circa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
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attestato nei testi di Cnosso, Pilo, Micene e Tebe. Il labirinto, quello vero, frequentato dai Micenei a Creta era dunque un edificio importante, abitato non già da un mostro bensí da una Signora del Labirinto: a lei, secondo i testi che menzionano la Potnia del dapurito, si facevano offerte di miele. Il dadareio, per contro, doveva essere probabilmente una costruzione in pietra, o forse, come s’è detto, la parte piú interna del dapurito, una sorta di sancta sanctorum nel quale si deponevano i daidala, cioè immagini lignee della dea, cosí come si faceva del resto nelle numerose caverne cretesi indagate dall’archeologia. Anche per l’uomo-toro, mitico abitatore di questo luogo, vi sono riscontri nei dati archeologici: su vasi greci della fine del VII secolo a.C. e, prima ancora, su ceramiche egeo-minoiche da Cipro e da Creta sono
raffigurati uomini mascherati da tori; rappresentano verosimilmente scene di culto, con personaggi che indossavano teste taurine a fini liturgici. Vari elementi, insomma, ci permettono di ricostruire la preistoria del mito.
In basso Creta. Una veduta delle rovine del palazzo di Cnosso e dell’entrata settentrionale ricostruita da Arthur Evans agli inizi del Novecento. XXI sec. a.C.
Nella pagina accanto l’interno di un vaso attico a figure nere nel quale compare il Minotauro con iscrizione «kalos». VI sec. a.C. Londra, Collezione privata.
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Un modello civico superiore E su questa base possiamo dare una risposta anche alla seconda parte del quesito; una volta registrati gli elementi di cui il pensiero greco si è servito per elaborare il racconto sulla costruzione di Dedalo, possiamo cioè evidenziare anche i valori attribuiti al labirinto sul piano mitico, indipendentemente da ciò che esso era stato nella concreta realtà dei culti micenei. Il dato piú evidente, da questo punto di vista, è che il mito del labirinto cretese veniva raccontato soprattutto in funzione di Atene, come fondamento della superiorità del
modello civico di questa città rispetto a quello rappresentato dalla Creta di Minosse. Come verità mitica, in effetti, il labirinto rappresenta un luogo nel quale si scontrano due modi diversi di vita politica, quella ateniese e quella minoica antecedente, con il trionfo della prima sulla seconda. Ce lo dicono i luoghi e i personaggi, come pure gli avvenimenti che li coinvolgono. Minosse è un re senza figli destinati a succedergli sul trono; la sua regalità dapprima è seriamente minacciata dal mostruoso discendente di sua moglie, poi definitivamente rovinata dall’arrivo di Teseo. Quando l’eroe uccide il Minotauro e salva i giovani compagni, Minosse rinchiude Dedalo nel labirinto e quando questi fugge in Sicilia il re l’insegue fin lí, ma vi trova la morte. Il labirinto appare inizialmente come una prigione inviolabile, destinata a contenere il Minotauro e prevenire la sua potenziale minaccia nella successione al regno cretese; al contempo esso è un simbolo, un’immagine concreta della servitú di Atene, costretta a saziare la fame di quel mostro con esseri umani; da luogo di morte, esso però si trasforma in spazio di vita, con i giovani che escono dal labirinto, ormai violato, e intrecciano una danza di gioia.
Re al posto del padre L’avvenimento che modifica la situazione precedente e concretizza quella reale è l’arrivo a Creta di Teseo, cioè dell’eroe ateniese piú famoso: per lui il labirinto costituisce il luogo della prova indispensabile, quella che gli consente di ottenere il pieno potere su Atene e di realizzarvi il giusto modello civico. Ucciso il mostro e tornato in patria, infatti, l’eroe diventa re al posto del padre, libera la città dal giogo
cretese, ne stabilisce da allora il dominio sul mare e fonda politicamente la sua realtà urbana, radunando ad Atene gli abitanti dell’Attica, fino a quel momento dispersi per le campagne. Con la vittoria di Teseo e con l’immagine dei giovani sottratti alle fauci del mostro, insomma, il labirinto assume il valore di luogo in cui s’inizia la democrazia ateniese; un luogo da celebrare e ricordare non già per quello che esso concretamente era stato, nella realtà minoica e micenea, bensí per quello che esso aveva rappresentato, alle origini mitiche della potenza di Atene. Da qui anche l’importanza del rito festoso nel quale i giovani, mano nella mano, ripetevano il cammino verso la morte nei corridoi del labirinto e poi la marcia a ritroso che per primi avevano compiuto i compagni di Teseo, verso l’uscita e una nuova vita, da liberi cittadini di una potente città. Torniamo cosí alla scena dipinta sul collo del Vaso François, con i giovani che danzano e illustrano l’antecedente mitico di un rito ripetuto nel tempo reale. Chiamare i danzatori con il nome delle gru, come si faceva a Delo, non era solo un gioco di parole per evocare i saltelli in sequenza dei trampolieri, ma anche un altro modo di celebrare l’ateniese Teseo e il suo successo. Dai Greci, infatti, quegli uccelli migratori erano immaginati prudenti e previdenti, nell’affrontare spazi sconosciuti, come lo era stato Teseo al momento di entrare nel labirinto; e come l’eroe aveva saputo orientarsi con un filo nei meandri oscuri di quel luogo, parimenti si pensava che le gru, volando da un’estremità all’altra del mondo, portassero nel becco un sassolino e lasciandolo cadere si orientassero anche di notte nel volo, col suono della pietra caduta in mare o sulla terra.
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FATICHE E AVVENTURE
giasone e i suoi compagni
GLI ARGONAUTI
A
rgonauti, li definiva il mito; e immaginava decine di eroi raccoltisi intorno a Giasone, giovane principe senza regno, per partecipare con lui a un’impresa quasi impossibile: la conquista del vello d’oro, cioè la pelle aurea di un montone appesa a una quercia nei boschi della misteriosa Colchide. Argo era il nome della barca e Argonautiche furono dette pertanto quelle avventure, che già al tempo di Omero «erano sulla bocca di tutti» e che poi celebrarono in tanti, da Erodoto a Pindaro, da Callimaco ad Apollonio Rodio, da Stazio a Valerio Flacco. A renderle famose furono anche gli artisti, che alle vicende di quei coraggiosi navigatori s’ispirarono per decorare ambienti, rilievi, sarcofagi e soprattutto vasi, come la celebre Cista Ficoroni, opera in lamina bronzea della fine del IV secolo a.C. Scrittori, scultori e ceramisti di ogni tempo ci documentano cosí la fama nel mondo classico di questa grande epopea, forse paragonabile soltanto ai viaggi di Ulisse della tradizione omerica. Con Giasone erano partiti, secondo il mito, gli uomini piú valorosi della Grecia: c’erano Argo, che s’incaricò di costruire la nave; poi Orfeo, Castore e Polluce, Eracle, Teseo, Telamone e Peleo, Laerte, Atalanta, Meleagro e tanti altri, figli di dèi e di principi illustri. Erano salpati da Iolco, in Tessaglia, alla volta di Lemno e della Samotracia; per raggiungere la Colchide, al di là del Mar Nero, avevano passato lo Stretto del Bosforo, costeggiato la Bitinia e il Caucaso, affrontato tempeste, pirati e genti inospitali.
Un ritorno con molte varianti In Colchide avevano quindi superato altre prove, con coraggio e astuzia, fino a conquistare il vello d’oro. Da qui erano poi ripartiti, per un viaggio verso Occidente ancor piú ricco di soste e d’avventure. Le numerose varianti che circolavano su questo ritorno immaginavano gli Argonauti attraversare nuovamente il Mar Nero, risalire fiumi come il Bologna, Palazzo Fava. Il trasporto della nave Argo attraverso il deserto libico, affresco dal ciclo delle Storie di Giasone e Medea di Ludovico, Agostino e Annibale Carracci. 1584 circa.
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Danubio, il Po e il Rodano, visitare le terre dei Celti e dei Liguri, veleggiare nel Tirreno fino alle Lipari e alla riva libica delle Sirti, navigare l’Adriatico, lo Ionio e il Mediterraneo, con tappe nell’isola di Circe, in quella dei Feaci e poi a Creta, prima di costeggiare l’Attica e l’Eubea e rientrare finalmente a Iolco. La conquista del
vello d’oro e la ricerca di nuove rotte fornirono cosí non solo l’argomento per poemi e romanzi, ma anche l’occasione per tracciare un grande quadro delle tecniche nautiche e delle conoscenze geografiche, continuamente aggiornato nei luoghi e negli episodi. E come in un’indagine stratigrafica gli
archeologi individuano le varie fasi della storia di un insediamento, cosí nell’indagine sulla tradizione letteraria e figurativa relativa agli Argonauti si riconoscono strati precedenti e rielaborazioni successive, temi e motivi affiancati o sovrapposti al nucleo narrativo originario. Nella versione piú antica, quella
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ricordata anche in Omero, l’immaginazione regna sovrana sul paesaggio: Argo, che è la prima nave in assoluto, veleggia per mari sconosciuti e lungo coste fantastiche, in una dimensione che in piccola parte corrisponde a quella reale. Ma già nel VII secolo, cioè nell’epoca in cui stando all’archeologia i Greci penetrano nel Ponto Eusino e creano i primi scali commerciali, la nave di Giasone comincia a frequentare località piú concrete, meglio corrispondenti alla geografia sperimentata da marinai e colonizzatori greci. Si riconoscono poi, nelle rielaborazioni risalenti al V e IV secolo a.C., i progressi delle conoscenze e delle conquiste di quei periodi; la ricerca del vello d’oro diviene allora quasi un pretesto per narrare il viaggio e in specie quello di ritorno, che s’iscrive in un orizzonte piú preciso. Nel III secolo, in un mondo ormai pienamente
grecizzato dopo l’impresa di Alessandro, l’itinerario percorso dagli Argonauti si modifica ulteriormente. La ricostruzione che ne fa Apollonio Rodio, per esempio, ridisegna i paesaggi del mito con l’aiuto di esperti geografi e trasforma quel periplo in una grandiosa navigazione transeuropea.
In basso particolare della Cista Ficoroni raffigurante la nave Argo e gli Argonauti. 350-330 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Nella pagina accanto cratere attico raffigurante la morte del gigante Talos. Pittore di Talos, V-IV sec. a.C. Ruvo di Puglia, Museo Archeologico Nazionale Jatta.
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Un contributo importante Considerare la spedizione degli Argonauti una semplice trasposizione sul piano mitico della penetrazione greca oltre il Bosforo (e poi anche verso Occidente) appare tuttavia riduttivo. Certamente la colonizzazione ha dato un contributo importante all’arricchimento dell’epopea; ma la costituzione del nucleo principale del racconto è precedente, rispetto all’epoca in cui quella s’inizia. Si è parimenti ipotizzato che l’impresa degli Argonauti
conservasse il ricordo di viaggi, verso l’Oriente e la Colchide, dei naviganti micenei del II millennio a.C. Ma anche per questa ipotesi l’archeologia suggerisce prudenza: il numero e il valore degli oggetti di stile miceneo ritrovati lungo il Ponto Eusino non consentono di parlare, per l’epoca micenea, di relazioni commerciali o d’installazioni paragonabili a quelle evocate dal ciclo argonautico. In breve: sebbene sia possibile che il successo delle prime traversate verso le coste del Mar Nero abbia dato l’impulso per la costituzione del nucleo iniziale dell’epopea e per la sua popolarità nei secoli VIII e VII a.C., non è da tali avvenimenti che dipende l’articolazione del racconto né la sua fama. Tutta l’avventura degli Argonauti si muove peraltro in un universo che non è semplicemente fantastico o immaginario, ma concretamente mitico, cioè fondante rispetto alla realtà geografica, politica e sociale, in cui si narrava quell’epopea. Sono, insomma, i valori del mito a segnare l’importanza delle Argonautiche nella
tradizione greca, valori che riflettono la realtà, ma che al contempo la rielaborano, per stabilirne in forma narrativa le origini. Con quel primo viaggio per mare, in effetti, avvenuto nel lontano tempo che precedette d’una generazione gli eroi della guerra di Troia, ogni insediamento greco sul Bosforo poteva anzitutto vantare un prestigioso antenato, quale suo fondatore e capostipite: dalle città di Crio ed Heraclea Pontica, che si richiamavano rispettivamente agli argonauti Polifemo e Idmone, fino all’Armenia, che doveva il suo nome all’eroe tessalo Armeno. Del passaggio degli Argonauti, peraltro, si riconoscevano anticamente le tracce un po’ dovunque: ancore di pietra, cilindri in legno serviti per tirare a secco o rimettere in mare la nave, tombe dei naviganti morti durante la spedizione, altari eretti in occasione di scali e altri segnacoli di tal genere, che facevano concreta, reale, la visita degli eroi e ancoravano al loro tempo l’origine di località, luoghi di culto, oracoli, istituzioni civili e religiose.
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Affresco raffigurante Giasone con Medea e il vello d’oro. Seconda metà del II sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum.
Il viaggio degli Argonauti, inoltre, rendeva di per sé «percorribile» la rotta verso la Colchide, fondava cioè miticamente la possibilità di seguire quell’itinerario mai prima tracciato.
Scogli enormi e immersi nella nebbia
Medea, la maga errante Un filone a parte è infine costituito dall’inquietante figura di Medea, la figlia del re della Colchide che personifica nel mito greco tutta la pericolosità delle arti magiche. A prima vista, l’eroina rappresenta il mezzo per ottenere il successo. È lei, presto innamoratasi dell’ospite greco, che addormenta con le sue pozioni il dragone insonne posto a guardia del vello d’oro; è lei che favorisce la fuga di Giasone e dei suoi seminando le carni lacerate del fratello Apsirto e obbligando i Colchi inseguitori a raccoglierle per dare a esse sepoltura; è ancora Medea che salva gli Argonauti dalla morte preparata per loro a Creta da Talos, gigantesco guardiano di bronzo, uccidendolo (l’episodio è illustrato da una splendida pittura vascolare, su un cratere attico della fine del V secolo a.C. da Ruvo); è infine sempre Medea che una volta in Grecia e ormai moglie di Giasone pone fine all’usurpazione di Pelia, convincendo le figlie del vecchio re a uccidere il padre, smembrarne il corpo e farlo cuocere nel calderone, nell’ingannevole speranza di garantirgli in tal modo una nuova giovinezza. Ma questa maga errante, esperta in mille veleni, donna straniera e strega violenta, segna anche la conclusione dell’avventura argonautica in modo tremendo: quando Giasone la ripudia per sposare in seconde nozze Creusa, figlia del re di Corinto, Medea si vendica, squartando i figli avuti da Giasone e donando alla nuova sposa un abito avvelenato, che brucia Creusa, il sovrano e il palazzo reale.
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Significativo in proposito è l’episodio delle Rocce Simplegadi: scogli enormi, immersi nella nebbia, che impedivano l’accesso al Mar Nero cozzando l’uno contro l’altro per la forza dei venti. Gli Argonauti avevano superato quell’ostacolo lasciando volare una colomba davanti alla nave e poi vogando a gran forza nello stretto passaggio tra le rocce, creatosi quando queste si erano nuovamente separate dopo avere mozzato la coda dell’uccello. Lo stratagemma non costituisce soltanto un espediente narrativo, ma anche il momento di rottura rispetto al passato: «da allora», infatti, secondo la tradizione, le rocce erranti si erano fissate per sempre, lasciando aperto alle navi lo Stretto del Bosforo tracio. L’entusiasmo dei giovani accorsi da tutta la Grecia per dividere con Giasone le glorie e i pericoli dell’impresa, suggerisce poi un’altra chiave di lettura: quella del viaggio come prova iniziatica. Una prova continua, con gli eroi che si affrontano nel pugilato, nella voga e nella lotta, che combattono insieme avversari tremendi, con spirito di solidarietà e di democrazia; ma anche una prova durissima, alla quale molti Argonauti soccombono, perdendo la vita in mare e in battaglia o abbandonando l’impresa. Anche la ricerca del vello d’oro, simbolo della dignità regale, ha uno specifico significato iniziatico. La prova, infatti, viene imposta a Giasone dal re Pelia, che aveva usurpato il trono di Iolco ai parenti del giovane e che voleva in tal modo allontanare da sé il legittimo pretendente; per il re della Colchide la perdita di quel talismano vale il regno, che è costretto a lasciare, mentre per Giasone la sua conquista vale il ritorno in patria e il diritto alla sovranità.
L
a processione che nell’Atene del V secolo a.C. saliva verso l’acropoli, a conclusione delle feste Panatenee, permetteva ai partecipanti, una volta giunti sul piazzale del Partenone, di ammirare con devota attenzione le scene dell’incendio e della distruzione di Troia, raffigurate sul lato settentrionale del Partenone stesso. La visione di quella notte fatale, prima di procedere oltre per consegnare un peplo ricamato alla statua di Atena, non era insignificante, giacché la medesima festività prevedeva anche la recita dei due poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea. Sicuramente non
Quell’avvenimento segnava anche, e piú precisamente, il limite oltre il quale la storia degli uomini si confondeva con il passato mitico, cioè con l’epoca in cui sulla terra avevano vissuto coloro che per primi avevano abitato le città, stabilito norme di comportamento, avviato culti, fondato nuovi insediamenti. Con l’incendio di Troia e con gli avvenimenti conseguenti si chiude cioè l’epoca degli eroi, di quegli esseri immaginati mortali, come gli uomini del tempo reale, ma vissuti in stretto rapporto con le divinità che li avevano generati; esseri umani, ai quali però si attribuivano gesta prodigiose, forza eccezionale, virtú e difetti spinti all’estremo.
Guerrieri fortissimi I protagonisti della guerra di Troia, per vero, non sono descritti nell’Iliade come eroi civilizzatori o massacratori di mostri, al pari di Eracle, di Teseo, di Perseo, di Giasone o di Edipo; tutti costoro anzi, per lo stesso Omero, sono esistiti in epoche di poco precedenti la spedizione greca, come «guerrieri fortissimi simili agli immortali, che mai se ne vedranno altri d’uguali». E tuttavia anche i giovani che Scene su un cratere raffigurante il saccheggio di Troia. IV sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A sinistra, Neottolemo che brandisce Astianatte per una caviglia; in basso, re Priamo a terra.
era la necessità di sottolineare supremazie politiche o territoriali a suggerire quel momento celebrativo e quella forma di ammaestramento del popolo: a quel tempo, come hanno mostrato gli scavi sulla collina di Hissarlik, Troia era poco piú di un modesto centro, soggetto alle città della Grecia e famoso soltanto per il santuario di Atena Iliaca. La presa di Troia, per i Greci che ascoltavano Omero, era la memoria poetica di un’epoca in cui s’annunciava imminente il declino dei regni micenei, che si riconoscono peraltro, nei poemi, se non proprio negli apparati politici ed economici, almeno nei costumi, nei modi di vivere, perfino nelle strutture dei palazzi abitati dai campioni di quella guerra.
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GLI EROI DELLA GUERRA DI TROIA
la fine dell’età eroica
FATICHE E AVVENTURE
La costruzione del Cavallo di Troia, olio su tela di Giandomenico Tiepolo. 1760 circa. Londra, National Gallery.
s’affrontano a Troia sono eroi in senso pieno, come i loro ascendenti e discendenti: sono fondatori di dinastie, colonizzatori, iniziatori di culti; sono forti, tracotanti, temerari di fronte agli dèi; e vivono in un passato fatto d’inganni e di ruberie, di soprusi e d’omicidi, nel quale tutto è ancora possibile. Molti sono anche figli di divinità: a cominciare dalla spartana Elena, per la quale quella guerra fu combattuta, per finire con il licio Sarpedonte, la cui morte per la lancia di Patroclo serve a ricordare, nel XVI libro dell’Iliade, che neppure Zeus che lo pianse può sottrarre un mortale alla sua parte di destino.
Un mondo perduto Tutti i partecipanti alla guerra di Troia, insomma, appartengono a un tempo che non è piú quello caotico degl’inizi del cosmo, ma non è neppure quello del vissuto quotidiano; un tempo che ormai irrimediabilmente s’è concluso e nel quale sono state fissate per gli uomini le condizioni dell’esistenza reale. Questo mondo diverso, di cui restavano comunque tracce evidenti nelle rovine della precedente civiltà micenea (che i Greci identificavano proprio come tombe o reliquie degli eroi), serve peraltro a dare fondamento anche all’intera società divina, che interviene, agisce e interferisce nella guerra troiana, come se volesse profittare di quell’assedio per presentare se stessa. I duelli, i contrasti e gli ardori che animano il racconto di Omero sono in effetti altrettante occasioni per narrare il mondo dei numi, per descrivere le prerogative di ciascun dio, mostrare l’organizzazione dell’Olimpo e stabilirne la piena superiorità. Su ogni scena domina sovrano Zeus, che «pesa i destini di morte dolorosa», trattiene gli dèi troppo inclini a mescolarsi nella battaglia e vigila dal trono celeste. Ma tutti gli immortali trovano spazio in quella guerra e modo per presentarsi nei loro gusti e caratteri. Ci sono Afrodite che sempre sorride, Apollo splendente e Artemide saettatrice; Efesto sciancato e
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Atena dall’occhio azzurro; Ares violento ed Era dalle bianche braccia, Ermes messaggero e Teti piede d’argento; e poi Aurora, Demetra, Poseidone, Ade, Dioniso e tanti altri. Proteggono i loro figli, come Teti fa con Achille e Afrodite con Enea, o i loro favoriti, come Atena con Diomede e con Ulisse; dirigono e fomentano i duelli, si battono e contestano, scendono perfino a lottare sul campo, quasi che la guerra di Troia, ben oltre le sue ragioni e conseguenze, non appartenga che a loro. L’Iliade, insomma, è l’universo dei mortali che chiudono l’epoca eroica: un mondo terrestre, raccontato nei versi dell’epica e ricco d’immagini, di dettagli, d’azioni. Ma il poema è anche il mondo dei numi immortali, che si
mostrano per quel che sono, cioè per quello che la religione attribuiva loro: una società complessa, descritta con minuzia nelle abitudini, nella lingua, negli alimenti, nelle passioni e nei contrasti che segnavano e agitavano la vita divina.
I grandi maestri della religione È dunque possibile leggere i racconti omerici alla luce di quanto l’archeologia permette di riconoscere nella storia micenea e recuperare nel testo il ricordo di quel che l’epica ha raccolto e rielaborato. Ma se ci si chiede quale fosse il significato di Omero per la religione greca, allora il discorso muta, si sposta di livello, e il racconto di quella spedizione,
cantato nelle feste e celebrato nell’arte, va letto come lo leggevano i Greci: come un insieme organico di miti, attribuito a un poeta cieco divinamente ispirato, che descriveva e mostrava in azione gli dèi in cui tutti credevano. Cosí Fidia poté affermare d’aver modellato la statua di Zeus a Olimpia sui versi del I libro dell’Iliade; cosí Eschilo poté dire di lavorare ai suoi drammi con le briciole della tavola di Omero; cosí Erodoto poté scrivere che Omero ed Esiodo erano stati i grandi maestri di religione dei Greci, coloro che avevano poeticamente inventato gli dèi, chiamandoli con i loro epiteti, distribuendo onori, distinguendo attributi e descrivendo le sembianze di ciascuno.
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FATICHE E AVVENTURE
il signor nessuno
N
ULISSE
on è facile riconoscere Ulisse, l’astutissimo re di Itaca, vincitore con gli Achei a Troia ed errabondo marinaio sul Mediterraneo, nelle tante immagini dedicate ai protagonisti dei poemi omerici. Lo caratterizzano, di solito, l’età matura, la folta barba, il berretto di feltro, l’espressione seria oppure astuta; ma si tratta di elementi generici, che si applicano anche ad altri personaggi dei miti greci. Le pitture dei vasi, le incisioni delle gemme, le composizioni dei mosaici, i conii delle monete e i rilievi delle sculture, del resto, raffigurano Ulisse
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anche in modo diverso: negli abiti d’un elegante ambasciatore, per esempio, o nell’armatura di un guerriero temibile, oppure nei panni d’un mendicante vergognoso, o ancora nelle vesti d’un vecchio piegato dai patimenti. Non di rado, è piuttosto la situazione narrativa ad assicurare l’identificazione dell’eroe; Ulisse si riconosce agevolmente, per esempio, negli episodi d’incontro con la maga Circe, con la principessa Nausicaa o con la ninfa Calipso, in quelli del furto del palladio, dell’ambasceria ad Achille, della
Nella pagina accanto coppa laconica raffigurante l’accecamento di Polifemo, da Nola. 550 a.C. circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
In alto particolare del mosaico con Ulisse e le sirene, raffigurante l’eroe legato all’albero maestro della nave, da Dougga, Tunisia. III sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo.
discesa agli Inferi, della seduzione delle Sirene, del riconoscimento della sua nutrice o della strage dei pretendenti a Itaca.
indistinguibile se non fosse per il nome scritto accanto alla figura. Insomma, nelle scene che lo raffigurano, Ulisse non sembra avere quel ruolo precipuo che gli assegna invece l’epopea greca arcaica. Questa, in effetti, con l’Iliade, l’Odissea, la poesia ciclica e la tragedia, delinea per Ulisse una personalità di primo piano. Nei poemi omerici, soprattutto, Ulisse è un eroe coraggioso, ma anche altero, pronto alla vendetta e all’eccesso; ammirevole nella pietà verso gli dèi, benigno verso i sudditi e impavido nei pericoli; nostalgico della patria e degli affetti familiari, ma insieme pronto ad accantonarne il ricordo per cedere alle lusinghe delle donne che
Riconoscibile dal nome Tuttavia, anche quando il tema della raffigurazione è chiaro e inconfondibile, l’eroe si distingue a malapena dai compagni: cosí accade, per esempio, nelle scene dell’accecamento del ciclope Polifemo e della fuga dalla sua grotta sotto gli ovini. Similmente, in ulteriori scene d’azione collettiva, è difficile riferire a Ulisse una funzione direttiva o una posizione preminente sugli eroi cui s’accompagna; spesso egli è soltanto uno dei protagonisti,
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viaggiatore instancabile, fondatore d’insediamenti e d’istituzioni. La sua raffigurazione testimonia parimenti che in lui si vedeva un ideale di riferimento, per il coraggio, la vittoria sulle avversità, la gioia del ritorno a casa dopo l’esilio e le sofferenze. Eppure, come s’è detto, non è facile riconoscere Ulisse nelle immagini che riproducono i suoi miti. Per questa sorta di anonimato di Ulisse, sono state date varie spiegazioni.
Un tema con molte declinazioni
Oinochoe (brocca da vino) a figure rosse con l’immagine di Ulisse. Attribuita al Pittore di Oinochoe di Bruxelles, 450 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
incontra. Da vero protagonista, inoltre, egli partecipa alla guerra di Troia, affiancando con saggezza e fedeltà il condottiero Agamennone. Il suo lungo viaggio di ritorno, infine, con le mille avventure e tribolazioni narrate nell’Odissea, descrive (cioè, con linguaggio mitico, racconta e insieme fonda) le terre e i pericoli che s’incontrano nelle regioni occidentali dove il sole va a morire: quelle sponde dove i coloni greci cercavano e credevano di ritrovare le tracce delle peregrinazioni di Ulisse e dove i popoli con cui essi venivano a contatto, acquistata conoscenza di quei miti, amavano glorificare le proprie origini riferendole al passaggio di Ulisse. Con queste caratteristiche, insomma, Ulisse è un eroe esemplare, nel senso che la sua figura racchiude in sé, come e piú di altre, il modello greco dell’eroe, riflessivo e insieme impulsivo, combattente accanito,
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Laddove la sua figura rimane sommersa nell’azione comune, s’è vista, per esempio, la volontà di privilegiare il carattere collettivo dell’impresa eroica; si è anche voluto individuare una minore popolarità di Ulisse nei monumenti figurati di età classica, rispetto ad altri eroi, quale conseguenza del fatto che le sue avventure, ricche di acume psicologico, erano meno adatte di altre a essere rappresentate; per l’epoca arcaica, infine, si è osservato che la partecipazione di tanti protagonisti alle sue gesta, in qualità di compagni o di avversari, rappresentava un ostacolo in un’arte che preferiva le scene con due o al massimo tre personaggi. Nondimeno, il numero di figurazioni nelle quali Ulisse appare coinvolto rimane elevato: sono stati catalogati quasi quattrocento diversi motivi iconografici relativi all’eroe, fornendo ampia riprova della notorietà del personaggio e delle sue vicissitudini. È stato parimenti rilevato che l’anonimato di Ulisse risulta evidente soprattutto nelle figurazioni di quegli episodi per i quali i testi letterari insistono proprio sulla capacità dell’eroe di nascondere la propria identità o sulla sua abilità nel confondersi volutamente tra gli altri protagonisti, entrambe utilizzate ad arte per affrontare e vincere i propri avversari. Sembra dunque possibile cercare, per questa scelta iconografica, una spiegazione coerente con l’insieme della documentazione mitologica.
I miti che parlano di Ulisse insistono abitualmente sulla sua astuzia, presentata come elemento principale della sua personalità. Per Omero, ma anche per la tradizione posteriore, egli è «l’uomo dai mille raggiri», l’eroe scaltro, ingegnoso, avveduto. Con astuzia egli dapprima cerca d’evitare la partenza per Troia, fingendosi pazzo; alla furbizia Ulisse ricorre poi per smascherare Achille e costringerlo a partecipare alla spedizione: costui s’era vestito di abiti femminili e nascosto tra le donne, ma s’era tradito, preferendo le armi ai gioielli tra i doni che Ulisse, travestito da mercante, aveva offerto loro. Come un mendicante, poi, l’eroe s’introduce a Troia Rilievo in terracotta raffigurante Ulisse che, con ancora indosso i panni di un mendicante, cerca di farsi riconoscere da Penelope, dall’isola di Melo. 450 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
per spiare gli assediati e sua è la guida dei migliori guerrieri, nascosti nel cavallo di legno che permette la conquista della città. Avvedutezza e astuti espedienti consentono inoltre a Ulisse di superare le innumerevoli prove nel viaggio di ritorno a Itaca; e solo presentandosi irriconoscibile, come un povero vecchio, straniero nei luoghi dei quali è il signore, egli può giungere infine alla sua reggia, uccidere uno dopo l’altro i pretendenti e recuperare il trono.
Realtà e simulazione Se l’astuzia è la sua dote principale, il campo in cui Ulisse l’esercita maggiormente è quello della propria identità, nel continuo gioco tra parole vere e affermazioni mendaci, tra realtà e simulazione, tra essere e apparire. Di fronte all’ignoto, l’eroe si traveste continuamente, da naufrago, schiavo, mercante, accattone; s’inventa una falsa patria, genitori fittizi e un passato illusorio anche con quelli che l’accolgono in amicizia e per fama ne conoscono l’astuzia. La scaltrezza dell’identità mascherata investe perfino il suo nome: «Orsú, ospite mio, chiede Alcinoo re dei Feaci al naufrago Ulisse, rispondimi sinceramente, poiché nulla è meglio della franchezza. Dimmi qual è il tuo nome, quello con cui ti chiamavano tuo padre e tua madre e con cui ti conoscevano nella tua città, poiché mai si vide un uomo che fosse senza nome». Nessuno è senza nome, per il re dei Feaci e per la mentalità greca, in cui ciascuno si riconosce solo in rapporto all’immagine che gli altri hanno di lui, nelle parole di lode o di biasimo, d’ammirazione o di disprezzo; ma nel caso dell’astuto Ulisse ci si può anche chiamare Nessuno. Con tale
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sotterfugio l’eroe sfugge alla morte nella grotta di Polifemo: anche lui, prima di addormentarsi ebbro del vino offertogli da Ulisse, vuole sapere il nome dell’ospite: «Vuoi conoscerlo Ciclope? Ebbene, te lo dirò: il mio nome è Nessuno; Nessuno mi chiamano mio padre, mia madre e tutti i miei compagni». E «Nessuno mi uccide, amici miei!» grida poi il gigante accecato, chiedendo invano l’aiuto degli altri Ciclopi.
Vittima del proprio stratagemma Ulisse = Nessuno: «falso ma vero», ha scritto Jean-Pierre Vernant commentando l’episodio e osservando che in questa dichiarazione d’identità si riassume l’intera vicenda del protagonista dell’Odissea, che astutamente si maschera e ripetutamente si confonde nell’anonimato, ma insieme resta vittima di tale mendace apparenza, giacché, lasciata l’isola del Ciclope e approdato infine su quella di Calipso, egli rimane per anni privato della personalità, inghiottito nell’invisibile e considerato disperso dai suoi stessi familiari. Lontano dalla patria, ultimo sopravvissuto di un equipaggio scomparso, l’eroe è veramente «nessuno». Per tornare se stesso e recuperare la propria identità come Ulisse, deve riprendersi il trono di Itaca, riconquistare il ruolo di padre
e di sposo, tornare a quella vita normale in cui ciascuno è quello che appare. L’uomo dalle molte astuzie è dunque soprattutto l’eroe dai mille volti, che gioca sulla propria identità per ingannare e superare gli avversari, ma che infine, tornato in patria, deve farsi riconoscere, accantonando l’oblío a cui le sue avventure e i suoi travestimenti lo avevano vincolato e tornando con la memoria a ciò che era stato, dal giorno della nascita a quello della partenza: la nutrice Euriclea, per esempio, lo riconosce per una cicatrice, la sposa Penelope grazie ai ricordi della vita nuziale. Cosí il personaggio di Ulisse, dissimile da se stesso per astuzia e per vicende, traccia anche il modo con cui i Greci d’età arcaica hanno voluto immaginare, in termini mitici, il rischio di perdere la propria identità, quando l’individuo cancella i riferimenti concreti al proprio nome, alla patria, alla famiglia, al passato, alla sua stessa notorietà. Di questo, verosimilmente, non meno dei poeti e dei cantori, erano ben consci gli artigiani che vollero raffigurare in modo anonimo l’eroe, nelle vesti impersonali di un mendicante, di un naufrago o di un vecchio rugoso, o che preferirono confonderne l’identità nel gruppo senza nome degli eroi in azione.
Skyphos (bicchiere con due manici) beota raffigurante la maga Circe che droga Ulisse con una pozione, da Tebe. 425-375 a.C. Oxford. Ashmolean Museum.
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l’ultimo approdo del fuggitivo
L
e leggende e le tradizioni legate all’epos di Enea e alla nascita di Roma riflettono una realtà storica che gli scavi archeologici hanno riportato alla luce, evidenziando il prestigio di cui Lavinium (nei pressi dell’odierna Pratica di Mare, presso Roma) godette in epoca romana e la complessa rete di rapporti e le influenze derivanti dalla Grecia sin dall’età arcaica. Nel VII secolo a.C., in una zona extraurbana, prossima all’abitato, fu innalzato un tumulo circolare, del diametro di 18 m circa, destinato a contenere la sepoltura principesca di un
personaggio di alto rango, evidentemente degno di ricevere ammirazione e ricordo da parte dell’intera comunità. Questo tipo di tomba si inquadra con altre simili attestate in Etruria e nel Lazio nel periodo orientalizzante. Contenuto da un muro in piccoli massi tufacei, il tumulo racchiudeva la tomba vera e propria, una sorta di cassone rettangolare (2,50 x 1,60 m), formato da lastre di cappellaccio in
ENEA
Piccolo gruppo in terracotta policroma raffigurante Enea in fuga da Troia con il giovane figlio Ascanio per mano, e, in braccio, il padre Anchise, che porta la cista dei Penati troiani, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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parte ancora in situ, con una copertura sempre di lastre, crollata, forse posta in piano, terminante con un lastrone conformato a tre quarti di cerchio.
Armi e oggetti per il banchetto Il corredo d’accompagno è di grande interesse per la sua eterogeneità; la datazione di alcuni degli oggetti che ne lo compongono, infatti, è di almeno cinquant’anni piú antica di quella della sepoltura. Coevi alla deposizione sono la maniglia in ferro di un carro, una spada ad antenne in ferro e bronzo, un set da banchetto composto da una sessantina di vasi e di altri oggetti metallici, fra cui spiedi, grattugie e bracieri, databili intorno al 670-660 a.C. A sinistra un particolare dell’allestimento museale del cosiddetto Heroon di Enea, come si presentava nella sua fase finale, dopo il IV sec. d.C. Pomezia, Museo Civico Archeologico Lavinium. In basso Pratica di Mare (Pomezia). I resti del sepolcro tradizionalmente identificato con l’Heroon di Enea.
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In alto rilievo marmoreo raffigurante Enea e suo figlio Ascanio all’arrivo in Italia da Troia. Metà del II sec. a.C. Londra, British Museum. A destra statuetta votiva in terracotta raffigurante Enea con il padre Anchise sulle spalle, dal deposito votivo di Campetti a Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Nel VI secolo a.C., a circa un secolo dalla sua realizzazione, la memoria di questa ricca deposizione e le sue valenze religiose e sociali condussero i membri della comunità lavinate a compiere una vera a propria ricognizione di quello che doveva essere considerato come il corpo del progenitore e fondatore dell’abitato; ritrovato lo scheletro, il gruppo sacralizzò la sepoltura che da allora divenne luogo di culto. A ricordo della consacrazione fu collocata al centro della tomba un’anfora vinaria etrusca, probabilmente quella che conteneva il vino impiegato per il rito, e in un angolo una brocca in bucchero pesante. Tale intervento sconvolse l’antica sepoltura, di cui rimase soltanto il corredo di accompagno. Duecento anni piú tardi, nel IV secolo a.C., si procedette alla costruzione di un vero e proprio sacello, composto da una cella chiusa da finte porte in tufo e da un ampio pronao, incorporato nel tumulo, allo scopo di trasformare la sepoltura in un heroon (una tomba monumentale dedicata a un eroe, n.d.r.) asportando un angolo della cassa.
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traditore e fondatore?
A
ANTENORE
l centro di Padova, un’arca monumentale custodisce le presunte spoglie di Antenore, esule troiano e fondatore della città. Il monumento risale ai primi secoli dell’anno Mille; piú precisamente, al 1274 o al 1283 le cronache locali datano il ritrovamento di una duplice bara di legno e di piombo con un cadavere mummificato accompagnato da monete d’oro e da un’epigrafe latina che recita «Qui riposa Antenore, fondatore di Padova». Si potrebbe dunque pensare di trovarsi di fronte ai resti dell’eroe che, secondo Omero, era stato a Troia consigliere del re Priamo, ospite e mediatore di pace con Ulisse e Menelao venuti a reclamare la restituzione di Elena; quello stesso eroe che, secondo Sofocle, Strabone e Pausania, era stato risparmiato dagli Achei grazie a una pelle di leopardo appesa davanti alla sua casa, come segno di riconoscimento; quell’Antenore che per questi e altri scrittori aveva potuto lasciare la Troade, mettersi a capo di un gruppo di Eneti originari della Paflagonia, attraversare con essi e con i figli la Tracia per giungere infine sulle rive del Po, dove aveva cacciato gli Euganei,
fondato Padova e dato impulso alla prima colonizzazione della regione. In realtà, la bara, lo scheletro e l’iscrizione non sono particolarmente antichi: la prova del Carbonio 14, effettuata nel 1985 in occasione del restauro del monumento, ha mostrato che i resti umani appartengono a un individuo vissuto intorno al 268 d.C., mentre gli studi storici hanno chiarito motivi e presupposti di quel ritrovamento. Si è dimostrato, piú in particolare, che la riscoperta delle spoglie del fondatore di Padova costituí una precisa operazione propagandistica degli eruditi locali, allo scopo di contrastare un’altra tradizione, che faceva dell’eroe un traditore della patria: sarebbe stato lui ad aprire il cavallo di legno, nella città assediata, e a consegnare il Palladio, la statua di Atena che Troia custodiva gelosamente. Come giudicare dunque il fondatore di Padova e quale valore attribuire alle tradizioni sull’arrivo di Troiani nel Veneto?
Gli scambi con le genti egee All’arrivo dell’eroe nell’area euganea fa riscontro la presenza commerciale di genti egee nella regione sullo scorcio del II millennio a.C., testimoniata dal ritrovamento di oggetti micenei: ceramica, fibule e perle d’ambra. L’associazione degli Eneti al troiano Antenore corrisponde bene al momento in cui gli antichi empori di Adria e di Spina assumono i connotati di città greche e per il quale l’archeologia documenta la circolazione di ceramica attica in area veneta. Il passaggio di Antenore da colonizzatore troiano a fondatore di Padova, infine, trova corrispondenza nel ritrovamento di ripostigli monetali del III-II secolo a.C., che provano l’importanza dell’insediamento come porto fluviale e i suoi rapporti commerciali con la Roma repubblicana. L’attribuzione di un’identità troiana ai colonizzatori della terra enetica sull’Adriatico, di cui Sofocle offre probabile testimonianza per il V secolo a.C., trova per esempio confronto nell’interesse degli Ateniesi di quel tempo a intrattenere rapporti amichevoli con i popoli dell’Occidente che potevano
In alto Veduta dell’Arca di Antenore, incisione all’acquatinta, dall’opera Viaggi in Italia per Francesco Gandini, ovvero descrizione geografica..., pubblicata per la prima volta a Cremona nel 1830.
Nella pagina accanto Padova. Un’immagine odierna dell’Arca di Antenore. La ricognizione del sepolcro ha provato che le spoglie in esso contenute appartengono, in realtà, a un individuo vissuto nel III sec. d.C.
vantare comuni antenati eroici. Gli autori latini di età augustea, per altro verso, testimoniano il modo romano di sfruttare quei miti, come elemento di coesione fra sé e le genti venete, nel piú ampio contesto d’esaltazione delle origini troiane di Roma. Con motivazioni di propaganda politica si spiega parimenti la nascita della notizia sul tradimento di Antenore. Essa nacque probabilmente per una lettura volutamente distorta dell’Iliade, nell’ambito di una storiografia ellenistica di sentimenti antiromani che dette vita, contestualmente, all’analoga accusa nei confronti di Enea.
Rispetto alla tradizione mitica greca, il motivo del tradimento appare secondario, marginale e anzi estraneo al nucleo originale del racconto, centrato sulla figura dell’eroe troiano, venuto in Occidente come portatore di civiltà. Da questo punto di vista, sul piano cioè dell’elaborazione mitica, i racconti su Antenore non sono diversi da quelli che riferivano le avventure degli Argonauti, le fatiche di Eracle o il ritorno in patria dei vincitori di Troia, e contestualmente narravano dei luoghi da loro visitati e delle colonie fondate in terre sconosciute.
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Restituzione grafica di un particolare della decorazione di un cratere a volute, a figure rosse, attribuito al Pittore dell’Oltretomba e raffigurante, al centro, la reggia di Ade e Proserpina, da Canosa di Puglia. IV sec. a.C. Monaco, Staatliche Antikensammlungen. Sulla sinistra, si vede il cantore Orfeo che suona la lira, mentre sulla destra sono riuniti i grandi giudici dell’aldilà.
STORIE SENZA
TEMPO
GIARDINI PARADISIACI, SACRIFICI UMANI, DONNE GUERRIERE E MISTERIOSI ANIMALI DAL VOLTO UMANO: SONO I LUOGHI E I PROTAGONISTI DI UNA TRADIZIONE MITOLOGICA ANCORA VIVA AI GIORNI NOSTRI | NEL MONDO DEI MITI | 98 |
STORIE SENZA TEMPO
nell’ade gagliardo
L’OLTRETOMBA
U
na serie di ceramiche apule sembra riassumere in un unico quadro l’insieme delle credenze greche sull’oltretomba. Si tratta di una dozzina di crateri a volute del IV secolo a.C., provenienti in particolare da Ruvo di Calabria, da Canosa e da Altamura di Puglia: sono decorati piú o meno allo stesso modo e lasciano dunque ipotizzare la comune derivazione da un unico modello. Al centro dell’immagine, in un palazzo sontuoso, è posto il re dei morti: il divino Ade, figlio di Crono e di Rea, che s’era diviso il governo dell’universo con Zeus e Poseidone, ricevendo in sorte quel mondo al quale dà nome e sul quale regna, estraneo e indifferente a ciò che accade altrove. Accanto a lui sta la sposa Persefone, che Ade rapí ancora fanciulla, mentre coglieva fiori in un prato. Narrano i miti che il dolore della madre Demetra, partita alla ricerca della figlia rapita, aveva provocato la sterilità dei campi; cosí Zeus ordinò che Persefone risalisse, a condizione che non avesse toccato cibo nell’Ade. Ormai però la fanciulla aveva gustato qualche chicco di melagrana, frutto infernale, e il suo ritorno non poteva essere definitivo; da allora, dunque, Persefone divide il suo tempo, trascorrendone buona parte negli Inferi, dove regna tremenda e spietata come lo sposo.
Ade, ospite infido Intorno a questa scena compaiono i principali miti ambientati negli Inferi. Su un vaso di Canosa, per esempio, e su un altro analogo di Altamura, si vedono, in alto sulla destra, l’eroe Teseo e l’amico Piritoo. Insieme, un giorno, erano scesi negli Inferi per rapire Persefone, che il secondo voleva sposare. Ade aveva offerto a entrambi un banchetto, ma la sua ospitalità era solo un inganno: li aveva fatti sedere su un seggio che procurava l’oblío e al quale i due erano rimasti attaccati, avvinti dalle spire di serpenti. Piritoo, si narrava, restò lí legato per sempre, mentre Teseo fu liberato da Eracle, sceso negli Inferi a trascinare via Cerbero, il cane a piú teste che lusinga chi
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s’avvicina e non lascia piú uscire nessuno. Questa impresa, negli stessi vasi, costituisce il quadro centrale del registro inferiore: Eracle vi è raffigurato mentre doma Cerbero e lo trascina lontano da un altare, al di sopra del quale una delle Erinni, le furie vendicatrici, agita Cratere raffigurante la quadriga di Nike e, al centro, la reggia di Ade e Persefone, da Canosa di Puglia. Attribuito al Pittore del Sakkos Bianco, 320 a.C. Matera, Museo Archeologico Nazionale «Domenico Ridola».
era stata rapita in segreto dal dio; poi l’aver tentato d’ingannare i numi, vietando alla moglie di compiere per lui i riti funebri, una volta morto, e procurandosi in tal modo il pretesto per tornare tra i vivi a reclamarne la celebrazione. Di Sisifo si narrava, parimenti, che fosse riuscito a legare la Morte, venuta per lui a tempo debito; finché quella restò legata nessuno moriva piú, cosí Zeus aveva ordinato di scioglierla e quella subito uccise Sisifo.
I grandi giudici dell’aldilà
Particolare del Cratere di Altamura (o dell’Inferno) raffigurante Orfeo che suona la lira, da Altamura. Produzione tarantina, 350 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
due torce; sull’altro lato, a indicargli la strada, c’è Ermes, che guida i defunti verso la dimora sotterranea, con il caduceo e i calzari alati. Agli estremi di questa scena sono invece raffigurati i supplizi di Tantalo e di Sisifo, due dei grandi dannati dell’aldilà. Il primo era stato re della Lidia; nell’Ade viene punito con fame e sete insaziabili, per avere offerto in pasto agli dèi le carni di suo figlio e distribuito ai mortali nettare e ambrosia, cibo divino. Sui vasi è raffigurato nell’atto vano di cogliere i frutti dai rami di alberi floridi che crescono alle sue spalle e che i venti sempre allontanano dalle sue mani. Sisifo, per contro, spinge un macigno su per un colle; quando sta per superarne la cima, il masso precipita indietro e Sisifo deve ricominciare daccapo. Cosí egli sconta la somma delle sue colpe: l’aver denunciato Zeus ad Asopo, la cui figlia Egina
Nel registro centrale dei crateri citati, ai lati della reggia di Ade sono raffigurati da una parte i grandi giudici dell’aldilà, dall’altra il cantore Orfeo. I primi hanno solitamente i nomi di Minosse, Eaco e Radamante. Sull’altro lato del palazzo, in abito frigio e con la lira fra le mani, Orfeo è rappresentato mentre intercede presso Persefone per due persone, raffigurate dietro di lui. I miti narravano che per riportare tra i vivi l’amata Euridice, egli era disceso nell’Ade e aveva ammaliato con il canto i guardiani infernali; non aveva però resistito al divieto di voltarsi a vederla prima di tornare alla luce del sole; cosí la sposa era rimasta con gli altri morti negli Inferi. Vi sono infine altre scene sui vasi apuli, in alternativa all’una o all’altra di quelle citate, che raffigurano Aiace Telamonio morto suicida a Troia, Perseo vincitore della Gorgone, oppure le Arpie, le Sirene e altri mostruosi abitatori dell’Ade. I crateri apuli offrono insomma, nel loro insieme, un grande affresco sui personaggi che popolano l’oltretomba, dai Greci solitamente confinato nelle profondità della terra oppure collocato all’estremo limite dei mari, là dove il sole s’inabissa. Appare altresí evidente la volontà di rappresentare in questi vasi i significati principali delle credenze che davano a quel mondo un preciso fondamento mitico; si riconoscono infatti, nelle diverse scene, il tema dell’ineluttabilità della morte, l’impossibilità di tornare da quel viaggio supremo, la diversità di quel regno rispetto al mondo dei vivi, varie forme di giudizio, di condanna, di salvezza. Non molto diversamente avevano peraltro
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STORIE SENZA TEMPO
Un bianco cipresso Un testo d’istruzioni orfiche, deposto in una tomba di Ipponio (Vibo Valentia) alla fine del V secolo a.C, ci offre un’ultima immagine del paesaggio infernale: «Quando andrai alle case ben costruite di Ade, bada: sulla destra è una fonte e accanto s’erge un bianco cipresso. (...) A questa fonte non accostarti neppure, ma va’ piú avanti; troverai l’acqua fresca che scorre dal lago di Mnemosine. Ivi i custodi ti chiederanno cosa cerchi nelle tenebre di Ade caliginoso. Rispondi: “Sono figlio di Terra e di Cielo Stellato; di sete brucio e mi sento morire. Presto datemi la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosine”.
Obbedienti al sovrano degli Inferi essi ti mostreranno benevolenza e ti lasceranno bere. E andrai lontano, per la via sacra che ascendono gloriosi anche gli altri iniziati».
Lamina aurea iscritta con testo orfico, dalla Tomba 19 della necropoli Inam di Vibo Valentia. V sec. a.C. Vibo Valentia, Museo Archeologico Nazionale «Vito Capialbi».
operato gli scrittori che trattarono dell’aldilà, narrando le storie e i personaggi piú sopra citati e fornendo, per tutto il paesaggio infernale, una descrizione che serviva a fondare il modo greco di concepire l’oltretomba. Scorrendo le pagine di Esiodo, di Omero, di Platone o di Luciano, per esempio, si trovano tenebre e nebbie profonde, anzitutto, e boschi e pianure nell’ombra; quindi le acque che formano i vortici dello Stige, dell’Acheronte e degli altri fiumi sotterranei, le une paludose, le altre ghiacciate o infuocate. Ai bordi di quelle acque c’è Caronte, il nocchiero che accoglie e traghetta le anime, iroso, barbuto, deforme; piú in là si trovano le putride dimore dei morti, le «case di Ade gagliardo», sorvegliate da guardiani terribili; piú giú, infine, nel cuore della terra, sono gli abissi del Tartaro oscuro, prigione inespugnabile per i Titani che avevano lottato contro Zeus.
Un destino comune per tutti Questo in sostanza, dicono i testi e ripetono le immagini su vasi, rilievi, pitture… è l’Erebo, la Tenebra che accoglie coloro che hanno vissuto: gente comune e nobili principi, uomini senza storia ed eroi famosi, tutti ormai ridotti a pallidi simulacri di ciò che furono un giorno sulla terra. Questo è il mondo che ciascuno s’aspetta di trovare, il tenebroso regno di Ade, portinaio inesorabile che
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trattiene a sé tutti i defunti perché sulla terra prosegua regolare il ciclo di morti e di nascite. E tuttavia, per rimanere alle ceramiche apule, l’immagine di Orfeo che rappresenta una costante di questi vasi – e talvolta si trova proprio al centro della figurazione – sembra dimostrare la fiducia riposta dal defunto nell’intervento salvifico di questo personaggio e richiama direttamente l’ambiente dei misteri orfici, che erano assai diffusi nella Magna Grecia del IV secolo a.C. I seguaci di tali dottrine, piú precisamente, proclamavano la speranza di una sorte privilegiata nell’aldilà, riservata soltanto a essi in virtú dell’iniziazione ai riti di Orfeo e dell’osservanza di particolari precetti, desunti dagli scritti attribuiti all’eroe cantore. Gli Orfici confidavano di trovare nell’aldilà un sentiero diverso da quello comune e mitigavano la durezza di quel soggiorno sotterraneo accompagnando le salme dei fedeli con scritti d’ammaestramento e di conforto. I puri che nei misteri hanno conosciuto i grandi principi dell’esistenza, dicevano quelle dottrine, sapranno come comportarsi nel regno di Ade; guidati dall’esperienza misterica, essi non si ridurranno a vaghe ombre appassite, fantasmi senza memoria come gli altri defunti; nelle tenebre ricorderanno d’essere destinati a un luminoso destino e s’allontaneranno, con il consenso di Ade, da quel regno tristissimo.
I
miti relativi a Eracle raccontavano che l’eroe, per obbedire agli ordini del re Euristeo, si era spinto fino al giardino in cui cresceva l’albero dai frutti d’oro sorvegliato da un essere mostruoso e da belle fanciulle; qui Eracle aveva affrontato il serpente-guardiano e colto i pomi dorati, che poi aveva portato a Euristeo. È l’undicesima, delle celebri dodici fatiche cui l’eroe si sottopose, e a tale contesto fanno riferimento non solo le opere citate, andate
disperse, ma anche gran parte delle figurazioni sul giardino e sulle Esperidi che sono giunte fino a noi, dipinte su vasi attici del V secolo a.C. e poi su ceramiche dell’Italia meridionale, su rilievi, sculture, specchi, intagli, mosaici, sarcofagi e monete dei periodi successivi. Ma il tema mitico era preesistente, rispetto al ciclo su Eracle, e perfino autonomo. Lo conosceva già Esiodo, che collocava il giardino «al di là dell’inclito Oceano, verso la
Ercole che ruba le mele dal giardino delle Esperidi (particolare), olio su tavola della bottega di Lucas Cranach il Vecchio. Post 1537. Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum.
IL GIARDINO DELLE ESPERIDI
quasi un paradiso terrestre
STORIE SENZA TEMPO
Metopa del Tempio di Zeus a Olimpia raffigurante Ercole che riceve da Atlante i frutti delle Esperidi. 460-450 a.C. Olimpia, Museo Archeologico.
Notte, dove sono le Esperidi acute di voce, che dei pomi aurei e belli hanno cura». Lo descrissero poi anche Euripide, Ferecide, Stesicoro, Apollonio Rodio e molti altri scrittori, sicché il mito ci è noto con numerose varianti e dovizia di particolari. Quell’orto meraviglioso, anzitutto, era situato in un luogo lontano dell’estremo Occidente, solitamente a ovest della Libia, ai piedi della catena montuosa che
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identificava Atlante, oppure al Nord, nel paese degli Iperborei. Si credeva inoltre che il giardino si trovasse nel luogo in cui il sole tramonta, cioè, in termini mitici, là dove l’astro divino scende negli Inferi, dove la Notte s’incontra col Giorno e dove la Terra accoglie l’Oceano. Cosí il giardino delle Esperidi costituiva al contempo una sorta d’ingresso privilegiato nell’aldilà, terra di confine con il regno dei
morti. La via che a esso conduceva era però ignota ai mortali: lo stesso Eracle, per giungervi, aveva dovuto costringere il dio marino Nereo a rivelargli la strada, poi lottare contro barbari sovrani, infine chiedere e ottenere l’aiuto di Atlante. Lontano e inaccessibile agli uomini, esso era invece luogo d’incontro privilegiato per gli dèi. È in quel Cratere a volute apulo del Pittore di Licurgo raffigurante il giardino delle Esperidi, da Ruvo di Puglia. 360 a.C. Ruvo di Puglia, Museo Archeologico Nazionale Jatta.
La conquista dell’Africa La geografia mitica dei Greci è sempre (anche) un modo di conoscere il mondo; nel caso concreto, il cammino di Eracle verso il giardino delle Esperidi apre la strada alla conoscenza (e conquista) ellenica della costa mediterranea dell’Africa: dopo di lui, la direzione del sole è pronta per accogliere marinai, commercianti e coloni greci. Ed è parimenti significativo che la localizzazione del giardino oltre la Libia, cosí come la diffusione di questo tema nell’arte, seguano le tappe della presenza greca nell’Africa del Nord. Esiodo, Euripide e Ferecide collocavano il giardino delle Esperidi oltre la catena dell’Atlante; per i Greci di età classica, dunque, il mitico giardino e i suoi altrettanto mitici abitanti erano situati ai limiti del mondo abitabile. Presto però, probabilmente a seguito dell’espansione fenicia in Occidente, le Esperidi vennero localizzate al di fuori dei territori africani colonizzati dai Fenici e sottomessi a Cartagine: nel IV secolo a.C. sono i bordi della Grande Sirte, in Cirenaica, a offrire una nuova e concreta ubicazione del mito, giusto ai confini del dominio greco. Ma il soggiorno delle Esperidi in Cirenaica, testimoniato anche iconograficamente su monete e vasi locali, non durò a lungo: la reputazione delle regioni atlantiche come luoghi circondati da mistero e la fine dell’impero coloniale cartaginese favorirono il ritorno delle Esperidi nell’estremo Occidente. Per Ovidio e Virgilio, come per Pomponio Mela, il giardino è senz’altro (e nuovamente) localizzato sulla costa atlantica del Marocco; ma in modo quasi visibile: esso era là, nei luoghi dove i Fenici avevano anticamente fondato la colonia di Lixus e dove i meandri del fiume omonimo all’estuario ricordavano il corpo sinuoso del mitico Ladone. Cosí il racconto delle Esperidi ripercorre anche l’evoluzione delle conoscenze in materia geografica: è quella che Plinio il Vecchio chiama la «trasmigrazione del mito greco», osservando che al suo tempo la localizzazione in Cirenaica del paese delle Esperidi era decisamente abbandonata, benché poi a Lixus, ormai colonia romana, soltanto un altare dedicato a Ercole e qualche olivo selvatico ricordassero le «portentose finzioni propagate dai Greci» sul giardino dai pomi dorati.
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giardino che Gaia riceveva la visita di Urano, lí si erano celebrate le nozze di Era con Zeus, lí s’erano uniti anche Poseidone e Medusa.
L’albero dalle mele d’oro Quell’orto divino, poi, era immaginato come uno spazio primordiale di rigogliosa vegetazione: lí, scrive Euripide, «dispensatrice di vita, una terra meravigliosa nutre la felicità degli dèi». Lí, soprattutto, cresceva una pianta eccezionale: l’albero dalle mele d’oro, che Gaia aveva donato a Era per il matrimonio con Zeus. E quegli aurei frutti, simbolo d’immortalità divina, erano riservati agli dèi, che soli potevano coglierli. Abitavano in quel giardino paradisiaco le Esperidi, cioè le «Occidentali», o «Quelle del Tramonto», che Esiodo dice figlie della Notte, sorelle di Morte e di Sonno. Gli
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scrittori antichi non s’accordano però sul loro numero; solitamente si parla di tre Esperidi, con nomi che ricordano le venature del cielo al tramonto: Esperia la «Sera», Egle la «Brillante» ed Erizia la «Rossa». Ma se ne citano anche quattro, cinque o sette, mentre l’iconografia documenta fino a undici Esperidi, alle quali gli artigiani attribuiscono nomi di fantasia. Nel giardino, esse cantano sempre, con voce sonora e armoniosa; e sorvegliano l’albero dai frutti dorati, con l’aiuto del dragone. Questa funzione di guardiane non viene però riconosciuta costantemente alle Esperidi; qualche autore racconta che il serpente era stato posto a guardia dell’albero proprio per impedire loro di rubarne i frutti e varie figurazioni le mostrano quali complici di Eracle: raccolgono esse stesse i pomi dorati per
La dea della discordia coglie il pomo della contesa nel giardino delle Esperidi, olio su tela di Joseph Mallord William Turner. 1806. Londra, Tate Gallery.
consegnarli all’eroe, oppure offrono una bevanda soporifera al serpente. Di quest’ultimo erano noti il nome e la genealogia; lo si chiamava Ladone e si diceva che fosse nato da Forco e dalla sorella Ceto (in greco Ketó, mostro marino, da cui «cetaceo»), come la Vipera Echidna, le terribili Gorgoni e le vecchie Graie. Esiodo definisce Ladone «una terribile serpe» e come tale esso viene solitamente raffigurato. Ma gli scrittori dicono pure che aveva cento teste, parlava varie lingue, era enorme, sempre sveglio e immortale. Eracle tuttavia riuscí a sconfiggerlo, e Apollonio Rodio descrive le mosche ronzanti sulle sue piaghe, mentre le Esperidi circondano il corpo e s’abbandonano al pianto. È facile proporre, a questo punto, un accostamento che viene quasi immediato: il
giardino delle Esperidi somiglia molto a un altro giardino primitivo, il biblico Paradiso terrestre, nel quale un altro serpente affianca un albero altrettanto meraviglioso.
Coincidenze singolari Il parallelo è appropriato e significativo, anche per la presenza di ulteriori elementi comparabili: la localizzazione in un luogo di difficile accesso (il biblico «giardino di Dio» si trova a Oriente, come il greco sta a Occidente), l’atmosfera primordiale in cui la morte non ha ancora trovato spazio, la raccolta dei frutti come elemento dirompente di una situazione miticamente statica. Gli studiosi che hanno approfondito il confronto hanno perfino ipotizzato che il tema greco trovi la sua origine proprio nelle tradizioni del Vicino Oriente preclassico, che conoscono altri giardini paradisiaci. È stato parimenti osservato che l’iconografia cristiana si serví proprio del giardino delle Esperidi per raffigurare le prime espressioni del peccato originale: Adamo si trova in effetti rappresentato talvolta nelle vesti di Eracle ed Eva in quelle di un’Esperide, mentre il serpente tentatore assume le sembianze del guardiano Ladone. Nell’episodio biblico, gli avvenimenti del Paradiso terrestre segnano l’inizio della vita umana: scacciati per sempre da esso, Adamo ed Eva cominciano a generare altri uomini, pienamente mortali, e a guadagnarsi la vita con il lavoro. Nel mito greco, l’arrivo di Eracle nel giardino delle Esperidi rompe anzitutto la situazione di quiete e dà origine a realtà concrete: il serpente ucciso viene portato in cielo da Era e trasformato in una costellazione; le Esperidi piangenti si mutano in alberi; i frutti aurei vengono recati da Eracle agli dèi sull’Olimpo o negli Inferi a Plutone, oppure ricollocati dalla dea Atena nel giardino, che resta inaccessibile ai mortali. L’arrivo di Eracle nell’estremo Occidente è poi un momento di rottura anche perché rende abitabile il mondo, grazie ai viaggi e alle fatiche dell’eroe che, per giungervi, traccia itinerari e sconfigge i mostruosi abitanti delle terre visitate.
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STORIE SENZA TEMPO
l’ombelico del mondo
L’ORACOLO DI DELFI
C
hi visita oggi il museo di Delfi può ammirare, tra i reperti del piú celebre santuario oracolare della Grecia antica, una singolare pietra conica in marmo bianco, facilmente riconoscibile per la decorazione che riproduce a rilievo una rete di bende di lana annodate. È la copia d’età romana di una pietra venerata e famosa, nota col nome di «onfalo», in greco omphalós, che vuol dire «ombelico». Gli scrittori antichi riferiscono che già all’inizio del V secolo a.C. il clero di Delfi raccontava un mito specifico, legato a quella pietra. I sacerdoti di quel santuario, piú precisamente, narravano che Zeus, volendo stabilire quale fosse il centro del mondo, aveva un giorno lasciato andare due aquile dagli estremi confini della terra, una da Oriente e l’altra da Occidente. Gli uccelli s’erano incontrati a Delfi, nel luogo dove poi sarebbe sorto il santuario di Apollo; cosí, da quel momento, una pietra segnava il punto d’incontro delle aquile e il centro del mondo. Sempre nel V secolo a.C., parla dell’onfalo anche Euripide, scrivendo: «A Delfi Febo (in greco Phoibos, «luminoso», epiteto di Apollo), seduto sull’ombelico, dà profezie ai mortali» e precisando: «È vero che nel tempio di Febo c’è l’ombelico della terra? Sí: è avvolto di bende e intorno ci sono Gorgoni». Che si tratti precisamente della pietra in questione, è confermato dai monumenti che raffigurano l’onfalo: su monete di Delfi e su vasi attici del V secolo, per esempio, si vede Apollo seduto sulla pietra, coperta di bende e di foglie d’alloro e talora avvolta nelle spire di un serpente. In talune figurazioni compaiono inoltre, accanto all’onfalo, le aquile del mito (che in qualche variante del racconto sono sostituite da corvi, cigni o altri volatili); queste, stando alle testimonianze scritte, erano in oro al tempo di Pindaro e vennero fuse dai Focidesi durante la guerra sacra (356-346 a.C.). Dove fosse esattamente collocata la sacra pietra, nel grande santuario di Delfi, non è chiaro. Qualche scrittore afferma che si trovava nell’adyton, cioè nella parte piú inaccessibile del tempio di Apollo, accanto alla statua d’oro
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del dio, al tripode sul quale sedeva la Pizia per profetare e all’apertura circolare del terreno dalla quale, a quanto si diceva, salivano i vapori che provocavano l’ispirazione divina. Altri scrittori affermano però che l’onfalo era un oggetto visibile a tutti, esternamente alla cella del tempio, mentre l’iconografia, offrendo una rappresentazione ideale della pietra, non consente di sciogliere il quesito.
Una geografia basata sugli opposti L’archeologia e la letteratura greca ci offrono in ogni modo dati concordi: a Delfi, in connessione con l’oracolo di Apollo, una pietra particolare, venerata per secoli, segnava il centro del mondo, o meglio, come precisano i testi, «l’ombelico della terra». Abbiamo un mito e il suo riscontro archeologico; la conclusione sembra perciò chiara e lineare: tutto, all’apparenza, invita a ritenere che anche i Greci avessero, nella loro geografia mitica, una concezione dello spazio fondata sull’opposizione «centro/periferia» e che in tale
Delfi. Una veduta dei resti del tempio di Apollo. L’edificio aveva origini antichissime e, secondo la tradizione, nella sua prima versione sarebbe stato fatto di fronde d’alloro della Valle di Tempe. Dopo la prima costruzione in pietra, fu piú volte distrutto e l’ultimo ripristino venne ultimato intorno al 330 a.C.
ambito concettuale il santuario di Delfi svolgesse appunto il ruolo ombelicale di centro della Grecia e del mondo conosciuto. Eppure vi sono aspetti della documentazione antica che invitano a chiedersi quanto antica fosse questa valenza cosmica della pietra delfica e ad approfondirne il significato. Anche sul piano iconografico, del resto, insorgono ulteriori interrogativi: perché, per esempio, essa aveva una forma cosí singolare, che certo non ricorda un ombelico umano? Come spiegare inoltre la presenza di un serpente intorno all’onfalo? Intanto c’è da osservare una certa reticenza, nell’immaginario greco arcaico, di fronte all’idea di un centro del mondo situato a Delfi. Omero, per esempio, non sembra conoscere il mito né l’oggetto: l’Odissea ricorda solo un «ombelico del mare», che era l’isola abitata da Calipso. Pindaro, per parte sua, attribuisce piuttosto all’Etna, montagna e vulcano, il valore di asse cosmico tra cielo, terra e inferi. Altri documenti, inoltre, testimoniano che Delfi
non era l’unico luogo immaginato come sede di un onfalo: anche monete e rilievi di Delo, per esempio, raffigurano una pietra ombelicale venerata in quella città.
Prima l’oracolo e poi il mito A ben guardare, poi, il mito delle aquile lanciate da Zeus per stabilire il centro del mondo a Delfi può essere inteso come un’elaborazione non originale ma secondaria, inventata per spiegare la presenza dei volatili accanto alla pietra, che inizialmente potrebbero aver avuto significato autonomo, forse anche soltanto decorativo. È logico del resto ritenere che il mito appartenga alla teologia elaborata dai sacerdoti di quel santuario per magnificare l’importanza quasi universale dell’oracolo delfico, che guidava la politica e l’espansione coloniale di tutta la Grecia. In altri termini: è il ruolo attribuito all’oracolo di Apollo che ha dato origine al mito sull’onfalo e non viceversa. Se si prova infine ad approfondire il senso del termine con cui s’indicava quella mitica pietra,
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STORIE SENZA TEMPO
si può verificare che esso viene costantemente precisato: l’onfalo non è l’ombelico del mondo, ma della terra. Ora in greco «Terra» è anche il nome della dea primordiale Gaia, madre di tutte le razze divine, a cui, secondo molti racconti, apparteneva per l’appunto l’oracolo di Delfi prima che di esso s’impadronisse Apollo. Narravano i miti che questo dio aveva ucciso il mostruoso serpente Pitone, che la dea aveva posto a guardia dell’oracolo e che morendo cedette il suo nome ad Apollo (Pitico), alla profetessa del tempio (la Pizia o Pitonessa) e ai
centro del mondo per assumere quello specifico di segnacolo di un luogo sacro alla Terra, tramite il suo valore di copertura del tumulo funerario del mostruoso Pitone.
giochi (Pitici) celebrati in sua memoria. La venerazione di questa pietra poggiava dunque su una tradizione piú antica del suo valore ombelicale. Varrone ed Esichio spiegano la forma arrotondata dell’onfalo affermando che esso era una pietra tombale e indicava la sepoltura di Pitone. Pertanto, il serpente che accompagna l’oggetto su molte figurazioni non è un elemento decorativo, ma il primitivo guardiano dell’oracolo. E conseguentemente, l’espressione «ombelico della terra» perde nei suoi tratti originari il significato cosmico di
pietra, conservata anch’essa nel santuario delfico di Apollo: quella che la dea Rea, su consiglio di Gaia, aveva avvolto in fasce e offerto con l’inganno al suo sposo Crono perché la mangiasse al posto del neonato Zeus. In tal modo, raccontava già Esiodo, Zeus s’era salvato e, una volta cresciuto, aveva obbligato suo padre a rigurgitare la pietra insieme agli altri dèi suoi fratelli. Proprio quella pietra, dice Esiodo, era conservata a Delfi e Pausania aggiunge che ogni giorno veniva unta con olio e rivestita nelle feste con bende di lana.
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La pietra al posto del neonato Anche per la rete di bende gettata sull’onfalo di pietra vi sono ulteriori osservazioni. Sulla scorta di qualche commentatore antico, si può pensare che derivi dall’abbigliamento dei sacerdoti indovini locali. Ma è anche possibile riconoscervi una confusione con un’altra mitica
Per concludere: quando i Greci d’età arcaica parlavano dell’onfalo collocato a Delfi, facevano riferimento non già a un ideale ombelico del cosmo, bensí a un insieme di tradizioni mitiche relative a quel luogo, a quell’oracolo e a quel santuario. Furono, insomma, i sacerdoti di Delfi a donare poi alla pietra santa il significato di centro del mondo, indubbiamente piú consono al prestigio acquisito dal santuario e al ruolo centrale dell’oracolo apollineo nell’ambito del pensiero greco. Ma l’intento celebrativo e
l’espediente adottato con l’invenzione del mito erano evidenti già per gli Antichi. Racconta Plutarco che un certo Epimenide di Festo si recò un giorno a Delfi e interrogò Apollo, per sapere cosa si dovesse realmente pensare di quel mito sugli uccelli venuti dalle estremità della terra fino al luogo santo. Ottenne come risposta un oracolo ambiguo e ne concluse: «Né la terra né il mare hanno un centro o un ombelico; se ne esiste uno, sono gli dèi e non gli uomini a sapere dove si trovi».
Nella pagina accanto Delfi. Replica moderna della pietra nota come omphalos (l’«ombelico»), posta sul presunto centro del mondo, nell’àdyton del tempio di Apollo.
In questa pagina copia di epoca romana dell’omphalos. Delfi, Museo Archeologico. Il manufatto è coperto da una rete di bende variamente interpretata dagli studiosi.
STORIE SENZA TEMPO
bambini cotti e mangiati
I
SACRIFICI UMANI
miti che qui trattiamo ruotano intorno all’immagine di un fanciullo che cuoce in un lebete, cioè nel calderone di bronzo che i Greci utilizzavano per bollire le carni degli animali sacrificati. È una scena che risalta in specie per via letteraria; ma un discreto repertorio iconografico ne mostra la presenza anche nelle arti cosiddette minori e lascia supporre che fosse un tema narrativo molto popolare. I nomi coinvolti sono principalmente quelli dei figli di Tantalo e di Licaone, cucinati nel calderone e serviti in pasto agli dèi; quelli dei figli di Tereo, di Politecno e di Climeno, serviti alla mensa dei padri da spose furiose contro i mariti; e ancora quelli dei bimbi di Tieste, che mangia senza saperlo i propri figli uccisi dal
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fratello Atreo. Tali racconti, poi, s’inseriscono in un piú vasto genere di vicende mitiche, che ruotano attorno al passaggio sul fuoco di un essere umano o divino, sia direttamente, per fornirlo d’immortalità (bruciando cioè le parti mortali del suo corpo: cosí fa per esempio la dea Demetra con il neonato figlio del re Celeo, e Iside con il principino della città di Biblo), sia tramite cottura in un calderone, al fine di una consumazione alimentare (cosí accade, in un mito orfico, anche al piccolo Dioniso-Zagreo, fatto a pezzi e mangiato dai Titani) o di un insperato e magico ringiovanimento (per esempio dell’anziano Pelia, che le figlie Il banchetto di Tereo, olio su tela di Peter Paul Rubens e della sua bottega. 1636-1638. Madrid, Museo del Prado.
uccidono e fanno bollire, su istigazione di Medea, sperando invano di chiamarlo a nuova vita). Uno dei racconti in cui tale immagine si realizza è quello di Licaone, mitico re dell’Arcadia. Questa regione per gli antichi Greci non rappresentava propriamente una patria ideale di poeti e di pastori, quale fu in seguito concepita dagli scrittori ellenistici, dai Romani e nel Seicento italiano, bensí una terra primitiva, misteriosa e sinistra. In Arcadia, dunque, sul monte Liceo si celebravano ancora al tempo di Pausania delle feste in onore di Zeus, durante le quali, stando alle dicerie, veniva segretamente sgozzato un fanciullo; le sue viscere erano poi mescolate a quelle degli animali sacrificati, cotte sul fuoco e servite ai partecipanti. In tal modo, secondo la sorte, qualcuno degli intervenuti al rito mangiava carne umana. Si vociferava altresí che colui che aveva assaggiato tali viscere si trasformasse in lupo e conservasse questa forma per vari anni, tornando poi a quella umana se nel frattempo si era astenuto da ogni altro pasto cannibalico.
Zeus alla mensa del re cannibale Sul sacrificio umano nelle feste Licee e sulla presunta trasformazione in lupo di chi mangiava o credeva di aver mangiato le carni del fanciullo immolato, non v’è certezza tra gli autori antichi; perfino lo scettico Pausania mantiene il riserbo, dice di non aver voluto approfondire i particolari della cerimonia e assicura di credere senz’altro alla storia per le sue origini remote. Cosí apprendiamo che tutto ebbe inizio al tempo del re Licaone (lykos in greco vuol dire «lupo»), vissuto in epoca antichissima, prima del diluvio. Il sovrano e i suoi figli ebbero un giorno ospite a tavola il divino Zeus, presentatosi alla reggia in veste di poveruomo. Per svelare la sua vera identità, allo straniero venne servito un piatto eccezionale: con le carni degli animali cucinate nel sacrificio e servite a mensa si mescolarono
L’interno di una coppa attica a figure rosse dipinta da Macron raffigurante Procne, Filomela e Itis. 480 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
anche parti del corpo di un bambino, sgozzato a tale scopo. Era, secondo alcune versioni, il figlio piú piccolo di Licaone, Nittimo, oppure il nipotino Arcade, nato da Callisto figlia di Licaone e dallo stesso Zeus. Il sovrano degli dèi, senza esitare, rifiutò quel piatto e rovesciò la tavola, ponendo fine alla commensalità tra uomini e dèi; poi trasformò il re in un lupo e scagliò il fulmine sulla casa e sui figli. In molti racconti la punizione di Zeus coinvolge l’intera umanità e al banchetto cannibalico segue il diluvio, per un rinnovamento generale delle condizioni dell’esistenza. Tra i sopravvissuti ci sono comunque, primi fra tutti, i due discendenti di Licaone sopra ricordati per nome: con Nittimo viene instaurato il nuovo potere regale, mentre Arcade dà il nome alla regione e v’introduce la coltura dei cereali. Simile è la storia di Tantalo, antico re/sacerdote che godeva del favore degli dèi e mangiava con loro. Insuperbito dalla confidenza di cui godeva, questo ricchissimo re della Lidia cercò di dare agli abitanti della terra il nettare e l’ambrosia, cibo e bevanda degli immortali; per sperimentare poi l’onniscienza divina, Tantalo invitò le divinità alla propria mensa e imbandí per loro le carni del figlio Pelope, fatto a pezzi e
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STORIE SENZA TEMPO
Zeus trasforma Licaone in un lupo, incisione di Hendrik Goltzius tratta da un’edizione olandese delle Metamorfosi di Ovidio. XVI sec.
bollito nel calderone. Dinnanzi a quel cibo impossibile tutti gli dèi rifiutarono di mangiare, eccetto Demetra, che, nello stordimento per la perdita della figlia Core, si serví senza badare troppo e mangiò una spalla. Tantalo venne condannato negli Inferi a patire la fame e la sete, immerso nell’acqua fino al mento; le membra di Pelope, invece, furono ricomposte nella marmitta e richiamate in vita dagli dèi, che sostituirono la spalla mancante con un arto d’avorio. Poi, dopo un diluvio che sommerse il regno di Tantalo e tutta la terra, Pelope assunse il ruolo di nuovo eroe fondatore: come Arcade, dette il nome alla regione abitata dai suoi discendenti (il Peloponneso) e avviò per primo i giochi olimpici. Tra i figli di Pelope figurano nel mito due gemelli, Tieste e Atreo, che ripetono il gesto sanguinario dell’antenato ma in un diverso contesto. Entrambi ambivano alla signoria su Micene quando Tieste divenne l’amante di Aerope, moglie di suo fratello. Atreo si vendicò allora del tradimento in modo orribile, sgozzando i figli di Tieste e servendone le carni al fratello. Poi, dopo il pranzo, mostrò le braccia e le teste mozzate.
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Grande fu l’orrore per il misfatto: perfino il sole volse indietro il suo carro e cambiò tragitto. Per parte sua, Tieste lasciò ad Atreo il trono di Micene, lo maledisse e si rifugiò a Sicione, presso la figlia Pelopia; con essa generò poi Egisto, che in seguito lo vendicò in un’altra terribile storia (è lui che uccise lo zio e s’introdusse nel letto di Clitennestra, sposa di Agamennone figlio di Atreo, con lui infine assassinata dal matricida Oreste).
La signoria contesa Adulterio e violenza sessuale ritornano nelle vicende di altri padri cannibali: il trace Tereo, l’artista Politecno e l’arcade Climeno. Al primo era andata in moglie l’ateniese Procne, il secondo aveva sposato Aedone di Mileto, il terzo si era unito con l’inganno alla figlia Arpalice. Tereo e Politecno compiono uno stesso delitto, abusando delle proprie cognate, rispettivamente l’ateniese Filomela e la milesia Chelidone; Climeno, invece, rapisce la figlia al suo sposo e rinnova apertamente l’incesto. La furia delle donne per la violenza subita ha un solo esito: tutte sgozzano i figli allo stesso
modo e li danno in pasto al congiunto. Identica è anche la conclusione dei racconti, con una metamorfosi dei protagonisti in uccelli: Procne e Aedone si trasformano per esempio in usignolo, Filomela e Chelidone in rondine, Tereo nell’upupa, Arpalice in calcide. I miti fin qui riassunti, ignorando numerose varianti e preziosi particolari, hanno diversi elementi in comune e varie componenti specifiche. I banchetti somigliano sempre al sacrificio di animali, ripetendone la terminologia Cratere apulo a figure rosse attribuito al Pittore di Dario, raffigurante l’esposizione del piccolo Egisto. IV sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts.
e lo svolgimento. Ma quello al quale Licaone e Tantalo invitano gli dèi non è un atto cultuale; è piuttosto un pretesto per misurare la differente scala gerarchica dei partecipanti (umani/divini) e sanzionare la giusta distanza che da allora, con l’avvio di nuove condizioni cosmogoniche ed esistenziali, separa gli dèi dai mortali, i primi destinatari del profumo del grasso e delle ossa bruciate, i secondi offerenti e consumatori dell’unica carne commestibile, quella animale. S’individuano bene anche i temi del rifiuto del sacrificio umano, la condanna che si estende all’intera umanità, per la crudeltà che vi regna e che richiede una sorta di ricreazione del cosmo. La mensa cannibalica allestita per gli uomini, per contro, inserisce il tema del bambino cotto e mangiato in un contesto di lotte dinastiche e di violenze familiari. Da un lato v’è il pasto di Tieste, che si conclude con una maledizione e preannuncia lo sterminio della discendenza di Atreo; il prodigio del sole ripete, per altro verso, il motivo del diluvio purificatore. Dall’altro c’è la cucina delle donne, che sanziona incesto e adulterio, condanna il padre colpevole a ingerire il frutto del proprio seme, stabilisce e difende le giuste regole matrimoniali. In ogni caso la carne umana è un cibo inadatto; e come nel rito (presunto) del monte Liceo, il cannibalismo equivale alla perdita della natura umana. Anche l’onomastica e l’ornitologia intervengono a dare questo significato: chelidón, infatti, vuol dire «rondine» e aedón «usignolo»; l’una e l’altro, nelle credenze degli antichi Greci, vengono inseguiti senza tregua dall’upupaTereo; tutti, inoltre, sono considerati uccelli carnivori e il loro canto somiglia a un lamento. Cosí Penelope, già nell’Odissea, può ricordare che «l’usignoletta pallida all’inizio di primavera piange soave, tra gli alberi, Itilo figlio diletto, che un giorno lei uccise col bronzo, in preda a follia».
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un agguerrito popolo di donne
LE AMAZZONI
Q
ualsiasi dizionario enciclopedico fornisce i dati essenziali sulle Amazzoni, il mitico popolo di sole donne: discendenti da Ares, dio della guerra, guidate da una regina e sempre pronte a fronteggiare in battaglia avversari temibili. Esse, inoltre, formavano una società senza uomini, approfittando di stranieri occasionali o dei maschi dei popoli vicini per continuare la razza ed erano capaci di conquistare città e di governarle. Vivevano, insomma, in un mondo apparentemente perfetto, modello di una società al femminile dove si può fare a meno del potere degli uomini. Questa visione ideale delle Amazzoni, giovani, belle, coraggiose, a prima vista traspare anche dalla documentazione figurativa, che offre ritratti su vasi, bassorilievi, statue e sarcofagi, nei quali la foga guerriera non attenua la fresca bellezza della figura femminile. Chi oggi ammira per esempio le tre splendide statue di Amazzone ferita, rispettivamente conservate nei musei di Roma (l’Amazzone Mattei in quelli Vaticani, e la Capitolina sul Campidoglio) e di Berlino, è subito attirato dalla loro grazia e fragilità, concentrate come sono, le tre figure, nel trepido esame della propria lesione. Le statue sono d’epoca romana, ma vengono interpretate come repliche di tre diversi modelli, creati, a detta di Plinio il Vecchio, da Fidia, Policleto e altri artisti della Grecia classica, che verso il 440-437 a.C. gareggiarono per fornire il modello «ufficiale» di Amazzone al santuario di Artemide a Efeso, dove le guerriere godevano di particolari onori. I testi antichi (Erodoto, Plutarco, Strabone, Pausania, Diodoro Siculo e Apollodoro) ci dicono che la loro società matriarcale rappresentava una pericolosa alterità
Statua di Amazzone ferita, da Villa d’Este (che in origine faceva parte del perimetro di Villa Adriana. Da un originale di Fidia, mentre la testa replica quella dell’Amazzone di Policleto. I sec. a.C-I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
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Frammento del rilievo di una metopa raffigurante Teseo e Antiope, dal Tesoro degli Ateniesi a Delfi. V sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico.
rispetto al mondo ellenico, fortemente organizzato in una struttura sociale che affidava ai soli uomini ogni compito civico.
Una definizione ambivalente A guardar bene, però, ci si accorge che si tratta di un’alterità volutamente costruita come tale dalla tradizione greca, sulla base dei valori propri di quella civiltà. «Omicide» le chiama Erodoto, e l’epiteto si spiega non solo con il ritratto violento e minaccioso di donne in armi ai confini della Grecia, ma anche per il costume di uccidere o mutilare tutti i neonati di sesso maschile. Già Omero, del resto, le definiva anti-aneirai, che vuol dire «uguali ai maschi» e al contempo «nemiche dell’uomo», con un’ambivalenza del termine che le fa guerriere temibili per chiunque si appresti ad affrontarle e insieme popolo mostruoso, che rifiuta il giusto ruolo
femminile. Il loro regno, apparentemente perfetto e civile, in realtà per i Greci è un modello che non funziona e non regge al confronto. Le Amazzoni non sanno cosa significhi vivere in pace, non conoscono la coltivazione dei campi, non sanno navigare, ignorano soprattutto il matrimonio e la convivenza civile. Diodoro Siculo e Strabone, piú di altri, descrivono la loro società in termini alternativi a quella greca: le donne fanno la guerra e governano, gli uomini filano la lana e crescono i bambini. Le unioni, poi, si consumano al buio, affidandosi al caso; oppure all’aperto e in pieno giorno: situazioni opposte, in entrambi i casi, al modello matrimoniale greco. Negativo, soprattutto, agli occhi dei Greci, era il loro desiderio di sostituirsi all’uomo nei compiti naturalmente maschili, quelli cioè relativi alle armi. Al momento di
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combattere, infatti, le Amazzoni si rivelano per le donne che sono, cedendo alla seduzione e alla superiorità del maschio armato. Tutti i racconti di battaglie affrontate dalle Amazzoni sono in realtà narrazioni delle loro sconfitte; ed è significativo che tutti i principali eroi greci, campioni della società maschile, si fossero confrontati con esse, uscendone vincitori. Gli scrittori antichi ci dicono inoltre che i Greci non cessarono mai di credere all’esistenza di questo popolo di donne bellicose; e tuttavia collocavano sempre il loro regno in regioni poco conosciute: prima in Asia Minore, poi nel Caucaso, in Tracia, nelle pianure a sinistra del Danubio e perfino in Libia, con un progressivo allontanamento dalla civiltà che sembra procedere di pari passo con le conoscenze Patera apula a figure rosse attribuita al Pittore di Baltimora con scene di Amazzonomachia. IV sec. a.C. Collezione privata.
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geografiche. All’emarginazione spaziale delle Amazzoni corrisponde quella temporale, giacché le loro imprese si collocano nel passato eroico. Le Amazzoni, cioè, non affrontano gli uomini delle città greche ma i loro antenati: Eracle, in primo luogo, che si era recato nel loro regno per strappare alla regina Ippolita la sua cintura; e Teseo, che aveva rapito l’amazzone Antiope e quindi respinto l’invasione delle donne guerriere giunte fino in Attica e nella stessa Atene; e ancora Bellerofonte, che le aveva affrontate volando sopra di esse; infine Achille, che sotto le mura di Troia aveva amato e ucciso Pentesilea.
Una società irreale Quando si leggono i testi sulle Amazzoni, insomma, emergono valori e significati che fanno del loro mondo una società irreale, barbara, lontana nel tempo e nello spazio. I racconti che le hanno a protagoniste fondano la diversità dei Barbari rispetto ai Greci, danno peso alla democrazia mascolina e insieme stabiliscono la superiorità del sistema civico greco, dove le donne rappresentano la metà passiva della città in una corretta divisione dei ruoli. In una parola, i racconti sulle Amazzoni sono altrettanti miti. Tale conclusione è pienamente confermata dal dato archeologico. Le Amazzoni, a dire il vero, compaiono quasi timidamente nell’arte greca, verso la metà del VII secolo a.C.; ma poi, dal V secolo, conoscono un successo straordinario che si estende anche nell’arte etrusca e romana. A piedi, dapprima, quindi a cavallo, da sole o piú spesso in gruppo, con arco, lancia e ascia da combattimento, esse
affrontano gli eroi della tradizione classica uscendone sempre sconfitte; sicché l’arte, mentre ne sottolinea grazia e fragilità femminili, delle Amazzoni presenta un ritratto che in fondo risulta essere esemplare non già di usi e costumi di un popolo vicino e temibile, bensí della bontà del vivere civile ellenico.
Mai in palestra Esaminando poi gli sviluppi dell’arte greca, si osserva che essa plasma la figura delle Amazzoni secondo i progressi della tattica militare e della geografia; essa perciò le rappresenta dapprima nelle vesti di soldati della fanteria greca e poi, dal VI secolo, al modo dei cavalieri barbari dell’Oriente, con l’abbigliamento militare degli Sciti appena ingentilito da qualche monile. Quando, inoltre, le Amazzoni diventano un tema interessante di per sé, l’arte le raffigura impegnate a equipaggiarsi o a condurre i cavalli, ma non le mostra mai occupate in uno degli esercizi che i maschi praticavano in palestra. Anche sul piano della connotazione temporale, infine, è agevole osservare che le Amazzoni, sui monumenti piú antichi, sono sempre collegate alle vicende degli eroi greci, cioè, in definitiva, che esse appartengono al mondo del mito, dove rappresentano i Barbari, avversari possibili ma anche invasori sconfitti. Non a caso dunque, tra i fregi del tempietto costruito a Delfi dopo il 490 (il cosiddetto «tesoro degli Ateniesi») con le spoglie prese all’esercito persiano sbarcato a Maratona, si ammirano le mitiche Amazzoni respinte dagli Ateniesi guidati dall’eroico Teseo: quelle stesse guerriere sconfitte, che Fidia volle raffigurare sulle metope del Partenone di Atene come simboli della vittoria greca sui barbari persiani. È possibile che il mito greco conservi, nei racconti sulle Amazzoni, l’eco di situazioni
Anfora attica a figure rosse del pittore Myson, raffigurante il rapimento di Antiope da parte di Teseo e Piritoo. 500-490 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
culturali diverse dalla propria, oppure che indichi, con la loro disfatta, il regredire di un sistema matriarcale piú antico, o ancora che esso abbia rielaborato racconti descriventi l’ardore guerriero delle donne di Scizia o le origini lontane delle sacerdotesse armate di Artemide in città dell’Asia Minore, da loro fondate. Come in molti altri casi, però, il mito testimonia non tanto il dato in sé (cioè la reale esistenza di una società fatta di sole donne) quanto il giudizio che i Greci davano di esso. Si tratta di mitologia, insomma, e in tale ambito l’etnografia dei Greci era ben diversa dalla nostra. Quando dunque si descriveva un popolo barbaro di donne a cavallo, l’interesse non era volto a documentare quel regime ma la bontà del proprio sistema.
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l’enigma venuto dall’egitto
L
a sfinge egiziana di Giza, quella colossale realizzazione del faraone Chefren (IV dinastia) era un’immagine sacra e al contempo regale. Essa rappresentava il faraone nel suo aspetto di divinità solare. Quasi mille anni dopo Chefren, Tutmosi IV continuava a venerarla come un nume e raccontava di quando, ancora giovane principe, aveva riposato all’ombra di quella sfinge, pressoché sepolta nella sabbia. In sogno gli era apparso il dio in essa raffigurato, che gli aveva chiesto di disseppellire la sua immagine e gli aveva promesso la conquista del trono. L’iscrizione che Tutmosi fece poi incidere sulla stele collocata tra le zampe anteriori del monumento ricorda anche il nome dell’essere divino rappresentato in quell’enorme leone dal volto umano: un dio-Sole, che era detto Harmachis, cioè «Horo nell’orizzonte», per indicare la divina potenza del faraone nel momento culminante della sua gloria, quando appunto il sole sorge all’orizzonte. In Egitto, cioè nella sua patria d’origine, la sfinge era dunque un’immagine del faraone e insieme una statua divina. Questi valori non riguardano solo il monumento di Giza, ma un po’ tutte le sfingi egiziane, le quali, come immagini del potere solare faraonico, sono attestate sia nell’Antico che nel Medio Regno e poi ancora nel Nuovo.
LA SFINGE
Figlia e sposa del faraone Fin dal periodo piú antico, inoltre, compaiono anche sfingi femminili, con il volto privo di barba e tratti piú delicati, per raffigurare la figlia e la sposa del faraone e magnificare similmente la loro grandezza. Questi motivi, celebrativi della potenza del faraone, portarono alla diffusione della sfinge nelle contigue regioni del mondo orientale siriano, mesopotamico e anatolico, dove essa trovò buona accoglienza nelle diverse religioni e nuove forme nelle varie espressioni artistiche. Nel II millennio a.C., piú precisamente, gli artigiani del Vicino Oriente copiarono
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quell’immagine, diffusa a scopi propagandistici fin nelle città costiere della Siria, adattandone la tipologia al proprio repertorio figurativo. Restava, nelle loro opere, il carattere sacro dell’immagine, ma essa veniva ripetuta come motivo iconografico indipendente dai significati originari, e veniva applicata a nuovi valori e tipologie. Queste sono testimoniate, per esempio, dalle sfingi che fiancheggiano il trono regale con funzione apotropaica, da quelle raffigurate presso porte, altari e tombe con compiti di sorveglianza, dalle sfingi predatrici riprodotte in atto di schiacciare i nemici, o ancora dalle sfingi utilizzate con una piú semplice valenza ornamentale, come quelle rampanti in coppia attorno all’«albero della vita». Come motivo iconografico, inoltre, la sfinge viene utilizzata anche nelle arti minori (avori, In basso placchetta in avorio raffigurante una sfinge alata, da Nimrud. VIII sec. a.C. Londra, British Museum.
Giza. Una veduta frontale della grande Sfinge con, sullo sfondo, la piramide di Micerino. III millennio a.C.
sigilli, scarabei e ceramica), per la decorazione di oggetti d’uso funerario, di gioielli e d’arredi. Nel corso del II e del I millennio a.C., infine, l’Egitto continua a svolgere una funzione centrale nell’elaborazione e diffusione di questo motivo, accogliendo le innovazioni che giungono dai Paesi dell’Oriente e ricreandole in modo originale, arricchendo la figura della sfinge di nuove varianti, che da qui nuovamente si diffondono, raggiungendo Cipro, Creta, Micene, e poi Sparta, Delfi, Atene, l’Etruria e i centri fenici d’Occidente, fino alla Sardegna e all’Iberia. La storia piú antica della sfinge ci testimonia insomma un fenomeno che si osserva frequentemente, nella storia dell’arte come in quella delle religioni: uno stesso motivo,
estrapolato dal proprio contesto originario, può assumere contenuti nuovi e lontani da quelli che ne hanno giustificato l’origine e la diffusione. Cosí avvenne per l’evoluzione del motivo iconografico nel Vicino Oriente antico, partendo dai valori assegnati al leone con volto umano nell’Egitto faraonico; cosí avvenne, parimenti, nel mondo greco, che accolse l’immagine orientale della sfinge, quale elemento decorativo, per farne qualcosa di nuovo e di significato diverso. I documenti greci piú antichi attestano infatti l’uso ornamentale della sfinge, per esempio su vasi protocorinzi, corinzi, rodii, laconii, milesii, cretesi, e insieme l’attribuzione a essa del valore di sovrumano guardiano delle tombe e dei luoghi sacri in genere; ma presto è
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attestata anche una nuova vita per questa figura, che si trasforma in un inquietante demone femminile e s’introduce a viva forza in una tradizione mitica tanto antica quanto diffusa: quella relativa alle vicende tebane di Edipo, raccolte in un ciclo e cantate dai poeti.
Minacciosa già nel nome È questa la sfinge piú famosa nel mondo classico; è anzi la Sfinge per eccellenza, al singolare, essere dotato di personalità propria e temibile. Che sia una minaccia, lo dice già il nome: in greco «Sfinge» deriva da un verbo che significa «strozzare» e indica un essere mostruoso, nato da mostri. Narrano Esiodo e Apollodoro che «Sfinge nefasta» era figlia di Echidna, orrido essere del caos iniziale, metà fanciulla e metà serpente, che aveva partorito anche Cerbero, Chimera, Idra e il cane Otro. Quest’ultimo s’era unito a sua madre Echidna per far nascere Sfinge, che aveva corpo di leone, testa di donna, coda di serpente e ali di uccello. Per i Greci, inoltre, Sfinge era femmina, tanto che Erodoto, per descrivere le monumentali sfingi maschili egiziane, fece ricorso al termine «androsfingi», quasi a rimarcare la distanza e la differenza tra l’Oriente e la Grecia. Sfinge, infine, aveva doti
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profetiche particolari e manifestava con voce umana oracoli oscuri e tremendi. «Vergine sottile», «Cagna tessitrice di canti» e «Mostro delle montagne» la chiamano i poeti. E lo fanno a ragione, dal momento che Sfinge sorvegliava dall’alto del monte Ficio la strada per Tebe, proponendo ai Tebani un enigma, appreso dalle Muse, e uccidendo chi non riusciva a risolverlo. A quel tempo il trono della città fondata da Cadmo era nelle mani di Creonte, fratello della regina Giocasta e cognato di Laio, il re legittimo che era stato ucciso da uno sconosciuto viandante. Per porre fine alla sciagura della Sfinge, Creonte aveva stabilito di offrire il trono e la mano di Giocasta a colui che fosse riuscito a risolvere l’enigma. Cosí erano morti il figlio di Creonte, Emone, e altri principi. Udí quel bando anche Edipo, il figlio di Laio e di Giocasta che tutti credevano morto e che, senza conoscerne l’identità, aveva ucciso tempo prima il re suo padre. Anche a lui Sfinge propose cantando l’enigma: «V’è sulla terra un essere dotato d’una sola voce, che ha due, quattro e tre piedi. Solo egli cambia il suo passo, tra animali, pesci e uccelli. Però, quando cammina appoggiandosi su piú piedi, allora il suo corpo è piú debole».
L’incontro con se stesso Seguendo le orme degli antichi tragediografi, di Sofocle e d’Euripide in specie, gli studiosi moderni, da Sigmund Freud a Claude Lévi-Strauss, si sono interessati soprattutto ai temi del parricidio e dell’incesto, ponendoli al centro della vicenda edipica. Tuttavia, le antiche figurazioni del mito suggeriscono di non sopravvalutare questi elementi del racconto a scapito di altri: gli artisti greci, e soprattutto i pittori attici del VI-V secolo a.C., preferirono infatti raffigurare piuttosto il
Nella pagina accanto particolare della decorazione di un calice a figure rosse raffigurante Edipo e la Sfinge. V sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale. In basso statua in marmo di sfinge alata, da Spata (Attica). 570-550 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
confronto tra Edipo e Sfinge, cioè il momento dell’enigma. Momento ambiguo, indubbiamente, come ambiguo era quell’essere composito che proponeva l’indovinello; ma anche elemento chiave di tutta la narrazione, giacché Edipo, credendo di aver risolto l’arcano, non comprese che quell’enigma s’applicava anzitutto a lui, che riassumeva in sé, contemporaneamente, le tre età dell’uomo, quelle che non devono sovrapporsi. Era lui, Edipo stesso, l’enigma proposto da Sfinge, lui, figlio e
sposo di sua madre, padre e fratello dei suoi figli. Il mito di Edipo, insomma, per gli artisti greci ruota intorno al personaggio di Sfinge, mostro, profetessa e guardiana, che lí, davanti a Tebe, evocava e reinterpretava la storia di quella bestia favolosa che i Greci avevano copiato dall’antico Oriente, per farle assumere poi significati aggiuntivi, distanti dai valori che ne avevano segnato l’origine in Egitto, ma funzionali al nuovo contesto, culturale e religioso.
Edipo, senza esitare, rispose: «O cantante dal volo sinistro, ascolta la mia voce che mette fine ai tuoi crimini. È l’uomo, che appena uscito dal seno materno cammina a quattro piedi, carponi, e poi s’appoggia al bastone, come a un terzo piede, quando il peso degli anni incurva il suo capo».
L’uomo dal piede gonfio Ecco, l’enigma era risolto: Sfinge per lo smacco si uccise, precipitandosi dalla rupe, mentre Edipo, sicuro del suo sapere e della sua potenza, s’avviava al trono di suo padre e al letto di sua madre. Sfinge era sconfitta; o almeno cosí credeva Edipo, Oidípus in greco, che significa «l’uomo dal piede gonfio» e anche «colui che sa (l’enigma) del piede». È lui l’eroe che ha scoperto il destino dell’uomo, legato al trascorrere inesorabile del tempo e mascherato dagli dèi in quell’oracolo. Ma Edipo, secondo il mito, è anche colui che ignora se stesso, colui che all’oscuro della propria identità uccide suo padre e sposa sua madre, causando la rovina della stirpe: finirà esule e cieco i suoi giorni, angosciato dai delitti commessi, mentre i figli Eteocle e Polinice, nati dall’incesto, si uccideranno a vicenda lottando per il trono di Tebe.
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lo sguardo che uccide
F
MEDUSA
orse non v’è immagine mitica piú rappresentata nel mondo classico del volto di Medusa, mostruosa creatura dallo sguardo fatale. Appare nell’arte greca almeno dalla fine dell’VIII secolo a.C., epoca in cui si data una maschera fittile da Tirinto, con grandi orecchie, occhi a globo, bocca provvista di zanne ferine; compare poi, nel secolo successivo, sia a Gortina sull’isola di Creta, sia nella Grecia continentale, ancora nella forma di una maschera in argilla e come raffigurazione di un viso mostruoso; si diffonde poi in ambiente italico, dalla
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Magna Grecia al mondo etrusco e a quello romano, in immagini talora addolcite, patetiche e umanizzate. Secondo il modello definito in ambiente corinzio, intorno alla metà del VII secolo a.C., Medusa è raffigurata come un essere alato, nell’atto della corsa e con un ginocchio piegato, il viso circondato da due serpenti ricurvi. Ma il volto di Medusa costituisce anche un tipo iconografico autonomo, costantemente caratterizzato da una visione frontale, i capelli talora trasformati in serpenti, la lingua sporgente,
il mento talvolta barbuto, l’espressione sempre raggelante. È uno schema che si trova utilizzato in una serie numerosissima di copie e di varianti, a testimonianza di una grande libertà creativa sul soggetto. Esso orna principalmente l’egida di Atena, nelle raffigurazioni piú belle della dea e già nel V secolo a.C.; decora anche, indipendentemente, frontoni, antefisse, metope e acroteri di templi e d’edifici pubblici; vasi, monete, armature e in modo particolare scudi; e ancora specchi, gioielli, mensole e oggetti domestici, soprattutto in età ellenistica e romana.
Un triste destino
A sinistra statua di Atena Promachos, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Sull’egida, tra la spalla sinistra e l’avambraccio, campeggia il gorgoneion. Nella pagina accanto metopa del Tempio C di Selinunte, raffigurante Perseo che, alla presenza di Atena, uccide Medusa e la conseguente mascita di Pegaso. 540-510 a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».
Con termine tecnico, si definisce gorgoneion questo tipo figurativo, giacché Medusa è una delle Gorgoni, l’unica dotata di personalità propria e significante. Lo dice già Esiodo in epoca arcaica: per lui le Gorgoni sono tre, si chiamano Steno, Euriale e Medusa, appartengono alla schiera dei mostri marini primordiali e nascono da Forco e da Ceto. Delle Gorgoni, però, Medusa è la sola ad avere un «triste destino»: è mortale, e non «di vecchiaia ignara» come le sorelle. È Medusa, insomma, il personaggio che i Greci, seguendo Omero, chiamavano semplicemente Gorgó, che vuol dire «Truce», «Terribile»; è suo quel viso che i Greci rappresentavano sempre frontalmente, quasi fosse una maschera. Per noi il gorgoneion è un volto che esprime mostruosità, una combinazione tra l’umano e il bestiale che appare orrida ma anche un po’ grottesca, risibile. Per i Greci, invece, la maschera della Gorgone era l’espressione di una potenza sovrumana di grande effetto, terrorizzante e insieme capace d’offrire protezione. E si raccontavano per questo miti specifici, che davano senso e fondamento a tale potere. Delle tre Gorgoni si diceva innanzitutto che
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STORIE SENZA TEMPO
In alto scudo bronzeo con gorgoneion centrale, da Olimpia. V sec. a.C. Olimpia, Museo Archeologico. Nella pagina accanto cratere apulo a figure rosse attribuito al Pittore di Tarporley e raffigurante Atena che regge la testa di Medusa, che si riflette sul suo scudo. 400-385 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.
fossero orride nella forma e temibili nella potenza. Cosí le descrive Apollodoro: «Avevano il capo avvolto da spire di serpenti, zanne grandi come quelle dei cinghiali, mani di bronzo e ali d’oro; trasformavano in pietra chiunque le guardasse». Sono il «terrore degli uomini», dice Esiodo, «giacché nessun mortale, se le guarda, conserverà il respiro». Per questo si tenevano in disparte: abitavano «al di là dell’inclito Oceano, all’estremo, verso la Notte, dove sono le Esperidi acute di voce», come vuole Esiodo; oppure ai confini della Libia, come scrive Erodoto; o ancora alle estremità occidentali della terra, presso gli Inferi, secondo altri scrittori. Ovidio, fra
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questi, parla di rocce sperdute e impervie, di spaventosi dirupi sotto il gelido Atlante, di strade e di campi segnati da figure d’uomini e d’animali tramutati in statue per avere fissato quegli occhi. Orrida e temibile come le sorelle, Medusa fu amata nondimeno da Poseidone, che «con lei si giacque nel molle prato, tra i fiori di primavera». Un corto amore comunque, quello cantato da Esiodo, giacché breve fu la vita della Gorgone mortale. Secondo una tradizione attica riferita da Euripide, Atena l’avrebbe uccisa nella lotta tra dèi e Giganti. Altri sostengono invece che Medusa fu decapitata dalla dea perché la Gorgone aveva osato sfidarla in una gara di bellezza; da questa versione, probabilmente, derivò il tipo iconografico che in epoca tarda addolciva i tratti di Medusa per farne una graziosa fanciulla.
Missione ai confini della Libia Il mito piú noto, di tradizione argiva, collegava però la sua morte alle avventure dell’eroe Perseo, mandato ai confini della Libia proprio per l’impresa, ritenuta disperata, di cacciare la testa di Medusa. Quando giunse colà, narravano i Greci, Perseo trovò le Gorgoni addormentate; mentre rimaneva voltato per non incrociare lo sguardo fatale, egli agí guardando l’immagine di Medusa riflessa in uno scudo che la dea Atena sorreggeva per lui. Con la falce, Perseo tagliò di netto la testa del mostro; ed ecco balzarne fuori i figli concepiti da Poseidone: Pegaso cavallo alato e poi Crisaore dal cuore violento. Con la testa di Medusa nella bisaccia e grazie a un berretto magico che lo rendeva invisibile, Perseo sfuggí poi alle Gorgoni superstiti e compí altre imprese,
approfittando ripetutamente di quel capo terribile, che pure staccato dal corpo conservava la sua potenza mortifera: bastava toglierlo dalla bisaccia e mostrarlo agli avversari per trasformare tutti, all’istante, in statue di pietra. Infine donò il trofeo alla sua protettrice Atena, che fissò la testa di Medusa al centro del suo scudo. La potenza e la mostruosità della Gorgone si concentrano nel viso ghignante e soprattutto negli occhi sbarrati, capaci di dare la morte. Neppure Perseo vincitore del mostro può affrontare lo sguardo di Medusa; ma con quel capo funesto egli possiede un’arma terrificante. Anche Atena se ne serve come signora della guerra, per proporre ai suoi nemici non già la bellezza del proprio viso divino, ma lo sguardo insostenibile del mostro. Chi dispone del gorgoneion, dice insomma il mito greco, assimila l’essenza mortifera della Gorgone,
diviene invincibile. Da qui la frequenza delle sue raffigurazioni, specialmente nelle immagini connesse al combattimento e particolarmente sugli scudi; da qui anche l’uso della maschera perturbatrice con funzione protettiva, per luoghi, oggetti, persone e situazioni di pericolo. E questo doppio aspetto della maschera gorgonica ne segna il successo nel mondo antico, come portatrice di sventure e protettrice di chi la detiene. Neppure l’avvento del cristianesimo interruppe le rappresentazioni del gorgoneion, che a lungo fu riprodotto e indossato a mo’ d’amuleto.
Una particolare generazione di mostri La decapitazione di Medusa a opera di Perseo o di Atena, tuttavia, non era soltanto un modo per spiegare l’esistenza del motivo iconografico; quel mito aveva infatti una funzione fondante anche per altri aspetti
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STORIE SENZA TEMPO
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A sinistra antefissa etrusca con testa di Gorgone, dal santuario di Portonaccio a Veio. VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
dell’esistenza. C’è da cogliere per esempio, nel racconto, l’origine di una particolare generazione di mostri, che forniscono argomento per ulteriori avventure eroiche e rappresentano insieme quanto v’è nel mondo di sovrumano e non divino; da questo punto di vista, la Gorgone che Omero, Aristofane, Apollodoro e Virgilio collocano negli Inferi e che talora viene raffigurata sulle stele funerarie serve anche a rappresentare l’alterità radicale del mondo dei morti. C’è da notare altresí che le vicende di Medusa, quasi incidentalmente, danno origine a molte cose: Atena inventa per esempio il suono lugubre del flauto dal lamento sibilante dei serpenti nella capigliatura del mostro; Atlante è trasformato nell’omonima catena montuosa dallo sguardo della Gorgone; i serpenti che infestavano la Libia, parimenti, nascono dal sangue caduto a terra dalla testa mozzata. Infine, si deve evidenziare il gioco sottile del linguaggio mitico attorno al tema dell’occhio e dello sguardo, della reciprocità del vedere e
L’interno di una coppa attica a figure nere, decorata con testa di Gorgone. 500 a.C. circa. Oxford, Ashmolean Museum.
dell’essere visto, dell’immagine e del suo riflesso. Colgono bene quest’ultimo aspetto le scene che a partire dal V secolo a.C. raffigurano Perseo mentre uccide Medusa facendosi specchio dello scudo e voltando la testa; ma lo evidenziano anche le riproduzioni del gorgoneion su due particolari classi di oggetti: gli scudi per la battaglia e le coppe usate in tempo di pace, per bere nei banchetti. Quegli scudi e quelle coppe sono in un certo senso il corrispettivo maschile dello specchio utilizzato dalle donne. Con la maschera mortifera ostentata sullo scudo, la dea Atena fornisce all’uomo lo specchio piú consono a lei: quello di una vergine guerriera avvolta nell’armatura, che non ama le arti della seduzione femminile. L’orribile figura barbuta, che spia il bevitore sul fondo delle coppe da vino, per contro, fornisce al cittadino greco l’unico riflesso che egli deve cercarvi: non i tratti di un volto affascinante, ma il doppio di sé, l’indizio di una virilità guerriera che non teme di guardare la morte negli occhi.
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MONOGRAFIE
n. 16 (dicembre 2016) Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma tel. 02 00696.352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Gli autori: Sergio Ribichini è ricercatore associato presso l’Istituto per la Conservazione e Valorizzazione dei Beni Culturali del CNR. Illustrazioni e immagini: Eric Lessing Archive/Magnum/Contrasto: copertina (e p. 50) e pp. 48, 101 – Mondadori Portfolio: pp. 26/27; The Art Archive: pp. 6-9, 55, 61, 70, 72-73; Album: pp. 12/13, 66/67; Electa/Antonio Quattrone: pp. 24/25; AKG Images: pp. 62, 79; Electa/Luigi Spina: pp. 64/65: Leemage: pp. 68, 76; Luciano Pedicini: pp. 71, 124/125 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais/Grazie Sgrilli: p. 10/11; RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: pp. 29, 30, 69; Meridiana Immagini: pp. 80/81 – DeA Picture Library: pp. 19, 22, 45-47, 77 (alto), 88, 128/129; G. Dagli Orti: pp. 14/15, 17, 20-21, 28, 34/35, 38, 40/41, 53, 60, 63, 90-91, 102, 104, 113, 122, 124; G. Nimatallah: pp. 18, 31, 74 (basso), 85, 117, 123; A. Dagli Orti: pp. 32, 82, 120; Archivio J. Lange: pp. 51, 89; Galleria Garisenda: p. 97 – Getty Images: Leemage: p. 16; Culture Club: pp. 98/99; Heritage Images: p. 103; UniversalImagesGroup: pp. 106/107 – Doc. red.: pp. 23, 34, 42, 44, 58, 74 (alto), 75, 93-95, 105, 108/109, 111, 112/113, 114-116 – Bridgeman Images: pp. 36-37, 39, 43, 49, 52, 54, 56/57, 59, 77 (basso), 83, 84, 86/87, 92, 118-119, 126-127, 129 – Shutterstock: pp. 78/79, 96, 110, 120/121 – Foto Scala, Firenze: White Images: p. 100. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: particolare del Cratere di Altamura (o dell’Inferno) raffigurante Ade e Persefone in un edificio che rappresenta la dimora delle divinità dell’Oltretomba, da Altamura. Produzione tarantina, 350 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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