archeo monografie n. 1/2013
genio
il degli antichi tecnologie che hanno cambiato il mondo
Bimestrale - My Way Media Srl
di flavio
₏ 6,90 N°1-2013
russo
il genio degli antichi
il genio degli antichi le invenzioni che cambiarono il mondo di Flavio Russo
premessa
Uomini che fecero le macchine
terra
Gestire lo spazio 16. Città e accampamenti 19. La diottra di Erone 24. Costruzioni antisismiche 34. Carri e carrozze 39. Teutoburgo, una nuova catapulta 46. L’onagro 51. La cheiroballistra 57. La catapulta a ripetizione 66. La grande balista di Hatra 72. Serrature e lucchetti
acqua
Alla ricerca dell’oro blu 78. Le pompe 81. Sistemi di distribuzione 86. Ruote e mulini 91. Seghe industriali 96. Mine idrauliche 104. Telegrafo ad acqua
aria
La forza che viene dal cielo 114. Mulini a vento 118. La climatizzazione
fuoco
Fiamme di vita e di morte 128. Porte automatiche 133. Lanterne a vento: i fari 138. Mine e gas tossici 144. Curarsi con l’elettricità
A partire da questo numero, una nuova veste grafica caratterizzerà le copertine delle monografie di «Archeo». I nostri lettori piú fedeli vi riconosceranno un tratto «antico»: abbiamo riproposto, infatti, la testatina dei nostri primi dossier, apparsi dal marzo del 1985 allo stesso mese del 1988.
Uomini
di Flavio Russo
che fecero le
macchine C
on l’avvento dell’impero, la tecnologia militare romana può essere considerata come la sintesi delle piú avanzate nozioni scientifiche e tecnologiche concepite, elaborate e utilizzate dalle tre grandi civiltà fluviali: l’indiana, la mesopotamica e l’egiziana. Per molti aspetti può essere vista come il frutto dell’epopea di Alessandro il Grande, che, aggregando quelle entità statuali al suo immenso impero, consentí agli studiosi che aveva portato con sé durante le sue campagne di studiarne e raccoglierne la cultura e la tecnologia. Dopo la sua morte quell’immenso archivio confluí nella biblioteca di Alessandria, innescando la rivoluzione ellenistica. Di essa i Romani colsero le opportunità concrete, evitando di cimentarsi su problemi astratti e, sebbene fossero pessimi matematici, divennero i migliori ingegneri dell’antichità. E, non a caso, l’etimo del termine «ingegnere», deriva sí dal latino ingenium (ingegno), che lascia supporre una facoltà speculativa, ma quest’ultimo, a sua volta, origina dal tema gen-, che già si trova in gignere, generare, cioè in verbi che indicano l’azione del mettere al mondo, generare, partorire. L’ingegnere, perciò, non fu mai uno scienziato, ma il «genitore» di congegni nuovi, dunque l’artefice di una prassi paragonabile al parto dopo la gestazione.
Una scarsa propensione per la scienza... Sebbene la ricerca pura esulasse dalla loro mentalità, i Romani non ne respinsero i vantaggi delle applicazioni, tanto che le dimore piú lussuose furono un concentrato di tecnologia avanzata. Ma non per questo mutò la disistima verso gli artefici di quei comfort e verso la tecnica in generale. E se i tecnici greci seppero, prima dei colleghi romani, compiere le precise levate topografiche indispensabili per la costruzione dei grandi acquedotti, furono però i secondi a dotarne ogni città del loro impero. Appare dunque logico concludere che, nonostante i limiti di apprendimento, la scarsa propensione per la scienza e l’inclinazione al solo uso pratico di prassi, strumenti e utensili, l’osmosi della tecnologia ellenistica in quella romana
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Replica di un particolare del fregio della Colonna Traiana (113 d.C.) raffigurante soldati romani che costruiscono una fortificazione. Bucarest, Museo Nazionale. Sul monumento, innalzato nel Foro di Traiano, erano illustrate le campagne condotte in Dacia dall’imperatore.
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avvenne in maniera netta e ampia, stimolata soprattutto dall’esigenze militari e commerciali. Volendo riconoscere, vagliare e descrivere le risorse tecnologiche della società romana, occorre ricercarle nelle fonti distinguendole in tre diverse tipologie: letterarie, iconografiche e archeologiche. Per evitare di cadere nella fantarcheologia, ogni elemento del repertorio trattato nei prossimi capitoli è subordinato a essere menzionato in un testo scritto, confermato in una raffigurazione e identificato in un reperto. Tre condizioni dalla cui concomitanza scaturisce un attendibile livello di certezza. Occorre tuttavia precisare che, mentre la corretta interpretazione delle fonti letterarie richiede soltanto una traduzione asciutta e non retorica, per quelle iconografiche e archeologiche occorrono particolari accortezze. Le raffigurazioni, infatti, sono sempre affette da un deleterio schiacciamento bidimensionale, inevitabile per gli artisti dell’epoca, che spesso eliminò dettagli basilari. Abbiamo, per esempio, centinaia di immagini di navi, in affreschi, bassorilievi e monete, ma nessuna ci tramanda le loro sovrastrutture. A questa difficoltà si sommano quelle derivanti dal dimensionamento arbitrario delle figure: un oggetto, un congegno, un individuo non hanno, nel contesto iconografico, un rigido rapporto prospettico, perché le rispettive grandezze mutano in base alla loro rilevanza nell’evento o ravvisata dall’artista. Una gru, per esempio, può risultare molto piú piccola del carico che solleva se questo è una preziosa opera d’arte, e solo per aggiungere un po’ di realismo non sono trascurati i dettagli della macchina, che sono per noi l’informazione fondamentale. Il discorso è ancora piú complesso per i reperti, perlopiú limitati a pochi frammenti malridotti, esito sempre di una selezione alla rovescia: le parti piú resistenti e inerti, cioè le meno sofisticate ed evolute, se prive di evidente valore materiale, sono sopravvissute,
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In basso modellino di una gru utilizzata per il sollevamento di blocchi di grandi dimensioni. Nella pagina accanto, in alto particolare delle arcate dell’acquedotto di Segovia, una delle piú grandiose realizzazioni dell’ingegneria civile romana nella provincia iberica. L’opera si data all’età dei Flavi (I sec. d.C.) o a quella di Nerva e Traiano (II sec. d.C.)
sia pure corrose; le piú delicate, invece, se non furono riciclate, si sono dissolte completamente, senza lasciare traccia. E quando scamparono a tale destino, spesso sono finite, in base a somiglianze con banali odierni congegni, sepolte di nuovo e in maniera irreversibile proprio per le errate etichette, nei depositi di musei e aree archeologiche.
Tecnologia e meccanica Per i Greci techné definiva ogni capacità professionale, ma rimontando piú indietro, troviamo la radice tak, in sanscrito tak-s, col significato generico di «fare», «fabbricare», «produrre», «costruire», voce di cui si trova traccia nel nostro «architetto», in cui tetto sta per «costruttore» o «tecnico» e archi ne indica la qualifica di capo o primario. Posta cosí la questione, la tecnologia è la disciplina che studia tutte le abilità professionali, le capacità artigiane, le potenzialità di mestiere: in ultima analisi la sommatoria delle competenze alle spalle della produzione ottimale. Un patrimonio culturale che trae origine dalla prolungata ripetitività e affinamento, precipui del lavoro artigiano. Il tecnico fu perciò l’artefice che, producendo un determinato oggetto, lo rese, grazie a migliorie continue, piú duraturo e meno costoso. Che, a ben guardare, significa riduzione dei tempi di realizzazione e dei quantitativi dei materiali impiegati, che sono i cardini della rivoluzione industriale. Circa la meccanica è facile rintracciarne l’etimologia nel termine greco mechané, «strumento per fare» o «compiere», sebbene la radice piú antica sia ancora nel sanscrito mahate, «accrescere», «rendere grande» (da cui anche mag’ man, «maestà», «grandezza», «forza»). In altre parole, si tratta di un’entità artificiale, capace d’incrementare vistosamente la forza, la produzione, la crescita. Un concetto che, per grandi linee, si attaglia perfettamente alle macchine e alla nostra meccanica in generale, ma dall’accezione piú ampia nell’antichità, definendo anche l’azione ingegnosa, l’astuzia e la scaltrezza. Personaggi come Ulisse escogitarono mechanaí per risolvere situazioni critiche, e proprio il suo cavallo possiede già tutti i crismi della meccanica nascente, essendo l’esito di un assemblaggio ragionato di piú pezzi. La macchina, perciò, è anche un’astuzia e, del resto, ancora oggi, tale accezione si coglie nel verbo italiano macchinare e piú ancora in macchinazione, termine che definisce un inganno, un tradimento. Parlare perciò di tecnologia meccanica non può ridursi a un discettare di ruote dentate, pulegge, catene e ferraglie! Significa, se mai, indagare sui congegni partoriti dall’ingegno che in un
In alto particolare della decorazione a rilievo del Vaso di Mykonos, raffigurante il cavallo di Troia. 670 a.C. circa. Mykonos, Museo Archeologico. Lo stratagemma escogitato da Ulisse è un esempio di applicazione della meccanica, nella sua accezione di astuzia, scaltrezza.
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determinato arco storico comparvero, realizzati per incrementare la produzione o per alleviare la fatica. Uno scopo raggiunto usando energie naturali od ottimizzando lo sfruttamento di quelle muscolari, avvalendosi certamente di ruote dentate e catene cinematiche, ma secondo un criterio razionale.
Energia e motore La storia, paradossalmente, potrebbe essere vista come la risultante dei bisogni energetici, dal momento che sia il ciclo esistenziale di uno Stato, sia i conflitti, sono sempre riconducibili a squilibri energetici, piú noti come crisi economiche. E spesso, nello studio dell’antichità, le fonti energetiche sono state confuse con i motori, determinando non poche incongruenze ed errate conclusioni. Per fonti energetiche si devono intendere, al pari di oggi, tutte le materie suscettibili di cedere l’energia potenziale che contengono o tutti quei fenomeni che ne liberano nell’attuarsi. Per motore, invece, diversamente da oggi, si intendeva un qualcosa capace di provocare un moto, per cui erano tali un arco, ma anche un calcio o un pugno, e, piú in generale, l’intero corpo umano: macchine e congegni che per funzionare avevano bisogno di essere alimentati, spesso letteralmente. Pertanto, una guerra vittoriosa che gettava sul mercato migliaia di schiavi, non procurava altrettante sorgenti energetiche, ma soltanto altrettanti motori, i quali, per fornire un lavoro, richiedevano un’adeguata alimentazione energetica, ovvero la somministrazione del cibo. Spesa, quest’ultima, inferiore al costo del lavoro libero, ma, tenendo conto del deprezzamento del valore degli schiavi e degli oneri connessi con la loro sorveglianza – senza
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In alto pinax (tavoletta dipinta) raffigurante la raccolta dell’argilla destinata alla fabbricazione dei vasi, da Penteskouphia, presso Corinto. 575-550 a.C. Berlino, Pergamonmuseum. In basso rilievo raffigurante schiavi legati con catene intorno al collo, da Smyrna (oggi Izmir, in Turchia). III sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.
contare i sabotaggi e le fughe –, il lavoro servile risultava quasi sempre scarsamente conveniente. Il vantaggio del lavoro servile, perciò, ammesso che vi fosse stato, consisteva nell’utilizzare il carburante piú abbondante e meno costoso che potesse esistere, a patto che quanto assorbito superasse in valore quanto fornito, cioè che il valore di quanto prodotto dagli schiavi superasse quello della loro alimentazione. Tale fenomeno finí con il definire uno spietato rapporto tra consumo-nutrizione e rendimento-lavoro, un concetto che, sebbene non fosse compreso neppure vagamente nell’antichità, conobbe piena applicazione pratica. E quando Plinio sottolineava che nelle miniere d’oro spagnole lavoravano 60 000 minatori liberi, non lo faceva per avallare una bonomia peraltro inesistente all’epoca, ma per evidenziare la convenienza del lavoro libero che, restando all’esempio, consumava molto meno di quello che produceva! Al di là dei rendimenti il vero interrogativo resta quello sulla stima del bilancio energetico della società romana, abbastanza evoluta e in fase di costante avanzamento materiale. Emblematico è il caso del consumo della legna da ardere, che nel giro di alcuni decenni levitò in maniera esponenziale. Per farsi un’idea delle quantità in gioco, basti considerare che per cuocere 1 kg di pane ne occorre quasi altrettanto di legna, e, tenendo presente una razione quotidiana media pro capite di almeno 250 g, si deve concludere che quando Roma superò il milione di abitanti, richiedeva 250 t di pane al giorno, con un consumo di legna equivalente, pari a sua volta al trasporto di 2-300 carri. Se a questa quantità si aggiunge quella bruciata dalle terme, dai privati per riscaldarsi e per cuocere il cibo, dalle fornaci per produrre anfore e mattoni – che l’enorme incidenza dei trasporti costringeva a una ubicazione limitrofa – dalle officine metallurgiche, ecc., si deve supporre un ammontare complessivo giornaliero di oltre un migliaio di carri di legna da ardere.
In basso i resti dell’eliocamino di Villa Adriana a Tivoli, il grandioso complesso residenziale realizzato tra il 118 e il 138 d.C. L’ampia sala circolare era riscaldata dal calore dei raggi solari, catturato e trattenuto per l’effetto serra tramite l’apertura superiore munita di vetrata.
Un antico «effetto serra» Una tendenza che ampliò rapidamente il raggio del disboscamento, con la conseguenza di incrementare dapprima i costi unitari, quindi di obbligare a scelte sempre piú onerose, quali l’approvvigionamento lontano e il trasporto fluviale e, soprattutto, a soluzioni architettoniche finalizzate al risparmio energetico. Infatti, agli inizi del I secolo, presero a diffondersi sistemi di riscaldamento ambientale che non necessitavano di un eccessivo bisogno di combustione, ma si basavano sull’effetto serra, e che Plinio il Giovane definí, con un indovinato neologismo, Heliocaminus, una soluzione che trovò ampia adozione nelle terme e nelle case. Tutta l’energia disponibile sulla superficie terrestre e nel suo immediato sottosuolo, a eccezione di quella nucleare, è frutto del riscaldamento solare e può distinguersi in «rinnovabile» ed «esauribile». La prima, sfruttando gli effetti dell’irraggiamento, si rigenera di continuo, per cui è detta anche «naturale», a differenza della seconda che, utilizzando giacimenti non reintegrabili formatisi nel corso delle ere geologiche, è definita anche «fossile» e tende quindi a
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esaurirsi. La rinnovabile fu impiegata sin dalla preistoria, assurgendo perciò a energia primaria, sotto forma di venti, correnti d’acqua, incendi o caduta di massi. L’altra, pur non essendo sconosciuta, in quanto erogata da carbone, bitume e nafta, per le difficoltà connesse alla sua estrazione conobbe modesti utilizzi. In conclusione, nell’antichità non si andò oltre l’impiego delle sorgenti naturali, nei quattro ambiti. Tenendo conto che le quantità di energia fornite dal sole sono immense, circa 200 W/mq, a esse vanno ricondotti i venti per i diversi livelli di riscaldamento delle masse d’aria e i corsi d’acqua per le piogge prodotte dall’evaporazione dei mari. Fluidi aeriformi e liquidi, insieme alla combustione e alla gravità, sono le sorgenti energetiche primarie e i rudimentali meccanismi con esse alimentati sono a loro volta definiti «motori primari» che cosí possono distinguersi: • motori a energia potenziale accumulata nei solidi come deformazione elastica o come gravità: ne fecero parte le artiglierie elastiche e i tanti congegni a contrappeso come i sipari, i montacarichi e i veicoli semoventi. • motori a energia cinetica o potenziale accumulata nell’acqua, come corrente dei fiumi e dei torrenti: ne fecero parte le ruote idrauliche dei mulini e delle altre macchine utensili, e per vari aspetti le mine idrauliche. • motori a energia cinetica accumulata nelle masse d’aria, come venti e correnti ascensionali: ne fecero parte le vele delle imbarcazioni, le giranti dei mulini, e alcuni congegni ad aria compressa. • motori termici funzionanti per l’innalzamento della temperatura di un corpo, perlopiú fluido, con la somministrazione di calore dall’esterno. Ne fecero parte la ben nota eolipila, unico esempio di motore rotante a vapore, e gli apri-porte automatici. L’ambito d’indagine va dall’età ellenistica al III secolo d.C., comprendendo perciò la fase espansiva dell’età imperiale e la sua lunga stabilità militare, un periodo tra i piú noti per la molteplicità delle fonti e dei ritrovamenti archeologici. In merito ai
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In basso rilievo che sormonta la stele funeraria degli Aebutii con strumenti di misurazione. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto illustrazione raffigurante una ruota per il sollevamento dell’acqua, da una edizione cinquecentesca del De architectura di Vitruvio. Milano, Castello Sforzesco.
secondi, inoltre, si conferma un caso unico nella storia il grandioso repertorio di strutture, raffigurazioni e oggetti che il Vesuvio, in un giorno d’agosto (o di ottobre) del 79 d.C., avviluppò in una spessa coltre di fango e di lapilli, garantendocene la lenta riesumazione diciassette secoli dopo. Un tragico fotofinish di Pompei, Ercolano e Stabia nella pienezza della loro vita quotidiana e nella completezza delle loro risorse materiali e tecnologiche, trasformatosi in una opportunità unica e perciò imprescindibile per questi studi. Nel medesimo scorcio storico un secondo polo tecnologico romano si aggregò lungo i limes, di precipua finalità militare, testimoniato dai rilievi celebrativi, dai ruderi delle tante fortificazioni e dagli sparuti resti di armamenti. Una quantità di indicazioni e di reperti che due millenni di devastazioni e di degrado non sono riusciti a dissolvere del tutto, consentendo perciò di integrare la tecnologia civile con quella militare, e restituendoci un sostanzioso spaccato della società romana.
Una distribuzione molto elitaria Occorre però tener presente che, a differenza dell’attuale tecnologia, che tende a distribuire le proprie realizzazioni sul maggior numero possibile di fruitori, riducendone i prezzi unitari coll’incrementarsi della produzione, in una sorta di diffusione orizzontale, non cosí avvenne per quella romana. L’impero, nonostante la sua cospicua popolazione, infatti, non formò mai un mercato omogeneo, per cui le soluzioni avanzate restarono sempre appannaggio di una
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ristretta minoranza, in una sorta di diffusione verticale, eccezion fatta per il comparto militare. Alle spalle dell’evoluzione tecnologica dell’antichità stupisce l’esiguità numerica dei personaggi sicuramente connessi con le numerose invenzioni e scoperte. A voler essere generosi, non eccedono la decina: Pitagora, Archita, Ctesibio, Archimede, Erone e pochissimi altri ancora. Parafrasando Winston Churchill, é credibile che tanti uomini debbano tanta riconoscenza a cosí pochi? È possibile che gli artefici del progresso scientifico e tecnico siano stati solo e soltanto quelli? Un pugno di menti superiori e perspicaci, in una società avulsa dalle loro elaborazioni salvo che per sfruttarle?
Nella pagina accanto resti di un pozzo di età romana a Tuna-el-Gebel (Egitto). In basso Fayyum (Egitto). Costruzione di una vite di Archimede destinata ad approvvigionare il sistema di irrigazione.
Non erano geni isolati La realtà, a ben leggere le fonti, risulta diversa: il teorema che rese famoso Pitagora era noto agli Egiziani da millenni, per cui il filosofo si limitò a riformularlo in modo piú sofisticato; la coclea, attribuita ad Archimede, era già usata da secoli lungo il Nilo, e il grande siracusano non fece che ottimizzarla. Generalizzando gli esempi, tutti i nomi pervenutici si devono assegnare, piú che a singoli isolati, a capiscuola, ai quali venivano attribuiti i risultati delle ricerche nelle quali, sia pure a vario titolo, molti discepoli erano coinvolti. Quanti di loro formassero il gruppo di ricerca e quanti gruppi operassero piú o meno contemporaneamente magari in settori diversi, non siamo in grado di appurarlo, ma la loro esistenza operativa è certa. Sulla stessa questione va ancora osservato che il gran numero di invenzioni ascritte ad alcuni di quegli scienziati è frutto di una scolastica elencazione: a Ctesibio si attribuirono l’organo ad acqua, la pompa idraulica alternativa, il sifone a stantuffo, la balista pneumatica e persino la siringa medica, nonché altre ancora. Tantissime certamente, ma, a una riflessione piú ponderata, non sfugge che l’invenzione, in realtà, fu solo una, il cilindro munito di stantuffo, essendo tutte la altre mere applicazioni! E se poi volessimo scandagliare ulteriormente l’età di Ctesibio ci renderemmo subito conto che anche il suddetto cilindro con stantuffo già esisteva. Si trattava di una canna di legno, forse un fusto di bambú, in cui veniva spinto un bastone cilindrico, piú piccolo e munito di una rozza guarnizione per compensare le differenze fra i due diametri, in modo da farne uscire l’aria da un piccolo foro in basso. Un vero mantice alternativo di cui alcune popolazioni continuano a servirsi. Pertanto, i nomi di volta in volta menzionati non sono quelli di improbabili geni isolati da cui scaturí la tecnologica, ma i pochi scampati all’oblio rispetto ai tanti che si occuparono di portare innanzi, passo dopo passo, la conoscenza scientifica pura e applicata. L’avanzamento, in conclusione, non avvenne per scatti improvvisi di cervelli singolari, non essendo mai esistito nella storia dell’umanità nulla del genere, ma fu la sommatoria dell’apporto di una teoria sterminata di artigiani e di ingegneri, di filosofi e di scienziati, di perfezionatori e di sperimentatori testardi che non si sono arresi di fronte alle innumerevoli sconfitte, ma, esaltati dai rari successi, hanno costruito, giorno dopo giorno, la nostra odierna e comoda realtà. E continuano a farlo con il medesimo entusiasmo.
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terra
Gestire lo spazio
il viaggio nella tecnologia dei romani comincia con l’habitat naturale dell’uomo. un ambiente variamente modellato e sfruttato e il cui controllo fu sempre espressione diretta della supremazia
Sulle due pagine Masada (Israele). I resti del campo trincerato allestito dalla Legio X Fretensis, al comando del governatore Lucio Flavio Silva. I Romani, nelle fasi finali della prima
guerra giudaica, assediarono la cittadella per oltre sette mesi e quando, nel 74 d.C., riuscirono a penetrarvi, scoprirono che la popolazione aveva preferito il suicidio di massa alla resa.
TERRA
CITTÀ E ACCAMPAMENTI S
tando alle scarne notizie tramandateci da Aristotele (Politica II, 5,1), Ippodamo da Mileto, vissuto nel V secolo a.C., fu l’architetto a cui si deve la diairesis delle città, cioè il criterio d’impiantarle secondo uno schema a scacchiera, definito da un reticolo stradale ortogonale. Lo componevano tre strade principali, o plateiai, da est a ovest, incrociate a squadro da numerose altre secondarie, o stenopoi. Le intersezioni delimitavano isolati rettangolari, o strigae, come ancora si può osservare a Napoli, la Nea-polis («città nuova») per antonomasia. Alle spalle dell’urbanistica ippodamea traspare una subordinazione al numero tre: tre le strade principali, tre le classi sociali dei 10 000 abitanti – artigiani, agricoltori e armati – tre le classi della proprietà fondiaria, dei reati e dei relativi giudizi, nonché i rami della pubblica amministrazione. A Ippodamo furono attribuite la ricostruzione di Mileto, la sistemazione del porto del Pireo di Atene e, forse, la nuova città di Rodi. Concludeva Aristotele che la maniera precedente di aggregare gli abitati senza una precisa trama viaria li rendeva piú difendibili, ma sconci da vedere e scomodi da abitare. Purtroppo, però, l’adozione della griglia ippodamea, superiore per estetica e funzionalità, agevolava le eventuali intrusioni nemiche, e risultava perciò preferibile applicare entrambe le soluzioni, ma in due parti diverse della città.
E per casa una... farfalla Fra le realizzazioni peculiari dei Romani primeggia l’accampamento legionario, una fortificazione mobile, prima ancora che una base ambulante e un confortevole impianto residenziale. Non a caso fu l’origine di molte città europee, e la sua antica ripartizione si può ancora oggi ravvisare nei loro centri storici. Se ne ignorano la genesi e la prima evoluzione, avvenute entrambe tra il V e il III secolo a.C., con evidenti reminiscenze ippodamee. In concreto, si trattò di recinti rettangolari, con gli spigoli stondati, ma se ne conoscono anche di quadrati e romboidali.E numerose sono le
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varianti in funzione della loro destinazione: campi tattici (castra aestiva), strategici (praesidia), frontalieri (stativa), quartieri d’inverno (hiberna), accampamenti di tappa (stationes), basi permanenti lungo i limes… La capacità ricettiva di un campo legionario oscillava tra poche migliaia di uomini e varie decine di migliaia, con cavalli, muli e armenti da macello. Per un esercito di 42 000 legionari misurava 687 x 480 m, e implicava l’adiacenza a un corso d’acqua. La sua formazione, anche se di semplice tappa, era stabilita dal metator, il quale, precedendo la truppa, doveva individuare un sito adeguato, lasciando al librator il compito dello spianamento, seguito dalla delimitazione, eseguita dal mensor, degli stalli per le tende. Queste ultime, definite papiliones (letteralmente, «farfalle»), constavano di due spioventi di cuoio, di 25 pelli ognuna, sostenuti da un cavalletto di legno e ancorati al suolo con funi e picchetti. A pianta quadrata di circa 3,5 m di lato, di cui 3 interni e 0,5 esterni, coprivano 9 mq, con una altezza al colmo di 1,8 m e una all’imposta di appena 1 m, e pesavano mediamente intorno ai 30 kg; ogni legione ne contava almeno 500, per un peso complessivo di 20 t trasportato sui carri o dorso di mulo.
un organismo perfetto Al centro di ogni accampamento erano sempre posizionate le tende del comandante, il praetorium. Quest’ultimo, nei casi in cui l’insediamento assumeva forma stabile, poteva trasformarsi in un complesso residenziale molto articolato, come è illustrato da questo disegno ricostruttivo, nel quale
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si possono riconoscere ambienti destinati alle diverse funzioni: 1. ufficio; 2. scuderie; 3. alloggio per la servitú; 4. cucine; 5. triclinium (sala da pranzo); 6. stanze da letto. Nella pagina accanto è invece illustrato lo schema canonico dell’intero castrum.
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TERRA
per misurare
la terra
La formazione di un campo legionario, come pure di una città, richiedeva una serie di operazioni topografiche, compiute con appositi strumenti ai quali, col tempo, se ne aggiunsero altri correntemente usati nelle costruzioni. Ne sono qui illustrati i piú importanti.
Archipendolo
Costituito da una squadra a forma di A, dal cui vertice scendeva un filo a piombo, serviva per controllare l’orizzontalità di una superficie.
odometro
Era l’equivalente del nostro contachilometri e serviva a misurare le distanze percorse. Ne esistevano di due tipi: il primo, descritto da Vitruvio, lasciando cadere una pietruzza in una campana a ogni miglio percorso dalla ruota, lo segnalava e ne memorizzava il numero. Il secondo, descritto da Erone, era a lettura continua su vari quadranti progressivi, come gli odierni contatori dell’acqua.
squadro agrimensorio
Di impiego analogo alla groma, ma insensibile al vento, consisteva in un cilindro di rame o di bronzo con diverse fessure verticali a 90°, a 45° o a 22°30’ fra loro. Traguardandone una coppia opposta per volta indicava due direttrici ortogonali.
corobate Era una sorta di panca, lunga 6 m circa, con un incavo centrale lungo 1 m circa e largo 10 cm circa, che veniva riempito d’acqua: quando l’acqua ne lambiva interamente i bordi lo strumento era orizzontale.
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groma
Constava di una croce metallica, dalla quale scendevano 4 fili a piombo che, traguardati a coppie, permettevano di stabilire due direttrici perpendicolari.
la diottra di erone D
ell’ingegnere Eupalino da Megara, sappiamo soltanto che, nel VI secolo a.C., costruí un lungo acquedotto sotterraneo a Samo, su incarico di Policrate, celebre per la sfacciata fortuna e per il suo famoso anello. Dell’acquedotto, tuttora esistente, sappiamo ancora meno, ignorandosi persino come fu possibile orientarne lo scavo dalle opposte estremità, fino a farne congiungere al centro i due avanzamenti, ciascuno lungo 500 m circa e largo 2. Uno scarto di appena lo 0,4% rispetto all’asse del tunnel avrebbe vanificato l’incontro: in pratica una deviazione inferiore a 1/4 di grado in uno dei tronconi! Cosa fosse e quanto valesse geometricamente un grado all’epoca era risaputo, ma con quale strumento tornava possibile valutarlo? Per inciso, va osservato che precisioni di allineamento pari a quella accennata, erano precipue dei tiri dei migliori arcieri, che le conseguivano unicamente traguardando il bersaglio dall’impennaggio alla
cuspide della freccia, visuale propriamente detta linea di mira. È perciò verosimile supporre che, con un semplice regolo munito all’estremità di due pinnule, sarebbe stato possibile rilevare con sufficiente precisione la direzione di scavo. Tuttavia soltanto dall’epoca ellenistica si ha notizia certa di un vero strumento topografico del genere, definito diottra, vocabolo greco composto da dia, «attraverso», e optomai, «guardo», quindi «guardo attraverso», cioè «traguardo».
Il diametro del sole Vi è da aggiungere, però, che quelle prime diottre ebbero un impiego meramente astronomico, tanto che, ancora nel III secolo a.C., Archimede, descrivendone una di sua invenzione, in Arenario, la finalizza alla
Al centro un tratto del tunnel realizzato nell’isola di Samo (Egeo orientale), su progetto di Eupalino di Megara, al quale l’opera era stata commissionata dal tiranno dell’isola, Policrate. Si tratta di un acquedotto sotterraneo, che si sviluppa per 1000 m circa di lunghezza. In basso isola di Samo. Veduta dei resti delle terme di età romana.
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TERRA
un relitto che svela il mistero Grazie a reperti in bronzo recuperati da una nave romana colata a picco nelle acque antistanti la città tunisina di Mahdia, è stato possibile riscontrare il sistema di ingranamento descritto da Erone per la sua diottra. Si tratta di due ruote semidentate simmetriche, idonee alla collimazione di un traguardo mediante la rotazione di precisione orizzontale e verticale. Il grafico in basso fornisce un’esemplificazione schematica e generica di tale tipo di trasmissione: a un alberino di legno è fissata un ruota semidentata tramite una chiavetta di ferro. Una manopola, solidale a una vite senza fine ingranata fra i suoi denti, girando nel verso orario la fa ruotare di 90° in depressione, e girando nel verso antiorario 90° in elevazione.
Ruota semidentata Dettaglio della ruota semidentata montata e suoi riscontri originali rinvenuti a largo di Mahdia, con i relativi rilievi ortogonali. È ben evidente il piccolo alloggiamento rettangolare destinato alla chiavetta di bloccaggio.
supporto Supporto generico solidale all’alberino mediante incastro, destinato a ruotare con lui insieme allo strumento nel piano verticale.
Manopola Manopola di azionamento, che poteva essere a manovella, come nel disegno, o semplicemente zigrinata sulla corona. Quando la vite impegnava l’ultimo dente della ruota la sua rotazione si arrestava.
forcella Forcella di ferro sostenente fra le due pinne verticali maggiori l’alberino e, fra le due minori, perpendicolari alle precedenti, la vite senza fine e la sua manopola di azionamento.
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perno Perno di rotazione nel piano orizzontale, fissato alla forcella, destinato a essere posto in rotazione dalla seconda ruota semidentata e dalla relativa vite senza fine.
alidada Alidada con i due risalti per la collimazione posti alle sue estremità, solidale a un goniometro semicircolare: in pratica un regolo di legno con due pinnule, munite di un semplice foro circolare per l’oculare e una sottile croce per l’obiettivo.
piatto goniometrico Piatto goniometrico in rame, recante incisa lungo il bordo la gradazione. Il piatto era solidale alla colonnetta, tramite tre perni, per cui l’indicazione angolare era fornita da un apposito indice, solidale invece all’alidada.
un gioco di manopole Ricostruzione virtuale della diottra, o traguardo, di Erone e schema del suo funzionamento: agendo sulla manopola inferiore si sbloccava l’alidada e, girandola a mano, la si portava a collimare con il primo traguardo. Quindi la si ingranava, e girandola tramite la stessa manopola la si portava a collimare con il secondo traguardo. A questo punto era facile leggere sul piatto goniometrico, direttamente o per differenza, l’angolo orizzontale, o azimut. Qualora i due traguardi fossero posti piú in alto o piú in basso della diottra, li si collimava, variando anche l’inclinazione dell’alidada, agendo sulla manopola superiore, ricavandone da un apposito riscontro, un foro sulla forcella, anche l’angolo di elevazione utile per valutare i dislivelli.
misurazione del diametro del sole. Quasi un secolo piú tardi, anche Ipparco perfeziona un’altra diottra, che appare piú avanzata della precedente, come pure Tolomeo, strumenti però sempre rigorosamente astronomici. Considerando il disprezzo affettato verso i lavori d’ingegneria, è credibile che pur utilizzandosi la diottra in ambito topografico e geodetico, se ne trascurasse la menzione, perché da vil meccanici. Il moltiplicarsi delle grandi opere pubbliche, che implicavano un meticoloso rilievo plano-altimetrico, ne confermano indirettamente l’esistenza, trovando ulteriore conforto in sparuti reperti archeologici. Circa la sua probabile connotazione, va immaginata già costituita da un traguardo rotante su un piatto goniometrico, strumento capace di misurare gli angoli, ma non di ridurne l’entità in piano.
Un’invenzione senza futuro Chi alla fine realizzò una diottra per misurare sul goniometro orizzontale angoli fra direttrici non complanari, capace con lievi modifiche di trasformarsi in livello di precisione e in telemetro, fu Erone. O, per meglio dire, a lui ne fu attribuita l’invenzione del tipo piú perfezionato, non a caso ritenuto in anticipo tecnologico. Infatti, per l’autorevole A History of Technology (opera in 5 volumi, pubblicata tra il 1954 e il 1958 a cura dello storico della scienza e della medicina Charles Singer), la diottra di Erone era uno strumento che, per varie ragioni, non avrebbe potuto esistere, un’invenzione prematura priva di passato e, soprattutto, di futuro. Ma mai come in questo caso, la realtà appare completamente diversa: se ai giorni di Erone, come delineato, la diottra già vantava una teoria di perfezionamenti, nel futuro ne avrebbe conosciuto una persino maggiore. Migliorie e adeguamenti che le avrebbero assicurato un ruolo preminente nella topografia, nella geodesia e nelle grandi costruzioni, vuoi con lo strano nome di teodolite, vuoi con quello di tacheometro, vuoi persino con quello di astro-compass sui grandi bombardieri B 17, B 24 e B 29. Al di là delle ipotesi e degli indizi, esistono
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TERRA
| Una descrizione ottocentesca del traguardo | «La costruzione del Traguardo è come segue. Evvi un sostegno a foggia di piccola colonna, il quale à nella parte superiore un rotondo perno; intorno al perno sta un piattello circolare di rame; avente lo stesso centro col perno. Ponesi pure intorno al perno un cannoncello di rame; tale che possa girare speditamente intorno al medesimo: codesto cannoncello, nella sua parte tiene attaccata una rotella dentata appoggiata sull’anzidetto piattello; e nella sua parte superiore à un plinto, ossia pezzo quadro, in maniera di raffigurare per eleganza un capitello Dorico. Alla suddetta rotella dentata si appone una piccola vite, i vermi della quale combinano coi denti della rotella; Li piccoli sostegni della vite sono fissati al piattello, che è piú grande della rotella. Se dunque gireremo la vite, muoveremo intorno eziandio la rotella dentata e il cannoncello aderente alla medesima; questo è aderente alla rotella per mezzo di tre piuoli che discendono dalla base di esso entro la rotella e si movon con essa. La vite à al lungo di se un solco incavato sino al fondo de’ suoi vermi; onde se giriamo la Vite, sicché il Solco predetto vada rimpetto ai denti della rotella, questa sarà libera a moversi. Ponendo allora la rotella ove chiede il bisogno, giriamo poi di nuovo un poco la vite, in guisa d’implicarne i vermi coi denti, e cosí rendiamo immobile la rotella (...) Sul plinto di questo Capitello stanno due sostegni simili a piccole righe, distanti fra loro in maniera di potervi adattare frammezzo la grossezza d’una rotella; e sul plinto stesso fra le due righe evvi una vite aggirantesi» (dai Commentarj sopra la storia e le teorie dell’ottica del cavaliere Giambattista Venturi reggiano, Bologna 1814).
prove archeologiche oggettive della diottra di Erone? La risposta è positiva, vantando da un lato i singolari reperti bronzei, recuperati agli inizi del secolo scorso da una nave romana affondata dinanzi Mahdia e montati nella nostra ricostruzione virtuale, dall’altro una dettagliata descrizione dello stesso inventore che l’ha consentita. I primi sono due ruote semidentate, congrue a ingranare due viti senza fine. La dentatura presente soltanto su metà della circonferenza ne testimonia una rotazione massima di 180°: l’escursione del traguardo, infatti, andava da un’elevazione massima prossima ai 90° e minima prossima ai -90°, un arco verticale di 180° analogo a quello orizzontale compreso fra i 90° a destra e 90° a sinistra.
Dalla «viva voce» dell’inventore Ricostruzione virtuale della stadia graduata di Erone, che veniva usata insieme alla diottra, per ottenere gli allineamenti.
Quanto alla descrizione, per una fortunata combinazione ci è pervenuta quasi integralmente nel testo greco, fatta salva una breve mutilazione, estesa anche ai suoi accessori e al suo impiego, consentendoci di vagliarne le caratteristiche di dettaglio. Fra le rarissime traduzioni, spicca quella del 1814 di Giovanni Battista Venturi, scienziato e
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umanista, che meglio aderisce allo spirito dell’autore (vedi box in questa pagina). Erone adotta per la rotazione del traguardo, sia nel piano orizzontale che in quello verticale, due ruote dentate ingranate da due viti senza fine, azionate da una coppia di manopole. Trasmissione che, essendo irreversibile, eliminava ogni oscillazione accidentale dello strumento, stabilizzandone la collimazione, impedendo però l’allineamento iniziale. Per ovviare all’inconveniente, Erone incise per la sua intera lunghezza la filettatura della vite per cui, portandovi a coincidere i denti della ruota la stessa poteva girare in folle, consentendo il puntamento preliminare, per essere immediatamente ingranata con un ulteriore modesto giro della manopola. Il corretto assetto della diottra, con l’asse verticale e il piatto orizzontale, era garantito da un filo a piombo parallelo alla colonnetta. Il traguardo propriamente detto, che gli Arabi chiameranno al-idhâdah da cui alidada, era una sorta di righello di circa mezzo metro, munito all’estremità di due risalti, uno con foro di puntamento, fungente da oculare, e l’altro con crocefila, fungente da obiettivo, nell’insieme simile ai mirini sulle artiglierie leggere. Allineato il traguardo sulla direttrice fondamentale,
ruotando la manopola lo si portava a collimare il bersaglio, ricavandone cosí l’azimut, l’angolo letto sul piatto goniometrico orizzontale. La parte mutila del testo è quella del settore goniometrico verticale che, collocato in una forcella, consentiva di misurare angoli in elevazione. Anche in questo caso la rotazione del regolo avveniva mediante vite senza fine e ruota dentata.
la prima calcolatrice La capillare organizzazione che per molti secoli resse l’istituzione militare romana fu resa possibile dalla sua oculata gestione economica e, dal momento che la rendicontazione di quegli enormi flussi monetari non era attuabile sulle dita, trovò nell’abaco la calcolatrice ottimale.
Due accessori fondamentali Erone dotò la diottra di due accessori che ne permisero l’impiego come livello e telemetro: il traguardo a vasi comunicanti e la stadia graduata. Il primo constava di un tubo di rame, inserito in un regolo di legno di un paio di metri, con le estremità fuoriuscenti a squadro verso l’alto, terminanti in due anelli di vetro, muniti di mire a bandiera scorrevoli. La seconda, ancora in uso, non essendo disponibile il cannocchiale per leggerne dallo strumento le scale metriche impresse lateralmente, fu munita di un disco mezzo bianco e mezzo nero, scorrevole in una fessura, con debito contrappeso e con un indice posteriore. Innestato il regolo sul cerchio verticale, riempitone di vino rosso il tubo di rame, fatte coincidere le mire con le superfici del vino negli anelli, e traguardando la stadia, si realizzava una linea di mira perfettamente orizzontale. L’operatore alla diottra faceva allora sollevare o abbassare il disco fino a far corrispondere la mezzeria con la linea di mira: il valore sulla gradazione, era pari al dislivello tra la stadia e la diottra. Con il disfarsi dell’impero scomparve la diottra e scomparve soprattutto la sua esigenza, che riaffiorò sia pure in forma approssimata, come testimoniano alcuni disegni di Francesco di Giorgio, del Taccola e di Leonardo, sul finire del Medioevo. Ma, per ritrovare uno strumento topografico di uguale concezione della diottra, bisognerà attendere il XVIII secolo, e solo grazie a esso è stata possibile la realizzazione della nostra attuale realtà.
abaco romano
Noto ai Babilonesi dal V sec. a.C., l’abaco fu miniaturizzato dai Romani fino alle dimensioni di un pacchetto di sigarette, divenendo perciò tascabile. Tramite i suoi bottoncini mobili consentiva di eseguire rapidamente e con grande esattezza addizioni e sottrazioni.
il meccanismo di anticitera
Il frammento di un complesso meccanismo, rinvenuto agli inizi del Novecento in un relitto affondato presso l’isola di Anticitera, a ridosso di Cipro, fu interpretato mezzo secolo dopo grazie agli studi di Derek J. de Solla Price (1922-1983) come un calcolatore del I sec. Due le sue caratteristiche piú straordinarie: la sofisticazione degli ingranaggi, una trentina di diverso diametro, evidenziati nitidamente dalle radiografie, e l’adozione di un rotismo differenziale, dispositivo che permette di produrre una velocità di rotazione pari alla somma o alla differenza di due velocità di rotazione date. Nel calcolatore (vedi qui accanto una ricostruzione) la sua funzione sarebbe stata di fornire, oltre ai mesi lunari siderali, le lunazioni che venivano ottenute sottraendo il moto solare al moto lunare siderale. Quale che fosse l’effettiva destinazione del congegno, appare inoppugnabile la modernità del sistema escogitato per la lettura dei dati fornita su quadranti concentrici.
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TERRA
costruzioni antisismiche L
a tecnica costruttiva adottata per le fortificazioni italiche fino al III secolo a.C. è ricordata nelle sue varianti come opera poligonale, megalitica, pelasgica, ciclopica o micenea, solo per citare le piú frequenti. I Greci la nominarono pure opera saturnia, tirinzia e lesbica, mentre per i Romani fu soltanto opus incertum, senza alcun riferimento alle dimensioni dei conci. Elementare è il criterio informatore: erigere muraglie d’ingente saldezza, accatastando macigni di forma irregolare, assemblandoli tra loro senza leganti. Circa gli estremi di adozione, il poligonale si ritrova in strutture erette tra il V millennio e oggi, dall’Asia al Giappone, dall’Africa alla Grecia, dall’Italia al Perú. Per restare nella Penisola, il maggior numero di testimonianze si concentra
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nell’Etruria Marittima, in Sabina, nella Marsica e, soprattutto, nei territori degli Ernici, dei Volsci e dei Sanniti dell’Appennino. Piú sporadiche sono le attestazioni nell’Italia settentrionale e nella Magna Grecia; mentre un caso a sé stante è quello della Sardegna, con l’imponente fenomeno nuragico. Variegata, ovunque, la gamma d’utilizzo, che si può cosí riassumere: 1. cerchie urbiche prive di torri; 2. cittadelle; 3. sbarramenti di pendice; 4. basamenti di templi o «podi»; 5. basolati e sostruzioni stradali; 6. terrazzamenti agricoli; 7. platee artificiali per l’impianto di ville; 8. torri isolate o aggregate, come i nuraghi; 9. piedritti di ponti e, piú raramente, ponti stessi. Circa l’interpretazione e la datazione delle costruzioni in opera poligonale in base a criteri
Nella pagina accanto Arpino (Frosinone). Le mura poligonali che cingevano l’acropoli dell’antico centro volsco. VI-V sec. a.C. Le mura, che si estendevano per piú di 3 km, furono restaurate in età sannitica, romana e medievale. In basso schema delle sollecitazioni sismiche esercitate su un tratto di muratura in opera poligonale.
formali, lo studioso tedesco Oskar Gerhard le attribuí ai Pelasgi o agli Aborigeni, osservandone la stretta affinità con la pavimentazione delle strade romane, senza tuttavia indagarne le ragioni. Carlo Promis, architetto e storico dell’arte, riprese quel concetto, concludendo che i basolati stradali erano una variante orizzontale della tecnica poligonale, astenendosi anch’egli dal ricercarne le spiegazioni. Ancora un architetto, Luigi Poletti, si cimentò forse per primo nella suddivisione tecnica del poligonale, ravvisandone quattro maniere, delle quali precisò che se la piú antica era di certo la piú rozza non poteva, però, credersi il contrario.
Qui sotto cinta fortificata sannitica di Monte Acero (Benevento). VI sec. a.C. È un esempio di mura poligonali di I maniera, in blocchi calcarei non lavorati e pietre minute. In basso resti delle mura poligonali di Cassino (Frosinone). VI-V sec. a.C. La cinta muraria, di II maniera, è costituita da grossi blocchi sbozzati irregolari.
I
Le tecniche murarie secondo Lugli L’archeologo Giuseppe Lugli perfezionò quella classificazione, ribadendone la distinzione in quattro maniere, e non epoche, che qui sintetizziamo: • I maniera i blocchi sono staccati dalla roccia con leve e posti in opera uno sull’altro, senza alcuna lavorazione; la loro dimensione non è mai notevole e per porli in opera sono fatti rotolare dall’alto in basso; compare in Italia dal VII secolo a.C. • II maniera i blocchi sono staccati dalla parete rocciosa e appena sbozzati in forma di poligoni irregolari, non combacianti fra loro; evitati gli
II
Qui sotto Amelia (Terni). Un tratto delle mura, di III maniera, dell’antico centro fortificato umbro. VI sec. a.C. I conci, di forma irregolare, risultano perfettamente combacianti. In basso Terracina (Latina). Cinta muraria poligonale di IV maniera, con l’utilizzo di conci squadrati e regolari.
III
IV
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TERRA
In alto Terravecchia di Sepino (Campobasso). La postierla del Matese, porta orientale dell’insediamento fortificato sannitico. IV sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto Sacsayhuamán (Cuzco), Perú. Le poderose mura in opera poligonale della fortezza cerimoniale incaica. XV sec. d.C. La triplice cinta muraria, lunga piú di 300 m, è formata da enormi conci, in porfido e andesite, perfettamente combacianti gli uni con gli altri.
allettamenti orizzontali, usati solo nei varchi e negli angoli; quasi sempre il muro è eretto con un leggero abbattimento, appoggiandolo alla pendice retrostante. • III maniera i blocchi sono tagliati in forma di poligoni irregolari e fatti combaciare con precisione; il loro estradosso è levigato e gli innesti fra conci adiacenti avvengono spesso con un dente, ricavato in quello già in opera; la posa in opera implica il trasporto e il sollevamento con complesse macchine; negli angoli e presso le porte compare, essendo inevitabile, l’opera quadrata. • IV maniera l’opera poligonale tende a confondersi con quella quadrata, conservando solo in minima parte la connotazione irregolare; i conci sono allettati su piani di posa sinuosi, con filari di diversa altezza e giunti verticali obliqui; non di rado questa tipologia fu impiegata come paramento esterno per l’opera cementizia. Tale classificazione, senza dubbio efficace per l’archeologia, dal punto di vista strutturale è persino eccessiva sotto il profilo tecnologico, potendosi far rientrare l’intera gamma in soli
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due gruppi. Il primo include le opere erette accatastando blocchi, piú o meno grandi, l’uno sull’altro, senza alcuna modifica di sagoma dopo l’estrazione: la stabilità è proporzionale alla loro massa. Il secondo, invece, implica l’incastro dei blocchi fra loro, progressivamente piú accurato fino a eliminare ogni interstizio e piano di scorrimento. Appare evidente l’estrema complessità della seconda, antitetica alla prima. La stabilità è ancora funzione della massa, ma l’insieme sopporta in maniera nettamente diversa le sollecitazioni laterali, poiché l’incastro dei conci si oppone a ogni sconnessione. Peculiarità talmente apprezzata da giustificare le immani difficoltà e gli ingenti oneri derivanti dal suo impiego.
Una scelta... inspiegabile Le distinzioni tipologiche e le incertezze cronologiche non scalfiscono l’interrogativo di fondo: perché tante popolazioni adottarono una cosí astrusa modalità di costruzione, per giunta esasperandone col tempo la dimensione dei conci e la precisione dei giunti, invece di abbandonarla? Perché l’ingegneria romana, di
gran lunga la piú evoluta e razionale, la preferí per la pavimentazione stradale, optando per basoli poligonali sempre diversi fra loro, in luogo di rettangolari? Costruire in tecnica poligonale del secondo gruppo, in verticale le muraglie e in orizzontale le strade, significa sagomare ogni blocco, volta per volta, per farlo combaciare con quelli già posizionati: prassi che rende necessario l’esatto rilievo dei contorni dei secondi per l’esatto taglio del primo. Ed è impossibile la prefabbricazione in cava, come per i conci parallelepipedi o per i basoli rettangolari; è inevitabile portare a piè d’opera blocchi piú grandi, e pesanti, del necessario; e, infine, risulta esasperante la lentezza d’avanzamento! Né è credibile che tanto i Giapponesi, quanto i Peruviani, i Micenei, i Maltesi, gli Italici, i Siculi, i Nordafricani, in epoche e circostanze diverse, ma sempre in assoluta autonomia, escogitassero tutti la stessa tecnica cervellotica per erigere strutture previste per estreme longevità quali fortificazioni, strade, ponti e templi. Quale fu il fattore comune
| Rane e draghi come sentinelle antisismiche | Un antico modello del sismoscopio inventato dallo scienziato di corte cinese Zhang Heng (70-139 d.C.). Questo strumento era in grado di avvertire le scosse telluriche. Esso aveva un diametro di 1 m circa e un’altezza di 2 m, era realizzato in bronzo, in forma di giara rovesciata. In caso di scossa, un ingegnoso sistema di aste e colonnine interne, comunicanti con le otto bocche di drago esterne, provocava la caduta di una piccola sfera dalla bocca di uno dei draghi in quella della rana corrispondente, consentendo, in tal modo, di stabilire la direzione di provenienza della scossa tellurica.
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TERRA
che persuase gli Inca sulle Ande, i Volsci sull’Appennino e i Romani lungo l’impero, ad affrontare simili fatiche per costruire le loro muraglie e le loro strade? Quali enormi sollecitazioni dovevano frustrare?
La soluzione del mistero Da quest’ultimo interrogativo e dall’elenco delle località elencate emerge la soluzione dell’enigma: l’opera poligonale s’impose, senza eccezioni e sistematicamente, in tutte le aree ad alta ricorrenza sismica! Le sollecitazioni enormi che essa riesce a sopportare, prima ancora di quelle inferte dagli arieti in caso di assedio, furono quelle dei terrificanti terremoti in Giappone, in Perú, in Anatolia, in Grecia o in Italia. L’opera poligonale piú evoluta, con i conci perfettamente combacianti e senza piani di allettamento orizzontali, impedisce qualsiasi scorrimento durante le scosse telluriche, per intense che possano essere, resistenza spesso esaltata da apposite protuberanze dei blocchi adiacenti. Le sollecitazioni provocate da un evento sismico non si abbattono, sempre e soltanto, sui fianchi di una costruzione, cioè da direttrici laterali, o la squassano dal basso verso l’alto, ma possono investirla da qualsiasi direzione, poiché la loro origine varia al variare dell’epicentro, per cui la delineata attitudine a sopportare anche spinte laterali fortissime, non sembrerebbe risolvente. O, perlomeno, non tale da giustificare tanta fatica, potendo crollare con angoli d’investimento perpendicolari od obliqui rispetto all’estradosso. È significativo che il sismoscopio cinese di Zhang Heng, realizzato agli inizi del II secolo, fosse in grado di stabilire proprio la direzione delle onde sismiche (vedi box e foto a p. 27). In realtà, se si studia l’impianto delle costruzioni in opera poligonale, si osserva che furono erette collocandole sempre direttamente sulla roccia delle pendici collinari, con una sensibile pendenza a monte, come ancora si pratica nei muri di sostegno, per compensare con la spinta del loro peso quella dei terreni sovrastanti. Nella fattispecie, l’inclinazione avrebbe neutralizzato in gran parte le sollecitazioni sismiche trasversali,
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mentre l’insistere sulla roccia avrebbe, a sua volta, neutralizzato le sollecitazioni verticali, lasciando perciò alla trama poligonale la sola neutralizzazione di quelle longitudinali. I conci poligonali, grazie alla forma irregolare, pur oscillando durante il sisma di quel minimo tollerato dall’incastro, all’esaurirsi delle spinte per il prevalere della loro massa, riassumevano subito la giacitura iniziale, senza conseguenze apprezzabili. Circa la pavimentazione stradale romana, la ragione del suo imporsi incontrastata è identica, bastando sostituire alle scosse telluriche quelle meccaniche, incessanti, provocate dal transito dei pesanti carriaggi, protrattosi per secoli. Quanto appena delineato è una rozza semplificazione, ma spiega in modo efficace la validità di tale tecnica e il perché della sua diffusione e della longevità delle sue costruzioni, non di rado le uniche parti sopravvissute d’intere città. Si trattò, perciò, di
un’antesignana tecnica di costruzione antisismica, lungamente affinata e universalmente condivisa, la cui rispondenza è dimostrata dalle migliaia di strutture pervenuteci integre. Per strano che possa sembrare, non fu l’unica tecnica antisismica dell’antichità, poiché proprio il Vesuvio ce ne ha tramandata un’altra, il cui impiego persino dopo l’avvento del cemento armato non può considerarsi esaurito.
A Lisbona, nel 1755, all’indomani del terremoto che l’aveva devastata, fu resa obbligatoria la costruzione degli edifici, pubblici e privati, con una particolare tecnica edile definita «baraccata», cioè case con una robusta intelaiatura lignea inglobata all’interno dei muri. La sua finalità consisteva nel raccordare l’intera struttura rendendone le varie parti solidali fra loro, riducendone cosí la tendenza a sconnettersi, qualora investita da sollecitazioni sismiche.
Il regolamento del governo borbonico Nel 1783 fu Reggio Calabria a essere distrutta dal terremoto, e il governo borbonico, a conoscenza della promettente esperienza, promulgò a sua volta un regolamento edilizio per il quale l’unico sistema di costruzione consentito era appunto quello della casa baraccata. Nel 1860 anche lo Stato Pontificio
adottò il medesimo regolamento per l’edificazione del Comune di Norcia, assumendo come tipologia di riferimento le case baraccate già realizzate nel Napoletano. Fu la volta, quindi, di Casamicciola (località dell’isola di Ischia) che, dopo il terribile sisma del 1883, prescrisse la stessa tecnica, opzione seguita dopo il terremoto del 1887 anche da vari Comuni della Liguria. Dal punto di vista storico la casa baraccata nasce in Italia, in Calabria, nel 1638: ne è esempio emblematico il palazzo del conte di Nocera. A voler essere pignoli, sempre in Calabria si registra la diversificazione fra la casa «intelaiata» e quella baraccata, entrambe con nervature lignee, lasciate a vista nella prima, come nei cottage germanici, e affogate nella muratura nella seconda. Il loro impiego si protrasse fino al 1915, quando si constatò la straordinaria
In alto Ercolano. La Casa a Graticcio. I sec. d.C. Dell’edificio, quasi interamente costruito in opus craticium, si è preservato anche il piano superiore. Nella pagina accanto Messina. Una casa baraccata settecentesca, sostanzialmente intatta, tra le macerie dei caseggiati rasi al suolo dal terremoto del 1908.
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tenacia del cemento armato nelle strutture antisismiche. Per completezza d’informazione, va osservato che fra le foto delle terribili conseguenze del terremoto di Messina del 1908, ne spicca una relativa proprio a una casa baraccata eretta sicuramente poco dopo il 1783: nonostante il suo secolo di vita e nonostante l’evidente violenza del sisma, non ha riportato considerevoli danni, verifica eloquente della corretta intuizione!
Rielaborazione di un modello antico Una rapida puntata nell’architettura d’età classica rivela che la tecnica sottesa alla casa baraccata altro non fu che la riproposizione dell’antico opus craticium romano, del quale si conservano esempi a Ercolano e a Pompei, e non solo nelle pareti divisorie interne, ma pure in quelle perimetrali portanti. A ben vedere, si tratta della struttura muraria mista piú usata in area vesuviana e il suo impiego deve, pertanto, essere collegato alla particolare natura geologica della regione, con ricorrenti eventi sismici, a bassa intensità, ma non per questo innocui. Siamo di fronte, perciò, a una seconda tecnica di costruzione antisismica che, a differenza della precedente impiegata nelle grandi opere pubbliche, era usata nell’edilizia residenziale privata. E soprattutto nell’edilizia, se cosí si può dire, popolare, essendo molto economica e rapida. L’opus craticium, opera a graticcio, è caratterizzata dall’adozione d’uno scheletro portante fatto con elementi lignei verticali di discreta sezione, montanti, pali e murali, raccordati con altri orizzontali appena meno spessi, travi, correnti e listelli, giuntati fra loro con incastri e grappe di ferro. I primi con spessore compreso fra gli 8 e i 12 cm e i secondi fra i 6 e gli 8 cm. Dal loro incrociarsi scaturivano specchiature di 50-80 cm circa di lato, tamponate da murature in opus incertum, con pietre di piccola pezzatura, fissate con abbondante calce. Abitualmente è presente un sottile strato esterno e interno d’intonaco, finalizzato a proteggere il legname dall’acqua, e soprattutto dal fuoco, e a fornire una maggiore robustezza al complesso. Lo spessore di tali muri è di 20 cm circa, piú che
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sufficiente dal punto di vista statico per le case a due soli livelli, o per le loro suddivisioni interne. In particolare si preferiva, per la sua solidità, per le tramezzature a piano terra e, per la sua leggerezza, per i muri perimetrali dei piani superiori. Quanto alla datazione risulta in uso sin dal III secolo a.C.: da altre fonti sembrerebbe addirittura già impiegato in Italia dal VI secolo a.C., sopravvivendo nel Medioevo e diffondendosi in Turchia e nei villaggi dell’Europa nord-occidentale, dove troverà impiego fino ai nostri giorni. Va infine osservato che, se inizialmente l’impiego dell’opus craticium fu dettato da motivazioni economiche, in seguito, poiché era ben nota la facilità con cui poteva incendiarsi, continuò a essere adottata solo dove s’imponevano le sue note peculiarità secondarie, la leggerezza e l’elasticità, rimedi efficacissimi contro i terremoti.
La svolta del cemento I Romani chiamarono opus caementicium il conglomerato che ha poche analogie con l’omonimo odierno, se si eccettuano la fluidità iniziale e il successivo rapprendersi, fino alla consistenza lapidea. I caementa, poi, erano gli inerti, cioè le pietre piú o meno piccole, che venivano tenute insieme da un legante, impasto a cui non diedero mai un preciso nome, pur essendo sostanzialmente simile a una malta, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Le prime notizie certe del suo impiego rimontano al tempo di Nabucodonosor (604-562 a.C.), quando, a Babilonia, si iniziò a sostituire la malta asfaltica con la calce idratata, una pratica subito diffusasi, soprattutto laddove non sgorgava naturalmente
In alto disegno ricostruttivo della città nota come Colonia Ulpia Traiana, sui cui resti si è poi sviluppata la città di Colonia. L’insediamento sorse come appendice civile della fortezza legionaria romana di Castra Vetera, i cui resti sono stati identificati nei pressi della moderna Xanten.
| Al capezzale dei feriti | Se la vigliaccheria dinnanzi al nemico implicava la pena capitale, il comportamento eroico, testimoniato molto spesso da ferite piú o meno gravi, promuoveva nelle legioni cure e attenzioni, nei limiti delle vigenti conoscenze mediche. All’epoca, situazione rimasta immutata fin quasi alla metà del XIX secolo, ai massacri del combattimento faceva seguito, nei giorni successivi, l’agonia letale di moltissimi feriti. Era impossibile prestare loro soccorso, poiché non esistevano strutture preposte allo scopo, e la morte, in quei carnai terrificanti, sopravveniva per dissanguamento, per disidratazione, per assideramento, per infezione, quando non inferta dai razziatori. Sebbene, già alla fine dell’età repubblicana, l’organico delle legioni comprendesse anche i medici, solo sul finire del I secolo venne organizzato un vero servizio di sanità militare, capace di farsi carico del recupero dei feriti e di curarli secondo le migliori competenze vigenti. I medici delle legioni erano equiparati ai sottufficiali specialisti, posti alle dipendenze del praefectus castrorum e di un medico militare capo. Sappiamo, per esempio, che, nelle guerre daciche, rivestí tale ruolo Critone, il medico personale di Traiano. Per il suo delicato compito il medicus era fra gli immunes («esenti», uomini che erano appunto dispensati dalle normali corvée del castrum) e gli veniva riconosciuta la facoltà di poter contrarre matrimonio durante il servizio attivo. A ogni buon conto era dotato delle stesse armi d’ordinanza, ma percepiva un soldo doppio di quello dei semplici legionari. Dal punto di vista operativo, l’assistenza ai feriti contemplava due distinte fasi. La prima, sul campo, riservata ai feriti meno gravi e mirata al loro recupero immediato: i rimedi comprendevano la sutura delle ferite, la riduzione delle fratture e, spesso, l’arresto delle emorragie. Allo scopo il medico disponeva di una apposita cassetta chirurgica, munita di strumenti e ferri, nonché di bende e linimenti. Le competenze professionali, che lo stato permanente di guerra permetteva di affinare notevolmente in pochi anni, consentivano di salvare persino con quei semplici interventi un gran numero di uomini, fermo restando che la stragrande maggioranza dei feriti non sopravviveva. In ogni caso per riscontrare un numero analogo di guarigioni di feriti sul campo, si dovrà attendere il primo conflitto mondiale! La seconda comprendeva il ricovero, un’esigenza da cui derivò la costruzione di antesignani ospedali, definiti valetidinarium in castris, di cui permangono numerose testimonianze archeologiche, come a Castra Vetera (fortezza legionaria corrispondente all’odierna città tedesca di Xanten). Si trattava nella fattispecie di un edificio in muratura, a pianta quadrata di 80 m circa per lato: al suo interno potevano essere ricoverati quasi 200 degenti, tra feriti e malati. Un’ala risulta sistematicamente adibita a reparto chirurgico, con una antesignana sala operatoria. Non mancavano la cucina, la dispensa, i bagni e le latrine. Dopo il congedo, molti medici militari, grazie alla reputazione meritata sul campo, trovavano facilmente impiego alle dipendenze di qualche municipio, con stipendio regolare, o guadagnavano discretamente come liberi professionisti.
Replica di un rilievo della Colonna Traiana (113 d.C.), nel quale si vede un medico che cura un soldato ferito a una gamba. La presenza di medici nell’organico delle truppe, attestata già in età repubblicana, fu regolamentata a partire dalla fine del I sec. d.C.
TERRA
il bitume e, per contro, abbondavano la pietra calcarea e la legna. Approfondendo ulteriormente la questione, dai reperti archeologici risulterebbe che la calcinazione del calcare fosse praticata in Mesopotamia sin dal 2450 a.C. Quanto alla seconda componente essenziale dell’impasto, la pozzolana, è una deiezione vulcanica costituita da cenere e da piccolissimi lapilli, alterata e omogeneizzata dagli agenti atmosferici, ricca di ossidi di silicio, alluminio e ferro, oltre a percentuali variabili di ossidi di calcio e di magnesio. Con la calce e l’acqua fornisce una malta con proprietà cementizie, e, se vi si aggiungono gli inerti, cioè sabbia e pietrisco di varia pezzatura, impastando con ulteriore aggiunta di acqua si ottiene il calcestruzzo in forma fluida, che presenta la stupefacente capacità di rapprendersi anche sott’acqua.
Il primato di Cosa Dal punto di vista storico, appare probabile che la tecnologia romana ne cooptò la scoperta dalla Magna Grecia, intorno al III secolo a.C., come sembrerebbero testimoniare le mura di Cosa, erette nel 273 a.C., il cui basamento è in opera poligonale, mentre l’elevato è in conglomerato cementizio. Del resto la disponibilità della pozzolana si ebbe dopo la conquista della Campania, e, per un lungo periodo, se ne fece incetta, anche per costruzioni molto lontane, poiché solo alcuni decenni piú tardi si scoprí che l’intero bacino laziale e poi buona parte dell’Italia centrale erano ricchi della preziosa harena fossica. Da quel momento non vi furono piú limiti all’impiego del calcestruzzo. Pur non avendo compreso in base a quale principio il conglomerato pozzolanico facesse presa, si arrivò in breve tempo a stabilirne con precisione il dosaggio ottimale e le peculiari potenzialità d’impiego. Ricordando che il calcestruzzo era costipato a strati orizzontali tra due paramenti murari, quando questi erano di pietre irregolari fu definito opus incertum, quando quadrate, opus reticolatum, quando di mattoni, opus latericium. La funzione dei paramenti non si riduceva a quella di semplice cassaforma,
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poiché doveva sostenere il peso della struttura per tutto il tempo dell’indurimento, spesso molto lungo. L’eccezionale innovazione costruttiva fu utilizzata diffusamente a partire dal II secolo a.C., trovando impiego ovunque e per qualsiasi costruzione, civile o militare, dalla modesta villa al grandioso anfiteatro, dagli acquedotti alle cerchie urbane, al punto da farla considerare il principale contributo di Roma alla storia dell’architettura europea.
Modellino di una grande gru per il sollevamento di materiali da costruzione, la cui potenza è incrementata dalla presenza di una ruota calcatoria. Nyon, Musée Romain.
| Macchine per sollevare | I Romani, come fanno fede molti bassorilievi e, sia pure implicitamente, le molte loro grandiose costruzioni pervenuteci, conoscevano e impiegavano le gru, azionate dalla forza muscolare, variamente moltiplicata con carrucole e paranchi. In quelle di maggiore potenza il motore era una grande ruota calcatoria, o un argano ad asse verticale. La ruota, simile a una gigantesca gabbia per scoiattoli, veniva fatta girare da squadre di schiavi che si arrampicavano continuamente al suo interno. Crescendo il suo diametro, cresceva il suo braccio, e crescendo il numero degli schiavi, la massa a esso applicata: anche senza saperne calcolare i relativi kgm, non risultava difficile dimensionarla per l’impiego programmato. In realtà, però, come ha dimostrato la notevole sopravvivenza della macchina ancora in funzione agli inizi del XX secolo, allora definita «ruota del cavapietre», non potevano azionarla piú di cinque uomini, divenendo altrimenti troppo larga. Piú potente era l’argano ad asse verticale, o cabestano, che, con stanghe di notevole lunghezza, poteva essere azionato anche da una trentina di uomini. Tuttavia, che il motore fosse una ruota o un cabestano, la struttura delle gru non differiva granché da quelle odierne, definite «Derrick». Riuscivano, infatti, a variare l’inclinazione e l’orientamento del braccio nonostante gli ancoraggi e di tre tipi Vitruvio ci tramanda una dettagliata descrizione. Le prime si usavano nelle costruzioni pubbliche; le seconde nei porti, per le operazioni di carico e scarico; le terze, infine, le piú semplici, costituite da un montante verticale e da un braccio brandeggiabile, si impiegavano in ambito militare, per spostare le grandi macchine ossidionali. Elemento comune di tutte le tipologie di gru era il paranco a carrucole: e ancora Vitruvio ne ricorda due tipi, a cinque pulegge e a tre. Entrambe si distinguevano ulteriormente in base alla disposizione delle pulegge nelle carrucole, in linea o affiancate: quale che fosse il paranco con cinque è definito pentaspaston e quello con tre era il trispaston.
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in viaggio con zosimo
In alto particolare della stele di Marco Viratio Zosimo, raffigurato nel bassorilievo mentre viaggia su una carrozza trainata da un cavallo e con il cane al seguito. Età imperiale. Roma, Museo della Civiltà Romana. A sinistra ricostruzione virtuale del veicolo di Zosimo: si tratta di un carro di tipo veloce per trasporto privato, munito di un sistema frenante sulle ruote anteriori e di un mantice di copertura.
carri e carrozze I
Romani, che costruirono la piú vasta e confortevole rete stradale dell’antichità, paradossalmente non furono mai geniali costruttori di carri. E forse, proprio questa evidente incapacità suggerí loro i fondamentali criteri guida di quella superba infrastruttura, caratterizzata da lievissime pendenze, larghe curve e solido manto d’usura. Non sapendo aggiogare ai loro carri i cavalli per il petto, ma soltanto per il collo, strade con inclinazioni anche minime avrebbero finito per strangolarli! Similmente curve di breve raggio non avrebbero potuto essere affrontate da carri privi di avantreno sterzante; e manti d’usura teneri avrebbero ceduto sotto la pressione degli stretti cerchioni di ferro, bloccandoli inesorabilmente! Non sapendo, o non volendo, modificare i veicoli, adeguarono ai loro limiti le strade,
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opzione che per i loro ingegneri si dimostrò di gran lunga piú semplice. I carri, pertanto, si limitarono a copiarli dalle etnie nordiche, senza darsi neppure la pena di mutarne il nome, adattandoli soltanto, e per marginali dettagli, alle loro esigenze commerciali e militari. Scaturí cosí una vasta gamma di veicoli a quattro e a due ruote, perlopiú trainati da cavalli, ma anche da pariglie di buoi.
Un veicolo per ogni esigenza Per restare ai primi si ebbero, come conferma la vastissima iconografia relativa, tali e tante differenziazioni da non sfigurare rispetto alle odierne innumerevoli tipologie di camion e autobus. Vi furono, perciò, carri per il trasporto merci con basse e alte sponde per forti carichi compatti o incoerenti; carri per le attrezzature militari del genio; carri per barche
In alto questa carrozza con tiro a due cavalli, utilizzata per il trasporto pubblico di funzionari e autorità, appare su un rilievo di età gallo-romana conservato nel Museo Lapidario di Avignone. Nella ricostruzione virtuale (a destra) questa sorta di «diligenza romana» aveva sedili anche sull’imperiale (tetto), accanto ai bagagli.
In basso il rilievo di età romana, inglobato nella facciata della chiesa di Maria Saal a Klagenfurt (Austria), raffigura una carrozza-letto trainata da cavalli. Ideato per far fronte anche a lunghi viaggi, questo veicolo, come è evidenziato dalla ricostruzione virtuale (in alto), offriva al suo interno dalle quattro alle sei «cuccette» ed era munito di una sospensione a doppia cinghia, per rendere il viaggio piú comodo.
da ponte; carri per le salmerie; e persino carribotte per uno o piú liquidi, in cisterne separate. Per il trasporto delle persone, si ebbero ancora carri-diligenze per il servizio pubblico, con sedili anche sull’imperiale; veloci carrozze con copertura a mantice, perlopiú private, nonché vere carrozze letto, con padiglione di pelle, a quattro o sei cuccette. Quei carri a due assi ebbero sempre l’avantreno fisso, come gli odierni carri ferroviari merci. In tutte le migliori fonti iconografiche, infatti, le ruote anteriori e posteriori hanno il medesimo diametro e appaiono molto piú alte del cassone. Nessuna possibilità, quindi, per il loro assale di girarvi sotto, come avverrà in età moderna, e come ancora avviene nelle «botticelle» romane. Una deficienza vistosa, spesso ignorata nelle ricostruzioni, determinata piú che dall’incapacità dei carradori a concepire un assale sterzante, che di certo in diversi casi realizzarono, dalla sua eccessiva debolezza,
che impediva i carichi pesanti. Ulteriori conferme di tale assenza sono la brevità del passo dei carri romani, ripiego necessario per curvare senza troppa resistenza; come pure la contiguità fra cavalli e conduttore, inconciliabile con un timone fissato all’avantreno; nonché l’adozione di un freno «a martellina» sulle ruote anteriori, che, agendo tra queste e il telaio, non avrebbe funzionato a ogni sterzata. Freno dinamico, da non confondere con quello statico di stazionamento, il classico «bastone fra le ruote». Consisteva, infatti, in un robusto bastone, piú lungo dell’asse, che, inserito fra i raggi di due opposte ruote, ne impediva la rotazione.
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TERRA
il carro del vinaio In alto nel bassorilievo, di età imperiale, è raffigurato un tipico carro-botte per trasporto merci, trainato da due buoi. Roma, Museo della Civiltà Romana. La ricostruzione virtuale mostra un carro a due botti, una per il vino bianco, l’altra per il rosso. Qui accanto le strade con solchi guidaruote, come questa di Pompei, impedivano che i carri ad avantreno fisso urtassero le ruote contro le banchine laterali delle vie strette. L’adozione dei solchi implicava che i veicoli avessero tutti la stessa distanza tra le ruote. In basso ricostruzione virtuale del trasporto di un monolito di marmo su una strada con solchi-guida.
Un discorso a parte merita l’attenuazione degli urti prodotti dalle asperità del terreno, problema risolto ingegnosamente già sui piú veloci carri da guerra egiziani. Elementare è il relativo criterio informatore. Impattando la ruota contro una pietra, il suo sottile cerchione, rivestito di pelle e con soli quattro raggi (piú raramente sei), si deformava leggermente, per tornare subito dopo perfettamente rotondo.
La prima sospensione elastica Sui carri celtici, che operavano su terreni piú accidentati, il medesimo problema fu risolto in altro modo: la cassa di vimini, infatti, non fu piú poggiata direttamente sull’assale, ma, tramite cinghie, su un supporto ad arco, la prima vera sospensione elastica. Che, quasi certamente, i Romani presero a modello per le sospensioni elastiche delle carrucae dormitoriae di età imperiale. L’adozione su queste, piuttosto che sulle carrozze, si deve attribuire all’impossibilità da parte dei passeggeri di mantenersi saldamente durante il sonno. Infatti, la disposizione a doppia cinghia per assale attenuava senza dubbio le violente
sollecitazioni laterali, quelle che avrebbero scaraventato il passeggero fuori dalla cuccetta, ma quasi per nulla quelle verticali, attutite, però, dalla rete e dal materasso sovrastante. Dell’ingegnosa invenzione non abbiamo alcun riscontro iconografico inequivocabile.
Per viaggiare senza scossoni Fortunatamente, però, ce ne è pervenuto un discreto numero di componenti di base, solo di recente identificate con sicurezza. A prima vista, infatti, si potrebbero scambiare con eleganti statuine in bronzo: invece, quei pregiati elementi sostenevano le robuste cinghie delle sospensioni, sulle quali insisteva il vano passeggeri, scindendolo dal telaio. Quest’ultimo deve immaginarsi a forma di «H» allargata, cioè due assali uniti da una trave centrale. All’estremità di ciascun assale, appena dietro la ruota, i suddetti supporti erano innestati su massicce bandelle di ferro inchiavardate. In linea di massima, ricordano un tridente: il rebbio centrale, cavo e figurato in sembiante umano o animale, si infilava sopra un perno verticale saldato alle bandelle. I rebbi laterali, piú tozzi e corti, se ne discostavano di una decina di centimetri, fornendo cosí l’ancoraggio alle due coppie di cinghie, che, fissate sotto la cassa, la svincolavano dal telaio e dai suoi peggiori scossoni. A titolo di curiosità tecnologica va ricordato che la molla metallica a balestra a foglie multiple sovrapposte, quella che attualmente viene impiegata come ammortizzatore nelle nostre autovetture, comparve nel II secolo a.C. Fu realizzata con lamine di bronzo battute a freddo, levigate e scrupolosamente sagomate su di una apposita centina da Ctesibio, per una sua catapulta. Formalmente risultano molto simili a quelle che verranno utilizzate sotto i calessi del XIX secolo e in molti carri ferroviari. Il nome derivò da ballista, vocabolo a sua volta tratto dalla voce verbale greca ballein, «lancio il sasso», definizione generica di tutte le armi da lancio elastiche, evolutosi in ballistra intorno al II secolo della nostra era e quindi in balestra in epoca medievale, sebbene la balestra con arco d’acciaio vada collocata in età rinascimentale. A Pompei è ancora possibile osservare una
straordinaria invenzione destinata a regolarizzare l’avanzamento dei carri a quattro ruote: i «guidaruote», propriamente detti «dispositivi incisi per ruote guidate», diretti antenati dei binari. Si tratta di due stretti solchi, rettilinei e perfettamente paralleli, larghi circa una decina di centimetri e profondi la metà, incisi nella pavimentazione stradale, a eguale distanza dalle banchine, identificate come marciapiedi. Ricordano, a prima vista, i binari del tram, incisi anch’essi nel manto stradale per una larghezza di 40 mm e una profondità di 25 mm, somiglianza per nulla casuale dal momento che ne sono gli estremi epigoni!
Solchi contro gli incidenti I carri nelle strade anguste, proprio per non disporre dell’avantreno sterzante, rischiavano a ogni minima asperità di urtare violentemente con una ruota contro lo spigolo della banchina, fracassandola. Per evitare ciò, si crearono i guidaruote nei durissimi basoli di basalto tagliati a ottagono irregolare, trasformando il carro in un antesignano veicolo su rotaia. Che poi questa non fosse rilevata sulla strada ma incisa costituisce una mera variante tecnica: del resto nei primi veicoli su rotaia del XIX secolo, la ruota era priva del bordino, per cui girava all’esterno del gambo della rotaia, esattamente come avveniva per quelle dei carri romani. Col tempo i solchi guidaruote nei punti a fortissima sollecitazione laterale, cioè dove la direttrice di marcia doveva necessariamente deviare dalla linea retta come in prossimità dei grandi massi degli attraversamenti pedonali, vennero deformati. L’attrito laterale dei cerchioni, tritando il basalto, finí per allargarli e spianarli progressivamente in maniera vistosa. Sciatti lavori di manutenzione stradale completarono l’opera, limitandone l’impiego ai soli punti critici, peraltro con estrema approssimazione e rozzezza. Si originò, cosí, la diffusa convinzione che fossero le tracce lasciate dalle ruote a causa dell’intenso traffico. Qualcosa di simile in definitiva a quanto avviene con il fango: l’eccezionale durezza del basalto vesuviano smentisce, però, questa semplicistica conclusione!
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| Si alzi il sipario! | Tra i motori primari vanno ricordati anche quelli a gravità, il piú semplice dei quali è un secchio che, scendendo nel pozzo, trascina la corda e fa girare al contrario il verricello. Ne esistevano di molto grandi, la cui potenza dipendeva dalla massa del contrappeso, come i montacarichi del Colosseo utilizzati per far salire le bestie fino all’arena. Di gran lunga piú modesti erano i motori a gravità adottati per issare o ammainare la tenda del sipario: nei teatri romani, infatti, il sipario non poteva fuoriuscire dalle quinte, né calare dall’alto, per via della diversa architettura della scena. Veniva perciò fatto sollevare da un apposito solco longitudinale praticato immediatamente davanti al palco, nel quale rimaneva ripiegato durante la rappresentazione. Nello stesso alloggiamento stavano collocati, a intervalli regolari, anche gli elementi telescopici che ne determinavano il sollevamento. Questi, realizzati interamente in legno, erano costituiti da un astuccio esterno e un murale interno: agendo su corde, venivano fatti innalzare, allo stesso modo di un’odierna antenna a stilo. A determinarne il sollevamento provvedeva una complessa macchina, che, solo in estrema sintesi, si può ridurre a un paranco e a un contrappeso di pani di piombo. Dato che il sipario, con la relativa trave orizzontale di sostegno, pesava oltre una decina di quintali, il contrappeso doveva pesarne ancora di piú. Ingegnosamente, però, era stato suddiviso in due parti, che, prese singolarmente, pesavano meno del sipario: quando connesse, invece, poiché pesavano di piú, abbassandosi lo sollevavano. Per la manovra opposta bastava separarle, per cui il peso del sipario tornava a prevalere e si rialzava. Il moto, pertanto avveniva sempre in maniera uniforme e precisa e i serventi si limitavano, in pratica, solo a sollevare con il paranco una sola metà del contrappeso.
Il criterio informatore dei guidaruote già all’epoca non costituiva, in assoluto, una grande novità, poiché a Malta, per esempio, vi è una vasta rete di solchi del genere, che si sviluppa per alcune centinaia di chilometri. Piú rozzi certamente, ma persino piú articolati e dotati di incroci e scambi, quei solchi sono datati alla metà del II millennio a.C. e vanno probabilmente messi in relazione al trasporto dei grandi blocchi di pietra utilizzati nella realizzazione degli spettacolari complessi megalitici dell’isola. In epoca posteriore analoghi solchi ritrovati in Grecia
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Ricostruzione virtuale di un sipario romano. Data l’assenza di quinte o altre strutture che permettessero di calarlo dall’alto, esso veniva sollevato da un solco longitudinale posto immediatamente davanti al palco.
sembrano costituire l’indispensabile complemento dei sistemi escogitati dagli architetti Eleusi, Chersifrone e Mutagene, intorno al VI secolo a.C., per la movimentazione dei mastodontici monoliti necessari all’edificazione dei templi. Con calzanti definizioni si distinguono in «imballaggi ruotati» e in «assali posticci»: fermo restando che per non affondare nel terreno le loro enormi ruote richiedevano apposite piste lapidee.
Misure a norma di legge Affinché l’adozione dei guidaruote urbani da parte dei Romani si dimostrasse efficace, è necessario supporre una rigida standardizzazione della distanza fra le ruote di uno stesso asse. In pratica un’ordinanza autorevole, forse una apposita norma di legge, che facesse obbligo ai carradori di adottare come sua unica misura quella appena superiore, due o tre dita al massimo, della distanza fra i lembi interni delle due opposte rotaie. Una dimensione definita attualmente «scartamento» e che, grazie all’ottimo stato di conservazione di alcuni segmenti di Pompei di discreta lunghezza, è possibile misurare con grande precisione, e stabilire che oscillava tra 1440 e 1450 mm. Tale valore induce a ritenere che la suddetta distanza canonica fra le opposte ruote di un asse fosse all’incirca di 1480 mm, verosimilmente equivalente al singolo passo romano, pari a 1482 mm, ovvero cinque piedi di 296,4 mm. Attualmente i tramvai che sferragliano nelle maggiori città, i convogli ferroviari che le collegano e persino i treni ad alta velocità che sfrecciano a oltre 300 km/h, corrono su rotaie distanti fra loro 1435 mm, praticamente lo stesso scartamento dell’età imperiale! E continuano a farlo tenendo sempre la sinistra, come all’epoca, per evitare che la frusta del carrettiere potesse colpire accidentalmente il pedone, in transito sulla banchina di destra!
teutoburgo, una nuova catapulta F
orse fu un caso, forse qualcosa di piú, poiché, anche ai Romani, non sfuggivano le ricorrenze simboliche: esattamente cento anni dopo la disfatta di Teutoburgo, si progettò il monumento celebrativo piú vistoso della pur sterminata produzione imperiale, la Colonna
Traiana. A essere esaltati sono l’esercito e il suo capo supremo: lungo le sue spire si avvicendano 150 «inquadrature», inerenti agli episodi salienti della guerra, sfondo adeguato per l’enfatizzazione delle piú avanzate capacità tecnico-scientifico-militari di una civiltà
In alto una delle scene della Colonna Traiana in cui compare un ordigno identificabile con un congegno propulsore per catapulte. Disegno tratto da un codice cinquecentesco conservato presso l’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma. In basso i resti del propulsore della catapulta di Ampurias (II sec. a.C.), e, a sinistra, la sua ricostruzione: da notare l’assenza di qualsiasi schermatura dinanzi alle matasse, che rendeva queste ultime praticamente inutilizzabili in caso di pioggia.
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TERRA
battaglia per il trono A destra piastra frontale del propulsore per catapulta della IV Legione Macedonica, da Cremona. I sec. d.C. Il reperto fu trovato alla fine dell’Ottocento nell’area in cui, secondo Tacito, ebbe luogo la battaglia combattuta nel territorio della città lombarda nel 69 d.C., fra Vitellio e Vespasiano, per la successione al trono imperiale. In basso ricostruzione del propulsore (capitulum) per catapulta della IV Legione Macedonica. Rispetto ai precedenti, il congegno adotta la piastra frontale, che protegge, sia pure parzialmente, le matasse nervine, attenuando il problema della loro esposizione all’acqua.
Gomito della matassa nervina Fusto con pista a coda di rondine Traversa superiore del propulsore
Piastra di blindatura laterale
Slitta corrente nel fusto Piastra di blindatura frontale
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superiore, secondo i suggerimenti che poco prima Plinio il Giovane aveva riportato in una sua lettera (VIII, 4,2).
Quasi come un reportage Fra quei tanti «fotogrammi», ne spiccano una decina, che hanno per soggetto un tipo di armamento balistico fino ad allora ignoto, o non divulgato cosí platealmente, destinato ad avere, da quel momento in poi, un ruolo basilare nell’esercito romano. Si tratta di pezzi di artiglieria lanciadardi, all’epoca catapulte, riprodotti in tutti i diversi allestimenti: da fortezza, campale, ippotrainato leggero e ippotrainato pesante. Si tratta di una prassi innovativa, che sembra voler ribadire la ritrovata superiorità nel campo degli armamenti piú avanzati e, piú in generale, nell’intero comparto delle infrastrutture di supporto tattico, ottenuta con l’apporto dei massimi scienziati, fra i quali Erone di Alessandria (matematico, fisico e ingegnere greco, attivo intorno al II secolo d.C.). La singolarità di quelle artiglierie, la vera nota distintiva rispetto alle precedenti, e di cui l’archeologia ci ha restituito alcuni resti dei congegni propulsori, sono i vistosi cilindri di protezione applicati alle loro matasse elastiche. L’adozione sembra, per molti aspetti, la fase conclusiva di una evoluzione tecnica già ravvisabile, oltre mezzo secolo prima, nei resti di una catapulta della IV Legione Macedonica, rinvenuti a Cremona. A differenza dei propulsori piú antichi, infatti, in questo esemplare compare una protezione frontale posta dinanzi alle due matasse, in modo da ripararle dai frequenti scrosci d’acqua battente, piuttosto che da improbabili offese nemiche. La spiegazione va ricondotta alla igroscopicità delle fibre nervine, che, se esposte alla pioggia, perdevano del tutto la loro elasticità, privando l’arma della necessaria energia, come avverrà con le artiglierie a fuoco quando si bagnava la polvere pirica!
Adatti alla guerriglia Anche i pezzi in allestimento ippotrainato sembrano rispondere a un’esigenza fino ad allora inevasa, palesatasi nei combattimenti
non convenzionali – leggasi guerriglia –, i cui fautori erano proprio i barbari in genere e i Germani in particolare. In breve, si tratta di catapulte identiche alle precedenti, ma montate su di un sottaffusto a ruote trainato da una pariglia di muli o di cavalli, pronte a entrare in azione in qualsiasi momento, persino durante il trasporto, fornendo cosí una protezione tattica alle colonne in marcia. In una scena, infatti, si scorgono due legionari, nella fattispecie serventi al pezzo, intenti a porlo in punteria senza staccarne gli animali. Al riguardo, va precisato che, al di là della micidiale potenza di queste armi, ciò che piú terrorizzava i barbari era il non comprenderne il funzionamento, per cui vedersi cadere a fianco il commilitone con la corazza trapassata da parte a parte, nel piú assoluto silenzio, e senza neppure riuscire a scorgere chi lo aveva colpito, eccedeva il loro abituale coraggio. Considerando che per i tre secoli precedenti, cioè sin quasi dall’invenzione dell’artiglieria elastica, non si dispone neppure di una sola immagine, tanta improvvisa e vistosa ridondanza di raffigurazioni non può ascriversi a un’improbabile resipiscenza o inversione di tendenza. Piú logico, semmai, attribuirla a un preciso disegno, al quale, del resto, l’intera Colonna appare subordinata. Il ribadire l’impiego, in ogni circostanza e in qualsiasi istante, di quelle artiglierie di nuova concezione, sia sotto la pioggia che lungo le marce, ignorando completamente le baliste, che pure dovettero svolgere ruoli basilari nei numerosi assedi delle guerre daciche, sembra la risposta a una richiesta assillante, da tempo inevasa. E, forse, proprio nel centenario di Teutoburgo è sottintesa quella domanda. Tutte le fonti militari romane ci tramandano i grandi rischi connessi con le fasi di trasferimento dei grandi eserciti legionari, crescenti col crescere dell’organico: manovra sempre paventata, soprattutto quando compiuta in territorio nemico e in stretti passaggi. L’agguato delle Forche Caudine del 321 a.C. fu l’incubo di tutti i duci romani e, per molti aspetti, quello di Teutoburgo lo rievoca. Non mancava, per tale evenienza, una precisa procedura: nel 57 a.C. Giulio Cesare collocò la
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TERRA
LA CATAPULTA Guance in ferro del verricello
DI TRAIANO In questa pagina ricostruzione virtuale della catapulta da fortezza di Traiano: sono ben evidenti i cilindri di protezione delle matasse. Nella pagina accanto ricostruzione virtuale del nuovo propulsore per catapulta da fortezza di Traiano: da notare la struttura in ferro del capitulum; il movimento inverso dei bracci di 160° invece dei soliti 50° – definito palintone – capace perciò di imprimere maggiori energie cinetiche di lancio; e, soprattutto, i cilindri contenitori per le matasse per renderle insensibili alla pioggia.
Fusto della catapulta
Corda arciera Cilindro contenitore
Controvento affusto
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Cuspide conica del cilindro di protezione
Parete del cilindro con fori per i bracci
Ghiera di innesto
Barra d’accoppiamento superiore arcuata Staffa per incastro con il fusto Barra d’accoppiamento inferiore duplicata
cavalleria, gli arcieri e i frombolieri ausiliari in testa alla colonna, contando sul veloce movimento e sulle armi a lunga gittata per spezzare un improvviso assalto nemico, consentendo cosí alle legioni di assumere lo schieramento di combattimento.
Due indizi fanno una prova La stessa disposizione fu adottata, nel 70, pure da Tito in Samaria, con le forze ausiliarie in testa, seguite dai genieri per l’ottimizzazione della pista e poi dal grosso delle legioni. Intervento, quest’ultimo, basilare per adeguare al transito dei carri la pista, diversa dalle strade specialmente in autunno, rimuovendone le ceppaie e le pietre piú grandi e consolidandone, per quanto possibile, il fondo. Due esempi distanziati tra loro di oltre un secolo, sono una ragione sufficiente per presumere che anche Varo non dovette discostarsi da questo circospetto dispositivo, quale che fosse la sua competenza militare: qualcosa, però, mutò la marcia in ecatombe. Lo sfilamento di tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX, con le relative salmerie, armamenti e dotazioni,
Rivestimento in ferro del braccio
Braccio in legno con incavo per l’anima
Modiolo di bronzo per precarica matasse
Anima registrabile in ferro del braccio
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TERRA
SEMPRE PRONTO AL TIRO Due ricostruzioni virtuali delle catapulte ippotrainate di Traiano su affusti in allestimento leggero (in basso) e pesante (a destra): il secondo, oltre alla funzione di piattaforma, svolgeva anche quella di deposito munizioni e pezzi di rispetto per una batteria di quattro pezzi. Per entrambi, si deve supporre l’adozione di una pariglia di cavalli o di muli. Va osservato che la collocazione della catapulta sui carriaggi era tale da consentire il tiro in qualsiasi momento, persino in moto, e in qualsiasi direzione, con un brandeggio di 360°.
fusto della catapulta barra d’accoppiamento arcuata
piattaforma ruotata
anelli di traino ausiliario
cerchione in ferro applicato a caldo
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cerchio in legno segmentato
nonché con alcuni reparti ausiliari e molti civili al seguito, fra cui donne e bambini, per un totale non lontano dalle 30 000 unità, era già di per sé abnorme. Quello avviatosi agli inizi di settembre, sebbene impostato su sei file, si presentava come un mostruoso serpentone d’una trentina di km, d’improba protezione anche su strada, in estate e senza alcun nemico. Per farsene una pallida idea, basti pensare che soltanto i carri destinati al trasporto delle tende di una sola legione ammontavano a una cinquantina, e a essi si dovevano aggiungere quelli delle salmerie, di numero maggiore, occorrendo per una sola settimana circa 700 q di grano e 40 di foraggio, oltre ancora a vari generi alimentari! Ma vi erano altri carri ancora per le attrezzature, per gli armamenti collettivi, per le dotazioni, che fanno immaginare un totale – e sempre per legione – intorno ai 150, carriaggi non a caso definiti impedimenta.
Uomini e animali ridotti allo stremo I cerchioni di ferro delle ruote romane erano relativamente stretti e, se nella buona stagione riuscivano ad avanzare sul terreno saldo sollevando solo nugoli di polvere, nella cattiva affondavano penosamente nel fango, obbligando uomini e animali a fatiche erculee e incessanti per avanzamenti insignificanti. E quando, nella fosca giornata del 9 settembre, l’interminabile convoglio fu ben addentro alla foresta, lungo una traccia stretta tra una formazione montuosa a destra e una palude a sinistra, si scatenò una pioggia torrenziale, non rara in quei paraggi e in quella stagione. La terra a malapena disboscata, impregnata d’acqua cedeva sotto le ruote dei carri che sprofondavano; il boato continuo dei tuoni, la semioscurità del bosco, accresciuta dalle spesse nuvole e dalla pioggia battente, impedivano di scorgere alcunché a pochi passi di distanza e di percepire qualsiasi rumore, o silenzio, sospetto. Grida di conduttori, nitriti di cavalli, strepito di ordini, a cui all’improvviso si sovrapposero le urla dei Germani e dei civili
atterriti. In testa, gli arcieri e i frombolieri videro con raccapriccio che gli archi e le fionde ammollati dalla pioggia erano inservibili, come del resto anche l’artiglieria leggera, con le sue matasse inzuppate d’acqua: la difesa a distanza cessò del tutto, mentre quella della cavalleria non si spiegò neppure, affondando le zampe degli animali nel fango. Ma il peggio fu che gli scudi, tre strati sovrapposti di legname e pelle, presero rapidamente a scollarsi, lasciando inermi i legionari ormai aggrediti da un nemico sfuggente.
La notte impone la sosta Coi carri inchiodati nella melma, le armi inutilizzabili e l’oscurità crescente, la scena assunse connotazioni infernali: il peggior nemico dopo la pioggia e le tenebre fu la dimensione stessa della colonna, frammentata in piú segmenti impossibilitati a reagire in modo adeguato per l’angustia dei luoghi. Nella notte, si tentò di allestire il classico campo di tappa, e qualcosa dovette essere fatto, nonostante tutto, magari usando anche i carri come protezione aggiuntiva: ma senza le artiglierie, che ne sancivano il rispetto, era solo un misero recinto di fango! Al mattino, la situazione apparve in tutta la sua terribile gravità, mentre la pioggia continuava implacabile a cadere torrenziale. Bruciati i carri per accelerare la fuoriuscita dalla foresta, si adottò un minimo ordine di battaglia, subito contrastato e compromesso dalla marea montante dei barbari. Lo scoraggiamento e la spossatezza accentuarono la strage: molti legionari stremati furono catturati, torturati e uccisi, accrescendo con le loro urla strazianti il terrore complessivo di quella seconda notte. All’indomani, quanti erano ancora in grado di farlo, tentarono di aprirsi un varco: i piú finirono annegati nelle paludi o trucidati dai Germani, alcuni si suicidarono, pochissimi scamparono al massacro. La terribile lezione sull’inadeguatezza delle armi e dei mezzi, negli anni seguenti, fu costantemente affrontata e progressivamente risolta, restituendo all’esercito la sua piena capacità operativa, in ogni luogo e in ogni contesto: fu questo forse il messaggio della Colonna Traiana.
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TERRA
U
l’onagro
n oggetto lanciato verticalmente perde rapidamente di velocità, per l’attrazione di gravità, fino a fermarsi per poi ricadere, accelerando progressivamente per la medesima attrazione. Per la fisica, al momento dell’impatto sulla terra, dovrebbe avere la stessa velocità di quando la ha lasciata, senza però tener conto della resistenza dell’aria. Questa, tuttavia, per oggetti piccoli e pesanti, può, in prima approssimazione, essere trascurata, per cui la violenza degli impatti da ricaduta non è irrilevante, né la velocità notevolmente inferiore a quella di partenza. Descrivendo le artiglierie elastiche d’età classica, se ne è spesso ricordato il tiro utile, cioè non la distanza massima alla quale riuscivano a scagliare i loro proietti, ma quella oltre la quale gli impatti non producevano piú alcun effetto. In pratica, il limite superato il quale l’energia cinetica residua dei proietti, tendendo rapidamente a zero, non avrebbe inferto danni: un dardo non avrebbe trapassato una tunica e una palla non avrebbe tranciato una canna. Disporre di un’arma capace di tirare con un notevole angolo di alzo, faceva sí che tanto piú in alto fosse riuscita a far ascendere il suo proietto, tanto piú violentemente lo avrebbe fatto impattare sul bersaglio, a scapito però della gittata. Una modalità di tiro, quindi, idonea a battere
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bersagli al di là delle mura, in particolare abitazioni, come avverrà, a distanza di millenni, con i bombardamenti aerei. Considerando, poi, che le case, pur avendo solide mura verticali, erano coperte da leggeri impalcati lignei, una palla che vi piombava dall’alto li trapassava come fogli di carta, appiccandovi subito il fuoco se incendiaria. In estrema sintesi un’arma «terroristica», non essendo finalizzata a sopprimere fisicamente i difensori, ma ad abbatterli psicologicamente, massacrandone i congiunti, nonostante il loro eroico prodigarsi sulle mura.
Lo spavento induce alla resa Scriveva al riguardo il celebre trattatista seicentesco Pietro Sardi che «questa macchina di Onagro, tirando essa pietre cosí pesanti sopra i tetti delle case della Città o Fortezza facendogli sfondare, con l’ammazzare quegli che dentro si trovavano, donde impauriti erano forzati ad arrendersi». Di un’arma del genere si trova menzione già nel III secolo a.C., nella Sintassi Meccanica di Filone di Bisanzio (lib. V § 91) con la denominazione di monoancon, cioè un’artiglieria con un solo grande braccio, invece dei soliti piccoli due, con la precisazione che scagliava pietre di circa 26-32 kg. In seguito, di tale macchina si rintracciano solo
L’assedio di Alesia. Olio su tela di Henri-Paul Motte (1846-1922). Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier. Nel dipinto sono raffigurate le macchine da guerra realizzate da Cesare per la campagna del 52 a.C., combattuta contro i Galli di Vercingetorige. Al centro, all’interno della torre, alcuni legionari armano un onagro.
confusi riferimenti fino alla metà del IV secolo, quando Ammiano Marcellino la descrisse dettagliatamente, attribuendole il nome di «onagro» (il termine deriva dal latino onagrus, che, a sua volta, è l’adattamento del greco ónagros, da ónos, asino+ agrós, campo; oggi, in ambito zoologico, indica una sottospecie dell’emione, un asino selvatico presente in una ristretta zona dell’Asia al confine tra Afghanistan, Iran e Turkmenistan e ormai rarissimo, n.d.r.). Dedurre da quel lungo silenzio la perdita dell’arma è azzardato, poiché vige nell’ambito delle artiglierie un’ampia approssimazione denominativa: all’interno di Pompei, per esempio, sono state rinvenute numerose palle, notevolmente piú grandi di tutti i numerosi fori da impatto impressi sulle mura dai tiri delle baliste, lasciando propendere che fossero quelle scagliate nella città dagli onagri di Silla durante l’assedio dell’89 a.C.
Legno di quercia o di leccio Questa la citazione esegetica della sua esposizione: «Lo scorpione che ora chiamano onagro, possiede la seguente configurazione. Due travi di legno di quercia, o in alternativa di leccio, vengono sagomati in maniera tale da sembrare sollevarsi con una lieve gobba; quindi vengono congiunti nella stessa maniera dell’attrezzo per segare e, praticati dei larghi fori in entrambe le travi, al loro interno vi si fanno passare delle robuste funi che raccordano la macchina e le impediscono di rompersi». Stretta appare la somiglianza fra il telaio dell’onagro e la sega da falegname, forse la sua probabile ispiratrice, ma per noi è ancora piú somigliante, fatte le debite proporzioni, a una trappola a scatto per topi, dove al posto della matassa vi è la molla elicoidale: «Dal centro di
Fori da impatti balistici sull’estradosso delle mura settentrionali di Pompei. Il loro diametro è di molto inferiore a quello delle palle rinvenute nell’abitato (vedi foto in basso).
queste [funi] si innalza obliquamente un braccio di legno, dritto come un timone di carro, cosí avvinto nella matassa di nervi da riuscire possibile sollevarlo o abbassarlo; alla sua estremità superiore sono fissati dei ganci di ferro, dai quali pende una fionda di corda o di ferro. Dalla parte opposta del braccio di legno viene collocato un grosso sacco realizzato con ruvidi tessuti caprini, imbottendolo di paglia sminuzzata, e quindi legato con forti nodi è posto [insieme all’arma] sopra un rialzo di zolle o su di un cumulo di mattoni. Infatti una tale massa posizionata sopra un muro compatto di pietre lo sconnette rapidamente e non per il suo peso ma per i suoi scuotimenti». Le sollecitazioni derivanti dalla reazione della macchina, risultavano tanto poderose da richiedere una sottostante apposita piazzola di manovra: «Ingaggiato il combattimento, nella fionda è collocata una pietra sferica; quattro robusti giovani, disposti da entrambi i lati, fanno ruotare in senso inverso l’albero al quale sono fissate le funi che a loro volta trascinano all’indietro il braccio, fino a un
A destra e in basso palle di pietra rinvenute nell’abitato di Pompei.
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TERRA
una macchina micidiale
In alto antica sega a telaio, attrezzo che presenta una singolare somiglianza con il telaio dell’onagro. A destra ricostruzione virtuale dell’onagro.
un telaio munito di rotelle ferrate per gli spostamenti non viene mai menzionato esplicitamente dalle fonti, ma appare estremamente plausibile che gli onagri di maggiore dimensione ne disponessero, non fosse altro che per agevolare la punteria. l’onagro montava un’unica matassa elastica di notevole grandezza. Per determinarne il diametro si deve supporre che si applicasse la medesima formula usata per dimensionare quello della coppia di matasse delle baliste, raddoppiandone il risultato.
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uno spesso cuscino di cuoio, riempito di paglia, fungeva da ammortizzatore-fine corsa per il braccio dell’onagro, evitandogli di danneggiarsi rapidamente.
la palla era collocata in una grande fionda, sospesa a tre catene, due delle quali fissate al braccio. La terza, invece, era trattenuta solo da un suo perno, per cui, durante il lancio, per effetto della centrifuga si sganciava liberando la palla.
In alto ricostruzione virtuale del paranco dell’onagro scomposto in tutti suoi elementi, compresi la chiave di precaricamento della grande matassa e la leva di ferro utilizzata per il caricamento. Sono raffigurati anche i due assali delle rotelle.
assetto quasi orizzontale. A questo punto il direttore del tiro, dall’alto della sua posizione, agendo sulla maniglia che vincola l’intera arma, la sblocca con un forte colpo di mazzola: il braccio liberato dal ritegno scatta e dopo aver scagliato il sasso che fracasserà qualsiasi ostacolo, percuote il soffice sacco di tessuto caprino».
Otto uomini per il caricamento
la doppia corda di caricamento del paranco, era vincolata superiormente a una piastra che conteneva il congegno di sgancio, simile a quello delle altre artiglierie, e, inferiormente, si avvolgeva su di un grosso cilindro di legno, in pochissime spire.
Risulta chiara la sequenza descritta: per la manovra di un solo onagro occorrevano ben nove serventi, otto dei quali per il caricamento! Come fosse il dispositivo meccanico utilizzato è possibile desumerlo da una coppia di reperti ritrovati a Pompei: forse facevano parte di una poderosa gru o forse di un’arma del genere, di certo, però, potevano fornire trazioni possenti, grazie ai fori ferrati, sfalsati di 90°, e all’ausilio di lunghe spranghe. «Ed è anche chiamato tormento poiché ogni sua prestazione avviene tramite la torsione; ma è chiamato pure scorpione perché nella parte posteriore ostenta una sorta di aculeo eretto; di recente, però, ha ricevuto il
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soprannome di onagro, o asino selvatico, perché quell’animale quando incalzato dai cacciatori scaglia sassi scalciando all’indietro, in maniera tanto violenta da fratturare persino il cranio e le ossa degli inseguitori». Ed esattamente come con gli asini selvatici, sostare incautamente dietro un onagro poteva risultare fatale. Guai a dimenticare la loro violenta reazione posteriore! Lo stesso Ammiano tramanda un grave incidente verificatosi per una distrazione del genere. Scriveva, infatti, che «un architetto, appartenente al nostro esercito (…) mentre se ne stava dietro la macchina (…) fu gettato a terra con il petto schiacciato da una pietra che l’addetto, esitando, aveva collocato sulla sua fionda». Né bastava la semplice attenzione, poiché per la direzione del tiro, forse perché fortemente parabolico e non valutabile a vista, occorreva una rilevante competenza, tanto che proprio in tale attività debuttò il titolo di dottore, per l’esattezza doctor balistarum!
Una struttura elementare Se l’impiego dell’onagro risultava complesso, la costruzione e la messa a punto, invece, erano piú semplici di quelle di una tradizionale balista: un elementare telaio rettangolare, un’unica matassa che non richiedeva registrazioni, e un grosso paranco in coda.
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A sinistra elemento di paranco trovato a Pompei e rimontato su di un ceppo di legno: i fori delle bandelle di ferro, nei quali agiva la leva di caricamento, sono volutamente sfalsati per evitare di indebolire il legno. Il paranco dell’onagro montava due elementi del genere, disposti all’estremità di un tamburo di legno sul quale si avvolgeva la corda.
Qui sopra un altro elemento di paranco da Pompei. Si tratta, probabilmente, del corrispondente del precedente, avendo il medesimo diametro e l’identica struttura: da notare, però, che i fori sulle bandelle si trovano tutti dalla stessa parte, forse per un errore nella fase di restauro o di riutilizzo.
Quanto alle dimensioni, è logico supporre che derivassero dalle stesse regole modulari, per cui, stabilito il peso in dracme – P – del proietto che si intendeva scagliare, gli si relazionava il diametro in dita – D – della matassa necessaria, secondo la formula D=1,1x³√P. Gli ancoraggi della stessa non differiscono, se non per la maggiore grandezza, da quelli delle baliste. Si trattava perciò anche in questo caso di modioli e di piste di rotolamento, con fori per il bloccaggio a precarica completata. Identico è anche il congegno di sgancio. Inedita è invece la fionda, che si ritroverà immutata nei «trabocchi», un vero dispositivo automatico di sgancio ottenuto vincolandola all’estremità del braccio con tre catene, due fissate stabilmente, la terza solo con un gancio. Quando il braccio, trascinato dalla matassa, ruotava fulmineamente, a sua volta trascinava le tre catene che si proiettavano, per reazione centrifuga, come una enorme frustata. In prossimità dei 45° il gancio si liberava e la catena si staccava aprendo la fionda. La palla, non piú costretta, proseguiva la sua parabola verso il bersaglio che, considerando la direttrice, la portava a raggiungere un’altezza di un centinaio di metri, quota dalla quale iniziava la ricaduta. Anche il braccio proseguiva la sua rotazione, abbattendosi, dopo aver descritto un settore di circa 120°, su di un saccone di cuoio, riempito di paglia. Per reazione allora l’intera macchina sobbalzava, sollevando la sua parte posteriore. La mole e il conseguente peso dell’onagro ponevano seri problemi di trasporto: lo stesso Ammiano, per esperienza personale, ne testimonia l’enorme difficoltà, e non sappiamo se i Romani lo munirono mai di ruote. Dagli esperimenti eseguiti con ricostruzioni accurate si è osservare che palle di pietra di 5 kg coprivano distanze anche superiori ai 400 m, lasciando motivatamente concludere che artiglierie siffatte, opportunamente dimensionate, potessero scagliare, a brevi distanze, palle enormi con effetti distruttivi micidiali, simili a quelli del mortaio.
la cheiroballistra L
o scienziato greco Erone di Alessandria descrisse un’eclissi lunare, la cui cronologia è stata fissata al marzo del 62 d.C.: se ne può perciò dedurre che il grande matematico e ingegnere fosse vissuto – almeno in parte – nel corso del I secolo. Del resto, le artiglierie da lui ideate presentano differenze sostanziali rispetto a quelle di Vitruvio, che non giustificherebbero il silenzio del loquace autore, se fosse stato posteriore. È perciò lecito reputarlo l’ultimo perfezionatore delle baliste e delle catapulte, ideatore e costruttore di una tipologia intermedia, quasi interamente in ferro, che adottava il movimento palintone delle grandi baliste sulle piú piccole catapulte, trasformandole cosí in una sorta di balista manesca, in latino manuballista, cheiroballistra in greco. (segue a p. 54)
In alto e a destra i grafici originali del Codex Parisinus Inter Supplementa Graeca 607: dal punto di vista tecnico, si tratta dei primi disegni in assonometria esplosa, con pedante proposizione di ogni singolo componente, anche quando simile agli altri analoghi. La colorazione non ha alcun significato tecnico e va attribuita all’estro dei copisti. Va ancora osservato che la rappresentazione delle parti in legno è meno puntuale di quelle in metallo, forse perché piú note e tradizionali.
le sole parti in legno residue della cheiroballistra, furono il fusto, con il sottostante bipede, e la slitta che in esso scorreva grazie a un incastro longitudinale a coda di rondine. A destra del fusto, una della due cremagliere, a denti di sega, per il bloccaggio di sicurezza della slitta.
la cheiroballistra di Erone fu la prima artiglieria elastica individuale a montare un gruppo motopropulsore interamente metallico, con le componenti statiche in ferro e le rotanti in bronzo. Il movimento adottato per i bracci è di tipo palintone, fino ad allora precipuo delle piú potenti baliste.
In questa ricostruzione della cheiroballistra una delle due matasse elastiche non è stata raffigurata per meglio evidenziare l’assemblaggio dei suoi supporti, detti kambestrion, con le barre d’accoppiamento superiore arcuata, detta kamarion, e quella inferiore binata, detta kamakion. La scelta di unire quei vari pezzi con incastri e non con saldature, lascia intuire l’esigenza di poterli facilmente smontare, sia per sostituirli se danneggiati, sia per custodirli se inoperosi.
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TERRA
la torsione e poi Dall’alto in basso modiolo superiore di una matassa elastica; anello piano ad H, fungente da cuscinetto interposto fra il disco e il modiolo per la sua eventuale rotazione di precarica; disco superiore di un kambestrion, con l’alloggio laterale per il fermo dell’anello.
Ricostruzione virtuale di un kambestrion, privato del disco superiore per meglio evidenziarne le due coppie di staffe, applicate sui suoi montanti, le piú piccole per la barra superiore arcuata e le piú grandi per le barre inferiori binate.
In basso la parte inferiore dell’anello cuscinetto, col dente interno di fermo sul disco del kambestrion e gli otto fori per il bloccaggio del modiolo.
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Ricostruzione virtuale di una matassa elastica, completa di modioli e bracci, inserita in un kambestrion, e innestata alla barra d’accoppiamento binata inferiore. A mantenere l’insieme coeso provvedeva la forte trazione esercitata dalla corda arciera, per cui non occorrevano cunei di bloccaggio negli innesti.
lo scatto
Ricostruzione virtuale del congegno di scatto, con tutte le sue componenti esplose: ben evidenti i lunghi perni di fissaggio, posteriormente per la maniglia di caricamento e anteriormente per la forcella dell’arpione. Indipendente, forse perché scarsamente sollecitato, quello della leva rotante di sgancio.
Nella parte posteriore del fusto, come nelle tradizionali catapulte, stava alloggiato il verricello di caricamento, reso oltremodo indispensabile dalle accresciute potenze in gioco, per la configurazione palintona dell’arma. La presenza di una sorta di falce di luna in coda deve ricondursi all’esigenza di una punteria piú precisa, indispensabile per la grande gittata della cheiroballistra.
Il caricamento era ottenuto agendo su di una coppia di ruote a quattro raggi, con tamburo centrale, fungenti da verricello. Il bloccaggio di sicurezza era garantito da due cremagliere laterali a dente di sega.
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TERRA
dall’antica lugdunum A destra il kambestrion rinvenuto a Lione (antica Lugdunum) nel 1857, realizzato interamente in ferro battuto, peraltro in modo molto rozzo. Anche il relativo modiolo è in ferro battuto, e di scarsa precisione, dettaglio che testimonia la grande tolleranza dell’arma persino alle piú approssimate costruzioni.
A sinistra ricostruzione virtuale della barra di accoppiamento superiore arcuata e inferiore binata. Le lunette, fissate al di sotto di queste ultime, non svolgono alcuna funzione di rinforzo meccanico, ma probabilmente proteggevano la parte inferiore delle matasse dallo strofinio sul terreno.
Non si trattò di una modifica meramente materiale, in quanto l’ampliamento del settore di rotazione dei bracci – che, grazie a quella innovazione, passò dai tradizionali 50° ai circa 150° – consentí quasi di ottenere il raddoppio della gittata utile. Quest’ultima arrivò a superare i 400 m, e, al contempo, si ebbe una sensibile riduzione degli ingombri e del peso dell’arma, che divenne perciò realmente campale e individuale.
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Fra le opere pervenuteci di Erone, vi è anche un breve trattato sulla cheiroballistra, che si conserva in quattro esemplari, il piú noto dei quali è il Codex Parisinus Inter Supplementa Graeca 607, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, che contiene anche alcune raffigurazioni delle componenti dell’arma. Si tratta delle prime rappresentazioni in assonometria esplosa, cioè realizzate con una tecnica simile a quella che oggi si usa, per
esempio, per illustrare il montaggio di un mobile o di un giocattolo. Inoltre, ancora per la prima volta, compaiono indicazioni dimensionali relative a unità di misura precise e non a un modulo arbitrario, il diametro della matassa elastica, come fino ad allora sistematicamente praticato.
Indicazioni precise e dettagliate Il testo, redatto in greco ed estremamente dettagliato, si apre con la costruzione dei due regoli che formano il fusto, le sole componenti in legno dell’arma, il maggiore fisso e il minore scorrevole su di esso, mediante un incastro longitudinale a coda di rondine. Due sono gli incavi nel lato inferiore del primo, in corrispondenza delle sue estremità anteriore e posteriore, destinati, rispettivamente, a rendere complanare il dorso del regolo mobile col piano di rotazione dei bracci – per evitare deleteri strofinii della corda –, e a un bipede ripiegabile, affine a quello dei fucili mitragliatori, dal momento che non sarebbe stato possibile mantenere a lungo in punteria un’arma, sí individuale, ma che pesava una ventina di kg! La vistosa differenza di larghezza fra i regoli, lascerebbe ipotizzare due cremagliere a denti di sega per l’arresto di sicurezza del mobile, poste lungo i lati del fisso, poiché non è descritto, né compare sui grafici, alcun freno ad arpionismo. Sul regolo fisso era anche applicato, in coda, un elemento detto «a luna crescente», che quasi certamente doveva fungere da calciolo anatomico da spalla. Tirare con precisione, infatti, con un’arma elastica, ne richiedeva l’assoluta stabilità, per cui, dovendo azionare la leva di sgancio con la mano destra, occorreva tenerla ferma spingendola con la sinistra contro la spalla. A bloccare la corda provvedeva un arpione basculante a due rebbi, pressato sul canale di lancio mediante una sbarretta mobile, incastrata sotto la sua coda e sporgente lateralmente al fusto. Ruotandola con la mano, si liberava l’arpione, che subito si sollevava per la trazione della corda, la quale, liberatasi a sua volta, scagliava il dardo posto sul canale fra i rebbi. In sostanza, un dispositivo simile a una mezza molletta da
bucato. Il congegno, necessariamente robusto, era fissato al regolo mobile con perni passanti che lo attraversavano per il suo intero spessore, mentre un altro perno analogo tratteneva la staffa di ancoraggio della fune di caricamento del verricello. Il testo passa quindi a precisare la costruzione dei supporti per le matasse, detti kambestria: il termine è un’abbreviazione di capitula campestria, cioè motopropulsore campale, per distinguerlo da quelli piú grandi e pesanti, da fortezza. L’approntamento avveniva forgiando preliminarmente quattro piattine in ferro di circa 1,5 cm di spessore, per un paio di larghezza e una trentina di lunghezza, due delle quali sagomate con curvatura centrale. Una dritta e una sagomata, erano saldate a due spessi dischi, quasi circolari, anch’essi in ferro, con un grande foro tondo al centro, formando cosí una solida gabbia con le bucature perfettamente allineate. Sugli estradossi delle piattine, poi, si saldavano due staffe rettangolari, in alto le minori e in basso le maggiori. In esse andavano a inserirsi, rispettivamente, la forcella della barra d’accoppiamento ad arco e le estremità della barra binata di accoppiamento e di fissaggio, del gruppo motore col fusto. La piattina con la curvatura centrale era collocata verso la parte anteriore dell’arma, dovendo evitare che i bracci, tornando con violenza alla posizione di riposo, per la sua configurazione palintona vi sbattessero a causa dell’inevitabile elasticità della corda arciera, danneggiandosi.
Tutti i pezzi del meccanismo Il manoscritto si sofferma sulle prescrizioni per i modioli e i relativi anelli di raccordo con i campestria, tutti in bronzo. Stando a Erone, infatti, tra i dischi in ferro dei campestria e i modioli di bronzo, si dovevano interporre appositi anelli, anch’essi in bronzo e cavi su entrambe le facce, in sezione ad «H», di modo che, al loro interno, alloggiassero da un lato i dischi dei campestria, dall’altro i modioli. Ne suggerisce la realizzazione in bronzo l’indispensabile precisione, che si poteva ottenere soltanto per fusione e successiva
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TERRA
rigida, mantenendole perfettamente parallele fra loro e con le superfici superiori complanari, ma doveva pure assicurare ai supporti a esso saldati per l’innesto con il regolo inferiore, un’assoluta perpendicolarità, esiti che solo l’incastro quadrato garantiva. Quanto ai tiranti, servivano a evitare qualsiasi divaricazione fra le barre, per cui bastavano piccoli tondini ribattuti in fori rotondi, piú facili da eseguire. È inoltre interessante osservare che la larghezza del distanziatore centrale, accresciuta dello spessore dei due supporti verticali di fissaggio al regolo piú lungo, corrisponde alla sua larghezza. I risalti dei supporti, perciò, penetravano interamente nel fusto senza provocare alcun intralcio al movimento della slitta. Non si tratta di una mera coincidenza, ma dell’ennesima conferma di come, nel dimensionamento dell’arma, anche il dettaglio piú insignificante fosse perfettamente definito.
alesatura: si trattava, in pratica, di cuscinetti piani, che avrebbero favorito la rotazione dei modioli al crescere della trazione della matassa, evitandone il grippaggio sulle asperità dei dischi in ferro battuto. Sul collarino dei modioli, inoltre, si creava l’alloggiamento per la barretta di ferro che sorreggeva la matassa elastica.
Massima visibilità per i tiratori Il testo continua con la costruzione del kamarion, vocabolo greco per «volta», la barra a forma di giogo che accoppiava superiormente, mediante innesti a forcella e cunei di bloccaggio, i due campestria. Grazie all’ampia apertura consentitagli dalla forma arcuata, essa non riduceva il campo visivo del tiratore: di elementi del genere, fino a oggi, ne sono stati ritrovati e identificati tre, tutti con una perfetta aderenza ai grafici del trattato. A differenza dei modioli, scomparsi per il recupero del bronzo, le componenti in ferro sono andate distrutte a causa dell’ossidazione, pertanto, in ambo i casi, i reperti sono rarissimi. Oltre al kamarion, a unire fra loro i campestria, fissandoli al fusto, provvedeva una doppia barra inferiore, kamakion, vocabolo greco dal significato di «asta». La descrizione si sofferma, inoltre, sulla struttura a doppia traversa del kamakion, destinata a infilare le sue opposte estremità nelle due staffe piú grandi dei campestria. In particolare, Erone indugia nel descrivere i distanziatori che giuntano saldamente le traverse, prescrivendo fori di fissaggio quadrangolari per quello centrale e rotondi per quelli laterali, definiti «tiranti». Un particolare curioso, infine, si coglie nei grafici a carico del kamakion, senza, però, alcun riscontro nel testo: sotto ogni barra appare un archetto, a essa unito da listelli, destinato forse a proteggerne le matasse quando l’arma era a terra. La pedante prescrizione testimonia la maestria dell’autore: il distanziatore centrale, infatti, non solo doveva accoppiare le due barre in maniera
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Protezioni in caso di pioggia
Tre dei modioli ritrovati a Cremona nel 1887, lungo la via Postumia, e appartenenti a catapulte romane del I sec. d.C., ancora però di tipo tradizionale, come confermò la scudatura frontale, rinvenuta nella stessa circostanza.
Ultimi componenti descritti sono due corpi conici, verosimilmente rivestimenti in lamiera dei bracci, lunghi 20 cm circa: gli stessi potevano perciò roteare in verso contrario senza urtarsi al di sotto della barra ad arco, larga 42 cm circa, possibilità che costituisce una conferma implicita della connotazione palintona dell’arma. Piú complessa, se mai, è la spiegazione della loro struttura telescopica, con anima in quadrello di ferro e bloccaggio ad anello forzato. Appare plausibile attribuirla alla necessità di equiparare i bracci con assoluta precisione in fase di collaudo, dal momento che quando il regolo minore, al termine del caricamento, aveva raggiunto la posizione piú arretrata, la corda doveva trovarsi sul prolungamento dei bracci formando una V, con vertice nell’arpione, una configurazione ottimale per garantire una punteria accurata. Quanto al rivestimento in lamiera di ferro, o di bronzo, esso costituiva la protezione dei bracci di legno, fin troppo vulnerabili: di lí a breve anche per le matasse sarebbe stata escogitata una protezione integrale, affrancandole cosí dall’insidia della pioggia.
la catapulta a ripetizione U
n’arma si definisce automatica quando i processi d’avvicendamento e sparo dei proietti si susseguono, dopo un comando iniziale, in modo autonomo, ricavando l’energia necessaria dallo stesso sparo. In pratica, se tenendo premuto il grilletto il tiro continua ininterrotto sino all’esaurimento delle munizioni nel serbatoio, l’arma è classificata come automatica. Se, invece, occorre premere il grilletto per ogni colpo, pur provvedendo il
In alto Magonza, Museo della Navigazione antica. Ricostruzione di un battello di età romana impiegato come pattugliatore dalle truppe di stanza nei pressi del porto fluviale sul Reno. È legittimo ipotizzare che l’imbarcazione, come suggerito dalla replica, montasse a bordo una catapulta a ripetizione automatica, il cui tiro a ripetizione avrebbe potuto essere sfruttato al meglio, grazie allo spostamento del legno, nei confronti di minacce o assalti provenienti dalle sponde del fiume. A destra ricostruzione di una catapulta a ripetizione, del tipo di quella che si ritiene fosse stata inventata da Dionisio di Alessandria agli inizi del III sec. a.C.
perno di brandeggio intorno al quale ruotava la catapulta a ripetizione, posizionato all’incirca in corrispondenza del suo baricentro, munito di cerniera per la variazione di alzo della stessa. La risultante dei due snodi corrisponde a un giunto universale, definito in seguito «cardanico».
l’estremità dei bracci di tutte le artiglierie elastiche era munita di un ingrosso, o di un gancio di ferro di lunghezza registrabile, per evitare che la corda arciera, a causa della rilevante trazione, potesse svellersi danneggiando l’arma e ferendo i serventi.
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le fasi del caricamento
In alto prima fase della sequenza di caricamento di una balestra a ripetizione in un disegno degli inizi del Novecento. I dardi sono contenuti, uno sopra l’altro, nella stretta cassettina basculante, sollevata e abbassata dalla leva di caricamento, azionata dalla mano destra. La corda arciera è fatta passare all’interno di una sottile fessura, lunga poco piú della sua corsa riposo-tensione, situata tra la cassettina-serbatoio e il canale di lancio mobile dell’arma. A sinistra seconda fase della sequenza di caricamento di una balestra a ripetizione. Tirando indietro la leva di riarmo il canale di lancio torna a sovrapporsi al teniere della balestra, liberando completamente il fondo della cassettina, che lascia perciò cadere un solo dardo dinanzi alla corda, rendendo cosí l’arma pronta al tiro.
Balestra a ripetizione cinese, detta chu-ko-nu: i dardi, circa una decina, venivano riposti uno sopra l’altro nella stretta scatola mobile sovrastante il canale di lancio.
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Magonza, Museo della Navigazione antica. La ricostruzione di una catapulta a ripetizione automatica del tipo di quella ideata da Dionisio di Alessandria, che fu verosimilmente impiegata, a bordo di una nave incaricata del pattugliamento fluviale, dai soldati romani ai quali era stato affidato il controllo dei presidi fissati sul Reno.
suo meccanismo a predisporla per quello successivo senza ulteriori ausili esterni, è classificata semiautomatica. Un revolver non fu mai considerato un’arma automatica, né semiautomatica, bensí a ripetizione, poiché attraverso il grilletto si somministrava al suo tamburo l’energia per ruotare, facendo avvicendare le cartucce e sollevare il cane per esploderle. Pertanto, nel secolo scorso, si coniò per le prime mitragliere, coadiuvate da una modesta manovella, la definizione di armi automatiche meccaniche o di mitragliere meccaniche.
Lessico e definizioni Il quadro si allarga qualora s’includano fra le armi automatiche anche quelle in cui la continuità del tiro è sostenuta da cinematismi alimentati dall’esterno, insistendo allora la qualifica solo su quest’ultima peculiarità. In ogni caso, accettando l’ampliamento distintivo, un’arma automatica non è piú per antonomasia da fuoco, poiché non ha bisogno dell’energia termica di sparo per la continuità del tiro. L’impiego propulsivo di aria compressa, di
vapore o di intensi campi magnetici in armi che con adeguati servomotori tirano a ripetizione, affrancandole dall’esplosivo, le ha rese, di fatto, le mitragliere meccaniche del futuro. Paradossalmente, in questo ambito avveniristico, si colloca tra loro una antesignana mitragliera meccanica ellenistica, una catapulta a ripetizione, dalle molteplici analogie funzionali, sia pure allo stadio embrionale! Di certo fu progettata, costruita e adottata in varie circostanze, offrendo col suo cigolio un sinistro anticipo dei futuri campi di battaglia. Nulla a che vedere, oltre alla qualifica, con le balestre a ripetizione, di cui un abbiamo un archetipo orientale, trovato in Cina nella tomba 47 di Qinjiazui nella provincia di Hubei, che risale al IV secolo a.C. Perfezionate in alcuni dettagli nelle epoche successive, furono adottate anche dai soldati della Manciuria nella guerra sino-nipponica del 1894-95, e si rivelarono temibili avversarie degli ottimi fucili d’ordinanza giapponesi. Nella descrizione che ancora una volta ricaviamo da Filone di Bisanzio, l’arma è chiamata polybolos, traducibile letteralmente
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come i cingoli di con «multilanciatore». Lo scrittore e inventore greco ebbe modo di vedere personalmente la macchina, poiché non sono altrimenti spiegabili i dettagli meccanici, i complessi cinematismi e le dimensioni strutturali da lui pedantemente riportati; elementi che permettono di collocare l’arma fra le realtà tecnologiche piú avanzate. Si tratta di una relazione cosí accurata da permettere la ricostruzione al vero dell’arma, rivelatasi alle prove non solo funzionante, ma talmente precisa da spaccare il primo dardo col secondo! Stando a Filone, essa fu inventata da un certo Dionisio di Alessandria, del quale oltre a questa laconica menzione, che lo collocherebbe nel III secolo a.C., nulla sappiamo.
Come un piccolo piede di porco La catapulta, al pari di tutte le coeve a torsione tradizionali, era costituita da un propulsore appena piú piccolo di quello di media potenza e da un lungo fusto, nel quale scorreva una sorta di slitta. Un arpione basculante, simile a un piccolo piede di porco a due rebbi, azionato da una leva, era saldamente fissato a una piastra di ferro, a sua volta solidale alla slitta. Quest’ultima, muovendosi avanti e indietro, come una spola, portava la suddetta leva a urtare contro due risalti, collocati agli estremi della sua escursione. Il primo provocava il bloccaggio dell’arpione, catturando la corda all’inizio del caricamento; il secondo, invece, ne consentiva l’apertura al termine, in modo da provocare il tiro. Cosí scrive Filone: «Quando la piastra era portata avanti il suo arpione saltava sopra la corda dell’arco afferrandola, venendo subito automaticamente bloccato dal meccanismo di scatto. L’arpione veniva quindi tirato indietro trascinando con sé la corda arciera, sin quando uno dei dardi non cadeva nel canale di lancio: un ulteriore piccolo arretramento ne provocava lo sgancio. La sequenza continuava a ripetersi finché tutti i dardi non fossero stati espulsi, dopo di che altri dardi ancora venivano collocati alla rinfusa nel serbatoio, cosicché il servente non aveva altro da fare, oltre a ciò, che far muovere avanti e indietro la slitta girando le
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In alto il modello di catapulta realizzato nel Museo di Magonza con il serbatoio sezionato per consentire la visione del sistema di alimentazione.
i corpi pentagonali adottati da Dionisio trascinavano in rotazione la catena, incastrandosi nei suoi giunti: il sistema è diverso da quello a grossi denti impiegato nei cingoli dei carri armati, per la minore potenza in gioco. Del tutto simili, invece, le pinne guidacatene ai perni guidacingoli.
un carro armato
particolare di uno dei mattoncini di legno rivestiti di lamiera di ferro fungenti da maglie della catena: il raccordo fra loro era fornito dalle pinne, elementi piatti e cuneiformi che si inserivano nell’interstizio fra i corpi pentagonali, impedendo cosí alla catena di spostarsi lateralmente.
l’albero dell’argano si deve immaginare a sezione quadrata, potendo cosí impartire la rotazione ai due rocchetti pentagonali motori, mentre era cilindrico per i due rocchetti pentagonali folli, di rinvio. In alto assonometria sezionata della catapulta a ripetizione. Il grafico evidenzia la modalità verosimilmente escogitata per consentire alla slitta di andare avanti e indietro, alternativamente, pur continuando a girare l’argano sempre nello stesso verso.
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apposite leve, il che determinava un tiro molto rapido». L’avvicendamento dei dardi, come ricorda Filone, avviene tramite un alimentatore cilindrico, posto quasi a contatto con il serbatoio superiore e la slitta inferiore, fatto girare mediante una camma (elemento meccanico di adatto profilo che, ruotando attorno a un asse, provoca spostamenti prestabiliti di un organo a esso appoggiato, n.d.r.) inserita in una sua fessura elicoidale, lunga quanto la corsa della slitta e sviluppata per mezzo giro, anch’essa solidale alla piastra.
Il tiro, passo dopo passo In pratica: «Il serbatoio dei dardi era posizionato nella parte superiore e li faceva cadere in quella inferiore al posto giusto, nel modo seguente. La struttura superiore era dotata di un cilindro appropriato per diametro alla larghezza anteriore del montante. Il cilindro era collocato nella parte piú bassa della struttura e risultava alquanto piú lungo della corsa retrograda della corda arciera. Il cilindro aveva una scanalatura longitudinale dimensionata per accogliere un dardo, quando quello cadeva dalla parte superiore, appositamente realizzata in modo da convogliarne uno per volta: e appunto soltanto uno di loro veniva fatto ruotare dal cilindro (...). Ma quando il cilindro aveva girato e la scanalatura puntava verso il basso il dardo cadeva fuori (...) [e] andava a finire esattamente nel canale proprio perché l’arpione aveva due rebbi al centro della corda a una piccola distanza da essa e cosí che esso poteva essere espulso quando la corda veniva rilasciata (...). Il cilindro veniva fatto girare durante il percorso che faceva l’artiglio. Aveva un canale scavato nel quale procedeva un cuneo di bronzo: questo correva lungo il canale e faceva girare il cilindro, il quale non faceva altro che ruotare ora in un verso ora in un altro».
«Pinne di ferro» e «mattoncini» L’energia motrice, che nelle artiglierie a torsione era accumulata nelle matasse di tendini con un verricello, in questa ebbe una diversa soluzione proprio per la complessità dei cinematismi. Prosegue, infatti, Filone: «La catapulta di
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un nugolo di frecce in rapida successione A destra sezione virtuale del sistema di alimentazione a tamburo di bronzo rotante, che preleva dalla tramoggia del serbatoio superiore un dardo, facendolo cadere nell’apposita scanalatura del tamburo stesso, da cui, dopo una rotazione di 180°, è deposto in basso, dinanzi alla corda arciera.
Dionisio non aveva un dispositivo per tirare dietro la slitta, possedeva invece due assi muniti da entrambe le estremità di due organi costruiti in forma di pentagono regolare. Essi erano di quercia con piastre di ferro giuntate fra loro e tenute insieme con perni in modo continuo (...). Il collegamento fra i pentagoni è assicurato da pezzi di legno a forma di mattoncini rivestiti anch’essi di ferro, disposti l’uno dietro l’altro a intervalli regolari e fissati con pinne di ferro, che inserendosi nelle gole fra i pentagoni, li guidavano (...). I mattoncini avevano alcuni elementi sporgenti che lavoravano nello spazio
ricostruzione virtuale di un pacchetto di dardi per catapulta a ripetizione. A differenza di quelli delle normali catapulte, questi montavano impennaggi di uguale diametro dell’asta, in modo da non ostacolare la caduta dalla tramoggia. Erano, sempre per lo stesso motivo, leggermente piú corti, per cui dovevano costruirsi appositamente con la massima attenzione, pur adoperandosi in quantitativi notevolmente superiori.
particolare della tramoggia sezionata nella quale erano deposti i dardi alla rinfusa, quindi anche durante il tiro, senza bisogno di sospenderlo. La sua estremità inferiore aveva la forma di una sottile fessura appena piú larga e lunga del dardo stesso per permetterne la caduta nella scanalatura del tamburo alimentatore.
blindatura della traversa inferiore del gruppo propulsore. Anche in questo caso la continuità della blindatura sul rovescio dell’arma, dove non poteva essere colpita, ne certifica l’impiego come rinforzo.
particolare del fusto della catapulta a ripetizione, nella cui fessura longitudinale doveva scorrere il settore di ferro con alette laterali, destinate a essere trascinate da un risalto della catena per il ritorno della slitta.
tra gli organi: un canale è appositamente ricavato in essi attorno all’asse di profondità uguale alla dimensione massima delle pinne, cosicché le maglie possano avere la facoltà di girarvi liberamente intorno. Il sistema per tirare indietro era cosí costituito rotante intorno all’asse in maniera che un uomo azionando con le mani delle leve ora verso il basso ora al contrario, poteva esaurire le munizioni». Dunque la trasmissione del moto alle componenti dell’arma era assolta da due catene, poste fra due rocchetti motori e altrettanti di rinvio, a folle. Quelli che Filone
cita come «organi» erano i suddetti rocchetti pentagonali, mentre i «mattoncini» erano, in realtà, le maglie delle catene. Essendo questi ultimi realizzati in legno di quercia rivestito di lamiera di ferro, somigliavano effettivamente a piccoli mattoni, con le teste opposte appena convergenti, e i loro elementi sporgenti, le pinne, erano semplicemente delle piastrine di raccordo, sempre di ferro e sporgenti verso l’interno. I «pentagoni», infine, erano in sostanza stretti rocchetti, con una profonda gola centrale, nella quale si inserivano le pinne in modo da
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impedire alla catena di fuoriuscirne. La curiosa forma pentagonale costituiva il vincolo geometrico di trascinamento, un incastro rotante, tant’è che la dimensione del lato dei pentagoni, ovviamente uguali e regolari, coincideva con quella della singola maglia che doveva aderirvi. Pur somigliando a una catena a maglie piane, del tipo impiegato nelle motoseghe o nei cingoli dei carri armati, le cui pinne sono definite «maglie di guida» e i mattoncini «maglie di collegamento», se ne differenzia perché a esse non è affidata alcuna funzione di trazione, ma solo di guida, provvedendo la forma pentagonale ad assolverla. I rari studiosi che si sono occupati di quest’arma, ne hanno supposto l’andirivieni delle catene: per loro i rocchetti motori in fase di caricamento, erano fatti girare in un verso, fino al tiro, e subito dopo al contrario, fino alla cattura della corda.
Le incongruenze del progetto La macchina cosí concepita, però, avrebbe presentato gravi inconvenienti tra i quali, in particolare: l’impossibilità di montare un arpionismo per il bloccaggio di sicurezza; la facilità a incepparsi per gli inevitabili ritardi nella frequente inversione della rotazione; la sollecitazione asimmetrica delle catene. Inoltre, perché adottare catene tanto complesse, quando sarebbe bastata una fune fatta avvolgere, ora in un verso ora nell’altro, sullo stesso albero come oltre un secolo prima aveva fatto Isidoro d’Abido nel suo grande gastrafete? Considerando, invece, che le maglie superiori delle catene erano tirate verso la coda dell’arma, e quelle inferiori verso la testa, sarebbe bastato far sporgere fra le stesse una barretta solidale alla slitta. Una pinna per catena, un po’ piú lunga delle altre, urtandone le estremità l’avrebbe trascinata, avanti e indietro, a seconda che venisse da destra o da sinistra, impartendo cosí il movimento alternato della slitta, senza mai mutare il verso di rotazione. Difficile credere che l’ideatore di un’arma tanto complicata non fosse capace di questa banale soluzione, rendendola cosí la prima mitragliera meccanica della storia.
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Non sappiamo quale fu lo stato di servizio della catapulta a ripetizione e neppure se lo ebbe con certezza: la critica che potrebbe averne frustrato l’utilizzo fu probabilmente la stessa emessa per le prime mitragliatrici, cioé l’eccessivo spreco di munizioni! Che, nella fattispecie, risultava persino piú grave, poiché essendo il brandeggio fortemente ostacolato dalle leve di caricamento, i dardi, diversi dai normali e perciò piú costosi, finivano per concentrarsi tutti in un piccolo spazio. Appare quindi plausibile che, esaurite le verifiche tecniche e nonostante l’ottimo esito, l’arma restò inutilizzata, venendo recuperata, forse, alcuni secoli dopo e per un particolare impiego.
Servizi di sorveglianza e di scorta A Mainz (Magonza, già Mogontiacum), grande porto fluviale imperiale sul Reno, nel Museum für Antike Schiffahrt (Museo della Navigazione antica), sono custoditi i resti di cinque navi romane, di cui almeno una da guerra, adibita alla perlustrazione del fiume. Con definizione attuale si direbbe un pattugliatore fluviale, e i sui compiti consistevano nel continuo controllo della sponda destra del fiume, limite del territorio barbaro, e nella scorta al naviglio onerario. La larghezza relativamente breve del fiume e l’avanzamento regolare del battello, potrebbero aver suggerito di armarlo con l’antica mitragliera meccanica. Tirando, infatti, al traverso anche con l’arma stabile, per la navigazione spinta dalla corrente i dardi si sarebbero distanziati di diversi metri l’uno dall’altro, ottenendo l’effetto di un’antesignana raffica. Di certo, quando la direzione del museo stabilí di collocare a fianco di quei reperti la loro minuziosa ricostruzione in grandezza naturale, piazzò sulla prua del pattugliatore la famosa mitragliera di Dionisio. Il modello adottato è stato notevolmente semplificato: eliminate le piastre di blindatura, sia dal gruppo motore che dagli organi rotanti; eliminate pure le pinne e i fine corsa, conservando soltanto il criterio del tiro a ripetizione sia pure con il moto alternato della catena.
Il temenos di Hatra (oggi Al-Hadr, Iraq). La città, ben protetta da solide mura, resistette agli attacchi romani, respingendo gli assedi di Traiano nel 116/117 d.C., e, circa ottant’anni piú tardi, quelli di Settimio Severo, durante le campagne condotte contro i Parti.
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TERRA
la grande balista di hatra R
icorre spesso, nelle fonti, la distinzione fra artiglieria a torsione «eutitona» e «palintona», differenziazione secondo la quale, stando a Erone (matematico, fisico e ingegnere greco, attivo nel I secolo d.C.), le prime erano adibite al solo lancio di dardi, mentre le seconde anche di pietre. Circa il significato esatto delle denominazioni possiamo solo avanzare deduzioni, rese però attendibili da recenti ritrovamenti. Alla base della distinzione vi è la diversa potenza di lancio ma non la diversa dimensione, poiché, in tal caso, sarebbero state baliste piccole e grandi, rispettivamente lancia-dardi e lanciasassi per antonomasia. È quindi logico presumere che la diversa potenza non fosse di tipo dimensionale, ma funzionale, cioè conseguente al rendimento energetico ottimale della macchina in relazione alla massa del proietto. In altre parole, il propulsore di un’artiglieria palintona, a parità di matasse di corda, forniva una spinta maggiore, consentendo perciò il lancio di proietti piú pesanti e con gittate piú ampie. Il che, implicitamente, significa la maggiore torsione delle matasse stesse, e il loro caricamento esasperato, fin quasi allo snervamento delle fibre.
Un principio comune Gli storici della tecnologia hanno
ribadito che il principio di funzionamento delle catapulte e delle baliste è sempre il medesimo: bracci elastici, inseriti in matasse di corde ritorte collocate in un robusto telaio, detto capitulum, fatti retrocedere con l’aiuto di verricelli. Ma se il principio è unico, a quale differenza si deve ascrivere un rendimento cosí diverso? La risposta può ravvisarsi solo nell’escursione tra la rotazione di caricamento normale di una matassa, e quella piú ampia, prossima al loro limite di snervamento. Per farlo, nelle due configurazioni, i bracci avrebbero dovuto girare al contrario, non a caso palin in greco significa «al contrario»: ruotando verso l’esterno per 45° circa e con i fulcri interni l’eutitona, verso l’interno per 160° circa e con i fulcri esterni la palintona. Le prime passavano da una configurazione a riposo a D (delta) a una in tensione a rombo, mentre le seconde da una configurazione iniziale a «M» a una finale a «V». Strutturalmente, ne conseguiva un telaio molto piú largo nelle palintone, dovendo consentire ai due bracci di contro-ruotarvi all’interno, per cui l’identificazione di un’arma palintona ridotta in formula L < 2 x 6d, dove «L» è la larghezza del telaio, «d» il diametro della matassa, o del modiolo di bronzo di ancoraggio, e «6d» la lunghezza canonica del braccio. Ad Hatra in Iraq, alcuni decenni or sono si rinvennero i rottami di una balista romana che, una volta analizzati, soddisfacevano alla suddetta relazione: verificatane teoricamente la congruità e poi al poligono le prestazioni, grazie
In alto, da sinistra a destra fasi della costruzione del modello della balista di Hatra a Saepinum. I modioli in bronzo e le relative piastre di rotazione, replicano gli originali rinvenuti a Hatra, ma ridotti a 1/2. La lavorazione al tornio, con cui sono stati ottenuti, non è anacronistica, poiché un utensile analogo fu usato anche per gli originali. Le componenti in ferro sono state sottoposte a martellatura a caldo e a brunitura, procedure che le hanno rese simili alle antiche. A destra ricostruzione virtuale di una matassa elastica di corde nervine ritorte, tra le due flangie di pre-carica, dette «modioli», con il braccio inserito al centro.
alla costruzione, su progetto di chi scrive, di un modello funzionante in scala 1/2, fu subito evidente la straordinaria potenza dell’arma, di gran lunga superiore a quella delle baliste tradizionali.
Una provocazione intollerabile Questa, in breve, la vicenda: Ammiano Marcellino, parlando della campagna contro la Persia, ricorda che, nel 363, i Romani, condotti dall’imperatore Giuliano, dopo la sua uccisione, superato il Tigri con una marcia a tappe forzate, giunsero nei pressi dei ruderi abbandonati di Hatra, Al-Hadr. In base alle scarne notizie disponibili, la città sembrerebbe essere stata fondata intorno al I secolo a.C., costituendo a lungo un centro pressoché autonomo del regno del deserto. Le sue mura furono ulteriormente irrobustite al profilarsi della minaccia romana, che si
Nella pagina accanto ricostruzione virtuale della balista di Hatra.
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una ricostruzione precisa in ogni sua parte
manifestò con un primo attacco nel 117 d.C., del quale conosciamo ben poco. Abbiamo invece notizie piú dettagliate in merito all’attacco successivo, portato nel 199 e ascritto alla seconda guerra partica, quando fallirono due tentativi di Settimio Severo di conquistare Hatra. Stando a Cassio Dione, proprio per quella sconfitta l’imperatore organizzò una nuova spedizione contro la città, non prima però di aver accumulato in gran quantità vettovaglie e macchine d’assedio. La resistenza di Hatra gli sembrava una provocazione intollerabile, specialmente dopo che tutte le altre piazze circostanti si erano arrese. Un sostanziale aiuto gli provenne in quel frangente da un ingegnere greco, Prisco, da lui graziato per la sua notoria competenza nella costruzione di artiglierie. L’assedio fu impegnativo e cruento: particolarmente violenta, infatti, si dimostrò la reazione degli arcieri hatreni, capaci di eguagliare la gittata delle artiglierie romane, con una cadenza di tiro quasi doppia. Tanti legionari che circondavano l’imperatore finirono sotto i loro dardi, ma le perdite maggiori si ebbero quando scattò l’assalto alle mura, dopo l’apertura di una piccola breccia. Nugoli di proietti incendiari si abbatterono sulle macchine e sugli uomini, incenerendoli: solo le artiglierie di Prisco
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In alto planimetria della grande balista di Hatra, e, nella pagina accanto, la sua ricostruzione virtuale. Pur essendosene rinvenute soltanto le blindature del gruppo propulsore e i relativi grossi modioli delle matasse, grazie al loro ottimo stato di conservazione è stato possibile ricostruire al millimetro l’arma, integrandone le parti mancanti grazie alle dettagliate prescrizioni dei vari trattatisti coevi.
una delle sbarre in ferro intorno alle quali erano ancorate le matasse ritorte e che si andavano a incastrare nelle apposite sedi, ricavate in testa ai modioli. La cura con la quale venivano arrotondate scaturiva dalla necessità di evitare di danneggiare o tranciare le fibre delle matasse con spigoli vivi.
particolare di un modiolo parzialmente sezionato: ben evidenti gli ingrossi interni destinati a sopportare le fortissime sollecitazioni derivanti dalla torsione delle grandi matasse. La flangia alla base è a 16 fori, di cui 8 per i perni di bloccaggio, ulteriore conferma della enorme energia immagazzinata nel caricamento dell’arma, scaricata sull’intero telaio tramite la spessa piastra di rotolamento, raffigurata qui accanto sezionata.
coda della slitta, al di sotto della quale è ricavato l’alloggiamento delle carrucole di rinvio del potente verricello di caricamento, del tipo pentaspaston. Per le rilevanti tensioni a cui era sottoposto, l’asse delle carrucole era inserito in una robusta staffa di ferro.
una delle due leve che, inserite negli appositi fori praticati sull’asse del verricello, sfalsate fra loro di 90°, permettevano il caricamento dell’arma. Allo stesso asse era solidale una massiccia ruota ad arpioni, o saltaleone, con lunga leva di sganciamento destinata a impedire l’accidentale contro-rotazione del verricello.
la coda del fusto della grande balista di Hatra, con il suo verricello a 5 rinvii, organo dettagliatamente descritto da Vitruvio. I cinque cilindri di bronzo, con incavo centrale e asse di ferro, sono tra le componenti restituite dalla sabbia di Hatra.
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Saepinum (Campobasso). La ricostruzione della balista palintona di Hatra oggi conservata in una torre di Porta Terravecchia.
scamparono alle fiamme. Alla fine, comunque, i Romani riuscirono a espugnare Hatra ma non a tenerla a lungo, a onta della febbrile riqualificazione delle sue fortificazioni e del cospicuo potenziamento del relativo armamento balistico.
Mura possenti e torri di guardia Di quelle lontane opere è ancora oggi visibile l’intero circuito interno delle mura, un perfetto rettangolo di 8 km circa, con vistosi resti di grosse torri: la massiccia struttura e le ragguardevoli dimensioni ne lasciano supporre l’entità dell’armamento, costituito forse dai pezzi di Prisco scampati alla distruzione! Nonostante ciò, la città fu espugnata e saccheggiata nel 240, prodromo del suo irreversibile abbandono. Per cui i ruderi che i legionari di Giuliano videro da lontano celavano già nelle loro macerie i resti di quelle artiglierie, che tornarono alla luce intorno al 1971. In particolare, alla base della seconda torre, sulla sinistra della porta nord della città, rimuovendo la sabbia e la coltre di detriti che li ricopriva, affiorarono diversi elementi in
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bronzo, di varia grandezza. Agevole identificarli tutti per la blindatura di una grande balista, la piú grande in assoluto mai rinvenuta, forse posta sulla sommità della torre dalla quale fu scaraventata poco prima della conquista. Quelle lamiere, che in origine aderivano perfettamente alla struttura lignea, ne tramandavano la millimetrica configurazione, consentendone la ricostruzione virtuale. Nella fattispecie si trattava di piastre di bronzo lunghe ben 240 cm per un’altezza di 84 e una larghezza di 45, al netto delle protezioni angolari e dei modioli, con uno spessore di un paio di millimetri. Il telaio propriamente detto constava di quattro travi principali e diverse altre minori, incastrate e inchiodate fra loro, con gli otto spigoli esterni protetti e irrigiditi da cuffie angolari di bronzo. Nelle grandi piastre anteriori si distinguono due incavi centrali semicircolari, gli alloggiamenti tradizionali per il rientro dei bracci. All’interno del telaio, in corrispondenza del centro di una sua faccia maggiore sono state rinvenute massicce
bandelle di ferro. Rappresentano i rinforzi del giunto del propulsore col fusto della balista. All’esterno, invece, quasi in adiacenza agli spigoli, fra le due coppie di travi complanari, erano incastrate piastre quadrate di bronzo. Ottenute per fusione, hanno il lato che oscilla fra i 29 e i 30,5 cm, e raggiungono uno spessore di oltre 6 mm: quattro buchi nei pressi degli angoli ne permettevano il fissaggio al telaio con perni di bronzo. Al centro delle stesse un ampio foro, perfettamente circolare, del diametro di 21 cm circa, con un bordino sottostante di 3 cm circa, leggermente conico: a breve distanza dalla sua circonferenza, otto buchi rotondi di 1 cm circa, disposti in coppie distanziate di 90°. Nel grande foro si inseriva il collarino inferiore del modiolo, di diametro esterno appena minore e di analoga configurazione conica; nei buchi, invece, i perni di
Ritratto marmoreo di Settimio Severo. Età severiana (fine del II-inizi del III sec. d.C.). Roma, Musei Capitolini. L’imperatore assediò due volte, ma senza successo, la città di Hatra, con il pretesto di volerla punire per essersi schierata a favore di Pescennio Nigro, suo rivale nella lotta per la successione al potere.
bloccaggio, i quali, per la potenza delle matasse, dovevano essere almeno quattro. I modioli, di cui solo tre ritrovati, sono interamente di bronzo e di peso rilevante. Il loro diametro esterno è di 28 cm, mentre quello interno è di 17,5 in sommità e di 16 alla base. L’altezza di ciascun esemplare è di 12,3 cm, con un’emergenza sulla piastra di 11,2. Lungo la loro massiccia corona sono praticati, con straordinaria precisione geometrica, ben 16 fori circolari del diametro di 1 cm, caratteristica che consentiva una registrazione minima di appena 22° 30’.
Una potenza straordinaria La presenza di tracce di ossido di ferro al loro interno testimonia l’impiego di perni di ferro per il bloccaggio al termine della precarica, ulteriore implicito riscontro della enorme potenza delle matasse: per averne un’idea, basti considerare che, stimando lo snervamento delle fibre a 10 kg/mmq, ciascuna matassa avrebbe fornito trazioni eccedenti le 100 t! Pertanto, le rispettive sbarrette di ancoraggio nei modioli – in pratica vere e proprie spranghe – sono lunghe 29 cm circa, spesse 3 e alte 2 circa. Grazie al loro ottimo stato di conservazione si è potuta verificare la concezione palintona dell’arma con la formula innanzi esposta. Essendo, infatti, il loro diametro pari a 17 cm, si hanno 2 x 6 x 17 = cm 204, meno dell’interesse fra le matasse di 210 cm, conferma che non può ritenersi una mera coincidenza. Insieme ai suddetti reperti, sono stati ritrovati anche altri piccoli frammenti metallici, tra cui 5 cilindretti di bronzo, con asse di ferro e leggermente incavato, lunghi 3,5 cm circa per quasi 4 di diametro. Si tratta delle pulegge di un paranco a cinque rinvii, il pentaspaston descritto da Vitruvio, proprio per ridurre gli sforzi molto intensi. I preziosi e unici reperti di Hatra sono oggi custoditi nel Museo Archeologico di Mosul, in Iraq. Il modello funzionante, invece, è custodito ed esposto nell’area archeologica di Saepinum, in una torre di Porta Terravecchia, magistralmente restaurata, della cerchia urbica.
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TERRA
Qui sotto un esemplare di serratura romana rinvenuta a Ercolano. In basso catenaccio e chiave provenienti anch’essi da Ercolano.
In alto ricostruzione virtuale di una serratura romana.
serrature N
ella società romana non esistevano le banche, perlomeno nell’attuale accezione e funzionamento, per cui il denaro, perlopiú in oro e argento, veniva conservato presso le abitazioni private. Allo scopo si usavano vere e proprie casseforti, di notevole robustezza e discreta capienza, tant’è che al loro interno, oltre alle monete, erano riposti anche gli oggetti preziosi. Erano abitualmente sistemate negli atri, in modo da far immediatamente percepire, con l’allusiva presenza, le potenzialità economiche del detentore; la loro inviolabilità era garantita da una o piú complesse serrature, azionate da adeguate chiavi. Da una di esse, per intuibili ragioni, il ricco possidente non si separava mai, abitudine che finí per suggerirne di modestissime dimensioni, molto minori di quelle delle porte, che, non a caso, per la mole ponderosa, finivano affidate a un apposito schiavo, il portiarius, incaricato del loro trasporto dietro al padrone. Si ebbero perciò chiavi realizzate in fusione di bronzo, minute e sagomate in maniera elaborata, destinate ai forzieri domestici e dette «sigilli», in quanto erano appunto utilizzate anche come timbro a caldo sulla cera. La loro connotazione saliente era simile a un
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e lucchetti anello, con una piccola sporgenza sagomata e un’incisione fungente da sigillo, per l’autentica dei documenti piú importanti. In quell’unico oggetto, pertanto, si concentravano l’accesso sia al denaro, sia al credito: in poche parole, la fiducia economica e il prestigio sociale. Non deve perciò meravigliare il fatto che, nelle famiglie patrizie, al momento delle nozze, il marito invitasse la sposa a condividere l’una e l’altro, affidandole una copia del famoso sigillo. Dimostrava cosí di nutrire piena fiducia, fides, appunto, nel suo discernimento nell’amministrare il patrimonio della casa. Anche in questo caso si tratta di un simbolo, ma assolutamente privo di valenze sentimentali: quanto alla fides, essa non era perciò relativa alla esclusività dei rapporti, ovvia per la donna, ma alla gestione economica. Col tempo, diffusasi l’usanza e rarefatte le ricchezze, del sigillo restò l’anello: quanto alla fides, si mutò in fedeltà e finí per confondersi con l’omonima virtú cardinale cristiana.
Per chiudere beni e... persone La serratura, invece, continuò a esistere, perfezionandosi e differenziandosi ulteriormente, essendosi moltiplicate le
esigenze di porre a discrezione di un individuo un ambiente, un contenitore e persino un altro individuo, bloccandone il libero accesso o i movimenti. In sostanza nulla di nuovo, essendo ancora oggi quella la gamma d’impiego dei congegni di bloccaggio a rimozione comandata da una piccola leva sagomata, comparsi nel II millennio a.C. in Mesopotamia, come sembrano provare i ritrovamenti archeologici del tempo di Sargon II (721-705 a.C.) a Khorsabad. Intorno alla metà di quel millennio la stessa serratura comparve anche in Egitto, diffondendosi e divenendo perciò l’archetipo della serratura occidentale: non era di metallo, ma di legno, e, pur avendo già tutte le componenti da allora non piú mutate, appariva alquanto diversa. Constava, infatti, di due parti, una fissata alla mostra e l’altra alla porta: quando quest’ultima si serrava, le due parti s’incastravano fra loro, consentendo a perni verticali di calare tra entrambe impedendo la riapertura. Infilando in una fessura della serratura una leva munita di perni fissi con la stessa disposizione dei calanti, abbassandola se ne provocava il sollevamento e quindi lo sblocco. La perfetta corrispondenza fra i perni calanti e quelli della leva era la garanzia dell’inviolabilità della serratura.
anello di chiusura Sebbene raffigurato in acciaio, l’anello di chiusura del lucchetto poteva essere anche di bronzo. La sua rotazione, una volta liberato l’arpione, era ottenuta agendo sul piccolo eccentrico, posto alla base del suo fulcro, a destra.
anello terminale La chiave terminava sempre con un grosso anello, nel quale s’infilava un dito per provocarne la rotazione. Tale connotazione si è trasformata, nelle odierne chiavi, nel piccolo foro col quale si agganciano a un moschettone.
Una chiave simile a un pettine Circa un millennio dopo, in Grecia, si ebbe un perfezionamento di quella serratura, realizzata interamente in metallo, costituita da un catenaccio mobile con numerosi fori al centro, praticati secondo una particolare geometria. Al di sopra del catenaccio, erano allineati perni cadenti, disposti con l’identica geometria, per cui quando il catenaccio spostandosi faceva coincidere i primi con i secondi, questi scendevano nei suoi fori bloccandolo. Per liberarlo, si faceva uso di una chiave, simile a un pettine, con i perni verso l’alto, uguali ai precedenti per numero e geometria. Forzandola verso l’alto, questi entravano nei fori del catenaccio cacciandone i cadenti, vincolandolo alla chiave che trascinandolo sbloccava la serratura.Ma le prime serrature di concezione moderna, ovvero azionate da chiavi con cifratura sulla mappa, tipologia tuttora usata, comparvero a Roma.
Ricostruzione virtuale di lucchetto ad anello superiore rotante di acciaio o di bronzo. Nel grafico le parti in rosso sono quelle sezionate della cassa e della copertura mobile della toppa, spesso figurata. L’anello a forma di «U» è rappresentato aperto.
arpione Arpione mobile mantenuto spinto a riposo, dalla molla antagonista, in posizione di bloccaggio dell’anello superiore e fatto ruotare dalla chiave, per liberarlo.
molla Molla antagonista, raffigurata compressa dalla chiave, in fase di apertura dell’anello superiore.
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TERRA
gira la chiave arpione mobile Arpione mobile di un lucchetto ad anello romano: il suo dente va a incastrarsi in una apposita tacca posta alla base dell’anello, bloccandolo.
foro terminale Alcune chiavi dei migliori lucchetti, pur avendo l’aspetto del tutto simile alle altre, alla fine del gambo presentavano un foro che, inserendosi in un apposito perno al centro della toppa, ne consentivano la precisa rotazione anche attraverso una sagoma cifrata.
La nuova serratura romana iniziò a diffondersi qualche secolo prima della nostra era, azionata da una chiave simile a quelle delle vecchie dimore, e, come quelle, funzionava per rotazione, grazie a una molla antagonista d’acciaio di elevata elasticità. Un piccolo congegno a elevata tecnologia, realizzato non da un rozzo fabbro ferraio, ma da un vero e proprio specialista, il magister clavarius. Forse, proprio a questo tecnico si deve l’invenzione della molla, che farà definire la chiave a doppia spinta, poiché la prima verso l’alto serviva, come già nelle serrature egiziane, a sollevare i perni di bloccaggio, la seconda, verso destra o verso sinistra per azionare il catenaccio in apertura e in chiusura: la molla sostituiva la gravità, essendo indispensabili forze maggiori sui perni cadenti per il loro maggior peso e le minori tolleranze coi fori del catenaccio. Questo perfezionamento svincolò le serrature dal montaggio verticale, rendendole perciò compatibili anche con i forzieri e le casseforti,
Ricostruzione virtuale di un lucchetto in uso in età romana.
contropiastra La contropiastra veniva fissata stabilmente alla cassa con robusti rivettini o persino saldata. Negli esemplari migliori sosteneva il perno di rotazione della chiave.
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cassa Cassa sezionata del lucchetto che mostra la molla del suo catenaccio schiacciata dalla chiave e quindi consenziente alla sua estrazione, dal foro laterale. Una variante semplificata si azionava con uno spillone al posto della chiave. Era usata per i ceppi dei prigionieri e degli schiavi, evitando cosí pesanti mazzi di chiavi
anticipando sotto quest’aspetto i lucchetti. La serratura romana d’età imperiale per antonomasia è quella detta con chiave a traslazione, con toppa a «G» (Gamma maiuscolo), di cui sono stati rinvenuti numerosi esemplari a Pompei ed Ercolano. Scarsa l’inviolabilità, ma razionale la meccanica: su una piastra di ferro sta fissata una molla di acciaio, che esercita una forte spinta su dei controperni mobili, dotati di una precipua sagoma, detta «cifra», che è traforata nel catenaccio. Quando i controperni coincidono coi fori del catenaccio alla fine della sua corsa, vi penetrano dentro, bloccando la serratura. Per sbloccarla, inserita nella toppa la chiave, foggiata anch’essa con la stessa cifra, girandola se ne fanno penetrare i controperni nel catenaccio dal lato opposto di quelli spinti dalla molla, estraendoli. A questo punto, traslando la chiave nella fessura orizzontale della toppa, si trascina il catenaccio, consentendo cosí l’apertura del battente. La chiave, terminata la manovra, non poteva essere estratta, per cui restava nella serratura fin quando non fosse stata di nuovo bloccata. Non diversa del resto la situazione per le attuali chiavi Yale, che non possono essere estratte se non dopo che hanno terminato la rotazione di 360°.
A mandata e a combinazione Vi erano inoltre serrature dette «a mandata», in sostanza ancora piú affini alle attuali. In esse la chiave, con una mappatura particolare, corrispondente a quella del catenaccio, entrando nella toppa e ruotando intorno a un perno centrale, spostava il catenaccio, aprendo e chiudendo perciò la serratura. In molti esemplari il foro della toppa veniva sagomato in modo da impedire l’ingresso a chiavi non adeguate. Rarissime, ma di sicuro esistenti le serrature a combinazione, di cui almeno un esemplare a quattro simboli è stato rinvenuto, applicato a un piccolo scrigno. I Romani, come tutti i popoli che viaggiano spesso e si spostano sistematicamente, si servivano di un gran numero di minuscole serrature portatili, piú note come lucchetti. Al riguardo, la loro produzione giunse a una varietà e validità assolutamente eccezionali e
ineguagliate, fin quasi ai nostri giorni. Diversamente dalle abituali serrature, il lucchetto non richiede un’anta a cui applicarsi, bastandogli due anelli di catena. La perfezione che fu attinta dai claviarii nella loro realizzazione è tale, che i modelli migliori non differiscono granché dagli attuali e per forma e per funzionamento.
Per sventare le manomissioni Al pari della serratura, anche il lucchetto è azionato da una chiave con il concorso di una molla: a volte la prima era sostituita da uno stiletto, sagomato in modo da entrare attraverso un apposito foro e rimuovere il ritegno dell’occhiello o del catenaccio. Quando era presente, la molla, sagomata a barbigli, cioè con le alette espandibili, lavorava passando da una fase di compressione con il lucchetto aperto a una di espansione quando chiuso. Per riaprirlo, pertanto, occorreva impartire alla chiave un adeguato sforzo per portare la molla in posizione di compressione. Per ridurne la violabilità, in molti lucchetti venne sagomata la fessura attraverso la quale s’introduceva la chiave, restringendone perciò la tipologia solo alle compatibili, creando cosí un primo ostacolo alle chiavi false o ai grimaldelli. Fra i lucchetti vi fu una tipologia, che sarà detta «pompeiana». I due esemplari ritrovati sono costituiti da un guscio di ferro, piú raramente di bronzo, con una toppa centrale e con all’interno una serratura vera e propria, alloggiata in una sorta di piastra di legno scavata su misura. La chiave agiva come nelle serrature con toppa a «G» , quindi per rotazione e traslazione. Con la chiave si liberava un lungo catenaccio, in genere infilato tra quattro anelli, due per battente: una volta estratto, questi si potevano spalancare. Tale lucchetto si usava nei serramenti meno importanti, come per esempio quelli dei depositi agricoli. Altri tipi di lucchetti appaiono del tutto simili agli attuali, con chiusura a occhiello. In essi, facendo girare la chiave si sbloccava il ritegno dell’occhiello che, secondo i modelli, poteva sollevarsi o ruotare, aprendosi. Anche per questi una molla garantiva la stabilità della chiusura.
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acqua
Siria, Hama. Una noria in funzione sul fiume Oronte: si tratta di una macchina che porta l’acqua verso l’alto. È costituita da secchie fissate a una catena senza fine, che scorre tra due tamburi rotanti, posti uno in alto e uno in basso. In basso ricostruzione di una ruota idraulica di età romana. Milano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci».
alla ricerca dellâ&#x20AC;&#x2122;oro blu uomini comuni e grandi ingegni furono artefici di opere e macchinari destinati a procacciare il piĂş indispensabile degli elementi
acqua
le pompe L’
acqua copre i 2/3 della superficie del nostro pianeta, ed è il minerale piú abbondante e piú facile da reperire in natura in discreta purezza. Avendo un legame molecolare meno forte dei solidi, il suo stato di aggregazione è liquido, cioè mobile: ha un volume, ma non una forma, per cui assume quella del contenitore, dalla conca del lago alla bottiglia, disponendosi con la superficie orizzontale. Peculiarità che provoca il defluire delle piogge e lo scorrere dei fiumi, in breve lo scendere dell’acqua: invertirne il moto implica un lavoro, crescente con il crescere della massa da sollevare e dell’altezza da raggiungere. Il rapporto umano con l’acqua, sin dall’antichità piú remota, è scaturito dalla necessità di attenuare questa fatica, poiché l’acqua si trovava sempre al di sotto di dove avrebbe dovuto o di dove non avrebbe dovuto essere! Vuoi per attingerla dai fiumi e riversarla nei campi, vuoi per evacuarla dagli scafi e riversarla nel mare, sollevarla o levarla richiedeva molto tempo e molte braccia, in contesti spesso avari
dell’uno e delle altre. Nessuna meraviglia, pertanto, che proprio le macchine preposte allo scopo, le pompe, dirette discendenti dei preistorici shaduf (strumento che funziona secondo il principio della leva, costituito da un palo di legno conficcato nel terreno vicino all’acqua e sovrastato da un’asta, posta in orizzontale, alle cui estremità sono ancorati, da una parte un grosso sasso e dall’altra un’imbracatura per il secchio, n.d.r.) e delle piú recenti norie (macchine per portare verso l’alto acqua o materiali incoerenti – sabbia, cereali, ecc. – costituite da secchie fissate a una catena senza fine che scorre tra due tamburi rotanti posti uno in alto e uno in basso, n.d.r.), furono le prime d’indubbia complessità a essere inventate. Vasta è la gamma di varianti elaborata in età ellenistica, dalla pompa a coclea di Archimede a quella a doppio effetto di Ctesibio, ciascuna adeguata a un impiego preciso. Da allora, alcune non sono piú mutate per forma e concezione, guadagnandosi ambiti di impiego a stento immaginabili. Sono coclee di Archimede, per esempio, le innumerevoli tipologie di bulloni, gli ingranaggi a vite senza fine, le eliche, il cavatappi, il cric, solo per ricordare alcune delle applicazioni piú diffuse. Come pure dalla pompa di Ctesibio derivano tutti i motori a combustione interna ed esterna, i congegni idraulici quali attuatori, ammortizzatori, torchi, ascensori, l’ampio
| La «madre» della trivella e del cavatappi | Piú nota come «vite di Archimede», la pompa a vite senza fine è uno dei congegni piú ricchi di derivazioni, tra cui la coclea delle trivelle, come del cavatappi, del torchio come della vite, dell’elica come della trasmissione epicicloidale. All’inizio fu usata per evacuare l’acqua dagli scafi e diede ottimi risultati per la bassa prevalenza necessaria. In realtà, Archimede si limitò a osservare e studiare il funzionamento della macchina, che risulta già attestata in età piú antica.
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In basso, a sinistra disegno in sezione di una vite di Archimede. In basso, a destra ricostruzione del congegno, basata su un disegno di Leonardo da Vinci.
repertorio di siringhe mediche e non, di penne stilografiche, di irroratori a mano, di nebulizzatori, nonché della vasta famiglia delle armi da fuoco, sempre limitandosi alle piú diffuse! Diversamente dalle pompe moderne, distinte in funzione della quantità dell’acqua innalzata, «portata», e del dislivello fattogli superare, «prevalenza», quelle antiche andrebbero divise in appena due branche. Nella prima, le pompe fatte funzionare per lunghi periodi, o ininterrottamente, per sollevare lentamente le enormi quantità d’acqua destinate a irrigare i campi e a drenare le miniere. Nella seconda, le pompe fatte funzionare per brevi periodi, per evacuare rapidamente modesti volumi d’acqua, destinate perciò a prosciugare le sentine delle navi o le cisterne. Quando la prevalenza era minima ed era invece significativa la portata, come nell’uso irriguo, s’impiegava una coclea o «vite di Archimede». In realtà, lo scienziato siracusano si limitò a studiarla geometricamente, poiché tale pompa risulta già usata secoli prima, lungo il Nilo e, forse, irrigò i mitici giardini pensili di Babilonia. Piú tardi si diffuse anche in Occidente e un affresco di Pompei ce la tramanda azionata da uno schiavo.
indispensabile per la gente di mare In basso a sinistra ricostruzione virtuale di una pompa a bindolo basata sui reperti dei relitti Port-Vendres I e St. Gervais II, del II-I sec. a.C. La pompa a bindolo era diffusa sui mezzi navali, perché, grazie all’estrema semplicità costruttiva e alla possibilità di essere azionata dal ponte di coperta, scongiurava il rischio di restare intrappolati in caso di affondamento. In basso a destra ricostruzione virtuale di una pompa a doppio cilindro basata sui reperti del relitto della nave romana naufragata a Saint Rafael (Dramond D), nel golfo del Leone in Francia, metà del I sec. d.C. I reperti costituivano quattro gruppi cilindro-stantuffo simili tra loro, da ritenersi probabilmente appartenenti a due distinte pompe di sentina. manovella Manovella a disco del tipo di quella rinvenuta sulle navi di Nemi e già utilizzata per le macine a mano per il grano.
tubo di scarico Tubo di scarico della pompa
Simile a una chiocciola Consisteva, per grandi linee, in una chiocciola simile al guscio di un gasteropode – coclea in latino significa appunto chiocciola – collocata in un cilindro a doghe. Posta in rotazione con un’estremità immersa, l’acqua saliva al suo interno per continua caduta, come acutamente osservò Leonardo da Vinci, fuoriuscendone dall’estremità superiore. Vitruvio ne ha tramandato un meticoloso ragguaglio, soffermandosi su come costruirla. Grazie alla sua robustezza e affidabilità, ebbe – e ha – ampia diffusione e adozione. Una ruota idraulica, con la trasformazione delle pale in cassette, cioè in elementi in grado di trattenere per breve tempo l’acqua, diveniva una pompa capace di sollevarla per una prevalenza pari quasi al suo diametro. Accoppiata a una normale ruota, fungente da motore, fu definita noria e si diffuse nel Vicino Oriente, dal III secolo a.C., dove è tuttora in uso. I Romani la conobbero
stantuffo Stantuffo con alloggiamento superiore per la biella in fase di aspirazione.
canna Canna di scorrimento di ritorno degli anelli della catena regolarizzata della pompa a bindolo, o appunto «a catena».
e, sostituita la forza motrice dell’acqua con quella muscolare degli schiavi, ne ricavarono una valida idrovora mineraria, l’unica che, in batterie sovrapposte, esauriva gli allagamenti freatici delle basse gallerie aurifere. Sul finire del 1800, di pompe del genere nella sola antica miniera
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acqua
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Disegno ricostruttivo del percorso di un acquedotto nella campagna romana. Dalla sorgente naturale (1) situata a notevole distanza dal centro abitato, gli acquedotti venivano progettati mantenendo il percorso sempre in discesa, per sfruttare la forza di gravità. Prima d’essere incanalata, l’acqua passava per alcune vasche dette piscinae limariae allo scopo di far sedimentare le impurità. Gran parte del percorso dei canali era sotterraneo (2). Se si incontrava una gola venivano costruiti ponti o viadotti per raggiungere il lato opposto (3). Alla fine del tragitto si trovava il castellum aquae (4), il serbatoio che raccoglieva le acque, formato da piú vasche in cui il flusso idrico rallentava.
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ingegneri rinascimentali, da Francesco di Giorgio Martini a Leonardo da Vinci. Constava di una fune chiusa ad anello, di diversi metri di sviluppo, fatta passare, a intervalli regolari, attraverso dischetti di bronzo, o di legno. Una metà del suo sviluppo correva in una canna di legno, contro la quale i dischetti strofinavano, come stantuffi. La parte inferiore della canna era immersa nell’acqua e la superiore terminava con uno sfioratoio: una ruota a impronte azionata da una manovella poneva in rotazione la fune, rinviata in basso da una seconda ruota identica, ma folle, permettendo ai dischetti di trascinare entrando nella canna una piccola quantità d’acqua, che scaricavano dallo sfioratoio.
A funzionamento alternato romana di Rio Tinto in Spagna, ne furono rinvenute una quarantina fra cui una praticamente intatta! La sua nota distintiva sono le cassette ricavate fra i due grandi cerchioni, munite di fori laterali rettangolari. Identiche sono la disposizione e la connotazione nell’idrovora disegnata da Leonardo da Vinci nel Ms G f. 93 v, a conferma implicita della loro sopravvivenza nel corso del Medioevo. Recuperata e restaurata fornisce l’esatta determinazione metrica delle sue prestazioni: • diametro Ø 400 cm, • prevalenza circa 4 m • 25 cassette da 12 l cadauna • 400 mc di acqua sollevata al giorno A differenza delle norie che sollevano l’acqua alzandola come una gru, le pompe pneumatiche lo fanno per variazione di pressione, aspirandola o comprimendola. Esisteva, tuttavia, un tipo di pompa che solo parzialmente operava in tal modo e che potrebbe a ragione considerarsi un ibrido tra le norie e le vere pompe pneumatiche: la pompa «a bindolo». I resti di pompe siffatte sono stati rinvenuti nelle navi di Nemi e in altri relitti romani, testimoniandone l’ampia adozione. Ideale per evacuare le sentine, non fu mai abbandonata, dal che la sistematica riproposizione nei disegni dei maggiori
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Per superare l’erogazione a singhiozzo della sua pompa costituita da un cilindro con stantuffo munito d’una coppia di valvole di non ritorno, Ctesibio ne uní due facendole funzionare alternativamente tramite un bilanciere: quando sollevava lo stantuffo dell’una abbassava quello dell’altra. Anche quest’idea non era una novità assoluta, dal momento che le si ritrova nei mantici primitivi ricavati da un paio di canne di bambú. La macchina cosí realizzata, definita in seguito «pompa a doppio cilindro», fu per gli antichi la Ctesibica machina: forniva un getto non ancora perfettamente continuo, ma pulsante, inconveniente ulteriormente attenuato da una scatola di compensazione. Questa pompa riusciva a fornire pressioni rilevanti, in grado di proiettare dei getti d’acqua a notevole altezza, peculiarità che col nome di «sifone» la rese ideale per domare gli incendi, impiego non ancora del tutto dismesso. Ma per la stessa ragione e col medesimo nome fu usata anche per appiccarli, come lanciafiamme, lanciando al posto dell’acqua un liquido piroforo. Di essa ne sono stati rinvenuti una ventina di esemplari, alcuni in bronzo, altri in legno e piombo. A differenza delle società pastorali nomadi, che conducono le loro mandrie dove vi è abbondanza di acqua e quindi di pascolo, spostandosi continuamente, le società agricole sedentarie basarono la loro strategia di gestione
del territorio su un criterio antitetico. Non potendosi «portare» i campi verso l’acqua, occorreva canalizzare la seconda verso i primi. Disponibilità di acqua e civiltà divennero da allora una sorta di simbiosi mutualistica, e quando i Romani ne realizzarono l’imprescindibilità convogliarono in tutte le loro città veri fiumi artificiali pensili, grazie ad acquedotti colossali.
Pendenze e dislivelli Queste strutture possono essere considerate come canali in muratura chiusi, nei quali, per semplice gravità, scorreva un flusso continuo, e poiché il pelo dell’acqua non ne lambiva la copertura, la conduzione fu definita a pelo libero. Le pendenze furono stabilite in modo che l’acqua non corresse troppo velocemente, riducendo cosí il dislivello utile, né troppo lentamente, per evitare sedimentazioni che avrebbero finito con l’occludere il canale: condizioni che perciò richiedevano una meticolosa determinazione dell’altimetria del tracciato. Vallate e colline furono superate su arcate o in gallerie e, quando si vollero scavalcare gole particolarmente profonde, si fece ricorso a condotte forzate, con le quali si costruirono sifoni inversi a «U». I segmenti di tubo non erano in metallo, bensí in pietra, per cui molte opere del genere ci sono pervenute in ottime condizioni di conservazione. Non di rado, quando la profondità della gola risultava eccessiva, la condotta forzata del fondo del sifone correva su arcate a piú ordini, riducendo perciò le pressioni d’esercizio. Piú interessante risulta il metodo adottato dai tecnici per stabilire la portata di un acquedotto, che, in assenza di un cronometro adeguato, non poteva tener conto della velocità di deflusso dell’acqua. Essendo la pendenza degli acquedotti sostanzialmente uguale, la velocità diveniva una costante, per cui la sola variabile per la determinazione della quantità era la sezione del canale in cui scorreva, cioè la sua larghezza per l’altezza del pelo dell’acqua, un valore che assurse a unità di misura della portata. Per compensare le variazioni di flusso delle sorgenti e per incrementare la disponibilità, sfruttando i mancati consumi notturni, all’ingresso nella città si ubicarono enormi conserve, o cisterne.
sistemi di distribuzione N
el De aquae ductu urbis Romae, il senatore Sesto Giulio Frontino, responsabile dell’approvvigionamento idrico di Roma, scrive che il flusso degli acquedotti, prima di essere immesso nella rete urbana, subiva una ripartizione in tre quote uguali: la prima per le fontane pubbliche, la seconda per le terme, la terza per l’utenza privata. Poiché nelle condotte a pelo libero la quantità dell’acqua era proporzionale alla loro larghezza, dividendola in tre parti uguali si otteneva lo scopo.
Elemento essenziale del sistema di distribuzione dell’acqua erano le torrette idrauliche o piezometriche, che i Romani chiamavano castella plumbea o castella secundaria, dotate alla sommità di un piccolo serbatoio di piombo. Qui vediamo la ricostruzione grafica di quella che si conserva a Pompei, nella Regio VI, presso l’Insula XVI.
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acqua
Il castellum aquae di Pompei, presso Porta Vesuvio. Posto nel punto piú alto della città (42 m), era lo sbocco di un ramo dell’acquedotto augusteo del Serino. Sfruttava la pressione di caduta dell’acqua per distribuirla in tre condutture primarie ed è perciò definibile come un «tripartitore idrico».
In pratica si elaborò un edificio apposito, il castellum aquae: e quello ritrovato a Pompei, definito appunto «tripartitore idrico», ne è un esempio perfetto. In esso l’acqua, dopo aver superato una serie di filtri costituiti da griglie e crivelli di piombo, capaci di trattenere le impurità in sospensione, veniva fatta espandere in una vasca circolare e poco profonda con due risalti murari al centro, suddividendosi perciò in tre correnti, ciascuna immessa in rete mediante una propria tubatura. Dal momento che nei suddetti risalti si distinguono le fessure per lo scorrimento di tre saracinesche – tramite le quali ogni singola sezione poteva essere ridotta o interdetta indipendentemente dalle altre –, sembra sensato considerare il tripartitore un dispositivo per regolare la distribuzione dell’acqua per zona, piuttosto che per tipologia d’utenza. Conclusione che si rafforza allorquando la città, non essendo in piano, obbligava ad aggregare sia i caseggiati che le utenze pubbliche per quota d’impianto. Solo cosí, infatti, si sarebbero potuti alimentare con una pressione adeguata, ridotta e stabilizzata da torrette idrauliche o piezometriche – all’epoca castella plumbea o castella secundaria –, dotate alla sommità di un piccolo serbatoio di piombo.
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Considerando, inoltre, che per la normativa vigente l’allaccio non costituiva un diritto permanente del cittadino, ma una mera concessione, quasi una sorta di gratitudine per i suoi meriti – sempre comunque discrezionale e temporanea –, per semplicità si effettuò ai serbatoi delle torrette. Per conseguenza, dopo breve tempo, moltiplicandosi le derivazioni, divenne improbo stabilire la liceità dei vari allacci e l’abusivismo assurse a prassi indiscussa, come testimoniano le tubature serpeggianti lungo i fianchi delle torrette.
Marchi di fabbrica, anche per legioni Per comprendere la causa del fenomeno, il funzionamento e la ragion d’essere dei castella plumbea, è indispensabile un breve approfondimento sulle caratteristiche dei tubi di piombo in uso. Numerose fabbriche, dislocate in ogni angolo dell’impero, producevano tubi di piombo in cospicue quantità e di varie dimensioni. Persino le legioni ne fabbricavano correntemente, come certificano i marchi sugli stessi. La realizzazione si avviava da un nastro di lamiera di piombo lungo sempre dieci piedi, 3 m circa, di spessore canonico per ciascun diametro. Mediante un tondino di ferro, si curvava la striscia, portandone a combaciare i lati lunghi, ripiegandone i bordi e spesso anche
per regolare la temperatura chiave d’arresto Una chiave d’arresto d’età romana, di dimensioni medie. Tali strumenti si componevano di due elementi, genericamente definiti «maschio» e «femmina» – tecnicamente «rotore» e «statore» –, simili alle spine delle botti.
miscelatore Ricostruzione tridimensionale che illustra le caratteristiche costruttive e il funzionamento di un miscelatore di età romana. L’elaborazione si basa sugli esemplari rinvenuti in vari impianti termali (foto a sinistra, in basso): si tratta di chiavi d’arresto (foto a sinistra, in alto) modificate. La modifica piú importante riguardava il corpo del maschio, che aveva due fori ravvicinati: girando in un verso o nell’altro, variavano le quantità relative di acqua fredda e calda, permettendo cosí di scegliere la temperatura dell’acqua erogata.
chiave modificata Una chiave d’arresto modificata, cosí da ottenere un miscelatore, le cui prestazioni erano analoghe a quelle degli apparecchi moderni, e permettevano di avere acqua alla temperatura desiderata.
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| Da 5 a 25 dita | Frontino tramanda la dimensione normalizzata dei tubi di piombo: non si tratta del loro diametro, assurdo per la forma a goccia, ma della larghezza che doveva avere il relativo nastro di piombo prima della piegatura. Di piú grandi non abbiamo alcun riscontro: ma sarebbe azzardato dedurne l’inesistenza, e appare piú logico pensare all’esito della loro rottamazione. Questa la tabella con la larghezza originaria espressa in dita romane e fatta corrispondere al diametro centrale, in pollici e in millimetri: Fistula quinaria Fistula senaria Fistula settenaria Fistula ottonaria Fistula denaria Fistula duodenaria Fistula vicenaria
tubo da 5 dita tubo da 6 dita tubo da 7 dita tubo da 8 dita tubo da 10 dita tubo da 12 dita tubo da 15 dita tubo da 20 dita tubo da 25 dita
Ø pollici 1,25 = 23mm Ø pollici 1,50 = 28mm Ø pollici 1,75 = 32mm Ø pollici 2,00 = 37mm Ø pollici 2,50 = 46mm Ø pollici 3,00 = 55mm Ø pollici 3,75 = 69mm Ø pollici 5,00 = 92mm Ø pollici 5,50 = 115mm
Il tubo cosí ottenuto, dalla sezione a goccia o a pera, garantiva abbastanza bene e a lungo la tenuta, ma per le sue saldature longitudinali e di giunzione, non sopportava pressioni eccedenti un kg/cmq, pari a una colonna d’acqua alta 10 m.
ribattendoli prima di saldarli. Procedura verosimilmente di tipo autogeno, ottenuta versando del piombo fuso sull’intera giunzione o passandovi sopra una barra di rame incandescente.
Torrette per regolare la pressione Per restare nell’assoluta sicurezza, i tecnici romani a Pompei, come pure a Ercolano, optarono per una pressione di esercizio stabilizzata a soli 0,6 kg/cmq, ottenuta con l’interposizione lungo la rete di piú torrette idrauliche. Soluzione che si deve ritenere canonica per tutto l’impero, data l’assoluta identità delle tubature di piombo e dei relativi raccordi. Una pressione molto esigua se rapportata a quella domestica odierna, dell’ordine di 4-2 kg/cmq, al punto da richiedere per l’erogazione di un litro d’acqua, invece degli odierni 6-8 secondi, qualche minuto! Carenza, tuttavia, positiva per la salute, poiché accelerando la sedimentazione nei tubi del carbonato di piombo alcalino, impediva all’acqua di venire a contatto col metallo, abbattendone la tossicità.
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Senza i castella plumbea, la rete idrica di Pompei, a causa del suo dislivello, 35 m circa, avrebbe dovuto sopportare una pressione di 3,5 kg/cmq, di gran lunga eccedente la ricordata. I castella, quindi, assolvevano alla basilare funzione di limitatori di pressione, tant’è che nella cittadina vesuviana ne vennero eretti almeno una dozzina. Sotto il profilo architettonico si tratta di pilastri quadrati, di 1 m circa di lato e di quasi 6 di altezza, edificati a corsi di mattoni sovrapposti. In uno o due dei loro fianchi erano ricavati alloggiamenti, larghi una ventina di cm e profondi una decina, correnti dalla base alla sommità, destinati a ricevere la tubatura montante e le varie discendenti. La torretta deve immaginarsi completamente intonacata per cui, almeno nella fase iniziale, nessun tubo era a vista. Il serbatoio di piombo sommitale, a sua volta, si deve immaginare coperto da un piccolo padiglione, indispensabile per proteggere l’acqua da facili inquinamenti. Ai piedi d’ogni torretta stava una fontana, essendo proprio quella l’utenza pubblica primaria: da qualsiasi casa delle città non occorreva percorrere piú di 50 m per raggiungerne una!
Un sistema capillare Dal punto di vista strutturale il sistema di distribuzione idrica di Pompei, il piú completo fra quelli romani pervenutici, si può cosí sintetizzare. Dal castellum aquae si originavano tre condotte di diametro rilevante, correnti in apposite trincee, colmate con materiali incoerenti e di facile rimozione, precauzione che tradisce il loro costante bisogno di manutenzione. Allorché il dislivello iniziava a farsi eccessivo, s’impiantava una torretta idraulica, allacciandone la montante alla condotta principale, che proseguiva verso le altre torrette, con identiche derivazioni. La montante, invece, saliva nel «cavedio» (il percorso ricavato nella muratura al fine di permettere il passaggio della conduttura, n.d.r.) fino a sfogare nel serbatoio, in prossimità del suo bordo. Dal fondo dello stesso, invece, una seconda tubatura, molto piú piccola, scendeva alla fontana alimentandola, mentre gli allacci delle utenze private si devono immaginare
praticati sui suoi fianchi. Pertanto, la pressione di esercizio, e delle fontane e delle utenze private, non era piú quella della condotta, pari al dislivello con il castellum aquae, ma soltanto quella del dislivello del serbatoio della torretta, appena 6 m, cioè a 0,6 km/cmq.
Sezioni diverse per le varie funzioni Circa la dimensione delle tubature delle tre direttrici primarie, i segmenti rinvenuti sembrano testimoniare l’impiego di fistulae vicenariae, mentre la profondità del cavedio induce a credere che per le montanti fossero usate fistulae denariae o, al massimo, ottonariae, e quinariae o tutt’al piú senariae per tutte le altre alimentazioni d’utenza. Dal punto di vista funzionale, infine, l’impianto appare relativamente semplice. L’acqua che la montante riversava nel serbatoio serviva, innanzitutto, la fontana pubblica: prelevata dal fondo del serbatoio, continuava a fuoriuscirne anche con poche dita residue al suo interno. Le altre utenze, invece, erano soddisfatte solo quando l’apporto della montante risultava superiore ai prelievi: il serbatoio pertanto si riempiva, spesso fino a far tracimare l’eccedenza da uno sfioratore, riversandola nel cavedio della fontana, come provano le abbondanti concrezioni calcaree. Per contro, i continui prelievi facevano sí che il livello dell’acqua scendesse al di sotto degli allacci, lasciando il serbatoio quasi a secco, e alimentando perciò solo la fontana. È forse questa la ragione dei tanti serbatoi rinvenuti nelle abitazioni, come pure del mantenimento delle grandi cisterne sotterranee. Purtroppo quasi nulla ci è pervenuto dell’impiantistica idraulica delle torrette, tubi, chiavi e serbatoi, se non le loro impronte nelle concrezioni calcaree. Eppure, in foto antecedenti il secondo conflitto mondiale, concernenti lo scavo di una di esse, appare ancora sulla sua sommità, e in ottime condizioni di conservazione, il serbatoio di piombo con il relativo tubo di alimentazione della fontana. Scomparve dopo un bombardamento aereo alleato della seconda guerra mondiale. Come già accennato, l’idraulica urbana romana utilizzava chiavi d’arresto in fusione di bronzo,
prodotte in serie, secondo misure standard, ovvero normalizzate, in diverse parti dell’impero. La loro struttura si componeva di due elementi, genericamente definiti «maschio» e «femmina» – tecnicamente «rotore» e «statore» –, in complesso simili alle spine delle botti. Il rotore era cavo, di forma tronco-conica, con un foro centrale passante. La sua estremità superiore fuoriuscente dallo statore terminava ad anello quadrato, destinato alla leva di manovra. Lo statore, a sua volta, consisteva in un corpo cavo munito di un ingresso e di un’uscita, per gli allacci alle tubature rispettivamente di rete e di utenza.
Prima la tornitura, poi la lucidatura Dopo la fusione, entrambi i pezzi erano regolarizzati al tornio e lucidati a specchio: grazie all’accuratezza della lavorazione non richiedevano alcuna guarnizione di sorta, bastando solo forzarne appena l’inserimento per ottenere una perfetta tenuta. Un colpo di punzone, alla base della femmina, impediva l’estrazione del maschio, senza bloccarne la rotazione, e una rondella di bronzo ne chiudeva l’occhiello sul fondo dell’alloggiamento. Grazie al loro disegno razionale, quelle chiavi si potevano allacciare sia con i due tubi disposti in linea, a 180°, che a squadro, a 90°. E, dopo una pulizia sommaria, quasi tutti gli esemplari rinvenuti sono ancora in grado di funzionare senza perdite e resistenze! Nei ruderi di terme private sono state rinvenute alcune chiavi d’arresto modificate. Pur avendo gli stessi elementi di quella appena descritta, ne variava l’impiego: alle opposte estremità di allaccio dello statore facevano capo due tubi di alimentazione, uno per l’acqua corrente fredda, e uno, proveniente dalla caldaia, per quella calda. L’occhiello di fondo dell’alloggiamento era invece lasciato aperto e spesso sagomato a forma di bocca spalancata, trasformato perciò in ugello erogatore. Il maschio, diversamente da quello del tipo normale, aveva nel suo corpo due fori ravvicinati: girando in un verso o nell’altro, variavano le quantità relative di acqua fredda e calda rendendo perciò possibile, come negli odierni miscelatori monocomando, scegliere la temperatura dell’acqua erogata.
Segmenti di tubi in piombo.
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ruote e mulini L’
osservazione è quasi lapalissiana: la pagaia immersa, fatta ruotare dal braccio, spingendo l’acqua, muove la piroga, ma, quando questa è legata, è l’acqua che movendosi spinge la pagaia, facendo ruotare il braccio! Da qui alla realizzazione di un asse munito di numerose pagaie radiali, posto in rotazione dalla corrente dell’acqua in cui stavano appena immerse, il passo è breve. E, se non il primo, fu quello il secondo motore primario della storia, degno di tale nome. Dal punto di vista tecnico, si trattava di una girante ad asse orizzontale da collocarsi trasversalmente al corso d’acqua, ed è verosimile supporre che dopo la sua comparsa, intorno al IV secolo a.C., nell’arco di alcuni secoli si diffondesse ampiamente nell’area mediterranea, soppiantando le versioni piú arcaiche e di bassa potenza, ad asse verticale. Inoltre, fu subito evidente che quella ruota idraulica poteva fornire due diverse potenze, a seconda che le sue pale fossero immerse nell’acqua e quindi trascinate dalla corrente, o sottoposte a una piccola cascata e quindi mosse dal peso dell’acqua che vi cadeva sopra.
Sfruttare la corrente Volendo quantificare i rendimenti dei due tipi di ruote anche schematicamente, abbiamo il 25% per quella trascinata da sotto e il 75% per quella alimentata da sopra. A ristabilire le proporzioni a favore delle prime giocava il poter realizzarle, a parità di diametro, di larghezza persino decupla, non gravando la massa dell’acqua sull’asse, caratteristica che permetteva di sfruttare al meglio la corrente dei grandi fiumi, lasciando le seconde ai piccoli torrenti. Ed essendo i torrenti assai piú numerosi dei fiumi – e piú economica la relativa girante – furono presto queste a fornire la forza motrice in tutti gli impianti industriali (mulini, segherie, magli, ecc.). Sebbene la diffusione del mulino ad acqua, quando non l’invenzione, si collochi in età medievale, in
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impianti produttivi e per il ristoro In alto Simitto (oggi Chemtou, Tunisia). Vano di rotazione di ruota ad asse verticale. Età imperiale. Colonia della Numidia proconsolare, era famosa per le sue cave di marmo e per le sorgenti termali. Ne sono stati messi in luce il foro, il teatro, e terme con conserve d’acqua. Nella pagina accanto ricostruzione grafica del vano di una vasca nel quale è in funzione una girante ad asse verticale a pale dritte del tipo di quella illustrata.
MACINA SUPERIORE rotante in pietra: la trasmissione del moto avveniva attraverso un albero a sezione quadrata. Il suo peso, agente sui chicchi di grano, li triturava finemente, facendone fuoriuscire la farina mista alla crusca dalle scanalature, palmenti, della macina fissa sottostante sempre di pietra.
ALBERO DELLA RUOTA IDRAULICA a palette verticali dritte, fuoriuscente dall’acqua dove è fissata inferiormente. Il foro passante circolare della macina fissa e l’alloggiamento cieco nella traversa immersa gli garantivano l’esatta verticalità, indispensabile per girare.
PIASTRA RACCOGLITRICE, non sempre di pietra, sottostante alla macina inferiore fissa, nella quale cadeva il macinato uscente dai palmenti, per essere raccolto nelle ceste e nei sacchi.
Ricostruzione grafica di una girante ad asse verticale e pale dritte.
la ruota idraulica a palette verticali dritte, richiedeva tassativamente che l’acqua le colpisse soltanto da un lato. Allo scopo il canale d’alimentazione era ristretto ed eccentrico rispetto alla stessa.
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la ruota dei veterani Nel 1914, lavori di sistemazione dell’alveo del mulino di Laurenziana, presso Venafro (Molise) portarono alla scoperta dei resti di una ruota idrualica costruita dai veterani della colonia romana. Di quella macchina sono qui illustrate la ricostruzione in scala 1:1 realizzata a Saepinum (a destra) e una ricostruzione virtuale (in basso).
paletta di una ruota idraulica ad asse orizzontale, della tipologia del calco ritrovato a Venafro, che si deve presumere molto comune all’epoca e non solo in zona.
realtà fu quella classica ad assicurarsene i benefici, soprattutto con ruote alimentate per caduta. E, non a caso, l’unica citazione pervenutaci sui mulini idraulici è quella di Antipatro di Tessalonica (epigrammista greco dell’età augustea): «Smettete di macinare o donne che lavorate al mulino; dormite fino a tardi, anche se il canto del gallo annuncia l’alba. Poiché Demetra ha ordinato alle Ninfe di fare il lavoro che facevano le vostre mani, ed esse, saltando dall’alto della ruota, fanno girare il suo asse che, con i suoi raggi rotanti, fa girare le pesanti macine concave del mulino». Il processo cosí avviato determinò ulteriori modifiche: fu presto chiaro che una girante verticale, applicata a un albero orizzontale, avrebbe potuto erogare una forza motrice tanto maggiore quanto maggiore fosse stata la corsa di caduta dell’acqua. Una canalizzazione adeguata, munita di una saracinesca per la regolazione della sua quantità, avrebbe permesso di variare persino la velocità di rotazione. cerchione di bronzo che serrava e sosteneva le palette di ogni ruota idraulica ad asse orizzontale. Queste, infatti, erano semplicemente infilate nel mozzo per cui la loro tenuta dipendeva esclusivamente dai perni passanti nei cerchioni.
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L’ottimizzazione del rendimento Per consentire pale piú lunghe, le si serrarono lateralmente fra due cerchioni metallici, desunti forse dalle norie, dalle quali si cooptò pure un’altra caratteristica: la foggia a casetta
delle stesse pale. La lieve modifica, trattenendo l’acqua piú a lungo sulla pala dopo il suo impatto, ne sfruttava meglio la forza peso, esaltandone il rendimento. E, per evitare che l’eccessiva velocità potesse bruciare il grano, tra la girante e le macine venne interposto un riduttore di giri, costituito da una coppia di ruote dentate, che trasformavano pure la rotazione da orizzontale a verticale. Il tutto in apposito edificio, che finí per comprendere il bacino di accumulo, la canalizzazione con le chiuse, la ruota, il riduttore e le macine, coincidente con la breve descrizione di Vitruvio: «Anche per i fiumi si costruiscono delle ruote simili a quelle già descritte, e nella fronte della loro circonferenza si collocano delle palette, che spinte dalla corrente, vengono costrette a girare (...). Nella medesima maniera si girano ancora le macchine idrauliche, nelle quali vi sono le stesse componenti, a eccezione di una che sta alla testa dell’asse e una ruota dentata. Questa, montata verticalmente, gira insieme con la ruota. Al suo fianco ve ne è un’altra maggiore, altrettanto dentata, collocata però orizzontalmente, il cui asse ha in testa una coda di rondine [un incastro a coda di rondine, n.d.A.] di ferro inserita nella macina. Pertanto quando i denti della prima ruota verticale ingraneranno quelli della seconda orizzontale, provocheranno la rotazione della macina, al di sopra della quale sta posizionata la tramoggia che somministra il grano alla macina stessa, e nel girare che essa fa, schiacciando il grano, ne fa uscire la farina». Purtroppo, essendo costruite in gran parte di legno e di ferro, ben poco è scampato alla dissoluzione. Nonostante ciò di una almeno abbiamo esatta contezza, la ruota costruita dai veterani della colonia di Venafro nel Molise, destinata al locale mulino.
Quelle impronte nel fango... Il prezioso reperto, finora l’unico del genere, venne alla luce nel 1914, nel corso della sistemazione dell’alveo del mulino di Laurenziana, a breve distanza dalle sorgenti del torrente Tuliverno presso S. Maria dell’Oliveto. A 3 m circa di profondità, furono individuate
due grosse pietre di natura vulcanica, due macine, una intera, del diametro di 83 cm per uno spessore di 26 con foro centrale, l’altra rotta a metà. Vicino a esse, in una formazione calcarea, vi era una impronta, lunga 40 cm circa e larga 12, con una profondità di una quindicina. In particolare, nel letto del torrente Tuliverno venne alla luce un blocco di fango solidificato, al cui interno si scorgevano fori e striature regolari. L’archeologo Salvatore Aurigemma (1885-1964) assicurò il reperto al Museo Nazionale di Napoli, di cui era ispettore, dove esso fu riconosciuto come una ruota idraulica in legno. Caduta nella mota dopo l’abbandono dell’impianto e decompostasi, vi aveva però lasciato una dettagliata impronta: l’ingegner Luigi Jacono fu in grado di ricavarne un preciso rilievo e ricostruire la ruota nella sua originaria integrità, perfino nel numero dei perni. In base a quei rilievi, chi scrive ha elaborato la ricostruzione della ruota similare e limitrofa di Saepinum, collocata in affioramento per garantirne la visibilità. Dal punto di vista meramente energetico quella girante, alimentata per caduta, poteva erogare una potenza di 2,5 Kw circa, poco piú di 3 hp: nulla se paragonato agli oltre 100 000 hp delle nostre attuali turbine idrauliche, ma tanto se si considera che corrispondeva al lavoro incessante d’una mezza dozzina di schiavi! Forse proprio la necessità di contenere i costi del lavoro e dei trasporti, portò alla realizzazione di un singolare mulino idraulico, la cui esistenza è testimoniata a Roma sul Tevere: il mulino galleggiante. La sua connotazione fondamentale consta di uno scafo munito di una ruota a pale: fissata la barca
In alto il calco lasciato nella mota dalla ruota di Venafro.
A destra ricostruzione dell’odometro navale di Vitruvio.
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A sinistra raffigurazione della liburna a ruote, in un codice medievale. In origine, la denominazione di «liburna» indicava navi sottili, robuste e veloci, munite di rostro e azionate da un solo ordine di remi. Erano impiegate dai Liburni, antico popolo presente sulla costa orientale dell’Adriatico fin dall’VIII sec. a.C., per scopi pirateschi, e furono successivamente adottate dai Romani, al tempo della seconda guerra punica, come navi leggere da combattimento. In basso barca che risale la corrente grazie a una ruota a pale, in un disegno del Taccola (al secolo Mariano di Jàcopo Vanni), ingegnere e scrittore italiano (1381-1458 circa). È l’autore del trattato De Machinis libri decem, rimasto manoscritto e contenente disegni di particolare interesse per lo studio della storia delle armi da fuoco.
alla sponda con funi o catene, la ruota è fatta girare dalla corrente che la lambisce. Per l’asimmetria della resistenza idrodinamica, il mulino tende a girare su stesso, fino a porre le pale «in bandiera», bloccandole. Per evitare quella deleteria conclusione, presto si optò per due scafi adiacenti e solidali, montando fra loro la ruota: una sorta di catamarano, con un unico ponte destinato alle macine, soluzione che viene attribuita a Belisario.
L’espediente del generale Belisario Secondo la tradizione, infatti, quel mulino fu costruito nel 537, quando, durante l’assedio della città, avendo il re ostrogoto Vitige tagliati tutti i suoi acquedotti, cessò anche il flusso di quello di Traiano che azionava i vari mulini del Gianicolo. Belisario, preposto alla sua difesa, escogitò allora tale impianto a ridosso di un ponte presso l’Isola Tiberina, cosí rievocato da Procopio di Cesarea, suo aiutante: «Attaccate delle funi davanti al ponte, che dicevo poco fa collegato alle mura, e tese molto fortemente dall’una e dall’altra riva del fiume, legò barche a due a due, lasciato uno spazio di due piedi, per dove l’acqua scorreva con maggiore impeto dall’arco del ponte. Allora, poste due macine su entrambe le barche, sospese nel mezzo una ruota con la quale le macine sono di solito fatte girare. Senza interruzione legò altre barche a sostegno di quelle che erano dietro, e nello stesso modo vi mise sopra le ruote: le quali tutte fatte girare in successione dalla forza dell’acqua corrente,
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mettevano in movimento le macine che vi erano state montate, e macinavano quanto era necessario per la città». Da allora i mulini galleggianti, perfezionati, si moltiplicarono lungo tutti i grandi fiumi: il loro maggiore vantaggio stava nell’evitare ai carri carichi di grano di dover percorrere lunghi tragitti, cosa che finiva per incrementare notevolmente il costo della farina. Il mulino galleggiante, infatti, poteva spostarsi, scendendo o risalendo la corrente, e rendersi raggiungibile facilmente con barche, riducendo perciò le distanze e gli oneri del trasporto. Va inoltre osservato che, per risalire la corrente, si usava spesso la stessa ruota del mulino, come motore di trazione, procedura confermata da molti disegni medievali. Del battello a ruote, al di là del suo effettivo funzionamento, interessa la connotazione formale: uno scafo con ai fianchi due ruote a pale contrapposte, fatte girare durante la navigazione. Che girando ruote siffatte si potesse produrre l’avanzamento di una nave fu un’acquisizione tecnologica rilevante, ma forse provenne dall’osservare che nelle acque morte di una gora i mugnai, girando con leve la ruota dei loro mulini galleggianti, riuscivano a spostarli lentamente.
Una barca che si muove su ruote I primi progetti di un battello a ruote devono collocarsi intorno al III-IV secolo d.C., verificati probabilmente, come alcune incerte fonti inducono a credere, da qualche costruzione sperimentale. Di uno dei progetti fra i piú
dettagliati, ci è pervenuto il disegno, quasi un prospetto laterale, insieme alla minuziosa descrizione, redatti dall’autore anonimo di un piccolo trattato militare, il De Rebus Bellicis. E, particolare persino piú importante, per la prima volta nella storia della tecnologia, compare un veicolo semovente con l’esatta indicazione del suo apparato motore. Si tratta di una liburna a ruote, per l’esattezza tre coppie, poste in rotazione da tre alberi verticali, ciascuno azionato da una pariglia di buoi. Dal punto di vista cinematico è indubbia la derivazione dalle batterie di macine asinarie, come quelle ritrovate nei panifici di Pompei. Cosí la sua descrizione: «La forza animale, sostenuta dall’azione di un congegno, muove con facilità, dovunque sia necessario, la liburna, adatta alle guerre navali, ma che per le sue grandi dimensioni, a causa, per dir cosí, della debolezza umana, non avrebbe potuto esser governata dalle mani dell’equipaggio. Nel suo scafo o stiva, coppie di buoi attaccati alle macchine fanno girare le ruote applicate alle fiancate della nave; raggi sporgenti sopra il cerchione o convessità delle ruote, per il movimento di queste ultime fendono l’acqua vigorosamente, come remi: operano con un effetto mirabile e ingegnoso e il loro impeto produce il movimento. Questa liburna, per la sua imponenza e per le macchine che vi operano dentro, affronta la battaglia con tanto fremito di forze da fare a pezzi, con facile attrito, tutte le liburne nemiche che le si accostino». Non sappiamo se da tale progetto scaturí in seguito qualche applicazione concreta, magari di grandezza ridotta. L’ipotesi, sebbene non vi sia alcuna menzione nelle fonti scritte e iconiche, appare plausibile, non fosse altro che per la persistenza anomala dell’idea. Dissoltosi l’impero, infatti, il battello a ruote mosso da animali riaffiorò nel Medioevo, ricomparendo fra le elucubrazioni di ogni tecnico rinascimentale. Tornò sul finire del Settecento, quando fu possibile disporre di una macchina a vapore per far girare le ruote, e quando l’inventore statunitense Robert Fulton (17651815) la rese anche commercialmente conveniente.
seghe industriali P
artendo dal presupposto che nell’antichità non fossero disponibili lampade efficaci, si è sempre esclusa l’esistenza di attività produttive continue, giorno e notte. L’unica eccezione era l’estrazione mineraria, condotta sempre al tenue chiarore delle lucerne e, perciò, mai interrotta. La realtà, però, non sembra altrettanto drastica, poiché abbiamo conferme, anche archeologiche, dell’esistenza di impianti operanti 24 ore su 24 – o, come si direbbe oggi, a H 24 –, per lavorazioni non piú arrestabili una volta avviate e ampiamente eccedenti l’arco diurno. Tali attività avevano come denominatore comune la necessità di poca manodopera e con compiti di mero controllo, come nelle fornaci per vasi o mattoni o nei forni fusori, o l’esasperante lentezza del procedimento.
Il sarcofago rivelatore In quest’ultima tipologia ricade la produzione di lastre di marmo con seghe idrauliche, alle quali occorrevano intere giornate per il taglio. Essendo macchine autonome, richiedevano solo l’aggiunta di sabbia sotto le lame e il controllo del corretto avanzamento, interventi compatibili con la luce di una lanterna. Un rilievo su un sarcofago databile tra la seconda metà e la fine del III secolo d.C., che raffigura appunto una macchina del genere, oltre a confermarci implicitamente quanto delineato sul lavoro
Particolare della ricostruzione virtuale della sega idraulica di Hierapolis (vedi a p. 93).
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Due particolari del rilievo sul sarcofago di M. Aurelios Ammianos (vedi foto in basso): la turbina con la ruota d’uscita del riduttore e il canale di alimentazione (in alto); la grande ruota d’uscita del riduttore con innanzi una delle due ruote-manovella coassiali e le relative bielle di azionamento delle seghe (in basso).
In basso il frammento di sarcofago sul quale si conserva il rilievo raffigurante una macchina a energia idraulica che muove il sistema di ruote dentate e biellismi di una sega per tagliare i blocchi di marmo e di travertino, dalla Necropoli Nord di Hierapolis, Frigia. Seconda metà-fine del III sec. d.C. Dall’epigrafe si apprende che il titolare della sepoltura, M. Aurelios Ammianos, era stato il costruttore (forse il proprietario che lo aveva anche perfezionato) del meccanismo raffigurato.
notturno, ci consente di retrodatare di oltre un millennio il dispositivo meccanico manovellabiella, finora ascritto al tardo Medioevo. Prima di descriverlo occorre una breve premessa tecnica, per coglierne a pieno le peculiarità e il forte anticipo accennato. Il funzionamento di una qualsiasi sega, per il legno come per la pietra, dal punto di vista meccanico è caratterizzato da un moto alternato in due fasi, taglio e ritorno, la prima con resistenza molto maggiore della seconda, dovendo incidere e asportare all’esterno il materiale di risulta. Adottando una ruota idraulica come forza motrice, si dovevano perciò risolvere due distinti problemi: trasformarne il moto rotatorio in alternato, ed equilibrare le due fasi. Per la storia della tecnologia il manovellismo di spinta rotativa, comunemente detto «meccanismo biella-manovella», è quello che opera la suddetta trasformazione e i cui archetipi embrionali si ravvisano già nel IV secolo a.C.; quanto all’equilibratura, le prime tracce si scorgono soltanto intorno alla metà del XIX secolo nelle ruote delle locomotive a vapore!
La Mosella: un fiume... rumoroso Del resto l’invenzione della sega idraulica viene correntemente collocata sul finire del Quattrocento e attribuita a Francesco di Giorgio Martini! Un congegno, dunque, che non sarebbe dovuto esistere ma che, invece, oltre al bassorilievo, trova conferma in blocchi in corso di taglio e, curiosamente, in alcuni suggestivi versi del poeta Decimo Magno Ausonio (310-395) che, nella sua Mosella (vivida descrizione del paesaggio lungo le rive di questo fiume), cosí ne ricordavano l’ininterrotto stridio proveniente dai laboratori collocati sul corso d’acqua: «Facendo girare le macine dei cereali con giro veloce e tirando le seghe dentate attraverso le pietre levigate, ascolta i perpetui rumori dall’una e dall’altra riva». A Hierapolis, in Frigia, è stato scoperto o, per meglio dire, studiato il curioso rilievo
sul sarcofago della seconda metà (o fine) del III secolo d.C., dedicato a un certo M. Aurelios Ammianos, forse il titolare di una segheria di marmi. Di certo sul monumento spicca una ruota idraulica che aziona due seghe contrapposte, che stanno tagliando altrettanti blocchi di marmo. Se in precedenza, in base alle sole striature sulle lastre di marmo, sembrava perlomeno azzardato supporre l’esistenza di seghe idrauliche del genere, ipotizzandone per giunta le caratteristiche, l’interpretazione del bassorilievo ha cancellato ogni dubbio.
La caduta dell’acqua La macchina utensile in questione, infatti, era composta da una turbina idraulica, del tutto simile a quella di Venafro, fatta girare da una caduta di acqua, convogliata da una canalizzazione (vedi alle pp. 88-89). Si può peraltro distinguere una saracinesca per variare il flusso in funzione dell’esigenza e arrestarlo al termine del taglio, il che sembra suggerirne la provenienza da un bacino a livello costante, derivato da un fiume tramite uno sfioratore (opera idraulica atta a impedire che il livello in un bacino o in un corso d’acqua superi determinati limiti, n.d.r.). La turbina è montata in testa a un lungo
dai chicchi di grano alle lastre di marmo A destra la parte superiore rotante di una macina a mano di epoca romana. Mondragone, Museo Archeologico. Per aspetto e funzione, risulta assimilabile alla manovella che doveva essere montata sulla sega idraulica di Hierapolis (vedi ricostruzione qui sotto). il moto alternativo delle grandi seghe a lame multiple, avveniva spingendo e tirando i loro pesanti telai, tramite spesse bielle di ferro. Per mantenerli costantemente nella giusta posizione verticale erano fatti muovere in apposite guide di legno.
La ruota-manovella con la relativa biella. Abitualmente immaginiamo la manovella come una leva angolata – tipica quella del cric –, ma essa poteva essere anche a forma di disco con un perno eccentrico. Erano di questo tipo le ruote motrici delle locomotive a vapore e, millenni prima, le macine a mano per il grano (vedi foto in alto).
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albero, alla cui opposta estremità si scorge una ruota a quattro raggi, di notevole diametro, a sua volta tangente a un’altra ruota appena piú piccola, dalla quale si dipartono due listelli di raccordo con le seghe. La prospettiva della raffigurazione, mai come in questo caso di estrema complessità, tenta di stabilire una sorta di graduatoria meccanica: la turbina è l’elemento fondamentale di cui si ribadisce l’alimentazione per caduta, seguita dalle diverse componenti del congegno.
Il lavoro di otto uomini Essendo la turbina affine a quella di Venafro, non superava per ragioni costruttive il diametro di 3 m, con una decina di palette, larghe 30-40 cm, sulle quali batteva l’acqua, fuoriuscente, quasi a contatto, dal canale convogliatore. Alimentandola con una decina di l/s e supponendo un modesto attrito sui supporti dell’albero, avrebbe girato a circa 120 giri al minuto, imprimendo altrettanti va e vieni alle seghe. Scarsa doveva essere la sua potenza, non eccedente i 2,5 kw (comunque pari al lavoro di otto uomini), insufficiente a vincere in presa diretta la resistenza di due lame di oltre 2 m, che dunque imponeva il ricorso a un riduttore. Questo consisteva in un rocchetto montato sull’albero della turbina, coperto nel rilievo dalla ruota a pioli a quattro raggi con cui ingranava, solidale a sua volta alle due ruotemanovelle, una sola visibile nel rilievo, le cui bielle azionavano le seghe. Supponendo il rapporto tra ruota e rocchetto di 1/5 o 1/3, i cicli si sarebbero ridotti a una trentina, con rilevante vantaggio meccanico, riuscendo perciò congrui all’impiego. Non si può, tuttavia, scartare l’ipotesi che per portate d’acqua maggiori o con maggiore dislivello, il riduttore di giri non fosse necessario, risultando sufficiente la potenza erogata. La disposizione contrapposta delle bielle equilibrava gli sforzi, facendo corrispondere all’azione di taglio della prima sega il ritorno nella seconda e viceversa. Le ruote-manovelle, come accennato, non erano una novità, poiché altro non erano che la mutazione meccanica delle macine a mano per
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il grano, peraltro già utilizzata nelle pompe di sentina delle navi di Nemi. Essendo due le seghe, erano, ovviamente, due anche tali ruote, collocate a sbalzo alle opposte estremità dell’albero della ruota a pioli. Avevano perciò un diametro rilevante, dal quale derivava la corsa delle seghe, che, per intuibili ragioni, doveva essere la maggiore possibile, per sfruttare al massimo le potenzialità abrasive della sabbia sotto le lame. Pertanto, supponendo un diametro di 3 m per la turbina, quello della ruota di uscita del riduttore sarebbe stato di 1,5 m circa e quello delle manovelle di 1 m circa, con un’escursione delle lame anch’essa pari a 1 m. Le bielle, che dovevano tirare e spingere le seghe, erano barre di ferro, terminanti con un occhio di testa per l’innesto sul perno della ruota manovella e una forcella di coda, a perno passante, per l’aggancio con la sega. Onde evitare che durante il taglio le lame deviassero dalla verticale, sebbene non raffigurate, si devono immaginare lunghe guide a cavalletto all’interno delle quali avveniva l’andirivieni dei telai delle seghe e la lenta discesa delle lame. Queste, infine, costituite da sottili e larghe strisce di rame o di bronzo prive di denti, ma idonee al trasporto della sabbia all’interno del taglio, erano in genere dalle due alle quattro affiancate per ciascuna sega, consentendo cosí il taglio simultaneo di piú lastre di identico spessore e perfettamente parallele. La loro messa in tensione avveniva con una corda fissata ai bracci del telaio e ritorta mediante un tenditore, come in quelle tradizionali per il legno. A effettuare il taglio provvedeva la sabbia abrasiva, che, mediante l’acqua, veniva fatta penetrare nella fessura prodotta dalle lame. Il peso delle seghe forniva la giusta pressione alle lame per farle tagliare, sebbene non si possa escludere l’adozione di ulteriori zavorre.
Le conferme di Efeso e Gerasa Di altre due segherie per marmi, rispettivamente una a Efeso, in Turchia, e l’altra a Gerasa, in Giordania, sono stati identificati il locale delle macchine e le tracce
i ruderi di una segheria idraulica ritrovata presso Efeso, tramandano l’adozione di un canale di alimentazione fuoriuscente direttamente nel locale macchine, munito forse di uno sbalzo per far cadere l’acqua esattamente sulle palette della turbina.
un ritrovamento a efeso le palette della turbina si devono immaginare larghe 30 cm circa, e lunghe 150 cm circa, incastrate nel mozzo e mantenute stabili da due spessi cerchioni, di ferro o di bronzo, posti su entrambi i lati. Non vi era sostanziale differenza tra le turbine usate nei mulini e quelle delle segherie.
delle stesse, nonché, nella prima, una coppia di blocchi in corso di taglio, e, nella seconda, alcuni rocchi di colonne, anch’essi in corso di taglio, reperti che consentono un riscontro funzionale delle ricostruzioni proposte. La prima segheria, che sembrerebbe rimontare al V-VI secolo, appare piú evoluta della precedente, sebbene sia sempre costituita da due seghe a telaio, a piú lame, azionate da un’unica ruota idraulica, senza riduttore. Era ubicata all’interno di un’ampia sala di 13 x 11 m circa, in cui la macchina occupava una superficie di 8,5 x 3 m. I resti dei blocchi fanno ritenere che i telai delle seghe fossero posti orizzontalmente, soluzione che permette di ottenere un taglio preciso senza guide, ma soltanto con semplici contrappesi. I blocchi in corso di taglio sono di 3 m circa di lunghezza,
per 1-1,2 di altezza e 0,5-0,6 di larghezza, mentre le lastre sono dello spessore di 3,5-4,5 cm circa e le lame, quattro per telaio, a loro volta di 5-10 mm di spessore. La segheria di Gerasa, invece, era ubicata in una sala rettangolare di 8,5 x 6,5 circa, che faceva parte del santuario di Artemide, coperta da una volta e con una apertura sulla strada, larga 1,5 m circa. Nelle adiacenze sono stati ritrovati resti di colonne in corso di riduzione in lastre da 40 mm di spessore, verosimilmente per pavimenti, con seghe a quattro lame di 5 mm circa di spessore.
la sega di efeso veniva abbassata dal peso dei telai orizzontali, piú robusti e spessi, e della lame multiple. Risultando il loro insieme probabilmente eccessivo, soprattutto tenendo conto della mancanza del riduttore, fu alleggerito tramite contrappesi, sospesi a carrucole fissate alla struttura di sostegno.
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mine idrauliche
Oro alluvionale allo stato nativo, sotto forma di pagliuzze. I minatori impegnati nella ricerca del prezioso metallo, per scavare le loro gallerie, contribuirono alla messa a punto del sistema noto come ruina montium.
U
n procedimento tecnico complesso che all’improvviso debutta nella storia è, perlopiú, la riproduzione di un fenomeno naturale. Fu questa, probabilmente, l’origine della ruina montium (letteralmente «distruzione delle montagne», n.d.r.), sistema di coltivazione mineraria ad abbattimento progressivo d’intere e cospicue fette di colline mediante la forza dell’acqua, tramandato da Plinio il Vecchio e, fino a pochi decenni or sono, bollato come una sua fantasia. A cosa, infatti, gli ingegneri romani si sarebbero ispirati per elaborare quei dirompenti allagamenti che, nel secolo scorso, furono definiti mine idrauliche, non esistendo in natura nulla del genere? Mai come in questo caso, la conclusione si dimostra avventata, dal momento che il collasso di pendici montane rientra nel carsismo, con esempi non rari, dei quali uno almeno molto recente e documentato. Il 1922 fu per l’Italia un anno singolarmente piovoso, soprattutto tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre. Ovunque si registrarono straripamenti e alluvioni, privi di analogie per tutto il secolo precedente. Difficile stabilirne le cause, di sicuro innescate da una profonda depressione stabilizzatasi sull’Europa centromeridionale: la media mensile delle precipitazioni fra il 1878 e il 2007, pari a 104,2 mm, balzò in quell’autunno a 249 mm, entità già di per sé eloquente.
Una stagione di piogge torrenziali Enormi masse d’acqua si abbatterono sull’intera Penisola a ridosso dei sistemi montuosi che si frapponevano all’avanzamento dei fronti atlantici. Precipitazioni notevoli si ebbero nei
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giorni 9, 12 e 18 ottobre, per intensificarsi ulteriormente il 22, 25, 26, 28 e 30, saldandosi in un unico evento catastrofico. La situazione peggiorò ancora, se possibile, nei primi di novembre toccando l’apice il 4, per cessare finalmente intorno alla metà del mese, quando, con notevole anticipo, sopraggiunse il freddo invernale. In molte aree si poté seminare solo in dicembre, con gravissime perdite nei raccolti. Nel primo pomeriggio del 4 novembre del 1922, l’abitato di Cusano Mutri, un paesino in provincia di Benevento, sulle propaggini meridionali del Matese (nell’Appennino centromeridionale), fu scosso da un cupo boato. Un tuono da valanga di massi, a lungo riecheggiato e completato dallo scrosciare impetuoso dell’acqua che trascinava sassi e tronchi d’alberi, si originò dalla pendice del Monte Erbano. Quando, nella mattinata successiva, fu possibile effettuare un sopralluogo, si constatò che una rilevante fetta della montagna, di solida roccia calcarea a strati di grossa potenza, era stata frantumata e scagliata in aria, ricadendo su se stessa.
La montagna che «esplode» Al suo posto, fra quota 700 e 675 m, una sorta di conoide di deiezione formato non da fango ma da macigni, con un fronte alla base di un centinaio di metri. Lo spessore verticale della parete divelta misurava una ventina di metri, dando all’insieme il connotato di una mostruosa unghiata, capace di svellere oltre 30 000 tonnellate di roccia. Tra quella impervia pietraia, per diversi giorni, l’acqua continuò a defluire abbondante e violenta, fuoriuscendo da una sorta di bocca, non piú ampia di 1 mq,
apertasi proprio sotto la cuspide della tagliata. E non c’è dubbio che la strana esplosione della pendice andasse imputata proprio all’acqua, a causa dell’immane pressione. In realtà, come aveva dimostrato Blaise Pascal con la sua Botte piena d’acqua che si schiantava per l’ulteriore apporto dei pochi litri contenuti in un sottile tubo verticale, di pressione ne bastava relativamente poca. A patto che, all’interno della montagna, vi fossero una cavità di discreta grandezza, in grado di funzionare come botte, e una quantità d’acqua sufficiente per riempirla completamente attraverso una lunga fessura, che avrebbe funzionato come tubo. In pratica, il budello di un inghiottitoio che avesse convogliato l’acqua di un laghetto in una sottostante caverna cieca: colmatala, il liquido, su ogni centimetro quadrato della sua superficie, avrebbe esercitato una pressione pari a quella prodotta dalla differenza di quota fra l’uno e l’altra. Per fare un esempio concreto, se tale dislivello fosse stato di appena 100 m, su ogni cmq della caverna avrebbe agito una pressione di 10 kg, 100 t su ogni mq. Per comodità di calcolo, considerando una
cavità cubica di 5 m di lato, quindi con una superficie laterale di 150 mq, la forza complessiva che l’acqua avrebbe esercitato sulle sue pareti sarebbe stata di 15 000 t, entità piú che sufficiente a svellerne una spessa fetta. Grossi blocchi lapidei o ampie sezioni di conglomerati, sarebbero stati perciò proiettati all’esterno della grotta, come ciclopici tappi. Il sovrastante rilievo, privato del sostegno, sarebbe franato sotto il suo stesso peso, non diversamente dall’esito di una mina esplosiva.
La testimonianza di Leonardo Esiste uno schizzo di Leonardo da Vinci, interpretato come raffigurazione del Diluvio, che rappresenta, invece, proprio il terrificante scatenarsi della forza dell’acqua che fa esplodere la roccia! Quasi superfluo aggiungere che Leonardo era un attento lettore di Plinio! In questo grandioso fenomeno carsico si ravvisa il criterio informatore della ruina montium, che, per la sua attuazione, richiedeva un bacino di accumulo d’acqua superiore, pozzi d’invaso e cavità di compressione scavati nella parete rocciosa, non lontani dal suo estradosso. Per valutare il vantaggio di tale tecnica, va
In alto pendice del Monte Erbano, Cusano Mutri (provincia di Benevento). Particolare della parete rocciosa alta 20 m circa, fatta saltare in aria dalla spinta dell’acqua. In basso ritratto di Plinio il Vecchio, al quale si deve, tra l’altro, anche la descrizione della ruina montium.
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A destra la bocca di carico della cavità dell’esplosione idrica di Monte Erbano. Gli strati calcarei con giacitura quasi orizzontale, formatasi un centinaio di milioni di anni fa, per alcuni versi agevolarono il compito dell’acqua, creando propizi piani di scorrimento per i blocchi. Poco prima del loro svellimento, infatti, alcuni testimoni ricordarono una nube all’altezza della bocca: era l’acqua, che filtrata in pressione tra gli strati lubrificandoli, si nebulizzava, chiara premessa dell’imminente esplosione. In basso la valanga di macigni provocata dall’esplosione idrica: le dimensioni dei massi si possono intuire da quelle degli alberi, nel frattempo cresciuti fra loro.
ricordato che l’estrazione dell’oro dai suoi minerali diventa economicamente remunerativa quando la sua concentrazione è superiore a 0,5 ppm (parti per milione, nella fattispecie 0,5 gr per tonnellata). In pratica corrisponde al portare alla luce del sole 1 mc di ganga di varia durezza, in media 2,5 t, e tritarla finemente come farina, per ricavarne, nella migliore delle ipotesi, poco piú di 1 grammo d’oro, un granulo pari alla capocchia di un fiammifero! Di gran lunga piú famose, ma infinitamente piú rare, le pepite ritrovate nelle sabbie aurifere o nei depositi alluvionali. Considerando poi che, per estrarre i frammenti dei filoni auriferi, occorreva seguirli nelle loro circonvoluzioni, scavando tenebrosi e tortuosi cunicoli nella roccia, evacuandone i materiali di risulta dai pozzi, sollevandoli insieme al minerale in apposite ceste, a una
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trentina di kg per volta, si comprendono le cause della lentezza esasperante delle coltivazioni minerarie tradizionali.
Al servizio dei faraoni Questa la vivida rievocazione di quella terribile attività lasciataci dallo storico greco Diodoro Siculo, nel III Libro della Biblioteca storica, un’immensa storia universale a cui attese per trent’anni, dal 60 al 30 a.C.: «All’estremità dell’Egitto e nei territori contigui fra Arabia ed Etiopia, c’è una regione dalle numerose e grandi miniere d’oro, dove questo metallo è estratto in notevoli quantità e con molta fatica e spesa (...). È qui che i guardiani delle miniere recuperano l’oro grazie all’opera di molti lavoratori. Infatti i re d’Egitto avviano alle miniere d’oro quanti sono stati condannati per qualche crimine e i prigionieri di guerra, cosí
come quelli accusati ingiustamente e gettati in prigione per collera del re, e oltre a questi, occasionalmente anche tutti i loro parenti; con questo mezzo non solo infliggono una punizione ai criminali, ma si assicurano allo stesso tempo grandi entrate per i loro lavori. Quelli condannati a questa pena (...) lavorano incessantemente di giorno e di notte, non godendo di riposo alcuno e sono privati di ogni mezzo di fuga; infatti li sorvegliano guardie prelevate dai soldati barbari che parlano un linguaggio differente dal loro, cosicché nessuno, con la conversazione o con qualche contatto amichevole, è in grado di corrompere legate alle teste; per la maggior parte del tempo cambiano la posizione del corpo per seguire il carattere particolare della pietra, e gettano i blocchi a terra, una volta divelti (...)».
Pepite grandi come lenticchie
una delle sentinelle. L’approvvigionamento aureo ottenuto sul terreno piú duro l’ottengono bruciando quest’ultimo prima con un fuoco intenso, e, una volta sbriciolato in questo modo, continuano a lavorare con le mani; la roccia soffice che può essere raccolta con sforzo minore viene sgretolata (...). L’intera operazione è sorvegliata da un lavoratore abile che distingue la pietra e la porta fuori nei laboratori; fra quelli assegnati a questo lavoro nelle cave, i piú resistenti fisicamente rompono le rocce con martelli di ferro, non applicando l’abilità nel lavoro ma solamente la forza; inoltre scavano gallerie nella roccia, non in direzione retta, ma dovunque sembri che la roccia luccicante possa condurre». «Ora questi uomini, lavorando nell’oscurità, a causa della strettezza e della forma serpeggiante dei cunicoli, trasportano lampade
Qui sopra un’antica mappa su papiro delle miniere d’oro egiziane. In alto il disegno di Leonardo da Vinci, interpretato come studio del Diluvio e che, in realtà, illustra una esplosione idrica di notevoli proporzioni.
«I ragazzi che non hanno ancora raggiunto la maturità, entrando nelle gallerie e nei cunicoli formati dalla roccia rimossa, raccolgono laboriosamente le pietre rotte in pezzi, e le portano fuori (...). Poi, quelli sotto i trent’anni d’età, trasportano queste pietre da loro estratte e con pestelli di ferro ne pestano una determinata quantità in mortai di pietra, finché non l’abbiano lavorate fino alla grandezza di un orobo [un legume simile alla lenticchia, n.d.A.]. Poi le donne e gli uomini piú anziani ricevono da loro queste piccole pietre (...) e le macinano fino alla consistenza della farina piú fine (...). Poiché nessuna opportunità è data loro di preservare il proprio corpo, non avendo abiti con cui coprirsi nessun uomo può guardare gli sfortunati miserabili senza nutrire pietà per loro, a causa della pena eccessiva da loro sofferta. Infatti nessuna clemenza o rispetto è tenuto per nessun malato, invalido, anziano, o per una donna incinta, ma tutti senza eccezione sono costretti dalle fruste a continuare il lavoro, fino a che per il tremendo trattamento, non muoiano nel mezzo delle torture. Per conseguenza i poveri sfortunati credono che, dal momento che la loro punizione è cosí severa, il futuro
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il principio della botte di pascal A destra Blaise Pascal (1623-1662). Dimostrò che per schiantare la sua Botte piena d’acqua era sufficiente la pressione data dall’ulteriore apporto di pochi litri. Qui sotto ricostruzione della prima fase dell’esplosione idrica, e, in basso, la seconda fase. Il laghetto apicale, ricolmo di acqua per le abbondanti piogge, si scarica attraverso il lungo condotto carsico. Essendo il deflusso insufficiente, o essendosi ostruito il condotto, l’acqua, priva di sfogo, comprime l’aria delle cavità, sottoponendo le loro superfici alla pressione determinata dal dislivello col laghetto. Nelle maggiori cavità la spinta, superata la resistenza della roccia, ne provoca l’esplosione.
sarà per loro piú temibile del presente e perciò guardano alla morte come evento piú desiderabile della vita stessa».
La raccolta della preziosa polvere «Alla fine del processo di lavorazione gli artigiani ricevono la pietra ridotta in polvere e ne finiscono il trattamento; infatti setacciano il marmo lavorato su di una larga tavola, molto inclinata, versandovi continuamente dell’acqua; quando la terra formatasi si evidenzia per l’azione dell’acqua che scorre
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sulla lastra inclinata, ciò che contiene l’oro rimane sul legno per il suo peso. Ripetendo l’operazione per molte volte, prima levigano la pietra con le loro mani, e poi pressandovi leggermente con le spugne rimuovono in questo modo qualsiasi cosa sia porosa o terrosa, finché non rimanga solo la polvere d’oro. Poi all’ultimo un altro artigiano prende ciò che è stato recuperato e lo colloca in una misura fissata in giare di terracotta, mescolando una quantità di piombo proporzionata alla massa, grani di sale e un poco di stagno, aggiungendo infine crusca; sopra viene posto un coperchio, chiuso attentamente con fango; poi la cuociono in una fornace per cinque giorni e cinque notti continue, e, alla fine di questo periodo, lasciate le giare al fresco, non trovano piú alcuna traccia di quel tipo di contenuto, ma solo l’oro nella forma pura, anche se un poco si è consumato». Al di là dell’ottusa spietatezza del lavoro coatto, balza evidente il suo rendimento insignificante, specialmente tenendo conto dell’alto costo
delle squadre di sorveglianza e di coercizione necessarie, senza dubbio numerose per la bassa letalità delle coeve armi. Per cui è lecito considerare l’apporto dei condannati come un contributo alle spese per l’esecuzione della loro condanna esemplare, piuttosto che come un utile remunerativo! Del resto, fu questo il limite del lavoro forzato in generale, e di quello in miniera in particolare, dal momento che nei cunicoli la costrizione non poteva espletarsi efficacemente: dettaglio che alla razionalità romana dovette suggerire la trasformazione di un’attività in galleria in una a cielo aperto e, soprattutto, l’adozione di manodopera libera e qualificata. Per l’attuazione concreta dell’antitetico criterio, infatti, occorrevano minatori competenti, capaci di far crollare il rilievo aurifero sotto il suo stesso peso, cioè implodere, utilizzando l’antica procedura delle mine, i cunicoli scavati sotto le mura nemiche e fatti crollare in modo da trascinarle nella rovina, bruciandone i puntelli.
Prossima alla parete esterna del monte Volendo in qualche modo schematizzare il funzionamento della ruina montium, ci si deve rifare, come accennato, al paradosso idraulico di Pascal: i minatori scavavano diversi angustissimi cunicoli, convergenti in un unico sito, dove ricavavano una grande cavità. La sua connotazione saliente consisteva nell’avere almeno una parete prossima alla pendice esterna della montagna, a una decina di metri al massimo. In altri casi erano gli stessi cunicoli a correre con andamento orizzontale su piú livelli, paralleli all’estradosso della pendice e appena al suo interno. Terminati i lavori preparatori, si procedeva all’apertura degli scarichi del grande bacino superiore, già fatto riempire dalla rete di alimentazione, realizzata in precedenza e destinata a essere ancora usata per numerose analoghe volate. L’acqua si precipitava nei pozzi con la violenza tipica di una cascata, correva nei cunicoli e piombava nella cavità, riempiendola rapidamente e comprimendovi l’aria: in pochi minuti la loro spinta, superata la resistenza della roccia, ne provocava l’esplosione. Quanto appena delineato, trova un preciso
riscontro nelle pagine di Plinio il Vecchio, che sia pure in maniera emotiva e filosofica fornisce la migliore descrizione della ruina montium. Testimone attendibile, dal momento che il suo incarico di procuratore in Spagna lo portò a vedere direttamente l’altopiano aurifero di Las Medulas, che registrò proprio in quello scorcio storico un frenetico sfruttamento. Il sito è attualmente nella comunità di Castilla y León, nella Spagna nordoccidentale, e le coltivazioni minerarie romane si sono sviluppate nella parte settentrionale dei Montes Aquilianos, a sud di Ponferrada, a partire da una quota prossima agli 800 m slm. Province all’epoca sotto la giurisdizione diretta dell’imperatore, anziché del senato, e che, per il loro apporto economico, assunsero un ruolo strategico, visto che l’oro da esse prodotto era usato per il soldo delle legioni. A dire dello stesso Plinio, grazie al lavoro di 60 000 minatori liberi, ogni anno si estraevano 20 000 libbre d’oro (pari a oltre 6 t), che in base alle menzionate concentrazioni aurifere, implicavano la rimozione di circa 5 milioni di mc di ganga. Moltiplicando tali quantitativi per i 250 anni del protrarsi dell’attività, mentre la massa dell’oro si può stimare in oltre 1500 t, quella della ganga raggiunge i 1250 milioni di mc, entità immensa, e che spiega bene la permanenza della devastazione ambientale, ancora oggi evidente a quasi due millenni di distanza!
Resti di macine per produzione aurifera, ritrovate nel deserto di Nubia.
Frequenti e improvvisi cedimenti Ciò premesso, ecco come Plinio descrive tale pratica: «Il terzo metodo sembra quasi superare le imprese dei Giganti. Alla luce delle lucerne si scavano i monti con lunghi cunicoli; con le stesse si ricavano anche i turni di lavoro poiché per molti mesi non si vede la luce del sole. Questo genere di miniere è definito “arrugie”. Talmente di frequente vi si verificano cedimenti
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improvvisi che seppelliscono i minatori, da far sembrare meno rischioso raccogliere le perle sui fondali marini: tanto abbiamo reso pericolosa la terra! Per evitarlo si lasciano numerosi pilastri per sostenere la montagna sovrastante (...). Evacuano i frammenti di roccia a spalla, giorno e notte, ciascuno passandoli al suo vicino nell’oscurità: solo gli ultimi vedono la luce (...). Esaurito il lavoro si demoliscono i pilastri, partendo dagli estremi. Il crollo è preceduto da un sintomo compreso soltanto dall’uomo di guardia sulla sommità del monte. Con la voce o con gesti dà ordine di uscire subito dalle gallerie ed egli stesso fugge. Il monte lesionato crolla sotto il suo stesso peso con un boato e uno spostamento d’aria che nessuna mente umana può immaginare» (XXXIII, 70).
Dalla Spagna all’America Evidenti, anche da questa breve descrizione, gli enormi rischi di quell’attività e la notevole competenza che richiedeva, precipue di liberi lavoratori che, oltretutto, in caso di morte non costituivano una perdita economica per il concessionario, come nel caso degli schiavi! La soluzione ideale sarebbe stata quella delle mine esplosive e l’acqua utilizzata come nel fenomeno carsico delineato e ben noto all’epoca, consentiva qualcosa di simile, procedura che non a caso, come accennato, fu
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In alto sezione di una parete rocciosa predisposta all’esplosione idrica a cavità. Qui sopra sezione della stessa, allagata poco prima dell’esplosione. Il sistema poteva svilupparsi su piú livelli e con piú cavità, purché la cubatura totale d’invaso fosse sempre molto minore di quella dei bacini d’acqua superiori, cosí da provocare l’esplosione, e, subito dopo, anche la fortissima erosione dei cunicoli, portandone all’esterno il minerale.
riscoperta agli inizi del Novecento, durante la corsa all’oro in California. Per varie ragioni, il vasto altopiano di Las Medulas si confermò ideale per adottare sistematicamente quella tecnica. Da un lato, infatti, la sua natura di conglomerato elevato alcune centinaia di metri, tradisce un’origine alluvionale, per cui l’oro è disperso in quei remoti sedimenti, formati dall’erosione di fiumi che scorrevano nel Miocene, fra i 30 e i 10 milioni di anni or sono, in concentrazioni cosí modeste da non rendere remunerativa l’estrazione tradizionale. Dall’altro, proprio la scarsa saldezza del conglomerato esaltava gli effetti delle volate idrauliche e del violento scarico del bacino apicale. Occorreva solo condurvi le enormi quantità di acqua necessarie, esigenza che per la rilevante quota del bacino costrinse all’adduzione da sorgenti molto distanti e, non di rado, dai ghiacciai invernali.
Canali, quindi, concettualmente simili ai grandi acquedotti, incisi fra giogaie e creste impervie, a volte anche per 140 km, che Plinio cosí rievoca: «C’è un altro sistema di uguale complessità ma piú costoso: per dilavare questa rovina dei monti vi hanno condotto dei fiumi dalle alte giogaie, distanti anche cento miglia. Tali canali sono chiamati “corrugi” (...). Anche qui mille lavori: bisogna che la pendenza sia notevole, affinché l’acqua vi precipiti piuttosto che vi scorra; pertanto la si fa venire da siti altissimi (...) Se vi sono vallate o intervalli, li uniscono con canali che vi scavano. In qualche luogo si incidono le rocce strapiombanti inserendovi travi di supporto ai canali. Chi taglia la roccia è sospeso con funi, sicché visto da lontano, piú che una belva sembra un uccello. Stando cosí sospesi, per la maggior parte, determinano i livelli e tracciano le linee del percorso: dove non c’é spazio per poggiare i piedi, l’uomo vi fa passare dei fiumi» (XXXIII, 74).
I tracciati che le canalizzazioni devono seguire sono preceduti da un meticoloso rilievo planoaltimetrico, compiuto da tecnici sospesi a funi. Qualsiasi ostacolo è superato per raggiungere gli alti bacini di accumulo: con ponti-canali si scavalcano le forre, con gallerie si attraversano le montagne e su travi infisse nella roccia si sorreggono i condotti di legno lungo le pendici troppo a strapiombo.
Un duplice risultato Quanto all’accenno alla velocità di caduta dell’acqua, va relazionata non a quella di scorrimento nei canali d’adduzione nei bacini, ma a quella d’allagamento nei pozzi, che defluendo violentemente dopo l’esplosione avrebbe dovuto asportare il minerale: «Alla testa degli inghiottitoi [pozzi], sulla sommità dei monti, vengono ricavati dei bacini di 200 piedi di lato per 10 di profondità [60 x 60 x 3 m = 11 000 mc]. Ogni bacino ha cinque emissari, di circa 3 piedi quadrati [1 mq], in modo che una
Veduta panoramica dell’altopiano di Las Medulas, devastato dalla ruina montium.
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volta pieno, l’acqua, aperte le chiuse, erompe con tanta violenza [nei pozzi] da travolgere la resistenza della roccia» (XXXIII,74). La spiegazione data da Plinio è tipicamente romana, cioè molto approssimata, per cui l’aspetto piú vistoso è sempre esatto, a differenza dei dettagli, perlopiú confusi. Del resto non potevano fraintendersi o ignorarsi quegli enormi bacini apicali di 11 000 mc circa, alimentati da quella rete di canali di notevolissima lunghezza. Ma quando si aprivano i loro scarichi, dove piombava l’acqua con estrema violenza? Certo non lungo le pendici del monte, sulle quali, per violenta che fosse stata, non avrebbe procurato grandi detriti. Né in canalizzazioni aperte, poiché, in tal caso, esauritosi il bacino nel giro di poche ore, tutto sarebbe rimasto come prima. Andava, invece, nei pozzi e quindi nelle gallerie in precedenza scavate, provocandone prima l’esplosione e poi l’erosione. Con il crollo, l’aria compressa nelle cavità fuoriusciva violentemente, emettendo un tuono terrificante, e, sommandosi a quella spostata dalla caduta della parete, determinava anche un fortissimo spostamento d’aria, effetti entrambi ricordati da Plinio.
Anni di lavoro in pochi minuti Dal momento che soltanto una modesta frazione dei circa 11 000 mc di acqua accumulata era servita a produrre l’implosione, la restante quantità, squarciatosi il fianco della montagna, defluiva con estrema violenza dai pozzi e dalle gallerie d’alimentazione, ormai comunicanti con l’esterno, trascinando nell’impetuosa corrente tutti i frammenti di roccia spezzati dal crollo. Questi, sbattendo lungo le pareti delle gallerie, le erodevano profondamente slargandole, portando fuori un’enorme massa di detriti, persino maggiore di quella esplosa. Dettaglio che spiega le enormi dimensioni attuali delle gallerie di Las Medulas. Si accumulava cosí, nel giro di pochi minuti, l’equivalente estrattivo di diversi anni di lavoro, limitandosi a quel punto l’attività alla macinazione e alla selezione, mentre la morfologia ambientale subiva un cambiamento devastante.
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telegrafo ad acqua P
linio il Vecchio, nella Naturalis Historia (II, 181), cita le turris Hannibalis, torri semaforiche usate in Spagna per inviare a grande distanza i segnali d’allarme, con il fuoco di notte e con il fumo di giorno. È plausibile immaginarle simili a quelle raffigurate nei rilievi della Colonna Traiana, scaglionate lungo il Danubio e munite di una grande torcia. Di esse sono ormai accertati gli interassi – che vanno dai 600 ai 1000 m – , le dimensioni di base – pari a 5 x 5 m circa –, nonché l’escursione dell’altezza, legata alla visibilità. L’architettura di queste strutture è molto elementare: si tratta, infatti, di parallelepipedi quadrati, sormontati da un tetto a padiglione capace di coprire con il suo sporto la balconata sottostante. Quest’ultima, pur correndo lungo i quattro lati della torre appare, però, stranamente accessibile da un singolo vano, collocato al centro della facciata prospiciente il versante interno del limes. La singolare disposizione, che non trova alcuna spiegazione razionale, deve perciò necessariamente ascriversi al sistema di trasmissione ottica adottato, vale a dire all’esigenza di inoltrare il segnale esclusivamente verso il caposaldo militare limitrofo. In pratica, farlo rimbalzare di torre in torre in una unica direzione, o verso destra o verso sinistra.
Il senso del segnale d’allarme Pertanto, in una catena di varie decine di torri, quella che avvistava movimenti nemici sospetti, per evitare ogni confusione, avrebbe dovuto lanciare l’allarme soltanto nel senso prestabilito per l’immediato contrasto. Se, per esempio, l’acquartieramento di
come una fotografia La struttura delle torri semaforiche è dettagliatamente illustrata dai rilievi della Colonna Traiana (in alto). Di fronte a queste strutture venivano ammassate cataste di legna e covoni di paglia, predisposti per ottenere, rispettivamente, segnali visibili per la luminosità della fiamma (dunque anche di notte) o grazie alle colonne di fumo che si sprigionavano dalla combustione. Tale testimonianza è alla base della ricostruzione virtuale dell’intero apparato (a destra). Plinio fa riferimento alle torri anche a proposito della relatività dell’orario. Constata, infatti, che un breve dispaccio inviato verso ponente tramite la linea attiva sulla costa iberica – che correva in sostanza lungo un parallelo – raggiunge il capolinea con un tempo notevolmente minore di quanto impiegato nel verso opposto.
acqua
replicato il segnale nella stessa modalità e nella stessa scansione ottica. In breve tutte le torri successive, ognuna posta alla destra della precedente, ripetendo a loro volta, una dopo l’altra, la procedura avrebbero rilanciato il dispaccio fino a destinazione.
Lingue di fuoco e di fumo Ricostruzione virtuale del telegrafo ad aste di Vegezio Flavio Renato. Fine del IV-inizi del V sec. d.C.
Per la torre posta sulla sinistra della prima, invece, la torcia non schermata dal muro non si sarebbe mai oscurata e, restando sempre accesa e oscillante, avrebbe notificato soltanto l’operatività di linea e la solerte vigilanza del suo presidio. Senza questa banale accortezza il segnale d’una sola torre sarebbe stato ripetuto da tutte le torri, indistintamente, per cui, a ogni avvistamento, l’intera catena, in pochi minuti, sarebbe apparsa sormontata da fiamme o da colonne di fumo. E sarebbe risultato impossibile sia comprenderne l’origine sia la destinazione, poiché, non di rado, la catena si estendeva per tratte dell’ordine di un centinaio di chilometri. Nella modalità descritta, invece, alle forze di contrasto per convergere dove sollecitato bastava seguire le torri con la torcia accesa lateralmente. Sostanzialmente analoga è anche la trasmissione diurna a fumo: a ridosso di ogni torre, infatti, sono non a caso raffigurate sulla Colonna Traiana sia cataste di legna per il fuoco, sia covoni di paglia per il fumo.
Dalle pertiche di Vegezio alle bandiere
riferimento si fosse trovato sulla direttrice alla sua destra, sarebbe bastato portare la torcia sulla balconata di sinistra e farla apparire ed eclissare dietro il corpo della torre stessa. A quel punto la torre contigua di destra avrebbe scorto un ritmico alternarsi di fuoco e di buio, antesignano equivalente di punto e linea, segnale che tramite una sequenza convenzionale notificava la natura del pericolo. Senza indugi i suoi uomini, spostata la grande torcia sul lato sinistro della torre, avrebbero
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Di gran lunga piú moderno e funzionale è il sistema telegrafico che in epoca contemporanea è stato definito «ad aste», e cosí ricordato da Vegezio Flavio Renato nel suo De re militari (III, 58): «Alcuni sui castelli o sulle torri cittadine collocano delle pertiche, con le quali ponendole, ora perpendicolari ora orizzontali, indicano quanto accade». Quindi, ben in vista su apposite torri urbiche, si deve immaginare una coppia di lunghi pali, ognuno dei quali capace di ruotare autonomamente intorno al proprio fulcro, posto presso la sua base, e di restare in equilibrio con qualsiasi inclinazione, grazie a un contrappeso adeguato. Mutando l’angolo di
A destra ancora un particolare del rilievo del fregio elicoidale della Colonna Traiana: evidenziata dal colore è una macchina nella quale appare verosimile riconoscere un telegrafo ad asta, funzionante con lo stesso sistema di quello illustrato nella ricostruzione alla pagina precedente.
ciascun palo, combinando tutte le svariate loro possibili configurazioni in tal modo ottenibili e attribuendo a ognuna una precisa valenza alfabetica, era facile trasmettere, sia pur lentamente, un chiaro dispaccio. Che il relativo criterio informatore fosse efficace lo confermò la sua riscoperta, sul finire del XVIII secolo, da parte di Claude Chappe (1763-1805), con il suo omonimo telegrafo ad aste, che iniziò a collegare tutte le città francesi dal 1792. E lo conferma, soprattutto, il permanere, in Marina, della trasmissione con bandiere a mano azionate a due braccia dal segnalatore, per non parlare di alcuni semafori ferroviari a bandiera ancora in servizio. Sotto il profilo funzionale, il telegrafo Chappe, grazie all’impiego del cannocchiale, consentiva interassi fra le stazioni di 25 km circa, distanza assolutamente non ipotizzabile per l’età romana. Ma, tenendo conto della maggiore limpidezza dell’aria e della scarsità di strutture a notevole sviluppo verticale, le due pertiche, munite quasi certamente di banderuole svolazzanti o di drappi verticali d’intensa colorazione e posizionate sempre con il cielo di sfondo, risultavano distinguibili fino a una decina di chilometri. Pertanto, una linea di 200 km richiedeva, al massimo, una trentina di operatori, cioè un organico sostenibile per i collegamenti tattici tra i grandi campi legionari dei limes, o strategici tra Roma e le sue grandi basi navali.
Qui accanto ricostruzione virtuale del telegrafo ad acqua, la paternità della cui invenzione viene attribuita a Enea il Tattico, personaggio forse identificabile con il generale Enea di Stinfalo e vissuto intorno al IV sec. a.C. A ogni tacca dell’apparecchio corrispondeva un preciso messaggio convenzionale e predefinito.
Un apparecchio di grande semplicità Il telegrafo a dispaccio fisso, o ad acqua, stando a Polibio (X, 44), fu inventato da Enea il Tattico, intorno al IV secolo a.C. (forse identificabile con il generale Enea di Stinfalo, in Arcadia, fu autore di trattati di argomento militare, che, oltre a riportare studi anteriori, sarebbero stati scritti sulla base della sua diretta esperienza di combattente, n.d.r.). L’apparecchio da lui tramandatoci era
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acqua
estremamente semplice e del tutto uguale per la trasmissione e la ricezione. Consisteva in un contenitore cilindrico di discreta capacità, munito alla base di un rubinetto e, all’interno, di un galleggiante con asta graduata. A ogni sua tacca corrispondeva un preciso messaggio convenzionale e predefinito, per cui, disponendo due apparecchi distanti fra loro anche una sessantina di chilometri, bastava sincronizzare la simultanea apertura dei rispettivi rubinetti con un lampo di luce, magari riflessa da un grande specchio, per avviare la trasmissione. Il livello dell’acqua scendeva contemporaneamente in entrambi i contenitori, e quando, in quello fungente da trasmittente, raggiungeva la tacca del messaggio prescelto, un secondo lampo ordinava la chiusura dei rubinetti. A quel punto sulle due aste si leggeva la medesima cifra, e perciò il medesimo testo. Cosí, per esempio, volendone rievocare praticamente l’uso, supponiamo un vaso di 30 cm di diametro per 100 di altezza, suddiviso in 10 tacche, una ogni 10 cm, delle quali le prime quattro siano associate ai seguenti dispacci: I. Nulla questio (nessun problema) II. Auxilia navalia (aiuti navali) III. Milites deficiunt (i soldati scarseggiano) IV. Non habemus panem (non abbiamo viveri) Con un rubinetto da 10 l/min il passaggio di ciascuna tacca richiede circa 80 secondi, 12 minuti per l’ultima. Sicché, per trasmettere «III. Milites deficiunt», erano sufficienti appena 4-5 minuti!
Un’esigenza fondamentale Da circa un secolo esiste la radio e con essa la possibilità di comunicare a grande distanza non soltanto tra stazioni fisse, ma anche da e tra quelle in movimento, quali piroscafi in navigazione nell’oceano o aeroplani in volo sullo stesso. Da pochi decenni, poi, tutti disponiamo
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di minuscoli apparecchi ricetrasmittenti per la telefonia mobile, noti come cellulari, che di fatto consentono a chiunque l’identica opportunità. Ci è perciò difficile credere che, prima del loro avvento, qualcosa di simile fosse possibile, meno che mai per le navi delle flotte d’età classica. Ma si tratta di una conclusione affrettata, suggerita dalla nostra presunzione tecnologica. In realtà, soprattutto in ambito militare in generale e marittimo in particolare, l’esigenza di comunicare a distanza in breve tempo era fondamentale per la conduzione delle operazioni. Che fra navi in crociera bellica o in semplice pattugliamento, sin dal IV secolo a.C. fosse stato adottato un codice di segnalazione con appositi guidoni e lunghi nastri, simili alle odierne fiamme, trova piena conferma nelle tante raffigurazioni a soggetto navale, dove su di una apposita asta sono issati a prua o a poppa. Non trattandosi di antesignane bandiere o di meri segnavento, vanno
In alto ricostruzione virtuale di una colombaia portatile. Nella pagina accanto particolare della copertina di una rivista francese in cui un soldato della prima guerra mondiale affida un dispaccio a un colombo, testimonianza del protrarsi dell’uso dei volatili per trasmettere messaggi.
In basso piastra in terracotta di una colombaia mobile. Queste ultime erano usate per le trasmissioni navali, da imbarcazioni sia militari sia mercantili; ma forse anche dai civili, per comunicare in modo rapido ed economico con le loro dimore cittadine.
necessariamente ricondotti alle segnalazioni fra navi. Del resto solo cosí sarebbe stato possibile navigare in formazione, mutando rotta senza il rischio di provocare collisioni o dispersioni. Se la trasmissione fra navi era fondamentale, lo era persino di piú quella fra le stesse in crociera e la base, per comunicare eventuali informazioni sul nemico, esiti degli scontri o esigenze tattiche. Poiché la navigazione nel Mediterraneo, dall’antichità al XIX secolo, non perdeva quasi mai di vista la costa, in condizioni operative normali tali contatti erano mantenuti con grande facilità, sia tramite catene di torrette foranee, sia tramite apposite staffette. Tuttavia, quando si costeggiavano terre ostili o molto lontane dalla base o, sebbene piú raramente, si navigava in alto mare, si adottò un arcaico quanto elementare espediente per far sapere giorno per giorno, e a volte anche con frequenza maggiore, le vicende in corso: i dispacci inviati con i colombi viaggiatori. A bordo alle navi,
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acqua
melodie
a base d'acqua canne Le canne dell’organo erano realizzate di vari diametri e di varie lunghezze, sia di stagno, che di bronzo.
tasti Al di sotto del piano di innesto delle canne, erano collocati i tasti, che aprivano e chiudevano i tubi dell’aria compressa che ponevano in vibrazione le canne.
cassa Il contenitore dell’organo era realizzato con una cassa di legno variamente ornata e modanata. Al suo interno vi era una seconda cassa, metallica, destinata a contenere l’acqua
imbuto L’acqua posta nella cassa metallica entrava anche in una sorta di imbuto rovesciato, nel quale sfogavano i tubi dell’aria compressa prodotta dai cilindri con stantuffo.
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pesi Il ritorno dei tasti era ottenuto con piccoli pesi, agganciati a cinghie di cuoio che fungevano pertanto da molle di rinvio.
tubo Al di spora dell’imbuto vi è un tubo che raccoglieva l’aria compressa stabilizzata dall’acqua, e la inviava alla distribuzione dei tasti.
| L’organo ad acqua | L’organo, in linea di massima, è il perfezionamento gigante dello... zufolo pastorale: una fuga di canne di diversi diametri e lunghezze, affiancate fra loro in modo che, soffiando ora nell’una ora nell’altra, emettano diversi suoni. E se nello zufolo, per ottenere una variazione armonica, basta far scorrere sulle labbra le canne, nell’organo occorre inviarvi l’aria compressa. Allo scopo furono perciò elaborati due congegni, uno per comprimere l’aria, l’altro per distribuirla con un distinto comando per ciascuna canna. La soluzione di per sé non si presentava particolarmente difficile, trattandosi di convogliare alle canne, tramite piccoli tubi, l’aria prodotta da un paio di mantici, aprendo e chiudendo apposite chiavette. La vera difficoltà, invece, era costituita dall’ampia escursione della pressione. Quest’ultima, infatti, dipendeva dal minore o maggiore prelievo d’aria delle canne, in base al brano musicale e al suo volume, che, nei casi peggiori, poteva eccedere la disponibilità: Ctesibio trovò la soluzione. Utilizzando come mantici una coppia di cilindri provvisti di stantuffi, azionati alternativamente da apposite leve, mandò il flusso d’aria prodotto, dopo averlo fatto passare nelle valvole di non ritorno, in una campana rovesciata dentro un serbatoio parzialmente colmo d’acqua. Dalla campana usciva un terzo tubo, che portava l’aria alla tastiera, da dove era distribuita tramite tasti e chiavette alle canne. Inviando l’aria dei mantici dentro la campana, la pressione di quella interna aumentava, provocando l’abbassamento del livello dell’acqua, mentre il prelievo per le canne, riducendola, lo faceva innalzare. L’acqua, pertanto, variando la sua altezza, manteneva la pressione sostanzialmente costante, fungendo cosí da stabilizzatore e inviando alle canne sempre la medesima pressione, quale che fosse la quantità di aria nella campana. La macchina, in pratica, lavorava come la vescica di una cornamusa, che, grazie allo schiacciamento subito dal braccio del suonatore, eroga sempre la medesima pressione.
Scena in cui, grazie a una replica moderna, viene rievocato l’uso di un organo ad acqua.
infatti, in previsione di crociere del genere, si imbarcavano colombaie portatili, costruite in maniera da potere resistere all’umidità e al soggiorno prolungato dei volatili.
Fino a 1000 km al giorno Alla velocità media di una sessantina di km/h, grazie alla sua capacità di volare persino per 16 ore consecutive, il colombo è in grado di percorrere nell’arco di una sola giornata fino a 1000 km, orientandosi perfettamente anche in mare aperto e riuscendo perciò a rientrare sempre alla sua abituale colombaia. Nei paraggi di Pompei sono affiorate varie piastre di terracotta, identificate come parti di colombaie mobili. Forse erano proprio quelle usate per le trasmissioni navali, vuoi dai militari vuoi dai mercantili, se non pure dai residenti estivi per comunicare in modo rapido ed economico con le loro abitazioni cittadine.
Va ricordato che l’impiego dei colombi in ambito militare ha toccato il suo apice nella prima e nella seconda guerra mondiale, cioè molto dopo l’invenzione e il perfezionamento della radio, grazie alla sua affidabilità e segretezza. Proprio per i rapporti dal campo esistevano apposite colombaie portatili, alcune delle quali persino paracadutabili! Emblematicamente, fino a pochi decenni or sono, occorreva un apposito permesso del Ministero delle Poste per allevare e possedere colombi viaggiatori, con tanto di notifica all’autorità militare!
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Afghanistan. Resti di un antico mulino a vento nei pressi di Herat.
la forza che viene dal cielo poteva anche essere poco piú di un soffio, ma bastò a farne intuire le straordinarie potenzialità : vele, pale di mulino e perfino ali cominciarono a turbinare senza sosta
aria
mulini a vento S
ebbene si sia portati a collocare l’avvento del mulino eolico nel XII secolo, sui verdi prati olandesi per drenarne l’acqua, reputandolo perciò di gran lunga piú recente di quello idraulico, la sua antecedenza, invece, risulta ben piú remota. Dal punto di vista cronologico, infatti, la girante posta in rotazione dal vento debuttò alle soglie della storia in Mesopotamia, dove, paradossalmente, non fu impiegata per prosciugare i terreni, ma per irrigarli. Alle spalle dell’invenzione c’è la vela, nella sua connotazione piú arcaica: una stuoia di canne, fissata a un pennone orizzontale sospeso a un albero, mantenuto a squadro rispetto alla chiglia mediante varie funi, per sfruttare in pieno il classico vento in poppa. Progresso nautico che si reputa compiuto tra il VI e il IV millennio a.C., sebbene trovi riscontro esplicito solo dagli inizi del II in alcune raffigurazioni egizie. Sostanzialmente coevo è l’utilizzo di analoghe vele a scopo irriguo, come forse propose, e parzialmente attuò, il grande Hammurabi, che regnò tra il 1792 e il 1750 a.C., avendo constatato l’esiguità del dislivello fra il Tigri e l’Eufrate e i campi circostanti e la rilevanza dei venti dominanti. Traccia di tale iniziativa si ravvisa già nel preambolo del suo codice, in cui si vanta di essere: «il signore che ha decretato nuova vita per Uruk, portando acque abbondanti ai suoi abitanti».
La punizione per i ladri di ruote Hammurabi, naturalmente, non si riferiva soltanto all’acqua da bere, ma a quella per irrigare, che rozze macchine sollevavano dai canali riversandola nei campi coltivati. Gli eventuali dubbi sulla loro esistenza sono fugati dalla norma 259 dello stesso codice, che cosí recita: «qualora qualcuno rubi una ruota per l’acqua del campo, pagherà cinque sicli in denaro al proprietario». Che non si tratti di un semplice shaduf, ma di un congegno rotante lo conferma la norma 260, che cosí prescrive: «se qualcuno rubi uno shaduf (usato per trarre acqua dal fiume o dal canale) o un aratro pagherà tre sicli in denaro». Sia per la contiguità delle norme, sia
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per la divaricazione delle penali, sembra dunque logico concludere che ruota per l’acqua e shaduf fossero diversi, inducendo a ravvisare nella prima un archetipo della coclea attribuita ad Archimede, notoriamente già impiegata lungo il Nilo intorno al VII secolo a.C., dove peraltro lo è ancora. Una pompa idraulica ideale in Mesopotamia, poiché poteva assicurare con poco sforzo una portata cospicua con scarsa prevalenza: fondamentale la prima, dato che occorreva molta acqua per l’irrigazione, compatibile la seconda per la ricordata esiguità del dislivello tra fiumi e campi. Non siamo in grado di stabilire quale fosse il congegno eolico destinato a far girare le ruote di Hammurabi, di certo sappiamo che in quella stessa regione, proprio intorno al VII secolo a.C., comparve una singolare girante eolica di razionale concezione, che per la storia è il piú arcaico motore primario. Vari indizi inducono a crederla simile agli appena piú recenti mulini eolici cinesi ad asse e pale verticali, per uso irriguo. Di straordinaria semplicità, non richiede venti forti e costanti, in quanto può funzionare anche con lievi e mutevoli brezze, e la si deve immaginare simile a una sorta di giostra di pertiche legate fra loro e intorno a un albero verticale centrale.
Resistenza massima e minima In dettaglio, due telai orizzontali uguali, superiore e inferiore, di otto o di sei lati, di 3-4 m circa ciascuno: da ogni loro spigolo partono un listello radiale, che va a incastrarsi nell’albero, e dei montanti verticali, di 3 m circa, che uniscono i telai. A ogni montante è fissata una stuoia, in grado di orientarsi, cosí da offrire da un lato la massima resistenza aerodinamica e la minima da quello opposto, grazie alla disposizione obliqua delle pertiche del telaio inferiore, che gli impediva di disporsi come altrettante banderuole nel vento, annullandone la spinta. Col tempo, per incrementarne la robustezza, si costruirono giranti di diametro via via minore e vele di altezza sempre maggiore,
Nella pagina accanto in basso ricostruzione grafica di una girante eolica mesopotamica, utilizzata per l’irrigazione dei campi: una sorta di giostra a vele quadre orientate dallo stesso vento.
edificio
A sinistra ricostruzione virtuale di mulino afgano a doppia girante e, a destra, la sua planimetria.
vano uscita
girante
altra pala esposta pale esposte al vento A destra prospetto di un mulino afgano a doppia girante. il castello della girante era formato con leggeri pali, legati ad ogni spigolo fra loro, ai montanti verticali ed ai raggi orizzontali infissi nell’albero.
vano uscita del vento
locale macine
l’albero della girante era collocato all’incrocio di due coppie di assi paralleli orizzontali, che, costituendo una rudimentale boccola, gli consentivano di ruotare senza eccessivi attriti.
stuoie di canne legate fra loro, con la medesima tecnica delle vele quadre delle primitive imbarcazioni, fissate a un pennone superiore, sostenuto da una fune che ne consentiva l’orientamento.
i pennoni che sorreggevano le stuoie erano fissati a pali verticali, formanti, con quelli orizzontali del perimetro e i radiali dell’albero, una sorta di castello, abbastanza robusto da sopportare anche venti violenti.
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finendo per innestarle direttamente all’albero. Questo divenne cosí il rotore di un’antesignana turbina, che lasciava esposte al vento solo poche pale, mediante una stretta e lunga feritoia lasciata nella torre che lo conteneva, tecnicamente definibile statore, criterio informatore tutt’ora adottato per convogliare il fluido sulle pale delle turbine. Emblematicamente si rintracciano nel sanscrito l’aggettivo tur-as e il verbo tur-ami col significato rispettivo di «veloce» e di «affrettarsi». Implicito il senso dinamico della radice tur, recuperata dal latino prima e dall’italiano poi, acquisendo un significato piú specifico di moto veloce e vorticoso, quindi rotatorio, precipuo dei cicloni o dei gorghi: turbine, tornado, perturbazione e, per analogia figurata, turbamento come improvviso e radicale cambiamento dello stato d’animo. Ma anche turbante, per la striscia di tessuto fatta girare intorno al capo. L’archetipo dell’ampia famiglia di mulini ad asse verticale, il mulino afgano, o persiano che dir si voglia, consta di un albero munito di varie stuoie a raggiera fungenti da pale, alla cui estremità inferiore è incastrata e resa solidale una macina orizzontale di pietra, posta sopra un’altra identica, ma fissa.
Il vento del Nord La rozza girante sta inserita in un apposito edificio, sulla cui sommità due travi ravvicinate originano un rudimentale ceppo, per l’estremità superiore dell’albero, garantendone l’assetto verticale e la rotazione. Un’antichissima fonte cosí li descriveva: «Hanno otto ali e stanno dietro due pilastri tra i quali il vento deve spingere un cuneo. Le ali sono montate verticalmente su un palo verticale la cui estremità inferiore muove una macina che ruota sopra un’altra sottostante». I due pilastri formano, in realtà, l’accennata fessura, larga poco meno della stuoia, ma di pari altezza, attraverso cui penetra il vento, tra quelle vallate di direzione costante gran parte dell’anno.
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Nella pagina accanto, in alto tavola raffigurante uno degli esperimenti di volo compiuti dal pioniere dell’aviazione tedesca Otto Lilienthal (1848-1896). In basso busto raffigurante un personaggio tradizionalmente identificato con Archita o con Pitagora. Età ellenistica. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Un’altra fonte piú recente, infatti, precisa che: «nell’Afghanistan tutti i mulini a vento (…) sono mossi dal vento del nord e quindi orientati in questa direzione. Tale vento è molto costante in quel paese e soffia con maggior costanza e piú forza durante l’estate. Applicate ai mulini a vento vi sono delle file di persiane che vengono chiuse o aperte per trattenere o immettere il vento. Infatti se questo è troppo forte la farina brucia e diventa nera e la stessa macina può surriscaldarsi e guastarsi». Il descritto mulino eolico a orientamento fisso, non si avvaleva di alcun cinematismo, né di alcun riduttore di giri, peculiarità che, nonostante l’infimo rendimento, ne spiega l’eccezionale longevità, forse la maggiore nell’ambito della storia tecnologia. I mulini eolici occidentali hanno la girante ad asse orizzontale o lievemente obliquo, con un evidente vantaggio energetico: essendo, infatti, tutte le pale investite insieme dal vento imprimono tutte un’identica spinta sull’albero, la cui somma determina una resa di gran lunga superiore all’afgano. A differenza di quest’ultimo, però, proprio per poter essere sempre esposta in favore del vento che soffia di volta in volta, tale girante ha bisogno di essere orientata, a mano o con un organo meccanico detto timone, in sostanza un’enorme bandoliera. La trasformazione, che anche in questo caso rimonta all’antichità, trova esplicita menzione in un trattato di Erone (I secolo d.C.), e, per la sua indubbia autorità, assume valore dirimente. Descrivendo il suo organo pneumatico, si sofferma sulla ruota a palette impiegata per produrre l’aria compressa necessaria al suo funzionamento, simile a quella di un’odierna elettroventola. Per lui, però, somigliava a un anemourion, una macchina ritenuta talmente nota ai suoi lettori, da non richiedere ulteriori spiegazioni: per noi, invece, solo l’etimologia ci è di aiuto per identificarla e, riconoscendosi nel vocabolo la parola «vento», il suo senso complessivo era di una macchina azionata dal vento, forse un mulino ad asse orizzontale.
Movimenti rapidi e continui Volendo fugare ogni dubbio, non fosse altro per la rilevanza che la girante eolica riveste nella storia della tecnologia, il brano di Erone è inequivocabile quando precisa che quella piccola girante ha «ali simili a quelle dei mulini a vento. Quando queste ali, mosse dal vento, fanno girare il disco F, anche l’asse gira (...) Si può spostare il basamento che sostiene l’asse in modo di approfittare sempre del vento dominante per produrre cosí un movimento di rotazione piú rapido e continuo». La necessità di orientare l’asse della girante per poter sfruttare il vento del momento, ribadendo che l’anemourion fosse una girante eolica, fa escludere però che lo fosse di tipo afgano, incongruo per tale spostamento.
| Il volo di Dedalo e quello del samurai | Stando alla tradizione, Archita (matematico, stratego e filosofo greco della prima metà del IV secolo a.C.) avrebbe inventato l’aquilone e, forse, anche una colomba che, battendo le ali, riusciva a volare. Stando alla leggenda, invece, Dedalo, secoli prima, si librò nel cielo di Creta con ali posticce. In ogni caso, non ci volle un acume particolare per constatare che le foglie secche spinte dal vento si sollevavano nell’aria. In definitiva, per volare sarebbe servita un’esile vela, simile a una gigantesca foglia, capace di catturare il vento propizio o, piú correttamente, una corrente termica ascensionale abbastanza intensa. L’intuizione fu sicuramente rafforzata dalla visione delle grandi vele gonfie che spingevano le imbarcazioni. Per cui se per spostarsi sul mare la vela doveva opporsi verticalmente al vento, per spostarsi verso l’alto avrebbe dovuto farlo orizzontalmente. Sarebbe occorso un telaio, leggero e robusto, variante aerea dell’albero e del pennone, al quale il pilota si sarebbe avvinto con una imbracatura. E forse qualcosa del genere costruí Dedalo per evadere dal labirinto, con vimini, piume e cera: ma finí in tragedia. Curiosamente, un episodio simile s’incontra anche nella mitologia giapponese, oltre due millenni dopo. Intorno al 1100, un nobile samurai, Minamoto no Tametomo, condannato con l’innocente figlio all’esilio sull’isola di Hachijo, riuscí a far fuggire il giovane costruendo un aquilone gigante di vimini e carta. Di certo in Cina e in Giappone gli aquiloni giganti, perfettamente in grado di sollevare uno o due uomini, risultano presenti già nel IV-III secolo a.C., usati, in sostanza, come torri di eccezionale altezza. Per rintracciare, però, dei riferimenti attendibili e circostanziati in merito agli aquiloni giganti con equipaggio a bordo, si deve attendere il 1285 e il Milione di Marco Polo. In quale modo, poi, venissero costruiti quei giganti dell’aria lo possiamo facilmente ricavare dai consimili che i pescatori di un villaggio del Giappone hanno continuato a costruire, con bambú e carta. Per l’esattezza fino al 1914, fortunatamente ancora in tempo per lasciarne un’indiscutibile memoria fotografica. È pertanto probabile che la notizia della loro esistenza, divulgatasi lungo la via della seta forní ad Archita lo spunto per il suo aquilone. Ma fu Leonardo a dargli una connotazione piú utile e piú governabile, liberandolo dalle funi di molleggio e di vincolo, e rendendolo perciò identico a un attuale deltaplano.
In basso, modellino di un possibile apparecchio per il volo realizzato in occasione di una mostra sulle grandi invenzioni della storia.
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la climatizzazione U
n affresco della tomba di Nebamun, funzionario vissuto durante il regno del faraone egiziano Amenofi III (1387-1348 a.C.), ne raffigura le proprietà tra cui la casa, sormontata da due curiosi triangoli rettangoli contrapposti: si tratta di due bocche di aerazione, note in Egitto da tempo remoto come malqaf, orientate una sottovento e l’altra sopravvento. Bocche analoghe compaiono anche nella casa raffigurata in una delle vignette che illustrano il Libro dei Morti di Nakht, scriba reale e sovrintendente all’esercito vissuto alla fine della XVIII dinastia (1543-1292 a.C.), e in alcuni modelli in terracotta altrettanto vetusti, confermandocene il vasto impiego, che possiamo giustificare con la loro natura di climatizzatori ante litteram.
Come gigantesche narici Quei corpi a cuneo, infatti, erano gli organi di captazione del vento, uno dei due sistemi di ventilazione passiva, cioè senza impiego di energia, consistendo l’altro nell’estrazione dell’aria calda dall’interno delle abitazioni per convezione. Entrambi risultano ben noti e impiegati dall’antichità. I primi si riducevano ad aeratori, o convogliatori, in pratica gigantesche narici, in cui il vento s’infilava penetrando nella casa; i secondi, invece, erano alte torri, in cui, per l’azione congiunta del vento e del riscaldamento solare, si creava un tiraggio, simile a quello dei camini, che
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Dubai, quartiere di Bastakiya. Case sormontate da «torri del vento», strutture per convogliare le correnti d’aria all’interno delle abitazioni. Queste oggi in uso sono discendenti dirette delle prime opere del genere, attestate nel Vicino Oriente già nel II mill. a.C. Nella pagina accanto, in basso vignetta in cui, sulla destra, si riconosce un’abitazione sormontata da due malqaf in linea (vedi il particolare a p. 121), dal Libro dei Morti di Nakht, funzionario della corte faraonica vissuto negli ultimi anni della XVIII dinastia (1543-1292 a.C.). Londra, British Museum.
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il prototipo aspirava l’aria caldo-umida stagnante nelle abitazioni immettendovi l’aria secca e fresca dell’esterno. In ultima analisi entrambi i sistemi funzionavano per la maggiore pressione dell’aria fredda rispetto alla calda, per cui la prima, immessa in un ambiente privo di ventilazione, spingeva verso l’alto la seconda, espellendola in maniera tanto piú rapida quanto piú alto fosse stato il vano di uscita: si spiega cosí il maggiore rendimento del doppio malqaf sulla casa di Nebamun. Si innescava cosí una circolazione alimentata proprio dal diverso riscaldamento solare.
Case annerite dalla fuliggine Il fenomeno, come detto, è lo stesso che si verifica nel tiraggio dei camini, e forse fu anche per questa ragione che le case romane, sin dall’origine, ebbero l’impluvio nell’atrio – da ater, nero per la fuliggine (propriamente detta «particolato carbonioso») – utilizzato piú per far uscire il fumo, determinando una ventilazione salutare, che per farvi entrare l’acqua!
l’aria secca che circola a una decina di metri di altezza, senza perciò strisciare sul terreno, essendo diatermana è ovviamente piú fresca, e quindi piú densa, per cui, catturata dalla bocca dell’aeratore, corre subito in basso, all’interno del vano agibile, espellendone l’aria calda e umida stagnante.
DUE MALQAF contrapposti spiccano sulla copertura dell’edificio, cosí orientati per catturare in un verso le brezze di mare o di monte, e per espellere dall’altro l’aria caldo umida interna. In tale impianto, perciò, le funzioni di captazione e di espulsione si invertono ciclicamente.
In alto una casa sormontata da una coppia di malqaf: elaborazione grafica di un particolare dell’affresco della tomba di Nebamun, funzionario vissuto durante il regno di Amenofi III (1387-1348 a.C.).
A sinistra ricostruzione grafica di un aeratore fisso, del tutto analogo ai malqaf dell’antico Egitto.
lE PARETI dell’aeratore sono realizzate in muratura di discreto spessore, ben intonacata, per ridurre gli effetti del riscaldamento superficiale e per dargli una sufficiente resistenza meccanica anche ai venti piú forti.
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egiziano e alcune sue varianti
Qui sotto ricostruzione grafica di badghir o torre del vento, parzialmente sezionata per evidenziarne i quattro condotti interni per la discesa dell’aria fresca e per la risalita di quella calda.
PER AVERE LA CERTEZZA di catturare qualsiasi vento soffi, le torri di captazione terminano con quattro prese, otto nelle migliori, comunicanti con altrettanti condotti verticali, fra loro separati.
In alto l’abitazione provvista di due malqaf raffigurata nel Libro dei Morti di Nakht. Fine della XVIII dinastia (1543-1292 a.C.). Londra, British Museum.
Qui accanto ricostruzione grafica di un aeratore pakistano a sezione quadrata e copertura inclinata a 45°.
LA TEMPERATURA dei venti diminuisce con l’aumentare della loro distanza dal suolo, poiché l’aria si lascia attraversare dalla radiazione solare senza però riscaldarsi, effetto che si ha solo a contatto col suolo.
l’inclinazione della copertura di un aeratore pakistano, nei modelli migliori, è variabile, comandata tramite una apposita fune, modificando cosí la quantità di aria immessa.
LA BOCCA DI PRESA degli aeratori pakistani, per lo piú a sezione quadrata, è ricavata in un loro spigolo in modo da favorirne l’imbocco nel condotto sottostante.
MENTRE UNA SOLA presa cattura il vento fresco dominante, immettendolo all’interno dell’edificio con il suo condotto, le altre tre, tramite i loro, espellono l’aria caldo-umida che vi ristagna.
le pareti delle torri sono sempre intonacate per omogeneizzarne sull’intera superficie di ciascun lato il riscaldamento, determinando in tal modo nei loro condotti interni già delle correnti convettive che incrementano l’efficacia della torre persino in assenza di vento.
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Volendo descrivere meglio i convogliatori per captazione, il criterio informatore è abbastanza semplice, trattandosi, in sostanza, di aeratori simili a quelli che si applicano nei tetti a tegole o, con l’etichetta di maniche a vento, sulla tolda delle navi, per arieggiare i sottostanti locali, ovviamente di dimensioni adeguate. Poiché l’orientamento è stabile, erano ideali laddove il regime dei venti lo fosse altrettanto, connotazione frequente nel Vicino Oriente.
Lo scirocco che dura cinquanta giorni In Egitto, per esempio, il khamsin, una sorta di opprimente scirocco, caldo e polveroso, spira da sud o sud-est per una cinquantina di giorni: captandolo mediante un aeratore inclinato e conducendolo all’interno di una casa, mantenendo al contempo aperto un vano, si determinava una ventilazione che, consentendo la traspirazione, garantiva un discreto benessere. Se poi, e tutti gli esperimenti pratici lo hanno confermato, sulla copertura si monta anche un secondo convogliatore, il rendimento non può che aumentare, dal momento che si agevola la fuoriuscita dell’aria, e diviene massimo quando le due bocche hanno orientamento opposto, come nella casa di Nebamun, rendendo il ricambio fino a tre volte piú veloce e quindi piú vivace la ventilazione! Senza contare che un sistema a due malqaf contrapposti risulta ottimale per venti provenienti ciclicamente da direzioni opposte, come, per esempio, le brezze di mare e di monte. Sulle coperture di molte abitazioni del Vicino e Medio Oriente, come per esempio a Hyderabad in Pakistan, città battuta dai monsoni, il malqaf si trasformò in un condotto quadrato, di circa 1 m di lato, sormontato da una lastra inclinata di legno o di lamiera regolabile, comunicante in basso con l’interno dell’abitazione.
Stracci inzuppati d’acqua Tuttavia, il vento cosí captato, non riduceva la temperatura ma, come un attuale ventilatore assiale, ventilando l’ambiente, provocava il ricambio di aria e, riducendovi l’umidità
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quando l’acqua porta il fresco L’ARIA SECCA relativamente fresca circola ad altezza eccessiva per la captazione, costringendo perciò a una captazione sotterranea, in corrispondenza di un cunicolo di qanat attivo, percorso da un discreto flusso d’acqua. Quella caldo-umida risucchiata dalla torre è dispersa dalla sua unica bocca. L’ALTEZZA DELLA TORRE, in questo caso di sola espulsione, serve per creare al suo interno un tiraggio per l’espulsione dell’aria caldo umida interna, innescato dal riscaldamento delle sue pareti esposte al sole. I paletti che fuoriescono dall’intonaco si utilizzano per i ponteggi durante le frequenti manutenzioni.
IL CORSO DEL QANAT termina spesso sul fianco di una pendice, lasciando allora fuoriuscire l’acqua come da una normale cospicua sorgente, che, nei casi piú abbondanti, forma piccoli laghi.
stagnante, riattivava la traspirazione. Per ottenere un reale abbassamento di temperatura, in diverse circostanze, si ponevano all’interno del condotto discendente stracci inzuppati d’acqua, blocchi di carbone altrettanto intrisi o, ancora, vi si immetteva un leggero stillicidio da un apposito serbatoio posto sul terrazzo. In tutti i casi l’acqua, evaporando, sottraeva calore all’aria di passaggio, abbassandone la
Sezione schematica di torre del vento per qanat.
LO SCAVO dei qanat, per agevolare l’eliminazione del materiale di risulta, si avvale di numerosi pozzi verticali, indispensabili anche per fornire l’aria agli scavatori. In seguito, proprio l’aria che, penetrando dai pozzi, satura la galleria del qanat, raffreddandosi a contatto con l’acqua viene aspirata all’interno dell’edificio.
temperatura, e determinando, perciò, un’effettiva refrigerazione.
Una o piú bocche I malqaf vennero costruiti, e in alcune regioni continuano a esserlo, con un’unica bocca o con due abbinate contrapposte ma con condotti distinti, evolvendosi poi in torri a quattro o otto bocche svettanti sulle coperture. Il sistema di ventilazione, a quel
L’ARIA CALDO UMIDA interna all’edificio è aspirata dalla torre grazie al suo tiraggio, mentre quella fredda del qanat vi è risucchiata, contribuendo per la sua maggiore densità alla totale espulsione di quella ristagnante.
punto, mutò dalla pura captazione alla captazione per estrazione dell’aria: a quota maggiore, infatti, il vento è piú fresco e piú veloce, e, poiché trasporta anche meno polvere e sabbia in sospensione, garantisce una ventilazione piú efficace. Fra i 15° e i 30° di latitudine, sono compresi l’Iran – antica Persia –, l’Afghanistan, l’Arabia Saudita, lo Yemen, con temperature medie diurne comprese fra i 40°-50° e una fortissima
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| Lastre di vetro alle finestre | A partire dal I secolo la produzione del vetro fece registrare progressi straordinari, in particolare per quanto concerne la soffiatura, come è attestato anche da Plinio. La facilità di lavorazione consentí di soddisfare la richiesta di ampie lastre di vetro per gli infissi delle abitazioni. Gli scavi di Ercolano e di Pompei hanno confermato la loro adozione, come nella Casa dell’Atrio a Ercolano. Un settore dell’ambulacro orientale della dimora, prospiciente un elegante giardino e coperto da una tettoia con travi di legno, era chiuso da un telaio verticale, anch’esso in legno, ma a rettangoli, nei quali erano inserite le lastre di vetro. Queste, ovviamente, avevano dimensioni relativamente ridotte, comprese fra i 40 e i 60 cm di lato, e i reperti riferibili a tali manufatti provano l’adozione di un modulo standard, pari a 51 x 45 cm, con una colorazione verdastra e un approssimato parallelismo. Oltre che in telai di legno, le lastre di vetro erano non di rado montate anche in telai di metallo e mantenute in sito da apposite borchie di bronzo. In alcuni casi furono montate in telai interamente di bronzo, capaci di consentire la totale chiusura di ampi vani e, a volte, degli intercolumni di un peristilio. La stessa tecnica degli infissi vetrati si usò per la costruzione di serre, non di rado mobili su appositi carrelli, come quella di Tiberio ricordata da Plinio e Columella, per la coltivazione dei cetrioli di cui era ghiotto. In linea di massima consisteva in un carrello a quattro ruote, di discrete dimensioni, forse 2,0 x 1,4 m: all’interno delle sponde, per una decina di centimetri di spessore, vi era deposto il terreno; una ventina di centimetri al di sopra stavano collocate le lastre di vetro, sorrette da un adeguato telaio. A seconda delle condizioni meteorologiche il carrello-serra veniva spostato e collocato nella posizione migliore per le piante. Plinio, a sua volta, descrive una struttura fissa vetrata al cui riparo stavano diversi carrelli, concettualmente simili al precedente sebbene piú piccoli. In base al tempo venivano estratti e lasciati all’aria aperta o lasciati nella loro trasparente protezione.
Da sinistra, in senso orario serra mobile in vetro, da Ercolano: simili dispositivi sono menzionati dalle fonti, tra cui quello di cui disponeva Tiberio per la coltivazione dei cetrioli; una lastra di grande formato; ricostruzione grafica di una veranda vetrata, simile a quella che possiamo immaginare per la Casa dell’Atrio di Ercolano.
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escursione termica fra il giorno e la notte, peculiarità che, rendendo impossibile l’utilizzo delle finestre, dalle quali entrerebbe ulteriore calore, obbligarono all’adozione degli aeratori a torre. Perlopiú a pianta quadrata, si innalzano fra gli 8 e i 15 m, e vennero definiti in persiano badghir – letteralmente, «prendi vento» –, e per noi «torri di ventilazione». La parte superiore di ogni faccia era forata da strette fessure verticali, in modo da formare una sorta di griglia di presa dinnanzi al retrostante convogliatore a tramoggia, largo quanto la stessa torre. Il corpo, invece, era diviso, da un diaframma verticale a X, in altrettanti condotti, tutti sfoganti nel soffitto dell’abitazione sottostante.
Orientati ai quattro venti In pratica la sommità di una torre si strutturava in quattro malqaf affiancati, orientati ai quattro venti, per cui quello al momento dominante, penetrando dalla griglia contrapposta, s’incanalava nel relativo condotto, sbucando nella casa. Essendo la superficie della presa in media di circa 15 mq e il condotto a mala pena di 2, l’aria, scendendovi, subiva una leggera compressione che, senza aumentarne la temperatura, ne aumentava la velocità, per cui, giunta nella stanza con aria calda e a bassa pressione, vi si espandeva istantaneamente, raffreddandosi ed espellendola dagli altri condotti della torre, che ne agevolavano la risalita. Una torre quadrata, infatti, quale che ne fosse l’orientamento, aveva nel corso della giornata due lati necessariamente in ombra, per cui, anche in assenza di vento, l’aria all’interno dei quattro condotti raggiungeva temperature molto diverse: torrida in quelli soleggiati e fresca negli altri. Si generava cosí un’altrettanto divaricata differenza di pressione che, a sua volta, innescava vivaci correnti convettive, con una conseguente ventilazione forzata della casa di 7°-8° piú fresca, di giorno e di notte. Abbassamenti ancora maggiori si ebbero quando, ispirandosi agli stracci bagnati nei malqaf, si captò tramite le torri di ventilazione l’aria fredda circolante nei qanat (lunghi cunicoli con numerosi pozzi verticali, che
captano l’acqua freatica e la conducono all’esterno per la quasi assoluta mancanza di evaporazione), comunissimi in Persia e in Arabia. A differenza delle precedenti, queste torri avevano un’unica apertura superiore, orientata sopravvento, e una inferiore nell’abitazione: il vento che lambiva la prima originava una forte depressione nella torre, accentuata dal tiraggio, che subito si estendeva all’intera abitazione. Questa, edificata su uno dei tanti pozzi del qanat, ne aspirava perciò la fredda aria che vi circolava liberamente sopra il pelo dell’acqua, penetratavi dagli altri, in media uno ogni 30 m di galleria, indispensabili in fase di scavo per estrarre il materiale di risulta e in seguito per garantire la giusta ventilazione all’acquedotto. La temperatura dell’aria nel qanat, infatti, era sensibilmente minore dell’esterna, sia per essere ad alcune decine di metri di profondità, sia per essere a contatto con l’acqua freatica, sempre fredda. Poiché alla minore temperatura corrisponde una maggiore pressione, quell’aria non sarebbe in alcun modo potuta risalire senza la rilevante aspirazione esercitata dalla torre, ma, per il suo potente risucchio, invadeva dapprima lo scantinato, in cui si apriva il pozzo e quindi saturava l’abitazione, mentre la calda continuava a esalare nel vento.
Una risorsa inesauribile Diversamente dai dispositivi di ventilazione già descritti, quest’ultimo disponeva di un potente refrigerante, praticamente inesauribile e a temperatura costante, per cui si reputa a giusta ragione il migliore aeratore passivo, tant’è che ancora oggi sono in molti a ritenerlo, per esperienza diretta, superiore ai piú avanzati climatizzatori. Nonostante l’onnipresenza dei climatizzatori moderni, anche per effetto della crisi energetica, la tendenza che stava rapidamente portando alla completa distruzione delle torri del vento, inizia a invertirsi. Una promettente architettura naturale, riscoprendo e riutilizzando i criteri abitativi meno devastanti per l’ambiente, ha recuperato la ventilazione passiva dopo alcuni millenni di onorato servizio.
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fiamme di vita e di morte
l’uomo riuscí ad avere il controllo del fuoco già in età preistorica. Da allora, il calore e l’energia sono stati sfruttati in una serie incalcolabile di macchine e applicazioni
Carlo Bonavia, pittore italiano del XVIII sec., immaginò cosí il fiume di lava che dalla bocca del Vesuvio si riversò sulla piana sottostante in occasione della devastante eruzione del 79 d.C.
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PORTE AUTOMATICHE L
a parola «taumaturgo», dal greco composto di thauma, «miracolo», e dalla radice erghein, «fare», se letteralmente tradotta, definisce un fabbricante di miracoli, un «illusionista» capace di produrre fenomeni apparentemente soprannaturali. Proprio per la supposta capacità di operare guarigioni miracolose da malattie inguaribili, in particolare dalla scrofola, furono chiamati «taumaturghi» i sovrani francesi e inglesi tra il IX e il XVIII secolo. In età ellenistica, invece, ebbero questo nome progettisti e costruttori di macchine automatiche, automata, che, compiendo azioni che esulavano dalle coeve esperienze meccaniche, sembravano realizzare veri e propri miracoli. A differenza degli illusionisti, però, siffatti portenti non scaturivano da un volgare trucco, ma da complesse sequenze meccaniche, che rievocavano comportamenti fino ad allora precipui dell’uomo. Per noi, chi progetta e costruisce macchine, congegni e ingegni, è definito «ingegnere» e tali devono essere considerati i docenti del Museo di Alessandria, la massima istituzione scientifica dell’antichità. Fra tutti, ebbe un ruolo preminente Erone, sebbene alcune sue macchine fossero semplici migliorie di meccanismi da tempo esistenti e ben noti. Una meticolosa ricerca, infatti, ha evidenziato che tra i congegni esposti nella sua Pneumatica, 44 erano già stati descritti da Filone, ripresi poi da Ctesibio, 8 fornivano soluzioni alternative e soltanto 23 possono reputarsi del tutto nuovi. Il piú originale e, per noi, privo di qualsiasi analogia precedente e anche successiva è l’eolipila, il primo motore termico a combustione esterna, posto in rotazione dalla reazione alla violenta espansione del vapore.
Un «radiocomando» ante litteram Il riscontro della multiforme genialità di Erone si coglie nella dettagliata descrizione lasciataci, e fortunosamente pervenutaci, di una delle sue piú stupefacenti invenzioni: il
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meccanismo ideato per aprire in modo automatico le porte di un sacello, poco dopo l’accensione sull’antistante ara di un fuoco sacrificale, e per farle poi richiudere all’estinguersi delle fiamme. Un congegno, per inciso, che anticipa di venti secoli gli attuatori radiocomandati che ci spalancano cancelli e porte, e che forse neppure allora fu un’assoluta novità! Lo scienziato, infatti, concludeva la relazione esplicativa affermando che altri tecnici: «al posto dell’acqua usano il mercurio perché piú pesante e di migliore reazione al calore». Una precisazione che testimonia non solo l’esistenza di congegni analoghi, ma anche la consapevolezza motivata circa la loro migliore efficienza, anche se di certo, aggiungiamo noi, essi dovevano essere molto piú costosi. Una tecnologia dunque piú antica che, come si deduce dalle altre sue proposizioni, rimonta all’età ellenistica e a Ctesibio, in particolare. Quanto al congegno in questione, sebbene Erone sembri reputarlo idoneo esclusivamente per un naiskos, cioè un tempietto chiuso da una leggera porta a due ante e con un’antistante ara sacrificale, lo si è attribuito da sempre al tempio di Serapide di Alessandria, che, stando alle narrazioni piú o meno coeve, non era affatto tale.
«Statue che sembrano vive» Ammiano Marcellino, per esempio, cosí lo descriveva: «Il Serapeo, il cui splendore è tale che le semplici parole possono solamente sminuirlo, è talmente ornato di grandi sale colonnate, di statue che sembrano vive e tanta moltitudine di altre opere, che niente altro, eccetto il Campidoglio, simbolo dell’eternità della venerabile Roma, può essere considerato piú fastoso al mondo» (Res Gestae XXII, 16). Nulla però aggiunge circa le porte automatiche di Erone, che, qualora esistenti, non sarebbero di certo passate inosservate, per cui o si erano nel frattempo irreparabilmente guastate ed
un manicotto metallico collegava il polmone con un serbatoio d’acqua, entrambi a tenuta ermetica. Questo era collegato, con un secondo tubo a sifone, a un serbatoio mobile in cui l’aria calda, dilatandosi, vi travasava l’acqua.
il serbatoio mobile una sorta di secchio sospeso a una catena, ricevendo l’acqua, aumentava di peso e, vincendo cosí la resistenza dei cardini dei battenti e del relativo contrappeso, ne provocava la rotazione.
S’ACCENDE LA FIAMMA... E S’APRONO LE PORTE Ricostruzione grafica del gruppo motore (in basso) nell’ara di Erone, e dell’attuatore per l’apertura e chiusura dei battenti del portone (a destra).
la base su cui avveniva la combustione non poteva essere di marmo, isolante termico, ma quasi certamente di rame. Una sorta di scatola chiusa, un polmone incastrato nell’ara, che, riscaldandosi rapidamente, faceva aumentare la temperatura dell’aria contenuta al suo interno
erano state perciò rimosse, o, in realtà, non erano mai state montate in quel tempio, serrato peraltro da pesanti battenti di bronzo. In conclusione, sembrerebbe trattarsi di un progetto con tanto di modello in scala perfettamente funzionante, forse un potenziamento di congegni minori, magari a mercurio, installati su altri edifici. In ogni caso resta intatta la notevole rilevanza della concezione, l’unica conosciuta, di macchina termica automatica a ciclo reversibile. Il congegno è descritto nella XXXVIII proposizione della Pneumatica, tradotta dal greco in latino col titolo di Heronis Alexandrini
i montanti dei battenti delle porte, attraversati i cardini ad anello, erano fissati a due grosse pulegge, poste sotto la soglia, alle quali erano avvinte due catene che da una estremità si andavano a unire a quella del serbatoio mobile.
Spiritalium liber da Federico Commandino nel 1575. A corredo del testo, vi è una chiara illustrazione, da reputarsi, piuttosto che un’attendibile raffigurazione, uno schema meccanico e, come tale, riproposto nel tempo senza modifiche, come per esempio nell’edizione del 1680 di Giovan Battista Aleotti intitolata Spiritalia. L’ara non ebbe nell’antichità una dimensione prestabilita e univoca, ma fu costruita secondo un ampio repertorio e due sole caratteristiche: alta per le divinità celesti, bassa per tutte le altre. Poiché Serapide era una divinità celeste per antonomasia, l’ara in
le pulegge azionate dalla catena messa in movimento dalla discesa del serbatoio mobile, spalancavano i battenti. Risalendo, il contrappeso prevaleva e, tirando la catena al contrario, li chiudeva.
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Busto di Serapide, copia romana, da un originale scolpito intorno al 320-310 a.C. da Briasside per il Serapeo di Alessandria. II sec. d.C. Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.
questione si deve presumere di discreta altezza, connotazione propizia all’installazione del congegno di cui, in base a considerazioni discordanti dal suddetto schema rinascimentale, è logico supporre che fossero collocati proprio in essa la caldaia e il motore. Ciò premesso, la descrizione di Erone illustra i componenti del suo progetto che, in base all’odierna meccanica, possono raggrupparsi in un gruppo motore, posto nell’ara, e in un attuatore applicato ai cardini dei battenti. Riguardo al primo, interpretato in molti testi come un’antesignana macchina a vapore, va ridotto, invece, a un dispositivo che, sfruttando la dilatazione dell’aria calda, travasa mediante un sifone l’acqua contenuta in un serbatoio fisso in uno mobile e viceversa, al termine del ciclo. Banalizzandolo, un congegno affine allo sciacquone del water, eccezion fatta per l’irreversibilità del secondo.
La fiamma dell’ara innesca il prodigio In pratica nel piano superiore dell’ara stava incastrata un’ampia scatola ermetica, forse di rame, che comunicava mediante un breve tubo con un serbatoio sferico sottostante, in parte colmo d’acqua. Un secondo tubo, a «U» rovesciata, come un sifone, collegava il suo interno con quello del serbatoio mobile, una sorta di secchio sospeso con una catena. Acceso il fuoco sacrificale sull’ara, l’aria dentro la scatola si dilatava spingendo, attraverso il tubo, l’acqua contenuta nella sfera che, rimontando il sifone, si riversava quasi interamente nel secchio. Il secchio cosí
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appesantito dall’acqua prevaleva sul contrappeso a cui era avvinto e, scendendo, lo costringeva a salire. Spentosi il fuoco, l’aria nella scatola e nella sfera si raffreddava e, contraendosi, aspirava sempre attraverso il sifone, l’acqua dal secchio. Tornato piú leggero del contrappeso il secchio saliva, recuperando la posizione iniziale, mentre il secondo scendeva. Una serie di pulegge e di catene rendeva solidale al saliscendi del contrappeso la rotazione dei battenti, facendoli aprire durante l’ascesa e chiudere nella discesa. Il congegno era azionato dall’energia termica, prodotta dal fuoco sull’ara e recuperata da una scatola di lamiera affiorante sulla sua superficie, chiusa ermeticamente e unita con un tubo alla sfera. Tenendo conto delle dimensioni medie delle are, la si può supporre di circa 100 x 40 x 15 cm, ovvero di una sessantina di litri.
Vincere la resistenza dei battenti Ciò premesso, il dimensionamento del congegno parte dalla stima della forza necessaria per far girare un battente: reputandola di 10 kg, per la coppia di un portone ne sarebbero occorsi 20 kg, per cui, considerando gli attriti, il contrappeso che li chiudeva doveva pesare almeno 25 kg. Per aprirli, però, occorreva vincere sia la loro resistenza che quella del contrappeso, ovvero sollevare 45 kg, lavoro delegato alla discesa del secchio. Zavorrando quest’ultimo con 45 kg di pani di piombo, il sistema era in equilibrio, per cui bastava fornire una minima preponderanza al contrappeso per mantenere serrati i battenti e versare un po’ d’acqua nel secchio per vederlo scendere aprendo i battenti. In pratica appena una decina di litri d’acqua travasati dalla sfera! Una sfera di 30 cm di diametro contiene 14,5 l, cioè una quantità congrua a tale esigenza. Discreta doveva essere la sezione del tubo di raccordo con l’interno della scatola, lasciandone la bocca inferiore sopra il livello dell’acqua, come precisava Erone. Modesta, invece, la sezione del sifone fatto penetrare nella sfera e nel secchio per una ventina di centimetri, in modo da trovarsi sempre
| Scintille a comando | L’accensione del fuoco con le scintille generate dalla percussione di pietre silicee risulta praticata sin dalla preistoria, ma solo dal I secolo, nel mondo romano, agli acciarini a pietra focaia si affiancarono rudimentali fiammiferi, cosí ricordati da Marziale: «Che cosa sei allora? Un buffone, come un venditore ambulante trasteverino, che scambia zolfanelli giallicci con oggetti di vetro incrinati». Quei fiammiferi, però, non somigliavano agli zolfanelli inventati intorno al 1680 e che si accendevano tramite lo sfregamento su una piccola quantità di fosforo, assecondando un principio che fu alla base della loro produzione, avviata nel XIX secolo. Lo zolfanello romano era ottenuto impregnando, per immersione, steli di canapa nello zolfo fuso, per cui si poteva accendere solo per contatto con un’altra fiamma o una piccola brace: era, in sostanza, uno stoppino. Ma, nello stesso periodo, si ha notizia di un modalità di accensione completamente diversa, basata sull’impiego di sfere di vetro. E, restando al vetro, oltre alle produzioni di tipo industriale per l’edilizia, civili e di tipo artistico per oggetti di ragguardevole pregio, se ne conosce anche una di nicchia, che non sarebbe esagerato definire di tipo scientifico. Fu modestissima, ma basilare per le sue conseguenze: si tratta della fabbricazione di rozze lenti d’ingrandimento, piccoli vetri tondeggianti leggermente convessi, capaci di fornire una immagine ingrandita e, soprattutto, di concentrare i raggi solari in un punto, non a caso definito «fuoco». I medici militari già si servivano di una spessa calotta di cristallo di rocca per cauterizzare le ferite, descritta da Plinio: «Ho scoperto che, per i medici la modalità migliore per cauterizzare le ferite si ottiene con una sfera di cristallo fatta attraversare dai raggi del sole» (Storia Naturale, XXXVII, 28). Lenti del genere sono state ritrovate in varie regioni dell’impero e anche a Pompei. Le piú spesse servivano senza dubbio per uso medico, mentre le piú sottili furono impiegate proprio come lenti da vista, per consentire la visione ai soggetti anziani e, soprattutto, agli incisori. Del resto è abbastanza noto l’impiego di qualche filtro di smeraldo, classico quello usato da Nerone, per riposare gli occhi o forse per correggere qualche difetto visivo. Significativamente Ruggero Bacone nel V libro della sua Opus Maius affermava che gli antichi sapevano ingrandire tramite lenti gli oggetti molto piccoli e avvicinare tramite una combinazione delle stesse quelli molto lontani. Affermazione confermata da Roberto Grossatesta che, nel De Iride (1230), riteneva possibile realizzare microscopi e cannocchiali grazie ai fenomeni di rifrazione.
A sinistra e qui accanto repliche moderne di acciarini simili a quelli che dobbiamo immaginare in uso in età romana. Prima d’essere fabbricati in metallo, questi strumenti erano ricavati da pietre.
In alto la «lente» di Nimrud, trovata nel sito vicino-orientale da Austen Henry Layard. 750-710 a.C. Londra, British Museum. Si tratta di un dischetto di cristallo di rocca con una faccia piana e una convessa. Ha dunque proprietà ottiche, ma si tratta di un fatto accidentale e non ebbe perciò alcun impiego come lente.
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travaso, la bocca del sifone dentro la sfera restava all’asciutto, mentre il secchio, ormai pieno, vincendo la resistenza, scendeva, e tramite la catena faceva alzare il contrappeso e ruotare i battenti. «Miracolosamente», perciò, la porta si spalancava, rimanendo aperta finché l’acqua restava nel secchio, ovvero finché bruciava il fuoco sull’ara. Spentesi le fiamme, l’aria si raffreddava e contraeva, aspirando l’acqua dal secchio, e, facendola tornare nella sfera, alleggeriva il secchio, provocandone la risalita e la simmetrica discesa del contrappeso, con la conseguente chiusura dei battenti. Il congegno tornava pertanto alla configurazione iniziale, pronto per un nuovo ciclo. Ma di quanto sarebbe dovuto scendere e poi salire il serbatoio? Prometeo, olio su tela di Jan Cossiers (1600-1671), ispirato a un dipinto di Peter Paul Rubens. Madrid, Museo del Prado. Secondo il mito, avrebbe sottratto il fuoco a Zeus per darlo agli uomini. Il padre degli dèi lo puní facendolo incatenare a una roccia del Caucaso, dove un’aquila gli divorava il fegato che ricresceva continuamente.
immerso nell’acqua, sia nel primo travaso, dalla sfera, che nel secondo, dal secchio. Venendo al funzionamento concreto, acceso il fuoco sopra la scatola, l’aria al suo interno, riscaldandosi notevolmente, si dilatava, e il conseguente aumento di pressione, tramite il tubo di raccordo, si comunicava all’interno della sfera, costringendo l’acqua a uscire dal sifone, riversandosi nel secchio. Esaurito il
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Pesi e contrappesi Anche in questo caso occorre partire dai battenti. Per ridurre lo sforzo del rispettivo cardine, si deve immaginare sotto la sua flangia, del tipo di quelle rinvenute a Pompei, una puleggia di almeno 40 cm di diametro, con una catena vincolata nella gola, le cui due opposte estremità erano solidali rispettivamente al contrappeso e al secchio. Dovendo ogni battente ruotare di 90°, appena 30 cm per il bordo della puleggia, per ovvia conseguenza identica sarebbe risultata l’escursione della catena, identica a sua volta alla corsa del secchio, che, per non disinnescare il sifone, doveva avere all’interno non meno di 30 cm d’acqua. Ora per un volume di 10 l, che lato deve avere un serbatoio quadrato riempito per 30 cm? Il calcolo é facile: circa 18 cm, 20 se si voleva lasciare un bordo asciutto: in pratica una spanna! A questo punto l’apriporta di Erone funziona perfettamente e reversibilmente a spese dell’energia termica del fuoco sull’ara. Va infine osservato che, nel caso dell’impiego del mercurio, il quantitativo necessario sarebbe stato appena di un litro, consentendo di utilizzare perciò una sfera e un secchio molto piú piccoli, e tempi di attivazioni molto piú brevi.
LANTERNE A VENTO: I FARI N
ello studio della tecnologia antica, capita di imbattersi in invenzioni e congegni tanto somiglianti ai corrispettivi attuali, da farne sembrare scontato l’utilizzo, che spesso, invece, ebbe estrinsecazioni diverse. Emblematico è il caso degli antichi fari romani, analoghi per struttura agli attuali, ma differenti per modalità di funzionamento e logica d’impiego, il cui ammontare complessivo, sul finire del IV secolo d.C., si fa ascendere a oltre 400. Al pari della navigazione, da quel momento fino all’adozione della macchina a vapore, non mutarono gran che, riecheggiando tutti l’archetipo di provenienza, la leggendaria torre luminosa eretta dinanzi ad Alessandria, sull’isolotto di Pharos, assurta a faro per antonomasia. Una delle sette meraviglie, la piú longeva dopo la Grande Piramide, essendo crollata nel XIV secolo a causa di due violentissimi terremoti, a un millennio e mezzo dall’entrata in servizio. I suoi resti, non irrilevanti, finirono fagocitati nella base della medievale fortezza di Qait Bey. A volere il Faro fu Tolomeo I Sotere, a porlo in esercizio suo figlio Tolomeo II Filadelfo, intorno al 280 a.C., a progettarlo l’architetto greco Sostrato di Cnido. Duplice sin dal debutto la sua finalità: suggerire alle navi la sicurezza del porto della città e agli equipaggi la grandezza del suo sovrano.
Ricostruzione del Faro di Alessandria.
La vera funzione della torre Delle due, la prima sembra la meno credibile sebbene appaia la piú verosimile e ovvia, trattandosi di una struttura altissima, sovrastata da un enorme fuoco perenne. La torre, che insisteva su un ampio zoccolo quadrilatero con torrette minori ai vertici, constava di tre distinte sezioni, di dimensioni e altezze decrescenti. La prima, descritta a forma di tronco di piramidale quadra di 30 m circa di lato, era alta 60 m circa; al suo interno, coassiale, la seconda a prisma ottagono, di 10 m circa di lato, che la sovrasta di una trentina. Fra le due, una doppia rampa elicoidale, verosimilmente gradinata, destinata
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all’alimentazione della fiamma. Una terza torre, cilindrica, spiccava dalla copertura della seconda e s’innalzava per un’altra decina di metri, recando sul bordo un colonnato, sormontato a sua volta da una cupola conica fungente da basamento per una colossale statua bronzea di Nettuno. Tra le colonne, a oltre 100 m dalla superficie del mare, era collocato il braciere della lanterna, nel quale il fuoco ardeva attizzato e agitato dal vento, visibile nelle tenebre a 300 stadi di distanza, quasi 55 km. Portata plausibile, coincidendo col raggio visivo che la curvatura terrestre consente da una struttura tanto alta, ma eccezionale persino per un moderno potentissimo faro a lenti Fresnel.
UNA PRESENZA DIFFUSA
Corni di bronzo come sirene Per alcune fonti la sommità del faro era munita di lastre lucide di bronzo rotanti, in grado di produrre una lama di luce intermittente e di riflettere di giorno lo sfavillio del sole. Per altre, inoltre, l’edificio disponeva pure di prese d’aria che catturavano il vento e ne canalizzavano la corrente fino a enormi corni di bronzo, facendoli suonare come sirene. Quali che ne fossero gli accessori, la finalità semaforica per un’opera del genere sembra perlomeno riduttiva o sproporzionata, lasciando cosí inevaso l’interrogativo di fondo: per quale scopo costruire un edificio cosí alto e alimentarne costantemente il fuoco che vi arde sopra, superando difficoltà e oneri ingenti, quando la navigazione notturna coeva era del tutto insignificante, specialmente se diretta verso quell’unico porto? L’enorme distanza dalla quale si poteva scorgere la lanterna eccedeva di gran lunga il raggio operativo delle barche da pesca, le sole a prendere il mare di notte. I mercantili, infatti, navigando sempre a vista, cioè cabotando a ridosso della costa per paura di perderla e smarrirsi nel mare, al calar delle tenebre, venendo meno quella rassicurante visione, gettavano l’ancora nella prima insenatura, per trascorrervi la notte e salpare all’alba. Continuare a veleggiare nel buio, comportava rischi ben maggiori dei benefici: scogli affioranti, secche ignote, relitti galleggianti costituivano
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soltanto alcune delle minacce che l’oscurità nascondeva agli occhi del pilota e che la prudenza suggeriva di evitare. Senza contare, inoltre, che l’esiguo equipaggio di quelle piccole imbarcazioni, non consentiva turnazioni di sorta. Bisognerà attendere il secolo scorso per veder esaurirsi tale arcaica prassi. Certamente un faro come quello di Alessandria tornava utile alle navi che dirigevano verso il suo porto con rotta nord-sud, l’unica navigazione che lontano dalle coste e dalle loro insidie si poteva effettuare di notte, senza eccessivi rischi di collisioni. Ma, nel III secolo a.C., e persino nella buona stagione, poche navi e in genere militari, vi si azzardavano e comunque molto piú rare di quanto lascerebbe presumere l’erezione di quel colosso luminoso. Né, peraltro, la dinastia tolemaica ebbe mai una flotta tale da giustificare un’infrastruttura foranea cosí complessa. Ascriverla, poi, a beneficio delle marinerie straniere è per lo meno fuorviante, per cui
In alto Abukir, Egitto. Il faro fu edificato durante il regno di Tolomeo II Filadelfo (308-246 a.C.), sopra una tomba a torre. Era uno degli esemplari antichi che piú si avvicinavano, per impianto e struttura, al faro di Alessandria. A destra La Coruña, Spagna. La torre di Ercole, il piú antico faro romano tuttora in uso. È datato al II sec. d.C., ha pianta quadrata (18 m per lato) e 36 m di altezza, ed è stato reso nuovamente funzionante per mezzo di un impianto elettrico, installato sulla sua sommità. A sinistra Dover, Inghilterra. Il faro romano di Dubris fu costruito nel I sec. d.C. Rimase in uso fino all’epoca tardo-antica e fu poi convertito in torre campanaria. Si conserva ancora in elevato per 24 m.
sembrerebbe rafforzata l’ipotesi di un monumento teso a celebrare lo sfarzo della dinastia tolemaica. Ma, anche cosí, «i conti non tornano», sia per i costi che per i combustibili. Perché consumare cosí tanto combustibile a cosí tanta altezza per cosí poche navi che osavano avvicinarsi nelle tenebre? Da dove, poi, si sarebbe dovuta trarre l’immensa quantità di legna per alimentare il grande braciere, in un paese notoriamente privo di boschi e di foreste? Ma bruciava realmente legna? Pure trascurando quest’ultima frustrante incongruenza, la combustione di una catasta di legna emette un bagliore variabile, instabile, il contrario di quello necessario per un faro. La fiamma, infatti, appare scarsa all’inizio, altissima per breve tempo, quindi in rapida diminuzione. Discorso diverso bruciando olio lampante o nafta, molto piú facili da reperire in zona, da sollevare con catene di secchi e da riversare con adeguati tubi in appositi
bruciatori, e dalla cui combustione sarebbe scaturita una fiamma d’entità costante. Facendola eclissare mediante una lamiera di bronzo fatta girare dalla discesa di un contrappeso nel pozzo delle scale, il faro avrebbe assunto la precipua connotazione pulsante. Ipotesi che, rendendone meno assurdo il funzionamento, non scalfisce però il vero quesito: a chi serviva effettivamente il Faro di Alessandria e, soprattutto, a cosa? E i tanti similari di epoca romana e successiva, che da quello trassero nome e funzione?
Il popolo delle banchine Paradossalmente i diversi fari romani tramandatici dalle fonti iconografiche – mosaici, affreschi, bassorilievi, monete – lasciano spesso intravedere, sotto le loro lanterne fiammanti, un ambito foraneo sicuramente diurno! Scaricatori sulle banchine impegnati nella movimentazione delle merci, marinai alle prese con la manovra delle gru sui ponti, operai
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intenti alla manutenzione degli scafi: in breve il tipico tramestio di qualsiasi porto durante il giorno. Perché allora, quasi con enfasi, i fari sono rappresentati sormontati da alte lingue di fuoco? Errore sistematico degli artisti o, non piuttosto, nostro errore sistematico nel voler interpretare la loro funzione in maniera analoga all’odierna? I fari romani, scarsamente utili se non superflui di notte, si rivelavano, invece, utilissimi se non basilari, di giorno, alle navi di lungo corso che solcavano il Mediterraneo, fino a veder sparire ogni lembo di terra. Significativamente il numero delle seconde crebbe sensibilmente al moltiplicarsi dei primi, quasi che la funzione ne incentivasse l’impiego. Si potrebbe dunque concludere che non fu la navigazione in alto mare a richiedere i fari, ma, piuttosto, la presenza di questi a favorirla! La soluzione dell’apparente paradosso appena delineato è nel diverso impiego della portata dei fari, che non deve relazionarsi a quella sia pur notevole della visibilità della fiamma, ma a quella enormemente maggiore della colonna di fumo che da essa si sprigionava! Essendo la funzione originaria e primaria dei fari quella d’indicare la terra quando da bordo non si distingueva piú alcun punto di riferimento, e non già il porto facile da raggiungere una volta raggiunta la costa, bastando navigarvi a ridosso, divenne scelta oculata insediarli sulle alture limitrofe. L’altezza del sito, infatti, sommandosi a quella strutturale ne avrebbe incrementato la visibilità di prossimità, mentre la colonna di fumo, sollevandosi a un migliaio di metri d’altezza, con l’aria tersa li avrebbe notificati a qualche centinaio di chilometri.
Un provvidenziale filo di fumo Posta cosí la questione, grazie a quel fil di fumo anche i naviganti che percorrevano le famose rotte trasversali non perdevano mai di vista quell’estremo retaggio della terraferma che prolungava, perciò, virtualmente la navigazione di cabotaggio anche laddove, per ovvie ragioni, non sarebbe stato possibile. E poiché un grande rogo richiedeva un discreto lasso di tempo per attingere la massima intensità, si evitò di spegnere i fari
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sorgente luminosa La fiamma che scaturiva dal braciere centrale era spinta dal vento al di fuori delle colonne, verosimilmente di bronzo.
Ricostruzione virtuale del faro di Miseno, i cui resti sono oggi adibiti a masseria, sulla punta del Poggio. Importante ausilio alla navigazione nelle acque del golfo, l’impianto segnava l’ingresso al porto militare di Miseno ed era posto in comunicazione ottica con il faro di Villa Iovis, la residenza imperiale di Tiberio a Capri.
sezione centrale Era costituita da una torretta a pianta quadrata di 10 m circa di lato, coassiale alla torre di base, di 20 m circa di lato.
durante la notte, peraltro, piuttosto breve nella stagione propizia alla navigazione, destinandoli magari alle trasmissioni a lunga distanza. Cosí forse Tiberio seppe, durante il suo lungo soggiorno a Capri, quanto avveniva a Roma, tramite il collegamento tra il faro dell’isola e quello di Miseno. Se dal punto di vista operativo le brevi precisazioni esposte consentono una piú puntuale definizione dei fari in epoca romana, da quello strettamente architettonico innescano ulteriori e interessanti deduzioni. Il concetto fortemente allusivo evocato dalla loro funzione, cioè di guidare nelle traversie verso un sicuro approdo, valse ad accreditare un’interpretazione allegorico-religiosa. Ne scaturí il campanile nel mondo cristiano e il minareto in quello islamico (dalla voce araba me-narét, il cui etimo nàr significa fuoco e, per estensione, lampada, accezione analoga alla voce ebraica menoràh, che indica il candeliere). Una torre dalla quale il credente veniva guidato alla preghiera, dalle campane o dal muezzin,
copertura La cupola del faro si deve immaginare conica, essendo la più alta e quindi la piú lontana dalla fiamma del braciere sottostante.
braciere La fiamma scaturiva quasi certamente dalla combustione di olio o di nafta, liquidi contenuti in un braciere riempito da appositi canali.
Ricostruzione virtuale della lanterna del faro di Miseno. La colonna di fumo sprigionata dalla lanterna indicava la terraferma fino a qualche centinaio di km di distanza, guidando cosí la navigazione di piccolo e grande cabotaggio, civile e militare, quando ormai da bordo non si scorgeva altro che mare. A destra Costiera Amalfitana. Una delle numerose torri campanarie medievali che si affacciano sul golfo. Queste realizzazioni risentono di marcate influenze mediorientali, dovute ai frequenti contatti con l’Islam, e, dal punto di vista strutturale, si rifanno al modello del Faro di Alessandria.
riflettore Dietro al braciere è presumibile che vi fosse una spessa lastra di bronzo ricurva, fungente da riflettore, posta in rotazione da un contrappeso che scendeva nel pozzo delle scale.
unica strada per la salvezza dell’anima nella navigazione burrascosa della vita. Nessuna meraviglia che per entrambe le religioni quelle torri avessero la connotazione dei fari romani ancora in funzione e, per conseguenza dell’archetipo alessandrino, che sopravvisse perciò nei piú antichi campanili. Per cogliere un’esplicita conferma di quanto appena ricordato, basta una semplice ricognizione lungo la costa di Amalfi, dove i campanili oltre a risalire al Medioevo sono i piú aderenti alle suggestioni del Vicino Oriente, per i frequentissimi contatti stabiliti con l’Islam dalle navi della Repubblica. A picco sul mare, ostentano con fierezza pianta quadrata con alzato tronco piramidale per il primo livello, ottagonale e alzato prismatico per il secondo e tamburo circolare per il terzo. Al di sopra, al posto della lanterna con le fiamme, una strana cupola, a forma di fiamma, rivestita di maioliche che, riflettendo la luce del sole, sembrano realmente fiammeggiare.
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mine e gas tossici
LA MINACCIA Vaso di terracotta del tipo a cassetta, di circa 60 cm di larghezza e profondità, per 1 m circa di altezza. In corrispondenza del foro al centro del fondo era fissato l’imbuto di raccordo con la manichetta dell’aria compressa.
N
el pomeriggio del 27 novembre 1495, l’aria di Napoli fu squarciata da un boato terrificante. Proveniva dal Castel Nuovo, la cui sagoma, quando la densa coltre di polvere e fumo si fu diradata, riapparve mutila di un’ampia tratta frontale, ridotta a un cumulo di macerie. Fu questo il debutto delle mine esplosive, che, da allora, presero il posto di quelle implosive, utilizzate da oltre due millenni. Di esse rimasero i cunicoli antecedenti e i crolli conseguenti, ma mentre quest’ultimi fino ad allora erano provocati dal collasso della struttura sotto il suo stesso peso, divennero in seguito l’esito della dirompente espansione di gas. Dell’esperienza accumulata in materia restava sempre utilizzabile la tecnica mineraria – lo scavo della galleria –, tramandatasi, con le finalizzazioni piú svariate, fino ai nostri giorni.
«Minare» la solidità di una struttura Quanto alle mine, invece, in pochi anni la precisazione di «esplosive» divenne pleonastica, tanto da renderle sinonimo di esplosioni, come del resto avvenne tra miniere ed esplosivi, suggerendo per entrambe (mina e miniera) un’etimologia riconducibile all’attività estrattiva romana. Tuttavia, poiché in latino le miniere sono dette metalla, l’origine di «mina» va ricercata nel verbo minuere, cioè «sottrarre», «indebolire». Si voleva dunque indicare un espediente che serviva a compromettere una struttura altrimenti solida, come le mura di una fortificazione, non facendola saltare in aria come avvenne dopo il 1495, ma causandone il ripiegamento su se stessa con l’eliminazione dell’appoggio alla base.
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Dinnanzi alla cassetta era fissata una lamiera bucherellata, con lance di ferro tutt’intorno, per impedire ai nemici di accostarsi e spegnere la brace alimentata dal mantice.
È agevole individuarne l’impiego archetipale, poiché esistevano solo tre modi per violare le mura di cinta: scavalcarle con torri d’assedio, sfondarle con arieti o passarvi sotto con cunicoli, le mine, appunto. Quest’ultima procedura si differenziò in tre branche: gallerie d’attacco per irrompere nelle città assediate, tunnel per recidere le condotte idriche sotterranee che le rifornivano e mine per scavare sotto le mura per causarne il crollo. Scavare cunicoli è un’attività umana ancestrale, che diede vita a un’autentica «cultura sotterranea», uno dei cui esiti furono appunto le mine. Dette anche «talpe» o «talponi», determinarono il formarsi di veri e propri specialisti, chiamati, ancora nel Medioevo, «talpari». Quando sopravvivevano, il loro vanto era quello di avere vinto i quattro elementi empedoclei: l’acqua, che poteva sommergere i cunicoli annegandoli; l’aria,
INVISIBILE mantice a due cilindri affiancati (probabilmente usato in luogo di quello a soffietto) con dentro i relativi stantuffi, all’epoca già esistente, di minor ingombro e maggiore portata.
Schema ricostruttivo della mina condotta dai Romani sotto le mura di Ambracia, durante l’assedio del 189 a.C. da parte di Marco Fulvio Nobiliore.
sempre scarsa, e spesso anche letale per le esalazioni tossiche; il fuoco, innescato dalle lanterne o appiccato dai difensori; e, infine, la terra, che poteva seppellirli con frane improvvise. Per evitare quest’ultima eventualità, si posizionavano numerosi e spessi puntelli di legno, sormontati da tavoloni e travi, cosí da non alterare la stabilità del terreno sovrastante e, quando sotto le fondazioni, la statica delle mura. Un’immagine abbastanza fedele di quelle gallerie la si ricava dalle foto delle ultime miniere con armamento di legno, definito nei terreni meno coerenti a quadro intero, con due gambe convergenti verso l’alto e un cappello di spesse travi incastrate fra loro.
Un cunicolo fino alle fondazioni Lo scavo delle mine si avviava al di fuori del tiro degli assediati, con un cunicolo di avvicinamento, conducendolo sotto il fossato fino alle fondazioni delle mura. Una volta
In alto Dura Europos (Siria). Un tratto delle mura mostra uno sprofondamento, con principio di rotazione verso l’esterno, attribuibile a una mina. Nella pagina accanto, in basso l’armamento di sostegno di una vecchia miniera. Il sistema adottato per prevenire il crollo della galleria è simile a quello impiegato già in età antica nello scavo delle mine a cui si poteva ricorrere in occasione dell’assedio di una città.
raggiunte, lo scavo si abbassava fino a penetrarvi sotto e ne seguiva il tracciato per un centinaio di metri, avendole come cielo. Completato il rischiosissimo lavoro, tutti gli scavatori tornavano all’aperto, tranne gli incaricati di appiccare il fuoco ai puntelli prima di fuoriuscire a loro volta. Poche ore dopo le mura crollavano rovinosamente sotto il loro stesso peso, ma affinché si aprissero in breccia, permettendo l’irruzione in forza degli assedianti, era necessario che il cedimento avvenisse per rotazione verso l’esterno della fondazione minata e non per suo semplice collasso.
Lavorare nell’oscurità In quest’ultimo caso, per il quale vi sono anche eloquenti esempi archeologici, le mura sarebbero solo sprofondate di un paio di metri, senza rovesciarsi, continuando perciò a fornire una non irrilevante protezione. Per ottenere la suddetta rotazione occorreva che la galleria di mina non avesse la stessa larghezza della fondazione, limitandosi ai due terzi esterni, e lasciando al terzo residuo la funzione di perno. Operazione molto semplice da pianificare a tavolino, ma irta di difficoltà nel buio dello scavo, senza precisi ragguagli sulla larghezza della fondazione e senza potersi orientare in modo attendibile. E, naturalmente, ammettendo che non vi fosse alcuna reazione nemica, una passività rara, dal momento che nel tempo si era sviluppata una procedura efficace di guerra di contromina, non di rado
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persino superiore all’antagonista. Nella guerra di mine e contromine debuttò la guerra chimica: un riscontro emblematico delle tecniche di contromina e dell’impiego dei gas asfissianti si ritrova nell’assedio della città greca di Ambracia, condotto dai Romani nel 189 a.C. e cosí rievocato, per la parte che ci riguarda, da Polibio: «Gli Etoli, assediati dal console Marco Fulvio, pugnarono valorosamente contro le macchine e gli arieti ch’erano stati accostati (...). [E] battendo i Romani cogli arieti continuamente le mura, ne cadeva sempre qualche pezzo; tuttavia non riuscivano nonostante i crolli a entrare nella città, perché i difensori rapidamente le ricostruivano, combattendo vigorosamente sulle sezioni danneggiate. Quindi non sperando di espugnare d’assalto la città, optarono per le mine (...). Realizzarono una galleria parallela al muro di circa 60 m di lunghezza, e da questa scavarono senza posa giorno e notte. Per diversi giorni gli assediati non se ne accorsero, avendo i Romani cura di allontanare di nascosto la terra di scavo, ma quando il suo cumulo divenne comunque visibile, i soprintendenti alla difesa fecero scavare una trincea interna corrente alla base del muro. Raggiunta la profondità opportuna, posero lungo la trincea dal lato del muro alcuni vasi [o fogli di lamiera] di rame molto sottili, come dei bacili; camminando nella trincea vicino a essi, sentivano il rumore prodotto da quelli che scavavano la mina. Notata la direttrice dal vaso che piú risuonava, scavarono un altro cunicolo per intercettare il nemico» (Storie, XXI, 28, 7-9).
Captare le frequenze infrasoniche Prima di esaminare la seconda parte della rievocazione è interessante osservare che tra gli espedienti adottati dai difensori per localizzare la direttrice della mina sono descritti rudimentali geofoni. Si tratta dei primi strumenti capaci di captare rumori a frequenze infrasoniche, non percepibili perciò dall’orecchio umano, e, per la loro risonanza, renderli udibili come un ronzio piú o meno intenso, a seconda della vicinanza della
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| Aria (e acqua) calda a volontà | Chiunque visiti Pompei o Ercolano non può sottrarsi alla sensazione di trovarsi fra i ruderi di una città dal clima tropicale, mai raggiunta dal freddo invernale: un luogo in cui, nella cattiva stagione, tutt’al piú, la temperatura si abbassava lievemente. Il che potrebbe essere stato anche vero, visto che il contesto storico di quelle residenze coincise con uno dei tanti cicli caldi, avvicendatisi negli ultimi due millenni. Non fu cosí, però, in altre regioni dell’impero, dove la stagione gelida era ben presente. Lí le finestre ebbero i vetri e le case un vero riscaldamento, persino piú razionale dell’attuale. Era in definitiva, una variante domestica dell’ipocausto ampiamente adottato nelle terme. Una caldaia, funzionante a legna, produceva una grande quantità d’aria calda, che veniva fatta circolare, per differenza di pressione con quella fredda, sotto i pavimenti e dietro gli intonaci dei muri. Allo scopo apposite colonnine e supporti, detti suspensurae, mantenevano sollevato il pavimento, mentre mattoni forati, detti parietes tubulati, disposti lungo le pareti e collegati al vano sottostante il pavimento, permettevano all’aria calda di sfogare all’esterno dopo aver riscaldato anche i muri. La temperatura di circolazione dell’aria era relativamente bassa, ma un paio di giorni bastavano
per portare l’interno dell’edificio a un tepore gradevole. La legna non mancava, al pari della manodopera per mantenere la caldaia sempre in funzione. Va ancora osservato che, con la medesima caldaia, si riscaldava anche l’acqua delle terme domestiche e dei bagni, sfruttandone al massimo la resa, che restava comunque estremamente bassa. Una concezione analoga alla precedente provvedeva al
riscaldamento dell’acqua delle vasche e dei locali delle terme romane, come, per esempio, quelle Stabiane di Pompei, risalenti al II secolo a.C., pervenuteci in ottime condizioni. Il complesso copre una superficie di 3500 mq, incluso l’ampio cortile porticato su tre lati con annessa piscina e spogliatoio, ed è diviso in due settori distinti, rispettivamente per gli uomini e per le donne. Poiché non esistevano sistemi di riciclaggio dell’acqua, i consumi delle terme erano esorbitanti: per quelle volute da Agrippa si rese necessario un apposito acquedotto, il Vergine, con una portata di 100 000 mc circa al giorno, dalle sorgenti di Marino al Pincio. Prima dell’utilizzo l’acqua decantava in grandi cisterne, dividendosi in due flussi: il primo riforniva le vasche per il bagno freddo e la piscina natatoria, il secondo, passando per la fornace, le vasche del bagno caldo. La fornace (hipocausis) stava al centro delle terme e veniva alimentata con legna, e le caldaie poste al suo interno erano grandi vasi in bronzo, posti a contatto con le fiamme e murati in solidi supporti. Alcuni tubi assicuravano il reciproco collegamento idrico, per cui via via che usciva l’acqua piú calda dell’ultima caldaia, la rimpiazzava quella già tiepida della penultima, riducendo perciò sia il tempo di riscaldamento che i relativi consumi di legna. Stando a Vitruvio, a impedire il rapido raffreddamento dell’acqua nelle vasche provvedeva la cosiddetta testudo alvei (tartaruga della vasca), una sorta di radiatore di bronzo lenticolare posto sul fondo della vasca e riscaldato direttamente dall’esterno. Quanto al riscaldamento delle sale era ottenuto facendo circolare nelle intercapedini l’aria calda delle fornaci.
Due disegni ricostruttivi delle Terme Stabiane di Pompei. Il complesso si estendeva su una superficie di oltre 3000 mq ed è uno dei meglio conservati fra quelli a oggi conosciuti. Come si vede anche nell’illustrazione, seguiva l’articolazione tipica di questo genere di impianti, con locali adibiti a spogliatoio e sale dotate di piscine ad acqua calda e fredda. Nelle prime, la temperatura dell’acqua era garantita da un articolato e sofisiticato sistema di riscaldamento.
sorgente. Va al riguardo osservato che il suono in terreni compatti viaggia a una velocità di quasi 10 volte superiore a quella che raggiunge in aria, e che diviene ancora maggiore nel caso di masse rocciose, per cui anche quando udibile giunge prima ai geofoni che alle orecchie. Quanto al loro archetipo antico, se ne trova menzione anche in altri storici e in altri assedi, e il loro impiego per uguali scopi si ebbe anche nella I e nella II guerra mondiale e si continua a usarli in geologia, mineralogia e vulcanologia. Per quanto possiamo comprendere, il dispositivo di localizzazione constava, secondo alcuni autori, di una serie quasi continua di sottili vasi di rame o bronzo, disposti in una trincea aperta lungo il piede interno del muro di cinta; secondo altri, in sottili strisce di lamiera di bronzo, sospese una a fianco all’altra lungo la stessa trincea. Quali che fossero, ma meglio se di bronzo per la sua sonorità, ricevendo le vibrazioni dal perno di sospensione e trasformandole in ronzio, notificavano ai tecnici l’adiacenza della mina. Dal punto di vista storico non si trattava di una novità, poiché già Erodoto faceva risalire il criterio informatore dei geofoni
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Tarsia marmorea raffigurante una menade nel pieno di unâ&#x20AC;&#x2122;estasi dionisiaca, da Pompei. 55-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Una scena simile a quella descritta da Livio nel dare conto di un episodio che vide protagoniste alcune matrone romane, che, secondo la tradizione, avrebbero brandito fiaccole prodigiose, capaci di bruciare anche dopo essere state immerse nelle acque del Tevere.
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all’assedio persiano della colonia greca di Barca (oggi Al Marj, in Libia), nel 512 a.C., in occasione del quale un oscuro fabbro si avvalse di scudi appoggiati al muro.
Un fumo acre e irritante Ad Ambracia, all’inizio dell’ascolto, i Romani non solo avevano quasi ultimato lo scavo della mina, ma già erano pronti a incendiarne i puntelli. Impellente si faceva dunque la contromina, non piú lunga di una decina di metri, che cosí Polibio rievoca: «L’incontro avvenne, perché i Romani non solo erano giunti sotto la fondazione, ma ne avevano anche puntellato un buon tratto, da entrambi i lati della galleria. Subito si scontrarono con le lance, senza però significativi risultati, riparandosi con gli scudi. Qualcuno degli assediati propose allora di porre davanti un vaso di terracotta, largo quasi quanto il
cunicolo, con il fondo forato e raccordato tramite un imbuto a un tubo di ferro, colmandolo di piume e con un poco di brace alla bocca, dietro un coperchio di ferro crivellato. Diretto il vaso verso i nemici, sigillati gli interstizi con il cunicolo, a eccezione dello spazio sufficiente a far passare due lance per ogni lato, a evitare che potessero accostarvisi, adattarono un mantice da fabbro al tubo, e iniziarono a insufflarvi aria violentemente. Dalla bocca iniziò subito a uscire un fumo molto acre e irritante, che invase la mina dei Romani, per cui questi non poterono piú restarvi». Compare in queste righe un congegno, che sarebbe corretto definire fumogeno, costituito da un recipiente di terracotta, collegato a un mantice tramite un imbuto sul fondo e con la bocca anteriore chiusa da una lamiera crivellata, con dentro brace e piume. La combustione di queste, per effetto della
| Le fiaccole delle matrone invasate | La definizione di candela romana è relativa a un particolare fuoco d’artificio, di largo impiego per la sua semplicità, che produce scie luminose capaci di innalzarsi ad alcune decine di metri. Nel passato sembra che siano stati i Tartari i primi a impiegarle, come ordigno bellico, ricavandole da canne di bambú svuotate e riempite a strati alterni di polvere pirica e di materiale incendiario, perlopiú palle di stoffa impregnate di nafta. L’effetto era appunto un’emissione continua, molto simile al getto di fuoco di un piccolo lanciafiamme. Tuttavia l’attribuzione di tale ordigno ai Romani, o piú genericamente a Roma, al di là della pretenziosa etichetta, potrebbe non essere del tutto gratuita e, forse, nascondere una diversa origine, almeno come archetipo o criterio informatore. Infatti, non vi è alcun dubbio che l’esercito romano avesse armi, o per lo meno proietti, di tipo incendiario e che ne facesse uso sistematico negli investimenti ossidionali, negli scontri campali e, soprattutto, nella guerra navale. Sappiamo, pertanto, di numerose miscele incendiarie di varia potenzialità e violenza; non sappiamo, invece, quasi nulla sulle tecniche usate per il loro innesco e per evitarne un troppo facile spegnimento. Il che indurrebbe a una piú ampia ricerca, relativa ai probabili catalizzatori della reazione di ossidazione. In parole povere, si tratta di estendere l’indagine
agli esaltatori della combustione, capaci non solo di velocizzarla ma anche di consentirla sull’acqua o sott’acqua, facendo sprigionare le fiamme anche sott’acqua! Che composti del genere esistessero da tempo lo conferma un curioso episodio, accaduto nel 186 a.C. e tramandatoci da Livio, che ne fa cenno, senza la benché minima meraviglia, considerandolo un semplice rito orgiastico. Cosí il brano: «Le matrone con sembianti di baccanti e chiome scarmigliate, correvano al Tevere reggendo delle torce accese, e immerse quelle torce nell’acqua, poiché erano composte di zolfo vivo e calce, le ritraevano con la fiamma ancora accesa». Dunque, stando alla citazione l’episodio, che per inciso diede origine a un delicato processo reso scabroso dalla rinomanza delle famiglie coinvolte e dall’elevato numero di imputate, ebbe questo svolgimento. Nel cuore della notte, uno stuolo di matrone invasate, o piú probabilmente ubriache, raggiunta la riva del Tevere, immergeva nella sua acqua alcune singolari torce accese, impregnate di calce e zolfo, ritraendole ancora fiammanti. Il fenomeno non può ascriversi alla presenza di zolfo e calce viva, ma implica almeno altri due reagenti, il salnitro e la polvere di carbone, gli stessi che andranno a far parte della polvere pirica e prima ancora del fuoco greco e dei giochi pirotecnici quali appunto la candela romana.
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fuoco
brace attizzata dal mantice, sviluppava un fumo acre e denso, che l’aria, insufflata in grande quantità, spingeva fuori dalla bocca. Nella ricostruzione (vedi alle pp. 138-139) si è preferito un mantice a due cilindri al tradizionale a soffietto, all’epoca di sicuro già esistente, per il flusso meno pulsante, con una maggiore erogazione e un minore ingombro. Non disponeva ancora del bilanciere tra le due bielle e l’alternanza avveniva a orecchio.
curarsi con l’elettricità P
Piume letali Le piume, poiché composte sostanzialmente di cheratina, al pari dei capelli o della lana, quando bruciano emanano un odore sgradevole e un fumo irrespirabile, non tossico, ma irritante e soffocante per via degli amminoacidi contenenti zolfo, impossibile da sostenere. Diviene letale con l’aggiunta di zolfo che, combinandosi con l’ossigeno, si trasforma in biossido, il quale a sua volta reagisce con l’umidità ambientale trasformandosi in acido solforoso, che provoca emorragie alle vie respiratorie e soffocamento. Dalla combustione dello zolfo col bitume fu verosimilmente ottenuto il gas asfissiante che i Sassanidi usarono nel 256 d.C. contro i Romani da loro assediati a Dura Europos, città fondata da Seleuco I nel IV secolo a.C., conquistata da Traiano nel 165 d.C. ed espugnata meno di un secolo dopo, finendo abbandonata. I ruderi delle sue mura conservano diverse testimonianze degli effetti delle mine, oltre ad alcuni cunicoli scavati per l’assedio. Tra questi il tunnel scavato presso la torre 19, per provocarne il crollo, e intersecato a ridosso della stessa da un tunnel di contromina, scavato dall’interno della cerchia. In corrispondenza della loro intersezione, che si suppone sia stata invasa dai gas tossici emessi dagli assedianti, si sono rinvenuti i corpi di oltre 15 soldati, che, essendo privi di ferite e indossando ancora le armi campali, dobbiamo ritenere morti asfissiati nei combattimenti sotterranei.
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Raffigurazione di un vascello in cima ai cui alberi ardono altrettanti fuochi di sant’Elmo. Si tratta, in realtà, di bagliori causati da emissioni elettriche naturali.
ur non manifestandosi con significativa frequenza, vi sono in natura emissioni luminose prive di calore, spettrali chiarori prodotti da forti campi elettrici naturali accompagnati da un leggero ronzio, non molto diversi da quelli del plasma. Tra i piú noti vi è il cosiddetto «fuoco di sant’Elmo», ben conosciuto dai marinai. Stando alla tradizione sant’Erasmo da Formia, in breve sant’Elmo, fu condannato sotto Diocleziano a essere arso vivo, ma, prima del sopraggiungere della morte, sulla sommità del palo al quale era legato fu vista brillare ed elevarsi una luce azzurrina, ritenuta dai credenti la sua anima che ascendeva al cielo. Da allora la fredda fiamma si guadagnò una sinistra fama, manifestandosi sempre immediatamente prima o durante temporali di rilevante intensità.
Annuncio di una traversata felice Plinio cosí li descrisse: «Ho visto di notte, durante i turni di guardia dei legionari, aderire alla punta delle lance, dinanzi alla palizzata, delle fiammelle di tale forma; si posano pure sulle antenne dei naviganti, e su altre parti della nave, con una sorta di suono vocale, come fossero uccelli che passano da un posto all’altro: minacciose quando giungono isolate, sono capaci di sprofondare le imbarcazioni e, se cadono al fondo della carena di incendiarla; ma a coppie sono favorevoli e annunciano una felice traversata, e al loro arrivo si dilegua (raccontano) quell’apparizione solitaria, funesta e truce, che ha nome Elena. Per questo si usa attribuire tale potere a Polluce e Castore e invocarli quando si è in mare. Questi fuochi
brillano anche intorno alle teste degli uomini, la sera, e sono portatori di un grande presagio. Tutto questo ha spiegazione malcerta, riposta nella maestà della natura». L’origine del fenomeno, come piú in generale la presenza dell’elettricità furono del tutto ignote ai Romani, che, tuttavia, ne fecero un interessante impiego, peraltro ancora utilizzato. Nell’opera di Scribonio Largo, Compositiones, si trova in maniera esplicita e dettagliata la prima menzione dell’impiego delle scariche elettriche, per terapie che andrebbero definite rispettivamente galvanoterapia ed elettroshock, con una razionale e, quasi certamente, efficace motivazione. Per la storia, Scribonio Largo fu un medico militare, forse di origine libertina e proveniente dalla Sicilia: sappiamo che partecipò alla spedizione del 43 in Gran Bretagna, al seguito delle legioni di Claudio. Per quanto è possibile arguire, nell’anno seguente iniziò a scrivere il suo trattato, dedicandolo a Gaio Giulio Callisto, un potente liberto imperiale. L’opera, nonostante la forma linguistica sciatta, ebbe una indubbia fortuna tanto che fu sintetizzata nel Medioevo. Il testo ci è perciò giunto integro e consta di 271 ricette, alcune cervellotiche e prive di qualsiasi valenza curativa, altre, invece, di sano buon senso e di effettiva validità. Tra queste, le tre che fanno riferimento, in
modo qualitativamente diverso, all’adozione terapeutica delle scariche elettriche. Queste erano ottenute esclusivamente con l’utilizzo delle torpedini, una vasta famiglia di pesci cartilaginei capaci di generare una intensa differenza di potenziale elettrico, mediante appositi organi elettrogeni, compresa fra gli 8 e i 200 volt, secondo la specie e il grado di eccitazione.
Torpore benigno
Un esemplare di torpedine, pesce che dispone di organi elettrici che funzionano come pile, e che l’animale usa per difendersi, ma soprattutto per attaccare le prede, paralizzandole con scariche ripetute. Le stesse scariche furono utilizzate a scopo terapeutico, per esempio per la cura delle cefalee.
Come la derivazione etimologica ancora tramanda, il torpore provocato dalle scariche delle torpedini attenuava il dolore e a volte ne inibiva le cause, giovando perciò alla guarigione. Queste le sue ricette al riguardo: «11. Il dolore di testa, sebbene cronico e intollerabile, lo elimina subito e definitivamente la torpedine nera viva, posta sul punto dolente, finché quella parte non si intorpidisca e il dolore non cessi. E appena ciò si sarà avvertito, sia rimosso il rimedio, perché non sia tolta la sensibilità di quella parte. Invero é necessario procurarsi piú torpedini di quel genere, poiché talvolta a stento con due o tre risponde la cura, cioè si manifesta il torpore, che è indizio di guarigione». «99. Sana poi quelli presi dal male dei comizi, che i Greci chiamano epilettici, i furiosi che dicono mainoménous (folli). Parimenti cura quelli che i Greci dicono furiosi ai quali gli occhi sono oscurati da tenebre improvvise con rotazioni degli stessi, né giova di meno a quelli presi da dolore di testa di lunga durata, che dicono cefalea, quando siano sedati gli sia diano 12 libbre in quattro bicchieri di idromele; e se ne sono presi frequentemente, dopo ogni due, tre attacchi, gli si deve dare l’erba sacra hiera, come antidoto (...) talvolta fatta da bere la malva mista con la torpedine e con poco pane e acqua». «62. Per l’una e l’altra podagra una torpedine nera viva, quando si sarà presentato il dolore, occorre mettere sotto i piedi, stando sul litorale non secco, ma che il mare bagna, finché senta intorpidirsi tutto il piede e la tibia, fino alle ginocchia. Questa cura subito toglie il dolore, e col tempo lo guarisce. Anteros liberto di Tiberio, oltre le eredità, fu guarito da ciò».
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