Archeo Monografie n. 2, Aprile 2013

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ARCHEO MONOGRAFIE POMPEI ITINERARI TRA MITO E STORIA

Bimestrale - My Way Media Srl

MONOGRAFIE

ITINERARI TRA MITO E STORIA

€ 6,90 N°2-2013

POMPEI

LA RISCOPERTA • L’ARTE • LA VITA QUOTIDIANA



POMPEI

itinerari tra mito e storia 6. la cittĂ che visse due volte di Marisa Ranieri Panetta, Romolo A. Staccioli, Antonio Varone

8. Il mito di Pompei 16. L’ultima notte del mondo 28. La storia degli scavi 36. I quattro stili della pittura 38. Una città in cantiere 46. Il lavoro 52. Tra case e botteghe 57. Le terme e gli spettacoli 63. La vita religiosa 68. La vita politica 70. Le iscrizioni parietali 74. Le campagne elettorali 76. Il mondo femminile

82. itinerari di Alessandra Costantini e Christoph Hausmann


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.

UN RACCONTO ALL’OMBRA DEL

VULCANO I resti del Capitolium, situato nel settore nord del piazzale del Foro di Pompei. L’edificio, all’origine, era un tempio dedicato a Giove, subentrato ad Apollo come divinità poliade della città nel II secolo a.C. Nei primi anni della colonia, subí profonde modifiche strutturali e venne ridedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva.

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In basso et utem net laut facient

unicità di Pompei è frutto del caso, il suo mito è figlio della modernità. et quam fugiae officae conseque vite es La consapevolezza di quell’eccezionale fatalità (grazie alla quale un’interaruptatemqui città romana sae quis deris rehenis aspiciur è riemersa, intatta, da un sonno sotterraneo durato 1700 anni) segna l’inizio di un racconto che, sincte seque con nusam fugit et dalla metà del Settecento, si prolunga fino ai giorni nostri. Già all’indomani delle prime esplorazioni, qui bernate laborest, ut ut questo racconto si appresta a varcare i confini della sua circoscritta geografia, per aliquam entrare rentus magnim ullorepra serro dolum quis et nell’immaginario universale. Pompei diventa il faro di un’idea, ha inizio la sua «seconda vita». volenimenis dolorib ercillit Oggi la città sotto il Vesuvio è visitata da milioni di persone l’anno, grandi mostre Accationes reperiam res internazionali ne illustrano la storia, l’arte, la vita. È un mondo – è il caso di dirlofuga. – che continua sa conemolorum nis aliaepu a cercare e a confrontarsi con Pompei. danditatur sequae volore. Dalla storia di questo confronto prende le mosse la monografia di «Archeo», scritta da specialisti che al sito archeologico hanno dedicato anni di studio e, soprattutto, continue visite e soggiorni. Perché Pompei, con i suoi 42 ettari scavati e piú di 20 ancora nascosti, è, prima di ogni altra cosa, uno straordinario luogo da percorrere e da esplorare. Con spirito di avventura e il rispetto dovuto a un monumento unico e irripetibile.

Andreas M. Steiner

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LA CITTÀ CHE VISSE

di Marisa Ranieri Panetta e Romolo A. Staccioli, con un contributo di Antonio Varone

DUE VOLTE


DUEMILA ANNI FA, IL VESUVIO SEGNÒ LA FINE DELL’ESISTENZA DI POMPEI. MA LA CATASTROFE POSE ANCHE LE CONDIZIONI PER LA SUA STRAORDINARIA RINASCITA

Sulle due pagine calco di un uomo sorpreso dall’eruzione del Vesuvio. L’eruzione iniziò intorno alle 13 del 24 agosto del 79 d.C. e durò per circa diciannove ore. Mentre una pioggia di materiali vulcanici cadeva sugli abitanti di Pompei, una nube di ceneri occultava il sole e immergeva il giorno in un buio pesto. Molte delle persone rimaste in città non riuscirono a scappare e persero la vita per asfissia o per il crollo delle strutture. Quando, poco dopo le 8 di mattina del 25 agosto, il vulcano finalmente si calmò, la città aveva smesso di vivere.

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IL MITO DI POMPEI di Marisa Ranieri Panetta

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essuna catastrofe naturale ha suggestionato l’immaginario popolare come l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. E nessuna città antica, come Pompei, ha affascinato, ispirato, emozionato artisti, studiosi, sovrani, letterati e gente comune. Dal 1748, quando sono iniziati gli scavi, l’interesse e la curiosità per questo sito non hanno subito flessioni e oggi sono milioni i visitatori provenienti da tutto il mondo che si aggirano nelle sue strade. Per tali motivi se

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cade un cornicione la notizia è sulle prime pagine della stampa internazionale e la sua gestione è sempre sotto i riflettori, suscitando dibattiti e polemiche. Ma perché è Pompei a essere diventata un mito, e non Ercolano, venuta alla luce per prima, piú affascinante per le modalità di scavo e i capolavori che ha rivelato? Perché sono pochi i visitatori della vicina Oplontis, dove è stata messa in luce una delle piú belle ville d’ozio della prima età imperiale?


La prima ragione è connessa alla natura del suo seppellimento. A differenza di Ercolano – situata al di sotto della città moderna – che fu coperta da quasi 20 m di fango bollente, trasformatosi una massa tufacea ardua da rimuovere, Pompei è stata un terreno di scavo molto piú semplice: la cenere, i lapilli e le pomici che per tanti secoli l’hanno nascosta e conservata, presentavano una consistenza porosa e facilmente asportabile. Cosí, con fasi alterne di intervento, si è potuta scavare una fetta considerevole dell’abitato e, sin dalle prime scoperte, l’impressione è stata quella di percorrere, vedere, toccare, una città romana. E Pompei è diventata simbolo per antonomasia

della «scoperta-meraviglia». Templi, mercati, botteghe, case di lusso, cauponae (locande che servivano bevande e cibi, n.d.r.), terme, raccontavano, a mano a mano che venivano alla luce, l’esistenza quotidiana, con l’immediatezza, la freschezza dei suoi colori e delle sue abitudini: un municipio periferico ha avuto lo straordinario compito di scrivere migliaia di pagine inedite della storia del I secolo.

Reperti «osceni» Un’altra causa della sua celebrità riguarda la pruderie verso l’aspetto erotico. Curiosare nelle stanzette del lupanare, vedere la raffigurazione di Priapo nella Casa dei Vettii,

Il Tempio di Iside a Pompei, acquerello di Louis Jean Desprez. 1778. Besançon, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie. Gli scavi iniziarono verso la metà del Settecento e suscitarono subito un grande interesse. Pompei attirò molti visitatori illustri e, in occasione dell’arrivo dei sovrani, molti oggetti appena recuperati vennero fatti «scoprire» in loro presenza.

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In alto affresco con scena erotica nel cubiculum della Casa dei Vettii. I sec. d.C. Osservare i quadretti erotici delle varie domus ha sempre eccitato la fantasia dei visitatori moderni, dopo aver scandalizzato gli scopritori. Nella pagina accanto ancora un affresco della Casa dei Vettii, raffigurante Priapo che pesa il suo membro enorme su un piatto della bilancia. I sec. d.C. L’altro piatto regge una borsa di denaro.

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calpestare falli incisi nei basolati, osservare i quadretti erotici delle varie domus ha sempre eccitato la fantasia dei visitatori moderni, dopo aver scandalizzato gli scopritori. Basti pensare che il cosiddetto «Gabinetto degli oggetti osceni» al Museo di Napoli, che riuniva tutto il materiale «licenzioso» staccato o trasportato da Pompei ed Ercolano, solo nel 2000 è stato definitivamente ordinato in un’apposita sezione e aperto al pubblico. Infine, va considerato il contatto diretto con gli effetti dell’eruzione: la fine tragica degli abitanti. All’inizio furono gli scheletri, in seguito i calchi delle vittime, che – come negarlo? – continuano a essere un’attrazione turistica, per quanto macabra. Proprio 150 anni fa Giuseppe Fiorelli (1823-1896), all’epoca direttore degli scavi, colando gesso liquido nelle cavità lasciate dai corpi decomposti all’interno della cinerite indurita, realizzò l’esperimento piú clamoroso legato a Pompei. I calchi davano addirittura l’impressione di trovarsi di fronte agli ultimi abitanti, con lo spessore dei loro corpi, nel momento in cui cessavano di vivere. Erano vere e proprie fotografie, che fissavano bocche spalancate, mantelli sulla testa, volti

chiusi nelle mani: mamme, bambini, giovani, anziani, animali, sopravvissuti alle prime fasi dell’eruzione e uccisi, dopo un giorno e una notte di tormento, dalle masse di vapori calde e letali che si abbatterono con violenza inaudita sulla città.

I tableau vivant di Emma Hamilton E comunque, al tempo di Fiorelli, Pompei era già un mito. Meta del Grand Tour con Ercolano, attirava un numero crescente di visitatori illustri sia per la possibilità di muoversi tra le rovine senza addentrarsi in cunicoli sia per la scoperta di tanti scheletri, all’aperto o nelle domus. La casa napoletana di Lord William Hamilton, il colto ambasciatore inglese, era diventata il punto di ritrovo per gli intellettuali anglosassoni, dove la giovane moglie Emma Hart faceva sfoggio della sua bellezza in balli o tableau vivant ispirati alle scene che rivelavano gli scavi su rilievi, affreschi, vasellame. Lui stesso invaghito delle antichità che emergevano dal buio secolare, organizzava gite sul Vesuvio e a Pompei, acquistando reperti per la sua collezione o spedendoli Oltremanica ad acquirenti facoltosi.


Non erano solo gli Inglesi a subire il fascino di Pompei. Winckelmann, che informava la corte di Sassonia sulle scoperte di Ercolano e i ritrovamenti di Pompei, incontrò nel 1765 in Italia il principe Leopoldo III di Anhalt-Dessau che vi era giunto in compagnia dell’architetto Friedrich Wilhelm von Erdmannsdorff, progettista di giardini, e fece da guida ai due connazionali nel golfo di Napoli. L’impressione suscitata da Pompei, Ercolano, il Vesuvio e le collezioni reali di Portici sul principe fu enorme. Tornato in patria, fece realizzare un parco culturale – a Wörlitz – che ancora oggi desta ammirazione e curiosità (dal 2000 è stato inserito dall’UNESCO nella lista del Patrimonio dell’Umanità). Forse pochi Italiani conoscono questo regnogiardino di 142 kmq che tanto ha contribuito, due secoli fa, a divulgare nell’Europa continentale le scoperte campane, a ispirare architetture classiche e, ancora oggi, ad affascinare i visitatori (vedi box alle pp. 12-13).

Una moda contagiosa Non lontano, qualche decennio piú tardi, anche la Baviera, ad Aschaffenburg, per iniziativa di re Ludwig I ebbe il suo Pompejanum: la riproposizione di un’abitazione decorata con pitture ispirate alla Casa dei Dioscuri, da poco rinvenuta. Come all’indomani della scoperta delle «grottesche» della Domus Aurea sul colle Oppio i palazzi signorili, le regge, le residenze pontificie del Cinquecento si riempirono di fiori e animali fantastici, cosí le scoperte dell’area vesuviana influenzarono stili artistici e motivi figurati tra periodo illuministico e romantico. In questo caso, si trattava di una documentazione che sembrava non aver mai fine e, man mano che si riempiva il nuovo Museo a Napoli e circolavano le illustrazioni fedeli al vero, le corti europee e i proprietari di ville sontuose facevano a gara nell’allestire salotti «pompeiani». I motivi figurati dissepolti dagli scavi vesuviani apparvero anche a Londra, nel Garden Pavillon di Buckingham Palace, e in Russia, nel palazzo di Tsarskoe Selo, a 25 km da San Pietroburgo, per volere di Caterina II. L’architettura, la pittura decorativa, il disegno: le rovine archeologiche contagiavano tutti gli

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IL GIARDINO DELLE MERAVIGLIE

Polonia

artisti. E anche la musica cominciò a dare i suoi contributi al diffondersi della notorietà di Pompei. La prima composizione musicale ad avvalersi per la scenografia di un monumento venuto alla luce fu il Flauto magico di Mozart, dove il tempio ricostruito imitava quello di Iside. Lo stesso musicista aveva visitato Ercolano e Pompei nel 1770 in uno dei tre viaggi compiuti in Italia con il padre, quando Napoli era capitale anche della musica. Aveva quattordici anni ed era già considerato un fenomeno. A Portici, era maggio, il diciottenne re Ferdinando IV lo ricevette solo in visita di Berlino cortesia, ma pare che il giovane Wolfgang Olanda Wörlitz si sia esibito privatamente all’organo della Cappella di Corte (oggi è stato restaurato). GE R MA NI A All’inizio dell’Ottocento, insieme con le Rep. Ceca composizioni musicali, si moltiplicarono anche i romanzi: dall’opera lirica L’ultimo Francia giorno di Pompei, di Giovanni Pacini su Austria Svizzera libretto di Leone Tottola, allestito nel teatro San Carlo di Napoli con una Restaurato alcuni anni fa, il complesso realizzato a Wörlitz spettacolare messa in scena che comprendeva propone – in miniatura – il Golfo di Napoli, con i luoghi che l’eruzione del Vesuvio, al celebre romanzo avevano cosí suggestionato Leopoldo III alla fine del The last days of Pompeii di Edward G. Settecento. Immersi nel verde, su un ramo del fiume Elba, si Bulwer-Lytton, e al lungo racconto Arria incontrano un lago artificiale sormontato da un piccolo Vesuvio, alcuni cunicoli che evocano le prime scoperte di Marcella di Théophile Gauthier, che prendeva Ercolano e finiscono in ambienti ricreati come in origine e le spunto dall’impronta di un seno femminile rovine di un teatro romano vicino alla ricostruzione della recuperata nella Villa di Diomede.

Un soggetto di successo La ricostruzione di tanti aspetti della vita quotidiana divenne l’argomento preferito di illustri firme della pittura, che hanno creato quadri a olio ancora oggi ammirati. Gran fama hanno conseguito, fra gli altri, i quadri di Théodore Chassériau, Domenico Morelli, Francesco Maldarelli, Giacinto Gigante – senza contare le innumerevoli gouache, tornate di moda, concentrate su panorami con il vulcano –; ma è stato l’olandese Lawrence Alma Tadema a ricreare con uno stile personalissimo e coinvolgente il fascino dell’antichità romana in generale, e di Pompei in particolare: in un languore decadentista, tra cascate floreali e scorci marini, sono soprattutto le figure femminili ad animare monumenti, case e strade. Tutto l’Ottocento, e anche dopo, è un

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Villa Hamilton a Posillipo. Si può persino assistere a un’eruzione simulata del vulcano, con luci e fiamme. L’inno al mondo classico si riflette anche nella residenza del


principe: le stanze sono state decorate riproducendo interi affreschi o soggetti singoli e contengono oggetti recuperati nella sua visita in Italia, sia da Roma che da Pompei ed Ercolano. All’interno del parco c’è anche un Pantheon a imitazione di quello romano, nel quale compaiono immagini egittizzanti che derivano dalla scoperta del tempio pompeiano di Iside. L’intento dell’illuminato sovrano non era però finalizzato al godimento personale di bellezze e antichità mediterranee: a tutti i sudditi era concesso passeggiare nel Gartenreich ed entrare nella casa principesca per questo insolito Grand Tour italico.

In alto il vulcano ricostruito nel Gartenreich di Wörlitz. Acquatinta di Wilhelm Friedrich Schlotterbeck da un originale di Karl Kuntz. 1800. In basso, da sinistra Dessau-Wörlitz, Gartenreich. La Villa Hamilton e il vulcano artificiale, realizzati per volere del duca Leopoldo III di Anhalt-Dessau. Dopo un lungo abbandono, la struttura è stata restaurata e riaperta al pubblico nel 2005.


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susseguirsi di visite illustri, soprattutto teste coronate, alle quali si rendeva omaggio dando il loro nome alle domus in corso di scavo, come la Casa del re di Prussia o la Casa della regina Margherita. E, per l’arrivo di sovrani che si mostravano molto interessati o dovevano decidere l’incremento ai lavori di scavo, molti oggetti appena recuperati furono fatti «scoprire» al momento della visita, come nel caso di Carolina Murat.

Banchetti tra le rovine La regina era animata da grande passione per le ricerche a Pompei, sí da provvedere all’acquisizione di altri suoli privati per ampliare l’area degli scavi; ma era allo stesso tempo desiderosa di possedere reperti, specialmente se preziosi, con i quali aveva allestito un vero e proprio museo personale. Non solo, ma quando organizzava gite con ospiti di riguardo spesso faceva preparare banchetti fra le antichità, di giorno e di notte. La lista delle visite eccellenti, lunghissima, registra impressioni diverse: Goethe, per esempio, ebbe a dire, entrando nelle abitazioni, che gli sembravano «case di bambola», aggiungendo – a proposito della scoperta – che delle molte sventure accadute nel mondo nessuna come quella causata dall’eruzione «ha procurato ai posteri gioia piú grande»; Charles Dickens invece annotava «la malinconica sensazione di vedere distruttore e distruzione comporsi in un quieto paesaggio sotto il sole», Stendhal che: «è un piacere vivissimo vedere faccia a faccia quell’antichità sulla quale si sono letti tanti volumi» e J. Ursyn Niemcewicz: «Pompei è un documento dell’antichità viva». Il fascino della piú grande città distrutta dalla furia del Vesuvio ha comunque contagiato tutti coloro che vi si sono recati, specialmente quando si susseguivano i ritrovamenti di case, utensili, oggetti di valore. Non ne fu immune neanche papa Pio IX, l’ultimo capo dello Stato pontificio, che arrivò trionfalmente in carrozza. Era il 22 ottobre del 1849 e ad accoglierlo c’era il re Ferdinando II, il quale, onorato di questa visita storica, gli fece dono di numerosi reperti «rinvenuti» per l’occasione – e nemmeno pompeiani – e gli offrí un pranzo nelle Terme.

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La realizzazione delle prime fotografie contribuí a veicolare le immagini di Pompei e ad accrescerne la notorietà; uno dei primi personaggi immortalati nelle stampe ad albumina di Giorgio Sommer fu Giuseppe Garibaldi, nel primo pomeriggio del 22 ottobre del 1860. Dimore aristocratiche, pitture, ricostruzioni grafiche, opere teatrali, fotografie, che concorsero fino all’inizio del XX secolo a dare fama alle rovine vesuviane, passarono tutte in secondo piano quando, nel 1908, apparve sugli schermi cinematografici la prima versione de: Gli ultimi giorni di Pompei, basato sul romanzo di Bulwer-Lytton che mescolava l’amore dei due protagonisti a improbabili contrasti fra cristiani e pagani. Da quel momento la fine tragica della città fu rivisitata in tante altre pellicole, tutte salutate dal favore del pubblico. Le immagini filmate erano ormai destinate al primato dello svago, della divulgazione e della comunicazione e Pompei ne è stata grande protagonista: dai primi cinegiornali ai reportage televisivi e ai documentari. Fino alle piú recenti ricostruzioni virtuali.

Emozioni irripetibili Ma lo schermo non ha oscurato il desiderio del contatto diretto, come dimostrano il flusso turistico in continuo aumento e il numero di esposizioni che varcano gli oceani. Per provare brividi ed emozioni vere è necessario percorrere le antiche strade, fermarsi davanti a un calco, osservare le collane indossate l’ultima volta e gli affreschi che parlano di una comunità piena di vita, che ha spento tutti i suoi colori in un giorno. La Pompei scavata, indagata, sempre al centro di animate discussioni, anche per gli archeologi di tutto il mondo è stata un mito: laboratorio ininterrotto di indagini da oltre due secoli e mezzo, per ampiezza cronologica e strutturale offre una messe di dati senza paragoni. E anche per noi resta un patrimonio unico. Da salvaguardare. Perché, mentre la scienza continua a stupirci con le sue conquiste e, al contempo, ci può inquietare per i suoi risvolti imprevedibili, abbiamo bisogno di incanti semplici, che avvolgano l’animo come antiche ghirlande.

Giacinto Gigante (1806-1876), La Casa di Castore e Polluce a Pompei. Acquerello, 1857. Sorrento, Museo Correale di Terranova. Molti pittori dell’Ottocento subirono il fascino delle antichità romane e si ispirarono a Pompei per ricostruire diversi aspetti della vita quotidiana. Si crearono vere e proprie botteghe per soddisfare la grande richiesta dei visitatori stranieri, desiderosi di procurarsi frammenti di quei luoghi antichi disegnati e dipinti.


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L’ULTIMA NOTTE DEL MONDO di Marisa Ranieri Panetta

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a vita e la morte dell’antica Pompei sono state segnate dalla vicinanza di un vulcano. Un’eruzione lontanissima nel tempo aveva difatti formato l’alto pianoro in prossimità del mare sul quale nacque e prosperò la città; lo stesso terreno lavico permise un’agricoltura fiorente per secoli, mentre l’esplosione del tappo del Vesuvio, rimasto a lungo inattivo, fu la causa di una fine tragica. La storia esplosiva del vulcano ha inizio 25 000 anni fa, come hanno rivelato le indagini nel terreno: un’attività che si è alternata a lunghi periodi di riposo (perciò il Vesuvio è definito «quiescente»), ha avuto un altro risveglio documentato nel 1600 a.C., ha visto poi verificarsi l’evento

Karl Briullov (1799-1852): L’ultimo giorno di Pompei. Olio su tela, 1830-33. San Pietroburgo, Museo di Stato Russo. Il pittore russo visitò Pompei nel 1828 e realizzò diversi schizzi sull’eruzione del Vesuvio. La tela riscosse un grande successo e venne esposta prima a Roma, poi nel Louvre a Parigi. Edward Bulwer-Lytton la vide a Roma e ne trasse ispirazione per il suo famoso romanzo Gli ultimi giorni di Pompei.

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catastrofico che ha distrutto Pompei, Ercolano, Stabia, e tanti altri episodi eruttivi, fino al piú recente nel marzo del 1944. Nell’agosto del 79 d.C., a quasi millesettecento anni dall’ultimo fenomeno eruttivo, nessuno in Campania aveva memoria di esperienze del genere, anche se tra il I secolo a.C. e il I d.C., Strabone, autore greco della Geographia (V, 48 C 246-247), e Vitruvio Pollione, nel noto De architectura (II, 6, 2), avevano lasciato nelle loro opere riferimenti precisi alla vera natura del Vesuvio. E Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, IV, 21, 5) aveva paragonato in tempi lontani il Vesuvio all’Etna. I terremoti che hanno da sempre caratterizzato la costa flegrea e il golfo di Napoli non erano invece sconosciuti ai Pompeiani; il sisma del 62 d.C., in particolare, fu di inaudita violenza, squassando muri e generando panico e rovina. Era la grande avvisaglia dell’eruzione che si sarebbe verificata diciassette anni dopo, ma nessuno poteva sospettarlo: anche nel I secolo, il Vesuvio era percepito solo come una montagna sacra a Giove che offriva ottima uva da vino, selvaggina, legname.

«È il mondo stesso che vacilla...» Abbiamo una testimonianza scolpita nel marmo di quel disastro: due rilievi ritrovati nella Casa di Cecilio Giocondo, che mostrano Porta Vesuvio e il lato nord del Foro durante il crollo; il ricordo letterario è invece rimasto, limitato a una notizia, in Tacito (Annales, XV, 229): «Un terremoto rovinò gran parte di Pompei, nota città della Campania»; come ampia digressione nel libro sesto delle Naturales Quaestiones del filosofo Anneo Seneca. «Abbiamo saputo», scrive, «che nel cuore dell’inverno questa località è stata sconvolta da un terremoto e che tutta la contrada circostante è stata colpita dal medesimo flagello (...) Proprio il cinque febbraio, sotto il consolato di Regulo e Virginio, il terremoto si è abbattuto sulla Campania, una regione che ha sempre conosciuto simili allarmi e nondimeno, rimasta indenne, ne aveva dimenticato la paura. Questa volta il disastro è stato considerevole (...) È rimasto ucciso un gregge di seicento pecore

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Affresco raffigurante il Vesuvio che, prima dell’eruzione del 79 d.C., era a una sola cima, dal larario della Casa del Centenario. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra è il dio Bacco, ricoperto da un grappolo d’uva, e le viti alle pendici della montagna alludono alla presenza di vigneti sul Vesuvio. In basso, un serpente si avvicina a un altare, un simbolo di buon auspicio.

(sui Monti Lattari); alcune statue sono andate in frantumi; c’è chi è rimasto sconvolto e vaga qua e là come un folle (...) È uno spavento, d’altronde, naturale. Se infatti è il mondo stesso che vacilla, se trema e barcolla quanto vi è piú saldo, che cosa si potrà considerare abbastanza sicuro? Se incomincia a vacillare anche l’unica parte dell’universo che è immobile e fissa, quella verso la quale tutte le cose tendono e nella quale hanno il loro punto d’appoggio, se la terra perde la stabilità che la caratterizza, come placare le nostre paure? (...) Quando una casa scricchiola e annuncia il suo crollo tutti perdono la testa; ognuno si precipita fuori, abbandona il focolare e spera di salvarsi all’aperto. Ma verso quale rifugio, verso quale soccorso volgeremo lo sguardo se è lo stesso globo terrestre a minacciare rovina? Se si squarcia e ondeggia questa terra che ci protegge e ci sostiene, dove l’uomo ha costruito le sue città, che costituisce, come


dicono alcuni, il fondamento del mondo?». Anche a causa di questa autorevole e suggestiva eco letteraria, le crepe, i cedimenti degli edifici, i restauri in corso, rilevati dagli archeologi durante gli scavi, furono ritenuti fino a pochi anni fa conseguenze di quanto era accaduto nel 62.

Un città trasformata in cantiere Certamente dopo quel terremoto Pompei non fu piú la stessa e per anni curò le sue ferite; ma i numerosi interventi edilizi, privati e pubblici, che si sono constatati nel corso della scoperta, erano con ogni probabilità dovuti anche a uno sciame sismico precedente

l’eruzione, con qualche punta piú violenta. È assurdo, infatti, pensare, per esempio, che un tesoro come quello d’argento ritrovato in un nascondiglio della Casa del Menandro, fosse rimasto fuori uso per diciassette anni. È piú verosimile che i lavori di Pompei, sottoposta a diversi terremoti, si presentassero come un work in progress: sistemate le abitazioni dal punto di vista strutturale per iniziative private, si procedeva a nuove costruzioni (le Terme Centrali non furono portate a termine), si riparavano condutture per l’acqua, si interveniva nelle emergenze, si progettavano con cautela i restauri, abbandonando forse l’idea di intervenire dove le lesioni o le parti

Calchi di rilievi raffiguranti il crollo del Tempio di Giove sul Foro ( in alto) e della porta Vesuvio ( in basso) durante il terremoto del 62 d.C., dal larario della Casa di Cecilio Giocondo. I sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Il sisma fu di inaudita violenza e seminò panico e morte.

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distrutte richiedevano spese enormi. Né, d’altronde, di fronte a quanto rivelavano gli scavi, si potevano distinguere i danni provocati dalla stessa eruzione dalla sottrazione – nell’immediato – di marmi e colonne per iniziativa delle autorità o di singoli individui. Nel primo mattino del 24 agosto nessuno, comunque, attribuí il grande boato sotterraneo all’inizio di una catastrofe di origine vulcanica. Quando poco piú tardi la terra sembrò squarciarsi, i Pompeiani sicuramente

pensarono a un terremoto di proporzioni colossali, sperando – ancora una volta – di poter sopravvivere. E fu proprio l’ignoranza dell’origine di quel fenomeno a rendere l’eruzione ancora piú terribile, anche perché – in pieno giorno – gli abitanti si ritrovarono immersi nell’oscurità, sotto una pioggia di pomici e lapilli, mentre si susseguivano fenomeni sismici e crollavano intonaci: conobbero la vera natura del Vesuvio quando ormai era troppo tardi. Non abbiamo, ovviamente, alcun racconto diretto di quel giorno e di quella notte che distrussero la vita di migliaia di persone; l’unico testimone – da una località relativamente vicina – è stato Plinio il Giovane che, in due

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Qui sotto il Vesuvio in una foto aerea del 2002. In basso la diffusione della nube di ceneri e scorie durante l’eruzione del 24 agosto del 79 d.C. In due giorni Pompei, Ercolano e Stabia furono sepolte da circa 2 m di ceneri.

Campi Flegrei

Napoli Ercolano

Pozzuoli Miseno

Vesuvio

Torre del Greco

Golfo di Napoli

Oplontis

Pompei Nuceria

Stabiae Salerno

Sorrento

Capri

Golfo di Salerno

Se

le

Paestum


In alto il Vesuvio. Nel 79 d.C. il magma venne espulso a grande velocità fino a un’altezza di 15 km. Ad alta quota le ceneri si espansero formando una vasta nube scura, che offuscò la luce del giorno. A Pompei iniziarono il caos e il panico.

lettere indirizzate allo storico Cornelio Tacito, ha descritto la sequenza delle fasi eruttive.

Le lettere di Plinio il Giovane Sono state le due Epistulae a far conoscere ai posteri l’evoluzione del fenomeno: un contributo prezioso che, confrontato con le ricerche sul campo degli archeologi e dei vulcanologi, ha permesso di ricostruire nei particolari le ultime ore di Pompei. Quasi un reportage ante litteram che descrive una tragedia immane. Plinio era ospite dello zio omonimo, detto il Vecchio, autore della monumentale Naturalis Historia, che allora si trovava a Capo Miseno come ammiraglio della flotta imperiale sul mar Tirreno, e il luogo, sulla

punta occidentale del golfo di Napoli, consentiva una visione ampia del territorio dominato dal Vesuvio (vedi box alle pp. 22-23). Questa prima lettera, a parte la descrizione della fine dello scienziato e ammiraglio Plinio il Vecchio, esaltata dal nipote nel suo stoico svolgimento, rimane una testimonianza cosí puntuale del fenomeno vulcanico, da aver dato a questo tipo di eruzione la denominazione di «pliniana». Il resoconto fornisce anche dettagli che fissano inequivocabilmente giorno e mese. Alcuni infatti hanno posticipato l’eruzione al 23 novembre, sia per aver seguito una versione deteriore delle lettere di Plinio in stampe rinascimentali, sia per lo stato di maturazione di alcuni reperti alimentari che rimanderebbero

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TRA MITO E STORIA

Oggetti per la scrittura: calamaio in bronzo e penna. Nimega, Rijksmuseum.

all’autunno. Ultimamente è stata rinvenuta anche una moneta che riporta un evento dell’impero di Tito posteriore alla catastrofe e ciò ha indotto alcuni studiosi a prendere in considerazione una data diversa. A tutto ciò si oppongono diversi fattori. Innanzitutto, per la precessione degli equinozi, il clima di agosto nel I secolo corrisponde a quello del mese successivo; inoltre, le noci si mangiavano sia fresche che conservate, mentre era diffusa l’usanza di raccogliere i

melograni prima della maturazione con i «piccioli» ritorti su se stessi; infine, sappiamo che – a eruzione terminata – molti si erano aggirati nella zona disastrata e una moneta poteva essere finita per terra. Erano davvero tante le persone interessate a recuperare oggetti di pregio e beni personali: chi aveva avuto l’incarico ufficiale dall’imperatore, chi vi era vissuto e chi ne approfittava. L’epistola pliniana, peraltro, non ammette dubbi sulla descrizione dell’ultima giornata

«CARO TACITO, TI SCRIVO...» La morte di Gaio Plinio Secondo nella lettera del nipote, Plinio il Giovane:

«Caro Tacito, mi chiedi di raccontarti la morte di mio zio per poterla tramandare ai posteri con maggiore esattezza. Te ne sono grato, in quanto prevedo che la sua fine, narrata da te, sia destinata a gloria immortale. Sebbene infatti egli sia perito durante la devastazione di bellissime contrade, assieme a intere popolazioni e città, durante un evento memorabile, quasi a sopravvivere per sempre nella memoria, e sebbene anche lui abbia composto numerose e durevoli opere, molto tuttavia aggiungerà l’immortalità dei tuoi scritti alla durata della sua fama. Difatti considero davvero fortunati coloro ai quali per dono divino è concesso di fare cose degne di essere narrate o di scriverne degne di essere lette; fortunatissimi però coloro cui sono concesse l’una e l’altra cosa. Fra questi ci sarà mio zio, grazie alle sue e alle tue opere. Per questi motivi mi appresto a compiere tanto piú volentieri quanto tu desideri. Egli si trovava a Miseno in qualità di comandante della flotta. Il nono giorno prima delle Calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima mia madre lo avverte che si scorge una nube insolita per ampiezza e aspetto. Egli, dopo aver preso un bagno di sole e poi di acqua fredda, aveva consumato un pasto leggero e, disteso, stava studiando. Si fece portare i calzari e

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salí fino a un luogo da dove si poteva veder bene quel fenomeno. Si formava una nube (a coloro che la guardavano da cosí lontano non era chiaro da quale monte avesse origine, si seppe poi trattarsi del Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avrebbe espresso meglio di un pino. Infatti, protesasi verso l’alto come un tronco altissimo, si allargava in seguito come dei rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d’aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o vinta dal suo stesso peso, si allargava pigramente, a tratti bianca, a tratti sporca e a chiazze, per il terriccio o la cenere che trasportava. Persona di grandissima erudizione qual’era, gli sembrò che quel fenomeno meritasse di essere conosciuto meglio e piú da vicino. Ordina che gli si prepari un battello liburnico, mi permette, se lo desidero, di andare con lui, ma gli rispondo che preferisco restare a studiare; anzi, per caso lui stesso mi aveva assegnato un compito. Stava uscendo di casa quando riceve un messaggio da Retina (o Rectina), moglie di Casco, spaventata dal pericolo che la minacciava (dal momento che la sua villa era ai piedi del monte e non era altro scampo che per nave). Lo zio cambiò i suoi piani e ciò che aveva intrapreso per amore della scienza, portò a termine per senso del dovere. Mette in mare le quadriremi e si

imbarca lui stesso per recare aiuto non solo a Retina ma a molti altri, poiché la zona era molto abitata per l’amenità del lido. Si affretta là da dove gli altri fuggono, va dritto, il timone rivolto verso il luogo del pericolo; cosí privo di paura da dettare e annotare ogni fenomeno di quel terribile disastro, ogni aspetto, come si presenta davanti ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto piú calda e densa quanto piú si avvicinava; già cadevano pomici e pietre annerite, cotte e frantumate dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi precipitati dal monte. Esita un momento, se era il caso di rientrare, ma poi al pilota che lo esorta a fare ciò, dice: «La fortuna aiuta gli audaci, punta verso Pomponiano!». Questi si trovava a Stabia, dall’altra parte del Golfo (dal momento che il mare si addentra seguendo la riva che man mano disegna una curva). Qui Pomponiano, benché il pericolo non fosse prossimo, ma tuttavia in vista e in grado, crescendo, di diventare imminente, là Pomponiano aveva trasportato le sue cose su alcune imbarcazioni, deciso a fuggire, quando il vento contrario si fosse calmato. Questo era allora del tutto favorevole a mio zio, che arriva, abbraccia l’amico trepidante, rincuorandolo e portandogli conforto, e, per calmare la paura di lui con la propria sicurezza, chiede di poter


dell’ammiraglio: iniziata con un bagno di sole e di acqua fredda – che certo non si addicono a una persona d’età avanzata, per quanto eroica, in pieno autunno – e culminata con un viaggio in mare iniziato almeno verso le 14-15 del pomeriggio e che doveva contare su altre ore di luce per poter attraccare le navi e caricare passeggeri, una possibilità da escludere nel mese di novembre. Ma torniamo all’eruzione vera e propria. Il Vesuvio aveva dato i primi segnali poco dopo

prendere un bagno: lavatosi, cena tutto allegro o, ciò che conta di piú, fingendosi allegro. Intanto dal monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano fiamme altissime e vasti incendi, il cui chiarore e la cui luce erano resi piú intensi dalle tenebre notturne. Lo zio, per placare le paure, diceva che si trattava di case che bruciavano, abbandonate e lasciate deserte da contadini in fuga. Poi andò a riposare e dormí di un autentico sonno, in quanto il suo respiro, reso piú pesante e rumoroso dalla vasta corporatura, fu udito da coloro che sorvegliavano dalla soglia. Il livello del cortile attraverso il quale si accedeva a quell’appartamento si era però già alzato di molto, in quanto ricoperto dalla cenere mista ai lapilli, al punto che, se si fosse trattenuto piú a lungo nella camera, non ne sarebbe piú potuto uscire. Svegliato, esce e raggiunge Pomponiano e gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultarono tra loro, se dovessero restare in un luogo chiuso o uscire all’aperto. Infatti continue e prolungate scosse telluriche scuotevano l’abitazione e, come se essa venisse da quelle scalzata dalle fondamenta, sembrava che ora si abbassasse, ora si rialzasse. D’altronde all’aperto si temeva la pioggia di lapilli, per quanto fossero leggeri e

l’alba del 24 agosto; non solo il boato, ma piccole esplosioni, fuoruscita di materiali vulcanici e caduta di massi – non visibili dall’altra parte del Golfo – che ebbero i loro effetti disastrosi su chi abitava ai piedi della montagna, come Rectina, che si precipitò a inviare una richiesta di aiuto all’amico ammiraglio. Intorno alle tredici (ora settima) l’esplosione: il magma, risalito lungo il condotto ormai aperto, viene espulso dal Vesuvio a grande velocità, innalzandosi come una colonna alta circa 15 km.

porosi; tuttavia, confrontati i pericoli, egli decise di uscire fuori. Se però in lui prevalse ragione su ragione, negli altri fu il timore a prevalere sul timore. Messi dei guanciali sulla testa, li assicurano con lenzuola e questo fu il loro riparo contro quella pioggia. Faceva ormai giorno ovunque ma là regnava una notte piú scura e fonda di ogni altra, per quanto interrotta da molti fuochi e varie luci. Egli volle andare sulla spiaggia per controllare da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma

Ritratto immaginario di Gaio Plinio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). Incisione del XIX sec. Collezione privata.

questo era ancora agitato e impraticabile. Qui, messosi a riposare disteso su un lenzuolo, chiese a piú riprese dell’acqua fresca, bevendola avidamente. Ma ecco che le fiamme e il sentore di zolfo che le annunciava mettono in fuga alcuni e fanno riscuotere lo zio. Sostenuto da due schiavi, si alzò in piedi, ma subito stramazzò al suolo perché, suppongo, l’aria ispessita dalla cenere aveva ostruito la respirazione e bloccato la trachea, che egli aveva per conformazione delicata e stretta, e frequentemente infiammata. Quando ritornò il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo) il suo corpo fu trovato assolutamente intatto, coperto dagli indumenti che aveva indosso: l’aspetto piú simile a un uomo che dorme che a quello di un morto. Frattanto a Miseno io e la mamma....ma ciò non importa alla storia, e tu non volevi conoscere altro che il racconto della sua morte. Dunque mi interrompo qui. Una sola cosa voglio aggiungere: ti ho raccontato tutto ciò a cui io stesso ho assistito o che ho saputo subito, quando i ricordi sono piú veritieri. Tu traine ciò che ha piú valore: una cosa, infatti, è una lettera, altra cosa una storia; una cosa scrivere per un amico, altra per il pubblico. Addio».

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TRA MITO E STORIA

TUTTE LE ERUZIONI DEL VESUVIO 1631 Da luglio a dicembre la terra tremò e nei fianchi del vulcano si aprirono delle crepe ardenti. Il 16 dicembre il Vesuvio esplose e la colata lavica si riversò sul mare. Gli abitanti dei comuni limitrofi fuggirono fino a Napoli, ma nonostante ciò morirono 4000 persone. 1751 Il 25 ottobre del 1751, dopo una forte esplosione, si aprí una crepa sul versante sud-est del Vesuvio. La colata lavica fece molti danni, ma nessuna vittima. 1760 La colata lavica seguí quasi lo stesso cammino verso Torre Annunziata come durante l’eruzione del 1631, ma si fermò poco prima del mare.

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1794 Il 15 giugno si formò un’enorme nube sopra il vulcano. La mattina seguente, la colata lavica raggiunse Torre del Greco che venne completamente distrutta. Ulteriori eruzioni si registrarono nel 1817, nel 1822, nel 1861. Nel 1872 furono distrutti i paesi di San Sebastiano e Massa sul versante nord-occidentale del Vesuvio e morirono venti escursionisti. 1906 La colata lavica distrusse completamente il comune di Boscotrecase. Nel crollo della chiesa di San Giuseppe morirono centocinque persone. 1944 L’ultima grande eruzione del Vesuvio si verificò il 18 marzo del 1944.

Il magma fu espulso in un getto alto circa 700 m, mentre la nube con le ceneri raggiunse un’altezza di 5 km e venne portata dal vento

fino in Albania. La colata lavica distrusse i comuni di San Sebastiano e Massa; quarantasette vittime furono la tragica conseguenza.


Ad alta quota, comincia ad allargarsi in una vasta nube scura: è il fenomeno che vede Plinio il Vecchio, ignaro anch’egli della natura del Vesuvio, e che il nipote descrive a Tacito dalla forma «di un pino». Cominciano allora a precipitare su Pompei ceneri, pomici e lapilli, per effetto del vento che spira verso sud-est. È il panico, il caos: ovunque la gente per strada cerca un riparo, tenta di tornare a casa; chi vi è già, si barrica dentro; cadono murature, capitelli, statue; uomini e animali corrono in tutte le direzioni e tanti muoiono di paura. I materiali scagliati dal vulcano continuano ad accumularsi e dopo poche ore hanno raggiunto sul terreno un’altezza di circa mezzo metro, facendo precipitare coperture e impedendo di uscire a chi possiede una domus con l’atrio aperto, già ingombro di lapilli. Intanto la nube, estendendosi, va a coprire il sole e gli abitanti, in preda a scosse violente del terreno, sotto una pioggia di materiali caldi che non hanno mai visto, si trovano in piena notte. Il mare è molto agitato, in alcuni tratti sembra ritirarsi e la corrente spinge verso la costa: cosí si spiegano sia il «bassofondo» incontrato dalle quadriremi dell’ammiraglio, che l’impossibilità, una volta sbarcato alla villa stabiana di Pomponiano, di riprendere il largo con gli amici. I Pompeiani che non hanno subito cercato di fuggire dalla città, ci provano quando è troppo tardi. Chiusi gioielli e monete in sacchetti, proteggendosi la testa in qualche modo, cercano di allontanarsi, ma i movimenti sono ostacolati dalle macerie, dai materiali piroclastici, dalle scosse telluriche: la nube eruttiva si è alzata ancora di piú e la fuliggine, nel buio, impedisce di respirare. Scoppiano incendi, provocati talora dalle stesse torce che cadono di mano, si calpestano bambini piccoli, si perdono persone anziane. Cosí descrive le terribili ore vissute dai Pompeiani lo storico Dione Cassio, nella sua Storia Romana (LXVI, 23), scritta in greco molti anni dopo questi eventi: «La notte subentrò al giorno, l’ombra alla luce; e alcuni credevano che i Giganti si fossero ribellati anche quella volta (...) perciò si diedero alla fuga, alcuni nelle strade fuori dalle case, altri dall’esterno all’interno, certi altri dal mare alla terraferma,

altri ancora, al contrario, dalla terra all’acqua, poiché erano sconvolti e ritenevano che qualsiasi luogo che non avevano ancora raggiunto fosse piú sicuro di quello in cui si trovavano. Mentre accadeva ciò, fu eruttata un’incredibile quantità di cenere che non solo riempí interamente la terra e il mare, ma anche tutta l’aria, e da un lato provocò molti e diversi danni a uomini, campi e greggi; dall’altro, uccise tutti i pesci e gli uccelli».

Una massa di vapore bollente In piena notte, quando a Stabia l’ammiraglio attribuisce a «case abbandonate» le fiamme estese che si scorgono alle pendici del Vesuvio, quelle che non sono incendi, ma nubi ardenti (dette surges dai vulcanologi), precipitano dalla montagna a gran velocità. La loro massa di vapore bollente, piena di sostanze venefiche, ha già ucciso gli abitanti di Ercolano, delle ville rustiche a sud-ovest del vulcano, di Oplontis, e sono in procinto di soffocare anche Plinio. Molti Pompeiani invece sono sopravvissuti alla pioggia infernale di un’intera giornata che continua a far salire il livello di pomici e lapilli. E all’alba del 25 agosto, quando il fenomeno accenna a diminuire, si affaccia persino la speranza di poter riprendere in mano la vita: mentre qualcuno rientra per cercare familiari e case, senza riuscire a orientarsi, molti cercano, aiutandosi con le lanterne, di ritrovare una

Nella pagina accanto, in alto illustrazione ottocentesca raffigurante un’eruzione del Vesuvio; in basso un’immagine dell’eruzione del 1944. Qui sotto ricostruzione di Pompei all’epoca dell’eruzione del 79 d.C. In primo piano si vedono, a sinistra, la zona del Foro triangolare, al centro il quadriportico usato ormai come caserma dei gladiatori e, di seguito, il teatro grande. A destra è l’Odeion coperto.

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TRA MITO E STORIA

strada, un’uscita che li porti lontano. Ma la montagna benefica che si è rivelata un nemico invincibile e implacabile non ha finito la sua opera di distruzione. Poco dopo, una surge arriva fino a Pompei e si arresta vicino le mura, soffocando chi è rimasto nella Villa di Diomede, nella Villa dei Misteri e si è avviato fuori Porta Ercolano. Non trascorre molto tempo e altre nubi di ceneri e gas letali investono i superstiti, attraversano l’abitato e arrivano al porto marittimo: gli ultimi momenti per uomini e animali ancora in vita. La forza distruttiva di un’ulteriore surge, la piú micidiale, che fa crollare le parti alte degli edifici e stravolge definitivamente la città, è stato calcolato che raggiungesse la velocità di quasi 80 kmh. Ne seguiranno ancora, contribuendo solo ad aggiungere rovina a rovina. L’attività vulcanica continua nei giorni successivi: diminuendo

progressivamente la sua violenza, ma lasciando un territorio profondamente sconvolto. A differenza di Ercolano, sepolta da un fiume di fango bollente e detriti che col tempo si solidificarono come tufo, Pompei era diventata un’area desertica, dove solo qua e là spuntava qualche muro piú alto. Il poeta Papinio Stazio scrisse nelle Silvae (IV, 4): «Crederà la generazione ventura degli uomini, quando rinasceranno le messi e rifioriranno questi deserti, che sotto i loro piedi sono città e popolazioni e che le campagne degli avi s’inabissarono?» Uguale sgomento in Marziale, che in un epigramma (IV, 44) disse addirittura che gli stessi dèi non avrebbero voluto permettere ciò che era in loro potere fare: «Ora tutto giace sommerso in fiamme e in triste lapillo».

«FENOMENI STRANI E PAUROSI...» Ecco invece cosa accadde a Miseno, nel racconto di Plinio il Giovane:

«Era già la prima ora del mattino, e pure la luce era ancora incerta e a stento percettibile. Gli edifici attorno erano tutti squassati e, benché fossimo in un luogo aperto, e tuttavia stretto, il timore di un crollo era grande e imminente. Solo allora ci decidemmo (lui e la madre) a uscire dall’abitato; ci segue una folla frastornata e, ciò che nello spavento appare come prudenza, preferisce alla propria la decisione altrui e in gran massa ci viene dietro e sospinge anzi la nostra partenza. Fuori dall’abitato ci fermiamo. Assistiamo là a molti fenomeni, strani e paurosi, in quanto i carri, che avevamo fatto preparare, nonostante il terreno fosse piano, indietreggiavano e neppure con il sostegno di pietre rimanevano al loro posto. Pareva inoltre che il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremare della terra. Certamente la spiaggia si era estesa e molti animali marini giacevano sulle

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sabbie rimaste a secco. Dal lato opposto una nube nera e terribile, squarciata da guizzi serpeggianti di fuoco, si apriva in vasti bagliori di incendio: erano simili a folgori, ma ancora piú estesi (...) Dopo non molto tempo quella nube si abbassò verso terra e coprí il mare; avvolse e nascose Capri; tolse alla vista il capo di Miseno (...) Cadeva già della cenere, ancora non fitta. Mi giro: una densa caligine ci sovrasta alle spalle e simile a un torrente che si rovesciasse sul terreno, ci incalzava. «Facciamoci da parte», dissi, «finché ci si vede, per non finire schiacciati nel buio, se cadessimo per via, dalla folla che ci segue». C’eravamo appena seduti, che calò la notte, nera come quando ci si trova in un locale chiuso a luci spente. Udivi i gemiti delle donne, le grida dei fanciulli, il clamore degli uomini: gli uni chiamavano a gran voce i genitori, altri i figli, altri i consorti, e li riconoscevano dalle voci; chi commiserava la propria sorte; chi quella dei propri cari;

v’era anche chi, per timore della morte, invocava la morte; molti sollevavano le braccia a invocare gli dèi; altri, piú numerosi, affermavano che non vi erano piú dèi e che quella era l’ultima notte del mondo (...) Alla fine quella caligine si attenuò e svaní in una specie di fumo o di nebbia; quindi fece proprio giorno e apparve anche il sole, ma livido, come durante un’eclisse. Agli sguardi ancora preoccupati il paesaggio appariva mutato e ricoperto da una spessa coltre di cenere, come se avesse nevicato. Rientrati a Miseno e rinfrancate per quanto possibile le forze, trascorremmo una notte affannosa e incerta tra la speranza e il timore. Era il timore però a prevalere, in quanto le scosse di terremoto continuavano e molti, ormai impazziti, con previsioni catastrofiche accrescevano quasi con tragica ironia i propri e gli altrui malanni reali. Noi però, benché scampati ai pericoli e pur in attesa di nuovi, nemmeno allora pensavamo a partire, finché non avessimo avuto notizie dello zio».


I CORPI RICOSTRUITI In basso calchi delle vittime dell’eruzione del Vesuvio: un bambino vicino alla madre e un cane, rimasto legato con la catena. Giuseppe Fiorelli, il direttore degli Scavi dal 1860 al 1875, ideò un metodo rivoluzionario per restituire i corpi dei Pompeiani sepolti. Per piú di cento anni si mantenne il metodo del calco in gesso; dal 1984 in poi, invece, si sviluppò una tecnica leggermente diversa, utilizzando una resina trasparente che rende visibile lo scheletro.

A L’eruzione del 79 d.C. sommerse Pompei nel giro di poche ore con una pioggia di ceneri e lapilli. Gran parte degli abitanti rimasti in città morirono asfissiati dai gas e dalle nubi ardenti. I loro corpi furono coperti da strati di lapilli e cenere che si compattarono ben presto.

B Nel tempo i corpi si decomposero, lasciando cosí un vuoto all’interno del materiale vulcanico solidificato. Fiorelli fece allora colare una miscela di gesso e acqua nella cavità lasciata dal corpo decomposto.

C Una volta che il gesso si era solidificato, fu possibile rimuovere il terreno circostante e portare alla luce la forma cosí ottenuta. Questa tecnica non fu utilizzata soltanto per i corpi umani (a sinistra, in alto), ma anche per quelli degli animali (a sinistra, in basso) per le radici degli alberi e per altri oggetti rimasti sepolti sotto lo strato di ceneri vulcaniche.

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LA STORIA DEGLI SCAVI di Marisa Ranieri Panetta

I

primi tentativi di riportare alla luce Pompei si ebbero all’indomani della spaventosa eruzione. L’imperatore Tito, appena ne fu informato si precipitò in Campania. Il disastro che si presentava ai suoi occhi era immane, ma decise di tentare ugualmente un recupero. Affidò la responsabilità dei lavori a ex consoli estratti a sorte (curatores restituendae Campaniae), ma poi fu costretto a rientrare a Roma, dove era scoppiata un’epidemia di vasta portata. I buoni propositi si rivelarono inutili perché l’area sepolta era troppo vasta; si cercò quindi di recuperare pezzi architettonici per riutilizzarli altrove, statue, forse documenti pubblici, ma soprattutto di sollevare i superstiti dalla disperazione con incentivi e donativi.

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Si era comunque scatenata la ricerca di oggetti di valore: da parte degli stessi proprietari, di funzionari poco ligi, dei soliti sciacalli. Infine, la rinuncia. Col tempo, di Pompei si erano perse addirittura le tracce e l’informe massa provocata dai materiali vulcanici diventò una parte del paesaggio, una collinetta indicata genericamente come la «Civita». La realizzazione, molti secoli dopo, di canali per l’irrigazione e gli scavi di pozzi non mancarono di mettere in luce epigrafi, affreschi e altre testimonianze urbane che nel Cinquecento vennero attribuiti a Pompei. Ma furono voci inascoltate – supposizioni, si disse – che non trovarono seguito. Solo nel 1709, quando l’Italia meridionale entrò


nel dominio austriaco, si cominciò a parlare, non solo nel nostro Paese, delle città sepolte dall’eruzione. La prima a essere intercettata – senza essere riconosciuta – fu Ercolano, al di sotto del borgo di Resina, grazie ai marmi pregiati che un contadino, tale Ambrogio Nocerino, estrasse da vari metri di profondità mentre perforava il terreno alla ricerca di acqua. Il generale Emanuel Moritz von Lothringen, principe di Elboeuf, che stava sistemando una villa acquistata sul porto di Granatello a Portici, comprò tutto, si assicurò il pozzo e, a sue spese, proseguí lo scavo in profondità. Sbucò cosí in quella che si rivelò essere la scena dell’antico teatro, da dove furono estratte alcune statue, presto inviate in Austria per farne dono a Eugenio di Savoia, e poi passate di mano (oggi le Ercolanesi sono a Dresda, nelle Staatliche Kunstsammlungen).

Un’esplorazione difficile

Edouard Alexandre Sain (1830-1910): Scavi a Pompei. Olio su tela, 1865. Parigi. Musée d’Orsay. Con Giuseppe Fiorelli alla direzione degli scavi, a partire dal 1860 il metodo di lavoro cambiò radicalmente. Fu lui a suddividere Pompei in Regiones e Insulae e a dare inizio a esplorazioni sistematiche.

Con l’arrivo dei Borboni, nel 1734, continuò l’esplorazione. Il rinvenimento di altre opere d’arte attraverso lo scavo dell’ennesimo pozzo convinse infatti re Carlo, nel 1738, a proseguire le ricerche; ma la certezza di aver ritrovato Ercolano si presentava irta di difficoltà. La città antica si trovava sotto una ventina di metri di fango, detriti e materiali vulcanici che, raffreddandosi, avevano formato uno strato duro come il cemento. Il lavoro era lungo e costoso, dovendo procedere per pozzi e gallerie sotterranee: ciononostante, continuavano ad affluire nella nuova reggia di Portici, residenza estiva della corte, lacerti di affreschi, arredi pregiati, bronzi e gioielli, che diedero l’avvio alla realizzazione di un museo. Un altro contadino, intanto, era sprofondato fra pareti affrescate durante lavori agricoli condotti nella contrada di Civita, e il sovrano autorizzò subito ulteriori esplorazioni per disseppellire quello che si segnalava come un centro abitato: era il marzo del 1748. Gli studiosi, in

verità, dibatterono a lungo sull’individuazione del luogo, propendendo per la scoperta di Stabia, l’antica Stabiae (messa in luce poco dopo). Solo nel 1763, quando fu rinvenuta un’iscrizione di Tito Suedio Clemente (inviato dall’imperatore Vespasiano) con la menzione res publica Pompeianorum, si ebbe la certezza che quanto veniva alla luce fosse realmente l’antica Pompei. Nell’euforia degli scavi, re Carlo si sentiva il protagonista di un’era nuova per le antichità. A sue spese e sotto il suo diretto controllo portava alla conoscenza del mondo città intere e la vita che vi si svolgeva, tutta «a colori»; faceva dono delle pregiate incisioni dei reperti, autorizzava le visite agli scavi e al museo della reggia di Portici. Le operazioni sul campo erano dirette dal colonnello Joaquin de Alcubierre, coadiuvato dall’ingegnere svizzero Karl Weber, che provvedeva a elencare i ritrovamenti e a compilare relazioni tecniche, con accurate planimetrie, che ancora oggi costituiscono una preziosa documentazione. Mentre si diffondevano le notizie in tutta Europa, a Pompei però gli scavi procedevano a casaccio, ricoprendo parzialmente o per intero i diversi edifici dopo aver recuperato le opere pregevoli e staccato le pitture parietali per «incorniciarle» come tanti quadri nel museo reale. Ecco la prima necropoli fuori le mura, ecco la proprietà di Giulia Felice vicino all’Anfiteatro e la cosiddetta Villa di Cicerone fuori porta Ercolano: Pompei cominciava a raccontarsi, con le negligenze accusate dal Winckelmann, il quale, a proposito dell’Alcubierre, diceva che aveva a che fare con l’archeologia quanto «la luna coi granchi». Dal punto di vista scientifico le indagini lasciavano infatti molto a desiderare, dal momento che erano sommarie, i cantieri non erano collegati fra loro, la ricerca primaria riguardava sempre le opere d’arte, mentre gli

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TRA MITO E STORIA

oggetti «poveri» o considerati «osceni» venivano distrutti o nascosti. Le sculture e le pitture a soggetto erotico contribuirono non poco a dilatare l’eco di quanto si scopriva. Non se ne parlava apertamente, ma lo scalpore suscitato da ermafroditi, divinità itifalliche, atti sessuali espliciti, riempiva i salotti delle corti europee. Quando alcuni cunicoli di Ercolano – nel 1750 – portarono all’interno della Villa dei Papiri e, tra statue straordinarie in bronzo, apparve il gruppo marmoreo che raffigurava l’amplesso fra il dio Pan e una capra, si gridò allo scandalo. Lo stesso sovrano chiuse l’opera a chiave, impedendone la vista perfino a studiosi di livello internazionale.

Il sovrano illuminato Pompei non era da meno: quadretti licenziosi, falli in bronzo e pietra – all’epoca, amuleti propiziatori – spuntavano dappertutto e i primi a stupirsene erano gli addetti ai lavori. A differenza di Roma, ancora celebrata da opere ufficiali, la città dedicata a Venere appariva come una città licenziosa: nei dolci luoghi pieni di verde e azzurro, il vir sembrava cedere il passo al frequentatore del lupanare. L’impresa di Carlo di Borbone, terminata nel 1759, quando egli lasciò Napoli per diventare re di Spagna col nome di Carlo III, ebbe comunque molti meriti. A parte la realizzazione del museo, per quanto accessibile su richiesta, e la costituzione dell’Accademia Ercolanense, che pubblicava per un numero ristretto di lettori colti illustrazioni e commenti delle scoperte, va sottolineata la promozione di uno scavo ampio, inteso a valorizzare un patrimonio pubblico. Per la prima volta gli ingenti costi furono infatti coperti dalle casse reali, la conduzione dei lavori fu affidata agli ufficiali del Genio, la mano d’opera fu assicurata da soldati, affiancati da ergastolani. Per sottolineare questa consapevolezza, quando re Carlo partí per la Spagna si sfilò dal dito l’anello ritrovato a Ercolano che recava incisa una maschera teatrale: non voleva portare con sé qualcosa che apparteneva alla comunità. Nei decenni successivi le indagini subirono una svolta piú moderna, pur se ancora lontana, per

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In alto statua della Grande Ercolanese (alt. 196 cm), forse identificabile con un’immagine della dea Demetra. A destra Statua di una delle Piccole Ercolanesi (alt. 180 cm), verosimilmente identificabile come Kore. Entrambe le sculture sono copie romane della prima età imperiale di originali greci, probabilmente in bronzo, di età ellenistica. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen.


In alto l’area archeologica di Ercolano. Dal 1709 si cominciò a parlare delle città sepolte dall’eruzione del Vesuvio. Ma solo nel 1738 iniziarono ufficialmente gli scavi a Ercolano, pur sempre dieci anni prima di quelli di Pompei.

metodologia di scavo e interpretazione dei dati, dall’applicazione di una ricerca scientifica. L’architetto spagnolo Francesco La Vega, nuovo direttore sotto re Ferdinando IV, impedí di riseppellire le domus dopo averne valutato la ricchezza e concentrò gli scavi in zone circoscritte, consentendo una visita di Pompei piú comprensibile. Sotto la sua guida, vennero alla luce molti monumenti funebri nella cosiddetta Via dei Sepolcri e la Villa di Diomede, presso le mura urbiche. Non solo, ma fu avviata la raccolta degli oggetti quotidiani, la roba povera, come testimonianze insopprimibili del passato. La Casa del Chirurgo

(cosí detta dagli strumenti medici ivi rinvenuti) lungo la via Consolare, ebbe la protezione di un tetto, la Caserma dei Gladiatori fu restaurata nella parete piú danneggiata del porticato, e si allargarono le rimozioni nell’area meridionale della città, dove furono esplorati il Foro Triangolare, il Teatro Grande e il Tempio di Iside.

Una ripresa effimera Nel 1799, con la proclamazione della repubblica partenopea, arrivarono a Napoli i Francesi guidati dal generale Championnet che, personalmente, fece riprendere gli scavi a Pompei; ma la parentesi repubblicana durò

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TRA MITO E STORIA

Sulle due pagine immagini che documentano vari momenti delle esplorazioni condotte a Pompei. A. I primi scavi dell’Iseo, in una tavola realizzata da Pietro Fabris per l’opera di Sir William Hamilton, Campi

Phlegraei: Observations on the Volcanoes of the Two Sicilies, pubblicata a Napoli nel 1776. B. Scavi a Pompei in una foto scattata intorno al 1900. C. Scavi a Pompei in una foto del 1961. Con l’Unità

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solo sei mesi e finí in un bagno di sangue. Ferdinando IV, risalito sul trono, affidò gli scavi a Pietro La Vega, fratello di Francesco, che rimase alla guida dei lavori anche nel decennio del governo napoleonico. Grazie anche agli scritti di J. Joachim Winckelmann – bibliotecario e antiquario a Roma presso il cardinale Albani – arrivavano in Campania aristocratici, accademici, intellettuali, ricchi vacanzieri, poeti, romanzieri. Dapprima si fermavano a Napoli, meta obbligata del Grand Tour; la seconda tappa – con o senza gita sul Vesuvio – era Pompei. Per vedere e toccare un sogno. L’approccio era, ed è, differenziato, a seconda della personale sensibilità, dei propri strumenti conoscitivi, della cultura dominante. Nell’Era dei Lumi certamente l’attenzione era diretta verso le «conquiste» tecnologiche degli antichi, gli strumenti professionali; nel periodo romantico non si poteva fare a meno di sentirsi attratti dalla cornice naturale esaltata dai ruderi, dalle suggestioni per la creatività artistica. Tra ritardi, errori, distruzioni, nasceva l’archeologia o, piuttosto, si affermava la cultura antiquaria. Si cominciava,

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paradossalmente, a delineare la formazione di una disciplina con il contributo della febbre del collezionismo, che della ricerca scientifica è l’avversario peggiore. All’inizio dell’Ottocento si registrarono nuovi stimoli per l’entusiasmo manifestato da Carolina Bonaparte, moglie di Gioacchino Murat. Sotto la sua spinta, e con la sua generosità, le ricerche furono estese al circuito delle mura e Charles Francois Mazoîs compilò un trattato completo sulle scoperte compiute fino ad allora, corredato di splendide incisioni: Les ruines de Pompéi. Gli intenti grandiosi furono però portati a termine nei decenni successivi, con il recupero dell’Anfiteatro e del Foro collegati da un unico percorso.

Archeologia e ferrovia Le ultime indagini dopo il reinsediamento dei Borboni – nel 1815 –, pur nella scarsità di mezzi economici e nel rallentamento dei lavori, strapparono ai lapilli molti edifici. Apparvero opere d’arte dai colori smaglianti e abitazioni riccamente ornate, destinate a simboleggiare, per motivi diversi, l’intera città: la Casa del Fauno, con il mosaico piú famoso di Pompei, e


d’Italia, gli scavi vennero intensificati e condotti con nuovi criteri scientifici. Furono portate alla luce soprattutto le abitazioni dei quartieri nord-orientali della città, come la Casa di Cecilio Giocondo (1875-76),

la Casa del Centenario (1879-80) e la Casa dei Vettii (1894-95). La Villa dei Misteri, invece, fu scavata nel 1929-30, mentre la Casa di Giulio Polibio, una delle ultime scoperte, venne indagata tra il 1964 e il 1977.

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la Casa del Poeta Tragico, che E. Bulwer-Lytton prese a modello per descrivere l’abitazione di Glaukos nel romanzo Gli ultimi giorni di Pompei. Ma su un’altra meraviglia avevano puntato Ferdinando II (che aveva assunto questo nome dopo essere diventato re delle Due Sicilie) e il figlio Francesco II per stupire i visitatori di rango: la ferrovia Napoli-Portici, prolungata poi a Nocera Inferiore – la prima in Italia – che prevedeva una stazione vicino agli scavi. Si era intorno alla metà del secolo e un’altra conquista della tecnica faceva il suo ingresso a Pompei, sempre piú oggetto di volumi di illustrazioni, bollettini archeologici, monografie. Alfred N. Normand cominciò a immortalare con fotografie – replicate in tante copie col metodo calotype – diversi ritrovamenti. Altri illustri colleghi si cimentarono in questa nuova documentazione, come i fiorentini Alinari, testimoniando l’esistenza di opere andate perdute e fissando i momenti irripetibili di una scoperta che nessun quadro, per quanto di valore, può restituirci. La ricerca archeologica vera e propria ebbe inizio – dopo la parentesi di Giuseppe Garibaldi, che affidò il Museo Reale e la direzione degli

scavi ad Alexandre Dumas – all’indomani della proclamazione dell’Italia unita, sotto la direzione di Giuseppe Fiorelli (dal 1863 al 1875), coadiuvato dall’ingegnere Michele Ruggiero. A lui si devono la suddivisione di Pompei in Regiones e Insulae, e la realizzazione dei calchi. A Fiorelli, fino all’ultimo dopoguerra, sono seguiti importanti studiosi, del calibro di Vittorio Spinazzola, che collegò fra loro la zona orientale e quella occidentale di Pompei, scavando per intero la centrale via dell’Abbondanza, e poi di Antonio Sogliano e di Amedeo Maiuri, al quale si devono gli ultimi scavi a vasto raggio (tra i quali la Villa dei Misteri e la Casa del Menandro con le celebri argenterie) e i primi saggi stratigrafici.

Peripezie d’ogni genere Ciascuno ha lasciato la sua impronta in un terreno esplorativo dove, per la prima volta, si applicavano interventi di scavo «a strati orizzontali», partendo cioè dall’alto, restauri architettonici con nuove tecniche, risistemazioni in situ delle pitture staccate dai muri lesionati, protezioni per gli affreschi con strati di cera. Furono anche anni di polemiche

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TRA MITO E STORIA

| Girando per strade e case | Come gli abitanti di Roma e di altre città, i Pompeiani avevano punti di riferimento precisi per orientarsi e dare informazioni sugli indirizzi di luoghi e persone. Innanzitutto le porte urbiche che interrompevano le mura; poi le vie principali, gli edifici pubblici e quelli religiosi, statue monumentali, o anche una pianta particolare o una fontana; ma si faceva molto affidamento sui vicini dello stesso quartiere. Un graffito rimasto su un muro di Pompei è illuminante in proposito: «A Nocera puoi chiedere di Novella Primigenia nei pressi di Porta Romana, nel rione di Venere». Diverse iscrizioni ci rivelano – tra l’altro – l’esistenza di una via Mediana, di una via Salina (evidentemente in relazione alle saline situate alla foce del fiume Sarno), e indicano alcuni gruppi di abitanti, divisi in quartieri, facendo riferimento alle Porte piú vicine (come i Campanienses, vicino alla porta di Capua, oggi «di Nola», o gli Urbulanenses nei pressi di porta Urbulana, ora indicata come «del Sarno»). E ancora: da un numero superstite, siamo a conoscenza della cifra VII su una torre delle mura e, quindi, possiamo supporre che anche le altre fossero contrassegnate da numeri: un ulteriore elemento utile a precisare gli indirizzi antichi. Se il Foro, la basilica, le terme, mantengono inalterata la loro denominazione, per il resto realtà e fantasia sono mescolati fra loro. La toponomastica attuale, infatti, è arbitraria e risponde solo all’esigenza moderna di fornire orientamenti ai

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visitatori. Fu Giuseppe Fiorelli a dividere Pompei in nove Regiones, seguendo la prassi romana amministrativa, con una progressione in senso antiorario che culmina nell’ultima al centro della città. In ogni regione (Regio) l’archeologo individuò le Insulae, nell’ambito delle quali ogni abitazione fu contrassegnata da un numero. Quando leggiamo la guida o altre pubblicazioni, un’indicazione del tipo: I, X, 5, significa che ci troviamo nella prima Regione, dentro la decima Insula, al numero civico 5. In molti casi, grazie a iscrizioni o a reperti rinvenuti, sappiamo chi erano i proprietari di molte dimore pompeiane e sappiamo, per esempio, dove abitavano Giulio Polibio, Giulia Felice, i Vettii, i Ceii e i Poppei; ma tante belle domus devono il loro nome odierno a occasioni particolari (la visita di sovrani per la Casa della Regina Margherita o di Giuseppe II), al lavoro che era svolto dai proprietari (Casa del Chirurgo, Casa dello Scultore), a una scoperta di particolare pregio artistico (Casa del Bracciale d’oro, Casa del Fauno), a una caratteristica architettonica (Casa del Criptoportico, Casa dei Capitelli Figurati) o decorativa (Casa della Venere in conchiglia, Casa dell’Orso ferito), se non al loro scopritore. Le strade, quasi sempre, prendono invece il nome dagli edifici importanti a cui sono collegati; quello della via dell’Abbondanza – il tragitto piú trafficato – ha preso invece spunto da una fontana che rappresenta, appunto, la dea dell’Abbondanza attraverso una cornucopia.


vivaci, di scandali seguiti da inchieste governative, che portarono in carcere personalità eminenti e allontanarono direttori perché di idee contrarie al regime politico (il caso di Spinazzola, legato ad ambienti antifascisti). Pompei sempre in guerra: con le carte bollate, gli eserciti, la natura stessa. Nel 1943 gli Alleati provocarono uno scempio, perché si era diffusa la notizia – falsa – che fra i ruderi si nascondesse un’intera divisione tedesca. Vero invece che, con la scusa delle visite alle antichità, si erano incontrati per motivi politici Benedetto Croce e la principessa Maria José di Savoia, sotto gli auspici dell’archeologo Umberto Zanotti Bianco. Dagli anni Cinquanta del secolo scorso, una volta liberata la città dagli accumuli di materiale di riporto che coprivano le parti esterne dell’abitato, salvo gli scavi delle Regiones I e II, l’attività dei rinvenimenti si è man mano rarefatta. Troppo arduo, e costoso, il mantenimento dell’esistente. Troppo esteso il degrado. Una lotta senza tregua è quella, per esempio, contro l’esuberanza di piante, erbe, rampicanti che traggono linfa in un terreno fertile come pochi. E l’usura, il continuo toccare, calpestare, costringono i responsabili

della Soprintendenza a chiudere e aprire case a rotazione, a intervenire d’urgenza, a riorganizzare itinerari, mentre da ogni parte del mondo si vogliono mostre e convegni.

La ricostruzione della vita quotidiana Negli ultimi vent’anni, che hanno visto anche la nascita della prima Soprintendenza autonoma, molto è cambiato nella metodologia e nella scelta delle ricerche. Grazie all’attrezzato laboratorio si conoscono composizioni di aromi, di cibi, tipologia di piante, si è finanche prodotto dell’ottimo vino ripiantando nello stesso orto il vigneto che era in procinto di dare i suoi frutti alla fine dell’estate del 79. Antropologi e paleopatologi sono riusciti a ricostruire i visi di alcuni Pompeiani, a conoscere attraverso le ossa abitudini alimentari e malattie, mentre archeologi inglesi, statunitensi, giapponesi, insieme con gli studiosi della Soprintendenza e di numerose università italiane, indagano templi, mura e abitazioni per ricostruire le fasi piú antiche della città. Si è consapevoli che ancora molto resta da fare e che dei 60 ettari di Pompei 22 sono ancora sotto materiali vulcanici: per quest’ultimo sogno, però, si deve ancora attendere.

L’area archeologica di Pompei in una foto del 2012. Il Grande Progetto Pompei, nato nel 2011, mira alla riqualificazione del sito archeologico della città vesuviana entro la fine del 2015. Per questo sono stati stanziati 105 milioni di euro tra fondi comunitari e nazionali. Le linee guida del Progetto sono la messa in sicurezza, il consolidamento, il restauro e la protezione degli edifici.

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CAPITOLO

I QUATTRO STILI DELLA PITTURA La visione di Pompei nell’immaginario collettivo è legata, oltre che alla tragedia dell’eruzione riportata in vita dai calchi delle vittime, agli splendidi affreschi che decoravano le dimore dei cittadini più abbienti. Alla fine dell’Ottocento, l’enorme quantità di documenti pittorici restituiti dalle città vesuviane fu ordinata in schemi e inserita in sequenze ben definite dallo studioso August Mau, il quale ideò la classificazione dei quattro stili pompeiani, a cui ci si riferisce ancora oggi.

primo stile

Il periodo compreso tra la fine della seconda guerra punica (202 a.C.) e la deduzione della colonia sillana (80 a.C.) corrisponde all’età del Primo Stile o «stile strutturale», nato in Grecia come imitazione in stucco colorato, negli interni, della struttura muraria esterna in opus quadratum isodomo a bugnato. A Pompei questo schema compositivo prevede la suddivisione verticale della parete in tre zone (inferiore, mediana, superiore) alle quali corrisponde un ornato differente. Sopra uno zoccolo a fondo cromatico unico si stagliano elementi rettangolari (ortostati), sovrastati da bugne policrome. La decorazione della finta architettura in stucco della parete è completata da cornici aggettanti, al di sopra delle quali, in rari casi, può comparire un ulteriore ornato architettonico in stucco a rilievo (larario nel vestibolo della Casa del Fauno).

secondo stile

Con la deduzione della colonia sillana (80 a.C.) fa la sua comparsa a Pompei un nuovo tipo di pittura parietale, il Secondo Stile, impiegato fino all’epoca augustea (27 a.C.). In sostanza, viene riproposto illusionisticamente con la pittura ciò che lo stile precedente realizzava in rilievo, per cui la parete risulta scandita, con il pennello, da elementi architettonici che si dispongono su una finta superficie muraria policroma. Il più antico edificio pompeiano in cui compare questo nuovo stile decorativo è il tempio di Giove, divenuto Capitolium, che presenta nei muri della cella un ornato con pannelli inquadrati da colonne ioniche, del tutto simili a quelle reali. Nell’edilizia privata un suggestivo esempio di questa illusionistica dilatazione delle pareti si trova nel cubicolo della Villa dei Misteri, in cui campeggia una complessa e articolata architettura in quattro piani sovrapposti. Rientrano nella pittura di Secondo Stile anche le composizioni figurate, definite dalle fonti «megalographiae», termine con il quale si identificavano grandiosi affreschi e di soggetto aulico, mirabilmente attestate, anche in questo caso, nella Villa dei Misteri.

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terzo stile

Nella prima età imperiale, da Augusto a Claudio (27 a.C.-54 d.C.), compare il Terzo Stile, che si configura come una reazione agli schemi movimentati precedenti. L’illusione prospettica sparisce del tutto, a favore di una visione decorativa improntata all’equilibrio classico, in linea con la mentalità e la politica della casa regnante. La parete è chiusa da campi a fondo unito e la superficie, generalmente tripartita e ornata con quadri di ispirazione classica, è scandita dagli elementi architettonici solo in senso verticale e nella parte superiore (Case di Marco Lucrezio Frontone e del Frutteto).

quarto stile

Intorno alla metà del I secolo d.C., nell’ultimo periodo di vita della città, si assiste a un cambiamento nel gusto pittorico con l’introduzione del Quarto Stile, che caratterizza il passaggio all’età neroniana. La parete è decorata con larghi pannelli in serie costituiti da tappeti sospesi con gli orli ricamati da stoffa colorata, che evocano l’uso ellenistico di appendere arazzi figurati, inquadrati da esili architetture fantastiche particolarmente suggestive. Il repertorio figurativo e ornamentale diventa standardizzato e ripetitivo, denunciando una scadenza della qualità dovuta alla natura artigianale dei decoratori. Le pareti si affollano di piccoli quadretti, figure volanti, eroti, coppie mitiche convenzionali (Dioniso e Arianna, Marte e Venere) la cui finalità decorativa è unicamente quella di riempire gli spazi. In questo panorama di generale povertà espressiva, troviamo alcune eccezioni, come gli affreschi della Casa dei Vettii, in cui gli acculturati proprietari offrono allo spettatore un vero e proprio programma decorativo, di grande effetto scenografico.

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VITA QUOTIDIANA

UNA CITTÀ IN CANTIERE di Romolo A. Staccioli

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I momento dell’eruzione perfino il Foro, il centro della vita di Pompei, è ancora tutto da sistemare e quasi nessuno tra i suoi edifici civili e religiosi è stato completamente ripristinato: la ricostruzione dei portici sui due lati maggiori è incompiuta e molte colonne devono essere ancora scanalate, la pavimentazione della piazza è da rifare, le statue onorarie da restaurare e da ricollocare sopra i basamenti; il tempio di Giove è sempre a terra come pure il colonnato della basilica; la curia e gli altri edifici dell’amministrazione municipale sono privi di tante importanti rifiniture... Ma la situazione non può dirsi migliore altrove, anche senza contare gli edifici privati e molte case d’abitazione. Quanto agli edifici pubblici, infatti, sono state rimesse in servizio le terme del Foro (peraltro solo nella sezione maschile), ma si lavora ancora al restauro delle terme Stabiane, mentre si procede alla costruzione delle nuove terme centrali al posto delle case, certamente almeno in parte crollate, di un intero isolato. Dei due teatri, il maggiore ha le ultime file delle gradinate in rovina e nell’edificio scenico deve essere completato il monumentale prospetto colonnato. La «grande palestra» è ancora ingombra delle rovine dei crolli e quindi inagibile, mentre rimane vuota la grande piscina dell’area centrale, non essendo stata ripristinata l’alimentazione idrica. L’acqua, del resto, manca ancora o è gravemente insufficiente in tutta la città: il «distributore» piú importante, il castellum aquae – che nella zona piú alta dell’abitato, nei

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pressi di porta Vesuvio, riceve le acque dell’acquedotto del Serino costruito al tempo di Augusto per poi ripartirle nelle tre principali condutture urbane –, benché restaurato nella struttura muraria, manca ancora delle tubazioni di due delle tre condutture. La stessa rete idrica cittadina che alimenta le fontane pubbliche e rifornisce gli stabilimenti termali, le case private e le officine, è stata riparata molto parzialmente e alla meglio con la posa in opera di tubazioni provvisorie al livello dei marciapiedi, in attesa di procedere ai lavori definitivi per la collocazione delle condutture a un livello piú profondo e sicuro. Nel frattempo, specialmente da parte dei privati, s’è dovuto ricorrere alla riapertura di molti pozzi (un tempo scavati nel duro banco di lava trachitica fino a 30, 40 m di profondità) e al ripristino di cisterne e di altri sistemi di raccolta delle acque piovane (come quelli degli «impluvi» nelle case), già abbandonati con la costruzione dell’acquedotto. In questa situazione, due soli monumenti pubblici tra quelli danneggiati dal terremoto sono stati rimessi a posto, grazie all’intervento di privati.

Un benefattore di soli sei anni... Un ricco liberto ha infatti provveduto a ricostruire dalle fondamenta e a sue spese il tempio di Iside, facendo però figurare in sua vece il figlio di appena sei anni, con l’evidente intento di aprirgli la strada verso qualche importante carica pubblica, alla quale egli non può aspirare personalmente per via della sua condizione di ex schiavo (vedi foto a p. 69).


Due insigni personaggi di un’antica famiglia, padre e figlio, hanno invece fatto restaurare, pure a loro spese, l’anfiteatro, consentendone la sollecita riapertura e ricevendo in cambio dalla cittadinanza riconoscente l’onore di due statue collocate in altrettante nicchie ricavate proprio nel corridoio d’ingresso all’arena. La riapertura dell’anfiteatro e la ripresa degli spettacoli hanno segnato per Pompei il ritorno alla normalità o forse, piuttosto, hanno rappresentato l’atto simbolico con il quale la città intera ha inteso dichiarare la sua ferma volontà di tornare alla vita di tutti i giorni. La ricostruzione tuttavia procede a rilento e comunque si presenta lunga e impegnativa. Tanto piú se si considera che la città pur sufficientemente ricca e in grado di bastare a se stessa, non s’è potuta giovare di interventi esterni per poter accelerare i lavori. Soprattutto

non ha avuto alcuna sovvenzione dalle casse dello Stato, né provvidenze o aiuti speciali dall’imperatore: né da Nerone al momento del terremoto, né poi dai successori. Dopo i tre effimeri imperatori degli anni 68 e 69, infatti, Vespasiano s’era limitato a inviare a Pompei un suo «commissario» con il compito di reprimere gli abusi di quei privati che, approfittando dei momenti di confusione, e verosimilmente della distruzione degli archivi catastali, avevano occupato terreni di proprietà municipale.

Incarichi straordinari

In alto disegno ricostruttivo dell’insula 6 (regione I) di Pompei, con gli abitati prima del sisma del 62 d.C. Nella pagina accanto disegno ricostruttivo dell’intera città, immaginata anche in questo caso prima del terremoto del 62 d.C.

La fase dell’emergenza era stata superata con una certa decisione tanto che subito dopo il terremoto, per fare meglio fronte alle necessità piú urgenti, erano state soppresse le magistrature cittadine ordinarie e s’era provveduto a nominare un prefetto, secondo

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VITA QUOTIDIANA

Disegno ricostruttivo di una scena di vita quotidiana lungo la via dell’Abbondanza, con le sue botteghe, i venditori e i passanti.

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una legge che in caso di gravi motivi attribuiva al consiglio municipale il potere di nominare magistrati straordinari al di fuori delle normali procedure elettorali. Ma forse con l’assillo della ricostruzione ci si era dimenticati di predisporre un piano generale organico per i lavori. Tuttavia non dovettero mancare piani d’intervento settoriali, come potrebbe indicare l’iniziativa di erigere il nuovo grande stabilimento balneare delle terme centrali, al servizio della zona nord-orientale della città e secondo criteri rispondenti a esigenze moderne, al posto di un intero isolato di case probabilmente compromesse dal movimento tellurico (ma, al momento dell’eruzione,

dovevano ancora essere abbattute le case prospicienti il lato meridionale delle terme, come pure doveva essere in programma, visto lo stato di fatiscenza delle facciate superstiti, allo scopo di dotare le terme stesse di un’indispensabile area libera di respiro).

Il vulcano devasta una città già ferita La catastrofe finale sorprende dunque Pompei mentre la città è ancora impegnata nel grande sforzo di ricostruzione che da quasi diciotto anni ne condiziona in vario modo le attività e la stessa vita quotidiana. Tutto ciò in un ambiente che non è piú quello di un tempo. Non solo perché, specie per quel che riguarda gli edifici


pubblici, la città continua ad apparire come trasformata in un grande «cantiere», ma anche perché molto di quello che è stato ricostruito, soprattutto nel campo dell’edilizia privata, ha subito un profondo mutamento. Le zone e i quartieri residenziali sono tornati – o quanto meno s’avviano a tornare – al loro aspetto normale. Le case d’abitazione, infatti, soprattutto le piú grandi e piú ricche, sono state le prime a essere restaurate per opera dei rispettivi proprietari, ma questi spesso non sono tornati ad abitarle o ad abitarle per intero. Gli stessi lavori di ripristino sono stati affidati il piú delle volte alle cure di «procuratori» o di incaricati speciali, mentre molte famiglie dell’aristocrazia o del ricco ceto imprenditoriale hanno preferito rimanere nelle ville suburbane o nelle fattorie del contado, dove s’erano rifugiate abbandonando le abitazioni di città danneggiate dal terremoto. Cosí, molte case restaurate sono state messe in vendita o vengono date in affitto a nuovi inquilini che sono spesso proprio coloro che si sono improvvisamente arricchiti con il «giro d’affari», le intermediazioni e le vere e proprie speculazioni, con operazioni di acquisto e di rivendita, d’affitto e di subaffitto, che le decisioni dei vecchi proprietari hanno favorito e ingigantito. Tutto ciò, oltre a provocare rapidi aumenti dei prezzi di mercato, già impliciti nella iniziale e generale crisi di alloggi determinata dai danni direttamente causati dal sisma, ha

finito con il mutare il carattere e l’aspetto stesso delle case. Gli speculatori infatti, o anche soltanto i vecchi proprietari che vi hanno fiutato un buon affare, per ricavare piú lauti profitti hanno provveduto a dividere le abitazioni piú grandi, a tramezzarne gli ambienti, ad aprire altri ingressi sulle strade e perfino a costruire delle soprelevazioni, con uno o due piani e con scale esterne. Tali sopraelevazioni, per fare piú in fretta e anche per superare l’ostacolo della scarsa solidità dei muri sottostanti, sono state edificate con l’uso di materiali leggeri, secondo la tecnica dell’opera «a graticcio», ossia della costruzione di pareti di canne intrecciate e rivestite di malta entro un’intelaiatura di legno.

Alterazioni e nuove destinazioni d’uso Ma all’occorrenza, nei casi di assoluta necessità, s’è fatto pure ricorso all’uso di archi o di pilastri di rinforzo e di sostegno cosí come alla chiusura o al ridimensionamento di porte e di finestre al pianterreno. Interventi che hanno radicalmente mutato lo stato originario degli edifici. Quando poi le alterazioni non sono state determinate dall’intervento degli speculatori, ci hanno pensato i nuovi proprietari, trasformando e adattando i fabbricati a seconda delle loro esigenze che non di rado hanno a che fare con attività artigianali o mercantili. Di tutti questi casi si possono citare alcuni esempi eloquenti.

Una strada di Pompei, con, in primo piano, i blocchi utilizzati per l’attraversamento pedonale.

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VITA QUOTIDIANA

Nella Casa del Criptoportico, le gallerie del sontuoso portico sotterraneo decorate da un finissimo rivestimento a stucco nelle volte e da magnifiche pitture alle pareti, appaiono colmate con gli scarichi dei crolli e delle demolizioni di muri pericolanti e chiuse con rozze tramezzature, con l’eccezione di una, risparmiata, ma trasformata in cella vinaria (come testimonia il deposito di una sessantina di anfore ritrovatevi), ossia in una «cantina» (con annessa cucina) al servizio del sovrastante triclinio estivo che è anch’esso un adattamento, situato com’è in quella che prima era stata una terrazza o una «loggia». La Casa di Pansa, una delle piú antiche e grandiose di Pompei, al punto da occupare con

TERME PRIVATE Disegno ricostruttivo dell’impianto termale di cui era dotata la Casa del Criptoportico. 1. Apodyterium (spogliatoio). 2. Frigidarium (stanza per bagni d’acqua fredda). 3. Tepidarium (stanza per bagni d’acqua tiepida). 4. Calidarium (stanza per bagni d’acqua calda). 5. Praefurnium (fornace per la produzione di aria calda). Il tepidarium e il calidarium erano riscaldati con il sistema dell’ipocausto, basato sull’impiego di pilastrini che reggono il pavimento rialzato per far circolare il calore.

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Nella pagina accanto Casa del Criptoportico. Un braccio dell’ambiente che dà nome alla residenza e alcune anfore vinarie rinvenute al suo interno, segno del suo riutilizzo come cantina e dispensa del triclinio estivo sovrastante.

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il giardino un intero isolato e già appartenuta a una sola e nobile famiglia, mentre conserva pressoché intatto il nucleo originario attorno all’atrio, si mostra suddivisa su due lati in piú appartamenti, dotati di ingressi indipendenti su strade diverse e dati in affitto, come sappiamo da un avviso di locazione che a essi si riferisce. Accanto a questi, ci sono casi di trasformazioni e di novità anche piú radicali. Per esempio, presso la casa di Vesonio Primo, in un’abitazione di tipo signorile, si impianta una fullonica (una lavanderia/tintoria), con le vasche sistemate sotto un pergolato, evidentemente per opera dello stesso imprenditore che abita nella casa contigua e che quella nobile dimora ha acquistato per

adibirla alla sua «impresa». Piú o meno allo stesso modo, lungo la via Consolare, un panificio – con il molino, il forno, il deposito delle granaglie, la stalla per gli animali addetti al movimento delle macine e un locale per la vendita del pane – viene installato nella metà di una vecchia casa e nell’annesso giardino, mentre l’altra metà conserva l’antica destinazione essendosi provveduto a «recuperare» lo spazio per le stanze da letto, ceduto all’impianto del forno con una soprelevazione sostenuta da quattro robusti pilastri in laterizio innalzati nell’atrio.

Per la ripresa delle attività produttive Quella del sollecito restauro – o anche del nuovo impianto – di botteghe, officine e laboratori artigiani è stata una delle prime preoccupazioni dei Pompeiani, in parte anche per la diretta connessione con la soluzione del problema, anch’esso urgente, delle abitazioni. Molte famiglie di bottegai e di artigiani, infatti, hanno la loro casa annessa per consuetudine ai locali in cui esercitano il loro mestiere. Si tratta, in genere, di «retrobottega» di uno o piú vani, oppure di «mezzanini», quando non addirittura di modestissimi soppalchi di legno (pergulae) sistemati sopra la bottega e accessibili mediante una scaletta interna pure di legno. L’intento principale tuttavia è stato quello di assicurare una ripresa piú rapida possibile delle attività produttive e commerciali e di garantire alla popolazione il lavoro, l’approvvigionamento di viveri e gli altri essenziali «servizi» necessari alla vita di tutti i giorni. Anche quest’operazione di ripristino, e di ampliamento, dell’assetto fondamentale della vita attiva della città, ha finito però col determinare una grossa novità: lo spostamento del «centro commerciale». Abbandonato praticamente il vecchio Foro, troppo compromesso dalle devastazioni del terremoto, le nuove attività commerciali sono venute a insediarsi e a concentrarsi perlopiú lungo i due grandi assi della viabilità cittadina: la via Stabiana e la via dell’Abbondanza. Il loro incrocio in particolare è diventato il nuovo autentico «centro», animato di vita, di movimento, di traffici che sempre piú giungono ora anche da lontano. Da un lato, infatti, molti

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VITA QUOTIDIANA

prodotti agricoli, dopo i danni e le alterazioni causate dal sisma nella campagna pompeiana, debbono essere importati dai territori di altre città, e soprattutto dall’agro nocerino.

La crescita delle importazioni Dall’altro lato, è cresciuta l’esigenza di merci piú variate e perfino la domanda di prodotti «esotici» la cui vendita s’affianca a quella della produzione locale, in via di ripresa dopo un’inevitabile crisi e in certi settori addirittura avviata a un sia pur timido accenno di «industrializzazione». Le testimonianze acquisite con gli scavi documentano, per esempio, la cospicua importazione di vino dalla Sicilia e dall’Egeo, di olio dall’ Africa, della rinomata salsa di pesce, il garum, dalla Spagna, di ceramiche raffinate dalla Grecia e dalla Gallia, di vetri dall’Egitto. Per contro, in città si riconosce una notevole attività produttiva nei settori alimentare e tessile, con un gran numero d’impianti manifatturieri – tutti operanti al momento dell’eruzione – specializzati soprattutto nella lavorazione della lana e del feltro, mentre pure numerose sono le officine di ceramisti e di vasai per la fabbricazione di anfore da trasporto e di giare per il deposito e la conservazione delle derrate e del vasellame d’uso comune, da cucina e da mensa.

ritratto virtuale

Servendosi di tecnologie computerizzate, una équipe di archeologi e di specialisti in antropologia forense ha potuto ricostruire i lineamenti di un abitante dell’antica Pompei. L’immagine virtuale è stata elaborata sulla base di resti scheletrici recuperati nel corso degli scavi e, per quanto riguarda la caratterizzazione di elementi quali il colore degli occhi e dei capelli, sulla scorta delle indicazioni che si possono ricavare dalle numerose pitture conservatesi nel sito.

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IDENTIKIT DI UN POMPEIANO • L’età media degli adulti di Pompei era di circa 40 anni. Ciò trova riscontro in altre antiche popolazioni europee. • In media, gli uomini vivevano circa 2 anni piú delle donne (età media alla morte: uomini= 41anni, donne = 39 anni). • Circa la metà della popolazione pompeiana era costituita da bambini. • In media ogni coppia sposata [della popolazione pompeiana] manteneva due o tre bambini nonché un anziano della famiglia. Questo esito conferma che il quadro complessivo della popolazione era simile a quello di molte città «normalmente» attive in quello stesso periodo storico. • La statura media di un abitante di Pompei di sesso maschile era di 166 cm. Le stime oscillano tra 163 e 169 cm secondo il metodo di calcolo. • La statura media di un abitante di Pompei di sesso femminile era di 153 cm. Le stime condotte con metodi diversi oscillano tra 151 e 155 cm. • La statura dei Pompeiani era simile a quella di altri abitanti dell’Italia antica. Ricostruzione del peso corporeo: Il peso medio degli abitanti di Pompei è stato stimato utilizzando formule basate sulla dimensione corporea media. Anche in questo caso, esso è simile a quello di altri popoli dell’Italia antica. • In media, un’abitante di Pompei di sesso femminile pesava intorno ai 49 kg (tra 47 e 51 kg). • In media, un abitante di Pompei di sesso maschile pesava intorno ai 65 kg (tra 61 e 69 kg).


MA QUANTI ERANO? Una delle domande che ci si pone, visitando Pompei, riguarda il possibile numero dei suoi abitanti nel 79 d.C.: un quesito forse irrisolvibile. Pomici e lapilli vulcanici hanno infatti sepolto quanto restava in piedi della città, conservandola, ma, nel contempo, il cataclisma inaspettato aveva sconvolto la popolazione. Le difficoltà per una stima attendibile sono molteplici. Innanzitutto: quanti Pompeiani, a seguito del terremoto che precedette l’eruzione, o all’inizio di questa, avevano abbandonato la propria dimora rifugiandosi altrove? Quanti, fra i ceti piú agiati, si erano già trasferiti al mare o in campagna nel mese piú caldo? Quanti, per lavoro (le navi viaggiavano soprattutto d’estate) erano lontani da casa? A questi

interrogativi senza risposta si deve aggiungere la mancanza di dati precisi sull’effettiva estensione dell’hinterland pompeiano e sulla composizione dei piani superiori delle abitazioni, distrutti dalle nubi ardenti scese dal vulcano a grande velocità, mentre si ignora il numero delle persone che abitavano sotto lo stesso tetto (per esempio, nelle dimore di lusso, qual era la proporzione fra padroni e schiavi, di solito ammassati in poco spazio?). In passato era stata ipotizzata una popolazione piuttosto numerosa, basandosi sulla capienza dei luoghi di spettacolo: calcoli difficili, tenendo presente che – nel caso dell’Anfiteatro (20 000 posti) – gli spettatori arrivavano anche da altri centri. Nemmeno i resti

delle vittime possono aiutarci in modo definitivo. Finora ne sono stati recuperati poco piú di un migliaio, ma resta da scavare una cospicua porzione della città e, come è accaduto negli ultimi anni a Ercolano, che ha restituito centinaia di scheletri da anfratti un tempo vicini al mare, anche a Pompei si potrebbe scoprire una fitta presenza di rifugiati proprio nell’area ancora sepolta. Con le stesse probabilità, si potrebbe invece avere una situazione simile alle zone già scavate e quindi le cifre supposte resterebbero invariate. Il numero dei Pompeiani presenti in città e in prossimità della cinta muraria è dunque variabile: secondo le ultime stime oscilla fra le 9000 e le 12 000 unità. Marisa Ranieri Panetta

Ritratto del panettiere Terentius Neo e di sua moglie, raffigurati come gli aristocratici romani: lui in toga e con rotolo di papiro nella mano, lei con stilo e tavoletta cerata, come una scrittrice, dalla Casa di Terentius Neo. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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IL LAVORO di Romolo A. Staccioli

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n un ambiente che si fa dunque sempre piú diverso da quello che era prima del terremoto e nel quale si mescolano e si sovrappongono eredità e tradizioni di un passato talvolta anche remoto ed esigenze, adattamenti, disagi, novità d’un presente che non s’è ancora stabilizzato, vive la popolazione di Pompei che non è piú, nemmeno essa, quella di prima. Ciò non soltanto perché variamente segnata dalIa dura esperienza sofferta e perché forse è pure diminuita per i

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vuoti causati dalle vittime del cataclisma e dagli sfollamenti di coloro che sono fuggiti terrorizzati o rimasti senza tetto e che, almeno in parte, hanno finito col sistemarsi altrove. La popolazione di Pompei è soprattutto cambiata nella sua composizione e nella sua caratterizzazione socio-economica. La già ricordata «fuga» di molte famiglie dell’aristocrazia, non rientrate in città anche per sottrarsi ai perduranti e gravi disagi che essa comporta, a cominciare dalla mancanza dell’acqua, ha creato un vero e proprio «vuoto» o quanto meno il diradarsi di un intero ceto sociale. Questo ha determinato, tra l’altro, una sostanziale alterazione del precedente rapporto tra ricchi e poveri, i quali ultimi, evidentemente, sono aumentati almeno in percentuale. Ma soprattutto ha provocato un autentico «ricambio», giacché il vuoto è stato


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LA FULLONICA Disegno ricostruttivo (sulle due pagine) e pianta (in basso) della fullonica (lavanderia) detta di Stephanus (il cui nome è menzionato in una scritta elettorale della facciata; si ignora, però, se si tratti del proprietario o del gestore dell’impianto) ubicata su via dell’Abbondanza. Il piano terra dell’edificio era destinato a tutte le procedure di lavorazione: lavaggio, sgrassatura, strizzatura e asciugatura dei panni che venivano stesi in terrazza o nel cortile: 1. Ingresso. 2. Sala con la pressa (torcular). 3. L’atrio con l’impluvium trasformato in vasca per il lavaggio dei panni delicati. 4-5. Sala e terrazza per stendere i panni lavati. 6. Le vasche per il lavaggio inserite nel peristilio della casa originaria.

occupato da gente nuova – Iiberti, ossia ex schiavi, o figli di Iiberti, imprenditori, mercanti, appaltatori, ecc. – che, subentrando alla vecchia aristocrazia, ne ha rilevato le posizioni e il ruolo mentre cercano di imitarne i comportamenti.

Una nuova plutocrazia mercantile Il ricambio ha avuto immediati riflessi nella gestione degli affari pubblici e dell’amministrazione cittadina ed è puntualmente rispecchiato dalla composizione del consiglio municipale, in cui gli esponenti della nuova plutocrazia mercantile occupano i posti già tradizionalmente appartenuti ai membri delle famiglie aristocratiche dei grandi proprietari terrieri. D’altra parte, i «superstiti» di costoro si sono adeguati alla mutata situazione combinando le occupazioni, e i

proventi, delle attività legate all’agricoltura con i nuovi interessi di tipo mercantile e «industriale». Il che comporta un ulteriore incremento di certe attività quali quelle manifatturiere, il commercio all’ingrosso, le intermediazioni, i trasporti via mare, che, a loro volta, provocano l’accrescimento di particolari categorie di lavoratori. Per non parlare dei tanti che, a tutti i livelli, sono occupati nelle attività edilizie e nell’intensa opera di ricostruzione. Si aggiungano i forestieri, soprattutto orientali

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VITA QUOTIDIANA

Particolari di un affresco dalla fullonica di Veranius Hypsaeus, noto come pilastro «dei Fullones». I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

A La follatura (lavaggio della lana).

B Una pressa per stirare la lana.

C La consegna dell’abito pronto a una cliente.

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(Ebrei, Siriani, Greci dell’Asia Minore, Africani), che giungono sempre piú numerosi sulla scia dei commerci d’oltremare richiamati dalIa fioritura dei traffici e dalle possibilità di mille occupazioni, e si avrà un’idea del «cambiamento di scena» e della «sostituzione degli attori» che caratterizzano l’ultima fase di vita della città vesuviana. Una vita che nei suoi aspetti quotidiani minuti e nei suoi risvolti privati e personali è forse quella che, almeno apparentemente, è cambiata di meno. A prescindere dalle «novità» e dai «lavori in corso», malgrado i disagi e le rinunce, via via che ci si allontana da quel tragico giorno di febbraio (e senza che, ovviamente, nessuno possa sospettare il progressivo inesorabile avvicinarsi, anno dopo anno, di un ben piú tragico giorno di agosto!), cittadini e forestieri fanno a gara per riprendere a vivere come si faceva in passato. Anche se è ancora impossibile o pressoché inutile frequentare certi luoghi che pure un tempo erano abituali, come il Foro, piú faticoso e piú caro procurarsi un alloggio e determinati servizi; anche se i giovani debbono ancora rinunciare alle salutari nuotate nella piscina della palestra; anche se le donne attendono sempre di poter tornare nella sezione dei bagni loro riservata nelle terme del Foro; anche se per tutti i due teatri rimangono solo in parte utilizzabili...

Un passo verso la normalità Nonostante tutto, il ritorno all’anfiteatro – come s’è già detto – è stato un sostanziale e significativo ritorno alla normalità. O un notevole e ben augurante passo avanti verso la normalità che è fatta, naturalmente, di occupazioni e di tempo libero, di lavoro e di svago, di giorni feriali e di giorni festivi, di ricorrenze celebrative e di impegni civici, di vita pubblica e familiare. Le occupazioni e il lavoro sono diversi in relazione agli individui, alle categorie sociali, alla condizione giuridica che mantiene operanti le due grandi distinzioni tra cittadini e forestieri e, soprattutto, tra liberi e schiavi. Non mancano quelli che, senza un’occupazione fissa, cambiano lavoro a seconda delle occasioni o delle richieste e che magari passano parte del loro tempo senza far


nulla, vivendo d’espedienti e ai margini della legge. Tant’è vero che qualche benpensante si preoccupa della loro equivoca presenza e fa scrivere sul muro di casa (come si legge in vicolo del Lupanare): «Questo non è posto per i fannulloni e tu, perditempo, vattene altrove». In compenso, c’è pure chi esercita un doppio lavoro come nel caso dei «portieri» delle case dei ricchi, i quali, alla loro occupazione principale, aggiungono, nel luogo stesso in cui quella si attua, l’esercizio di qualche mestiere: quello del tessitore, per esempio, come risulta dal ritrovamento di nove pettini da cardatore nella «portineria» della Casa di Amandio; o quello del calzolaio, come testimonia un graffito nella casa del centurione dei pretoriani Cesio Blando. Quanto ai mestieri fissi, tra i piú diffusi sono quelli che si svolgono negli stabilimenti manifatturieri e nei laboratori di servizi (panifici, lavanderie e tintorie, fornaci, ecc.), i quali richiedono il concorso a diverso livello e con diverse mansioni di vari prestatori d’opera, ognuno dei quali è «specializzato» e addetto a uno o piú compiti ben precisi.

A ciascuno il suo compito Cosí, in un pistrinum, o panificio, c’è chi è addetto alla macinazione del grano e chi bada agli asini che fanno girare le macine; c’è chi impasta e prepara i pani; chi alimenta il forno con fascine di legna e ne regola il fuoco sorvegliando la cottura e chi riempie le ceste con il pane appena cotto e le trasporta al banco di vendita. Cosí, in una fullonica, la lavanderia/ tintoria, c’è chi è addetto al lavaggio dei panni che pigia con i piedi entro vasche piene d’acqua e di soda (o d’altre sostanze alcaline come specialmente l’orina); chi provvede a trattare i panni lavati con sostanze speciali, come la «creta fullonica», e a batterli per condensarne e infeltrirne la trama e poi a risciacquarli; chi ne cura la strizzatura e li porta ad asciugare in terrazza o nel cortile o anche in strada e quindi provvede a raccoglierli, e chi li stira sotto la pressa; chi sottopone i tessuti bianchi, e quelli tinti due volte, alla zolfatura che li rende piú brillanti, disponendoli su una sorta di gabbia di vimini posta su una caldaia in cui brucia lo zolfo.

E c’è anche chi è addetto al prelievo dell’orina dalle latrine pubbliche o dai recipienti (di solito mezze anfore) appositamente collocati fuori della fullonica o lungo le strade, dove i passanti sono invitati e sollecitati a servirsene. Cosí, in una textrina, o laboratorio tessile, c’è chi è occupato alla filatura e alla cardatura della lana e chi lavora al telaio (e in questo caso si tratta soprattutto di donne); chi provvede alla preparazione delle tinture nelle grandi caldaie e chi sottopone i tessuti alla «follonatura» per toglierne il grasso e il sudiciume accumulatisi durante i precedenti procedimenti. E cosí via, nelle officine dei feltrai e in quelle per la concia delle pelli, nelle officine ceramiche e nelle fornaci per i laterizi. Ci sono poi i numerosi mestieri individuali degli artigiani che lavorano in proprio, magari con l’aiuto di un servo o di un giovane garzone apprendista: da quello del fabbro (faber) a quello del ciabattino (sutor), da quello del barbiere (tonsor) a quello del falegname (Iignarius), da quello del marmista (marmorarius) a quello dell’orefice (aurifex). E poi i mestieri che si esercitano in gruppi, spesso in vere e proprie «corporazioni» che riuniscono i facchini (saccarii) e i vignaioli (vindemiatores), i guidatori di asini e muli (muliones) e i carrettieri e birrocciai (cisiarii). Un mestiere tutto particolare e di buon livello è quello dello scriptor, il «letterista» che dipinge

Affresco dai Praedia di Giulia Felice. Seconda metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La scena è stata interpretata sia come vendita del pane, sia come elargizione del pane al popolo da parte di un magistrato.

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VITA QUOTIDIANA

Disegno ricostruttivo di una scena di vita quotidiana a Pompei. Un legionario cammina sul marciapiede di una strada all’angolo della quale è il laboratorio di un fornaio dove si prepara il pane: uno schiavo macina il grano che viene ridotto in farina, mentre altri due mettono a cuocere le pagnotte nel forno.

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sui muri, in belle lettere «maiuscole» di colore rosso o nero, ogni genere di «manifesti» per il pubblico: da quelli che annunciano gli spettacoli e le feste a quelli che avvisano di vendite e di locazioni, fino a quelli che fanno la propaganda elettorale in tempo d’elezioni. Limitato a pochi che possano trarne i mezzi sufficienti per vivere, quello dello scriptor è un mestiere che spesso fa di chi lo esercita un vero e proprio «professionista del pennello», che arriva a firmare i suoi «manifesti», i quali diventano talvolta autentici saggi di calligrafia.

Emilio, scriptor di successo Ne è un esempio Emilio Celere – il piú noto e attivo tra gli scriptores di Pompei – che non solo firma le sue «opere» (scripsit Aemilius Celer), ma ci tiene a far sapere che lavora senza aiuti e quando gli altri dormono («da solo e al chiaro di luna»); che in calce a un suo manifesto invita eventuali «guastatori» a «imitarlo» piuttosto che a «invidiarlo», quando non li manda decisamente al diavolo («invidioso che cancelli, che ti venga un colpo»), oppure che si fa

pubblicità dipingendo il proprio nome sulla porta di casa («qui abita Emilio Celere») e indirizzando a essa i potenziali clienti ripetendolo, per intero o abbreviato, sui muri della sua strada, in funzione di «freccia direzionale». L’orgogliosa solitudine di Emilio Celere non rappresenta però la norma, giacché di solito gli scriptores si servono di una piccola squadra di collaboratori, tra i quali prima di tutto un dealbator, l’imbianchino incaricato di stendere un velo di calce sulla parete prescelta e quindi uno scalarius, che porta e poi regge la scala sulla quale sale lo scriptor per scrivere fuori dalla portata di eventuali sabotatori, e un lanternarius, incaricato di far luce con una lanterna issata su una lunga pertica. Non è poi escluso che piú scriptores siano associati in una «ditta» comune, come potrebbe far pensare la probabile officina scriptoria situata nel cortile di una casa: una sorta di «agenzia» a cui fanno capo diversi scriptores, visto che come tali conosciamo, attraverso i loro «manifesti», alcuni personaggi i cui nomi compaiono come «firme» in


altrettanti «saggi» delle rispettive capacità dipinti fuori la porta dell’officina, insieme a disegni, caricature, lazzi e oscenità varie.

Una città di commercianti Il mestiere forse complessivamente piú diffuso è però quello del commerciante o del venditore al minuto dei generi piú disparati e nelle sue piú diverse accezioni. A cominciare da quella dell’ambulante, che gira per le strade o se ne sta fermo ai crocicchi vendendo la sua merce, che annuncia e magnifica con la voce in falsetto e con gridi modulati: il venditore di frutta (pomarius) o di cipolle (caeparius), il rigattiere (veterarius) e soprattutto il «pizzaiolo» (clibanarius) che offre le sue focacce sempre calde grazie al piccolo forno portatile di terracotta (clibanus) del quale è dotato. Sempre nel ramo del commercio, diffusissimo è il mestiere dell’oste (caupo o copo), che sovente è anche «albergatore», essendo molte le «taverne» che dispongono di stanze, perlopiú in un piano superiore, destinate all’alloggio dei clienti. Ma quello dell’oste è un mestiere che non gode di molta considerazione; esso è anzi ritenuto d’infimo ordine e sostanzialmente equiparato al mestiere del lenone, del resto a ragione, visto che facilmente egli affitta le sue stanze «complete» di una donna compiacente e anche a ore. Quanto alle donne, che nella grande maggioranza sono relegate in casa alle faccende domestiche, le possibilità di un lavoro per loro non sono molte. A livello di un’occupazione dignitosa anche se assai modesta e spesso faticosa, esse si riducono ai pochi posti disponibili nelle officine tessili, nelle lavanderie e nelle tintorie, mentre su un altro piano si collocano le occupazioni che fanno capo alle osterie e alle locande. Queste si possono genericamente riunire nelle mansioni di «cameriera» e in qualche caso anche di gerente, ma i servizi che tali mansioni comportano non si limitano a quelli espletati dietro il bancone o fra i tavoli nel locale al pianterreno, estendendosi essi a quelli piú «riservati», offerti nelle stanze del retrobottega, dove ne restano come eloquente

testimonianza le scritte graffite sulle pareti dai clienti piú o meno soddisfatti («Mi son fatto l’ostessa», «Valeria, lecca»).

Amore a pagamento E di qui la corrente equiparazione del lavoro (e della considerazione) delle «cameriere» a quello delle meretrici e l’assimilazione del ruolo d’una eventuale «padrona» a quello di una «tenutaria». La prostituzione è dunque, di fatto, pressoché l’unica occupazione riservata alle donne, le quali sono peraltro, in questo caso, quasi sempre schiave, specialmente orientali, assai ricercate per la loro bellezza e la loro maestria. Il lavoro si svolge nei postriboli (lupanares), che a Pompei sono oltre una ventina. Posti preferibilmente presso i crocicchi di strade secondarie, essi sono caratterizzati da piccole celle munite di un letto in muratura e di una porticina di legno sopra la quale è spesso dipinta una «scenetta», verosimilmente tratta dai «manuali» illustranti le diverse posizioni dei giochi erotici, indicativa del tipo di prestazione offerta. La tariffa media, che va tutta intera al tenutario (il quale peraltro paga una tassa giornaliera pari a una tariffa) corrisponde pressappoco al prezzo di due porzioni di vino; le ragazze, che i proprietari acquistano per un prezzo pari a circa settecentocinquanta volte la tariffa media di una prestazione, hanno nomi «d’arte»; i clienti sono, come sempre, «affezionati» e grafomani («hic ego puellas multas futui»).

In alto il pistrinum (panificio) collegato alla casa di N. Popidius Priscus. Al centro sono le macine in pietra, formate da una parte inferiore fissa (meta) e da una superiore mobile (catillus). Nel foro nella parte stretta del catillus si inseriva un bastone che uomini o animali spingevano con un moto rotatorio per macinare il grano. In basso fornello portatile per focacce, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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VITA QUOTIDIANA

TRA CASE E BOTTEGHE di Romolo A. Staccioli

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inito il lavoro o comunque una volta libero da occupazioni, se appartiene alla categoria privilegiata dei benestanti, il Pompeiano ha a sua disposizione per passare il resto della giornata un’accogliente e comoda casa. Questa può essere la semplice e austera dimora signorile del passato, tutta accentrata e raccolta attorno all’atrio coperto dalle quattro falde del tetto (compluvium), che ricadono verso l’interno in modo da convogliare l’acqua piovana nel bacino del pavimento (impluvium) e da qui nella sottostante cisterna, donde può essere attinta mediante un pozzo, con le stanze da letto (cubicula), sistemate ai lati e quelle di servizio di fianco all’ingresso, mentre

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sul lato di fondo si trovano le stanze da pranzo e da soggiorno (triclinium e tablinum) e sul retro un piccolo giardino (hortus). O può essere la casa del nuovo tipo, d’influenza e di moda ellenistica, che al nucleo dell’atrio (eventualmente raddoppiato) ne aggiunge un altro assai piú ampio, ricco e arioso articolato attorno a un grande «peristilio», o quadriportico, che ha al centro un bel giardino, con numerosi ambienti di soggiorno e d’alloggio disposti, secondo il variare delle stagioni, nelle parti piú fresche o piú assolate e completati da un «quartierino» dei bagni. Il tutto arricchito e impreziosito da ogni genere di elementi decorativi: mosaici di marmo nei


casa ad atrio

caupona con abitazione

casa-bottega con balconcino pensile

casa ad atrio e peristilio

la casa del fauno, con due atri e due peristili

LE TIPOLOGIE EDILIZIE Disegno ricostruttivo della casa di Lucius Caecilius Iucundus, una grande domus a peristilio il cui impianto si colloca tra la fine del III e gli inizi del II sec. a.C. Al suo interno è stato rinvenuto l’archivio privato del banchiere che ne era proprietario, composto da 371 tavolette cerate.

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VITA QUOTIDIANA

L’interno del thermopolium (tavola calda) di Vetutius Placidus, in via dell’Abbondanza (a destra) e la sua ricostruzione (in basso). Il locale presenta un bancone a tre lati rivestito di marmi policromi in cui sono inseriti i dolia per la conservazione dei cibi e delle bevande. Sulla parete di fondo è dipinto un larario con scena di sacrificio.

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pavimenti, pitture che occupano tutte le pareti, stucchi policromi distesi sui soffitti e sulle volte, arredi e suppellettili varie, statue, fontane e giochi d’acqua. In una casa di questo genere – vera e propria villa urbana – è facile e piacevole ricevere gli amici o starsene da soli, conversare o leggere e scrivere, passeggiare tra il verde e l’acqua, godere il fresco d’estate o i tiepidi raggi del sole d’inverno, bere e banchettare, prendere il bagno e fare ginnastica, divertirsi in tanti altri modi.

I fratelli Vettii, «uomini nuovi» Cosí fanno certamente i due fratelli Aulo Vettio Restituto e Aulo Vettio Conviva, proprietari della celeberrima Casa dei Vettii: due mercanti arricchiti, «uomini nuovi», entrati a far parte dell’oligarchia cittadina anche attraverso l’esercizio di cariche pubbliche, che comportano il versamento di una grossa somma alle casse municipali. La loro casa di vecchia costruzione ma ristrutturata, forse proprio quando i due fratelli l’hanno acquistata, una quindicina d’anni prima del terremoto e subito dopo questo accuratamente restaurata, è – come scrive il Maiuri – quella «che meglio

rappresenta, nella sua lussuosa decorazione parietale e nella graziosa composizione scenografica del giardino, il lusso mercantile degli ultimi decenni di vita della città». Una casa come questa e come tante altre, ugualmente grandi e ricche oppure piú semplici e meno sontuose, ma tutte rispondenti alle prerogative della vecchia domus italica a sviluppo orizzontale, chiusa verso l’esterno e aperta all’interno, monofamiliare o per piú famiglie di consanguinei, è costruita con il preciso scopo di trattenere i suoi fortunati abitatori. Lo stesso non è per gli inquilini dei piccoli appartamenti nelle case tramezzate o nei piani soprelevati e nei «mezzanini» sopra le botteghe e le officine. Tantomeno per quelli che vivono nei soppalchi e nei retrobottega o nelle squallide stanze d’affitto delle locande.


Cosí tutti costoro – e cioè la grande maggioranza della popolazione – passano il loro tempo libero rimanendo fuori di casa e innanzi tutto all’aperto, per la strada. Come in ogni città meridionale e mediterranea, anche a Pompei la strada è la casa di tutti o, meglio, il teatro in cui si rappresenta la vita d’ogni giorno, rifugio e luogo d’incontro, ma, soprattutto, palcoscenico e platea, dove ciascuno è volta a volta, e spesso contemporaneamente, attore e spettatore, protagonista e comparsa, individuo e folla. La strada, poi, è specialmente il marciapiedi dove si può passeggiare o, standosene seduti sul bordo, chiacchierare con gli amici, apostrofare i passanti, giocare, ammirare una bella donna (o un muscoloso gladiatore), assistere a una processione o a un qualsiasi altro «evento». Lungo le strade piú affollate e frequentate si aprono poi le botteghe e, soprattutto, i locali fatti apposta per attirare i passanti e che per molti rappresentano l’ultima e abituale meta del loro vagabondaggio quotidiano: gli spacci di bevande e di cibi caldi, le osterie e le taverne. Il locale piú frequente e piú frequentato (e ancora oggi piú immediatamente riconoscibile) è il thermopolium, con il caratteristico bancone in muratura che si allunga con un lato per gran

parte del vano aperto sulla strada e con un altro lato, ad angolo retto, che rientra verso l’interno. Come indica il nome greco, esso offre bibite e cibi caldi da consumare in fretta stando in piedi o seduti su una panca: vino mescolato con acqua e con miele, uova, legumi, focacce.

Vini per tutte le tasche Vera e propria osteria/trattoria è invece la caupona, dove, oltre che bere, si può mangiare un pasto completo, rimanendo seduti a tavola fino a notte, spendendo poco se ci si contenta di cose comuni oppure due volte o quattro volte tanto se ci si abbandona a tentazioni dispendiose: «Qui si beve per un asse» si legge infatti su un graffito nella caupona accanto alla Casa dell’Orso, «ma se darai due assi berrai meglio e se ne darai quattro berrai vino Falerno». Nella caupona, inoltre, il viaggiatore e il forestiero trovano spesso anche una stanza, o almeno un letto, per passare la notte e talvolta anche la stalla per il cavallo o per il mulo. È questo il caso della caupona presso la Casa del Balcone pensile che, oltre alla cucina e forse alla stalla, ha annessi tre cubicoli e stanze da letto individuali e due dormitori, dove i clienti sono soliti lasciare sui muri il ricordo del loro passaggio.

Casa dei Vettii. La sala da pranzo (oecus), con decorazioni in Quarto Stile. 75-79 d.C. circa. Sulla parete è dipinto un quadro con l’episodio di Ercole bambino che strozza i serpenti inviatigli da Giunone. Assistono alla scena il padre Giove, simboleggiato dall’aquila accovacciata sul pilastro, e la madre Alcmena, che fugge spaventata dietro il marito Anfitrione.

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VITA QUOTIDIANA

Quadretti erotici dipinti sulle pareti del lupanare, nei quali sono raffigurate varie posizioni dell’amplesso amoroso.

Come quel tale che, dormendo tutto solo, ha desiderato invano la sua bella (Vibius Restitutus hic solus dormivit et suam Urbanam desiderabat); o quell’altro che ha mandato un’acclamazione alla sua città, Pozzuoli, e un saluto alla sua donna; o quei quattro attori di una compagnia di pantomimi che hanno festosamente ricordato un compagno assente...

Una caupona con molte «specialità» Ma una stanza si può prendere spesso anche soltanto per poco tempo per appartarsi con una «cameriera» compiacente o magari con l’«ostessa», le cui prestazioni fanno parte dei «servizi» offerti dal locale. Cosí dev’essere stato, per esempio, nella caupona di Asellina, sulla frequentatissima via dell’Abbondanza: al pianterreno il solito locale col bancone (ritrovato con gran parte delle suppellettili e cioè vasi per versare o per bere, un imbuto, anfore vinarie, il bollitoio ermeticamente chiuso col suo coperchio e ancora pieno d’acqua, la lampada di bronzo ornata con una figurina di pigmeo, un doppio fallo e cinque campanelli), in fondo la base in muratura della scala di legno per le stanze del piano superiore

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e, ai lati della porta d’ingresso, dipinti su «manifesti» elettorali, i nomi esotici delle «cameriere», Maria, Egle, Smyrina, che tutte insieme si denominano come le «ragazze di Asellina», che è la loro padrona e «tenutaria» del locale. Tra le possibilità offerte ai clienti da ogni genere di «taverna» c’è anche quella del gioco e non è cosa da poco vista la passione per i dadi, la «morra», il «pari e dispari», il «testa o croce», i giochi con le pedine e con gli «scacchi» che a Pompei, come in qualsiasi altra città romana, infiamma tutti. Attorno ai tavoli e tra i bicchieri di vino, si gioca d’azzardo, con contorno di scommesse, di liti e di zuffe collettive e tanto forte è la passione che, pur essendo ufficialmente proibito, il gioco viene tacitamente tollerato dalle autorità. AI punto che non è improbabile l’esistenza di locali a esso riservati, alla luce del sole, come potrebbe far pensare almeno in un caso un bassorilievo di tufo con un vaso al centro, che è forse il «bussolotto» dei dadi, tra due coppie di falli «portafortuna», murato nella facciata di un locale che può pertanto essere identificato come una taberna lusoria, vera e propria bisca, il cui proprietario non mancava di annotare sul muro i suoi profitti, a danno dei clienti.


LE TERME E GLI SPETTACOLI di Romolo A. Staccioli

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n altro modo che i Pompeiani hanno per riempire almeno in parte il pomeriggio è quello di recarsi alle terme. In attesa che siano terminati i lavori per il nuovo grande stabilimento delle terme Centrali, e non ancora riaperte le terme Stabiane – le piú antiche della città, dove i lavori di restauro sono ancora in corso –, ci sono a disposizione, insieme a qualche modesto bagno gestito da privati, le vecchie terme del Foro, riaperte al pubblico dopo il terremoto limitatamente alla sezione maschile. Non si tratta certo di un impianto capace di rispondere a tutte le nuove esigenze che, sollecitate e soddisfatte a Roma dai primi complessi delle «terme imperiali», stanno facendo diventare i bagni pubblici il luogo piú frequentato e ammirato delle grandi città. Le terme del Foro sono anzi piuttosto piccole e semplici e, considerata l’inagibilità delle altre, sono ora sicuramente sovraffollate, sicché è facile pensare ai disagi e alle difficoltà che s’incontrano anche soltanto per trovarvi posto. Tuttavia, una volta entrati, si trova tutto l’essenziale per rispondere a un bisogno ormai diffuso in tutti gli strati della popolazione e che soltanto i ricchi possono soddisfare in casa, avendovi a disposizione il proprio bagno domestico. Inoltre, approfittando dei restauri, non sono mancati lavori di miglioramento e di abbellimento, che ne hanno reso piú comodo e piú piacevole il soggiorno.

Un percorso di salute Alla sezione maschile si può accedere attraverso tre ingressi distinti, due dei quali, aperti su due lati opposti (e uno fiancheggiato da una piccola latrina che è tra le aggiunte del dopo terremoto), immettono in un cortile porticato su tre lati e utilizzato come palestra. Da qui, attraverso uno stretto corridoio, si passa allo spogliatoio (l’apodyterium), al quale conduce, direttamente dalla strada, il terzo ingresso. L’ambiente è piuttosto ampio, è coperto da una volta a botte decorata a stucco

Terme del Foro. L’abside del calidarium con il labrum in marmo, il bacino-fontana con acqua fredda per le abluzioni. Fu realizzato in età augustea e costò 5250 sesterzi, come riferisce un’iscrizione sul bordo.

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e illuminato da un lucernario aperto in una lunetta, ha il pavimento in mosaico bianco contornato da una fascia nera e banchine in muratura lungo le pareti che sono dipinte di giallo. Armadi di legno fissati alle pareti con robusti chiodi, dei quali rimangono i fori, dovevano servire evidentemente a raccogliere i vestiti dei bagnanti mentre un piccolo vano buio, aperto su un lato, era forse utilizzato come deposito di unguenti e di oli profumati (elaeothesium). Dallo spogliatoio si passa, da una parte, al frigidarium, probabilmente nato come laconicum per i bagni d’aria calda e secca (ottenuta con appositi bracieri) e poi trasformato in ambiente per i bagni in acqua fredda: si tratta di una sala rotonda con quattro nicchie alle pareti dipinte con scene di giardino, coperta da una cupola dipinta di blu e munita alla sommità di un lucernario, e interamente occupata da una grande vasca circolare di marmo con alcune file concentriche di gradini sui quali si può anche comodamente sedere.

Marmi e stucchi a profusione Sempre dallo spogliatoio si passa per un’altra parte al tepidarium, rettangolare, con le pareti decorate a stucco da una fascia a girali bianchi e munite di nicchie inquadrate da «telamoni» in tufo stuccati, coperta da una volta a botte riccamente decorata (dopo il terremoto) con raffigurazioni mitologiche. Presso le pareti si trovano (dono di un ricco «industriale» di Capua) tre panche in bronzo e un grande braciere pure di bronzo, con il quale si provvede a un moderato riscaldamento,

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usando quindi un sistema piuttosto primitivo e ormai superato. Dal tepidarium si passa infine al calidarium, l’ultimo ambiente del bagno e il piú grande di tutti, sempre coperto da una volta a botte, decorata con strigilature di stucco bianco, e con le pareti scandite da pilastrini sorreggenti una cornice dipinti in rosso porfido su uno sfondo giallo oro. Uno dei lati brevi, absidato, è dotato di un grande bacino marmoreo (labrum) per l’acqua fredda da usarsi per rapide abluzioni, l’altro, rettilineo, è interamente occupato da una vasca, anch’essa di marmo (alveus), destinata al bagno caldo. Il riscaldamento dell’ambiente è stavolta del nuovo tipo, che consiste nel far circolare l’aria calda sotto i pavimenti e tra le pareti. Quest’aria proviene dai forni (praefurnia) situati all’esterno, proprio a ridosso del calidarium, e usati anche per riscaldare entro grandi caldaie l’acqua per la vasca, e viene fatta circolare sotto il pavimento in un vespaio

Terme del Foro, il tepidarium maschile. Telamoni decorativi in terracotta separano le nicchie per deporre i vestiti. Questo ambiente, moderatamente riscaldato, serviva come spogliatoio aggiuntivo e venne costruito poco dopo l’80 a.C. La decorazione della volta risale, invece, alla ristrutturazione dopo il terremoto del 62 d.C.

LE TERME STABIANE Ricostruzione delle terme Stabiane. In primo piano si notano il settore maschile (a sinistra) e il piú piccolo settore femminile (a destra), divisi dal praefurnium e non comunicanti fra di loro. La palestra centrale, la grande piscina in fondo e gli ambienti circostanti erano destinati ai soli uomini. Le Stabiane furono le prime terme pubbliche di Pompei, costruite già nel III sec. a.C. e piú volte ampliate nel corso del tempo. Al momento dell’eruzione del Vesuvio il settore maschile era inagibile per lavori di consolidamento. 1. Palestra. 2. Piscina. 3. Apodyterium. 4. Frigidarium. 5. Tepidarium. 6. Calidarium. 7. Praefurnium. 8. Calidarium femminile. 9. Tepidarium femminile. 10. Apodyterium/frigidarium femminile. 11. latrina


formato da file di pilastrini in laterizio (suspensurae) e lungo le pareti in un’intercapedine (o concameratio) ottenuta con speciali tegole munite di sporgenze.

Il passatempo piú apprezzato La frequentazione delle terme, pur restando un’attrattiva, rientra sempre piú tra le abitudini di vita dei Pompeiani. Da quando è stato riaperto l’anfiteatro, la vera grande attrattiva è tornata perciò a essere quella degli spettacoli. Capaci di suscitare entusiasmi e di accendere forti passioni, questi polarizzano per giorni

interi l’attenzione di tutti e i «manifesti» che li annunciano sui muri riuniscono capannelli di affezionati che, discutendo e commentando, pregustano il piacere della partecipazione. Il grande anfiteatro, piú che centenario (e anche il piú antico degli anfiteatri che conosciamo), essendo stato costruito subito dopo la fondazione della «colonia» romana nell’80 a.C., «per il decoro della città», come si legge nella lapide dei due magistrati che lo fecero edificare, si erge solitario e imponente nell’area di una grande «piazza» situata all’estremo angolo sud-orientale dell’abitato.

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Per realizzarlo, s’approfittò del terrapieno interno alle mura urbane sul quale fu poggiata metà della cavea mentre l’altra metà fu sistemata sulla terra di riporto scavata al centro per formarvi l’arena. Al recinto esterno, costituito da un robusto muro di sostegno ad arcate, furono quindi addossate due rampe doppie di scale e due semplici, sul versante libero opposto alle mura dove s’arriva naturalmente venendo dalle vie cittadine. Danneggiato non gravemente dal terremoto e quindi prontamente restaurato – come s’è detto – e riaperto al pubblico dopo la «squalificazione» neroniana, l’anfiteatro torna ad animarsi nei giorni di spettacolo come e piú che nel passato mentre tutt’intorno si addensano chioschi e mescite ambulanti, bancarelle e tavoli ombreggiati dagli alberi.

Cacce e combattimenti Gli spettacoli che vi si danno sono quelli tipici per i quali la grandiosa arena era stata costruita: le grandi cacce agli animali feroci (o venationes) e, soprattutto, i combattimenti dei gladiatori (munera o ludi gladiatorii). Questi ultimi, di antichissima tradizione campana, consistono in duelli, generalmente all’ultimo sangue, tra coppie di contendenti caratterizzati da differenti «specializzazioni» e da armi diverse e contrapposte. Tra le principali categorie di gladiatori, sono particolarmente apprezzati e seguiti i reziari, contraddistinti dal lungo tridente e dalla grande rete (donde il nome), che usano per immobilizzare l’avversario e quindi colpirlo; i sanniti, dalla pesante armatura di difesa composta di elmo, corazza, schinieri e scudo e dalla corta spada, il gladium (dalla quale deriva il nome stesso dei gladiatori); e poi i traci, i mirmilloni, ecc. I Pompeiani sono da sempre buoni intenditori del ludo gladiatorio; sanno apprezzare l’abilità e la forza di chi vince, esaltandolo fino al punto da farlo diventare un eroe (e magari da tramandarne ai posteri il nome, incidendolo ripetutamente sui muri della città). Ma sono anche pronti a riconoscere il coraggio e la sfortuna di chi, pur soccombendo, mostra di combattere con impegno, fino a concedergli salva la vita risparmiandogli Ia definitiva

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condanna del «pollice verso», il gesto della mano tesa con il pollice rivolto in basso, accompagnato dal terribile grido di «sgozzalo» (iugula), con il quale solitamente la folla accecata e crudele invita il vincitore ad affondare il ferro nella gola dello sconfitto. Le donne, poi, difficilmente riescono a sottrarsi al fascino di uomini forti che, siano essi prigionieri di guerra o mercenari o piú spesso schiavi o anche malfattori condannati a morte, cercano di «guadagnarsi» la vita e di riconquistare la perduta libertà combattendo disperatamente. Almeno stando alle scritte che si leggono ancora per le vie e che, per esempio, inneggiano al trace Celado, «struggimento e ammirazione delle ragazze» (suspirium et decus puellarum) o esaltano il reziario Crescente, «signore e medico delle belle di notte» (dominum et medicum puparum nocturnarum). Gli spettacoli anfiteatrali restano dunque al primo posto fra le attrattive della «scena». Tuttavia anche quelli teatrali continuano ad avere un certo seguito, soprattutto da quando nuovi «generi» hanno preso ad affiancare e poi a sostituire quelli del passato che ormai non incontrano piú il gusto e il favore del pubblico.

Una scena rinnovata e fastosa Per questo, anche al teatro, costruito fin dall’età ellenistica in una concavità naturale del pendio meridionale dell’altura sulla quale sorge la città, s’è lavorato con lena per riparare i guasti del terremoto. Anche se non completato, esso è stato in gran parte riattato e per di piú migliorato; s’è provveduto infatti a dotarlo di un nuovo «edificio scenico» e, in particolare, di un piú ricco prospetto del muro di fondo della scena (quello in cui si aprono le tre porte da dove entrano ed escono gli attori) imitando la facciata di un edificio monumentale: a due piani, con un abside al centro e nicchie ai lati, due file di colonne sulla fronte e varie statue negli intercolumni e nelle nicchie. La novità e la fastosità della nuova «scena» avevano certamente colpito i cittadini, tanto che l’immagine di essa era stata già utilizzata per fare da sfondo, in certe pitture parietali, alla rappresentazione di «quadri»

L’anfiteatro di Pompei. L’edificio, il piú grande della città, fu costruito intorno al 70 a.C., da due ricchi magistrati, nell’angolo sud-orientale, immediatamente a ridosso delle mura. Si tratta del piú antico degli anfiteatri a oggi noti, edificato quasi 150 anni prima del Colosseo di Roma.


teatrali se, come pare, essa deve essere riconosciuta nel grande affresco di Ifigenia che esce dal tempio di Artemide in Tauride, dipinto in un cubicolo della Casa di Pinario Ceriale. Questo potrebbe anche dimostrare che le vecchie e gloriose tragedie «classiche» vengono ancora rappresentate, magari in occasione di feste religiose. Intanto forse, piú comunemente, esse sono ora messe in scena «rivisitate» per accentuarne gli aspetti piú «forti», le scene di sangue e di morte, di mistero e di magia, in un misto di pathos e di retorica, di lirismo e di violenza, secondo i nuovi gusti del pubblico al quale sono certamente piú congeniali le tragedie del contemporaneo Seneca. Proprio per le mutate esigenze, piú fortuna deve avere la commedia: quella «nuova» di Menandro e quella di Plauto e di Terenzio, che guardano ai fatti e ai costumi della vita quotidiana, anch’esse peraltro

opportunamente adattate e «aggiornate». Ma è soprattutto quella sorta di farsa popolare che è l’atellana a godere i favori maggiori: un genere che è d’altronde nato proprio in Campania, con i suoi tipici personaggi fissi (Maccus, il soldato dalle grandi mascelle, Bucco, il gladiatore ingordo e chiacchierone, Pappus, il vecchio contadino babbeo e Dossenus, il servo gobbo e scaltro) e con i suoi soggetti tratti dalIa vita minuta (il matrimonio, i gemelli, lo zio, il cacciatore di testamenti), volutamente esasperati e messi in caricatura.

Fortuna del mimo Su tutti, però, s’avvia ad affermarsi un genere piú nuovo e ancora piú gradito, il mimo, che ha un tema pressoché fisso, quello dell’adulterio, trattato in maniera burlesca e ridanciana, con accompagnamento di danze e di acrobazie, da attori che sono autentici virtuosi del gesto e

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ARMI PER L’ARENA Elementi dell’equipaggiamento dei gladiatori, rinvenuti a Pompei nell’omonima caserma e oggi conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. A destra elmo di controretiarius, caratterizzato da una visiera con fori circolari dotati di grate. Al centro coppia di schinieri con vistosa decorazione disposta su diversi registri. In basso tricuspide, cuspide di lancia, pugnali in ferro con manico in osso.

che recitano senza indossare piú la maschera tradizionale, ma vestiti degli abiti di tutti i giorni. Tali attori godono di un particolare seguito da parte del pubblico, tanto che gli ammiratori piú fanatici si riuniscono in gruppi organizzati che arrivano a denominarsi con il nome dell’attore preferito. Come quei Paridiani che, in quanto tali e cosí conosciuti, scendono in campo per fare la loro propaganda elettorale e che sono i sostenitori del mimo Paride. Questi (di cui resta, su un muro, l’annuncio per uno spettacolo) è un personaggio assai noto, acclamato in numerose iscrizioni come «unico» e come «signore della scena», e probabilmente si può identificare con uno dei due arcimimi omonimi che dalle fonti sappiamo famosi anche a Roma. Agli spettacoli dei mimi può essere agevolmente destinato il teatro «piccolo», che sorge accanto a quello «grande» ripetendone sostanzialmente le forme e le caratteristiche anche se in esso, che non solo è assai piú piccolo, ma anche coperto con un tetto stabile e quindi nel complesso piú riparato e raccolto, va piuttosto riconosciuto un odeum, riservato alle audizioni musicali e alle declamazioni poetiche.

Riparo per i senza tetto Gli appassionati di spettacoli teatrali hanno dunque diversi modi per soddisfare il loro interesse; a essi però è stato da tempo sottratto l’uso del monumentale quadriportico annesso al teatro grande, nel quale erano soliti sgranchirsi le gambe, incontrarsi e conversare commentando le rappresentazioni durante gli intervalli, in genere molto lunghi, degli spettacoli. Murato uno dei due ingressi e chiuso l’altro con una porta, dopo il movimento tellurico, e mentre almeno un’ala continua ad essere occupata da famiglie di sinistrati e di senza tetto che vi si sono sistemati alla meglio, il quadriportico è stato infatti trasformato in una caserma di gladiatori, anche se essa si trova ancora in corso di restauro visto che buona parte dei vani appositamente aggiunti sui quattro lati del portico e su un piano superiore, pure aggiunto con la costruzione di un ballatoio di legno, è rimasta priva d’intonaco alle pareti.

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LA VITA RELIGIOSA di Romolo A. Staccioli

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ra le occupazioni della vita quotidiana occupano un posto non trascurabile quelle che hanno a che fare con la religione.Come tutti gli uomini dell’antichità, il pompeiano vive infatti circondato dal sacro, in casa come per la strada, e, com’è stato giustamente osservato, nulla è per lui piú «quotidiano» della religione: sia che si tratti di un rito privato davanti al «larario», l’altare domestico, presente in vario modo in tutte le case; sia che si tratti d’una manifestazione comunitaria, nell’ambito di una «confraternita» o di una «setta» di iniziati, o di un’importante cerimonia pubblica prescritta dal calendario ufficiale. Ciò, naturalmente, per non parlare delle infinite pratiche di superstizione, contro il malocchio o per la fertilità, contro ogni genere di malattie o per l’innamoramento, di cui sono indiretta ma ugualmente eloquente documentazione, tra l’altro, le innumerevoli immagini falliche disseminate in ogni angolo della città, lungo le strade, sugli ingressi delle botteghe, sulle fontane e perfino nelle case private. Molti cittadini sono poi direttamente impegnati nelle funzioni di culto, siano essi sacerdoti oppure accoliti, inservienti, custodi dei templi e delle edicole, ecc.

La triade piú venerata Le divinità delle quali il Pompeiano pratica il culto e alle quali è sia pur variamente devoto sono in genere quelle «classiche» del pantheon greco-romano, con particolare riguardo a quelle piú legate agli aspetti e alle tradizioni degli antichissimi culti locali della natura e della fecondità. Proprio per questo un’attenzione speciale è rivolta alla triade di Ercole, Bacco e Altare marmoreo collocato al centro del cortile del cosiddetto «Tempio di Vespasiano», sul quale è scolpita la scena del sacrificio di un toro. I sec. d.C.


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Venere che vengono pressappoco considerati alla stregua di autentici «patroni» e protettori della città. Fra i tre al primo posto è Venere, che a Pompei è però concepita prima di tutto ed essenzialmente come una dea della natura (Venus Fisica), erede e continuatrice della Grande Madre. Come tale, essa è anche Fortuna e quindi dea della fertilità e dell’abbondanza. Il tempio di Venere costruito, al momento della fondazione della colonia romana, su una terrazza prospiciente il mare e quindi ben visibile ai naviganti che lo tenevano come punto di riferimento, è stato anch’esso devastato dal terremoto e i lavori di ricostruzione sono lungi dal loro completamento. L’immagine della dea, tuttavia, è largamente presente nella città e la si ritrova un po’ dappertutto, anche dipinta con fresco stile popolaresco, sui muri delle case e presso gli ingressi delle botteghe. Affresco con scena di vita quotidiana nel Foro, dai Praedia di Giulia Felice. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Venditori ambulanti offrono attrezzi, pentole, calzature e altri oggetti esposti davanti a loro, mentre potenziali acquirenti esaminano la merce.

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Nel nome dell’imperatore Ai culti tradizionali da qualche tempo se ne sono venuti affiancando di nuovi e la loro importanza è dimostrata dagli edifici loro destinati, ricostruiti o costruiti ex novo dopo il terremoto. C’è innanzitutto il culto dell’imperatore o meglio del suo Genio e della sua Fortuna (Genius e Fortuna Augusti). Esso è ormai il culto «ufficiale» per eccellenza accanto a quello tradizionale della triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva, che è però meno sentito dal popolo, tanto che il suo tempio del capitolium nel Foro perdura in stato di grave rovina. Proprio alla Fortuna Augusta era stato già da tempo costruito un tempio non lontano

dal Foro, per opera di un privato in un terreno di sua proprietà. Ora invece è stato appena ultimato un tempio tutto nuovo dedicato al Genio di Vespasiano e costruito in posizione eminente anche se costretto nel poco spazio disponibile del Foro. Il tempio è formato da una corte preceduta da un vestibolo e circondata da un muro continuo e da una grande edicola su alto podio posta al centro del lato di fondo. Davanti all’edicola è stato collocato un magnifico altare di marmo bianco adorno di rilievi: sulla faccia principale, una scena di sacrificio, con un sacerdote che versa libagioni su un tripode, mentre dietro di lui sono due littori, un flautista e tre giovani assistenti che portano utensili per il sacrificio, e davanti un vittimario che, con l’aiuto di un assistente, porta il toro che deve essere ucciso; sugli altri lati, gli oggetti e gli strumenti usati nelle cerimonie sacre e una corona con foglie di quercia tra due alberi d’alloro. Accanto al tempio di Vespasiano, un altro fastoso edificio sacro è in corso d’ultimazione: costituito di un vasto «atrio» absidato con due grandi vani e nicchie sui lati, esso è quasi certamente da riconoscere come il santuario dei lari pubblici, protettori della città, e la sua costruzione deve essere stata decisa, con ogni verosimiglianza, subito dopo il terremoto, in espiazione di quel tremendo prodigium attribuito dalla comune superstizione, come tutte le calamità naturali, all’ira degli dèi. Tra i nuovi culti, tuttavia, sono quelli d’origine orientale che si vanno piú rapidamente diffondendo, dapprima e specialmente tra il popolo, importati come sono da schiavi,


marinai, mercanti, soldati che numerosi approdano alle banchine del porto pompeiano dalle lontane province dell’Asia e dell’Africa; poi anche tra i ceti sociali piú elevati ai quali vengono «trasmessi» dai tanti liberti, gli ex schiavi affrancati, che nella loro nuova condizione di uomini liberi ne conservano la devozione e se ne fanno propagatori.

Dalla Frigia alla Campania Questi culti predicano tutti teorie di salvazione, promettono una vita migliore nell’aldilà, comportano pratiche «misteriche» e rituali complessi e suggestivi che comprendono anche «sedute» estatiche e feste orgiastiche: è molto facile che riescano ad avvincere i rispettivi fedeli e a impegnarli spesso per parti cospicue delle loro giornate, con lunghi periodi d’iniziazione prima e poi con pratiche quotidiane e grandi cerimonie e feste ricorrenti. Tra i culti orientali uno dei piú diffusi è quello della Magna Mater, la Grande Dea Cibele, originario della Frigia in Asia Minore, già penetrato in Campania in età repubblicana, ma diffusosi soprattutto da quando l’imperatore Claudio, dandogli riconoscimento ufficiale, ne ha permesso il sacerdozio ai cittadini romani. A Pompei lo si ritrova «documentato», insieme a vari riferimenti presenti in tante abitazioni private, nelle rappresentazioni popolaresche delle pitture parietali «esposte» sulla pubblica via. Tale è il caso del pannello dipinto al lato dell’ingresso di una bottega di feltrai, ancora sulla via dell’Abbondanza, in cui è raffigurata la solenne processione in onore della dea mentre essa sosta intorno al sacro simulacro deposto a terra, per un momento di riposo, dalle spalle dei portatori. La statua di Cibele, vestita di un mantello cui si sovrappone, dalle ginocchia ai

piedi, la caratteristica rete delle divinità oracolari, con una corona turrita sulla testa, un «timpano» (lo strumento musicale, in forma di tamburello, allusivo ai riti orgiastici) poggiato su un avambraccio, è seduta su un trono portatile (il ferculum) dalla spalliera stellata mentre due piccoli leoni siedono ai suoi piedi. La dea è rivolta, in una sorta di «sacra conversazione», verso un’erma di Dioniso, l’altro dio «mistico». Attorno, tra candelabri e un altare, stanno i fedeli: i quattro portatori con una corta veste rituale ricamata e i bastoni a forcina dei quali si servono per sollevare e trasportare la statua; sacerdoti in toga bianca, uno dei quali con in mano uno scrigno, un altro che suona la tibia e il corno ricurvo; sacerdotesse e tre semiviri, i sacerdoti galli che si sono evirati per offrire la loro potenza fecondatrice alla dea (a imitazione di quanto fatto dallo sposo di lei, Attis) che suonano timpani e cembali.

Casa della Venere in Conchiglia. L’affresco che dà nome alla domus raffigurante la dea che naviga appunto su una rosea conchiglia, accompagnata da due amorini. Quarto Stile, I sec. d.C.

Un culto non ufficiale, ma diffusissimo Ma fra tutti i culti orientali, quello che gode dei maggiori favori è il culto di lside e del dio che le è compagno, Osiride. La diade isiaca viene dall’Egitto e il suo centro di diffusione è la città di Alessandria, dove il culto era stato «rielaborato» nel III secolo a.C. da un sacerdote egiziano e da uno greco per incarico di re Tolomeo I, desideroso di proporre ai suoi nuovi sudditi un elemento unificatore attraverso la fusione delle tradizioni religiose locali con quelle di ispirazione greca. Inserito tra i culti del calendario romano dall’imperatore Caligola, anche se al di fuori della «ufficialità», a Pompei esso ha avuto fortuna, forse in concomitanza con l’ascesa dei nuovi ceti sociali. Si è anzi talmente imposto che – come

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Modello ricostruttivo (conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli) del santuario di Iside (a destra), e i resti dell’edificio in situ (in basso). Il tempio, a cui si accedeva da una scalinata, presenta un ampio pronao con quattro colonne in facciata e due laterali. L’edificio fu completamente ripristinato dopo il terremoto del 62 d.C.

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Affresco raffigurante la storia di Io, perseguitata da Giunone, che, dopo avere peregrinato sotto forma di vacca, giunge in Egitto e viene accolta da Iside nel suo santuario a Canopo, dalla parete sud dell’ecclesiasterion del Tempio di Iside. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

s’è già visto – il primo e pressoché unico edificio pubblico della città a essere stato ricostruito e reso agibile dopo iI terremoto è stato proprio il tempio di lside. E se il generoso finanziatore dei lavori di ricostruzione lo aveva scelto come oggetto del suo pur interessato mecenatismo – non tanto, o non solo, per un atto di devozione alla «sua» dea quanto per acquistarsi una pubblica benemerenza allo scopo di favorire (come di fatto avvenne) l’ingresso nella «carriera» politica del figlio ancora bambino – ciò significa che il culto di lside era tra quelli piú largamente seguiti, e a livelli non soltanto privati. AI punto che una benemerenza nei suoi confronti era ritenuta capace di recare un’ambita contropartita.

Restaurato e ancor piú grandioso Il tempio, o piuttosto il santuario della dea, ampliato per l’occasione a spese della contigua palestra «sannitica», consiste in un’area abbastanza ampia e delimitata da un alto muro di recinzione, aperto con due ingressi principali, e occupata quasi per intero da un grande quadriportico colonnato che circonda una corte al centro della quale si trova il tempio vero e proprio. Questo si eleva su un alto podio accessibile mediante una gradinata frontale ed è formato da una cella piú larga che profonda, preceduta da un

pronao di uguali dimensioni con quattro colonne in facciata e una ciascuno sui due lati. Ai due fianchi della cella, all’altezza del pronao ma fuori di esso, due nicchie dovevano ospitare le statue di Anubis e di Harpokrates (due divinità minori che fanno parte del culto) mentre i simulacri di Iside e di Serapide erano all’interno della cella stessa su un podio appoggiato alla parete di fondo. Una statua di Dioniso, infine, era posta in un’altra nicchia, alle spalle del tempio, tra due grandi orecchie di stucco allusive alla disponibilità di quel dio ad ascoltare le preghiere e le suppliche dei fedeli. Tutto il tempio – come pure le pareti interne del portico – era riccamente decorato con pitture e stucchi policromi raffiguranti paesaggi marini, cespi di foglie e girali, ghirlande, uccelli e altri animali. Nella grande corte del santuario si trovavano inoltre l’altare principale e molti altri altari minori, un pozzo per la raccolta delle ceneri e dei resti dei sacrifici e il secondo edificio piú importante del culto, il purgatorium, adibito a speciali riti di purificazione: si tratta di una costruzione quadrata a forma di tempietto ma senza tetto, anch’essa riccamente decorata, con all’interno una scala che conduce a un ambiente sotterraneo coperto a volta e, da una parte, una base destinata a sorreggere la grossa giara contenente l’acqua del Nilo necessaria per le cerimonie Iustrali. Alle spalle del tempio, infine, oltre il portico e affiancato da un ambiente di non chiara identificazione, si apre con cinque ingressi ad arco un enorme salone, col pavimento in mosaico e le pareti decorate ad affresco con scene mitologiche e paesaggi egiziani entro pannelli, verosimilmente da riconoscere come l’ecclesiasterion, il luogo delle riunioni dei fedeli e delle «sacre rappresentazioni» che facevano parte delle cerimonie rituali, mentre altri ambienti minori s’affacciano su un’altra ala del portico. Il culto di Iside, assicurato da speciali sacerdoti ai quali sono pure affidate le pratiche segrete per l’iniziazione dei nuovi adepti, comporta diverse cerimonie nell’arco di una giornata, due delle quali piú importanti delle altre. Prima del sorgere del sole, il

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LA VITA POLITICA sacerdote entra nel santuario da un ingresso secondario e spalanca la porta del tempio il cui interno è nascosto da grandi tende di lino. Viene poi aperto l’ingresso principale dal quale entrano i fedeli che vanno a collocarsi davanti al tempio; quindi vengono tirate le tende e il simulacro della dea è offerto all’adorazione della folla che in segno di saluto agita i «sistri», i caratteristici strumenti formati da una lamina metallica piegata a ferro di cavallo e attraversata orizzontalmente da verghette mobili pure metalliche, che quando lo strumento viene mosso emettono suoni acuti. Seguono preghiere di ringraziamento collettive e un lungo periodo di silenziosa contemplazione e di preghiera individuale.

La «navigazione» della dea Poi la cerimonia termina, all’alba, con una solenne invocazione al nuovo sole appena sorto all’orizzonte. Alle due del pomeriggio si svolge l’altro servizio principale dedicato alla venerazione dell’acqua sacra. Nella corte interna del santuario un sacerdote sale su alcuni gradini e solleva fino al viso un vaso pieno d’acqua del Nilo, mentre due accoliti scuotono i sistri e altri ravvivano il fuoco che brucia sull’altare; ai due lati i fedeli intonano una preghiera accompagnata dal suono del flauto. Oltre alle funzioni quotidiane ci sono poi le feste solenni, che hanno scadenza anniversaria. C’è quella detta del navigium Isidis, con cui si commemora la mistica «navigazione di Iside» – rievocata pure da scene a soggetto marino dipinte nel portico che circonda il tempio – e che si celebra in marzo quando i marinai e i pescatori tornano in mare dopo la sosta invernale. E c’è quella detta delle «isiache», che commemora il ritrovamento, da parte della dea, del corpo del suo compagno Osiride e che si celebra dal 13 al 16 di novembre: è questa una festa gioiosa, sottolineata da danze rituali che si svolgono davanti alla porta aperta del tempio e hanno per protagonista un uomo dal viso coperto e con la testa coronata, mentre due donne suonano i cembali e il tamburo e i sacerdoti e gli accoliti alimentano il fuoco sacro sull’altare circondato dai fedeli.

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Dell’amministrazione della città conosciamo cariche, mansioni, edifici pubblici, ma non abbiamo certezze sulla reale destinazione di alcune sedi, sicuramente pubbliche, né si sono conservati gli archivi, che possono essere stati trasferiti dai luogotenenti dell’imperatore Tito dopo l’eruzione, quando era ancora possibile individuare il Foro e i suoi monumenti. La Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum, come fu denominata la città dopo la deduzione dei veterani di Cornelio Silla nell’80 a.C., seguendo la costituzione romana aveva tre organi di governo: l’assemblea popolare, formata da cittadini con pieni diritti civili che eleggevano i magistrati (in regola per requisiti morali e finanziari); la magistratura, formata da quattro responsabili: i duoviri aediles e i duoviri iure dicundo; e il Consiglio, l’ordo Decurionum, un senato municipale formato da 80-100 membri. Le competenze e le responsabilità degli eletti erano diverse. Agli edili toccava l’assegnazione dei posti al mercato e il controllo sulla manutenzione di strade, edifici pubblici e religiosi, e sull’organizzazione degli spettacoli. I duoviri iure dicundo invece presiedevano l’assemblea del popolo e del Consiglio; promulgavano e facevano applicare i decreti dei decurioni; curavano le finanze e concedevano gli appalti. Le cariche duravano un anno; si votava a marzo, ma si entrava in carica alle calende di luglio. Alla fine del mandato, si entrava a far parte del Consiglio – una carica a vita – vero centro di privilegi, che deliberava e controllava i magistrati. Ogni cinque anni, al posto dei duoviri di grado superiore, si eleggevano i quinquennales (che quella carica avevano ricoperto almeno una volta), ed erano loro a rivestire il potere piú grande. Infatti, esercitavano la «censura», il temuto controllo dei beni dei cittadini, e avevano pure il compito di verificare l’esistenza dei requisiti richiesti ai decurioni in termini di comportamento e patrimonio. Se il controllo risultava negativo, il decurione veniva cancellato dall’elenco. Considerato l’alto grado di mortalità, era possibile eleggere qualcuno che non aveva esercitato precedentemente un incarico politico; oppure – ma questo è un caso davvero eccezionale – inserire per meriti chi non aveva nemmeno l’età. Un’iscrizione testimonia infatti la nomina alla piú alta carica politica di un bambino di sei anni, Numerio Popidio Celsino, poiché il padre di nascita libertina aveva finanziato il restauro del tempio di Iside. Per mostrare la gratitudine di Pompei a questo generoso cittadino, si decise infatti di investire il figlio dell’ambito titolo, accessibile solo ai liberti di seconda generazione. Nell’iscrizione sull’ingresso del tempio si legge che «Numerio Popidio Celsino, figlio di Numerio, ricostruí interamente a sue spese il tempio di Iside crollato per il terremoto. Per la sua liberalità i decurioni, pur


avendo egli solo sei anni, lo inserirono gratis nel loro ordine». Il terremoto di cui si fa menzione è quello del 62: il territorio fu cosí sconvolto che l’imperatore Vespasiano, anni dopo, fu costretto a inviare il tribuno Tito Suedio Clemente per dirimere questioni relative a occupazioni abusive. Anche gli edifici dell’amministrazione subirono danni, perché risultano molti rifacimenti. Si trovano tutti al centro della città, in prossimità del Foro, dove si svolgeva tutta la vita politica e sociale di Pompei: mercato, cerimonie religiose, votazioni e cause civili. Nell’imponente Basilica, costruita nel II secolo a.C., si entrava dal Foro (lato sud-occidentale). Era un edificio rettangolare, diviso in tre navate da alte colonne costruite con tegole sovrapposte e coperto in origine da un tetto a doppio spiovente. Nello spazio centrale, piú ampio, si trattavano e discutevano gli affari; in fondo, si ergeva il tribunal: era il podio per i magistrati, raggiungibile con strutture di legno mobili, che potevano essere tolte velocemente se i dibattiti diventavano troppo accesi. Si trattavano controversie di varia natura; per situazioni piú gravi si interveniva da Roma. E infatti cosí avvenne nel 59, quando scoppiò nell’Anfiteatro una grande zuffa tra Pompeiani e Nocerini, finita nel sangue. Dell’evento, che ebbe una certa notorietà anche fuori dai confini campani, parla lo storico Tacito negli Annali. Lo scontro è raffigurato con particolari in un affresco ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli: una scena dipinta come vista dall’alto, che ci mostra lottatori sulle gradinate, e gente all’esterno dell’Anfiteatro mentre si dà alla fuga.

In alto affresco con scena di vita quotidiana nel Foro, dai Praedia di Giulia Felice. Quarto Stile, I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In secondo piano sono statue equestri di cittadini illustri. In basso iscrizione dedicatoria sull’architrave della porta d’accesso al Tempio di Iside, nella quale si legge che il santuario venne ricostruito dopo il terremoto del 62 d.C. a spese del piccolo Numerio Popidio Celsino di soli sei anni.

Di fronte alla Basilica, all’altra estremità meridionale del Foro, c’era il Comitium, dove si svolgevano le votazioni: una grande aula scoperta, con diversi ingressi per consentire ai cittadini di entrare e uscire a rotazione. Completavano gli edifici pubblici, tre costruzioni che stavano in mezzo, eretti in momenti diversi, sulla cui destinazione esistono diversi pareri. Con ogni probabilità, nelle sale laterali si riunivano i magistrati e i decurioni; al centro, le nicchie alle pareti suggeriscono la sede dell’archivio, il tabularium pompeiano. Marisa Ranieri Panetta

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VITA QUOTIDIANA

LE ISCRIZIONI PARIETALI di Antonio Varone

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e iscrizioni parietali costituiscono uno strumento privilegiato di conoscenza della realtà minuta del mondo antico grazie alla loro estemporaneità, non legata al bisogno di «rappresentazione» – proprio invece delle iscrizioni lapidarie – e frutto, piuttosto, della volontà di «comunicazione», ricercata ovviamente tra i contemporanei, e giunta invece per uno strano caso – messaggio posto all’interno di una bottiglia che stavolta ha superato il mare del tempo – fino a noi moderni, non piú in grado di interagire con essa, ma ben in condizione di valutarne il sostrato psicologico e comportamentale. Tali iscrizioni ci permettono quindi di penetrare «immediatamente», cioè senza l’ausilio di alcun medium, all’interno di varie condizioni di vita, che, se da un lato ci documentano la sfera delle passioni individuali di uomini che hanno gli stessi problemi esistenziali di sempre – nihil novi sub sole –, d’altro lato ci presentano un contesto sociale nel quale si inseriscono esperienze di vita che sarebbe diversamente impossibile riuscire a cogliere con altri mezzi. Lo storico antico tende a consegnare ai suoi scritti ciò che deve diventare ktema es aei, «acquisto per sempre» e l’iscrizione lapidaria tende a celebrare o ricordare, e comunque a rappresentare, una situazione con deliberato studio, momenti peraltro entrambi

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tramandatici attraverso la mediazione di amanuensi, glossatori o dello stesso lapicida, scrittore su commissione. L’iscrizione parietale, invece, realizza istantaneamente l’estrinsecazione di un pensiero o di un’emozione riferiti prevalentemente al momento quotidiano, a un hic et nunc talora di banale e persino sconcertante vacuità, ma che viene invece a illuminare, con bagliore che diviene nel suo complesso folgorante, il background che animava la vita quotidiana di un’epoca ormai remota. Ciò non toglie che tali iscrizioni, al di là del loro aggancio alla quotidianità, possano ugualmente darci notizie di portata «storica». Non dimentichiamo, per esempio, che le nostre conoscenze sulla propaganda elettorale e sul coinvolgimento della popolazione municipale riposano pressoché esclusivamente sui tituli picti pompeiani, che peraltro chiariscono al meglio anche l’organizzazione degli spettacoli gladiatorii, un momento non secondario nella costruzione sociale della vita nel mondo romano.

La visita dell’imperatore D’altra parte, sono solo due graffiti rinvenuti a Pompei nella casa di Giulio Polibio a farci sapere della visita effettuata da Nerone alla città campana e dei doni munifici da lui portati, anche per conto della moglie Poppea, al santuario di Venere. Graffiti, poi, che sono veri e propri componimenti metrici, in genere di ispirazione erotica, e che documentano un sistema alternativo di veicolazione culturale, i

cui artefici furono autori che non riuscirono mai a raggiungere per circostanze varie la soglia della popolarità, ma che si mostrano ugualmente bene inseriti nella temperie culturale dell’epoca. Qui il pensiero corre allora subito a quel Tiburtinus che firmò i versi rinvenuti sulla parete esterna del Teatro Piccolo, che si mostra veramente un precursore, pur in un ambiente periferico di quella poesia neoterica che, con Catullo in primis, di lí a poco trionfò nella cultura romana della tarda età repubblicana. Altre volte, invece, sono versi anonimi soffusi di delicata armonia e profonda saggezza a presentarci piccoli gioielli che, senza lo scrigno prezioso del muro pompeiano, sarebbero stati irrimediabilmente perduti, come quelli che qui riportiamo (vedi foto e trascrizione in basso).

Nella pagina accanto Stefan Bakalowicz, Su un muro, Pompei. XIX sec. Ceboksary, Museo Nazionale d’Arte della Repubblica dei Ciuvasci. Del dipinto è protagonista un giovane intento a lasciare un’iscrizione. In basso iscrizione poetica rinvenuta a Pompei e della quale, nel riquadro, sono riportati il testo originale e la sua traduzione.

Nihil durare potest tempore perpetuo. Niente è possibile che in eterno duri.

Cum bene Sol nituit, redditur Oceano; Il sole che alto splendea s’immerge all’abbraccio del mare

decrescit Phoebe, quae modo plena fuit. e falce diventa la luna, che pure dianzi era piena.

Ven[to]rum feritas saepe fit aura l[e]vis. La furia dei venti, sovente, brezza leggera diviene.

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VITA QUOTIDIANA

ARTI E MESTIERI A destra strumenti in osso relativi alla pratica della tessitura: si tratta di alcuni fusi e girelli e di navette e spolette. I sec. d.C. Pompei, Soprintendenza Archeologica. Qui sotto un rastrello e una zappa, dal quartiere di servizio della Casa del Menandro. I sec. d.C. Pompei, Soprintendenza Archeologica. In basso scatolina in bronzo per medicine. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I graffiti documentano anche la composizione della società romana, facendoci individuare i mestieri e le attività praticate. Eccone un elenco.

addetti al commercio al minuto di generi alimentari libarius venditore di focacce pistor panettiere clibanarius dolciaio aliarius venditore d’aglio caeparius venditore di cipolle lupinarius o lupinipolus venditore di lupini pomarius fruttivendolo gallinarius venditore di pollame salsamentarius salumaio copo o caupo addetti alla ristorazione

addetti alla produzione dei generi alimentari agricola agricoltore vindemitor addetto alla vendemmia auceps uccellatore piscicapus pescatore armentarius il vaccaro

commercianti di generi vari propola rigattiere laguncularius venditore di vasi veterarius robivecchi aurifex orefice caelator cesellatore gemmarius gemmaio

addetti ai servizi

mulio carrettiere saccarius facchino putianus cavapozzi fornacator addetto agli impianti di riscaldamento termale perfusor attendente ai bagni termali dissignator maschera teatrale argentarius banchiere faenerator usuraio pictor pittore scriptor scrivano librarius amanuense

addetti ai servizi alla persona tonsor barbiere unctor massaggiatore

addetti ad attività «professionali»

artigiani

cretarius vasaio aere minutarium faber fabbricante di oggettini di bronzo faber fabbro lanifricator il cardatore di lana textor tessitore fullo lavandaio infector tintore offector ritintore vestiarius sarto sagarius fabbricatore di sai quactiliarius feltraio tegettarius fabbricante di stuoie coriarius conciatore sutor calzolaio unguentarius fabbricante di profumi lignarius legnaiuolo, falegname lignarius plostrarius fabbricante di carri

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architectus capomastro mensor geometra docens maestro medicus medico sortilogus indovino munerarius organizzatore di spettacoli

addetti a servizi specialistici in ambito familiare ianitor portiere arcarius amministratore dei beni familiari

persone la cui attività si configura come status

miles soldato nauta marinaio essedarius, retiarius, Traex, Samnis, secutor, mirmillo, provocator vari tipi di gladiatori


È nel campo del palpito della vita, nella banalità delle vicende senza storia, tuttavia, che viene restituito, vivo, il ritmo della società dell’epoca, la cadenza del sospiro quotidiano. Diverte allora vedere, grazie ai graffiti, come le attività gladiatorie nell’arena venissero seguite con entusiasmo dalle folle, e puntuali troviamo sui muri, come nella cronaca della Gazzetta dello Sport, i risultati degli incontri. Nella Casa dei Ceii, per esempio, c’è un disegnino che raffigura «Oceanus, liberto, trionfatore già in 13 altri combattimenti, che ha vinto, mentre Aracintus, liberto, che poteva vantarsi solo di 4 vittorie è morto». Lí vicino c’è inoltre un altro disegnino con la scritta «Severus, liberto, vincitore in 13 combattimenti, è morto, mentre Albanus, liberto di Scaurus, già campione in 19 incontri, ha vinto». Da notare che da un altro «resoconto sportivo» sappiamo che il nostro Oceanus, quando aveva ancora solo 6 vittorie, era stato graziato in un combattimento contro Asteropaeus, un campione che aveva collezionato ben 107 vittorie.

Giochi d’azzardo e indovinelli Anche il gioco, d’abilità, come quello con i latrunculi, o di pura alea, come quello con i dadi, rappresentavano un diffuso passatempo. Certo la sorte si faceva anche aiutare e sono molti i dadi truccati ritrovati. Un individuo, pertanto, che aveva vinto un vero capitale a dadi lascia scritto tale messaggio: «Ho vinto al gioco a Nocera 855 sesterzi e mezzo (...) e senza barare (bona fide)!». E finalmente arriviamo alla documentata passione per i giochi di parole e per l’enigmistica! Indovinelli vari, lo scioglilingua «Menedemerumenus», frasi palindrome scritte in greco (ede moi Dios arapata para soi Diomede), nomi scritti al contrario (Suilimea), e il capolavoro di tutti, quel quadrato magico «Sator / Arepo / Tenet / Opera / Rotas», sul quale si sono sbizzarriti nelle interpretazioni, e sino ai giorni nostri, centinaia di studiosi serissimi e illustri quanto avventurosi cialtroni, ricavandone anagrammi che vanno dal «Pater Noster» sino all’invocazione satanica.

Inutile però dire che il meglio di sé i graffiti lo danno nel farci comprendere il senso del rapporto che i Pompeiani avevano con l’amore.

Parole d’amore A centinaia si contano le iscrizioni che chiariscono le idee sul modo di approccio tra i sessi, sui tipi di atti sessuali, sulle varie forme, tempi, luoghi, modi e circostanze che caratterizzavano i rapporti d’amore nella società dell’epoca, fornendoci perfino prezzi e luoghi del meretricio, dandoci addirittura nomi e «voti» di prostituti, gigolo e prostitute, e rendicontandoci inoltre incontri omosessuali, sia tra uomini che donne, pedofilia, amori di gruppo, di tribadi e di travestiti. Esse tuttavia ci raccontano anche finemente, con calembour, la serena felicità con la quale veniva vissuto il rapporto sessuale: «Una ragazza dalla carnagione candida mi spronò alla ripulsa per quelle dalla pelle scura. Le odierò, se potrò. Se no (…) le amerò a malincuore». «O procace fanciulla, mi chiedi tu conto dei baci che ti ho preso di rapina: non sono certo stato l’unico. Accettali e ama! Prosperi ognun che ama!». È una realtà, quella dei graffiti, che, grazie ai rapidi bagliori offerti da pochi ma incisivi segni, ci porta a comprendere i modelli relazionali collegati alla temperie culturale e sociale del momento. Da ciò deriva il loro valore generale di documenti di «civiltà» in grado anche di annullare, a ben riflettere, lo iato dei secoli, mostrando l’uomo nella propria dimensione esistenziale, senza tempo, alle prese con gli inganni, le delusioni, le amarezze, le gioie, le miserie e le speranze della vita.

Graffito, corredato da un’iscrizione, che ricorda le vittorie ottenute nell’arena da un gladiatore di nome Severus.

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VITA QUOTIDIANA

LE CAMPAGNE ELETTORALI

Una parete di Pompei lungo via dell’Abbondanza con iscrizioni elettorali dipinte affastellate su di essa.

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Oltre alle feste religiose, un’altra scadenza annuale interessa la vita quotidiana di Pompei, e si tratta deII’avvenimento forse piú importante e piú atteso, l’unico veramente capace di suscitare fervori e passioni nell’animo di tutti i cittadini: le elezioni per il rinnovo delle magistrature municipali. Per un breve ma intenso periodo, nel mese di marzo, esso coinvolge anche coloro che sono esclusi dal diritto di voto giacché, anche se la partecipazione si esplica soprattutto nell’atto formale della votazione, prima di questa c’è tutto il periodo della campagna elettorale nella quale l’avvenimento trova la sua piú completa e sentita estrinsecazione. La propaganda, infatti, non è circoscritta all’iniziativa e all’attivismo di poche persone, i notabili e i potenti con i loro seguaci e «clienti» (ma non i candidati per i quali essa sarebbe sconveniente), bensí aperta a tutti, alla portata di chiunque voglia liberamente far sentire la sua voce, sia essa isolata sia unita a quella del proprio quartiere o della propria categoria o corporazione di mestiere. Sicché la campagna elettorale è sempre un fatto corale, nel quale trovano spazio e svolgono un ruolo tanto il personaggio di rango e l’intrigante facoltoso e in vista quanto l’umile venditore ambulante e l’oste privo di scrupoli e perfino le «ragazze di vita». Ogni anno ci sono da eleggere i due magistrati supremi o «duumviri» (duoviri iure dicundo), ai quali

sono affidati l’amministrazione della giustizia e il governo della città, prima di tutto con l’esecuzione delle deliberazioni del consiglio «municipale» (l’ordo decurionum). Insieme a essi si eleggono i due magistrati inferiori, gli edili (aediles o duoviri aedilicia potestate), i quali, in subordine ai primi, ma con essi riuniti in una sorta di «collegio», presiedono al funzionamento dei pubblici servizi (strade, terme, annona, polizia, ecc.) e all’organizzazione di feste e spettacoli pubblici. Non appena la lista dei candidati (cosí chiamati per l’antica usanza romana di comparire in pubblico vestiti di una toga resa candida da un bagno di calce) è stata approvata dal consiglio ed esposta nel Foro, in modo che ogni cittadino possa prenderne visione, la campagna elettorale si scatena utilizzando come «materia prima» i «manifesti» murali o «programmi elettorali» (programmata). I «manifesti» vengono scritti o piuttosto dipinti sui muri dagli scriptores lungo le strade e nei luoghi piú frequentati , senza risparmiare edifici pubblici e case private e neppure rispettando le tombe e le edicole sacre. Di solito, essi recano un testo estremamente semplice e stringato, e con largo uso di abbreviazioni e di sigle, che si limita al nome del candidato, all’indicazione della carica alla quale egli aspira e alla «raccomandazione» di votarlo espressa, quest’ultima, perlopiú con la formula «vi


prego di eleggerlo» (oro vos faciatis) resa per giunta con le sole iniziali delle tre parole che la compongono: O V F. Naturalmente, ci sono anche i «manifesti» piú loquaci che, sempre in maniera assai sintetica, tessono le lodi del candidato, ne ricordano le benemerenze, ne annunciano gli intenti e i programmi. Cosí, è tutto un fiorire di superlativi («degnissimo», «integerrimo», «religiosissimo»); di assicurazioni («è un uomo probo», «incapace di fare del male», «pieno di modestia», «non ha bramosia di danaro»); di promemoria («ha fatto del bene a molti», «lui solo aiuta gli amici, li sostiene e li difende, li aiuta in ogni modo»), insieme a promesse di impegni e di onesta amministrazione («preserverà il bilancio pubblico», «darà il pane buono»). La propaganda è quasi sempre organizzata e i cittadini vi prendono parte in vario modo. Piú o meno direttamente, quando ad agire, e quindi prima di tutto a far scrivere i «manifesti», è il «comitato di quartiere» (o il «vicinato») o comunque quando le iniziative vengono prese nell’ambito del quartiere o vicus. Questo, di solito, si muove compatto utilizzando la sua già esistente struttura organizzativa che normalmente svolge un ruolo di carattere soprattutto religioso presiedendo con il suo «capo» o magister, assistito da appositi ministri, alla celebrazione delle feste compitalia in onore delle divinità tutelari del quartiere stesso, i lares compitales, presso l’altare o l’edicola che sorge in un crocicchio (compitum). La comune volontà è allora esplicitamente indicata nei «manifesti» («tutti gli abitanti del quartiere lo chiedono») ed è ricordata in primo luogo ai membri stessi del «vicinato». Piú direttamente il cittadino agisce e si esprime quando è la sua corporazione di mestiere a prendere posizione o in ogni caso la sua «categoria», non importa se di rango oppure modesta. Cosicché alle potenti «corporazioni» dei tintori e dei lanaioli e agli onnipresenti barbieri s’affiancano gli orefici e i panettieri, i carrettieri e i facchini e perfino i venditori ambulanti di pizzette e di lupini. Ci sono però anche quelli che agiscono da soli e in prima persona («Sono io, Astilo, che lo chiedo» o con un seguito di amici, di subalterni o di compagni piú o meno occasionali, come il maestro «Valentino con i suoi scolari», «Montano coi giocatori di scacchi», e quelli che si definiscono seribibi, ossia gli ubriaconi delle ore piccole. Nemmeno le donne si tirano indietro, sebene siano escluse dal diritto di voto. Tuttavia, quelle che si danno da fare e non rinunciano a far sentire la propria voce, a manifestare le proprie preferenze e a condurre una personale propaganda, sono quasi

Restituzione grafica della caricatura di un personaggio di nome Rufus, come si legge dal testo Rufus est, graffita su una parete della Villa dei Misteri.

soltanto le donne che lavorano a contatto con il pubblico e quindi nella possibilità, o nell’illusione, di esercitare influenze e pressioni. Tale è il caso delle panettiere Stazia e Petronia, che acclamano i loro beniamini («Cittadini cosí possano esserci sempre nella nostra città!»), o di quelle «ragazze di Asellina» che nella caupona di via dell’Abbondanza offrono ai clienti i propri servizi e le proprie «grazie» («Per Gaio Giulio Polibio pregano di votare le Aselline non esclusa la Smirina»). C’è, infine, chi non s’accontenta di fare una propaganda generica, rivolta ai passanti e a chiunque si fermi a leggere il suo manifesto, ma si rivolge esplicitamente a circoscritte categorie di elettori, ad ambienti ben determinati oppure a singoli personaggi: a coloro stessi, insomma, che in altri casi sono impegnati in prima persona a far da sostenitori a qualche candidato e che, quando ciò non fanno, per indolenza o scarsa partecipazione, sono a loro volta sollecitati, non soltanto al voto ma anche a prendere posizione pubblicamente per questo o per quello e a impegnarsi a sostenerlo. I «manifesti» in questi casi vengono perciò sistemati in luoghi caratterizzati da un particolare tipo di frequentazione, di sosta o di transito; presso i locali pubblici e le terme, i teatri e l’anfiteatro, e specialmente accanto alle osterie che per la loro stessa natura diventano facilmente tribune di accese discussioni e possono trasformasi in centri di aderenti e di propagandisti. Le sollecitazioni sono allora dirette tanto ai frequentatori abituali quanto, e prima di tutto, a coloro che questi possono influenzare e convincere: cosí, da un generico appello al «vicinato» si va a quello specifico rivolto ai «giocatori di palla» o al bagnino delle terme («Euodo che aspergi i bagnanti, sostieniIo»), all’oste o ai mulattieri e ai cocchieri. Questi ultimi particolarmente importanti, giacché, recandosi spesso fuori città ed essendo loro affidato sovente il «servizio di posta», sono in grado di fare propaganda anche presso gli elettori del contado. Il giorno delle votazioni, ogni cittadino che ha diritto di voto si reca al «comizio», che si trova in un angolo del Foro e che, forse ripristinato alla meglio dopo il terremoto, benché il suo restauro non sia del tutto finito, è poi uno spazio aperto tutto recintato da un alto muro (nel quale s’aprono numerosi passaggi che facilitano l’afflusso e il deflusso degli elettori) e internamente suddiviso in tanti settori quante sono le «circoscrizioni elettorali». Cosicché ognuno vota nella «sezione» corrispondente alla sua «circoscrizione» generalmente equivalente al quartiere di residenza. Romolo A. Staccioli

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VITA QUOTIDIANA

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IL MONDO FEMMINILE di Marisa Ranieri Panetta

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urante il I secolo d.C. le donne romane avevano raggiunto un’emancipazione impensabile fino a qualche decennio prima. E anche a Pompei potevano sposarsi sine manu (condizione simile all’odierno regime di separazione dei beni, n.d.r.) ereditare dal marito, gestire il proprio patrimonio, senza suscitare scandalo. Anzi, nei piccoli centri periferici è piú facile trovare esempi di quell’evergetismo femminile che nella capitale era di solito riservato ai membri della famiglia imperiale. Bastino gli esempi di Mamia, sacerdotessa di Venere, che fece costruire a sue spese un edificio al Genio di Augusto e alla quale i decurioni assegnarono per decreto un terreno per il sepolcro; oppure di Eumachia, patrona dei fullones (tintori e lavandai), che, al tempo di Tiberio, finanziò l’erezione di un rilevante monumento che porta il suo nome nel Foro cittadino. A un livello sociale piú basso, anche Pompei pullulava di schiave addette ai lavori piú umili e alla prostituzione. Nel servizio alle famiglie benestanti non potevano sottrarsi allo sfruttamento sessuale da parte del padrone, che non di rado le utilizzava in locali aperti al pubblico per ricavarne un profitto: rimandano a questa ipotesi le cosiddette Veneris figurae – quadretti che raffigurano espliciti amplessi – nelle stanzette di eleganti domus.

L’ascesa sociale di una liberta Non erano poche coloro che, per meriti acquisiti nel servizio domestico, riuscivano ad affrancarsi dalla schiavitú diventando «liberte»; tante erano concubine dei padroni e anche sulla costa campana, come nel resto dell’impero, qualcuna sarà riuscita a diventare moglie del dominus. Famosa doveva essere a Pompei la liberta Naevoleia Tyche che, ancora in vita, eresse per sé e il marito Munazio Fausto – nella necropoli fuori porta Ercolano – un cenotafio a forma di altare per i rispettivi schiavi, ai quali avevano concesso la libertà. Munazio aveva già costruito una tomba per sé

e per la moglie, ma Naevoleia nell’iscrizione del sepolcro monumentale aveva voluto ricordare le benemerenze del marito, che aveva ricoperto cariche sacerdotali, era stato decurione e gli era stato conferito il bisellium, il seggio destinato ai cittadini piú insigni. Con l’esaltazione del coniuge, Naevoleia aveva verosimilmente voluto sottolineare anche il suo status di vedova illustre e aveva fatto realizzare un suo piccolo ritratto sul cenotafio, per quel desiderio di immortalare le proprie sembianze condiviso in ogni ceto, soprattutto se poteva nobilitare un’origine modesta. È tuttavia particolare il mosaico che raffigura un’ignota matrona vissuta alla fine del I secolo a.C. Non particolarmente bella, ha una pettinatura che trattiene con un nastro i capelli raccolti sulla nuca; indossa orecchini e collana d’oro e, vera rarità, mostra i denti fra le labbra appena dischiuse. È un caso unico; di solito, le persone raffigurate in ogni genere artistico hanno le bocche serrate, e non solo nell’arte romana. La Pompeiana che fa intravedere la dentatura induce a pensare che il suo biancore e la sua interezza fossero considerate qualità da esibire e tramandare. La pettinatura di questa matrona seguiva la moda del suo tempo, dettata a Roma dalle consorti imperiali; è rara l’immagine di chiome lisce, prima che l’ornatrix intervenisse con il ferro caldo (calamistrum) per forgiare i riccioli, come la fanciulla ritratta nella Villa dei Misteri. Abbiamo molti riferimenti riconducibili alle acconciature sfoggiate da Livia, Agrippina, Poppea, mentre sono piú rari gli esempi relativi al 79, l’anno dell’eruzione, quando le principesse flavie avevano optato per complicati diademi di capelli che svettavano sulla fronte con l’ausilio di posticci. Sulla costa campana, al pari delle altre località mediterranee, il colore piú diffuso era il castano-bruno, ed è questo a caratterizzare divinità, eroine o donne qualunque sui muri delle case di Pompei. Ma era il biondo, poiché piú raro, ad aver lasciato qualche traccia sulla

Nella pagina accanto emblema musivo con il ritratto di un’ignota matrona, dalla Casa di M. Pupius Rufus. Fine del I sec. a.C.inizi del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il ritratto ornava il tablino della dimora e offre l’immagine realistica di una donna pompeiana di rango elevato, adornata di orecchini e collana d’oro. La pettinatura segue la moda del suo tempo. Fatto raro, invece, sono le labbra appena dischiuse, fra le quali si intravedono i denti.

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VITA QUOTIDIANA

Casa dei Vettii. Affresco con scena di amorini intenti a preparare profumi e unguenti. Fine del I sec. a.C.-metà del I sec. d.C. Uno prepara la base oleosa, altri due macerano delle piante aromatiche da aggiungere al profumo, un altro ancora pesa il prodotto finale su una bilancia e lo imbottiglia in piccole ampolle e in unguentari.

testa delle statuine di Venere: un colore invidiato alle donne dei Paesi del Nord, le cui chiome venivano importate per farne parrucche. Ramati erano i capelli di Poppea Sabina, alla quale si attribuisce la famosa villa di Oplontis, che Nerone aveva celebrato in versi, subito imitati dall’alta società romana con chissà quali risultati. Erano le foglie dell’henna, importata dall’Egitto, a essere utilizzate piú di frequente per ottenere capelli piú o meno rossi, mentre per ottenere un biondo intenso si usava un miscuglio di grasso animale e cenere (preferita quella di faggio). Alle tinture ricorrevano soprattutto coloro che volevano mimetizzare i capelli bianchi e sebbene Properzio avesse scritto che ogni aspetto è bello cosí come lo ha fornito madre natura, era molto diffusa l’abitudine di cambiare tinta o coprire la canizie.

Soluzioni a buon mercato Le donne meno abbienti, a Pompei come nelle altre città imperiali, cercavano di seguire il trend, ma non avevano a disposizione acconciatori personali e nemmeno ornamenti per le chiome: spilloni d’argento dalla presa sagomata in vario modo, fermagli, diademi preziosi, reticelle auree, come le vediamo in pitture e sculture; al massimo, trattenevano le crocchie con qualche ago crinale in osso. I pettini, simili a quelli odierni, erano di diverso materiale, anche pregiato; ma i piú comuni, a

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una fila di denti, dovevano essere in legno e perciò non si sono conservati fino a noi. Per la cosmesi delle Pompeiane i prodotti e gli strumenti adoperati erano identici a quelli in voga nel resto del mondo romano, come testimoniano i ritrovamenti e le immagini figurate. Non erano sconosciuti i rimedi suggeriti dai Medicamenta Faciei Feminae e dall’Ars Amatoria del poeta Ovidio o quelli contenuti nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio: creme e maschere di bellezza per eliminare imperfezioni, rendere liscia la pelle, cancellarne le macchie, fino ai consigli per essere piú attraenti. In versi e in prosa compaiono sia ricette semplici (latte d’asina, bulbi di piante, miele, resina, sapientemente mescolati), sia piú complicate e costose, come la biacca unita al guano di alcione (altro nome del martin pescatore, n.d.r.) o le corna e gli escrementi di animali impastati con il miele. Eliminati i peli superflui con pinzette, lo psilothrum (pece sciolta nell’olio mista a cera) o sostanze caustiche; lavato il corpo – terme a parte – con spugne e prodotti abrasivi (il piú diffuso era il nitrum, liscivia di cenere); nettate le unghie con un coltellino e le orecchie con un bastoncino apposito (auriscalpium); acconciati i capelli, la fase finale era destinata al trucco. Tre gli elementi-base: la cerussa bianca per dare uniformità al viso e coprire imperfezioni, formata da carbonato basico di piombo in polvere impastato con sostanze grasse; il nero


Oggetti e monili per far risaltare la bellezza femminile: ampolle per profumi, unguentari, orecchini, anelli, braccialetti, collane. Dagli scavi di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’ornamento e la cosmesi erano importanti, come riferisce anche Ovidio: «Imparate, o donne, quali cure abbelliscano il volto, e in quale modo preservare la vostra bellezza» (Medicamina faciei femineae, 1-2).

fumo per sottolineare la linea delle sopracciglia e degli occhi; feccia di vino o terra rossa di Selina per dare colorito alle guance. Le piú esigenti aggiungevano il vezzo di qualche neo, «ombretti» colorati verdi e azzurri, finanche «ciprie» luminose ottenute da cristalli ridotti a polvere impalpabile. Munite cosí di bastoncini, contenitori per le diverse sostanze, specchi e spatole, le Pompeiane si preparavano per le cerimonie pubbliche, i banchetti, gli appuntamenti galanti. L’ultimo tocco era affidato al «profumo» dell’epoca (Ovidio raccomandava di evitare i cattivi odori): unguenti e oli da spalmare sulla pelle, ricavati da fiori e foglie fatti macerare nell’olio e poi spremuti con il torchio – oppure tritati e

mescolati direttamente a grasso di animali – il cui eccesso era eliminato con uno strigile, lo stesso strumento usato dagli atleti per detergersi dalla sabbia e dal sudore.

Prodotti d’importazione Esistevano anche prodotti secchi, i diapasmata citati da Plinio, per deodorare le ascelle o, sotto forma di pastiglia, per combattere l’alito pesante. Costi ed effetti variavano a seconda dei componenti: pregiatissimi, per esempio, erano l’olio di zafferano o le resine aromatiche provenienti dall’Oriente. Pompei era a due passi da Puteoli (l’odierna Pozzuoli), per secoli il porto piú attrezzato sul Tirreno, che riceveva ogni genere di merce dalle province orientali e

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africane; era possibile, dunque, procurarsi anche olio di nardo, creme di Cleopatra e «must» ai quali mercanti e profumieri attribuivano portentosi effetti di seduzione. Ma per chi viveva alle falde del Vesuvio era possibile acquistare prodotti di qualità senza uscire dalle mura e spendere somme cospicue: a Pompei è citata una corporazione di profumieri ed è possibile che proprio nella Casa del Giardino di Ercole si svolgesse un’attività del genere. Le analisi paleobotaniche hanno infatti evidenziato una grande quantità di ulivi e fiori che potevano essere utilizzati per produrre sostanze odorose. I reperti provenienti dagli scavi documentano la cura per il proprio aspetto delle donne vissute in questo tratto della costa campana: pinzette depilatorie, pettini, specchi, unguentari di vetro a forma di boccette o di animali, alabastra

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Gioielli in oro e pietre preziose, fermacapelli in avorio e strumenti vari per la cura personale, dagli scavi di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Solo le matrone di alto rango potevano permettersi oggetti simili. Le donne meno abbienti cercavano di seguire la moda, ma utilizzavano materiali comuni, come l’osso e il legno.

(contenitori per olii e unguenti profumati), cucchiaini, pissidi (scatole cilindriche per prodotti cosmetici), conchiglie bivalve in argento, per culminare nel «beauty case» di legno con intarsi d’avorio, i cui scomparti accoglievano balsamari, spatole e lastrine di vetro per amalgamare polveri e grasso.

I gioielli: una passione sfrenata Nella prima età imperiale, si faceva uso e abuso di gioielli, suscitando la riprovazione e l’ironia di poeti e letterati. Sono rimaste proverbiali le parure di Lollia Paolina, una delle mogli di Caligola, che si presentava in pubblico grondante di perle e smeraldi o l’abbigliamento di Agrippina Minore, terza moglie di Claudio e


madre di Nerone, che sul lago del Fucino apparve in una veste intessuta d’oro; ma anche gli uomini coprivano le dita di anelli di ogni genere ed esibivano abiti e calzature ornati di ricami e pietre preziose. I monili ritrovati a Pompei e nel suburbio sono meno di un migliaio e si riferiscono sia a quanto è stato trovato indosso alle vittime che al contenuto di ripostigli o di sacchetti, nascosti in casa o portati addosso durante l’ultima fuga. Il diadema in oro e perle barocche, con lavorazione a sbalzo e traforo, è un caso unico; gli ornamenti femminili, per fattura e valore, sono piú modesti anche se non mancano altri gioielli raffinati, come la collana lavorata «a nastro» con smeraldi e madreperle. Il modello piú diffuso era costituito da maglie che giravano intorno al collo, di solito con pendente; pochi esemplari, invece, si riferiscono alla moda delle lunghe catene d’oro, che si indossavano in vario modo. I bracciali a serpente da infilare alle braccia, ai polsi e alle caviglie (periscelides) erano i modelli piú diffusi e godettero di una fortuna incontrastata nel tempo.

Perle e smeraldi a grappolo Nella maggior parte degli orecchini ritrovati, di solito in oro, prevalgono poche varianti. Le tipologie piú comuni sono a spicchio di sfera

La cosidetta Saffo, ritratto ad affresco di una giovane che tiene nella mano sinistra un polittico di quattro tavolette cerate e nella destra uno stilo. Quarto Stile. Seconda metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il modo di accostare lo stilo alle labbra, insieme allo sguardo pensieroso, mettono in risalto l’ambiente colto e facoltoso al quale appartiene la donna.

e a barretta, con due pendenti, preferibilmente perle, con un gancio di sospensione. La proprietaria della Casa del Menandro, dove era stato nascosto in un ripostiglio un servizio da tavola in argento di ben 118 pezzi, possedeva collane e orecchini di perle e smeraldi (berylli) a grappolo e a sfera con granati incastonati. Per gli anelli, suoi e del marito, individuato come Quinto Poppeo, si poteva rifornire come tante altre concittadine da Pinario Ceriale, il gemmarius sacerdote di Ercole che intagliava pietre e le commerciava. Nella sua abitazione, abbandonata per l’eruzione, che fungeva pure da laboratorio, era rimasta una cassettina con 114 pietre dure (ametiste, agate, corniole, una sardonica), la maggior parte delle quali non era decorata e qualcuna presentava un lavoro di levigatura non finito. Le pietre semplici o intagliate con diversi soggetti venivano usate soprattutto per gli anelli, usati da uomini e donne al pari dei bracciali. Come sigilli, o per semplice ornamento, erano incastonate soprattutto nell’oro, ma sono stati trovati molti anelli anche in argento, e in ogni contesto sociale. Il materiale usato piú di frequente era la corniola; i soggetti scelti per l’incisione, i piú vari: animali, rami di palma, simboli beneauguranti come la cornucopia, soggetti mitici o religiosi, busti e teste umane.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Pompei, sia a livello specialistico che divulgativo, vanta un numero di titoli forse incalcolabile. Quelli che seguono sono dunque alcuni suggerimenti, al cui interno è peraltro possibile trovare ulteriori indicazioni bibliografiche. • Eugenio La Rocca, Mariette e Arnold de Vos, Guida archeologica di Pompei, Mondadori, Milano 1976 • Mariarosaria Borriello, Antonio d’Ambrosio, Stefano De Caro, Pietro Giovanni Guzzo (a cura di), Pompei. Abitare sotto il Vesuvio (catalogo della mostra), Ferrara Arte, Ferrara 1996 • Antonio d’Ambrosio (a cura di), Alla scoperta di Pompei, Electa, Milano 1998 • Annamaria Ciarallo ed Ernesto De Carolis (a cura di), Homo faber. Natura, scienza e tecnica nell’antica Pompei (catalogo della mostra), Electa, Milano 1999

• Antonio Varone, Pompei. I misteri di una città sepolta, Newton & Compton, Roma 2000 • Ernesto De Carolis, Dèi ed eroi nella pittura pompeiana, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2000 • Antonio Varone, L’erotismo a Pompei, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2000 • Antonio d’Ambrosio, Pier Giovanni Guzzo, Marisa Mastroroberto (a cura di), Storie da un’eruzione. Pompei Ercolano Oplontis (catalogo della mostra), Electa, Milano 2003 • Ernesto De Carolis, Giovanni Patricelli, Vesuvio 79 d.C. La distruzione di Pompei ed Ercolano, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2003

•M arisa Ranieri Panetta (a cura di), Pompei. Storia, vita e arte della città sepolta, White Star, Vercelli 2004 • L uciana Jacobelli (a cura di), Pompei. La costruzione di un mito, Bardi Editore, Roma 2008 • P ier Giovanni Guzzo, Antonio d’Ambrosio, Pompei. Guida agli scavi, Electa, Napoli 2012 • Fabrizio Pesando, Maria Paola Guidobaldi, Pompei, Oplontis, Ercolano, Stabiae, Guide archeologiche Laterza, Roma-Bari 2006 • F ilippo Coarelli (a cura di), Pompei. La vita ritrovata, Magnus Edizioni, Fagagna (Udine) 2003

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di Alessandra Costantini e Christoph Hausmann

90 i. porta marina 90. Terme suburbane 95. Tempio di Venere

itinerari

ii. l’area del foro 96. Piazza del Foro 98. Basilica 99. Tempio di Apollo 102. Mensa Ponderaria, Foro Olitorio e latrine pubbliche 104. Terme del Foro

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106. Tempio della Fortuna Augusta 107. Tempio di Giove-Capitolium 108. Macellum 110. Santuario del culto imperiale 111. Tempio del Genio di Augusto 112. Edificio di Eumachia 113. Diribitorium

iii. luoghi del piacere 114. Terme Stabiane 117. Lupanare


114

96 iv. luoghi di svago

vi. case e botteghe

118. Foro triangolare 121. Palestra sannitica e «Terme repubblicane» 122. Tempio di Iside 124. Tempio di Esculapio, teatro grande 125. Portico dei teatri, teatro piccolo

130. Praedia di Giulia Felice 133. Orto dei fuggiaschi, Casa della nave Europa 134. Termopolio su via dell’Abbondanza, Casa di Giulio Polibio 135. Fullonica di Stephanus 136. Casa del Fauno 139. Casa dei Vettii 142. Casa del Chirurgo 143. Villa dei Misteri

v. sport e spettacolo 126. Anfiteatro 129. Palestra grande

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CAPITOLO

PASSEGGIATE POMPEIANE

Porta Marina 1. Porta Marina 2. Terme Suburbane 3. Tempio di Venere

La città antica occupava un altopiano formato da una colata lavica, in posizione dominante sulla valle del Sarno, alla cui foce era un porto fluviale. Il circuito urbano, delimitato da un percorso murario di 3200 m circa sul quale si aprivano sette porte, racchiudeva piú di cento isolati ed era orientato su due decumani, sull’asse est-ovest, e su tre cardini, sull’asse nord-sud. La città, che per via dell’area in cui venne fondata e si sviluppò ha forma grosso modo ellittica, ha conservato pressoché integro il disegno urbanistico conferitole dai suoi abitanti. L’intreccio delle strade principali e secondarie delimita i vari quartieri e ognuno di essi è contraddistinto dalla presenza di semplici insulae – gli isolati che comprendevano le case popolari del tempo – e di residenze piú ricche: specchio dell’articolazione sociale che era andata via via strutturandosi. All’area urbana, ma piú spesso all’immediato suburbio, appartengono le ville, dimore che sfoggiano la raffinatezza architettonica, lo sfarzo e la grandiosità che furono alla portata delle classi di rango piú elevato.

Foro 4. Piazza del Foro 5. Basilica 6. Tempio di Apollo 7. Mensa Ponderaria, Foro Olitorio, Latrine Pubbliche 8. Terme del Foro 9. Tempio della Fortuna Augusta 10. Tempio di Giove ( Capitolium)

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11. Macellum 12. Santuario del Culto Imperiale, cd. Santuario dei Lari Pubblici 13. Tempio del Genio di Augusto, cd. Tempio di Vespasiano 14. Edificio di Eumachia 15. Diribitorium Tratto iniziale di Via dell’Abbondanza 16. Via dell’Abbondanza 17. Terme Stabiane 18. Terme Centrali 19. Lupanare

Foro Triangolare 20. Foro Triangolare 21. Palestra Sannitica e cd. Terme Repubblicane 22. Tempio di Iside 23. Tempio di Esculapio o di Giove Melichio 24. Teatro Grande 25. Portico dei Teatri 26. Odeion

Case e botteghe 29. Praedia di Giulia Felice 30. Orto dei Fuggiaschi 31. Casa della Nave Europa 32. Termopolio su via dell’Abbondanza 33. Casa di Giulio Polibio 34. Fullonica di Stephanus 35. Casa del Fauno 36. Casa dei Vettii 37. Casa del Chirurgo 38. Villa dei Misteri

Anfiteatro 27. Anfiteatro 28. Palestra Grande

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23 DOVE E QUANDO

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SCAVI DI POMPEI Pompei, via Villa dei Misteri 1 Orario dal 1° aprile al 31 ottobre: tutti i giorni, 8,30-19,30 (ultimo ingresso ore 18.00); dal 1° novembre al 31 marzo, tutti i giorni, 8,30-17,00 (ultimo ingresso ore 15,30) Info tel. 081 8575403, fax 081 8575401; e-mail: ssba-na.pompei@beniculturali.it; www.pompeiisites.org MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI Napoli, piazza Museo Nazionale Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso il martedí Info tel. 081 4422149; http://cir.campania.beniculturali.it/ museoarcheologiconazionale/

pompei a napoli

Il simbolo indica i reperti provenienti da Pompei oggi conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli

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CAPITOLO

LE STRADE PRINCIPALI 2

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In alto, a sinistra schema del sistema viario. In rosso le cinque strade principali che percorrevano Pompei. In alto, sulle due pagine la via Marina (n. 1 dello schema), che ha inizio in corrispondenza della porta omonima e prosegue fino al Foro. A sinistra porta Ercolano e un tratto della via Consolare (n. 2 dello schema).

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Pompei aveva 5 strade principali, due sull’asse ovest-est e tre su quello nord-sud, in corrispondenza con le porte della città. Tutti i nomi delle strade sono moderni e non sappiamo quale fosse la toponomastica antica. 1. Da porta Marina corre la via Marina al Foro, poi prosegue come via dell’Abbondanza fino alla porta di Sarno;

2. Piú a nord, all’incrocio con la via Consolare che parte da porta Ercolano, corre la via delle Terme. All’altezza del Foro cambia nome in via della Fortuna, poi in via di Nola. Alla fine sbuca sulla porta di Nola; 3. Da nord a sud corre la via del Foro, poi via di Mercurio, che attraversa il Foro e diventa strada delle Scuole; 4. La via Stabiana percorre tutta la città

da porta Vesuvio a porta Stabia; 5. La via di Porta Nocera comincia a sud da porta Nocera e finisce a nord in terreno non ancora scavato; Le strade piú piccole spesso non sono allineate del tutto a queste arterie principali. Un rigido disegno a scacchiera non era possibile, sia per motivi topografici, sia per la presenza di edifici preesistenti.

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CAPITOLO

IL «SISTEMA CATASTALE» Per rendere piú agevole la visita all’interno della città vesuviana, la cui estensione rende particolarmente complesso l’immediato riconoscimento delle strutture pubbliche e private, è ancora oggi utilizzato il «sistema catastale» ideato nel 1858 dall’archeologo Giuseppe Fiorelli. La confusione generata dai nomi convenzionali attribuiti agli edifici che progressivamente venivano alla luce, è stata felicemente risolta suddividendo Pompei in nove quartieri (Regiones), ognuno dei quali è formato da isolati (insulae), che includono al loro interno dimore e botteghe. A tutti gli edifici, oltre al nome tradizionale, è stato aggiunto anche un numero civico, in modo che sia sempre possibile riconoscerli e identificarli sulla pianta della città. Ogni casa viene cosí individuata sia con la denominazione nota, sia attraverso quella catastale: Casa del Fauno, VI (quartiere), 12 (isolato), 2-5 (numeri civici relativi alle due entrate). In alto incisione di James Hennessy con la pianta degli scavi di Pompei nell’Ottocento, realizzata per l’opera Pompeii, pubblicata nel 1832. A sinistra Ritratto di Giuseppe Fiorelli, il direttore degli scavi di Pompei dal 1863 al 1875. A destra pianta della Regio I, dall’opera Pompei e la regione sotterrata dal Vesuvio nell’anno 79, di Michele Ruggiero, pubblicata a Napoli nel 1879.

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LE MURA All’epoca della sua massima espansione la città era protetta da una cinta muraria di 3220 m di lunghezza. Gli scavi stratigrafici hanno evidenziato l’esistenza di sei fasi edilizie, racchiuse in un arco cronologico compreso tra la prima metà del VI secolo a.C. e l’età sillana. Le mura piú antiche erano realizzate con una pietra friabile locale, detta pappamonte e in lava tenera. Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. questa struttura venne demolita e sostituita da un’altra, a doppia cortina di lastre di travertino, con riempimento interno. Le fortificazioni successive, corrispondenti al periodo sannitico, sono caratterizzate dall’adozione di mura ad agger, in opera quadrata di calcare di Sarno, in cui, al posto della doppia cortina, era un terrapieno addossato al muro di facciata, sostenuto all’interno da un muro piú basso di controscarpa. Le porte esibiscono un’architettura complessa e si trasformano in veri e propri castelli affiancati da torri (porta di Stabia e porta di Nola). Negli ultimi decenni del II secolo a.C., si assiste al rifacimento della precedente fortificazione, con l’aggiunta di dodici torri concentrate nei punti piú esposti, il lato nord e quello orientale. In epoca imperiale il circuito murario perse la sua funzionalità e, a cavallo delle mura, nei punti piú panoramici, sorsero sontuose ville urbane.

In alto la torre di Mercurio (Torre XI), nella parte settentrionale di Pompei, tra la porta Ercolano e la porta Vesuvio. In basso la porta di Nocera.


a prima parte del percorso guiderà il visitatore nei luoghi in cui i Pompeiani svolgevano le attività pubbliche, praticavano i culti religiosi e amavano trascorrere il loro tempo libero. La nostra passeggiata inizia da porta Marina (1), che fu costruita, in blocchi di travertino, nei primi anni della colonia sillana. La monumentale struttura, che è formata da una galleria con volta a botte e bipartita, fu dotata di due varchi, di cui uno, il piú ampio, serviva al passaggio dei veicoli, l’altro, piú stretto, era riservato ai pedoni. Dalla porta usciva la via per il mare (via Marina), che si dirigeva verso il porto marittimo. La strada era costeggiata da lussuose residenze e dalle terme suburbane (2), poste su terrazzamenti artificiali, i cui resti sono ben visibili a ridosso delle mura. All’altezza delle terme suburbane è stata ipotizzata la presenza di un canale di collegamento tra il fiume Sarno e la città per facilitare il trasporto delle merci su piccole imbarcazioni. Poco oltre la porta, si incontrano i resti del tempio di Venere (3).

2

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1

3

porta marina

L


TERME SUBURBANE I

l grande impianto termale, situato sulla sinistra di via Marina, prima dell’ingresso in città, era sicuramente di proprietà privata, come provano alcune pietre di confine demaniale rinvenute nel cortile. Costruite all’inizio del I secolo d.C., le terme furono ristrutturate dopo il terremoto del 62 d.C. e rinnovate poco prima dell’eruzione del Vesuvio. L’accesso era dalla strada e, scendendo alcuni gradini, si arrivava in un grande cortile di forma irregolare, scandito, sul lato sud-occidentale, da un colonnato in laterizio. Sulla destra, dopo aver percorso un corridoio, si poteva prendere una scala interna per salire al piano superiore,

oppure entrare direttamente nello spogliatoio (apodyterium). In questa stanza si possono ancora vedere otto dei sedici quadretti pornografici di Quarto Stile che decoravano la zona superiore dei muri. Le scene riproducono le varie posizioni dell’amplesso praticato in coppia, o in gruppo, con tre o quattro partecipanti. Sotto ogni quadretto è dipinta una cassetta numerata, da I a XVI, che ricorda gli armadietti lignei nei quali si riponevano i vestiti. Il significato dei quadretti non è del tutto chiaro

2

Le terme suburbane. In primo piano l’ingresso con il cortile irregolare. Verso la destra si trovavano le stanze per il bagno, ben in vista l’esedra del calidarium. In fondo, sotto la tettoia moderna, era la grande piscina riscaldata.


PORTA MARINA

A destra lo spogliatoio (apodyterium) delle terme suburbane. In alto si vedono le cassette dipinte e numerate contrassegnate da quadretti erotici. In basso raffigurazione di un amplesso.

(vedi box in questa pagina). È interessante notare, inoltre, che queste scene erotiche furono in un secondo tempo cancellate da uno strato di intonaco sovraddipinto. Può darsi che negli ultimi anni, prima dell’eruzione, le terme suburbane avessero cambiato la destinazione d’uso oppure la gestione, e che il nuovo proprietario avesse deciso di scorporare i bagni pubblici dal bordello, o che una volta aperte le terme anche alle donne, quel tipo di decorazione non fosse ritenuta piú idonea. Dall’apodyterium si entrava in una grande anticamera, seguita, sulla destra, dal frigidarium, di forma irregolare, con la vasca per i bagni freddi. La sala era riccamente decorata con pitture di Quarto Stile che riproducevano, sulla parete di fondo, una battaglia navale, e su quella frontale, due navi in uscita da un porto. Fa parte del frigidarium anche una fontana ornata al centro da un mosaico con tre amorini che consegnano armi a Marte. I soggetti pittorici, ripartiti tra vita di mare, dio della guerra e pornografia, cosí come la vicinanza al porto e

| Le pitture erotiche delle terme suburbane | Le scenette a sfondo erotico che contrassegnavano i vani in cui i frequentatori delle terme riponevano i vestiti, sono state oggetto di varie interpretazioni. L’ipotesi piú accreditata le riferiva a prestazioni sessuali che si potevano ottenere in un postribolo in funzione al piano superiore, al quale si accedeva direttamente dalle aule termali tramite una scala. Recentemente, partendo dal fatto che le terme servivano anche un’utenza femminile, i quadretti erotici dell’apodyterium sono stati letti come un richiamo messo in atto dal proprietario per cooptare il maggior numero di clienti possibili servendosi dell’uso pubblicitario del sesso, come avviene ancora oggi nella comunicazione di massa. Nel mondo romano le scene a sfondo sessuale non erano destinate solo al gusto voyeuristico del pubblico maschile, come in Grecia, ma, essendo ubicate a decoro delle dimore private piú aristocratiche, erano evidentemente familiari anche per le signore. I quadretti delle terme suburbane sembrano essere stati scelti per il carattere di serialità che li rendeva adatti a decorare gli «armadietti» dello spogliatoio e, probabilmente, avranno avuto anche un intento umoristico, per entrambi i sessi, piuttosto che stimolare sessualmente gli avventori uomini.

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| Gli ambienti delle terme | apodyterium

Spogliatoio. Spesso è fornito di una panca in muratura addossata alle pareti per cambiarsi. Sopra la parete sono state ricavate nicchie che contenevano gli armadietti in legno per lasciare i vestiti, oppure, si fissavano delle mensole ai muri con dei chiodi, di cui sono ancora visibili i fori.

frigidarium

Sala per i bagni freddi. A Pompei questo ambiente non aveva un grande significato: mancava del tutto e venne unito allo spogliatoio, oppure si dotava di una vasca il piccolo laconicum preesistente. Solo a partire dal II secolo d.C. il frigidarium divenne la sala piú importante e lussuosa di tutto l’impianto termale, come attestano le terme imperiali a Roma.

tepidarium

Sala intermedia, con temperature moderate.

calidarium

8 9 10

Sala riscaldata, fornita di una vasca con acqua calda e di un bacino-fontana di acqua fredda.

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laconicum

4 3

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Sala piú piccola, solitamente di forma circolare, molto riscaldata per favorire la sudorazione, collocata, generalmente, vicino al praefurnium.

natatio

2

1

Piscina. A secondo dell’importanza dell’impianto termale, la piscina poteva essere piú o meno grande.

praefurnium Pianta delle terme suburbane. 1. Entrata. 2. Cortile. 3. Scala interna. 4. Apodyterium. 5. Anticamera. 6. Frigidarium. 7. Tepidarium. 8. Laconicum. 9. Calidarium. 10. Piscina. 11. Anticamera, apodyterium aggiunto.

Forno per il riscaldamento di calidarium e tepidarium, situato normalmente vicino al primo dei due. L’aria riscaldata circolava sotto il pavimento, rialzato con file di mattoncini, e saliva tramite tubi o intercapedini lungo le pareti per disperdersi nell’ambiente.

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PORTA MARINA

In alto la piscina riscaldata con le due anticamere che vennero aggiunte in una seconda fase ed erano accessibili sia dal cortile, sia dal calidarium. In basso veduta delle terme suburbane e degli edifici adiacenti fuori porta Marina. In primo piano si vede il basolato della strada medesima.

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l’ubicazione fuori dalle mura, fanno pensare che le terme fossero frequentate soprattutto da marinai e soldati, in cerca di divertimento durante la loro breve licenza a terra. Tornati nell’anticamera, si proseguiva per il settore termale riscaldato; prima si arrivava al tepidarium con temperatura moderata, da qui si passava nel grande calidarium per il bagno caldo, oppure nel piccolo laconicum, una specie di sauna di forma quadrangolare e dotata di quattro nicchie tonde. A nord-ovest di questa zona calda fu aggiunta una grande piscina, anch’essa riscaldata, accessibile dal cortile tramite un ambiente antistante, forse un altro spogliatoio. La piscina divenne una moda nella seconda metà del I secolo d.C. e sia le terme Stabiane, sia le terme centrali ne furono provviste. Questo dimostra che pochi anni prima dell’eruzione del Vesuvio le terme suburbane divennero oggetto di profonde ristrutturazioni per attirare una clientela sempre piú vasta ed esigente.


TEMPIO DI VENERE P

ercorsa la salita di via Marina, si giunge al grande piazzale del Tempio di Venere, la principale divinità venerata a Pompei a partire dalla fondazione della colonia, che assunse il nome di Colonia Cornelia Veneria Pompeiana. Questo grandioso complesso si estendeva su una terrazza di quasi 4000 mq con vista panoramica sul mare, secondo un modello ben attestato nei santuari laziali coevi (Palestrina, Tivoli, Terracina). Le indagini archeologiche hanno rivelato tracce di utilizzo dell’area fin dall’epoca arcaica, mentre al periodo sannitico (IV-III secolo a.C.) risalgono strutture decorate con pitture e pavimenti di Primo Stile, di incerta funzione, ma forse collegate a un uso cultuale a cui sembrano riportare i materiali votivi emersi dagli scavi. Una volta spianata l’area e demolite le costruzioni preesistenti, fu eretto il primo nucleo monumentale del santuario, che, secondo recenti interpretazioni, non risalirebbe all’età sillana, come in genere si pensava, ma alla seconda metà del II secolo a.C. Del primitivo tempio non rimane alcuna traccia,

a parte, forse, alcuni resti dell’architrave in calcare. I pochi resti attualmente visibili risalgono, in gran parte, al restauro successivo al terremoto del 62 d.C., che al momento dell’eruzione non era ancora terminato. Il tempio segue un orientamento nordsud ed è separato dalla via Marina da un alto muro in opera reticolata, costruito nell’ultimo periodo di vita della città. In epoca imperiale era circondato su tre lati da un portico colonnato a due ordini, di cui faceva parte l’elegante colonna con capitello corinzio, con la parte inferiore del fusto non scanalata, rialzata in situ. Il nucleo interno dell’edificio, costruito in opera cementizia rivestita in grandi blocchi squadrati, si conserva per un’altezza di cinque filari. Attualmente rimangono solo scarsissimi resti della pregevole decorazione in marmo del complesso che, come la maggior parte dei monumenti della città, fu oggetto di una sistematica spoliazione da parte dei saccheggiatori dopo l’eruzione del 79 d.C.

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In alto i resti del tempio di Venere. In lontananza si vede l’unica colonna del complesso, rialzata in situ.

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in dalle origini il Foro fu il centro della vita cittadina. Ubicata all’incrocio dei due nodi stradali principali, nord-sud (in direzione del Vesuvio) ed est-ovest (via dell’Abbondanza), la piazza aveva una forma piú o meno rettangolare ed era delimitata a ovest dal tempio di Apollo (6). A partire dal II secolo a.C. cominciò ad assumere l’aspetto monumentale che ben rifletteva le sue funzioni di centro politico, economico e commerciale della città. Non è chiaro in che stato fossero gli edifici e le sculture che decoravano la piazza al momento dell’eruzione del 79 d.C. Già durante gli scavi ottocenteschi furono notati l’aspetto spoglio in cui si trovavano i monumenti del Foro, privi dei pregevoli rivestimenti marmorei, e l’assenza delle statue che, in origine, abbellivano i portici e la piazza.

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l’area del foro

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Veduta di Pompei verso nord, con il Vesuvio sullo sfondo. In primo piano, si vede il Foro con il tempio di Giove (Capitolium); a sinistra è il tempio di Apollo; a destra si riconoscono l’edificio di Eumachia, il cosiddetto tempio di Vespasiano, il santuario dei Lari e il macellum.


PIAZZA DEL FORO I

l Foro era il centro della vita civile, religiosa e commerciale di Pompei. In origine la piazza, interdetta al passaggio dei carri, aveva una forma irregolare ed era chiusa da botteghe disposte lungo i lati maggiori. Nel II secolo a.C l’area subí una modifica radicale e assunse la forma di una pianta regolare allungata, con i due lati lunghi e quello meridionale circondati da portici colonnati; tutt’intorno si disposero gli edifici destinati alle funzioni pubbliche. Al centro del lato settentrionale venne eretto il tempio di Giove, mentre sul lato opposto si concentrarono gli edifici destinati all’attività politica e giudiziaria, la Basilica e il cosiddetto «Comizio». Su questa parte del Foro si aprono tre ambienti paralleli, quasi interamente in mattoni, che risalgono alla metà del I secolo d.C., ma presentano una precedente fase tardo-sannitica: si tratterebbe delle aule destinate ai magistrati e al senato locale, delle quali la centrale è stata identificata con la

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Curia, sede dei senatori (decuriones), l’altra con gli uffici dei duoviri, i magistrati piú importanti della colonia, mentre in quella absidata è stato riconosciuto il Tabularium, l’archivio pubblico della città. In età imperiale la piazza fu ripavimentata con lastre di calcare bianco (travertino), e si pensò anche di rifare il porticato con la medesima pietra, ma il lavoro non fu mai terminato. La sistemazione definitiva dell’area risale al I secolo d.C. ed è improntata alla celebrazione della casa imperiale. Lungo i portici sono ancora visibili le basi per le statue dei cittadini piú illustri, mentre, sul lato sud, di fronte agli edifici degli amministratori locali, erano collocati i podi piú monumentali che ospitavano le statue dell’imperatore su quadriga e della famiglia imperiale. Gli scavi non hanno restituito le sculture, asportate, come gran parte dell’arredo architettonico e ornamentale, dopo il terremoto del 62 d.C.

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L’AREA DEL FORO

BASILICA

La Basilica era a tre navate con colonne in mattoni. In fondo alla navata centrale si trovava il tribunale dei giudici con una facciata di sei colonne su due piani.

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L’

edificio occupa il settore sud-occidentale del Foro, con la facciata aperta su uno dei lati brevi e un orientamento leggermente diverso dagli altri monumenti, dovuto alla presenza di edifici piú antichi. Una serie di graffiti in lingua osca e uno in latino con data consolare del 78 a.C. incisi sulle sue pareti consente di datare con certezza la Basilica alla seconda metà del II secolo a.C. Si tratta di uno degli esempi piú antichi di questo tipo architettonico destinato all’amministrazione della giustizia e alle transazioni commerciali, che nasce a Roma verso la fine del III secolo a.C. L’entrata principale era costituita da un portico d’ingresso (chalcidicum) che si apriva sul Foro con cinque porte divise da pilastri in tufo. Sulla sinistra si apre uno stretto vano con un pozzo, destinato al personale della Basilica, che è stato esplorato fino a circa 20 m di profondità e ha restituito numerosi frammenti architettonici

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pertinenti al tetto dell’edificio distrutto dal terremoto del 62 d.C. Dal chalcidicum, attraverso quattro gradini di basalto, si saliva all’interno, diviso in tre navate da monumentali colonne in mattoni, tagliati in modo da comporre scanalature, ornate all’estremità da capitelli corinzi in tufo. In fondo alla navata centrale si può ammirare la scenografica facciata del tribunal, realizzata ispirandosi ai modelli dell’architettura ellenistica, costituita da sei colonne corinzie di tufo disposte su due piani. Questo ambiente, il cui aspetto risale ancora all’originaria sistemazione tardosannitica, era certamente destinato ai giudici che vi accedevano tramite delle scale in legno. Davanti al tribunal è un grande basamento, posto in fondo alla navata centrale, utilizzato per l’alloggiamento di una statua equestre, certamente dell’imperatore, che, in accordo con quanto prescritto da Vitruvio, circoscriveva una piccola area destinata al culto imperiale.


TEMPIO DI APOLLO

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T Statua in bronzo di Apollo saettante (100 a.C.-79 d.C.). Restaurata di recente, la scultura presenta sulla base, graffito in lingua osca, il gentilizio Mummius.

In basso il tempio di Apollo. Al centro è l’altare, con il lato breve verso l’ingresso. Sulla destra, il quadriportico con la copia della statua di Apollo.

ornando su via Marina, si raggiunge il tempio di Apollo, accessibile dal lato sud del quadriportico. Il grandioso complesso templare, ricondotto al dio ellenico grazie al rinvenimento di una statua bronzea che lo ritrae come arciere, ha origini antichissime. Apollo fu certamente la divinità protettrice (poliadica) di Pompei prima dell’istituzione del culto di Giove nell’area forense, e il suo tempio, direttamente affacciato sul Foro, era, nei primi secoli di vita della città, il centro religioso. Le piú antiche attestazioni ci riportano alla fine del VII secolo a.C., epoca a cui risalgono il muro occidentale del recinto (temenos), parte di un altare e la base di una colonna, che sembrerebbero documentare l’esistenza di un santuario all’aperto. Nella seconda metà del VI secolo a.C. venne innalzato il primo tempio, di tipo etrusco-italico, che ci ha restituito alcune terracotte architettoniche decorate e pochi resti delle strutture. Gli scavi hanno riportato alla luce, insieme a ciotole in bucchero con iscrizioni etrusche, una quantità notevole di ceramica greca di importazione che documenta la vitalità del culto fino al 475 a.C., epoca in cui sembra subire una brusca interruzione. Intorno alla

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VIA DELL’ABB

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ONDANZA

A sinistra planimetria generale del Foro con gli edifici adiacenti: 4. Piazza del Foro. 5. Basilica. 6. Tempio di Apollo. 7a. Mensa Ponderaria. 7b. Foro Olitorio. 7c. Latrine pubbliche. 10. Tempio di Giove (Capitolium). 11. Macellum. 12. Santuario del Culto Imperiale, o dei Lari Pubblici. 13.Tempio del Genio di Augusto o di Vespasiano. 14. Edificio di Eumachia. 15. Diribitorium.


Sulle due pagine ricostruzione di una scena di vita quotidiana nel Foro di Pompei. Al centro il Capitolium, il tempio piú importante della città. Ai lati i portici con le statue equestri dei cittadini piú illustri. A destra i resti del Capitolium e, sulla sinistra, uno degli archi onorari in opus latericium, originariamente rivestiti di marmo.

metà del II secolo a.C., smembrato l’antico edificio, venne edificato il nuovo tempio. Innalzato al centro di un quadriportico scandito da colonne ioniche di tufo, che in origine, forse, prevedeva un secondo piano corinzio, l’edificio evoca modelli ellenistici simili a quelli che gli architetti greci avevano realizzato a Roma (portico di Metello, divenuto poi portico d’Ottavia). Il tempio si presenta, oggi, come un periptero sine postico (senza colonne sul lato

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L’AREA DEL FORO

posteriore) di 6 x 9 colonne e sorge su un podio di tipo italico. La cella, piuttosto piccola, rivela una decorazione in bugnato di stucco, restauro d’epoca imperiale dopo il terremoto, che copre la decorazione di Primo Stile appartenente ancora all’edificio antico. A questa stessa fase (seconda metà del II secolo a.C.) risale l’elegante pavimento della cella in opus sectile, che sostituisce quello precedente in cocciopesto, formato da pietre colorate disposte con un disegno di cubi prospettici. Questo motivo ornamentale verrà poi adottato anche nel tempio di Giove e nella Casa del Fauno e si deve, probabilmente, al medesimo atelier di mosaicisti. Su una fascia d’ardesia che delimitava la pavimentazione è ancora leggibile un’epigrafe dedicatoria in lingua osca a caratteri metallici posta dal questore Oppio Campano, che fu autorizzato al restauro dalla locale assemblea, con il denaro offerto ad Apollo. Sulla sinistra della cella è visibile un blocco di tufo di forma ovale, probabilmente l’omphalos, emblema dell’Apollo delfico. La base della statua di culto, trafugata in antico, è posta in fondo alla cella. Nel corso del II secolo a.C. il culto di Apollo cominciò a perdere la sua importanza e cedette il posto a quello di Giove, divinità a cui fu innalzato un tempio nel Foro. Il nuovo corso storico è reso ancor piú evidente dalla separazione del temenos del santuario di Apollo dall’area forense tramite una serie di pilastri che, disposti secondo un ordine decrescente da nord a sud, dovevano correggere otticamente la lieve differenza di orientamento tra i due quartieri. In un secondo tempo, anche gli spazi tra i pilastri furono chiusi da muri e il Tempio di Apollo rimase isolato dal Foro; tuttavia, il complesso continuò a mantenere la sua importante funzione, come documenta l’apertura del porticato orientale da cui, in origine, si accedeva al Foro tramite dieci varchi. Al centro del cortile si trova l’altare in marmo greco, disposto con il lato breve verso l’ingresso del tempio, rifatto agli inizi del I secolo a.C. Come ricorda l’iscrizione, il merito fu di quattro magistrati, tra cui il Marcus Porcius a cui si deve la costruzione dell’Odeion e dell’Anfiteatro.

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MENSA PONDERARIA, FORO OLITORIO E LATRINE PUBBLICHE

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uesto gruppo di edifici occupa la metà del settore nord-occidentale della piazza e si dispone sul lato del muro di cinta che separa il Tempio di Apollo dal Foro. All’età sannitica risale la costruzione della Mensa ponderaria, l’ufficio pubblico adibito al controllo dei pesi e delle misure, che erano sottoposti a precise norme per arginare eventuali «ritocchi» da parte dei venditori. La struttura consisteva in due banconi di calcare sui quali erano dodici cavità di ampiezza diversa, corrispondenti ad altrettante misure di capacità a norma, fornite all’estremità inferiore di fori per fare uscire la merce dopo la verifica ponderale. Le cavità erano contrassegnate da didascalie in lingua osca, che attualmente non sono piú leggibili (tranne una, kuiniks, chenice), in quanto, dopo il 20 a.C., per ordine di Augusto, le unità


ponderali furono unificate in tutto il mondo romano e, di conseguenza, anche le cavità furono riadattate alle nuove misure. A Pompei questo significò l’abolizione delle unità di misura osche, e, quindi, la cancellazione delle didascalie sannitiche. Nei pressi della Mensa ponderaria si trova un porticato sostenuto da otto pilastri e con una serie di vani disposti a sud, generalmente identificato con il Foro Olitorio, il mercato destinato alla vendita di legumi e cereali. Questo ambiente è tuttora adibito a deposito di reperti archeologici di varia tipologia e provenienza, tra i quali figurano anche alcuni calchi delle vittime dell’eruzione. A seguire, si incontra l’entrata della latrina pubblica, risalente all’ultimo periodo di vita

della città, che era preceduta da un piccolo vano di disimpegno, in modo da non essere vista dalla strada. Il locale era dotato di un grande sedile forato, con canalina di spurgo ai lati, che poteva essere utilizzato contemporaneamente da almeno dieci persone. Si segnala, infine, un piccolo ambiente sotterraneo che si apriva sul Foro con una porta inquadrata da stipiti e architrave in basalto, in cui viene generalmente riconosciuta la sede del tesoro pubblico della città (Aerarium). A questo punto, prima di continuare la visita all’interno dell’area forense, si consiglia, per uniformità di percorso, di uscire dalla piazza e recarsi subito alle terme del Foro e al tempio della Fortuna Augusta.

Nella pagina accanto la Mensa ponderaria, con le cavità per il controllo di pesi e misure. In basso il Foro Olitorio, oggi adibito a deposito di reperti archeologici.

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L’AREA DEL FORO

LE TERME DEL FORO

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Pianta delle terme del Foro. 1. Ingressi. 2. Apodyterium. 3. Frigidarium. 4. Tepidarium. 5. Calidarium. 6. Palestra. 7. Settore femminile.

a fondazione della colonia e l’insediamento dei veterani cambiarono la vita dei Pompeiani e gli anni dopo l’80 a.C. furono interessati da un grande sviluppo urbanistico. Le terme Stabiane non bastavano piú ad accogliere la massa sempre piú folta degli avventori che si riversava in città, e cosí si decise di costruire, con il denaro pubblico, altri bagni, destinati a entrambi i sessi. Le nuove terme furono erette a ridosso del Foro, in prossimità del quartiere residenziale, nella parte settentrionale della città. L’impianto doveva modellarsi su quello delle terme Stabiane, ma fu necessario adeguarsi a uno spazio piú ristretto; la palestra, soprattutto, divenne molto piú piccola, mentre la piscina era del tutto assente. Il cortile, con portici su

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tre lati, e gli ambienti adiacenti verso sud furono gravemente danneggiati dal bombardamento alleato del 1943; oggi questo settore, del tutto scomparso, è interamente occupato da un bar-ristorante. Tre diverse entrate davano accesso alla sezione maschile, una sola a quella femminile, molto piú piccola e chiusa verso il cortile. L’ingresso centrale era su via del Foro – come l’attuale, oggi un po’ nascosto, subito dopo il bar-ristorante – al centro di una serie di botteghe. Uno stretto corridoio consentiva, a sinistra, l’accesso alla palestra, e, a destra, all’apodyterium. Altri due ingressi secondari erano, uno sul retro, nel vicolo delle Terme, e l’altro nella via delle Terme; un po’ piú avanti su questa strada era l’entrata al settore femminile. Lo spogliatoio maschile (apodyterium) è provvisto di banchi in muratura a ridosso delle pareti lunghe, ma non delle nicchie per i vestiti; alcuni fori individuati sul muro fanno pensare che il guardaroba consistesse in scaffali o mensole in legno, fissate con chiodi. Dallo spogliatoio si accedeva al piccolo frigidarium, che era una copia quasi esatta di quello delle terme Stabiane, costituito da un ambiente quadrato con una cupola tonda e quattro absidi negli angoli, fornito di una vasca circolare. Anche in questo caso la vasca rivestita con lastre di marmo, riservata ai bagni freddi, fu aggiunta in un secondo momento, quando


A sinistra il portico settentrionale del cortile delle terme del Foro. Qui accanto, dall’alto in basso uno dei telamoni che, nel tepidarium, separavano le nicchie in cui i clienti lasciavano i vestiti; la vasca riscaldata del calidarium; la decorazione della volta del tepidarium, eseguita dopo il terremoto del 62 d.C.

l’originario laconicum perse la sua funzione. Dallo spogliatoio si proseguiva per il tepidarium, che non veniva riscaldato con il sistema a ipocausto, come l’adiacente calidarium, ma grazie a un grande braciere in bronzo, donato dal ricco imprenditore Marcus Nigidius Vaccula, insieme a tre panche, intorno alla metà del I secolo d.C. Nel settore femminile, invece, non soltanto il calidarium, ma anche il tepidarium erano riscaldati a ipocausto. Il tepidarium maschile presenta una fila di nicchie, separate tra di loro da telamoni decorativi in terracotta; venne probabilmente usato come spogliatoio aggiuntivo. La decorazione delle pareti e il pavimento a mosaico bianco con fascia nera si possono datare nella prima fase delle terme, poco dopo l’80 a.C.; la volta, invece, rivestita con stucco a rilievo geometrico e figurativo, risale alla ristrutturazione eseguita dopo il terremoto del 62 d.C. Proseguendo nel percorso termale, si raggiunge il calidarium, fornito, su un lato, di una grande vasca rettangolare per i bagni caldi e sull’altro di un’abside con il labrum, il bacinofontana con acqua fredda. Dietro il calidarium si trovava il forno, il praefurnium, che distribuiva aria e acqua calda sia al calidarium maschile, sia alle sale riscaldate del settore femminile. Il personale di servizio poteva raggiungerlo tramite un piccolo ingresso da via

delle Terme o lungo un corridoio buio e stretto, in collegamento con lo spogliatoio. Il settore femminile era molto piú piccolo e chiuso in se stesso, senza passaggio né verso la palestra, né verso il settore maschile. Da un ingresso autonomo da via delle Terme si accedeva allo spogliatoio. L’apodyterium era provvisto originariamente di armadietti lignei fissati alle pareti e di una grande vasca per i bagni freddi; la sala serviva nello stesso tempo anche come frigidarium. Da qui si passava al tepidarium e, alla fine del percorso, al calidarium, con la vasca d’acqua calda sulla destra dietro l’entrata e il labrum, il bacino circolare, in fondo.

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L’AREA DEL FORO

TEMPIO DELLA FORTUNA AUGUSTA 9

A I resti del tempio della Fortuna Augusta. In fondo si vede l’edicola per la statua di culto. Delle quattro colonne sulla fronte è rimasto in situ solo un capitello di età augustea.

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nord del Foro, all’incrocio con via della Fortuna, il duoviro Marco Tullio, come ci racconta l’iscrizione dedicatoria ancora in situ, costruí a sue spese e in un terreno di sua proprietà, il tempio della Fortuna Augusta. I pochi resti dell’edificio permettono di riconoscere un piccolo tempio con quattro colonne sulla fronte (prostilo tetrastilo), eretto su alto podio, accessibile da una gradinata all’interno della quale venne collocato l’altare. La cella, profonda e articolata da nicchie che ospitavano statue onorarie verosimilmente raffiguranti i membri della famiglia imperiale, presenta sul fondo un’edicola destinata al simulacro della Fortuna Augusta. E può anche darsi che la cella accogliesse anche una statua

dello stesso Marco Tullio. Il culto praticato evoca quello del tempio della Fortuna Redux di Roma, consacrato ad Augusto nel 19 a.C., in occasione del suo ritorno dalla Siria. I lavori dell’edificio pompeiano, costruito con evidenti finalità politiche, iniziarono nel 2 a.C. e furono completati nel 3 d.C., dunque in piena età augustea. In quegli stessi anni venne istituito il collegio dei ministri della Fortuna Augusta, i sacerdoti a cui spettava la cura del culto che, in origine, era di carattere privato e, per questo, era stato collocato in un’area esterna a quella pubblica del Foro. Tornando al Foro dalla strada che passa sotto il grande arco in laterizio a lato del Capitolium, si proceda con la visita di questo monumento.


TEMPIO DI GIOVE – CAPITOLIUM 10

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intero settore nord del piazzale forense è occupato dal tempio di Giove, subentrato ad Apollo come divinità poliade della città nel II secolo a.C. A questa epoca risale l’edificio originario, un tempio tuscanico su alto podio scandito da sei colonne in tufo con capitelli corinzi sulla fronte e quattro sui lati. Il tempio, accessibile da un’ampia scalinata frontale, era preceduto da un altare di forma rettangolare collocato sul pavimento del Foro. La cella occupava circa la metà della superficie del podio ed esibiva sul fondo il basamento destinato al simulacro del dio. Attraverso due aperture, una al centro della scalinata e l’altra sul retro, si entrava nelle favissae, gli ambienti sotterranei nei quali si custodivano gli arredi per il culto e gli oggetti votivi. Nei primi anni della colonia, l’edificio subí profonde modifiche strutturali legate alla sua trasformazione in Capitolium, quando venne ridedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva. In questa occasione fu sostituita la base originaria con una piú adatta a ospitare le tre

statue di culto, di cui si conserva solo la testa colossale di Giove in marmo, una replica del tipo detto Otricoli, creato dall’artista neo-attico Apollonios in età sillana. La cella venne ingrandita spostando in avanti il muro di facciata, acquistò due colonnati laterali e fu decorata con pitture di Secondo Stile. Il pavimento, come quello del Tempio di Apollo e della Casa del Fauno, era ornato da piastrelle di pietra colorate disposte in modo da formare un motivo a cubi prospettici (opus scutulatum). L’altare, inizialmente davanti al tempio, fu posto su un’ampia tribuna frontale che venne a sostituire la scalinata d’accesso. La ristrutturazione dell’edificio si pone in linea con il lungo processo di romanizzazione e la totale assimilazione del culto locale a quello della triade capitolina di Roma. Il podio, ai lati del quale erano collocate delle statue equestri, è stato ampliato e restaurato in età tiberiana.

In alto planimetria del Capitolium. Sul fondo è il basamento che sosteneva le statue di culto della triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva. In basso resti del Capitolium con il Vesuvio sullo sfondo.


L’AREA DEL FORO

MACELLUM

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A destra planimetria del macellum. In basso resti del macellum. Al centro è la struttura a tholos destinata alla pulitura del pesce. In fondo si vede il sacello della casa imperiale.

l mercato della città fu riservato l’angolo nord-est del Foro, una zona vicina al centro, ma non tanto da turbare, con il suo affollato viavai di gente, la vita quotidiana della piazza. La costruzione originaria dell’edificio, mutuato dall’architettura punica, ma presente anche in Grecia, risale al II secolo a.C. La struttura esistente, secondo quanto emerso dagli scavi, è il risultato di una serie di interventi di ripristino effettuati tra l’epoca del terremoto (62 d.C.) e quella dell’eruzione (79 d.C.). Dotato di due ingressi e fiancheggiato da una fila di botteghe, il complesso era scandito, verso il Foro, da portici colonnati, un tempo impreziositi dalle statue onorarie dei cittadini illustri, di cui rimangono solo i basamenti. L’ingresso principale al mercato è diviso in due entrate da un’edicola inquadrata da raffinate colonne con capitelli figurati, provenienti da una tomba della necropoli fuori porta Ercolano. Sulla sinistra, la parete conserva ancora gran parte della pregevole decorazione di Quarto Stile con quadri di soggetto mitologico (tra cui Io e Argo,

Ulisse riconosciuto da Penelope, Medea che trama la morte dei figli), alternati ad architetture fantastiche. L’interno dell’edificio è organizzato intorno a una corte rettangolare porticata, che presenta al centro un ambiente circolare, simile a una tholos, utilizzato, come risulta dalla grande quantità di lische rinvenute, per la pulitura del pesce. I dodici basamenti in calcare ancora in situ, fungevano da supporto per altrettanti pali


In alto e a destra il sacello della casa imperiale. Tramite una scalinata rivestita di lastre di marmo si accedeva all’edificio. Le pareti sono scandite da quattro nicchie che in origine ospitavano le statue della famiglia imperiale.

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L’AREA DEL FORO

Parete dell’ingresso del macellum con decorazioni di Quarto Stile a carattere mitologico. In fondo due teche di vetro conservano i calchi di due vittime dell’eruzione.

lignei sui quali poggiava un tetto conico che serviva a coprire la struttura a tholos. Alla vendita al dettaglio dei prodotti ittici e della carne, era riservato un vano ubicato nell’angolo nord-orientale del cortile, dotato di un bancone a ferro di cavallo provvisto di un impianto idrico, certamente funzionale alla preparazione del pesce. Sul lato di fondo di questo medesimo settore si aprono tre grandi ambienti, di cui quello al centro è riconoscibile come il sacello della casa imperiale. La stanza, posta su di un alto podio, accessibile tramite una scalinata, presentava le pareti scandite da una serie di nicchie che hanno restituito due sculture in marmo e il braccio di una terza, con un globo nella mano, appartenuto verosimilmente alla statua di un imperatore.

SANTUARIO DEL CULTO IMPERIALE 12

(O SANTUARIO DEI LARI PUBBLICI)

In basso resti del santuario del culto imperiale o dei Lari Pubblici.

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uesto ambiente a cielo aperto, costruito interamente in mattoni, si dispone su un ampio cortile dalle forme architettoniche molto complesse e articolate, tipiche dell’età neroniana e flavia. Del portico colonnato che

circondava la piazza rimangono in situ otto basamenti quadrangolari di basalto; al centro era un altare di cui attualmente sono visibili le fondazioni. Sul muro di fondo si aprono tre nicchie, due rettangolari ai lati e una absidale nel mezzo, in cui va riconosciuto il sacello vero e proprio che ospitava la statua dell’imperatore.


TEMPIO DEL GENIO DI AUGUSTO 13

(O TEMPIO DI VESPASIANO)

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l tempio fu eretto in età augustea-tiberiana come sede del culto imperiale. La facciata d’ingresso, realizzata in mattoni (opus latericium) e, in origine, rivestita in marmo, è il risultato di restauri successivi al terremoto del 62 d.C. L’area consiste in un cortile scoperto, un tempo preceduto da un breve portico colonnato, con le pareti scandite da nicchie inquadrate da semicolonne che incorniciano grandi finestre cieche, sormontate da timpani lunati e triangolari. La parete di fondo è occupata dal piccolo tempio in opera laterizia, preceduto da un alto podio al quale si accedeva per mezzo di due scalette laterali. In fondo alla cella dell’edificio, dotato di quattro colonne in facciata (tetrastilo), trovava posto la statua di culto. Al centro del cortile si conserva un imponente altare in marmo, che, sulla facciata principale, rivolta verso il Foro, presenta la scena del sacrificio di un toro e, ai lati, gli utensili e gli oggetti legati al rito. Sullo sfondo è

raffigurato un tempietto tetrastilo molto simile a questo stesso edificio. L’attribuzione corrente del santuario al Genio di Vespasiano, fautore di molti provvedimenti a favore di Pompei, è stata riconsiderata sulla base di un’iscrizione che ricorda un tempio dedicato al Genio di Augusto dalla sacerdotessa pubblica Mamia, discendente di un’importante famiglia sannitica, a proprie spese e su un suolo di sua proprietà. La tomba di Mamia, sepolta nella necropoli di Porta Ercolano, era ancora in costruzione nel 29 d.C. per cui l’edificio da lei dedicato, risalente alla tarda età augustea o ai primi anni del regno di Tiberio, potrebbe essere proprio questo, anche per i tratti stilistici dell’altare, riconducibili alla stessa epoca. Il tempio sarebbe stato dunque dedicato al Genio di Ottaviano, primo degli imperatori a cui fu conferito il titolo religioso di «Augusto», e poi, di volta in volta, al Genio dei suoi successori e, da ultimo, a Tito Flavio Vespasiano.

I resti del tempio del Genio di Augusto, detto anche di Vespasiano. In primo piano al centro è l’altare in marmo con la scena del sacrificio di un toro. Addossato al muro di fondo è l’edificio templare che in origine aveva quattro colonne sulla fronte (tetrastilo).

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L’AREA DEL FORO

EDIFICIO DI EUMACHIA

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Statua della sacerdotessa Eumachia, dall’omonimo edificio di Pompei. I sec. d.C. La scultura fu dedicata dai fullones alla loro patrona.

a costruzione di questo edificio, affacciato sul Foro in corrispondenza dell’incrocio con via dell’Abbondanza, si deve alla sacerdotessa Eumachia, come riferisce l’iscrizione dedicatoria redatta in duplice copia: «Eumachia, figlia di Lucio, sacerdotessa pubblica di Venere, a nome suo e del figlio Marco Numistrio Frontone, costruí a sue spese il chalcidicum, la crypta e il portico, dedicandoli alla Concordia Augusta e a Pietas». L’epigrafe manifesta un esplicito atto di ossequio politico nei confronti della casa imperiale giulio-claudia, ben evidenziato anche dal programma figurativo, allestito a decoro dell’edificio, con le statue della Concordia Augusta esposta nella grande abside del cortile porticato e quelle di Romolo ed Enea, rispettivamente fondatore di Roma e progenitore della gens Iulia, attestate dai frammenti degli elogia rinvenuti in due nicchie del vestibolo. Sulla facciata in mattoni, risalente al restauro successivo al terremoto, si apre l’elegante portale, incorniciato da un pregevole fregio marmoreo con girali d’acanto, animato da uccelli e insetti. L’iscrizione dedicatoria menziona le parti strutturali dell’edificio, che è stato possibile riconoscere: il chalcidicum è il grande portico davanti all’ingresso (vestibolo), utilizzato come spazio celebrativo, la crypta corrisponde all’ambulacro coperto (criptoportico) che circonda su tre lati il peristilio, dotato di finestre per la luce e, stando ad alcune descrizioni ottocentesche, decorato da pitture in Terzo Stile su fondo nero, e infine la porticus, il cortile porticato, di cui rimangono pochi resti, che sembra fosse costituito da due ordini di colonne corinzie in marmo. Per quanto riguarda la funzione di questa complessa struttura, la dedica non ci fornisce alcuna indicazione. La scoperta di una statua di Eumachia nella nicchia sul fondo del criptoportico, offerta dalla corporazione dei

In alto l’edificio di Eumachia. In primo piano il portale decorato da un fregio marmoreo con girali d’acanto, uccelli e insetti. Si vedono i frammenti dell’iscrizione dedicatoria in cui sono menzionati alcuni ambienti dell’edificio.


lanaioli (fullones) alla loro patrona, ha fatto pensare che si trattasse di un mercato all’ingrosso della lana, con la merce esposta nel criptoportico. Oltre a questa ipotesi, si è attribuita all’edificio una possibile destinazione cultuale, sulla base delle stringenti affinità architettoniche e planimetriche riscontrate con la cosiddetta «Basilica» di Ercolano, in cui alcuni riconoscono la sede adibita al culto della famiglia imperiale (Augusteum). Un’altra ipotesi, aggiuntasi in tempi recenti, identifica l’edificio come un mercato di schiavi, soprattutto per la struttura della cripta, che ricorderebbe un luogo di reclusione.

IL DIRIBITORIUM 15

L’ In basso resti di uno degli edifici dell’area forense destinati all’amministrazione pubblica.

angolo sud-orientale del Foro è occupato da un recinto quadrangolare chiuso da un muro in cui si aprono due ingressi, con una tribuna sopraelevata. Nella struttura, con facciata di tufo, costruita alla fine dell’età sannitica e piú volte restaurata nell’epoca successiva alla colonia, si è voluto, generalmente, riconoscere il Comizio, l’area che a Roma veniva destinata allo svolgimento delle piú antiche assemblee popolari (comitia curiata). Si tratta senza dubbio di un edificio di un certo rilievo nella vita politica della città, come documentano le tracce di lastre metalliche che erano affisse sul lato meridionale della facciata contenenti, forse, qualche documento pubblico, e la presenza di un alto podio. È stato ipotizzato che, in realtà, si tratti del Diribitorium di Pompei, il luogo destinato alle operazioni di scrutinio e alla proclamazione degli eletti alle piú alte cariche cittadine, dal momento che le elezioni si svolgevano nel Foro.

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luoghi del piacere

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l decumano inferiore di Pompei, via dell’Abbondanza (16), comincia i coincidenza del Foro e prosegue verso est, fino alla porta di Sarno. Si tratta di uno dei principali assi viari della città che collega il settore est (l’anfiteatro e alcune importanti case) con il centro della città. Il nome «via dell’Abbondanza» deriva dalla figurina femminile con cornucopia scolpita a rilievo su una fontana pubblica identificata con la Concordia Augusta. All’incrocio di via dell’Abbondanza con via Stabiana si trovano le terme Stabiane (17) e, non lontano, si incontra il lupanare (19). Proseguendo sulla via Stabiana per due isolati verso nord, si raggiungono le terme centrali (18), l’impianto termale piú recente di Pompei, che al momento dell’eruzione era ancora in costruzione. Gli impianti termali erano il primo luogo in cui i Romani ricercavano il piacere: l’ingresso costava poco o era addirittura gratuito. Di nomra, chi frequentava le terme non veniva per lavarsi, o almeno non soltanto.

Nella pagina accanto pianta delle terme Stabiane. 1. Ingresso principale. 2. Palestra. 3. Piscina. 4. Latrina. 5. Apodyterium. 6. Frigidarium. 7. Tepidarium. 8. Calidarium. 9-12. Settore femminile. 13. Praefurnium. In basso l’apodyterium femminile. Anche nello spogliatoio delle donne erano collocate le nicchie per gli armadietti lignei. In fondo, addossata alla parete, è la vasca per i bagni freddi, aggiunta in età augustea.


TERME STABIANE L’

ingresso principale – per soli uomini – si trovava su via dell’Abbondanza, e, una volta entrati, si accedeva alla palestra, al grande cortile, dotato di portici su tre lati, e alla piscina, con stanze adiacenti sul lato occidentale. Dietro il portico del lato lungo si collocano le diverse sale per il bagno caldo e freddo. La struttura è divisa in due settori, una parte per gli uomini e una parte, piú piccola, riservata alle donne. Nella zona settentrionale si trovano altri ambienti pertinenti alle terme, la stanza del balneator, il gestore dell’impianto, e le latrine. Le prime terme pubbliche di Pompei vennero costruite tra l’inizio e la metà del III secolo a.C. Il nucleo originario includeva la palestra porticata per l’allenamento sportivo e, nella parte settentrionale, piccole, anguste stanze, dotate di bacini in muratura per lavarsi. Solo in un secondo tempo, con il grande programma

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LUOGHI DEL PIACERE

urbanistico del II secolo a.C. che trasformò Pompei in una vera e propria città, furono aggiunte le sale situate sul lato orientale della palestra. Dopo la deduzione della colonia e, soprattutto, in età augustea, molte furono le ristrutturazioni e le aggiunte; ulteriori restauri si resero necessari anche in seguito, per riparare i danni causati dal terremoto. Al momento dell’eruzione del Vesuvio era agibile solo il settore femminile delle terme, in quello maschile mancavano il pavimento e le condutture dell’acqua. Appena entrati, girando a destra, si raggiungeva un piccolo vestibolo che precedeva lo spogliatoio (apodyterium). Una panca in muratura, che serviva per cambiarsi o aspettare il proprio turno, corre lungo i lati della stanza. In questo ambiente si conservano

anche i calchi di due vittime dell’eruzione del Vesuvio. Dallo spogliatoio si poteva ripassare per il vestibolo e accedere al frigidarium, una piccola sala con quattro absidi, quasi interamente occupata da una piscina rotonda interrata, per il bagno freddo. Costruita poco dopo l’80 a.C., la sala, in origine, era stata probabilmente adibita a laconicum, un ambiente per la sauna che era sempre molto ben riscaldato grazie a un grande braciere collocato al centro. Dall’apodyterium si poteva anche accedere al tepidarium, la sala moderatamente riscaldata, dotata, sul lato breve, di una grande vasca per le abluzioni. Al momento dell’eruzione del Vesuvio il pavimento era in restauro. Si vede ancora il riscaldamento a ipocausto, di cui è possibile capire il funzionamento: il pavimento era stato

18| Terme centrali | Dopo il terremoto del 62 d.C. si decise di costruire un nuovo impianto termale all’incrocio tra via Stabiana e via Nolana, nella parte settentrionale di Pompei. Queste terme erano destinate in primo luogo al quartiere residenziale del settore nord, ma, essendo ubicate in una posizione abbastanza centrale, erano facilmente raggiungibili da tutta la città. Il progetto originario prevedeva di inglobare un’insula intera, probabilmente in una zona molto danneggiata dal terremoto; fatto sta che furono rasi al suolo gli edifici preesistenti e con le loro macerie si costruí il muro di recinzione. L’ingresso principale era da via Nolana, ma si poteva entrare anche da via Stabiana, mentre un’entrata di servizio si trovava sulla parte meridionale, all’angolo con la via Stabiana, e portava direttamente su una latrina. Da via Nolana si passava per due piccoli ambienti, forse la cassa e una guardiola, e si accedeva subito alla palestra. A sinistra erano le scale per il piano superiore, poi seguiva l’impianto termale vero e proprio. Attraversando un grande vestibolo con vani annessi, forse delle botteghe, si raggiungeva l’apodyterium, dotato di una grande vasca rettangolare sul lato est. A quanto pare, lo spogliatoio doveva servire anche come frigidarium, visto che una sala per i bagni freddi non era prevista. Dall’apodyterium si passava poi al tepidarium, al quale venne aggiunta una piccola sala quadrata con quattro absidi, il laconicum, destinata ai bagni di sudore. Il calidarium, provvisto di due piscine d’acqua calda lungo i lati brevi, era chiuso su se stesso, e, per uscire, si doveva attraversare nuovamente il tepidarium. Al momento dell’eruzione del Vesuvio, le terme erano sicuramente chiuse al pubblico, perché ancora in costruzione. Il cortile non era ultimato, mancavano i portici sui lati, come anche la grande piscina nella parte orientale, davanti alle sale riscaldate. Queste ultime erano quasi pronte, aspettavano solo di essere dipinte e decorate con rilievi in stucco. Non c’erano ancora i forni per il riscaldamento e anche le condutture dell’acqua non erano state ultimate. È interessante notare come le terme non siano ripartite in due settori, per cui o l’impianto era per i soli uomini, oppure si regolava la divisione dei sessi con orari d’apertura diversi per gli uomini e per le donne.

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rialzato con pilastri di mattoncini, le suspensurae, per permettere all’aria calda circolante di riscaldarlo da sotto e di defluire verso l’alto attraverso intercapedini nelle pareti, diffondendo cosí il calore anche nella parte superiore della stanza. Il calidarium, adiacente al tepidarium, era riscaldato con lo stesso sistema, ma il calore era piú forte per la vicinanza delle fornaci. Sul lato orientale della stanza, era stata collocata una grande vasca rettangolare con acqua calda, mentre sul lato opposto era il labrum circolare, il bacinofontana d’acqua fredda. In età antica, non si poteva entrare nel settore femminile dalla palestra. Delle due entrate, una era su via Stabiana, l’altra, invece, consentiva di accedere all’impianto, tramite un lungo corridoio, da via del Lupanare. Attualmente, una porta che si apre a nord-ovest del portico, permette di raggiungere l’apodyterium femminile percorrendo un lungo vano di passaggio. Come attestato per il settore maschile, anche nello spogliatoio delle donne erano collocate le nicchie per gli armadietti lignei. Le terme femminili non presentano un frigidarium, ma, probabilmente in epoca augustea, fu aggiunta una vasca nell’angolo sud-ovest per i bagni freddi. Il tepidarium e il calidarium sono piú piccoli di quelli maschili, ma per il resto sono abbastanza simili. Il calidarium femminile si trova direttamente a ridosso di quello maschile, separato solo dal praefurnium, che riscaldava i due settori contemporaneamente. Il lato occidentale della palestra fu occupato da una grande piscina interrata e completamente rivestita di marmo, fornita di due stanze, ognuna delle quali, con una vasca per le abluzioni, e da uno spogliatoio a sud. A nord della palestra si trovano una serie di ambienti di servizio che sono databili al III secolo a.C. Si tratta dunque della parte piú antica, relativa al primo impianto termale, che, probabilmente, in origine era costituito da piccoli vani con vasca di tipo ellenistico. Vicino a questi ambienti si trovano anche una latrina, aggiunta in un secondo tempo, e un pozzo. Un po’ piú avanti, sotto il portico settentrionale, era la stanza del balneator.

LUPANARE

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I

l bordello «ufficiale» di Pompei era situato in uno strategico punto di passaggio, all’incrocio di due vicoli, vicino alle affollate terme Stabiane e alla trafficatissima via dell’Abbondanza. Africanus e Victor erano i due lenoni che gestivano questo angusto locale a due piani, dotato di due ingressi, uno su vicolo del Lupanare, l’altro su quello del Balcone Pensile. All’entrata principale i clienti erano accolti dalla figura apotropaica di un Priapo bifallico che reggeva i suoi due attributi, orientadoli verso direzioni divergenti. Il piano terra aveva cinque stanzette, arredate con letti in muratura addossati alle pareti, ai quali venivano aggiunti materassi, cuscini e tessuti vari per rendere gli amplessi piú confortevoli. Sulla parete di fondo era la latrina, che un muretto congeniato ad hoc nascondeva agli occhi degli avventori. Una scala raggiungeva la balconata del piano superiore, che girava intorno all’edificio e immetteva in altre cinque stanze, utilizzate forse dai gestori o come ulteriori cellae meretriciae. Nel locale, come ci svelano i graffiti, lavorava una ventina di ragazze, alcune decisamente romane, come Fabia e Restituta, altre, invece, si chiamavano con nomi greci, ma probabilmente, in molti casi, si trattava di pseudonimi utilizzati per dare un tocco «esotico» alle prestazioni.

Nella pagina accanto i resti delle terme centrali. In basso il letto in muratura realizzato all’interno di una delle stanze (cellae meretriciae) del lupanare di Pompei.

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uesto settore della città è occupato da una piazza irregolare, il Foro triangolare (20), cosí chiamato perché il suo lato nord ricorda appunto il vertice superiore di un triangolo. Il Foro, al centro del quale esisteva fin dal VI secolo a.C. il tempio Dorico, sorgeva sopra uno sperone di roccia lavica in posizione panoramica sul mare. Nel II secolo a.C. l’area fu oggetto di una radicale trasformazione e la piazza assunse un aspetto monumentale. Fu costruita la tholos intorno al pozzo e venne eretto un portico colonnato a forma di gomito che lasciava aperto il lato sud-ovest cosí da non ostruire la vista panoramica. Al complesso furono aggiunti, nel tempo, edifici di cattere pubblico, quali il teatro grande (24) con il quadriportico post scaenam, la palestra sannitica (21) e l’Odeion (26), e due santuari, dedicati, rispettivamente, a Esculapio (23) e Iside (22). Questo quartiere periferico della città divenne, cosí, un polo di riferimento culturale e religioso sia per i Pompeiani, sia per i viaggiatori occasionali.

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luoghi di svago

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In alto Foro triangolare. Le quattro colonne rimaste in piedi della tholos che racchiudeva un semplice pozzo o, secondo un’altra ipotesi, una fossa sacrificale. Nella pagina accanto un tratto del portico con colonne doriche che circondava la piazza triangolare del Foro.


FORO TRIANGOLARE

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A

ll’incrocio di via dei Teatri con via del tempio di Iside, si trovava l’entrata monumentale con colonne ioniche su una piazza di forma triangolare, circondata su due lati da un porticato di novantacinque colonne doriche e databile nel II secolo a.C. Il lato meridionale fu lasciato aperto per non disturbare il panorama verso il mare. Il colonnato orientale serviva come xystus, ovvero pista coperta per gli allenamenti sportivi, alla contigua palestra sannitica. Sulla piazza stessa si erge il tempio Dorico, allineato topograficamente con il lato lungo verso il mare. Si tratta di uno dei primi templi di Pompei, eretto poco dopo la metà del VI secolo a.C. e ricostruito nel II secolo a.C., quando venne rimaneggiata tutta la zona del Foro

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LUOGHI DI SVAGO

triangolare. In età imperiale l’edificio fu probabilmente sconsacrato e messo fuori uso, visto il completo abbandono in cui versava al momento dell’eruzione del Vesuvio. Del tempio si conserva quasi unicamente il basamento, ma è certo che all’origine un peristilio di 7 x 11 colonne circondava il naos su tutti e quattro i lati. L’edificio seguiva lo schema greco del peripteros, anche se in lunghezza molto compresso e aveva il basamento che livellava il terreno scosceso con un numero diseguale di gradini sui lati, soluzioni che nel mondo greco erano impensabili. Grazie a un’iscrizione in lingua osca, databile negli anni 80-70 a.C., sappiamo che, in epoca romana, il tempio Dorico era dedicato a Minerva e forse anche a Ercole. Non lontano dal Tempio Dorico si trovano le rovine di una tholos, un edificio rotondo del quale restano in piedi quattro colonne doriche e un frammento di architrave. Un’iscrizione in lingua osca ci informa che la tholos venne realizzata dal magistrato sannitico Numerius Trebius. Questa struttura, forse, rivestiva un semplice pozzo scavato nella lava, ma Planimetria della zona dei teatri. 25. Il grande quadriportico che, dopo il sisma del 62 d.C., ospitò la scuola dei gladiatori. 24. Il teatro grande. 26. Il teatro piccolo (Odeion). 21. La palestra sannitica. 22. Il tempio di Iside. 23. Il tempio di Esculapio.

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potrebbe trattarsi anche di una fossa sacrificale monumentalizzata in connessione con la nascita della città. Quest’ultima interpretazione si basa sull’eventuale rapporto con i resti del recinto rettangolare davanti al tempio Dorico, che potrebbe delimitare la tomba simbolica di Eracle, il mitico fondatore di Pompei. La zona del Foro triangolare nacque come area sacra agli albori della città. Nel II secolo a.C. era in stato di rovina e allora si decise di rivitalizzarla restaurando il tempio Dorico e costruendo il grande portico con il monumentale ingresso. Cosí si delimitò chiaramente l’area sacra, mentre con lo stesso progetto urbanistico, si trasformò la zona adiacente in un centro culturale e ricreativo, con la palestra e il teatro grande.


PALESTRA SANNITICA E «TERME REPUBBLICANE» 21

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In alto veduta del portico dei teatri. Sulla sinistra si intravedono le ultime file del teatro grande.

A destra il Doriforo di Policleto. Copia romana di un originale in bronzo del 440 a.C. circa.

a via del tempio di Iside si entra in un grande cortile porticato su tre lati. Originariamente si trattava di un quadriportico rettangolare della fine del II secolo a.C., costruito dal questore Vibius Vinicius con soldi lasciati per testamento da un ricco pompeiano, come si legge in un’iscrizione in lingua osca, conservata in situ. Dopo il terremoto del 62 d.C. fu ingrandito l’adiacente tempio di Iside e per questo si chiuse il portico sul lato orientale con un muro divisorio. Sull’altro lato, dietro il portico occidentale, si aprono due piccoli ambienti, usati probabilmente come spogliatoi. Qui si trovava un accesso secondario comunicante direttamente con lo xystus, la pista coperta per le corse, del Foro triangolare. Seguiva, verso nord, un vecchio impianto termale, databile anch’esso nel II secolo a.C., con piccoli ambienti per lavarsi, simile al coevo primo nucleo delle terme Stabiane. La palestra e le terme non erano pubbliche, ma destinate a un’associazione politica e militare di giovani aristocratici pompeiani. Davanti al portico meridionale, piú o meno al centro, è collocato un basamento di statua con una scaletta sul lato posteriore, preceduto da un piccolo altare. Durante le cerimonie, dopo le gare, il giovane vincitore incoronava la statua, non conservata, e posava le offerte sull’altare. Poco piú in là, sempre sul lato meridionale del portico, fu rinvenuta nel 1797 una magnifica copia in marmo del Doriforo di Policleto, oggi conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

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LUOGHI DI SVAGO

TEMPIO DI ISIDE L’

entrata principale al santuario, che è situato a nord del teatro, si apre direttamente su via del Tempio di Iside, nell’area compresa tra la palestra sannitica e il tempio di Esculapio. L’edificio, la cui costruzione risale al II secolo a.C., fu completamente rifatto dopo il terremoto del 62 d.C., come riferisce la lunga iscrizione sul portale d’ingresso: «Numerio Popidio Celsino, figlio di Numerio ricostruí a sue spese fin dalle fondamenta il tempio di Iside, abbattuto dal terremoto. Per questa munificenza i decurioni, pur avendo egli solo sei anni, lo cooptarono nel loro ordine senza alcuna spesa». Il merito della ricostruzione integrale del tempio viene attribuito dal padre, un ricco liberto, al figlioletto, per avviarlo alla carriera politica, e, infatti, il fanciullo, nonostante la giovanissima età, fu subito ammesso nel senato locale. L’area sacra è protetta tutt’intorno da un alto muro, a simboleggiare la riservatezza del culto che era accessibile solo a una ristretta cerchia di fedeli. Le strutture all’interno sono state realizzate tutte nello stesso periodo, riutilizzando anche le parti piú antiche dell’edificio che furono collocate in posizione diversa da quella originale e su nuove fondazioni. La preziosa decorazione con pitture e stucchi che abbelliva tutti gli ambienti, apparve ancora perfettamente intatta agli scavatori del XVIII secolo. La scoperta del tempio di Iside ebbe grande risonanza in tutta Europa e contribuí al dilagare di quel fenomeno culturale noto come «egittomania». Persino il giovane Wolfgang Amadeus Mozart, recatosi in visita a Pompei, rimase colpito a tal punto dalla bellezza dell’edificio, che ne trasse ispirazione per comporre il Flauto Magico (1791). Gli elementi architettonici appartenenti alla fase originaria risalgono al periodo tardo-sannitico (fine del II secolo a.C.) per cui il tempio di Pompei è uno dei piú antichi in Italia dedicati al culto della divinità egizia.

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Statua di Iside. La divinità egizia è raffigurata stante, con il tipico strumento musicale, il sistro, nella mano sinistra. I-II sec. d.C.

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L’edificio templare situato al centro di un cortile porticato, presenta quattro colonne corinzie sulla facciata (prostilo tetrastilo) e si erge su un alto podio accessibile da una scala frontale a sette gradini. La struttura è interamente costruita in opera laterizia e le colonne presentano ancora tracce dell’originario rivestimento in stucco. Ai lati della cella, all’esterno del pronao, furono ricavate due nicchie, incorniciate da pilastri corinzi e timpano angolare sulla fronte, che erano riservate, probabilmente, alle statue di Anubis e Arpocrate, spesso associate al culto di Iside e Serapide. I simulacri di queste due divinità erano,invece, esposte su un alto podio addossato sul lato di fondo della cella. Alle spalle del tempio fu ricavata un’altra nicchia, che ospitava una statua di Bacco, fiancheggiata da due grandi orecchie in stucco, evidente riferimento all’attenzione con cui la divinità ascoltava le suppliche dei fedeli. Di fronte all’edificio, nel cortile, si trovano una serie di strutture connesse al culto, tra cui il pozzo dove si gettavano le offerte consacrate, l’altare principale e un piccolo edificio a cielo aperto, il Purgatorium, destinato, come suggerisce il nome, a riti di purificazione. Una scala interna conduceva a un ambiente sotterraneo dove si trovava un bacino per l’acqua lustrale, che, simbolicamente, richiamava quella del Nilo, come prescriveva la cerimonia. Il sacello conserva ancora il rivestimento esterno con la ricca decorazione in stucco che esibisce figure di sacerdoti e sacerdotesse all’ingresso e le coppie mitiche Marte-Venere e Perseo-Andromeda sulle pareti laterali. Alle spalle del tempio, sul lato occidentale, è un’ampia sala, ricavata a spese della confinante palestra sannitica, destinata probabilmente alle riunioni degli iniziati (ecclesiasterion). L’importanza di questo ambiente è accentuata dalle suggestive


pitture di Quarto Stile che decoravano le pareti, dove raffigurazioni di scenari egizi si alternavano a quadri con il mito di Io, in visita a Iside, che, con il cobra in mano e il coccodrillo sotto i piedi, l’accoglie sulle rocce di Canopo e la prende per mano. Da questa sala si accedeva a un vano attiguo, forse utilizzato per le cerimonie iniziatiche. Un gruppo di ambienti sul lato sud-orientale del santuario in cui si riconoscono una cucina, un triclinio e un cubicolo era probabilmente destinato ai sacerdoti. In alto il purgatorium, edificio adibito ai riti di purificazione, situato nel cortile del santuario di Iside. A destra il santuario di Iside. L’edificio templare costruito interamente in mattoni presenta quattro colonne in facciata e due laterali.


LUOGHI DI SVAGO

TEMPIO DI ESCULAPIO

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(GIOVE MELICHIO)

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uesto piccolo edificio, ubicato lungo la via Stabiana, si erge all’interno di un cortile chiuso da un alto muro, accessibile da una porta sul lato orientale. Varcata la soglia, si passa in una corte scoperta, preceduta da un breve portico sostenuto da due colonne, di cui restano le fondazioni e un capitello dorico. Al centro del cortile si conserva un elegante altare in tufo. Il tempio, costruito su un alto podio accessibile da una scalinata estesa su tutta la superficie, è di tipo prostilo, con quattro colonne sulla fronte e due ai lati. In fondo alla piccola cella, che per la tecnica muraria in opus quasi reticulatum si data ai primi anni della colonia sillana, rimane il basamento destinato ai simulacri delle divinità. Per quanto concerne il culto, la scoperta di un’iscrizione presso la Porta di Stabia, messa in relazione con l’edificio, aveva fatto inizialmente propendere

per Giove Melichio («dolce come il miele»), divinità giovanile di origine ellenica connessa con il mondo dell’oltretomba. Interpretazioni piú recenti, basandosi sul ritrovamento nel tempio di due sculture fittili, concordano nel considerare queste le statue di culto e le identificano con Asclepio e Igea. L’isolamento del complesso dall’esterno si addice a questo culto, dal carattere riservato, e anche la scelta di un luogo cosí periferico, rispetto alla città, si adatta bene a un edificio sacro dedicato a divinità straniere. Le due statue risalgono ancora al III secolo a.C. e, insieme ad altri elementi architettonici, quali i capitelli corinzi figurati che sostenevano i pilastri frontali della cella, e l’altare, sembrerebbero documentare una fase piú antica del santuario, non confermata, però, dagli scavi.

TEATRO GRANDE

Il teatro grande di Pompei, che poteva ospitare 5000 spettatori circa.

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I

l grande progetto urbanistico di questa zona, risalente alla metà del II secolo a.C., comprendeva anche la costruzione di un grande teatro. Come la maggior parte dei teatri greci, il teatro di Pompei fu ricavato nel pendio roccioso di una collina, vicino a un’area sacra. Il declivio naturale a est del Foro triangolare si adattò perfettamente a questo scopo.

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Nella prima fase costruttiva la scena era completamente staccata dalla cavea e l’orchestra, a forma di ferro di cavallo, non era ancora semicircolare, come la vediamo oggi. In età augustea il teatro fu sottoposto ad ampie ristrutturazioni. Com’è normale per un teatro romano, la scena fu collegata con la cavea tramite due corridoi d’ingresso, l’uno dalla via Stabiana, l’altro dal Foro triangolare, con le file di gradini aggiunte nella media e summa cavea. La nuova sistemazione del teatro dava posto a circa 5000 spettatori. La scena doveva essere originariamente rivestita di marmo, ma fu gravemente danneggiata durante il terremoto del 62 d.C. Sotto l’orchestra furono trovati alcuni bacini d’acqua, utilizzati per spettacoli con giochi marini, alimentati da una cisterna collocata tra la summa cavea e la palestra sannitica.


PORTICO DEI TEATRI D

ietro la scena del teatro si apre un grande quadriportico accessibile da una traversa di via Stabiana, oppure dal lungo corridoio porticato, posto tra la scena del teatro e il muro laterale dell’Odeion. Un altro ingresso si trovava sul lato opposto e lo collegava, tramite una scalinata, al Foro triangolare. La funzione originaria del quadriportico è ben chiarita da Vitruvio, secondo il quale un teatro necessita di uno spazio dove gli spettatori possano passeggiare durante gli intervalli o ripararsi dalla pioggia. Sicuramente progettato già nel II secolo a.C., contemporaneamente al teatro grande, fu probabilmente costruito poco dopo l’80 a.C., insieme all’Odeion.

Dopo il terremoto del 62 d.C. il quadriportico cambiò destinazione. Il bando che proibiva i giochi gladiatori nell’anfiteatro fu sciolto e sorsero nuove scuole gladiatorie. La piazza serviva come campo di allenamento, mentre dietro i portici furono costruiti piccoli vani per i gladiatori. Nella parte orientale furono aggiunte stanze comunitarie, una cucina con dispense, un refettorio, ma anche camere piú grandi, come l’appartamento del lanista, il proprietario o manager dei gladiatori. Le scale su ognuno dei lati del portico documentano, inoltre, l’esistenza di un piano superiore, anch’esso adibito a stanze per i gladiatori. Il quadriportico era diventato, quindi, il ludus, la caserma dei gladiatori.

TEATRO PICCOLO

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In alto il quadriportico dei teatri. Dopo il terremoto del 62 d.C. venne usato come scuola per i gladiatori. In basso un telamone inginocchiato all’estremità della cavea del teatro piccolo.

(ODEION)

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l teatro piccolo faceva probabilmente parte del grande progetto urbanistico del II secolo a.C., ma fu costruito solo dopo la fondazione della colonia, negli anni a ridosso dell’80 a.C. L’edificio era coperto con un tetto a doppio spiovente e si appoggiava sui muri intorno alla cavea e, per questo motivo, solo le file inferiori dei gradini della cavea sono semicircolari, mentre le altre vennero tagliate dai muri laterali. Le entrate erano da via Stabiana o dal corridoio porticato dietro il teatro grande e immettevano nell’orchestra, da dove si accedeva ai ranghi. Come il teatro grande, l’Odeion ha un’ima cavea di quattro file con gradini larghi per i sedili dei personaggi illustri, separati dai gradini superiori. Gli angoli del muro all’estremità della cavea sono decorati con telamoni inginocchiati. L’orchestra fu ripavimentata in età augustea con lastre di marmo.

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l divertimento era molto importante per i Romani. Solo pochi anni dopo la deduzione della colonia venne eretto l’anfiteatro (27). Costruito nell’angolo sud-orientale della città, l’edificio occupa lo spazio di ben sei isolati abitativi. In età augustea furono utilizzati altri sei isolati per la costruzione della grande palestra (28). I gladiatori erano molto popolari, come dimostrano mosaici e graffiti. Spesso i «tifosi» di ritorno dai giochi erano felicissimi per la vittoria dei propri idoli e scrivevano i loro nomi sui muri. In uno di questi graffiti un gladiatore viene soprannominato «il tormento delle fanciulle», a riprova del grande fascino che questi combattenti esercitavano sulle donne.

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sport e spettacolo

ANFITEATRO G

razie a un’iscrizione, sappiamo che l’anfiteatro venne costruito intorno al 70 a.C. da Quinctus Valgus e Marcus Porcius a proprie spese. Questi ricchi funzionari erano gli stessi che avevano realizzato qualche anno prima l’Odeion, ma ora avevano raggiunto l’apice della loro carriera politica: l’iscrizione li nomina duoviri quinquennales, la carica politica piú alta a Pompei, conferita solo ogni cinque anni. Si tratta dell’edificio piú grande di Pompei con una capacità di circa 20 000 spettatori. Per un complesso cosí grandioso, non solo per la superficie necessaria, ma anche in previsione dell’afflusso di tanta gente, si scelse l’angolo sud-orientale della città, immediatamente a ridosso delle mura. Per semplificare la costruzione e risparmiare ingenti somme di denaro, nell’angolo sudest fu utilizzato il terrapieno della cinta muraria, mentre la superficie per l’arena venne dragata e, con la terra rimossa, si innalzò un terrazzamento artificiale sui lati nord e ovest,

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L’anfiteatro di Pompei fu costruito sopra un terrazzamento artificiale, sorretto da un muro con 62 pilastri di rinforzo. Si vedono le due scalinate a doppia rampa che davano accesso a un anello esterno. Da qui si arrivava alle gradinate superiori.


SPORT E SPETTACOLO

sorretto da un muro con sessantadue pilastri di rinforzo. Quattro scalinate, due delle quali a doppia rampa, davano accesso a un anello esterno collegato tramite arcate alla summa cavea, le gradinate speriori. Per arrivare ai settori piú prestigiosi e piú vicini all’arena, la ima cavea e la media cavea, servivano quattro ingressi, uno a nord e tre sul lato ovest, che, tramite un lungo corridoio sotterraneo, portavano direttamente nell’arena. Le stesse entrate venivano usate, probabilmente, anche dai gladiatori e dagli animali pronti per i combattimenti, dato che l’arena non aveva sostruzioni, come il Colosseo a Roma. Il parapetto intorno all’arena era decorato da pitture con scene di caccia e combattimenti gladiatori, oggi completamente sbiadite, ma conosciute grazie a disegni eseguiti durante lo scavo. L’ima cavea, le quattro o cinque file di gradini a ridosso del parapetto, era riservata alle personalità importanti; un secondo parapetto separava questi posti dalle file per i cittadini semplici. A sinistra affresco con la rissa tra Pompeiani e Nucerini scoppiata nell’anfiteatro nel 59 d.C., dalla Casa di Anicetus. In basso ancora una immagine dell’anfiteatro.

| La rissa del 59 d.C. | Nel 59 d.C., scoppiò una grande rissa nell’anfiteatro tra gli abitanti di Pompei e quelli della vicina città di Nocera. Poco tempo prima, nel 57 d.C., Nerone aveva conferito a Nocera lo stato giuridico di colonia romana, cosa che causò sicuramente delle tensioni territoriali fra le due città. Cosí scrive Tacito: «Nello stesso lasso di tempo per lievi motivi scoppiò un conflitto feroce tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei a proposito d’uno spettacolo di gladiatori (…) La gente, con la mancanza di freni tipica di quelle città, incominciò con lo scambio di ingiurie, poi passò alle pietre, e finirono con l’impugnare le armi; ed ebbe la meglio la plebe di Pompei, dove aveva luogo lo spettacolo. Di conseguenza molti dei Nucerini tornarono nella loro città il corpo coperto di ferite, la maggior parte piangendo la morte di figli o di genitori. Il principe [Nerone] deferí il giudizio sul fatto al Senato, il Senato ai Consoli; poi la cosa tornò ai Padri Coscritti e ai Pompeiani furono vietate per dieci anni riunioni del genere; e le loro associazioni, create illegalmente, furono sciolte» (Annali XIV, 17, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani).


PALESTRA GRANDE D

La grande palestra situata a ridosso dell’anfiteatro. La piazza centrale era circondata da un quadriportico di 118 colonne in laterizio e due file di platani. Al centro si trovava una grande piscina rettangolare.

avanti all’anfiteatro si colloca un grande spazio verde circondato su tre lati da un portico con centodiciotto colonne in laterizio ricoperte di stucco. La piazza di 15 000 mq circa presenta, al centro, una grande piscina rettangolare di 35 x 22 m circa, e, davanti ai portici, due file di platani di cui si sono conservati i calchi delle radici. Al centro del colonnato occidentale, sul lato opposto dell’anfiteatro, si trovava un gruppo di tre vani. La piú grande di queste stanze era aperta verso la piazza e conteneva un basamento per una statua di culto, probabilmente dell’imperatore Augusto, come fondatore della palestra. Sul lato meridionale si trovava l’unico altro ambiente, una grande

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latrina che serviva non soltanto la palestra, ma era accessibile anche dal lato dell’anfiteatro. Un canale di scarico portava acqua direttamente dalla piscina alla latrina e permetteva una pulizia rapida di quest’ultima. Il complesso della palestra grande fu costruito in età augustea ed era destinato innanzitutto all’educazione della gioventú dell’alta società pompeiana. Tuttavia, almeno nei momenti dei giochi nell’anfiteatro, era aperto anche a un pubblico promiscuo e forse serviva per fiere e mercati. I graffiti rinvenuti sulle pareti e sulle colonne vanno dal politico al poetico, dal romantico al pornografico e dimostrano senz’alcun dubbio l’uso polivalente dello spazio.

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case e botteghe

nizia ora la seconda parte del percorso, in cui il visitatore potrà conoscere le abitudini private dei Pompeiani. Data l’estensione di questo settore della città, per la cui visita ci vorrebbero piú giorni, sono stati scelti solo alcuni edifici rappresentativi delle tipologie architettoniche e degli stili pittorici che hanno reso famosa Pompei. Mentre gli edifici pubblici e religiosi della città al momento della scoperta versavano quasi tutti in rovina, le dimore private apparvero agli scavatori nel loro antico splendore, impreziosite da dipinti e arredi ancora intatti. L’aspetto che ci rimane, oggi, dell’edilizia privata cittadina è quello dell’ultima fase di vita di Pompei in cui il ceto emergente dei liberti, detentore di un forte potere economico, era particolarmente orgoglioso di esibire un apparato decorativo e pittorico di pregevole fattura, che ben evidenziasse il grado di ricchezza e di acculturazione raggiunti (Casa dei Vettii). Cosí Vitruvio sottolinea lo splendore delle case dell’aristocrazia romana, pari a quello delle residenze dell’Oriente ellenistico: «Alti vestiboli regali, atri e peristili amplissimi, giardini e portici di notevole ampiezza, lussuosi e imponenti; inoltre biblioteche, pinacoteche, basiliche, la cui magnificenza può stare a pari con quella delle opere pubbliche, perché nelle loro case si tengono spesso sia consigli pubblici sia processi e arbitrati privati» (De architectura, VI, 5,2).

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PRAEDIA DI GIULIA FELICE 29

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scendo dall’Anfiteatro, il visitatore si trova di fronte ai giardini del grandioso complesso dei Praedia, termine usato per le proprietà immobiliari, che si estendeva su due isolati della II regione. Durante gli scavi, condotti tra il 1755 e il 1757, la facciata dell’edificio rivelò un’iscrizione in cui la


proprietaria Giulia Felice, forse appartenente a un ceto di liberti imperiali, metteva in affitto una parte della sua proprietà, accessibile da via dell’Abbondanza: «Nella proprietà di Julia, figlia di Spurius Felix, si affittano bagno elegante per gente perbene, botteghe con abitazione soprastante, appartamenti al primo piano, dal I

agosto dell’anno sesto, per cinque anni. Alla fine del quinquennio il contratto scade». La crisi economica seguita al terremoto del 62 d.C. fu sfruttata da questa cittadina pompeiana, indubbiamente dotata di spirito imprenditoriale e di notevoli possibilità economiche, dando in locazione un settore

Praedia di Giulia Felice. Il giardino con elegante portico a pilastri di marmo scanalato sorretti da capitelli corinzieggianti.

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CASE E BOTTEGHE

della sua casa che comprendeva anche un quartiere termale e lasciando il terreno rimasto libero per uso agricolo. Tale iniziativa ebbe certamente successo in quanto rispondeva alla necessità impellente di creare nuovi alloggi in città dopo i disastri causati dal sisma che aveva colpito anche i bagni pubblici, all’epoca ancora in restauro. Il luogo, inoltre, era uno dei piú frequentati, data la vicinanza con la zona dei teatri e dell’anfiteatro che richiamavano un viavai continuo di gente. Il monumentale portale d’accesso, costruito in laterizio e inquadrato da due semicolonne, al n. 6 di via dell’Abbondanza, introduceva gli avventori in un grande cortile circondato da portici e dotato di sedili lungo le pareti che fungeva da sala d’attesa. Da qui si poteva iniziare il percorso termale canonico, passando per il frigidarium, collegato a una grande latrina tramite una canaletta, il tepidarium, il laconicum circolare, con copertura a cupola, e il calidarium, decorato con graziose piastrelle di marmo. Nel cortile si poteva trovare refrigerio in una piscina scoperta, accessibile anche da una taberna attigua. Il quartiere termale conserva il pavimento della metà del I secolo a.C., mentre le decorazioni parietali risalgono all’età neroniana-flavia. La padrona riservò per sé la parte piú bella del complesso, un’elegante domus organizzata intorno all’atrio tuscanico, sul cui lato orientale si aprono ambienti di rappresentanza e privati, biclinio, tablino, ornato da quadretti con nature morte (xenia) e cubicoli, tutti con vista sul grande parco. Un altro nucleo del complesso residenziale gravitava intorno al giardino (viridarium), arredato scenograficamente con raffinate sculture, in cui gli ambienti si disponevano lungo un asse longitudinale. Al centro del terreno fu scavato un canale con tre ponticelli in marmo, scandito da nicchie utilizzate per deporre le uova dei pesci. Il giardino era incorniciato da un elegante portico a pilastri di marmo scanalato a sezione rettangolare, sormontati da capitelli corinzieggianti, sul quale si affacciava il lussuoso triclinio estivo, arredato con letti

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rivestiti in marmo, circondati da una canaletta dotata di acqua corrente. L’atmosfera di questa stanza, in cui l’elegante volta a botte rivestita di scaglie in calcare stuccate e dipinte di giallo ricreava l’ambiente di una grotta, era resa particolarmente gradevole dalla presenza di una cascatella a gradini, che utilizzava l’acqua di due serbatoi costruiti sopra il corridoio di servizio retrostante, come nella Domus Aurea di Nerone a Roma. In fondo al giardino si apriva un piccolo vano in cui si è riconosciuto un sacello di Iside, come indicano le pitture parietali che rappresentano la divinità egizia in trono, insieme ad Anubi e Serapide.

Planimetria dei praedia di Giulia Felice. La domus: 1. Atrio. 2. Corridoio di passaggio. 3. Portico esterno al giardino. 4. Giardino. 5. Triclinio estivo. 6. Ingresso del secondo atrio. 7. Secondo atrio. 8. Biclinio. 9. Tablino. Impianto termale con entrata da via dell’Abbondanza: 10. Cortile d’ingresso. 11. Praefurnium. 12. Apodyterium e frigidarium. 13. Tepidarium. 14. Calidarium. 15. Piscina all’aperto.


ORTO DEI FUGGIASCHI

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olte insulae di questo settore della città, un tempo abitate, furono trasformate nell’ultimo periodo di vita di Pompei in aree «verdi», coltivate e piantate a vigne, frutteti e uliveti. La triste fama di questo bel vigneto, su cui si affacciava un triclinio estivo protetto da un pergolato, è dovuta alla scoperta dei corpi di tredici vittime dell’eruzione, di cui si possono vedere in situ i calchi, che cercarono una via di fuga raggiungendo Porta Nocera. Lasciamo alle parole di Amedeo Maiuri, la descrizione di questa drammatica testimonianza: «Soffocati e asfissiati caddero uno accanto all’altro raccolti in vari gruppi familiari, adulti giovani e bambini. Le impronte che se ne trassero e che sono esposte nell’ordine stesso in cui vennero rinvenute, costituiscono una delle piú drammatiche visioni della morte di Pompei» (citazione riportata in: Fabrizio Pesando, Pompei. Guida per un giorno, 2013).

Orto dei Fuggiaschi. Calchi delle vittime sorprese dall’eruzione mentre cercavano una via di fuga verso porta Nocera. Furono identificati tredici corpi tra i quali due bambini che si tenevano per mano e una donna caduta in ginocchio mentre tentava di proteggersi dalle esalazioni con un pezzo di stoffa premuto sulla bocca.

CASA DELLA NAVE EUROPA I

l nome dell’abitazione deriva dalla scoperta, sul lato nord del peristilio, di un graffito che raffigura una nave associata alla parola «Europa», incisa entro una tabella della carena. L’accesso alla dimora avviene attraverso un vestibolo, affiancato da due piccoli cubicoli; quello di sinistra presenta una decorazione di Primo Stile sulla parte superiore delle pareti, ritmata da semicolonne ioniche in stucco. Il portico che circondava il peristilio era scandito da colonne doriche e pilastri angolari in tufo che conservano i segni di numerosi restauri. Sul retro della casa si apre un vasto

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orto, posto su due livelli differenti, che all’epoca dell’eruzione era coltivato a vigneto e ad alberi da frutto nella parte superiore e con soli vitigni piantati a intervalli regolari in quella inferiore. Dalle ricognizioni archeologiche sono emerse ben quattrocentosedici buche per radici e, lungo i muri perimetrali, erano sistemati vasi per la coltivazione di piante esotiche. La grande quantità di anfore rinvenute tra la casa e il giardino attesta che, molto probabilmente, i prodotti agricoli erano destinati non solo al consumo personale, ma anche alla vendita al dettaglio.

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CASE E BOTTEGHE

TERMOPOLIO SU VIA DELL’ABBONDANZA A destra particolare del bancone del termopolio, nel quale si vedono i dolia per le derrate alimentari (vedi anche la foto e il disegno a p. 54).

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uesto tipo di locale, una sorta di fast food, nel quale avventori occasionali e clienti abituali potevano consumare un veloce spuntino, era molto diffuso a Pompei. Aperto su una delle strade piú frequentate della città, il termopolio di via dell’Abbondanza si distingue per lo stato di conservazione delle sue pitture. La struttura attuale deriva dall’adeguamento di un edificio piú antico alla duplice funzione di

casa e bottega. I banconi destinati alla vendita sono rivestiti, nella parte superiore, da piastrelle di marmi policromi e presentano ancora i contenitori per le derrate alimentari (dolia) inseriti al loro interno. Sulle pareti è dipinto un elegante larario a edicola, inquadrato da colonne corinzie, in cui sono raffigurati i Lari e il Genius sacrificante tra Mercurio e Dioniso, divinità del commercio e del vino.

CASA DI GIULIO POLIBIO E

mersa dagli scavi compiuti tra il 1966 e il 1978, la dimora si affaccia su via dell’Abbondanza. I proprietari erano, forse, i membri di una famiglia di liberti imperiali di ascendenza ellenica, come sembrerebbero indicare sia i manifesti elettorali nelle vicinanze che invitavano a votare per C. Iulius Polibyus, sia il sigillo bronzeo rinvenuto in un armadio in legno nel giardino in cui era inciso il nome di C. Iulius Philippus, probabile padrone di casa. Alcuni elementi rendono l’edificio particolarmente interessante, soprattutto per quanto riguarda la sua disposizione interna, unica, al momento, nel panorama delle dimore pompeiane, e per la grande quantità di reperti, rinvenuti in ottimo stato. L’impianto, di forma pressoché rettangolare, con la sua superficie di 900 mq circa, risale a un età compresa tra il III e il II secolo a.C. I numerosi ambienti si articolano in due settori ben distinti, uno residenziale e uno di servizio, il quale, nel II secolo a.C., fu arricchito di un piano superiore. Le due parti della casa sono collegate da un giardino centrale a pianta quadrata, con portici su tre lati, sul quale si affacciavano le stanze piú rappresentative. Il settore anteriore è costituito dall’unione di due grandi ambienti con tetti privi di apertura, interpretati come atri

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testudinati, che presentano il lato lungo disposto parallelamente al fronte stradale. Tra i due atri e il peristilio, che concludeva l’edificio, furono realizzati altri due cortili, entrambi dotati di impluvio, per aumentare il numero degli ambienti in cui accogliere gli ospiti e di quelli destinati ai servizi. Attraversato il tablino, si raggiunge un piccolo atrio con impluvio, intorno al quale si aprono alcune stanze decorate con pitture di Terzo Stile. Un corridoio, infine, conduce al peristilio che presenta un finto portico addossato alla parete occidentale. In fondo al giardino, che all’epoca dell’eruzione era piantato con alberi da frutta, si aprono gli ambienti piú rappresentativi della dimora che documentano un coerente intervento decorativo di Terzo Stile finale, databile tra 50 e 60 d.C. Di pregevole qualità sono le pitture del grande triclinio invernale, dove un quadro centrale raccontava episodi del supplizio di Dirce. In questa stanza, sbarrata con una serratura, il proprietario custodiva della preziosa suppellettile in bronzo, che faceva parte dell’arredo dell’abitazione: una statua di Apollo riutilizzata come reggilampada, un bel cratere del II secolo a.C. con scene mitologiche, un vaso in bronzo (hydria) risalente al V secolo a.C.


FULLONICA DI STEPHANUS

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impianto di questa grande lavanderia si deve alla totale ristrutturazione di un precedente edificio e non presenta, in questa sua nuova veste, alcun vano residenziale. L’impluvio fu trasformato in vasca con alto parapetto per lavare, forse, i capi piú delicati e, al posto del compluvio, è stato sistemato un tetto piano, utilizzato come terrazza per stendere i panni ad asciugare. Tutta la parte posteriore della struttura, un tempo occupata dal peristilio, era stata attrezzata per effettuare le operazioni di pulizia e risciacquo, per le quali si utilizzavano tre vasche, poste su livelli differenti, ma tra loro comunicanti, in modo che il lavaggio dei panni e il rilascio delle soluzioni sgrassanti avvenisse in maniera graduale.

In alto Fullonica di Stephanus. La vasca per il lavaggio dei panni al piano terra dell’impianto. A sinistra Casa di Giulio Polibio. Particolare dell’oecus, con decorazione di Quarto Stile.

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CASE E BOTTEGHE

CASA DEL FAUNO Pianta della Casa del Fauno. 1. Ingresso (fauces). 2. Atrio tuscanico. 3. Atrio tetrastilo. 4. Stanze da letto (cubicula). 5. Sale da pranzo (triclinia). 6. Tablinum. 7. Primo peristilio. 8. Esedra con il mosaico di Alessandro. 9. Secondo peristilio. In basso Casa del Fauno. L’atrio principale con la statuetta del Satiro danzante che ha dato il nome alla casa.

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splorata negli anni 1830-32, questa lussuosa dimora pompeiana, che ha ricevuto nel tempo diverse denominazioni (Casa di Goethe, in ricordo della visita, nel 1831, di August, figlio del poeta tedesco, o Casa del Grande Mosaico, dopo la scoperta del mosaico di Alessandro) è oggi nota come Casa

del Fauno, dal rinvenimento della statuetta di Satiro danzante nell’atrio principale. L’isolato su cui sorse l’edificio, frequentato già nel III secolo a.C., fu oggetto di una radicale ristrutturazione intorno ai primi decenni del II secolo a.C che gli conferí l’aspetto conservato fino all’eruzione. Tutte le strutture


| Il mosaico di Alessandro | Una soglia decorata con scene nilotiche introduce nell’esedra in cui era custodito questo celebre mosaico, composto da circa un milione e mezzo di tessere ed esteso su una superficie di 20 mq. Il quadro musivo riproduce un esemplare pittorico che rappresentava l’ultimo scontro armato tra Alessandro Magno e Dario III, presso Isso. L’esito della battaglia è chiaramente indicato dall’attacco che il sovrano macedone e la sua armata sferrano contro le milizie persiane, travolte e incapaci di difendere il loro re, in fuga sul suo carro. Il pittore, che ha trasferito nei volti atterriti dei soldati il patetismo caro agli artisti del primo periodo ellenistico, viene generalmente identificato con Filosseno d’Eretria, autore per il re Cassandro di una battaglia di Alessandro e Dario. Si è pensato anche a Elena di Alessandria, che dipinse un analogo soggetto per la corte tolemaica, e ad Apelle, il pittore ufficiale di Alessandro Magno.

In alto Alessandro Magno. Particolare del mosaico di Alessandro, rinvenuto nell’esedra della Casa del Fauno. Intorno al 100 a.C., da un originale greco del IV sec. a.C.

preesistenti vennero demolite e al loro posto fu edificata un’unica abitazione, che occupò l’intera insula del quartiere residenziale compreso tra il Foro e le Mura settentrionali, limitato a nord e sud dai grandi decumani di via di Mercurio e via della Fortuna. Con i suoi 3000 mq circa di superficie, la Casa del Fauno si distingue nel panorama dell’architettura privata pompeiana, trovando confronti, per la grandiosità dell’impianto e l’articolazione degli spazi, solo con le lussuose residenze dei dinasti ellenistici delle città orientali e, in particolare, con il coevo Palazzo delle Colonne di Tolemaide, l’antica residenza del governatore della città. Dotata di due atri, due peristili e diversi ambienti di rappresentanza, la dimora conservava ancora gran parte del raffinato apparato decorativo parietale e musivo, che, al momento della scoperta, venne asportato e trasferito al Museo di Napoli, dove si trova ancora oggi. All’entrata, su via della Fortuna, al civico 2, una cordiale iscrizione di benvenuto in latino (have) realizzata in tessere policrome inserite nel pavimento di lavapesta, accoglie ancora oggi il visitatore come avveniva nell’antichità. Superata la grande porta, inquadrata da una coppia di pilastri in tufo, ornati da eleganti capitelli, si attraversava il breve vestibolo, decorato con un raffinato pavimento in piastrelle colorate (opus sectile) a motivi triangolari policromi; a seguire, l’ingresso (fauces) le cui pareti, dipinte con un ornato di Primo Stile, erano simmetricamente decorate

nella parte superiore da due tempietti in tufo ricoperti di stucco colorato e dorato, identificati con il Larario della casa. Superate le fauces, una soglia in vermiculatum raffigurante maschere tragiche tra tralci di vite e frutta, introduceva nel grande atrio tuscanico, ambiente di rappresentanza nel quale il padrone di casa riceveva i suoi ospiti. Al centro dell’impluvio, con bordo in travertino e vasca rivestita da un pavimento a rombi policromi di lavagna, palombino e calcare colorato, è stata collocata la copia del Satiro danzante, uno dei rari originali bronzei ellenistici del II secolo a.C. documentati a Pompei. In realtà, la statuetta fu trovata sul bordo settentrionale dell’impluvio e, da una fotografia del XIX secolo, risulta che in origine fosse posta su una base decorata con due pantere, oggi scomparsa. Il primo cubicolo a destra dell’atrio è presumibilmente quello matrimoniale, come sembra alludere il malizioso quadretto con symplegma erotico di satiro e ninfa che ornava il pavimento. Eleganti emblemata musivi decoravano anche le due alae, con soggetti tratti dal mondo animale: tre colombe bianche che tolgono una collana dalla cassetta semiaperta e un gatto intento ad afferrare una pernice. Sul lato di fondo dell’atrio si apriva il tablino, destinato all’accoglienza dei clientes, dove è ancora visibile il pavimento in opus sectile con decorazione di cubi disposti in prospettiva (scutulatum), motivo raro nelle abitazioni ma presente, a Pompei, in due edifici pubblici, il tempio di Apollo e quello di Giove.

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CASE E BOTTEGHE

In basso emblema musivo da una delle alae della Casa del Fauno. La scena raffigura due colombe intente a togliere una collana da una cassetta semiaperta. Nella pagina acccanto il peristilio della Casa dei Vettii con l’arredo tipico dell’epoca.

Ai lati del tablino sono i due triclini, ornati da altri quadretti musivi, uno con Dioniso bambino alato a cavallo di una tigre dalla testa leonina e l’altro con la scena di un polipo che cattura un’aragosta, ispirata alle fonti naturalistiche che, a partire da Aristotele (Hist. A. VIII,2,59) descrivono cosí la catena alimentare marina: «I polipi hanno il sopravvento sulle aragoste al punto che se le aragoste si trovano vicine a dei polipi nella stessa rete, muoiono per la paura». Il settore privato della casa si focalizzava intorno all’atrio tetrastilo, dove furono trovati armadi, depositi di anfore e due casseforti. La destinazione a uso familiare di questa parte della casa è ben evidenziata dalla

| Dipingere con le pietre | Nell’età in cui si afferma il Primo Stile pompeiano fa la sua comparsa anche un raffinato prodotto dell’artigianato artistico, il mosaico figurato. La «pittura in pietra», come la definiva Plinio, decora i pavimenti di alcune ricche dimore pompeiane ed è opera di artisti egiziani o greco-orientali, che si erano stanziati a Pompei e in Campania nel corso del II secolo a.C. Questi emblemata (quadretti centrali) erano definiti vermiculati perché le microscopiche tessere colorate (1-5 mm) da cui sono composti, ricordano il movimento di piccoli vermi. La Casa del Fauno offre una straordinaria collezione di mosaici musivi figurati in cui si è riconosciuto un programma decorativo voluto, probabilmente, dallo stesso proprietario. Secondo una recente interpretazione, la scelta di soggetti legati al tema dionisiaco (festone con maschere, scena erotica tra Satiro e Menade, Dioniso a cavallo della tigre e statuetta bronzea del Satiro danzante) negli ambienti piú rappresentativi della dimora (atrio tuscanico, cubicolo padronale, triclinio) è da porsi in relazione alla gens dei Sadirii (Satrii) il cui nome evocava quello del compagno di Dioniso e ispiratore dell’arte teatrale.

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sobrietà dell’apparato decorativo e dal suo rapporto con gli ambienti di servizio che si aprivano sul corridoio, tra cui una stalla, una latrina, un piccolo quartiere termale dotato di calidarium e tepidarium, e una cucina con forno. Alle spalle dell’atrio tuscanico, accessibile tramite il triclinio, si trovava il peristilio minore, ritmato da ventotto colonne di tufo che sostenevano un fregio dorico con triglifi. Sul peristilio si aprivano pochi, lussuosi ambienti residenziali, tra i quali risaltava l’esedra, inquadrata da due colonne su alti plinti con eleganti capitelli corinzi in tufo, rivestiti di stucco bianco e rosso. La fama di questo ambiente è collegata al rinvenimento del celebre mosaico di Alessandro, di cui è visibile in situ una copia. Gli scavi hanno rivelato che la casa, in questo primo impianto, era dotata nella parte posteriore di un ampio hortus, un grande giardino. Alla fine del II secolo a.C. l’edificio fu oggetto di una vasta ristrutturazione, che ne accrebbe il fasto e la ricchezza decorativa a tal punto da non rendere piú necessario alcun intervento, se non di carattere puramente conservativo. In questa fase l’atrio tetrastilo si aprí con un ingresso autonomo sulla strada e sull’area precedentemente occupata dal giardino sorse un ampio peristilio composto da quarantatré colonne doriche in laterizio. Sul lato meridionale del peristilio maggiore si aprivano vani residenziali e, in fondo al giardino, alcuni ambienti minori, tra i quali si distingueva una stanza dotata di un podio, destinato, probabilmente, all’esposizione di statue. In altri ambienti le pareti erano scandite da nicchie che hanno restituito oggetti legati al culto domestico e, per questo motivo, sono state identificate con il larario della casa. Alle radicali modifiche strutturali seguí un rinnovato apparato decorativo in tutti gli ambienti, secondo un programma che ben rifletteva la profonda acculturazione del proprietario. Alcune stanze ricevettero anche un piano superiore e, probabilmente nel corso di questi lavori, molte decorazioni del secondo atrio furono sostituite da altre piú semplici, mentre quelle degli ambienti piú importanti continuarono a essere curate con attenzione.


CASA DEI VETTII L

a comparsa dell’emergente ceto libertino sulla scena politica della città nel I secolo d.C. è ben documentata da questa elegante e colta dimora, tappa obbligata di ogni visita a Pompei. Due sigilli bronzei, trovati nelle casseforti collocate nell’atrio, ci hanno rivelato il nome dei suoi facoltosi proprietari: i liberti A. Vettius Restitutus e A. Vettius Conviva, quest’ultimo esponente del potente collegio degli Augustali. Scavata tra il 1894 e il 1896, la casa rientrò nel programma di «fruizione dei Beni Culturali» stabilito per gli scavi di Pompei dopo l’Unità d’Italia, che privilegiò la scelta di mantenere in loco le pitture, le sculture e gli arredi marmorei,

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rinvenuti in uno straordinario stato di conservazione, proteggendoli con coperture permanenti e rendendoli accessibili al pubblico. La casa si organizzava intorno a quattro ambienti principali: atrio tuscanico, peristilio, atrio di servizio, piccolo peristilio privato. Un corridoio di servizio collegava all’atrio una stalla, fornita di un ingresso indipendente dalla strada (civico 27). Lo schema planimetrico presenta due novità: l’assenza del tablino, per cui dall’atrio, che diveniva l’ambiente centrale di rappresentanza, si passava direttamente al peristilio, e l’aggiunta di una piccola stanza, disposta intorno a un cortiletto privato, la cui natura riservata era protetta da


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In alto planimetria della Casa dei Vettii. 1. Ingresso ( fauces). 2. Atrio. 3. Alae. 4. Giardino con portico. 5. Oecus. 6. Esedra. 7-8. Triclinium. In basso particolare dell’affresco con il supplizio di Issione, dall’esedra della Casa dei Vettii.

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Nella pagina accanto decorazione dell’oecus con fregio di amorini impegnati in varie attività, dalla Casa dei Vettii.

una porta che ne impediva l’accesso ai visitatori occasionali. Questo piccolo quartiere, dalla funzione non chiara, è stato interpretato sia come un corrispondente del gineceo greco, ovvero un settore destinato alla padrona e alle sue figlie, sulla base anche delle pitture a sfondo erotico e femminile che decoravano le pareti (Ercole ubriaco che sorprende Auge, riconoscimento di Achille a Sciro, travestito da donna tra le figlie del re Licomede), sia, piú genericamente, come conclave, la stanza piú nascosta della casa, chiusa a chiave. Sul portico orientale del peristilio si aprono due esedre simmetriche, identificabili come pinacoteche, affrescate con quadri di soggetto mitologico derivati da originali ellenici. Tutti gli ambienti della casa presentano una decorazione di Quarto Stile in cui è stata riconosciuta l’opera di diversi atelier, evidente anche nelle differenze stilistiche all’interno del medesimo gusto pittorico, piú raffinate negli ambienti residenziali e decisamente sobrie in quelli servili. Le alae affacciate sull’atrio presentano un pregevole ornato a campi monocromi, di colore giallo-ocra, che riproducono grandi arazzi appesi alle pareti, alternati, nella parte mediana, a quadretti con nature morte o scene agonistiche e allegoriche. Questi due ambienti e le loro pitture sono databili al periodo claudio-neroniano. Indagini archeologiche hanno evidenziato che una delle alae, quella meridionale, esisteva già prima del 62 d.C. poiché fu trasformata in armadio a muro nel corso dei lavori di restauro, resi necessari dopo il terremoto. Il dato è importante, in quanto questo tipo di pittura di Quarto Stile, documentata a Pompei, risale generalmente all’epoca tardo-neroniana e flavia.


| Il ciclo pittorico della casa dei Vettii | La maggior parte degli affreschi risale agli interventi decorativi effettuati dopo il 62 d.C. e presenta una scelta accurata dei soggetti, generalmente collegata alla funzione degli ambienti. Gli ospiti venivano accolti all’ingresso, del tipo a doppia chiusura (protyron), da una figura di Pan itifallico, garante di prosperità e protettore della casa. Passavano poi nell’atrio, dove fanciulli intenti a compiere sacrifici ai Penati, raffigurati nello zoccolo, alludevano al culto degli antenati, da sempre connesso a questo ambiente della casa; inserita in corrispondenza della grande cassaforte in bronzo, dove erano custoditi gli oggetti preziosi e gli averi dei proprietari, era la personificazione di Fortuna, alla quale degli amorini rivolgevano sacrifici. Nei triclini, un’atmosfera di calma e serenità veniva trasmessa a ospiti e amici da una serie di quadretti mitologici, evocativi delle gioie e dei tormenti dell’estasi amorosa (gli amori di Giove con Leda e Danae; la metamorfosi di Ciparisso, il giovane cacciatore amato da Apollo che lo trasformò in cipresso perché colpevole di avere ucciso, pur senza intenzione, il cervo preferito del dio; la lotta tra Pan ed Eros al cospetto di Dioniso e Arianna). Lo stesso filo conduttore animava anche il cubicolo, in cui era raffigurato lo sfortunato amore tra Leandro ed Ero, sacerdotessa di Afrodite (Leandro nuota, di notte, verso l’amata Ero, che lo aspetta sull’altra sponda ma viene travolto dal mare in tempesta e muore; la mattina seguente Ero raggiunge il corpo senza vita dell’amato e si toglie la vita accanto a lui). Il grande salone da ricevimento (oecus),

che sostituiva il mancante tablino, era decorato con il noto fregio a fondo nero in cui «psychai» e amorini collaboravano allo svolgimento di una serie di attività produttive, quali la mescita del vino, la pulitura delle vesti, la coltivazione dei fiori, la produzione di profumi, l’oreficeria e la carpenteria. Di rilevante complessità e impegno decorativo, sono le raffigurazioni delle due esedre che ben riflettono l’ideologia, il gusto e le conoscenze culturali dei committenti. I quadri, posti al centro di grandi pannelli giallo-ocra, incorniciati da esili architetture, propongono un percorso decorativo che sembra alludere alla perfetta armonia esistente tra uomini e dèi. I miti selezionati mettono in rilievo il potere delle divinità, in particolare di Zeus e della sua prole, che, come tutori dell’ordine mondiale, puniscono i trasgressori e si mostrano benigni verso i giusti e gli onesti. Nella parete di fronte all’ingresso è il quadro con il re Penteo, che, colpevole di essersi opposto alla diffusione del nuovo culto di Dioniso, è in procinto di essere ucciso dalle Menadi che lo afferrano per i capelli e lo percuotono con pietre. L’esedra simmetrica, incorniciata da grandiose scenografie architettoniche, racconta l’episodio della consegna della vacca di legno costruita da Dedalo per Pasifae, moglie di Minosse, che la richiese per potersi unire al toro, insieme al quale generò il mostruoso Minotauro. Nella parte centrale un altro affresco rappresentava il supplizio del re tessalo Issione, responsabile di avere circuito Giunone e per questo condannato dagli dèi a essere legato alla ruota che lo farà girare nel cielo. Alla scena assistono Mercurio,

Giunone, Vulcano, Iride e, in basso, sotto Mercurio, è, forse, Nefele, la nuvola con le sembianze di Giunone inviata da Giove per ingannare Issione, da cui avrà origine la stirpe dei Centauri. Spostando lo sguardo sulla parete destra, si poteva tirare un sospiro di sollievo ammirando la storia del felice incontro tra Dioniso e Arianna, che il dio scopre addormentata su una pelle di tigre, mentre Teseo, con la sua nave, lascia le coste di Naxos. Altre scene rappresentano Ercole bambino che strozza i serpenti al cospetto di Alcmena, Anfitrione e Giove, raffigurato allegoricamente dall’aquila appollaiata sull’altare, ed episodi del mito tebano, con i gemelli Anfione e Zeto, figli di Giove e Antiope, futuri re di Tebe, che legano a un toro Dirce, la regina che per anni tenne in schiavitú la loro madre. Nei quartieri di servizio le pitture erano, ugualmente, collegate con la funzione delle camere: nel piccolo atrio, a protezione della zona in cui si trovava il focolare, era il larario in muratura con figure dei Lari e del Genius loci, mentre la stanza da letto, decorata con pitture a sfondo erotico, rivela la sua funzione di postribolo casareccio, attestata anche dal modico prezzo di due assi, graffito sulla parete, a cui la schiava Eutychis offriva le sue prestazioni. Gli intercolumni del peristilio e il viridarium conservavano ancora intatti il ricco apparato decorativo e scultoreo che esibisce tutti gli arredi da giardino tipici per l’epoca: fontane a forma di fanciulli, statue di Satiro, Dioniso, Priapo, erme di vario tipo, bacini di fontana in marmo e grandi tavoli dove venivano esposte le ricche suppellettili da usare nei banchetti.

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CASE E BOTTEGHE

LA CASA DEL CHIRURGO

In alto la Casa del Chirurgo, una delle dimore pompeiane piú antiche. La sua costruzione originaria risale al III sec. a.C. Il nome moderno deriva dal ritrovamento di una serie di strumenti chirurgici al suo interno.

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uesta abitazione, costruita in blocchi squadrati di calcare, è tra le piú antiche della città vesuviana. Il suo nome e la notorietà derivano dal rinvenimento, negli ambienti interni, di una quarantina di strumenti chirurgici in bronzo e ferro piuttosto complessi, tra cui un divaricatore

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ginecologico, alcune sonde e pinze per togliere i denti, che rivelano conoscenze mediche indubbiamente avanzate. L’impianto attualmente visibile, conservato nella sua articolazione originaria, è il risultato di due fasi costruttive risalenti all’età sannitica. La rilettura dei dati di scavo ha consentito di stabilire che l’impluvio non fu un’aggiunta successiva, come si credeva, ma appartiene alla dimora fin dal III secolo a.C., data della sua costruzione originaria. Il complesso occupò un’area già in parte edificata, come testimonia un pozzo afferente a installazioni precedenti rinvenuto all’interno del cubicolo. La planimetria è quella canonica delle case italiche, con vani regolari organizzati intorno all’atrio, dotato di un impluvio in tufo decorato da un pavimento in cocciopesto e scaglie policrome. Ai lati si dispongono le alae, di cui la sinistra presenta nella soglia un raffinato ornato a cassettoni, seguono, poi, il tablino, e nel fondo un piccolo giardino (viridarium). Di particolare rilievo è l’ambiente finestrato con vista sull’hortus nella parte posteriore della casa, che presenta le pareti affrescate con pitture di Quarto Stile, eseguite intorno alla metà del I secolo d.C.; il pavimento, formato da piastrine di ceramica e travertino, appartiene ancora all’epoca sannitica.

| La pittrice | Dalla Casa del Chirurgo proviene questo quadro di raffinato gusto ellenistico, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La scena ha come protagonista una pittrice, seduta sopra uno sgabello ligneo, intenta a intingere il pennello in una scatola di colori poggiata sopra un rocchio di colonna rovesciato, mentre un bambino inghirlandato le regge un quadro, appoggiato alla base di un’erma. Dietro di lei sono due donne, vestite con abiti eleganti, che sembrano guardare il quadro con atteggiamento pensoso.


VILLA DEI MISTERI S

ituato a 400 m circa da porta Ercolano, in direzione di Oplontis, l’imponente complesso fu concepito, probabilmente, come villa pseudo-urbana, ovvero come dimora signorile posta subito fuori dalle porte della città. Seppure distinta in pars urbana, rustica e fructuaria, nella sua ultima fase di vita fu il suo uso agricolo a ricoprire il ruolo piú importante. L’impianto della villa, che in origine risale al II secolo a.C., sfruttò un terreno in forte declivio, che venne modificato con la costruzione di un criptoportico ad arcate cieche, sul quale venne a impostarsi il giardino pensile sviluppatosi sul retro della residenza. In questa prima fase, la pars urbana della casa gravitava intorno all’atrio tuscanico, a cui seguivano il tablino, con due andrones ai lati, e una serie di stanze che si aprivano lungo questo asse. Intorno al 70-60 a.C., dopo l’avvento della colonia romana,

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l’edificio fu oggetto di una profonda ristrutturazione e, con l’aggiunta di nuovi settori, la sua articolazione divenne molto piú complessa. L’entrata principale era sul lato opposto di quello attuale, su un diverticolo di via dei Sepolcri che poi proseguiva in direzione del suburbio. Alcune panchine poste sotto un androne erano destinate ai clientes che attendevano di essere ricevuti dal padrone. In accordo con quanto indicato da Vitruvio, che per le ville raccomanda l’inversione dell’ordine atrio-peristilio, canonico per le domus, dall’ingresso si passava direttamente nel peristilio, scandito da un portico dorico di tufo a due piani. In questo settore della casa si aprivano diversi ambienti residenziali, e, attraverso un corridoio, si passava ai vani destinati alla vinificazione, con il torcularium, impiantato sull’angolo nord-orientale, riservato

La Villa dei Misteri. All’epoca dell’eruzione il complesso funzionava esclusivamente come villa rustica e come tale era destinata alla produzione agricola. Particolare del portico esterno sul giardino.

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CASE E BOTTEGHE 3

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A sinistra. Planimetria della Villa dei Misteri. 1. Ingresso originario (fauces). 2. Peristilio. 3. Settore dei servizi. 4. Latrina. 5. Cucina. 6. Torcularium (spremitura dell’uva). 7. Atrio tetrastilo. 8. Ambienti termali. 9. Atrio principale. 10. Tablino. 11. Esedra. 12. Salone degli affreschi. Nella pagina accanto salone con gli affreschi dei misteri dionisiaci. In basso particolare dell’affresco con figure femminili intente a compiere atti simbolici.

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| La megalografia della Villa dei Misteri | La celebrità della Villa dei Misteri è legata all’importante ciclo di affreschi, copiati e rielaborati da modelli alessandrini, che decorava le pareti della lussuosa sala triclinare. I quadri rientrano in un genere pittorico di ascendenza ellenistica, la megalografia, caratterizzato da figure di

grandi dimensioni e dalla narrazione di soggetti mitologici o aulici, venuto in grande auge a Roma nel I secolo a.C. Le lunghe pareti laterali hanno come protagoniste figure femminili, forse la stessa donna colta in diversi momenti della vita. La sequenza narrativa prosegue, specularmente, sulle pareti,

alla seconda spremitura dell’uva (la prima veniva effettuata per pigiatura in una cisterna all’esterno). Sul lato meridionale del peristilio si trovavano un piccolo settore termale, costituito da un tepidarium e da un laconicum, incentrato sull’atrio, e una spaziosa cucina, con un grande forno che assicurava alla villa la produzione giornaliera di pane. La pars urbana, che, organizzata intorno al grande atrio tuscanico, occupava la parte posteriore dell’edifico ed era circondata da un portico continuo, presenta una raffinata decorazione in Secondo Stile. Gli ambienti di soggiorno signorili e le molte camere da letto con vista sul mare, fanno pensare che la casa fosse strutturata per accogliere ospiti e amici. In età augustea,

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con la rappresentazione di altre donne intente a compiere atti simbolici, quali la pettinatura al cospetto di amorini, la preparazione di un pasto rituale e l’offerta di focacce. I pannelli in prossimità della parete di fondo, focalizzata sulla coppia DionisoArianna, sono occupati dai personaggi


del thiasos bacchico, Satiri, Menadi e Sileni, colti nel momento culminante della frenesia (l’enthousiasmòs) che inebria tutti i seguaci del dio. Il ciclo pittorico, alla cui esegesi si sono dedicati diversi studiosi, è stato variamente interpretato. Alcuni hanno pensato all’iniziazione di una donna ai

misteri orfici o dionisiaci, da cui il nome della villa, altri, invece, vi hanno riconosciuto la rappresentazione di un genere teatrale, il dramma, relativo a episodi della vita di Dioniso. Due successive ipotesi, tra loro contrastanti, hanno identificato questa figura femminile come una

furono effettuati diversi cambiamenti, soprattutto nel quartiere dell’atrio, dove il portico venne suddiviso in quattro settori, per l’inserimento dei cubiculi diurni, e dell’esedra absidata con vista sul mare, alla quale fu connesso il tablino, dipinto con un nuovo ornato di Terzo Stile, con motivi egittizzanti. A questa fase risalgono anche la sistemazione dell’aula absidata e dell’ampia anticamera, probabilmente il sacrarium della casa, destinata all’esposizione della statua femminile in marmo, che in origine doveva raffigurare una sacerdotessa della famiglia degli Istacidii, ultimi proprietari della villa, e, che, in seguito, venne adattata all’iconografia di Livia, moglie di Augusto. Altre profonde trasformazioni furono

sacerdotessa oppure come una donna di buona famiglia, forse la stessa domina, prima e dopo la cerimonia nuziale, in cui l’esaltazione dell’amore coniugale ideale è simboleggiato dalla coppia formata da Dioniso e Arianna, allegoria della perfetta unione tra mondo divino e mondo umano.

effettuate nell’epoca successiva al terremoto del 62 d.C., evento che, probabilmente, determinò l’abbandono della villa da parte dei proprietari. All’epoca dell’eruzione tutto il complesso versava in evidente stato di abbandono: il quartiere signorile aveva ormai perso il suo antico splendore e la vita si concentrava nella pars rustica, sul lato nordorientale della villa. I lavori, ancora in pieno corso, erano stati affidati dai proprietari alla sorveglianza del loro liberto procuratore, L. Istacidius Zosimus, il cui nome è impresso in un sigillo di bronzo rinvenuto negli ambienti di servizio. Il complesso era diventato una vera e propria villa rustica e come tale destinata soprattutto alla produzione agricola.

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