Archeo Monografie n. 31, Giugno/Luglio 2019

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GLI EBREI IN ITALIA

N°31 Giugno/Luglio 2019 Rivista Bimestrale

IN EDICOLA IL 7 GIUGNO 2019



EBREI IN ITALIA GLI

DALLE ORIGINI AL GHETTO DI VENEZIA testi di Giulio Busi, Anna Foa, Fabio Isman, Giancarlo Lacerenza, Fabrizio Lelli, David Noy, Mauro Perani, Alessandra Veronese e Fausto Zevi

6. Presentazione

84. Il Sefer Massa’ot

8. Introduzione

Il viaggio di Beniamino da Tudela

Una storia italiana

20. Roma La comunità piú antica

40. La menorah Un candelabro per due capitali

52. L’impero cristiano Lo specchio rovesciato del cristianesimo

68. Le comunità italiane «Da Bari uscirà la Torah e la parola del Signore da Otranto»

92. Le scienze Medici senza frontiere

102. Tradizioni mistiche Conoscitori di misteri

108. Il Rinascimento Il Rinascimento parla ebraico

128. Glossario


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Un particolare dell’allestimento del MEIS-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, con una ricostruzione grafica della città di Ferrara in epoca rinascimentale e, in primo piano, un capitello con Cena di Erode e Decollazione del Battista (1200 circa. Ferrara, Museo della Cattedrale).

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uesta nuova Monografia di «Archeo» presenta, in maniera piú estesa e organica, un argomento che, in vario modo, ha informato le pagine della nostra rivista a partire dalla sua nascita nel lontano 1985. È interessante notare, tuttavia, come tale argomento – nonostante la rilevanza che

riveste per la storia antica, medievale e moderna del nostro Paese – non sembri ancora appartenere al «sapere comune» nazionale. Una circostanza, quest’ultima, su cui, credo, valga la pena riflettere. Eppure, l’ebraismo italiano delle origini (le quali, come leggeremo nelle pagine seguenti, risalgono a ben prima dell’inizio dell’era volgare) può vantare un «monumento» tra i piú universalmente noti e visitati: parliamo dell’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come «Colosseo». Ma come può, quel celeberrimo simbolo della Roma imperiale, associato (sebbene impropriamente) al martirio dei primi cristiani, configurarsi come luogo di una memoria ebraica? Troverete la risposta nelle pagine di questa Monografia, interamente dedicata alla grande, affascinante, drammatica e – come teniamo a rimarcare – fino a oggi sconosciuta epopea degli Ebrei in Italia. Una storia che dall’antichità si dipana, senza sostanziali soluzioni di continuità, fino all’età moderna e contemporanea; una storia «archeologica», eminentemente documentata e narrata – almeno per i secoli piú antichi, che tanta rilevanza assumono nel quadro complessivo della storia dell’ebraismo italiano – proprio dalla documentazione di scavo. Ma anche di un’altra «epopea» – piú recente e ancora in fieri – desideriamo dare conto: quella del giovane Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) di Ferrara, già promotore di due mostre fondamentali, intitolate rispettivamente «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni» e «Il Rinascimento parla ebraico» (ancora in corso mentre usciamo in edicola). La presente Monografia, infatti, non si sarebbe potuta realizzare senza la collaborazione degli ideatori e curatori di questi due eventi espositivi: Simonetta Della Seta (direttore del MEIS), Anna Foa, Giancarlo Lacerenza, Daniele Jalla, Giulio Busi e Silvana Greco, a cui vanno i nostri ringraziamenti. Nel Museo di Ferrara, dunque, il lettore potrà trovare un riscontro «tridimensionale» di quanto è narrato in queste pagine (la collezione permanente del MEIS ha conservato gran parte dei reperti allestiti in occasione della mostra dedicata ai «primi mille anni»). Inoltre, se incuriosito al punto giusto, potrà approfondire gli argomenti trattati ricorrendo ai cataloghi delle due esposizioni, pubblicati rispettivamente dagli editori Electa e Silvana Editore. Nel frattempo, però, il viaggio nei secoli di una storia italiana ancora inesplorata può iniziare subito, seguendo i capitoli del nostro avvincente racconto… Andreas M. Steiner

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Una storia

italiana di Anna Foa e Giancarlo Lacerenza

Una sconfitta che ha segnato la storia Questo dipinto di David Roberts, L’assedio e la distruzione di Gerusalemme (1850), rievoca – avvalendosi di un contesto fantastico costellato da architetture di impronta classica – la battaglia che segnò la fine della grande rivolta ebraica, terminata con la caduta Gerusalemme il 9 del mese di Av dell’anno 70. Tito guidò l’esercito romano davanti alla città. Secondo lo storico Giuseppe Flavio, i difensori potevano contare su una forza di 23 500 uomini, mentre i Romani avevano effettivi quasi tre volte superiori. Gerusalemme, pur protetta da un possente sistema di mura e validamente difesa dagli insorti, fu espugnata. La battaglia si spostò poi nell’area del Tempio, ove i ribelli cercarono un’ultima, disperata difesa, ma gli uomini di

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Tito non lasciarono loro scampo e nel corso di questi combattimenti il Tempio stesso fu dato alle fiamme. I capi della rivolta furono catturati nell’arco di pochi giorni, gli oggetti sacri del Tempio requisiti e migliaia di Giudei furono resi schiavi, aggiungendosi a quelli che erano già caduti in mano romana nel corso della guerra. Per ordine di Tito, Gerusalemme fu rasa al suolo e villaggi interi giacquero spopolati. Per celebrare la vittoria, si iniziarono a coniare le famose monete con la legenda Iudaea capta, le cui emissioni continuarono, con numerose varianti, anche sotto Tito e Domiziano. L’evento segnò l’inizio della seconda, grande diaspora del popolo ebraico, dopo l’esilio babilonese del 586 a.e.v.


Il nostro Paese vanta una frequentazione ebraica che risale, verosimilmente, al primo secolo a.e.v. Una presenza piú che bimillenaria, dunque, e sostanzialmente ininterrotta. Ma in cosa consiste la «specificità» della straordinaria avventura storica e culturale dell’ebraismo italiano? Ed è possibile affermare che sia proprio la nostra Penisola la culla dell’ebraismo europeo?

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a sempre si ripete che la presenza degli Ebrei in Italia è piú che bimillenaria e che, in questo lungo arco temporale, è stata sostanzialmente ininterrotta. In effetti, nessun altro luogo nella Diaspora occidentale può vantare una frequentazione ebraica che sia al contempo cosí antica, diffusa e costante. Anche se non va dimenticato che nel corso di quei due millenni (e piú), questa presenza è stata distribuita sul territorio in maniera non omogenea e che, in realtà, le interruzioni non sono certo mancate; piú o meno complete, mai abbastanza generalizzate o durature, comunque, da intaccare in maniera significativa la sostanziale veridicità di quanto sopra. L’«Italia ebraica» inequivocabilmente caratterizzata da continuità e diffusione è, tuttavia, soprattutto e quasi esclusivamente l’Italia meridionale, isole comprese, oltre naturalmente a Roma. Perché è questo lo sfondo della presenza ebraica lungo la Penisola, per tutto il primo millennio. Ma anche parlare di Italia meridionale è una generalizzazione. Si tratta, infatti, di territori contesi fra piú dominazioni: i Visigoti all’inizio del V secolo, i Vandali in Sicilia nella seconda metà del V, gli Ostrogoti, i Bizantini tra il VI e l’VIII, limitatamente a Puglia, Calabria e Lucania i Longobardi e, infine, gli Arabi. La presenza ebraica attraversa nei secoli queste diverse dominazioni, spesso in guerra tra loro, senza che si verifichino rotture particolarmente significative nella lunga continuità della loro esistenza millenaria. Un altro elemento caratterizzante dell’ebraismo italiano – richiamato non tanto nella letteratura storiografica, quanto nell’uso e nelle discussioni, spesso improduttive, sui fattori storico-sociali e identitari dell’ebraismo in genere – è che l’ebraismo italiano, anche in ragione del lungo radicamento nel territorio, abbia delle caratteristiche peculiari: «uniche» secondo alcuni commentatori, che ne avrebbero contraddistinto lo sviluppo in simbiosi, certo non sempre facile, con l’ambiente circostante. Nelle pagine che seguono abbiamo dunque deciso di mostrare, in primo luogo, come, fra la conquista romana di Gerusalemme e la caduta dell’impero

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romano d’Occidente, la presenza degli Ebrei si sia inaspettatamente trasformata – in tutta Italia, sebbene il processo possa essere seguito in maniera piú ravvicinata solo a Roma e nelle regioni immediatamente limitrofe – da una delle varie componenti allogene dell’impero, già multiculturale di fatto, nell’unica che abbia resistito al trascorrere del tempo: fino a diventare parte, minoritaria senza dubbio, ma capillarmente diffusa e, soprattutto, strutturalmente integrata, di una società fattasi nel frattempo sempre piú largamente cristiana. In quell’area cosí ben definita fisicamente – penisola, isole – e viepiú contesa fra i Goti, i Bizantini, i Longobardi e gli Arabi di cui sopra, quella consuetudine divenuta da tempo radicamento nel territorio, sostenuta da ragioni di convenienza teologica, oltreché economica, garantí agli Ebrei la possibilità di restare e di poter vivere: sia pure all’ombra degli edifici arcivescovili, nelle giudecche, inizialmente ben visibili, solo in seguito spostate, volentieri, a margine del tessuto urbano.

Libri e pietre Per ricostruire questa storia – se intendiamo per storia non solo gli eventi, ma anche la percezione che ne hanno avuto i contemporanei, Ebrei e no, e il modo in cui l’hanno rielaborata e trasmessa –, ci siamo appoggiati a fonti storiche, archeologiche, letterarie, filosofiche: libri e pietre, insomma. La maggior parte delle fonti utilizzate è costituita da fonti ebraiche: principalmente storici e cronisti, ma anche medici, scienziati, poeti, musicisti. Non si è mancato di compulsare, frequentemente, anche la letteratura rabbinica, il vasto complesso di testi a carattere normativo, esegetico e narrativo che va sotto il nome di Mishnah, Talmud, Midrash. Ne è stato fatto infine un uso moderato, certo non per mettere in discussione le suggestioni o l’importanza dei testi rabbinici che tuttavia, per quanto importanti siano, non ci raccontano questa storia, anche nel senso piú ampio che vogliamo dare alla parola «storia». Come scriveva un grande storico

Frammenti del sarcofago detto «delle Palme», dalle catacombe ebraiche di Vigna Randanini (Roma). III-IV sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen.

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La storia raccontata dalle monete

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allo scoppio della prima rivolta giudaica nel 66 e.v. fino alla definitiva conquista di Gerusalemme avvenuta nel 70 e.v. da parte dell’esercito romano guidato da Tito, i ribelli continuarono a battere moneta: le monete d’argento – le piú importanti, prive di figura umana, con i simboli della coppa e del ramo di melograno – sono

emesse dal primo all’ultimo anno della rivolta. Del valore intero, della metà o di un quarto di siclo, le monete recano al dritto la legenda sheqel Yisra’el («siclo d’Israele») e, al rovescio, Yerushalayim ha-qedoshah («Gerusalemme la Santa»), con varianti. Queste

iscrizioni miravano a riaffermare il valore religioso e nazionale della capitale. Quando la penuria d’argento indusse gli occupanti a coniare anche monete di bronzo, apparve dapprima una piccola prutah (moneta spicciola) con simboli leggermentediversi e iscrizioni come le-herut Siyyon («per la libertà di Sion»); seguita quindi, solo nel quarto anno della

dell’ebraismo, Yosef Hayim Yerushalmi: «A differenza degli autori biblici, i rabbini sembrano giocare a loro piacimento con il Tempo, espandendolo o contraendolo come una fisarmonica: mentre la specificità storica è un tratto distintivo delle narrazioni bibliche, qui la precisa coscienza del tempo e del luogo cede il passo in varie occasioni al piú sfacciato e forse inconsapevole anacronismo (…) Se i rabbini, pur avendo ereditato una ricca tradizione storica, non avevano alcun interesse per le vicende terrene, questo vuol dire che non sentivano alcun bisogno di analizzarle. Forse già sapevano tutta la storia che a loro serviva, forse ne diffidavano un po’». Per rappresentare in maniera efficace un quadro cosí complesso, specialmente dopo la fine dell’impero romano, s’impone, dunque, una valutazione molto attenta delle fonti e cautela nel loro uso. «Orientali» che non hanno mai messo piede in Oriente; «stranieri» che risiedono in alcuni luoghi da ben prima che vi s’insediassero i rappresentanti della nuova maggioranza cristiana, impegnati in attività produttive ed economiche differenziate secondo le varie regioni. In un certo qual modo, fra Tarda Antichità e Alto Medioevo gli Ebrei funsero da ponte fra mondo antico e mondo nuovo. Protetti da alcuni duchi, tollerati da alcuni papi, vessati da molti altri, nel quadro di una normativa che consente l’integrazione, ma non l’equità sociale – e che di fatto li marginalizza e

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In alto prutah in bronzo. 67-68 e.v. Gerusalemme, Israel Museum. Al dritto, un’anfora; al rovescio, foglia di vite. A sinistra shekel (siclo) in argento. 66-67 e.v. Gerusalemme, Israel Museum. Al dritto, un calice; al rovescio, stelo con tre melagrane.


rivolta, da monete piú grandi di valore variabile, con la stessa iscrizione, ma una diversa iconografia. Oltre alla coppa, troviamo per la prima volta i simboli escatologici della festa di Sukkot – i rami del lulav e il frutto del cedro (etrog), che diverranno molto popolari nell’iconologia della Diaspora – e dell’albero di palma, simbolo nazionale che i Romani riprenderanno sulle loro monete della serie Iudaea capta («Presa la Giudea»), quando Gerusalemme sarà ormai conquistata. Dopo la conquista romana della Giudea, dal 70 fino all’81 e.v. sotto i Flavi furono battute piú serie di monete celebrative, emesse non solo a Roma, ma anche in varie province dell’impero (Spagna Tarragonense, Gallia Lugdunense, Tracia, Asia, Siria). Queste emissioni sono

In alto rovesci di due sesterzi in bronzo dell’epoca di Vespasiano. Raffigurano entrambi un Giudeo in piedi, con le mani legate dietro il dorso presso un albero di palma, che si volta a guardare dal lato opposto verso la Giudea seduta e dolente, ambedue circondati da molte armi. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra dritto di un sesterzio in bronzo con testa dell’imperatore Tito. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

generalmente denominate Iudaea capta – dalla legenda piú nota e diffusa – sebbene sul rovescio appaiano anche altre iscrizioni (Iudaea, De Iudaeis, Iudaea devicta) e siano presenti diversi elementi iconografici tra i quali spiccano l’albero di palma e la donna in atteggiamento dolente seduta in terra, personificazione della nazione sconfitta.

quindi li esclude come gruppo –, gli Ebrei si prenderanno la loro rivincita sul piano economico e, soprattutto, culturale. Alfabetizzati, anche fra i piú bassi strati sociali, in un mondo che non considera indispensabile la capacità di lettura – tanto meno di scrittura – nemmeno per principi e governanti, gli Ebrei divengono, laddove ci si voglia affrancare dal dominio dei chierici, elementi necessari: e non piú solo in occupazioni tradizionali, quali la tintoria (in cui molti si erano già specializzati ai tempi del tardo impero); ma anche in rami «nuovi», quali la pratica della medicina, in cui la competenza ebraica in breve tempo eccelle. Come ciò sia avvenuto, lo si deve in gran parte alla possibilità di superare margini e confini grazie a uno strumento di cui solo dopo il IX secolo gli Ebrei italiani sembrano comprendere pienamente l’importanza: il possesso della lingua ebraica, da usarsi non solo nella liturgia, nell’epigrafia funeraria o nell’ambito letterario, ma come lingua veicolare fra individui e comunità distanti, linguisticamente eterogenee. Come si riscontra anche altrove, sul suolo italico gli Ebrei usano esclusivamente la lingua e le parlate locali. La mobilità ebraica all’interno dell’area euromediterranea favorisce il contatto con altre lingue e idiomi, e quindi anche una loro reciproca conoscenza. Il processo di riappropriazione dell’ebraico non è, tuttavia, un fenomeno interno, né propriamente di contatto,

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ma la conseguenza di una vera e propria ebraizzazione culturale legata alla liturgia, gradualmente impostasi parallelamente alla progressiva affermazione del movimento rabbinico e all’intensificarsi, anche in Occidente, dell’azione di inviati del patriarcato palestinese prima, e delle accademie babilonesi poi. Che questo processo non abbia trovato localmente resistenze è falso, come fra l’altro dimostrano gli iniziali successi del movimento caraita (setta che ripudia la dottrina tradizionale rabbinica e riconosce quale base della vita religiosa la sola Bibbia, n.d.r.); e ne troviamo una delle piú vivide rappresentazioni nel celebre episodio, collocato nella Venosa del secolo IX e rievocato parecchio tempo dopo, nel 1054, nel Libro delle genealogie di Achima‘atz ben Palti’el, anche noto come Megillat Achima‘atz (vedi a p. 19). L’episodio è noto: un dotto poeta locale, Silano, infastidito dalla venuta (e forse anche dal successo) di un missionario giunto dalla Terra d’Israele, gioca all’ospite un brutto tiro, alterando il testo dell’omelia da leggere il sabato successivo in sinagoga: il nuovo venuto non riesce a venirne a capo – Silano ha infatti

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Il Libro di Giuseppe Il Sefer Yosippon (Libro di Giuseppe), composto in ebraico nel 953 da un ignoto ebreo dell’Italia meridionale e fittiziamente attribuito a Flavio Giuseppe (Yosef ben Gurion), è l’opera storiografica piú conosciuta e diffusa dell’ebraismo medievale. Tradotta e stampata piú volte narra la storia del popolo ebraico dalle origini fino alla distruzione del Tempio. Il testo si basa su fonti diverse, perlopiú in latino, in particolare adattamenti delle opere di Flavio Giuseppe, e si caratterizza, oltre che per la presenza di molte storie fantastiche, per l’intersezione fra le vicende di personaggi biblici e le origini delle città italiane.


interpolato tre stichi (versetti) in cui si narra un incidente, abbastanza prosaico, avvenuto in Venosa qualche giorno prima –, ma deve far finta di nulla; viene cosí ridicolizzato innanzi all’uditorio e ciò costa a Silano addirittura un bando di scomunica, emesso da una yeshivah (scuola ebraica) di Gerusalemme.

«Carro, forno e forcone»

In alto pagina di un manoscritto membranaceo miniato contenente un’edizione dell’opera De excidio iudeorum dello Pseudo-Egesippo. Italia centro-settentrionale (Padova?), 1460 circa. Zurigo, Collezione David e Jemima Jeselsohn. Nella pagina accanto, a sinistra pagina di un’edizione manoscritta del Sefer Yosippon. XV-XVI sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana Nella pagina accanto, a destra frontespizio di un’edizione del Sefer Yosippon.Fano (PU), 1443. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Al di là delle possibili interpretazioni dei fatti, vale la pena di evidenziare che i tre stichi interpolati da Silano e riportati in ebraico da Achima‘atz sono in effetti una terzina in cui la rima finale è data da tre parole non ebraiche, carron, furnon, furcon (carro, forno, forcone), in un latino maccheronico basato, in realtà, sul volgare. Questa precoce intersezione fra parlata locale ed ebraico non resta isolata nella produzione culturale ebraica dell’Italia meridionale ed è confermata dalle glosse volgari nella «Mishnah di Parma», in effetti salentina (da Otranto?); da quelle lessicali e toponimiche nel Sefer Yosippon e, non ultime, da quelle nelle opere del medico e astronomo apulo-calabrese Shabbetay Donnolo, che ci riconducono tutte al X secolo. Alla fine di quel secolo si compie il primo millennio dell’era cristiana, corrispondente all’anno ebraico 4760 li-bri’at ha-‘olam, «della creazione del mondo». In quel giro di anni, fra gli Ebrei si annidavano però non solo timori, ma anche speranze: nel Sefer Zerubbavel, un breve testo apocalittico composto non si sa dove circa tre secoli addietro, ma ben noto anche dalle nostre parti, si era predetto che 990 anni dopo la distruzione del Tempio si sarebbe verificato l’arrivo del messia. Per il computo ebraico, che data l’evento al 68 e non al 70 e.v., l’anno fatale sarebbe stato il 4818; per il mondo cristiano, l’anno atteso era il 1058. Il messia, come si sa, non si sarebbe fatto vedere; ma quel periodo non fu privo, per gli Ebrei italiani, di altri eventi comunque significativi. È in quegli anni, per esempio, che dai testi comincia curiosamente a emergere un fenomeno, quello delle conversioni all’ebraismo che, a quanto sembra, fu quasi all’ordine del giorno nei primi secoli dell’impero romano – com’è attestato da vari tipi di fonti –, ma di cui in seguito si smise quasi totalmente, almeno nel mondo occidentale, di fare menzione. Sfuggí a questa regola ancora una volta il Meridione, quando nella Storia dei Normanni di Amato di Montecassino si parla, quasi a denti stretti, della scandalosa conversione di un certo Achille, forse un chierico, vissuto presumibilmente nel Salernitano verso la metà dell’XI secolo. Ancora piú clamorosa, pochi anni dopo, fu probabilmente la conversione collocata verso il 1066 di Andrea, arcivescovo di Bari, morto da proselito in

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‘Ovadyah il proselito Giovanni, giovane chierico normanno di Oppido Lucano, sceglie di convertirsi all’ebraismo e si trasferisce in Oriente, passando alla storia con il nome di ‘Ovadyah ha-ger, «il proselito». Di lui sono rimaste le piú antiche trascrizioni musicali conosciute di testi liturgici sinagogali e frammenti della sua autobiografia, rinvenuta, come tutti gli altri testi che lo riguardano, nella Genizah del Cairo. Qui accanto è appunto un frammento del manoscritto cartaceo con il testo del Megillat ‘Ovadyah (‘Ovadyah il proselito), dalla Genizah del Cairo, oggi custodito presso la Cambridge University Library.

Egitto dodici anni piú tardi, nel 1078. Nel frattempo, verso il 1070, presso una nobile famiglia normanna di Oppido Lucano nasceva una coppia di gemelli, Ruggero e Giovanni, il secondo dei quali sarebbe stato protagonista di un’ulteriore conversione all’ebraismo caratterizzata, in questo caso, dall’eccezionale lascito della sua autobiografia, scritta in ebraico molti anni dopo, ancora in Egitto, dove si spense entro la prima metà del XII secolo col nome di ‘Ovadyah ha-ger, «‘Ovadyah il proselito»: non prima di aver trascritto, insieme ai suoi ricordi, i primi esempi di musica liturgica ebraica che ci siano mai pervenuti, usando i neumi della notazione longobardo-beneventana che aveva portato con sé in retaggio della sua gioventú trascorsa fra i chierici nella lontana Oppido.

Lo sguardo si volge all’Oriente Come nel caso di questi proseliti, nel XII secolo lo sguardo degli Ebrei torna a volgersi verso Oriente: probabilmente sulla spinta dell’acuirsi, in vari luoghi d’Europa, di sentimenti apertamente antiebraici e non senza il concorso, anche in questo caso, di un significativo mutamento nella riflessione teologica intorno agli Ebrei, al loro ruolo e alla loro presenza, antichissima ma anche assai ingombrante, sul suolo cristiano, che da tempo deve fronteggiare lungo i suoi confini a sud quanto al nord la morsa, quando non le minacce, di altri «infedeli», ben diversamente intenzionati. In Italia, questa nostalgia delle origini sembra ravvivarsi particolarmente nella poesia liturgica: ed è in questo clima che, rielaborando una leggenda ormai antica, in un luogo imprecisato – in area meridionale secondo alcuni, romana o centro-meridionale secondo altri – sarà composta la celebre qinah o elegia giudeo-italiana per il 9 di Av, nota come La iente de Zion (vedi anche a p. 111). La rievocazione del triste destino di due giovani, un fratello e una sorella, fatti schiavi durante l’assedio del 70, dà l’occasione per rievocare i fasti dell’antica Gerusalemme, del popolo ebraico, della patria perduta e, per concludere – come di consueto in tanta lirica liturgica

Una pagina del codice membranaceo contenente il testo completo dei sei ordini della Mishnah con glosse salentine, noto anche come «Mishnah di Parma». Italia meridionale, 1072-1073 circa. Parma, Biblioteca Palatina.

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–, con l’augurio di una prossima ricostruzione del Tempio, della patria e della riunione di tutto il popolo d’Israele a Sion, nella Terra promessa. Composta e cantata in volgare, ma scritta usando i caratteri ebraici, l’elegia celebra però anche il matrimonio fra la cultura ebraica e quella italiana, nell’unione grafica e linguistica, a un tempo, di ebraico e volgare, di cui è proprio la qinah, secondo l’opinione di filologi piú che autorevoli, a fornire una delle piú antiche attestazioni. L’Italia ebraica del Medioevo e, quindi, dell’Età premoderna, si può far partire da questo punto: in cui, dopo poco piú di mille anni di storia, s’incontrano su un terreno comune la cultura ebraica e la nascita della lingua italiana; chiudendo il cerchio, e rendendoci le idee forse un po’ piú chiare, su in che cosa consista la famosa «specificità» della straordinaria avventura storica e culturale dell’ebraismo in Italia.

Alle origini della specificità È, riprendendo i fili sparsi di questa introduzione, una specificità che parte innanzitutto dal fatto di essere una sorta di culla dell’ebraismo europeo, o almeno di molta parte di esso, dal momento che è dall’Italia meridionale, passando da Roma, che gli Ebrei si spostano al Nord e vanno ad ampliare la popolazione ebraica dell’Italia settentrionale fino alla Germania del Reno, spesso sovrapponendo nuove comunità ad antiche tracce scomparse di comunità d’età romana, altre volte creandone di assolutamente nuove. È anche il luogo attraverso cui la cultura talmudica babilonese filtra in Europa e dove forse ha origine la prima forma dell’organizzazione comunitaria. Dove l’ebraico, a lungo negletto, torna a rivivere e ad animare il pensiero e la vita di ogni giorno. Se di una sorta di primato possiamo parlare, è quindi un primato innanzitutto interno al mondo ebraico della Diaspora. Non a caso un importante rabbino francese del XII secolo, Ya‘aqov ben Me’ir, potrà scrivere: «Da Bari uscirà la Torah e la parola del Signore da Otranto». Ma alle origini della specificità c’è anche l’aspetto del rapporto con l’esterno, la simbiosi culturale che fa degli Ebrei dell’Italia meridionale i fondatori, insieme ai cristiani, della cultura italiana delle origini. Testi e scritti che attraversano le culture, parole in volgare scritte in lettere ebraiche. Gli Ebrei che vivono nell’Italia meridionale nel primo millennio hanno con i loro vicini cristiani rapporti di convivenza sostanziale, nonostante crisi e incrinature. Non c’è assimilazione, se intendiamo perdita piú o meno totale dell’identità, ma

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Pagina di un codice contenente due opere distinte, un Sifra e il Tanna d’ve- Eliyahu (Insegnamenti della scuola di Elia). Italia meridionale, 1072-1073 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.


Il Libro delle genealogie Pagine di un manoscritto cartaceo miscellaneo contenente il Sefer yuhasin di Ahima‘as ben Palti‘el. Roma (?), XVII sec. Toledo, Catedral, Archivo y Biblioteca Capitulares. A sinistra, la traduzione in italiano dell’opera; a destra, lo stesso testo nella versione originale. Il Sefer yuhasin (Libro delle genealogie) è la sola opera nota di Ahima‘as ben Palti‘el, discendente da un’illustre famiglia di studiosi: Rabbi Silano di Venosa, Amittay ben Shefatyiah, suo nonno, e Shefatyiah ben Amittay, suo padre, di Oria. Ahima‘as, che fa risalire la sua stirpe ai prigionieri portati da Gerusalemme a Roma da Tito, descrive la cultura ebraica meridionale e la penetrazione in Occidente del Talmud Babilonese, attraverso la leggenda dell’arrivo a Oria di Abu Ahron di Baghdad.

integrazione e scambio. La grande rottura e la crisi nella convivenza interverranno molto piú tardi e verranno dal Nord, saranno gli echi del mutamento irreparabile che si determina ovunque, dove vivono gli Ebrei, dopo i massacri della prima crociata in Germania, dopo le spinte apocalittiche del mondo cristiano. E poi, alle radici della specificità del mondo ebraico italiano c’è Roma. Roma antica con i suoi primati e la tolleranza di tutti i popoli e di tutte le culture, con le eccezioni che sappiamo, e poi la Roma cristiana, che recepisce tanta parte di quel modello di accoglienza e accetta la presenza degli Ebrei ma solo di essi. Nessun’altra minoranza potrà restare all’interno della società cristiana, per gli eretici e gli altri infedeli c’è solo il rogo o la conversione forzata. Quello con gli Ebrei è, invece, un rapporto originale fra minoranza e maggioranza assai lontano dalla tolleranza, dal momento che gli Ebrei sono in uno stato legalizzato di inferiorità, ma anche assai lontano dalla scelta tra espulsione o conversione, dal momento che possono restare presenti nel mondo cristiano e vivervi accanto ai non Ebrei. Un modello, quello romano, distante anche da quello dell’Italia meridionale, dove la vita delle comunità sembra meno segnata dall’ideologia del potere cristiano, piú quotidiana. E mentre a Roma gli Ebrei resteranno presenti fino a oggi, dell’ebraismo meridionale, con tutta la sua importanza, con il gran numero delle comunità, con la sua esplosione culturale, si è persa la traccia. Espulsioni e conversioni lo hanno segnato fino a farlo del tutto scomparire. Ne stiamo riconquistando lentamente la memoria.

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Roma. Particolare di uno dei rilievi dell’Arco di Tito che mostra il trasporto del bottino saccheggiato dai Romani a Gerusalemme, del quale fa parte la menorah, il candelabro a sette bracci in oro massiccio. I sec. e.v.

Roma: la comunità piú antica La rilevante presenza degli Ebrei nell’Urbe – in età flavia forse addirittura il 6% dell’intera popolazione – si protrasse con alterne vicende, ma senza interruzioni, dall’antichità, attraverso il Medioevo, fino ai nostri giorni. E, sebbene le testimonianze archeologiche vere e proprie siano quasi inesistenti per il primo secolo (salvo il celebre rilievo dell’Arco di Tito), a parlarci di loro accorrono le fonti scritte – storiche e giuridiche – e le numerose iscrizioni rinvenute nelle catacombe di Fausto Zevi

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ROMA

C

onfrontando indicazioni da fonti diverse, si è calcolato che nel I secolo e.v. la presenza ebraica a Roma assommasse a 40 000/ 50 000 individui (molti meno, peraltro, su altre basi di computo); supponendo tra 700 000 e un milione gli abitanti della città, gli Ebrei avrebbero rappresentato il 5 o 6% della sua popolazione. La percentuale è notevole, anche se non raggiunge quella delle maggiori città dell’Asia Minore, e soprattutto dell’Egitto dove, secondo Flavio Giuseppe, viveva un milione di Ebrei, e, come ci informa Filone, due dei cinque distretti di Alessandria erano a maggioranza ebraica. Il corpus delle iscrizioni giudaiche di Roma, con oltre 600 documenti, è di gran lunga il piú imponente di tutto l’Occidente mediterraneo, anche se restituisce una visione solo parziale, limitata come è cronologicamente ai secoli avanzati dell’impero (soprattutto dal III al V), perché proviene per la quasi totalità dalle catacombe, il cui uso è documentato soprattutto per quel periodo. Un certo numero di epitaffi reca l’indicazione di cariche rivestite dal defunto all’interno della (o per meglio dire, di una delle) comunità ebraiche romane, talvolta accompagnate dalla citazione del nome

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In alto un altro particolare dei rilievi che ornano l’Arco di Tito raffigurante l’imperatore in trionfo, sulla quadriga, incoronato dalla Vittoria. I sec. e.v.

della «sinagoga» in cui erano state esercitate. Questo termine, «sinagoga», che oggi designa l’edificio sede delle attività religiose della comunità, in antico aveva un significato piú ampio e ancipite, indicando la congregazione o comunità che vi si riuniva, ma anche l’edificio, per il quale il termine in uso nel mondo ellenistico era proseuche (che però nella epigrafia di Roma compare una sola volta). Cosí, dalle iscrizioni delle catacombe, veniamo


A destra l’interno del fornice dell’arco di Tito con il fregio a rilievo che mostra il tesoro del tempio di Gerusalemme portato in trionfo come bottino di guerra (vedi in dettaglio nell’immagine d’apertura, alle pp. 20-21).

a conoscere il nome di undici (e forse dodici o tredici) «sinagoghe» romane, anche se non sappiamo se fossero tutte contemporaneamente in attività. Di nessuna di esse si conservano resti; tanto piú importante per questo la scoperta, all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, della sinagoga della vicina città di Ostia. È molto discussa invece, e anzi controversa tra gli studiosi (che nella maggioranza tendono a escluderla), l’esistenza nell’Urbe, come altrove nella Diaspora, di un’organizzazione di riferimento comune a tutte le «sinagoghe», sia sul piano dottrinario sia per l’amministrazione di servizi collettivi (per esempio lo scavo e la gestione delle catacombe, che richiedevano un impegno anche tecnico che oltrepassava le possibilità delle singole «sinagoghe»; a meno che non si trattasse di un’operazione di imprenditoria privata, come pure si è supposto); sia soprattutto per assicurare una rappresentanza unitaria nei confronti dei pubblici poteri e in genere del mondo esterno. Suppongo che A sinistra rilievo proveniente dal mausoleo degli Haterii, rinvenuto nel 1848 presso Centocelle (Roma), sulla via Labicana. II sec. e.v. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano. Da sinistra, si riconoscono: l’arco di ingresso dell’Iseo in Campo Marzio; l’Anfiteatro Flavio; l’Arco di Tito, un arco situato sul tratto finale della via Sacra; il Tempio di Giove Statore.

anche la yeshivah (scuola ebraica, n.d.r.), installata a Roma in età antonina, costituisse una istituzione in qualche modo comunitaria.

Un ricco repertorio di fonti Questa rilevante presenza ebraica, protrattasi con alterne vicende, ma senza interruzioni, per tutta l’antichità (e via via attraverso il Medioevo fino ai giorni nostri), è attestata da un consistente complesso di informazioni tramandateci dalle fonti scritte romane (soprattutto opere storiche e letteratura giuridica, ma non solo) e dagli scrittori di cose ebraiche in lingua greca (Filone di Alessandria, Flavio Giuseppe; ma anche testi del primissimo cristianesimo come gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo), grazie alle quali si ricostruisce in modo abbastanza efficace la storia degli

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Ebrei di Roma per tutto il I secolo dell’impero, fino alla fine del periodo dei Flavi. Per i tempi successivi, le fonti si fanno piú rare e discontinue: soprattutto il grande storico di età severiana, Cassio Dione, conservato in modo incompleto, e la tarda e spesso inaffidabile Historia Augusta, mentre la letteratura talmudica contiene notizie preziose, ma episodiche e talvolta riportate in modo poco congruente. Le evidenze archeologiche, quasi inesistenti per il I secolo (ma anche per il II), per i secoli successivi praticamente si limitano alle catacombe, con i pochi elementi decorativi (pittorici e, in assai minor misura, scultorei) dei loro apprestamenti funerari, e soprattutto, come si è accennato, con le iscrizioni comunque preziose. Le catacombe conosciute fino a ora (Monteverde, Vigna Randanini sull’Appia, Villa Torlonia in via Nomentana; oltre a meno noti ipogei in via Labicana e sulla via Appia) sono dislocate poco fuori le mura della città in zone molto distanti fra loro o addirittura diametralmente opposte rispetto al centro cittadino e – anche se c’è chi ne dubita – è parso ovvio che la distribuzione topografica dei cimiteri riflettesse quella delle comunità presenti nelle varie aree urbane, cioè che le «sinagoghe» citate nelle iscrizioni di ciascuna catacomba fossero quelle che della catacomba stessa facevano uso.

Nel rione al di là del Tevere Filone, che, già anziano, fu a Roma a capo di un’ambasceria degli Ebrei di Alessandria all’imperatore Caligola (anni 38-40 e.v.), racconta che gli Ebrei romani, perlopiú liberti, vivevano in Trastevere, e all’ampia comunità trasteverina deve essere appartenuta la catacomba di Monteverde, scavata e poi drasticamente spogliata dei materiali recuperabili, soprattutto epigrafici, e abbandonata alla distruzione (qualche lembo di gallerie è stato rivisitato pochi anni fa e sembra si intenda riprenderne lo scavo in settori fin qui inesplorati). Delle undici sinagoghe a noi note,

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A destra modello del Tempio di Gerusalemme della fase erodiana (20 a.e.v. circa), distrutto dalle truppe di Tito. Gerusalemme, Holy Land Hotel. Nella pagina accanto Il trionfo di Tito, olio su tavola di Sir Lawrence Alma-Tadema. 1885. Baltimora, The Walters Art Museum. Nella scena si immagina la celebrazione della dinastia dei Flavi dopo la presa di Gerusalemme, nel 70 e.v.: la processione è aperta da Vespasiano, seguito da Tito, che tiene per mano la figlia Giulia, la quale si volta verso Domiziano, fratello minore e successore del padre.

ben sette sono citate nelle iscrizioni di Monteverde, avvalorando non solo il convincimento che il maggior numero degli Ebrei romani abitasse appunto il Trastevere, ma che l’alto numero di congregazioni sinagogali fosse il prodotto, nella lunga durata, di una storia complessa e stratificata, dove nuclei di varia origine si sarebbero aggiunti via via, alle diverse formazioni riflettendo le differenze originarie. I nomi delle sinagoghe, eloquenti a onta di alcune oscurità (dovute anche alla trascrizione di termini latini in fonetica greca), segnalano quartieri di Roma, evocano personaggi illustri, rinviano ad altri paesi della Diaspora, evidenziando il carattere composito del loro costituirsi. La «sinagoga degli Ebrei» è considerata la piú

antica, perché sarebbe formata da Ebrei provenienti dalla Palestina (secondo altri significherebbe «i buoni Ebrei»); laddove i «Vernacoli» sarebbero i nati a Roma, probabilmente di estrazione servile (anche se non necessariamente appartenenti alla servitú dell’imperatore). Nessun dubbio invece per la sinagoga degli Augustensi, intitolata al nome di Augusto, il fondatore dell’impero, a cui gli Ebrei dovevano la codificazione di norme che ribadivano e perfino ampliavano i diritti e gli ampi privilegi già loro concessi da Cesare, e che, si ricordi, in segno di rispetto e ossequio per la loro religione aveva disposto un sacrificio quotidiano in suo nome nel Tempio di Gerusalemme. Quanto agli Agrippensi, prendono nome da Agrippa (Marco Vipsanio

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ROMA

I primi Ebrei romani Non si sa con certezza quando gli Ebrei si diffusero a Roma, ma è probabile che il primo grande contingente vi sia arrivato in seguito alla conquista di Gerusalemme da parte di Pompeo nel 63 a.e.v. All’epoca, Aristobulo II, uno dei fratelli Asmonei, aveva inizialmente sfidato Pompeo, per poi cambiare posizione e arrendersi. Tuttavia, alcuni dei suoi seguaci avevano continuato a opporsi all’esercito di Pompeo, finendo assediati a Gerusalemme. Quando la città capitolò, non fu distrutta come sarebbe avvenuto in seguito, nel 70 e.v., ma molti degli oppositori furono condotti a Roma come prigionieri di guerra. Molti erano stati ridotti in schiavitù, ma con il passare del tempo gli schiavi o i loro discendenti furono liberati, dando origine alla comunità ebraica di Roma.

Agrippa, l’alter ego e genero di Augusto, piuttosto che Agrippa I re di Giudea sotto Claudio, o Agrippa II), in segno di gratitudine per le molteplici occasioni in cui si era schierato in favore degli Ebrei, e forse anche per un rapporto piú diretto se, come si è congetturato, a quella sinagoga si riferisse l’epigrafe col nome di un personaggio che rivestí due volte la carica sinagogale di archon trovata presso Porta Settimiana, vicino al ponte di Agrippa (oggi ponte Sisto) e alle sue proprietà transtiberine (Villa della Farnesina).

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Dubbia resta l’esistenza di una «sinagoga degli Erodiensi» dal nome di Erode il Grande, il re di Giudea amico stretto di Augusto e di Agrippa; e incerta l’identità del Volumnio da cui prendeva nome la sinagoga dei Volumnensi, perché tra i personaggi storici di quel nome nessuno se ne segnala per il suo favore nei confronti degli Ebrei. Altre sembrano prendere il nome da città, come la sinagoga dei Tripolitani (è incerto però se dalla città d’Africa o da quella in Fenicia) e forse quella di Elea nella catacomba di Vigna Randanini. Infine, un gruppo di «sinagoghe» ha nomi riferibili alla toponomastica di Roma. Quella dei Calcarensi, sempre che gli operai della calce non fossero gli stessi membri della congregazione, si denominava forse da un distretto urbano in cui si produceva calce. Una schola dei Calcarensi è attestata da iscrizioni dai pressi delle Terme di Diocleziano, ma questa zona, lontana dalla catacomba di Monteverde, semmai avrebbe dovuto gravitare su quella di Villa Torlonia sulla via Nomentana: qui conosciamo la sinagoga dei Seceni, non altrimenti nota, e soprattutto quella dei Siburensi, gli abitanti della Suburra, che dovevano comprendere anche i residenti sull’Esquilino, se a loro o agli sconosciuti Seceni (e non ai Calcarensi, come pure è stato proposto) si riferisce la testimonianza, nell’iscrizione funeraria di un fruttivendolo, di una proseucha de aggere, dove l’aggere è certamente quello delle cosiddette «mura serviane», precedenti le mura aureliane, delle quali un lungo tratto si vede tuttora presso la stazione di Termini. Infine, i Campensi noti a Vigna Randanini dovrebbero trarre il nome dal Campo Marzio, anche se il quartiere è lontano e sostanzialmente non è residenziale perché a prevalente destinazione pubblica e monumentale.

Una moltitudine cenciosa Poche altre indicazioni possediamo sulla presenza ebraica in Roma; preziosa la segnalazione di Giovenale sulla moltitudine cenciosa di Ebrei che si aggirava presso Porta Capena nel bosco della ninfa Egeria; non

A sinistra, in alto ritratto di Pompeo. Età imperiale. Venezia, Museo Archeologico Nazionale. In alto, sulle due pagine Castello di Versailles, Sala di Apollo. Vespasiano fa costruire il Colosseo, dipinto di Charles de La Fosse. 1679.


lontano, quindi, dalla catacomba di Vigna Randanini. Il quadro d’insieme comunque appare variegato, ed effettivamente la dislocazione delle catacombe sembra corrispondere a una notevole dispersione nel contesto urbano. In genere si ritiene che al tempo di Filone la concentrazione nel Trastevere fosse esclusiva, e che solo piú tardi (eventualmente in concomitanza con il massiccio afflusso di prigionieri della guerra giudaica di Vespasiano) altri nuclei si siano formati in altri quartieri. Suggestiva però appare

l’idea che il particolarissimo favore di Cesare verso gli Ebrei – che lo piansero piú degli altri, per varie notti consecutive scendendo a vegliarne la pira – si debba sí all’aiuto determinante a lui fornito da Ircano e Antipatro nel 47 a.e.v., quando era assediato in Alessandria, ma forse anche a un rapporto, se non di clientela, di vicinato nel quartiere, perché la dimora avita dei Giulii era proprio in Suburra; nel qual caso, la presenza degli Ebrei in quella regione dell’Urbe risalirebbe almeno al I secolo a.e.v. Né esclude tale suggestione, anzi la

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ROMA

Chi ha finanziato il Colosseo?

F

in dall’epoca repubblicana, i generali vittoriosi facevano dono di templi ed edifici pubblici servendosi dei proventi derivanti dalla vendita dei bottini di guerra. Una prassi adottata anche da Augusto, che finanziò cosí la costruzione del Tempio di Marte Ultore, del Foro di Augusto e le donazioni al popolo e ai veterani, mentre Tiberio e suo fratello Druso finanziarono il restauro del Tempio dei Dioscuri nel Foro Romano. Dopo i Flavi, anche Traiano realizzò il Foro e i Mercati che portano il suo nome, attingendo all’immenso bottino della guerra dacica. Dopo un lungo assedio, Tito conquistò Gerusalemme, distruggendone anche il Tempio, nell’agosto (o settembre) del 70 e.v., durante il secondo anno di regno di Vespasiano; il trionfo fu celebrato a Roma da Vespasiano, Tito e Domiziano nel 71, con grande magnificenza e con l’esposizione delle ricchezze che costituivano il bottino di guerra, in gran parte appartenenti alle decorazioni del Tempio di Gerusalemme. Una dettagliata descrizione del corteo trionfale è fornita da Flavio Giuseppe, nella Guerra Giudaica, e dai rilievi dell’Arco di Tito, dedicato dal fratello Domiziano nell’81. Questi ultimi mostrano solo la parte piú importante del bottino, costituita dagli oggetti simbolo del giudaismo, tra cui la menorah, il candelabro a sette bracci in oro massiccio.

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In basso l’iscrizione relativa al restauro del Colosseo effettuato da Rufus Caecina Felix Lampadius, dopo il sisma del 443 e.v.; il blocco riutilizza un architrave recante un’iscrizione piú antica (vedi il disegno qui sotto) che commemorava la costruzione dell’anfiteatro da parte di Vespasiano, poi corretta inserendo la «T» del prenome di Tito, che inaugurò il monumento dopo la morte del padre.


Cinque secoli piú tardi, Teodorico giudicò addirittura documenta anche il sesterzio emesso dal Senato il 1° Tito uno scialacquatore, poiché aveva profuso fiumi luglio dell’80 e.v.: è la prova, dunque, che Vespasiano, di ricchezze (divitiarum profuso flumine) per con il bottino della guerra giudaica, fece costruire un edificio destinato a costruire l’anfiteatro, i cui lavori, iniziati procurare la morte, riferendosi al alla fine del 70, terminarono nel 79, Colosseo. Dunque da questo, come anno in cui venne probabilmente da altre fonti che parlano di edifici fatta una prima dedica. costruiti dai Flavi in Siria e Dal Cronografo del 354 sappiamo Palestina (ad Antiochia, Cesarea, che l’edificio, prima della morte di Daphne) con il bottino giudaico, si Vespasiano, era giunto fino al II ricava che l’anfiteatro e, ordine esterno, e al III ordine di probabilmente, anche il Templum gradinate; sotto Tito i lavori Pacis, inaugurato nel 75 e.v., vennero ultimati, e, nell’80, vi vennero costruiti con le medesime furono una seconda dedica e risorse. Un’ulteriore prova è l’iscrizione inaugurazione, con giochi che durarono di Rufius Caecina Felix Lampadius, che 100 giorni. In ogni caso, l’anfiteatro doveva Tito (D) celebra un restauro dell’Anfiteatro Flavio essere già pronto nel 79 e.v., mentre la intorno alla metà del V secolo e.v., costruzione degli altri edifici a esso riutilizzando un blocco marmoreo di connessi, sicuramente già previsti nel epoca flavia. Dallo studio dei fori in progetto di Vespasiano, fu ultimata cui erano inserite le grappe che solo alla fine del regno di reggevano le lettere bronzee, lo Domiziano. Il resto del bottino, tra storico ed epigrafista ungherese cui il candelabro a sette bracci e Geza Alföldy (1935-2011) ha altri oggetti presi nel tempio dei ricostruito il testo originario, che Giudei, fu conservato nel Tempio celebrava Vespasiano, il quale della Pace (Flavio Giuseppe, VII, 5, «amphitheatrum novum ex manubis 7); il tesoro fu poi razziato da (…) fieri iussit» («realizzò il nuovo Genserico nel V secolo e sprofondò anfiteatro con i proventi del bottino di in mare durante un naufragio. guerra»). La morte dell’imperatore, il 23 Parafrasando Teodorico, possiamo dire giugno del 79, impedí l’inaugurazione, che la costruzione del Colosseo fu pagata con Tito (R) pertanto tale iscrizione venne aggiornata nell’80, il sacrificio di un intero popolo, quello ebraico, aggiungendovi una lettera «T»,a indicare il per consentire a quello romano di assistere ad prenome di Tito, che inaugurò con una grandiosa altrettanti sacrifici inscenati nell’arena. celebrazione l’edificio e le vicine terme, come (red.)

rafforza, l’esistenza probabile di un rapporto politico, quando gli Ebrei romani (un gruppo numeroso, concorde e determinato, capace di influenzare anche le adunanze pubbliche: cosí li presenta Cicerone nella Pro Flacco) appoggiavano i populares, e dunque Cesare; tanto piú dopo l’accentuarsi della sua rivalità con Pompeo, protagonista della conquista e della profanazione del Tempio di Gerusalemme, quando masse di schiavi giudei erano state vendute anche sul mercato romano. Del resto

Sesterzio bronzeo emesso nel luglio dell’80 e.v., durante l’ottavo consolato di Tito. Al dritto, l’imperatore togato; al rovescio, il Colosseo, con una visione frontale dall’esterno che permette di vedere anche parte della cavea interna.

era ben nota a Filone l’origine servile di gran parte della popolazione ebraica di Roma, quando, nella tarda repubblica, alla conquista di Pompeo erano seguiti altri interventi romani in Giudea, negli anni 50 a.e.v., e poi ancora la campagna di Sosio nel 37, con conseguenti massicci arrivi di prigionieri. Meno sappiamo degli esordi della comunità romana; se per gli Ebrei espulsi da Roma nel 139 a.e.v. si può pensare a presenze occasionali, la fulminea battuta con cui nel

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ROMA

processo di Verre Cicerone fermò l’intervento di un liberto giudaizzante («Che ha a che fare un Ebreo con un porco?», verres significando appunto porco castrato) dimostra che già nel 70 a.e.v. a Roma gli Ebrei e i loro costumi erano ben noti e incuriosivano (e attiravano) i non Ebrei. Un grande antiquario come Varrone, che sapeva come la religione romana dei primordi non conoscesse simulacri degli dèi (ciò che accresceva, egli dice, la reverenza dei devoti), era positivamente colpito dalla aniconicità del dio degli Ebrei, quasi in una consonanza ancestrale.

Una fase di prosperità Accresciuta numericamente dagli schiavi, che i correligionari si adoperavano per riscattare (e ai quali dovevano appartenere anche i liberti con cognomi ebraici – Aciba, Apella, Sabbatis, ecc. – che negli ultimi decenni del I secolo a.e.v. troviamo nella necropoli di Ostia), la comunità ebraica romana, con Cesare e poi soprattutto con Augusto, attraversa un periodo di particolare prosperità; la cacciata del 19 e.v. sotto Tiberio, poi due episodi critici sotto Claudio, nel 41 e nel 49 (quest’ultimo, terminato con l’espulsione degli Ebrei da Roma, dovuto al turbamento prodotto dal diffondersi del cristianesimo, in seno all’ebraismo e al di fuori di esso), sul lungo termine non si tradussero in una diminuzione delle prerogative loro riconosciute in seno alla società romana. La letteratura del tempo, pur senza guardarli con favore, li osserva con distaccata ironia, come Orazio, o con divertimento, come Ovidio; semmai, come in Seneca o in Persio, ostentando avversione e fastidio per il fumo grasso e la fuliggine sparsi dalla lampada dello Shabbat («ma gli dèi non hanno bisogno di luce») sul davanzale unto di profumi, mentre all’interno la famiglia cena con una coda di tonno al sugo e fiaschette di vino. Il riposo del Sabato (cioè, per Seneca e Giovenale, l’inconcepibile spreco nell’inattività di un settimo della propria esistenza) sollecitava l’imitazione anche dei non Ebrei: i vinti, dice il

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filosofo, si sono imposti ai vincitori. L’intonazione ostile si accentua via via nella letteratura del tardo I e del II secolo, e a poco sembra servito lo sforzo di Flavio Giuseppe per far conoscere ai Romani la storia della propria gente, portata a termine proprio negli anni finali di Domiziano, quando gravi pericoli sembravano minacciarla. In molti autori tra I e II secolo, primo fra tutti Tacito, l’ostilità antiebraica si manifesta con toni particolarmente duri e acri (l’ebraismo come una inaccettabile superstizione in aperto contrasto con le leggi e i costumi romani); tra i poeti epigrammatici e satirici, se in Marziale prevale il dileggio, spesso osceno, di una gente miseranda che pratica commerci infimi (come quelli che scambiano zolfanelli con vetri rotti da riciclare), dove le madri addestrano i fanciulli a elemosinare, in Giovenale gli Ebrei romani sono una turba di mendicanti e di fattucchiere che vendono sogni per pochi spiccioli. Questo mutato atteggiamento probabilmente origina da piú circostanze concomitanti, dove anche il diffondersi del cristianesimo apportava irrequietudine, aprendo dissidi interni e rivalità all’esterno.

La Giudea in rivolta Ma certo l’evento fondamentale fu, negli anni finali di Nerone, l’insurrezione della Giudea (dovuta alle malversazioni dei governatori romani, come lo stesso Tacito riconosce), che termina con la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio (nel 70, con episodi di resistenza fino al 74 e.v.), a opera della nuova dinastia dei Flavi succeduta ai Giulio-Claudi nel potere imperiale: le cortine purpuree dell’Arca e un rotolo della Torah vennero conservati nel palazzo imperiale; gli oggetti sacri del Tempio, la menorah, la tavola di proposizione, le trombe, sfilarono come prede di guerra nel trionfo di Vespasiano, come li vediamo rappresentati nei rilievi del fornice dell’arco di Tito, per finire esposti come trofei nel Tempio della Pace, il magnifico nuovo complesso che, nell’accostamento anche visivo ai vicini

Nella pagina accanto, da sinistra ritratti di Tito (79-81 e.v.), Vespasiano (69-79 e.v.) e Domiziano (81-96 e.v.). I primi due busti sono conservati presso i Musei Capitolini di Roma, mentre il terzo si trova a Napoli, nel Museo Archeologico Nazionale.


La famiglia imperiale T. Flavius Sabinus-Vespasia Polla

† 69 e.v. † 69 e.v. T. Flavius Vespasianus - Domitilla (Vespasiano imperatore) 69-79 e.v.

† 69 e.v. T. Flavius Sabinus

T. Flavius Sabinus

T.Fl. Clemens

39-81 e.v. Marcia Fumilla - Titus F. Vespasianus (Tito imperatore) 79-81 e.v.

T.Fl. Sabinus - Iulia Titifilia

† ante 69 e.v. Domitilla

51-96 e.v. T. Fl. Domitianus - Domitilla (Domiziano imperatore) 81-96 e.v.

Domitilla - Clemens

T. Flavius Vespasianus

T. Flavius Domitianus

Flavia

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ROMA

Fori di Cesare e di Augusto, per gli Ebrei romani drammatizzava il repentino trapasso dalla protezione accordata dai primi imperatori all’annientamento del Tempio a opera degli ultimi. Di recente, è stato suggerito da piú parti che la Pace del tempio dei Flavi costituisse una sorta di trasferimento rituale, una «evocazione» e, dunque, quasi un impossessamento della divinità cui era appartenuto il Tempio distrutto; e un potere quanto meno emozionale quel luogo, che esponeva gli oggetti piú sacri del culto, doveva averlo anche per gli Ebrei che abitavano in Suburra, se era frequente meta di

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visite anche da parte di rabbini della Palestina che attestano di averli visti da presso e di aver letto le iscrizioni sulla menorah e sui paramenti solenni del Gran Sacerdote.

Monumenti giganteschi Ma non il solo Tempio della Pace era stato costruito con il bottino della guerra giudaica; una brillante interpretazione epigrafica ha dimostrato che anche il Colosseo venne costruito con le manubiae, cioè la preda di Giudea e di Gerusalemme (vedi box alle pp. 28-29), della quale magnificava la conquista un arco a tre fornici in onore di Tito, eretto sulla

Ricostruzione grafica del tempio della Pace con l’aula di culto sullo sfondo.


curva del Circo Massimo. E, dei quasi centomila prigionieri di Gerusalemme, quanti giunsero schiavi a Roma saranno stati adibiti ai lavori per questi monumenti giganteschi, sempre che non siano finiti nell’arena del nuovo anfiteatro, carne da spettacolo come quei Giudei prigionieri che Tito, nel suo trionfale percorso di ritorno, regalava alle città dell’Asia perché li facessero combattere fra loro nei

giochi o li dessero in pasto alle belve. Attorniati dai monumenti piú grandiosi mai eretti a Roma, costruiti con la rovina del proprio popolo, testimoni diretti delle sofferenze dei loro fratelli, si apriva una fase nuova dell’esistenza degli Ebrei nella Diaspora romana, custodi del culto di quel «dio senza nome» che, come dice Tacito, non aveva fornito loro alcuna protezione: una

Nel tempio della Pace Frammenti della Forma Urbis con il Templum Pacis. 203-211 e.v. Roma, Musei Capitolini. La Forma Urbis era una planimetria monumentale di Roma incisa su lastre di marmo, fatta realizzare dall’imperatore Settimio Severo tra il 203 e il 211 e.v. Era esposta sulla parete di un’aula dello stesso Templum Pacis, poi inglobata dal complesso dei Ss. Cosma e Damiano. Nel tempio della Pace furono collocati ed esposti anche i preziosi arredi del Tempio di

Gerusalemme, fra cui la grande menorah d’oro. Qui rimasero fino al 192 e.v., quando un incendio distrusse il tempio e una vasta area della città.

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ROMA

nazione vinta, scacciata dalla sua terra, fatta schiava. Formalmente erano stati conservati agli Ebrei romani i privilegi di cui godevano, ma, in realtà, Vespasiano aveva disposto che il contributo annuale che ogni Ebreo fra i venti e i cinquant’anni era tenuto a versare per il Tempio di Gerusalemme, ora che il Tempio non esisteva piú, venisse devoluto allo Stato romano in forma di tassa, a quanto pare estesa agli Ebrei di qualunque età, come in Egitto confermano le ricevute dei versamenti effettuati. Una apposita sezione dell’apparato fiscale, il fiscus iudaicus, provvedeva all’esazione, che riguardava anche gli schiavi; sui miserabili di Marziale e di Giovenale si abbatteva anche il gravame della nuova tassa. Ma l’esazione fiscale significava altresí un censimento, nome per nome, di tutti gli Ebrei, compresi i cittadini romani, di cui cosí sanciva la «diversità» giuridica rispetto al resto della società. La «tassa degli Ebrei» (due denari ciascuno), che apportava all’erario somme cospicue – si è calcolato quasi 50 milioni di sesterzi all’anno – non verrà abrogata neppure con la estensione della cittadinanza a tutto l’impero, ma solo dopo tre secoli per opera di Giuliano l’Apostata.

Una sostanziale povertà L’immagine di povertà, a cui rimandano le fonti letterarie della media età imperiale, corrisponde in effetti alla sostanziale povertà delle catacombe, con pochi ambienti affrescati, quasi nessun sarcofago marmoreo, le iscrizioni, quando ci sono, spesso solo incise a graffito nella calce o dipinte: non molte le lapidi incise con una adeguata ordinatio al modo delle iscrizioni pagane contemporanee; anche gli epitaffi che contengono menzioni di cariche, e che quindi appartenevano ai maggiorenti della comunità, si elevano appena sullo standard medio generale. In tutta la letteratura antica, non c’è menzione di personaggi della comunità romana socialmente emergenti per censo o per prestigio culturale o sociale; tolti i discendenti di Erode o di Tiberio Giulio Alessandro, prefetto d’Egitto e capo di stato

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maggiore di Vespasiano (da considerare apostati piú che seguaci dell’ebraismo), le pochissime eccezioni (lo stesso Flavio Giuseppe; forse Aquila, il fabbricante di tendaggi che Paolo incontra a Corinto con la moglie Priscilla) sono di Ebrei originari dell’Oriente mediterraneo, giunti a Roma in circostanze diverse. Con queste premesse, quel che davvero sorprende è la perdurante capacità di attrazione esercitata dall’ebraismo nei confronti della società circostante. Tra le motivazioni dei provvedimenti che di quando in quando vennero a colpire gli Ebrei di Roma, quasi sempre si accenna al proselitismo; addirittura fin dalla espulsione del 139 a.e.v., quando sembrerebbe trattarsi di un’anticipazione o di un fraintendimento di Valerio Massimo, l’autore a cui risale la notizia, che tuttavia in genere non viene collegata con altre indicative della chiusura ideologica della Roma del tempo: appena pochi anni prima (155) erano stati

Una delle pitture parietali della catacomba ebraica di Villa Torlonia sulla via Nomentana.


espulsi i filosofi, massimi rappresentanti delle scuole di Atene inviati a Roma in ambasceria, perché le loro lezioni corrompevano i giovani. Comunque, non è equivoco Orazio nel presentarci una categoria intermedia, quella dei «giudaizzanti», credenti (in greco theosebeis o sebomenoi) o, a vari livelli, simpatizzanti dell’ebraismo di cui adottano in parte regole e divieti: è il caso del suo collega, il poeta Aristio Fusco che, adducendo le prescrizioni rituali del Sabato, abbandona il poeta nelle grinfie del suo seccatore. Nel racconto di Flavio Giuseppe la ragione dei provvedimenti di Tiberio contro gli Ebrei (e i loro proseliti: similia sectantes dice Svetonio) e gli Isiaci di Roma, nel 19 e.v., è il raggiro, a opera di quattro lestofanti ebrei, di una matrona, moglie di un senatore di altissimo rango, che credeva di inviare doni preziosi al Tempio di Gerusalemme; si è detto trattarsi di una fiction di Giuseppe, e forse le vere ragioni del provvedimento saranno state altre, ma il

racconto non è incredibile (il motivo della punizione degli Isiaci è semmai ancor piú grottesco) e comunque la storia mette in evidenza la precoce penetrazione dell’ebraismo perfino in ambienti della nobiltà senatoria. Nel giro del secolo si incontreranno tra i giudaizzanti altri personaggi significativi (tra loro la stessa imperatrice Poppea), in un processo non interrotto neppure dalla guerra giudaica.

Oppressione fiscale e delazioni Gli anni di Domiziano sono caratterizzati da una violenta recrudescenza dell’imposizione fiscale sugli Ebrei (esercitata acerbissime, dice Svetonio), accanendosi su quanti cercavano di sottrarvisi negando la loro origine, e su proseliti (e giudaizzanti) che non si erano denunziati: Svetonio ricorda un disgustoso episodio a cui aveva assistito nella sua adolescenza, un vecchio novantenne investigato dal procuratore romano per verificare, al cospetto di molti spettatori, se fosse circonciso; e la trista

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ROMA

Mappa delle catacombe cristiane ed ebraiche di Roma.

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politica delle delazioni e delle denunzie è evidenziata dalle monete di Nerva, il successore di Domiziano, con la legenda: fisci iudaici calumnia sublata, «soppresse le delazioni del fisco giudaico». Ma non si trattava solo di fiscalità: l’ostilità dell’ultimo dei Flavi derivava dal rifiuto ebraico di prestargli venerazione («non adulano i loro re, né tributano onori ai Cesari», dice Tacito riferendosi al divieto di erigere statue onorarie); e verso la fine del suo regno sembra ci sia effettivamente stato un pericolo per gli Ebrei. Questa volta sono state poste in relazione fonti storiche romane e fonti talmudiche, in una ricostruzione suggestiva pur se anche di recente contestata. Gli uni narrano

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dell’improvvisa e immotivata condanna per «ateismo» (cioè ebraismo) di Flavio Clemente, cugino di Domiziano e console insieme a lui nel 95, e di sua moglie Flavia Domitilla, essa pure stretta congiunta dell’imperatore, confinata in un’isola; nonché l’esecuzione di Acilio Glabrione, un consolare di una delle famiglie piú nobili, anch’egli accusato di giudaizzare. Il Talmud a sua volta racconta che, in quel tempo, quattro eminenti rabbini di Palestina, compreso il patriarca Gamaliel, si imbarcarono alla volta di Roma: che scopo aveva il viaggio? Un tentativo di accedere all’imperatore? O solo una missione presso la comunità romana e una visita al Tempio della Pace con gli arredi del Tempio di Gerusalemme, come qualcuno ha


Qui sotto epitaffio bilingue, in aramaico e greco, dedicato a una defunta di nome Isidora, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?) Città del Vaticano, Musei Vaticani, Lapidario ebraico. In basso, a sinistra epitaffio della sacerdotessa Gaudenzia, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?) Città del Vaticano, Musei Vaticani, Lapidario ebraico.

proposto? In verità, i dettagli del racconto fanno pensare a una partenza improvvisa, non a un viaggio pianificato. Il Talmud sa della condanna di un nipote di Tito (dovrebbe dunque trattarsi di Flavio Clemente) e un altro senatore, Keti’ah bar Shalom (evidentemente il nome ebraico da convertito: Acilio Glabrione? O un altro dei consolari mandati a morte da Domiziano) riusciva per il momento a frenare i proponimenti dell’imperatore, ma solo per caderne vittima poco dopo: in procinto di affrontare la morte, avrebbe chiesto di essere circonciso per completare il proprio percorso di proselito.

La tolleranza di Nerva Come era avvenuto con Caligola (le storie dei due dinasti hanno non poche affinità), l’uccisione di Domiziano pose fine alla politica antiebraica; abbiamo accennato all’abrogazione, con Nerva, delle pratiche piú odiose, e al ripristino del diritto degli Ebrei di vivere «secondo il loro costume avito»; qualche anno dopo, una delegazione di Greci di

Alessandria giunta a Roma per presentare rivendicazioni e lagnanze contro gli Ebrei di quella città, affermava sfrontatamente, provocando l’ira di Traiano, di obiettare al giudizio del consiglio imperiale, visti i tanti «empi Ebrei» che sedevano in Senato. Può darsi che l’affermazione contenesse qualche verità, se si pensa ai recenti episodi di Flavio Clemente e di Glabrione; positivamente si conoscono pochi altri senatori di origine ebraica, quei discendenti di Erode e di Tiberio Giulio Alessandro a cui abbiamo accennato; alla generazione successiva risalirà l’ascesa al Senato dei Fabi Agrippini, Ebrei ostiensi che raggiungeranno il consolato nel 148 e.v. Confesso di non saper dire come, cioè a prezzo di quali compromessi, personaggi di primo piano sulla scena politica, impegnati nelle piú alte cariche magistratuali di Roma, potessero ottemperare ai doveri imposti dalla loro nuova religione; ma certo quel che preoccupa Tacito, senatore e console quasi negli stessi anni di Clemente e di Glabrione, e Giovenale pienamente consentaneo con lui (ma già prima Seneca), sono proprio le conversioni, i padri di famiglia romani che abbandonano a sé stessi i familiari per seguire le loro regole di vita o, peggio,

Qui sopra epitaffio di un defunto di nome Eusebios, ricordato con l’appellativo di «maestro», dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?) Città del Vaticano, Musei Vaticani, Lapidario ebraico.

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ROMA

convertono anche i propri figli, dimentichi dei doveri verso la patria e della religione degli avi. Gli studi recenti in genere considerano il proselitismo ebraico un fenomeno posteriore al I secolo e.v., sviluppato solo a partire dal II secolo, e favorito dal rabbinato anche per contrastare l’avanzata del cristianesimo. Si dovrebbe dunque ritenere che i non pochi casi di proseliti o giudaizzanti, attestati nel I secolo a.e.v. e nel I e.v., siano prodotti di uno spontaneo accostarsi ai valori e ai riti dell’ebraismo: ma già in Orazio ci sono accenni indubitabili a un proselitismo intenso e quasi coercitivo. Non si riscontrano, apparentemente, contraccolpi diretti sugli Ebrei romani della rivolta di Cirenaica ed Egitto del 115-117, e neppure di quella, disperata e terribile, di Bar Kokhvah in Giudea nel 132-135; ma la proibizione della circoncisione (ritenuta da alcuni una delle cause maggiori della rivolta di Bar Kokhvah), fra altre di non minore impatto in Giudea, esplicita, come è stato detto, la volontà di Adriano di «sradicare il giudaismo».

Qui sopra epitaffio di Nikodemos, arconte dei Suburrensi, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?) Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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In alto rovescio di un sesterzio battuto al tempo di Nerva con legenda fisci iudaici calumnia sublata («soppresse le delazioni del fisco giudaico»). In basso, a destra epitaffio di Flavia Antonina, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?) Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Su una linea contraria al proselitismo sembrano muoversi anche gli imperatori successivi dell’età antonina, e poi i Severi: la proibizione della circoncisione sarà ritirata dal successore di Adriano, Antonino Pio, ma limitatamente ai soli nati da Ebrei, per i conversi permanendo invece pene severe. Altra cosa, naturalmente, è se la norma venisse applicata sempre con rigore; la circoncisione non significava necessariamente ebraismo (l’imperatore Elagabalo sembra fosse circonciso), e comunque i rapporti della comunità romana con il governo imperiale sembrano esser rimasti tranquilli per tutto il II secolo. Tuttavia non siamo in grado di misurare l’impatto che la feroce repressione della rivolta di Bar Kokhvah dovette avere anche sulla popolazione ebraica urbana, se non altro per l’arrivo di nuove ondate di schiavi; in qualche misura tali modifiche nel tessuto sociale della comunità debbono aver favorito, per esempio, lo sviluppo dell’uso di seppellire in catacombe, nonché la persistenza dell’uso del greco nelle iscrizioni, laddove, per esempio, quelle di Ostia, destinate a cimiteri all’aperto a fianco delle tombe pagane, sono in latino. Rabbi


Medioevo accenna alla presenza a Roma, in una sinagoga detta di Severus, di un rotolo della Torah dal Tempio di Gerusalemme (forse lo stesso che i Flavi avevano conservato nel palazzo imperiale?); e, secondo la Historia Augusta, ad Antiochia e in Egitto Alessandro Severo veniva chiamato per dileggio «l’arcisinagogo siriaco». Le fonti, diverse e distanti nel tempo, impongono cautela, anche se è seducente la ricostruzione storica di questo

Yehudah ha-Nasi («il Principe»), editore della Mishnah in età severiana, sembra avesse avuto un rapporto di colloquiale consonanza con un Antonino, da identificare con un imperatore del II secolo oppure, agli inizi del III, con M. Aurelio Antonino detto Caracalla, appartenente alla dinastia dei Severi che, pur proibendo le conversioni, nei confronti degli Ebrei mantenne un atteggiamento complessivamente favorevole ammettendoli anzi a ricoprire magistrature nelle rispettive città.

L’imperatore «arcisinagogo» Quanto all’ultimo imperatore della casata, Severo Alessandro, la già citata Historia Augusta afferma che nella sua cappella domestica egli prestava culto, oltre che ai suoi propri antenati, ai migliori fra gli imperatori divinizzati e ad alcune «anime specialmente sante» (animae sanctiores) della vicenda umana, tra le quali, insieme ad Apollonio di Tiana, a detta di uno scrittore contemporaneo aveva posto Cristo, Abramo e Orfeo; assumendo inoltre come precetto aureo del suo governo la sentenza ebraica (poi cristiana) «Quel che non vuoi sia fatto a te, non fare ad altri», mentre le procedure seguite da Ebrei e cristiani nelle nomine di sacerdoti venivano additate per esempio da estendere a quelle dei funzionari dello Stato. Un commento ebraico della Torah dell’avanzato

In alto, a sinistra epitaffio di Caelius, prostates degli Agrippensi, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?). Roma, Museo Nazionale Romano. In alto, a destra epitaffio di Pomponius, che fu per due volte arconte della comunità dei Calcarensi, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?). Roma, Museo Nazionale Romano.

imperatore di origine siriaca che favorisce la costruzione, o ne era il costruttore lui stesso, di una sinagoga di Roma alla quale sarebbe rimasto collegato il suo nome, per riporvi il sacro testo gerosolimitano; e potrebbe darle supporto la notizia, sempre della Historia Augusta, che Alessandro Severo avesse in animo di costruire anche un tempio a Cristo. La storia, vera o meno che fosse, mostra comunque che gli Ebrei romani si consideravano in qualche modo rappresentanti di una continuità che risaliva al Tempio stesso di Gerusalemme. Ma soprattutto mette in risalto come, alle soglie della tarda antichità, l’ebraismo, in decadenza e senza piú riferimenti territoriali, fosse tuttavia in grado di fornire a un imperatore un tessuto morale e codici di comportamento, pur se all’interno di un discorso che chiamava a collaborare tutte le componenti della spiritualità del tempo perché concorressero al buon governo e ai destini dell’impero.

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SALE

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Un candelabro per due capitali Il piú importante oggetto simbolo dell’ebraismo, la menorah, rappresenta anche un potente e drammatico legame tra Gerusalemme e Roma. Portata nell’Urbe all’indomani del saccheggio del Tempio, scomparve dopo qualche secolo. E sul destino del prezioso reperto, storia e leggenda, mistero e mistificazione si confondono in un intreccio dai connotati internazionali… di Fabio Isman

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Nella pagina accanto La distruzione del Tempio di Gerusalemme (particolare), olio su tela di Francesco Hayez. 1867. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

ultimo domicilio conosciuto era a Roma, nel Tempio della Pace, edificato nel 75: cosí significativo, da conferire il nome a un’intera regio dell’Urbe, la IV. Plinio scrive che non ne aveva mai visti di piú belli; Flavio Giuseppe afferma che «superava ogni umana concezione». Ma l’ultima impronta è in un rilievo sotto l’Arco di Tito: celebra la presa di Gerusalemme, il corteo dei vincitori romani e dei vinti; un gruppo di schiavi trasporta, evidentemente a fatica, la menorah: il mitico candelabro a sette bracci, tutto d’oro, del tempio di Gerusalemme. Per gli Ebrei, l’oggetto piú sacro dopo le Tavole della Legge: il simbolo piú antico. Dice il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni: «Precede di gran lunga addirittura la stella a sei punte, o di David, che compare appena da tre o quattro secoli, anche se è al centro della bandiera di Israele». L’emblema dello Stato, tra due rametti d’ulivo, è proprio il candelabro che ardeva perennemente davanti all’Arca dell’Alleanza con le Tavole della Legge: anche a sinagoga vuota, o chiusa; fin dal tempo degli Asmonei, durante il regno di Giuda, nel II secolo a.e.v. Per il

dolore di quel trasporto e la schiavitú dei 700 connazionali, destinati a infittire la piú remota comunità della diaspora che precede addirittura la nascita di Cristo, gli Ebrei romani hanno sempre evitato di passare sotto quell’arco, compiendo un passo a lato e deviando. Assai rare sono state le eccezioni; la prima, nel 1948, quando nacque lo Stato d’Israele.

Quel destino «infelice» Ma il Tempio della Pace, che custodiva le spoglie piú preziose delle maggiori conquiste, nel 192 va a fuoco; è restaurato, ma perde precocemente ogni funzione pubblica. Già nel IV secolo, l’edificio era adibito ad attività produttive. Il candelabro, però, era già scomparso: rubato non dai Visigoti di Alarico, che razziano per quattro giorni l’Urbe nel 410, ma nelle due settimane di spoliazione dei Vandali di Genserico, nel 455. Esso viene portato in Africa, poi in trionfo a Costantinopoli, nel 534, quando Belisario conquista Cartagine: un Ebreo ne chiede invano la restituzione all’imperatore Giustiniano; «l’infelice destino dei tesori d’Israele non si era ancora compiuto», dice Ferdinand Gregorovius, lo

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LA MENORAH Concepita da Dio e forgiata da Mosè Le origini Secondo il Libro dell’Esodo (25, 31-40), la prima menorah, lampada a olio a sette bracci, sarebbe stata concepita da Dio e realizzata grazie a Mosè. XI-X sec. a.e.v. Per volere di re Salomone, la menorah (plurale menorot) viene portata nel Primo Tempio di Gerusalemme e posta, con altri 9 candelabri, davanti all’Arca Santa. 586 a.e.v. Distruzione totale del Tempio da parte dei Babilonesi. Nabucodonosor II porta la menorah a Babilonia.

539 a.e.v. Il re persiano Ciro il Grande conquista Babilonia.

del Tempio che viene portato a termine nel 64 e.v.

536 a.e.v. Fine della cattività babilonese. Ritorno a Gerusalemme degli Ebrei. Della menorah biblica non si hanno piú notizie, forse viene trafugata dal re persiano. Inizia la ricostruzione del Secondo Tempio a Gerusalemme.

66-70 e.v. Prima guerra giudaica: le legioni romane intervengono per sedare la ribellione in Giudea.

515 a.e.v. Si conclude la costruzione del Secondo Tempio. Viene forgiata una seconda menorah per il Sancta Sanctorum dell’edificio. 19 a.e.v. Erode il Grande dà inizio a un intervento di ampliamento

storico tedesco dell’Ottocento celebre per i suoi studi sulla Roma medievale. Questa, almeno, è la versione piú accreditata. Perché sulla sparizione, esistono mille leggende. E tutte vogliono misteriosamente in vita l’oggetto ebraico piú identitario. Perché non può sparire per sempre il reperto/emblema di una religione e di un popolo, tanto provato dalla storia e dagli uomini; in qualche modo, «deve» continuare a

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70 e.v. Tito distrugge Gerusalemme e porta a Roma il candelabro d’oro. La scena del trionfo con la menorah e gli altri oggetti del bottino appare in un celebre rilievo dell’arco dedicato all’imperatore. 455 e.v. I Vandali entrano a Roma e mettono a fuoco la città. Secondo una leggenda il vandalo Genserico avrebbe trafugato la menorah.

esistere: oltre che nella memoria, magari nella speranza. Cosí, si dice, di volta in volta, che la menorah sia sepolta, celata; magari inabissata. Ma che, da qualche parte, continui a esistere. Trionfa davanti al Parlamento di Gerusalemme, la Knesset, una copia offerta dal governo inglese nel 1956, bronzo di 5 m. Ogni casa ebraica ne possiede una: significa custodire l’unico ricordo palpabile dell’era di Israele

A sinistra Tiberiade, Sinagoga. Particolare del mosaico policromo pavimentale nel quale compaiono due menorah ai lati dell’armadio sacro (Aron ha kodesh) che contiene il rotolo della Legge (Torah) insieme ad altri oggetti di culto. IV-V sec. e.v. Nella pagina accanto una composizione analoga a quella del mosaico della Sinagoga di Tiberiade raffigurata sul fondo di un vaso in vetro di produzione romana, da Roma. IV sec. e.v. Berlino, Staatliche Museen.


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LA MENORAH

precedente la Diaspora. Appare nelle catacombe giudaiche dei primi secoli dell’era cristiana, come a Beth She’arim, in Israele, e in antiche sinagoghe, come in un mosaico pavimentale a Beth Shean, sempre in Israele, o a Sardi, in Turchia, e in Siria, a Dura Europos (quest’ultimo, databile al 244-245, perfino con rappresentazioni figurative, uomini, cortei e scene della Bibbia, normalmente proibiti; ma per qualcuno ammessi «dalla legge rabbinica se non erano oggetto di venerazione, e purché non si rappresenti la figura di Dio»).

Un’immagine ricorrente La menorah compare anche nelle prime sepolture in Italia, le pur rare catacombe della Penisola. A Venosa, su un arcosolio con altri simboli tipici (il corno, la palma, il cedro, l’anfora), nell’unica tomba rivestita in marmo, del IV-V secolo. Analoghe suppellettili la circondano su una lapide del I o II secolo oggi al Jewish Museum di New York, proveniente dalla catacomba di Vigna Randanini a Roma,

dove è anche disegnata in un cubicolo della Galleria F. Si trova ancora in varie raffigurazioni di quella coeva a Villa Torlonia: cunicoli datati al I e II secolo, sopra i quali, è una nemesi, dal 1925 ha abitato per 18 anni Benito Mussolini, l’autore delle piú infami leggi antisemite, peggiori perfino di quelle che nel Cinquecento istituirono i ghetti. A Porto, il Portus Traiani che riforniva l’Urbe, era raffigurata su capitelli, ora ai Musei Vaticani. A Ostia, è sull’architrave dell’arca della Torah – nella sinagoga scoperta nel 1961 –, sorta in due tempi, nel I e IV secolo. Del III secolo è il coperchio di un sarcofago con maschere teatrali dedicato a una Faustina, trovato sulla via Appia, fuori Porta San Sebastiano, e ora al Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano. Il candelabro risalta anche su fondi di tazze del IV secolo conservati al Metropolitan e Jewish Museum, di New York e Gerusalemme, e alla Biblioteca Vaticana. Ma sono solo pochi esempi e l’elenco potrebbe essere ben piú lungo.

Quasi come un trionfo Particolare della fronte di un sarcofago sulla quale, all’interno di un clipeo, è scolpita l’immagine di un candelabro a sette bracci sorretto da due Vittorie, da una catacomba ebraica. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

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Beit She’arim, Israele. Il vano di una catacomba nel quale compare l’immagine scolpita a rilievo di una menorah. L’ipogeo fa parte di un vasto complesso funerario, sviluppatosi a partire dal II sec. e.v.

Chiariamoci le idee: la menorah scomparsa a Roma non è quella originaria, del Primo Tempio di Gerusalemme, voluto 31 secoli fa da Salomone – dice la Bibbia –, con 3000 tonnellate d’oro e 30 000 d’argento. L’aveva forgiata Mosè nel deserto, non appena disceso dai 40 giorni di fame, e dal primo colloquio diretto dell’Altissimo con un uomo. Quando riceve le Tavole della Legge, il profeta getta oro nel fuoco, e l’oggetto si forma da solo. Il candelabro finisce poi a Gerusalemme, con altri nove, davanti all’Arca Santa del Primo Tempio, finché, nel 586 a.e.v., Nabucodonosor II lo porta a Babilonia. Nel 515 a.e.v., sorge il Secondo Tempio, poi rifatto sotto Erode e concluso nel 64 e.v. Ma dura poco: appena sei anni. Distrutto dai Romani nel 70, ne sopravvive soltanto il muro occidentale, quello «del pianto». Del candelabro del Primo Tempio sappiamo qualcosa, perché l’ha descritto Ben Matityahu, singolare figura di politico e militare romano d’origine ebraica, che non si converte e diventa

Giuseppe Flavio, storico e annalista. Nel terzo dei venti libri delle Antichità giudaiche, riferisce che era «d’oro fuso, vuoto all’interno, del peso di cento mine, che gli Ebrei chiamano kikkar; tradotto in lingua greca, vale un talento», cioè 34,27 kg. Richiamando l’Esodo (25, 31-39), racconta che «globuli, gigli, melagrane e tazzette, in tutto 70, partivano da un’unica base e s’innalzavano fino in cima, a comporre un insieme diviso in tante parti quanto è il numero dei pianeti del sole. Termina in sette bracci, posti per ordine uno affianco all’altro: in essi si inseriscono sette lucerne, ognuno la sua lucerna, richiamando il numero dei pianeti». Spiega ancora Riccardo Di Segni: «L’area del Sancta Sanctorum si chiamava adyton, cioè inaccessibile. Nel Secondo Tempio era vuota, pur se rivestita d’oro; una tenda la separava dal resto dell’edificio. Davanti alla tenda erano la menorah e il tavolo, pure d’oro e sottratto anch’esso dai Romani: ogni settimana, vi si collocava l’offerta dei 12 pani azzimi; e c’erano pure le altre suppellettili sacre». All’inizio, questa seconda lampada era piú modesta; solo piú tardi, raggiunse il suo fulgore. Il prototipo era quella del Primo Tempio. A seconda delle fonti, pesava da 60 a 70 kg d’oro purissimo; e, nel rilievo sotto l’Arco di Tito, si apprezza lo sforzo di almeno dieci uomini per reggerla in spalla. Il primo candelabro non è mai tornato da Babilonia (magari preda di Ciro il Grande, che la conquista nel 538 a.e.v.?), come l’Arca con le Tavole della Legge, e forse il bastone di Mosè, la verga di Aronne, il cuscino su cui Giacobbe posava il capo durante il sogno.

Sette, il numero biblico Fino al 2009, la raffigurazione piú remota della menorah era proprio sull’Arco di Tito. Ma in quell’anno, a Magdala in Galilea, durante la costruzione di un centro culturale dei Legionari di Cristo, affiorano i resti di una sinagoga del I secolo, anteriore alla distruzione del Secondo Tempio; e, inciso a rilievo su una pietra, il candelabro. Per alcuni, la menorah simboleggia il roveto ardente in cui la voce di Dio si manifestò a Mosè sul monte Oreb.

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LA MENORAH

Era d’agosto...

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er cercare la menorah nel fiume, nel 1818 nasce, a Roma, perfino un’apposita società: non solo per questo, ma anche per questo; tanto che il Manifesto con cui è costituita elenca perfino la ricerca di «oggetti rapiti dalle acque alle orde feroci dei Goti e dei Vandali». Raccontano l’impresa documenti della Biblioteca Labronica di Livorno e dell’Archivio di Stato di Roma e, nel 1980, un altro archivista, Donato Tamblè, nella Strenna dei romanisti. L’idea è di Benedetto Giuseppe Naro: costituisce l’Impresa Privilegiata Tiberina, che papa Pio VII, Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti, approva nel 1818. Naro vuole «rinvenire alcune di quelle statue, segni o marmi, o altre cosí dette antichità» che gli storici «inducono a credere esservisi nei secoli andati gettate o fortuitamente cadute»: piú chiaro, non si può. Non intende imitare il cardinal Polignac, che, nel 1725, «avea immaginato di deviare per due miglia circa il corso del fiume, ciò che era piuttosto magnifico che eseguibile»; né i tentativi di

Per altri, il sabato (al centro) con i giorni della creazione. Certamente, sette è numero biblico: in sette anni Salomone costruisce il tempio, nel settimo mese dell’anno lo dedica, e lo si festeggia per sette giorni. Una tradizione ebraica vuole che il candelabro sottratto dai Vandali di Genserico sia solo una copia. Quello autentico non avrebbe mai lasciato Gerusalemme. Una tradizione «avvalorata» dalle incongruenze tra il bassorilievo scolpito a Roma, e la sua forma «tradizionale»: un paio di bracci sono differenti, e il piedistallo raffigura mostri marini e aquile, vietati dalla religione. Il rilievo dell’Arco di Tito tramanda le principali scene di un corteo di cui «non si può raccontare e descrivere la magnificenza dello spettacolo», scrive Giuseppe Flavio, che vi aveva assistito in prima persona; poi, però, lo narra diffusamente: «Baldacchini rappresentanti addirittura edifici con tre piani»; ricostruzioni animate di fasi del conflitto; «alla fine apparve un gran numero di navi»; chiudeva la sfilata del bottino proprio la menorah, e «l’ultima delle spoglie mostrata fu

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prosciugare brevi tratti del fiume con dei cassoni, per esaminarne il fondale, di un sacerdote protetto dal principe Altieri nel 1773, il cui successo bastava «appena a coprire le spese». Naro vanta un curioso marchingegno: una «tripla grattina che scaverebbe mentre tasterebbe il letto» del fiume, coadiuvata, nelle «operazioni preliminari da altre due grattine di forma diversa, macchine da tiro, lancettoni di varie forme, sommozzatori e altro». Ma non realizzerà appieno i propri propositi, poiché i promessi finanziatori in buona parte svaniscono.

la tavola con le leggi di Dio». Ironia della sorte, la processione era partita dal portico d’Ottavia, il cuore di tutte le attività ebraiche a Roma: il fulcro del ghetto da quando, il 17 luglio 1555, fu aperto (anzi, chiuso) da papa Paolo IV, già protagonista dell’Inquisizione nell’Urbe.

La teoria del dottor Schick C’è chi favoleggia che l’originale sia rimasto nelle fondazioni del Tempio distrutto, nascosto dai sacerdoti. Per altri, l’avrebbe occultato perfino il profeta Geremia, in attesa del Messia. Nel 1944, il quotidiano Palestine Post (dal 1950 divenuto Jerusalem Post) racconta di «un’avventurosa spedizione, poco prima del 1914, sotto la Moschea della Roccia» alla sua ricerca; e del «dottor Schick, tra le massime autorità di Gerusalemme, convinto che si trovasse in un sotterraneo segreto della chiesa del Santo Sepolcro». Conrad Schick, archeologo e architetto tedesco, nonché missionario protestante, aveva progettato il quartiere ortodosso di Meah She’arim, le Cento Porte. Altri pretendono che da Axum fosse giunta

In alto il frontespizio e una delle pagine del rendiconto delle «escavazioni nel Fiume Tevere» condotte nel 1819 dall’Impresa Privilegiata Tiberina fondata da Benedetto Giuseppe Naro.


Comunque, la nave principale viene varata il 29 luglio 1819, in ritardo appunto per i pochi fondi. Si chiama Medusa; il 1° aprile, il modellino viene presentato al papa, che ne «loda l’invenzione, l’esattezza, la semplicità del meccanismo». Con lei, la lancia di perlustrazione Circe e due barche minori, anche se «il padre Tevere ha in tutti i tempi riguardato con occhio bieco chiunque ardiva concepire di estrarre le cose preziose di ogni genere, che il caso o la mano degli uomini in tanti secoli e in tanta barbarie hanno potuto trarre nel profondo e limaccioso suo seno». Appena iniziati i lavori, a sei o sette miglia da Roma, dove era l’antica Fidene, all’imboccatura del fosso di Malpasso sotto la via Salaria, Naro preleva un cippo sepolcrale di marmo bianco, con il ritratto di una donna della famiglia Cornelia e un’iscrizione. Lavora tutto il giorno e, nella notte, lo scarica nel proprio arsenale. L’indomani, arriva anche il Governatore di Roma, e pare si profonda in lodi. Ma il Commissario alle Antichità, l’avvocato Carlo Fea, vigila.

Per lui, Naro era un truffatore o poco piú. E anche un ladro. Lo denuncia. Dice che il cippo gli era stato già segnalato in precedenza; e lui l’aveva fatto vigilare, ma il vigilante si era ammalato. Da quel 14 agosto, Naro tiene registrazioni del proprio operato, che poi depositerà da un notaio. Tenta anche di prelevare «massi e marmi greci» vicino a S. Paolo, ma i Benedettini li reclamano come propri, e desiste. Fino al 4 ottobre, registra il recupero di 43 reperti o complessi (uno di 31 «pezzi piccoli»): anche marmi scolpiti, di buone dimensioni. Ma il 28 agosto, la forza pubblica gli sequestra l’erma dei Corneli. È il processo. Un anno dopo il recupero piú importante, Naro viene condannato all’esilio. Nella casa in affitto, due stanze a via della Purificazione 18, restano gli effetti personali. Tanti debiti, per stipendi del personale e forniture. La Medusa affonda per scarsa sorveglianza e manutenzione, il 22 settembre 1921. Neppure questa volta la menorah è stata trovata.

Prima del saccheggio Magdala. La pietra su cui è incisa una menorah: rinvenuta nel 2009, sarebbe,a oggi, l’unica immagine del famoso simbolo realizzata quando il Tempio di Gerusalemme era ancora in uso, dunque prima del saccheggio di Gerusalemme del 70 e.v.

addirittura la regina di Saba, a proteggere la reliquia e che questa sia nascosta ancora nella cattedrale axumita di S. Maria di Sion. O che i Templari l’avessero rinvenuta nei sotterranei del Tempio durante la prima crociata, e posta nella Cattedrale di Chartres. La Francia è il teatro anche di un’altra fantasiosa vulgata: il tesoro sarebbe sotterrato sulle alture di Rennes-le-Château, paesino della Linguadoca, nel distretto dell’Aude. Da tempo, tanti esplorano la regione, dove, portati dai Templari, sarebbero sepolti anche altri cimeli: il loro stesso oro, il Graal, la tomba di Maria Maddalena. Anche in Italia è stato pubblicato un racconto di Stefan Zweig del 1937, Il candelabro sepolto: l’autore de Il mondo di ieri lo immagina recuperato a Costantinopoli e sotterrato, in gran segreto, nella Terra Promessa. Ma altre due fantasie godono di grande fortuna: per una, la menorah giace in fondo al Tevere,

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LA MENORAH

precipitata proprio durante il saccheggio; «ma come si può immaginare che i Visigoti, intenti a una razzia di quel tipo, non si tuffino per riprendersela? Era il 2 giugno, lo dice anche Gregorovius, e in tarda primavera, il fiume non doveva essere eccessivamente impetuoso», si chiede ancora il rabbino Di Segni.

E se fosse in Vaticano? Per l’altra, il candelabro si troverebbe addirittura in Vaticano. «Le ricerche fluviali non hanno mai dato esiti, né indizi di qualche spessore», sottolinea l’archeologo Paolo Carafa, dell’Università «Sapienza» di Roma. Edward Gibbon, autore della monumentale opera Declino e caduta dell’impero romano, pubblicata per la prima volta nel 1776, colloca in alto mare il naufragio di uno tra i 12 vascelli dei Vandali. Riferisce ancora Gregorovius, nel primo dei suoi otto volumi: una nave va a picco «con il suo carico di statue, afferma Procopio», e «nel Medioevo, una leggenda diceva che

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In alto: Genserico e i Vandali invadono Roma, olio su tela di Karl Pavlovic Brjullov. 1833-1835. Mosca, Galleria Tretjakov. Il dipinto allude al sacco dell’Urbe del 455, durante il quale la menorah, già sottratta dal Tempio di Gerusalemme dai Romani, sarebbe stata nuovamente trafugata. Nella pagina accanto Gerusalemme. La menorah collocata davanti alla Knesset, la sede del Parlamento.

nella basilica Lateranense si custodivano l’Arca, le Tavole delle leggi, il candeliere d’oro e perfino gli abiti sacerdotali di Aaron». Nel 1996, il Jerusalem Post riferisce che l’allora ministro israeliano per gli Affari religiosi, Shimon Shetreet, durante una visita ufficiale, ha addirittura interpellato papa Giovanni Paolo II sull’esistenza in Vaticano della menorah, citando una «ricerca dell’Università di Firenze» (dove però nessuno sa nulla). Ma ottiene soltanto silenzio. Il colloquio è realmente avvenuto; tuttavia, si ignora su quali temi. Della vicenda ha parlato anche un altro quotidiano, Haaretz, il 15 maggio 1996. E sulla Biblical Archaeology Review, l’ha narrata Steven Fine, docente alla Jeshiva University di New York, direttore del Center for Israel Studies, e, nel 2012, di un progetto di restauro digitale di tre pannelli dell’Arco di Tito, a cui hanno partecipato anche esperti italiani, volto a restituire la loro leggibilità e la cromia originaria,


Un indizio spettacolare, ma... falso L’indizio piú rilevante che la menorah possa ancora trovarsi a Roma, è conservato nel Museo Ebraico, al centro della seconda sala, la piú vasta. Il museo è stato riaperto nel 2005 da Daniela Di Castro, sotto il Tempio Maggiore della capitale, inaugurato nel 1904. La domina una lapide triangolare: è la pietra sepolcrale dei fratelli ebrei Nataniel, Ammon ed Eliau (foto qui accanto). Su un lato della pietra, i corredi del tempio di Gerusalemme, e al centro la menorah, sopra l’Arca Santa; sull’altro, un’iscrizione. Otto righe in ebraico e in latino raccontano che i fratelli avrebbero rintracciato questi oggetti nel Tevere, 550 m a sud dell’Isola Tiberina, vicino allo sbocco della Cloaca Massima, senza però recuperarli. E afferma che i tre fratelli sono stati uccisi sotto Onorio (395-423). In cima alla faccia su cui corre l’iscrizione sono le Tavole della Legge. «Gli Ebrei romani», spiega una didascalia, «non hanno mai perso la speranza che la menorah si trovi ancora da qualche parte nella città, e secondo una leggenda, il candelabro è caduto nel Tevere durante le invasioni barbariche; diceria rinvigorita dalle periodiche scoperte di monete e oggetti preziosi nel fiume». Ma torniamo alla lapide. Trovata nel 2002, in un mucchio di marmi, nei giardini della sinagoga, non risale, in realtà, all’epoca di Onorio. Daniela Di Castro ha scoperto che, nell’angolo sinistro, è stata mutilata intenzionalmente, e in tempi

assai recenti. L’iscrizione menziona l’Arca, che però non è mai arrivata a Roma, e che quindi non poteva essere stata vista nel fiume. Le analisi chimiche, infine, datano la lapide tra la seconda metà dell’Otto e l’inizio del Novecento. Insomma, l’unico «indizio» è un falso. Risale a quando il ghetto romano era stato appena riaperto: le porte si erano spalancate, i muri caduti. È l’età dell’emancipazione: dopo l’arrivo di Napoleone e all’indomani della conquista della Capitale dei papi da parte dei Savoia, la nascita dell’Italia unita nel 1870. Daniela Di Castro ha ipotizzato che il falso possa essere stato creato per narrare la storia antica della Roma ebraica con ritrovato orgoglio. Cosí, anche il piú spettacolare indizio che la menorah giaccia in fondo al Tevere va in fumo. Forse, non esiste davvero piú.

grazie al quale si è scoperto che era giallo ocra. Fine è tornato sull’argomento nel libro Art, history and the historiography of Judaism in the Greco-Roman world. «La leggenda della menorah in Vaticano ha avuto considerevole uso corrente presso gli Ebrei americani, e ora ha altrettanto seguito tra gli Israeliani». Fine stesso ha ascoltato tante volte la leggenda e molti, ormai, la scambiano per un episodio storico. «Alcuni dicono perfino che un rabbino ortodosso americano sarebbe entrato in Vaticano, e l’avrebbe vista»; un altro rabbino di origine marocchina, ma residente negli Stati Uniti, afferma che si tratterebbe di un tal rabbi Pinto; per altri, invece, sarebbe stato il rabbino e viaggiatore Hayim David Joseph Azulai, morto nel 1806. C’è poi chi afferma che Pio XII Pacelli l’avrebbe addirittura «mostrata a rabbi Herzog» nel 1946, nella visita ufficiale che questi effettivamente gli rese il 10 marzo, ma per parlare del destino degli Ebrei rimasti orfani in Europa.

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LA MENORAH

L’Arca come i Lorena Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Sala dell’Arca. Particolare del ciclo realizzato nel 1816 da Luigi Ademollo, che rappresenta la Processione di David e degli Ebrei per il ritorno dell’Arca dell’Alleanza. Il soggetto è un’allusione al felice ritorno dei Lorena al governo della Toscana, dopo la fine della dominazione napoleonica (1813).

Riferisce ancora Fine: «Uno dei due rabbini capo d’Israele avrebbe chiesto notizie della menorah, nella loro storica visita in Vaticano del 2004; come, in un’altra occasione, avrebbe fatto il Presidente di Israele, Moshé Katzav». Su tutto ciò, il professor Fine ha chiesto una risposta formale al ministero degli Esteri israeliano, che non ha smentito: «Le richieste di Shetreet, del presidente e dei rabbini capo riflettono la credenza di lunga data che la chiesa cattolica, come erede di Roma, sia entrata in possesso del bottino dell’impero, come l’Arco di Tito documenta. E cosí, si assume che, tra gli altri tesori saccheggiati al popolo ebraico, la menorah del Tempio sia tenuta nascosta in qualche luogo nei magazzini del Vaticano».

Una querelle senza fine La querelle si spinge fino al punto che (è sempre Fine a riferirne), il medievista irlandese padre Leonard Boyle, quando era

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prefetto della Biblioteca Vaticana, spiegava: alcuni turisti israeliani «erano stati addestrati dai loro rabbini per cercare la menorah durante la loro visita». «In un certo periodo, gli Israeliani erano convintissimi che il candelabro si trovasse Oltretevere», dice l’archeologo Francesco Buranelli, fino al 2007 direttore generale dei Musei Vaticani e poi segretario della Pontificia commissione per i Beni culturali della Chiesa: «Ho avuto un fitto scambio di lettere con l’allora direttore generale israeliano delle Antichità, sfociato in una sua proposta di schedare tutte le antichità ebraiche possedute dai nostri musei, nell’evidente speranza di rinvenire tracce della menorah. Ma ci dovemmo accontentare di assai poco, tipo quattro lucerne e tre iscrizioni. Ne rimase deluso, mi chiese di poter visionare tutti i nostri magazzini; la richiesta fu accolta, ma non ebbe alcun esito. Da allora non ci siamo piú scritti, né l’ho piú sentito».



L’IMPERO CRISTIANO

A destra, sulle due pagina la Constitutio Antoniniana nel Papiro di Giessen. 215 e.v. Giessen, Justus-LiebigUniversität. In basso epitaffio di una defunta di nome Aster, probabilmente una bambina, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Lapidario ebraico.

Lo specchio rovesciato del cristianesimo Come si configurava la condizione degli Ebrei durante i secoli dell’impero cristiano? Tra la dichiarazione dell’ebraismo come religio licita, da una parte, e il rifiuto di concedere ai «negatori di Cristo» ogni libertà di culto dall’altra, gli Ebrei, unici esponenti di una minoranza religiosa, restarono, comunque, nel mondo cristiano. Ma quali furono le ragioni di questo singolare «privilegio»? di Anna Foa

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on la cristianizzazione dell’impero, nel IV secolo, gli Ebrei non persero i diritti che erano loro riconosciuti, primo fra gli altri quello di professare la loro religione, e continuarono a godere, sia pur con crescenti limitazioni, dello stato giuridico sancito dalla Constitutio Antoniniana del 212, altresí detta Editto di Caracalla, che aveva concesso la cittadinanza a tutti o quasi gli abitanti dell’impero, e di conseguenza anche a loro. Le restrizioni, che

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Con l’Editto di Caracalla, l’imperatore donò la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero | GLI EBREI IN ITALIA | 53 |


L’IMPERO CRISTIANO

recepivano i risultati di sinodi e norme ecclesiastiche, cominciarono però subito, già sotto Costantino (306-337). Le prime norme proibirono il proselitismo ebraico e introdussero forti limiti al diritto degli Ebrei di possedere schiavi cristiani. Successivamente si proibí la conversione dal cristianesimo all’ebraismo e il matrimonio fra Ebrei e cristiani.

Il giudaismo come religio licita La sistemazione giuridica fatta da Teodosio con il Codex Theodosianus, del 438, assorbí queste limitazioni, pur mantenendo il principio che il giudaismo era una religio licita, non proibita dalla legislazione. Piú restrittivo sotto molti aspetti, anche perché eliminava il riferimento esplicito alla liceità del giudaismo, fu il codice di Giustiniano (VI secolo), che però ebbe inizialmente scarsa applicazione in Occidente, tranne evidentemente che nelle aree a dominazione bizantina, dove i rapporti tra Ebrei e potere civile e religioso furono in

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In questa pagina epitaffio bilingue (greco e latino) di Tubias Barzaharona e di suo figlio Paregorios, rinvenuto a Roma, nell’area di Porta Portese (Trastevere). V sec. (?). Roma, Museo Nazionale Romano,Terme di Diocleziano.

generale assai piú conflittuali che nelle aree dominate dalla Chiesa di Roma. Non sempre il potere politico e quello religioso andarono nella stessa direzione. Nel 388 ci fu un duro scontro fra l’impero e il potere ecclesiastico, quando Ambrogio, vescovo di Milano, si oppose con forza all’ordine dell’imperatore Teodosio il Grande di ricostruire una sinagoga distrutta dalla folla cristiana a Callinicum, in Siria (l’odierna Raqqa), e di punire il vescovo che ne aveva ordinato la distruzione: «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga, sí, sono stato io che ho dato l’incarico, perché non ci sia piú nessun luogo dove Cristo venga negato», scrisse nella sua epistola a Teodosio, rivendicando il rifiuto della libertà religiosa degli Ebrei. L’imperatore fu costretto a cedere quando Ambrogio minacciò di scomunicarlo, ma cinque anni dopo mise fuori legge gli attacchi alle sinagoghe. Questi tuttavia non si fermarono, come pure non si fermò l’uso della forza nelle conversioni, soprattutto nel mondo bizantino.


Fra il V e il VI secolo il giudaismo era ormai definito secta nella legislazione, ma il principio della sua liceità non venne cancellato. Nonostante le spinte in senso contrario, gli Ebrei restarono nel mondo cristiano. Sulla scelta di questa linea influirono fortemente le formulazioni ecclesiastiche, che si saldarono con la tradizione giuridica romana a definire e giustificare, fondandola su un solido sostegno teorico, la presenza ebraica nel mondo cristiano. Una diversità religiosa che incrinava il principio di una sola religione e che consentiva il mantenimento di una minoranza organizzata e stabile dentro il mondo cristiano, come non era concesso a nessun’altra minoranza.

In alto vetro dorato con raffigurazione di Mosè, da Aquileia. IV sec. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale, Polo Museale del Friuli Venezia Giulia. A destra epitaffio del macellaio Alexander, dalle catacombe di Vigna Randanini. III-IV sec. Oxford, Ashmolean Museum.

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L’IMPERO CRISTIANO

Invito al pentimento e auspicio di misericordia Vetro dorato con l’immagine dello shofar (strumento a fiato fatto di un corno vuoto di ariete o di capro), da Roma (?). IV sec. e.v. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella Bibbia il significato religioso principale è quello di scuotere i fedeli invitandoli al pentimento e contemporaneamente suscitare la misericordia divina.

Che la presenza degli Ebrei in seno alla società cristiana fosse consentita e mantenuta non era, del resto, una cosa ovvia né universalmente accettata nel pensiero teologico cristiano. Alle formulazioni di Paolo, alle origini stesse della separazione fra cristianesimo ed ebraismo, c’era sí l’idea (Lettera ai Romani 11) che gli Ebrei avessero un ruolo fondamentale nell’economia della salvezza e che quindi la loro presenza andasse salvaguardata: ma c’erano anche, nella lettera ai Corinzi e in quella ai Galati, considerazioni piú diffidenti verso il ruolo degli Ebrei nel mondo cristiano, piú attente alla contaminazione che la loro ritualità poteva comportare per i cristiani.

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Tutte teorizzazioni che si ancorano alla difficile separazione tra cristianesimo ed ebraismo e all’estensione ai gentili del proselitismo cristiano, ma che l’esegesi si affannerà a interpretare, nei secoli, derivandone diverse concezioni del rapporto tra Chiesa ed Ebrei. Già nel II secolo iniziava la polemica antigiudaica dei Padri della Chiesa, con il Dialogo con Trifone di Giustino martire, composto nel 135, seguito da una lunga serie di trattati adversus iudaeos, che danno vita a un vero e proprio genere letterario in cui si impegnano tutti i personaggi di primo piano della patristica, da Tertulliano a Origene a Giovanni Crisostomo. A consentire la piena affermazione della dottrina paolina


espressa nella Lettera ai Romani fu, nei primi decenni del V secolo, Agostino di Ippona, che sottolineava la necessità teologica di mantenere la presenza ebraica nel mondo cristiano, in attesa della fine dei tempi, a cui la conversione finale degli Ebrei era necessaria.

La scelta di Gregorio La scelta definitiva di mantenere la presenza ebraica, pur non consentendo quella degli eretici o dei pagani, fu fatta da papa Gregorio Magno alla fine del VI secolo. I problemi di fronte a cui il papa si trovava erano numerosi: quello delle conversioni perseguite attraverso la forza era il piú importante. Gregorio espresse

la sua posizione, contraria all’uso della forza, in occasione di una richiesta di aiuto rivoltagli da alcuni mercanti ebrei che si erano recati a Marsiglia e gli riferivano che il vescovo di quella città stava tentando di convertire con la forza gli Ebrei. Il problema era di notevole rilevanza teologica: il battesimo, data la sua natura di sacramento, implicava per essere valido la libera volontà di chi lo riceveva. La posizione contraria alla forza di Gregorio era quindi una difesa di principi teologici fondanti del cristianesimo, piú che della libertà di coscienza degli Ebrei. Solo pochi decenni dopo la decisa indicazione di papa Gregorio contro le conversioni forzate, il clero e i sovrani visigoti in

Epitaffio in lingua latina scritto in caratteri greci per un defunto (o una defunta) di nome Vesula (o Vessula), dalle catacombe ebraiche di Monteverde. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La lastra presenta un’accurata raffigurazione dell’aron ha-qodesh, con al centro otto rotoli e fiancheggiata da due menorot.

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L’IMPERO CRISTIANO

Spagna facevano una scelta diametralmente opposta, molte delle cui formulazioni sarebbero rimaste presenti nelle deliberazioni del diritto canonico, rendendo il problema dell’uso della forza nelle conversioni quanto mai incerto. Un problema analogo si poneva per il papa a proposito della trasformazione forzata delle sinagoghe in chiese, come era avvenuto a Cagliari e a Palermo. Il diritto romano, nel codice teodosiano, sanciva che le sinagoghe dovessero essere protette da

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Epitaffio in latino di Anastasius o Anastasia, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

attacchi e distruzioni, ma che non se ne potessero costruire di nuove, né restaurare le antiche in modo troppo evidente. Nel caso di Cagliari e Palermo la risposta di Gregorio è duplice: per Cagliari, in cui la sinagoga tolta agli Ebrei non era ancora stata consacrata, Gregorio ne imponeva la restituzione. Nel caso di Palermo, dove le sinagoghe erano già state consacrate a chiese, Gregorio sanciva che non fossero restituite agli Ebrei, in base al principio che la verità non doveva essere subordinata


all’errore. Ma il vescovo di Palermo doveva restituire i libri sacri e i sacri arredi agli Ebrei e ripagare il prezzo dell’edificio sequestrato. Nelle decisioni di Gregorio Magno, la presenza ebraica doveva essere garantita, alla condizione però che essa restasse subordinata alla Chiesa e al cristianesimo. Un’inferiorità codificata e sancita, garanzia ineliminabile della presenza. Su queste basi si costruiva, in particolare nelle zone d’Italia in cui il potere e l’influenza della Chiesa erano forti, un instabile equilibrio. Fu una scelta, vorrei ripeterlo, non uno sbocco necessario. Niente impediva che a un certo punto la Chiesa seguisse la linea piú ostile agli Ebrei, presente e attiva nel corso dei secoli precedenti, e ne decretasse l’espulsione. Invece cosí non fu: la presenza fu garantita, e tale sarebbe rimasta, in un’Europa in cui – a partire da un periodo di molto successivo a quello di cui stiamo parlando, il XIII secolo – sarebbero cominciate espulsioni che, nel volgere di due secoli, avrebbero reso la presenza ebraica limitata sostanzialmente a una parte dell’Italia e ad alcune zone della Germania. Ma come valutare l’inferiorità? Qui diventava possibile spostare la bilancia, introdurre mutamenti che rendessero questo

In alto epitaffio di Salutia, dalle catacombe ebraiche di Monteverde. III-IV sec. (?). Città del Vaticano, Musei Vaticani, Lapidario ebraico. Sulla lastra compaiono una menorah e il rotolo della Torah aperto.

Il nome e i simboli Sigillo in bronzo di Theodora, di provenienza ignota (Roma?). III-V sec. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. Il sigillo, il cui uso può non essersi limitato alla sfera dei contrassegni del pane o di altri beni alimentari ebraici, presenta al negativo il nome Theodora, e, al centro, un riquadro con menorah, lulav e shofar alquanto stilizzati.

equilibrio sempre piú difficile e piú duro per gli Ebrei. E infatti molti furono, nei secoli, i cambiamenti: a finire nel Cinquecento con i ghetti, che chiudevano gli Ebrei entro mura e portoni e li segregavano – sia pur entro certi limiti – dai cristiani.

Una necessità teologica La necessità della presenza degli Ebrei in seno al mondo cristiano, la garanzia che questa presenza continuasse, non era, come spesso si crede, una necessità economica, bensí teologica. Gli Ebrei erano necessari, come aveva spiegato Agostino, al compimento dei tempi: all’economia della salvezza, non a quella del mondo terreno. La loro presenza rappresentava lo specchio rovesciato del mondo cristiano, ne raffigurava la supremazia, ne affermava la verità di fronte all’errore, ne era testimone. Paradossalmente, proprio quando gli Ebrei cominceranno ad avere un ruolo economico e finanziario importante nel mondo cristiano, e la loro liquidità diventerà uno dei motori della crescita dell’Occidente, a partire dal XIII secolo, la loro presenza diventerà assai meno garantita. È in quel momento che iniziano in molta parte d’Europa le espulsioni. Il ruolo simbolico che gli Ebrei rivestivano nel pensiero teologico, nella ritualità, nella simbologia del Medioevo cristiano era infinitamente superiore alla loro presenza

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L’IMPERO CRISTIANO

Leggi a confronto Pagina di un codice membranaceo, forse dall’area romana. VIII-IX sec. Berlino, Staatsbibliothek zu Berlin Preußischer Kulturbesitz. Il documento comprende la Collatio legum mosaicarum et romanarum, opera in cui i testi normativi contenuti nei libri del Pentateuco sono posti a confronto con il diritto romano.

effettiva, materiale. Gli Ebrei erano sovrarappresentati; e la rappresentazione non riguardava, in realtà, la loro presenza effettiva, ma la loro valenza all’interno del cristianesimo. Al centro dell’attenzione non erano gli Ebrei, ma il cristianesimo, il suo rapporto con l’ebraismo, con i testi biblici, con l’apocalisse finale che prevedeva la conversione di tutti e in primo luogo degli Ebrei.

Come nobili matrone Guardiamo al modulo letterario e iconografico dell’Ecclesia ex circumcisione e dell’Ecclesia ex gentibus, nel mosaico all’interno di una delle basiliche piú antiche di Roma, S. Sabina, del V secolo (vedi le immagini alle pp. 62-63). La Chiesa di derivazione ebraica e quella di derivazione pagana formano un’unica comunità di fedeli. Il tema è complesso, ha offerto materia a molte diverse interpretazioni di esegeti e storici. «Non siamo ancora a una situazione di pesante intolleranza, come testimonia anche, proprio a Roma, il mosaico paleocristiano di Santa Sabina che raffigura accanto alla “Ecclesia ex Gentibus” la “Ecclesia ex Circumcisione” come una nobile matrona, immagine che nel Medioevo verrà sostituita da quella della sinagoga bendata», scriveva il cardinal Martini nel 2002. Eppure, nonostante l’armonia con cui vengono rappresentate, le due immagini femminili sembrano prefigurare un modulo iconografico di assai diversa valenza che avrà molta fortuna nel Medioevo, anche se principalmente nell’area franco-tedesca e non a Roma: quello della Chiesa trionfante e della Sinagoga accecata. Due donne, due figure femminili

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allegoriche, poste allo stesso livello, una però cieca e accasciata, l’altra, la Chiesa, dritta e trionfante. Un’iconografia diffusa in gran parte d’Europa a partire dal XII secolo, che adorna i portali delle cattedrali, e i manoscritti miniati, frutto di un’epoca in cui le tensioni sono molto piú forti che in questo primo millennio. Ne vediamo, in Italia, un esempio in una miniatura di un manoscritto di Rabano Mauro dell’inizio dell’XI secolo: al posto di due donne, troviamo cristiani ed Ebrei collocati in opposizione. Gli uni guardano alla Chiesa, gli altri alla sinagoga, sulla cui porta è raffigurato il diavolo. O ancora, la Deposizione, scultura di Benedetto Antelami nella Cattedrale di Parma, datata

Nella pagina accanto miniatura raffigurante la chiesa e la sinagoga ebraica, dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.


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L’IMPERO CRISTIANO

Sulle due pagine Roma, basilica di S. Sabina. Mosaico delle due Ecclesiae. V sec. e.v. La Chiesa di derivazione ebraica (Ecclesia ex circumcisione; a sinistra) e quella di derivazione pagana (Ecclesia ex gentibus; nella pagina accanto) sono raffigurate come due matrone che

1178, con le due allegorie contrapposte della Chiesa e della Sinagoga prostrata. Anche in queste assai piú tarde raffigurazioni del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, tra Chiesa e Sinagoga, però, le due donne restano in equilibrio: un equilibrio instabile, fondato sul trionfo dell’una e sulla cecità e sconfitta dell’altra, ma pur sempre un equilibrio. Lo stesso equilibrio che dopo Gregorio Magno caratterizza il rapporto tra Ebrei e Chiesa nelle aree italiane, eccettuando quella a dominazione bizantina, dove la relazione è molto piú squilibrata a favore della Chiesa. Gli Ebrei restano cives, cittadini diminuiti, in stato di subordinazione, ma pur sempre cittadini. Lo status degli Ebrei nelle zone dove prevale l’influenza della Chiesa di Roma, e con questa il

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tengono l’una l’Antico Testamento e l’altra il Nuovo, per esprimere un’unica comunità di fedeli. In seguito, quando crebbero le tensioni fra cristiani ed Ebrei, questa immagine ispirò quella della Chiesa vincitrice e della Sinagoga accecata.

diritto romano, è assolutamente specifico e unico nelle comunità della Diaspora in Europa, dove pure gli Ebrei non sono considerati eretici, ma infedeli che esercitano una religione lecita, consentita, e dove sono, non dimentichiamolo, l’unica comunità non cristiana presente entro la società cristiana. A differenza dei musulmani – scriverà Alessandro II nel 1063 – gli Ebrei non sono nemici e sono pronti ad accettare la loro servitú (parati sunt servire). Siamo ormai alle soglie della bolla Sicut Iudaeis del 1120, piú volte ripubblicata nei secoli successivi, in cui questo equilibrio era sancito e codificato, riprendendo le formulazioni di Gregorio Magno e trasformandole in norma giuridicamente vincolante. Si formulava l’idea di una sorta di patto che legava Ebrei e mondo cristiano e di

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L’IMPERO CRISTIANO

cui i papi e le leggi della Chiesa si facevano garanti, un patto che faceva della subordinazione la garanzia della presenza. E per rinunciare a questa presenza, come una gran parte d’Europa avrebbe fatto ma non la Chiesa, bisognava trovare delle motivazioni valide e contestare agli Ebrei di aver violato

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quel patto fondamentale. Era un patto di cui gli Ebrei a Roma erano molto consapevoli, fin dall’inizio dei loro rapporti con il papato. Una coscienza che derivava forse in parte da quella sorta di ambivalente ammirazione che già nei testi talmudici caratterizza l’immagine di Roma, la Roma che aveva distrutto il Tempio e


Contro la mala sorte Lamina d’argento rinvenuta in scavi del 1874-1878 presso piazza Dante, sull’Esquilino (Roma). V-VI sec. Roma, Musei Capitolini, Medagliere. Originariamente arrotolata e chiusa in un astuccio cilindrico di bronzo (perduto), la lamina reca un testo in greco ed ebraico che la connota come amuleto.

In basso, sulle due pagine miniature tratte da un pamphlet antisemita sull’usura, redatto a Norimberga nel 1484. Berlino, Deutsches Historisches Museum.

che era sede del Male, ma alle cui porte sedeva il messia tra i poveri e i malati (Talmud Babilonese, Sanhedrin, 98a). La Roma dai mille splendidi palazzi, dove «se non fosse per il sole, si ascolterebbe il frastuono di Roma e se non vi fosse il frastuono di Roma si ascolterebbe il suono del sole» (Talmud Babilonese, Yoma, 20b). C’è già nella Roma medievale una familiarità fra i papi e gli Ebrei, che diventerà piú tardi, nell’età del ghetto, una sorta di cordone ombelicale la cui memoria resterà a lungo nel DNA della comunità romana, fatta di sicurezza della

protezione e consapevolezza dell’inferiorità. Un sentimento ambivalente da parte degli Ebrei come lo era da parte dei cristiani.

Un doppio messaggio Ma se a Roma e in parte dell’Italia la Chiesa riesce a garantire una salda e sicura presenza ebraica, questo era piú difficile mano a mano che ci si allontanava dal centro della cristianità e del suo potere. Perché in fondo quello che la Chiesa voleva imporre nei confronti degli Ebrei era un messaggio complesso e ambiguo. Un doppio messaggio che il basso clero e il popolo cristiano stentavano a decifrare e la cui incomprensione sarà alla base, con le crociate, delle violenze contro le comunità ebraiche tedesche del Reno: «Sbarazziamoci degli infedeli tra noi prima di attaccare quelli in Terra Santa» gridano i crociati, seguiti dal popolo. Ma nelle aree italiane in cui l’influenza della Chiesa è forte, lo statuto degli Ebrei resta intatto: presenza, sia pur subordinata, come è

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L’IMPERO CRISTIANO

giusto che l’errore sia subordinato alla verità. Questa teologia dell’equilibrio consente la presenza ebraica in Italia, in particolare a Roma, e la garantisce saldamente. Fino all’inizio del XVI secolo, nessuno la metterà davvero in dubbio, e anche allora le spinte all’espulsione saranno sconfitte in favore di quella formazione di compromesso che fu il ghetto. Ciò che caratterizza il rapporto tra Chiesa ed Ebrei è appunto questa stabilità. È una stabilità che consente – anche se ben dentro il secondo millennio – il perfezionamento di una politica conversionistica, volta ad accelerare il movimento di conversione degli Ebrei, che troverà il suo culmine nell’età dei ghetti. Spinte alla conversione, almeno nell’area italiana, ancora deboli nell’Alto Medioevo e lontane dall’uso della forza, come sancito da Gregorio Magno. Una forza invece adoperata nel mondo bizantino, con l’editto di conversione dell’imperatore Eraclio all’inizio del VII secolo, nella Spagna visigotica, e altrove: lontano però dalla sede del pontefice romano, dove non ci

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Venezia. Veduta aerea del Campo del Ghetto Nuovo e, in basso, l’entrata al Ghetto. Quello veneziano fu il primo ghetto della storia. L’etimologia del nome dato al quartiere, destinato a divenire un triste simbolo di segregazione, continua a dividere gli studiosi: secondo alcuni deriverebbe dal tedesco «gitter» (inferriata), per altri dall’ebraico «get» (divorzio) o, ancora, dal tedesco «gasse» (vicolo). Tuttavia, l’ipotesi piú accreditata fa discendere la parola ghetto dal verbo «getàr», cioè fondere, per la vicinanza, nell’area del sestiere (quartiere) di Cannaregio, di una fonderia.


Particolare della celebre veduta di Venezia (1500) di Jacopo de’ Barbari (1450-1516), con al centro il sestiere di Cannaregio e l’area del futuro Ghetto Nuovo. Venezia, Museo Correr. Nel 1518, quando quest’area della città venne destinata agli Ebrei, essa era già in parte abitata; gli inquilini furono costretti ad abbandonare le case per far posto ai nuovi venuti e le pigioni furono aumentate di un terzo. Si munirono di cancelli i ponti sul rio di San Girolamo e sul rio del Ghetto, chiusi di notte e controllati da guardiani pagati dagli stessi Ebrei. Altri guardiani pattugliavano i canali in barca.

sono attacchi alle sinagoghe, ma solo l’applicazione nemmeno troppo rigida delle limitazioni del codice teodosiano; dove non ci sono violenze, ma una stabile convivenza rotta solo da qualche episodio, anche grave ma circoscritto, di tensione. Come l’accusa, narrata da fonti medievali cristiane, che sarebbe stata rivolta agli Ebrei sotto Benedetto VIII nel 1020, di aver provocato con il loro comportamento blasfemo un’epidemia, esauritasi dopo l’esecuzione di venti Ebrei. Un episodio rimasto assolutamente unico nella storia dei rapporti tra i papi e gli Ebrei romani e, ammesso che sia davvero avvenuto, avvolto nell’oscurità.

L’«eccezione» italiana La sede del papato, Roma, non conoscerà cosí il susseguirsi di violenze che dalla prima crociata in avanti segneranno la vita degli Ebrei in Germania. Non conoscerà le accuse del sangue e quelle di sacrilegio dell’ostia, che dal XII secolo in avanti metteranno in pericolo l’esistenza di tante comunità in Germania, in Francia, in Inghilterra, e

giustificheranno l’espulsione degli Ebrei. Non conoscerà le accuse di avvelenamento dei pozzi e quelle di spargere la peste. L’equilibrio sarà piú volte modificato, le condizioni di vita degli Ebrei rese piú dure, le spinte alla conversione accentuate. Ma le immagini degli Ebrei che appaiono nell’iconografia di area italiana non ci mostrano Ebrei alieni, dai cappelli a punta, tipici delle raffigurazioni medievali di area tedesca, bensí persone che nulla distingue dai cristiani. In Italia, a parte ovviamente il Sud spagnolo, non ci saranno espulsioni generalizzate, solo episodi locali, spesso rientrati. Roma, insieme madre protettrice e matrigna pressante, manterrà i suoi Ebrei. Con conseguenze di non poco peso sulla loro identità, sulla loro specificità, sulla loro storia tanto diversa, soprattutto nel secondo millennio, da quella del resto della Diaspora. E con conseguenze, credo, anche sulla Chiesa romana e sull’Italia: che, nonostante l’Inquisizione, dovrà almeno nel caso degli Ebrei imparare bene o male a misurarsi con una diversità presente nel suo seno.

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LE COMUNITÀ ITALIANE

«Da Bari uscirà la Torah e la parola del Signore da Otranto» La prima Italia ebraica è – se si esclude il caso di Roma – soprattutto quella meridionale. Qui, nel corso del primo millennio, la presenza degli Ebrei in Puglia, Calabria, Basilicata e Campania, ma anche in Sicilia e Sardegna, si afferma sullo sfondo di un quadro storico caratterizzato da contese e dominazioni straniere. Una storia a lungo dimenticata e oggi riscoperta, grazie a numerose e preziosissime testimonianze archeologiche e epigrafiche…

Puglia

L

a presenza di comunità ebraiche in Italia meridionale è attestata già durante il principato di Augusto e Tiberio, ma è probabilmente a seguito della distruzione del Tempio di Gerusalemme (intorno al 70 e.v.) e delle conseguenti deportazioni di prigionieri, che gruppi di profughi dalla Giudea dettero vita a un insediamento piú capillare nei centri portuali adriatici. I nuclei ebraici in Puglia furono dunque tra i piú antichi della Diaspora europea occidentale. La favorevole posizione geografica della regione, aperta ai traffici marittimi tra Oriente e Occidente, permise il mantenimento di rapporti intellettuali, oltre che commerciali, con l’ebraismo balcanico e palestinese per tutto il Medioevo. Grazie al costante transito di viaggiatori, maestri itineranti e inviati dalle comunità orientali, la Puglia ebbe il ruolo di ponte e crocevia, ove si attivarono, prima che in altri centri del giudaismo europeo, significative dinamiche dell’evoluzione dell’ebraismo antico

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che avrebbero influenzato tradizioni quotidiane, rito e pensiero delle comunità occidentali medievali e moderne. Ancora a distanza di secoli dal loro trasferimento in altre zone della penisola italiana, nella Valle del Reno e nella penisola balcanica – principali direttrici delle migrazioni giudaiche dalla regione – i discendenti degli

Epitaffio del poeta liturgico Mosheh ben Eliyyah, da Bari, contrada San Lorenzo. VIII-IX sec. Bari, Palazzo Simi-SABAP Città Metropolitana di Bari.


A sinistra e qui sotto due immagini della stele funeraria bilingue latino-ebraica di Anna, figlia di Giulio. VIII sec. (?). Oria, Museo archeologico «Francesco Milizia».

cronaca del X secolo intitolata Sefer Yosippon – in riferimento al nome dello storico Flavio Giuseppe – spiega il toponimo Pul, attestato in Isaia 66:19, in riferimento alla Puglia. In quest’ottica è rilevante l’autopercezione dell’autore del Sefer yuchasin (Libro delle genealogie, 1054), Achima‘atz ben Palti’el (1017dopo il 1054), la cui famiglia si era trasferita a Capua da Oria, il quale sottolinea nella sua opera le analogie tra Gerusalemme, donde provenivano i suoi antenati, e la città pugliese in cui la sua famiglia aveva prosperato. Intorno al X-XI secolo a Otranto fu attivo uno scriptorium, dipendente da un’accademia locale in cui si studiava l’ampia letteratura rabbinica. Della ricchezza dell’attività di ricerca talmudica, fiorente nelle scuole di Venosa e di Oria già nel IX secolo, e che

Ebrei pugliesi continuarono a vantare la loro origine e a nutrirsi dei frutti dell’eredità dei loro avi. A tutt’oggi, per esempio, la comunità di Corfú si fregia con orgoglio del titolo Qehillah Qedoshah Apulianit (Comunità Santa Pugliese) e a Salonicco, nonostante le distruzioni dell’ultimo conflitto, si ricordano ancora due sinagoghe denominate «Pulya» (vecchia e nuova) e una «Otranto». Gli Ebrei di Corfú continuarono a parlare un dialetto «pugghisu» fino all’inizio del XX secolo e, almeno fino al XIX secolo, conservarono nel loro rito elementi linguistici e letterari dell’antica tradizione liturgica pugliese. Essere un Ebreo pugliese significava, già in età medievale, far risalire la propria genealogia alle famiglie sacerdotali di Gerusalemme. Nei Divre ha-yamim le-Yerachme’el (Cronache di Yerachme’el, probabilmente composte nel XII secolo in Italia meridionale), si legge che «(Tito) stabilí a Taranto, a Otranto e in altre città della Puglia circa cinquemila (deportati)»; cosí la

raggiunse livelli elevati anche a Bari (e a Trani, in età successiva), resta oggi la testimonianza di alcuni codici e numerosi frammenti membranacei riutilizzati in legature posteriori conservate in archivi e biblioteche di tutta Italia e perlopiú provenienti da Otranto. Dalla città salentina proviene, per esempio, uno dei piú importanti testimoni della Mishnah, oggi conservato a Parma, che contiene alcune glosse marginali in una koinè neolatina meridionale, vergate in caratteri ebraici e finalizzate a spiegare voci ebraiche e aramaiche di difficile interpretazione. Il lascito intellettuale di queste accademie fu raccolto da altre comunità, attive soprattutto nella Valle del Reno e nella Francia settentrionale tra XI e XIII secolo: non è un caso che il celebre detto «Da Bari uscirà la Torah e la parola del Signore da Otranto» sia riportato nel XII secolo dall’autore del Sefer hayashar, forse il francese Ya‘aqov ben Me’ir, discendente di Ebrei renani. Fabrizio Lelli

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LE COMUNITÀ ITALIANE

Sicilia

L

e origini delle comunità ebraiche in Sicilia e Calabria sono incerte: migranti volontari in cerca di opportunità economiche; rifugiati da zone di crisi nell’impero romano; schiavi condotti a forza dopo le campagne orientali di Pompeo e la sconfitta delle rivolte ebraiche nel I e nel II secolo e.v. C’erano probabilmente i discendenti di tutti questi gruppi nella popolazione ebraica che comincia a diventare visibile nei resti materiali a partire dal IV secolo e.v. La Cronaca di Achima‘atz mostra che dall’XI secolo gli Ebrei dell’Italia meridionale facevano risalire le proprie origini ai prigionieri condotti da Gerusalemme. Non c’è quasi traccia letteraria degli Ebrei di Sicilia e Calabria prima delle lettere di papa Gregorio Magno, pertanto la loro conoscenza si basa su ritrovamenti casuali in cui può essere rintracciato qualche elemento ebraico: soprattutto iscrizioni, assieme a pochi altri piccoli oggetti, e alcuni siti archeologici significativi. La testimonianza piú importante per la Sicilia è un epitaffio da Catania datato al 383 e.v. Un uomo chiamato Aurelius Samohil (Samuel) comprò per sé e per la moglie recentemente deceduta una tomba, su cui collocò un’iscrizione in latino che metteva in guardia contro la sua violazione o il suo riutilizzo. Il messaggio sembra diretto tanto ai correligionari ebrei («Vi esorto in nome della legge che il Signore ha dato agli Ebrei») quanto al resto della popolazione; ma la minaccia di un’ammenda di dieci libbre d’argento da pagare al tesoro pubblico mostra che la conservazione della tomba era ritenuta una questione di interesse generale per la città. Un’altra esortazione «per l’onore dei patriarchi» si riferisce probabilmente alle autorità ebraiche in Palestina, che dovevano godere di una certa considerazione nella Sicilia dell’epoca, quando il loro

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A destra amuleto greco-giudaico, dal ninfeo delle terme di Camarina. V sec. (?) Camarina, Museo Regionale. Sulla lamina, in oro, non compaiono simboli ebraici, ma il formulario propone nomi divini e una scansione comune a quella degli amuleti giudaici e giudaicocristiani della tarda antichità. In basso amuleto su lamina di rame con formula redatta in greco ed ebraico in caratteri greci, da Mazzarino (CL), contrada di Sofiana. III-V sec. (?). Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

prestigio e la loro influenza nell’impero romano erano al massimo. Una formula ebraica risulta iscritta grossolanamente nello spazio sopra il testo latino, mentre su entrambi i lati dell’ultimo verso è disegnata una menorah, fornendo un’identificazione visiva dell’ebraicità della tomba a coloro che non leggevano l’iscrizione. Secondo gli Atti degli Apostoli (20:12-13), san Paolo visitò Siracusa per tre giorni prima di attraversare lo stretto in direzione di Reggio, ma non viene detto se vi trovò altri Ebrei. Un’iscrizione in greco proveniente dalla città, decorata con una menorah e altri simboli ebraici, contiene la richiesta di non aprire la tomba di Nofeios e Nife, e termina con una «benedizione ai pii che sono qui». Le vite dei santi fanno riferimento a una sinagoga a Siracusa, e c’era di certo anche una presenza di Samaritani, dal momento che una colonna con un testo biblico in scrittura samaritana è stata scavata nel 1913. Un uomo descritto come Samareus viene commemorato da un’iscrizione in


greco del I secolo e.v. o precedente a Termini Imerese ma non è chiaro se fosse di religione samaritana o semplicemente proveniente dalla Samaria; altrove i Samaritani si definivano «israeliti». A Noto sono presenti vari ipogei scavati alla fine del XIX secolo. Nel IV o nel V secolo, alcune tombe piú antiche scavate nella roccia furono riadattate all’uso e molte di esse vennero contrassegnate con una menorah; l’area era chiamata «Grotta del Carciofo» perché le menorah erano scambiate per carciofi. Testi magici come un amuleto proveniente

A destra anello in bronzo con simboli ebraici, da Mozia (TP). IV-V sec. (?). Mozia, Museo «J.I.S. Whitaker». In basso amuleto su lamina in oro, dalla necropoli di Comiso superiore. IV-VI sec. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

probabilmente da Sofiana (nella pagina accanto, in basso) usano talvolta nomi ebraici angelici e divini o altre forme ebraiche traslitterate. In questo caso, un lungo testo in alfabeto greco iscritto su un foglio di bronzo molto sottile invoca gli arcangeli, i serafini e altre potenze celesti e divine per la protezione dalle forze maligne, inclusa, a quanto pare, la dea Artemide. Il testo deriva chiaramente da fonti ebraiche e il suo utente finale doveva credere nell’efficacia della magia ebraica. Un altro amuleto da Comiso che consiste in un testo in alfabeto ebraico su una laminetta d’oro (qui accanto), forse scritto per una donna di nome Ammia, fu copiato probabilmente da qualcuno che non conosceva l’ebraico, dal momento che risulta incomprensibile. All’alfabeto – al pari di nomi come Mosè, Salomone e Adonai, trovati in altri testi magici siciliani – potrebbe essere stato attribuito un certo potere da persone che in realtà non avevano alcuna relazione con l’ebraismo. In Sicilia sono stati rinvenuti numerosi oggetti peculiarmente ebraici. Un sigillo di bronzo con impugnatura da Acireale presenta una menorah al centro, un nome, probabilmente Heuresis, disposto intorno a essa e altri simboli ebraici. Un anello con sigillo in bronzo rinvenuto a Mozia, databile al IV o V secolo, presenta una menorah tra un lulav e uno shofar (in alto). Privo di indicazioni su un singolo proprietario, potrebbe aver avuto una sorta di funzione comunitaria. Lucerne con menorah sono state rinvenute in altri siti siciliani, tra cui Caucana, Marsala e almeno in quattro ipogei a Siracusa (dove erano ampiamente superate in numero dalle lampade con decorazioni cristiane). David Noy

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LE COMUNITÀ ITALIANE

Calabria In questa pagina e nella pagina accanto, a sinistra repliche dei pannelli del mosaico pavimentale della sinagoga di Bova Marina (gli originali si conservano nell’Antiquarium del Parco Archeologico «Archeoderi», a San Pasquale, Reggio Calabria). I tre riquadri facevano parte della decorazione musiva del pavimento nella sala di preghiera della sinagoga. Nella pagina accanto, in basso, a destra frammento d’anfora con bollo giudaico, dall’area della sinagoga di Bova Marina. V sec. e.v. San Pasquale, Antiquarium del Parco Archeologico «Archeoderi».

L

a Calabria ha fornito poche tracce ebraiche dell’epoca romana, ma una lastra di marmo frammentaria rinvenuta a Reggio sembra provenire da un edificio comunitario. La parte sopravvissuta dell’iscrizione recita, in greco, «degli ebrei», presumibilmente preceduto da un termine per «sinagoga» o qualche altra istituzione. Potrebbe risalire al IV secolo, quando una presenza ebraica a Reggio è indicata anche dal fatto che nel 384 vi giunse un decreto imperiale contro gli Ebrei proprietari di schiavi cristiani (Codex Theodosianus 3.1.5).

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Nel 1985 a Bova Marina venne scoperto per caso un edificio che probabilmente fu una sinagoga nel IV, nel V e all’inizio del VI secolo. Non necessariamente era stato costruito come sinagoga, ma seguí gli sviluppi tipici delle sinagoghe della Diaspora. L’edificio originale, allineato sull’asse nord-ovest/sud-est, aveva una forma approssimativamente quadrata ed era diviso in cinque stanze. La piú grande, che misurava 6 × 7 m, doveva essere la sala dell’assemblea. Il pavimento presentava un mosaico con un bordo di foglie e frutti, all’interno del quale c’era un motivo di rosette


e nodi di Salomone. Il pannello centrale conteneva una menorah affiancata da etrog, lulav e shofar. In una fase tarda della sua storia, l’edificio venne modificato prendendo la forma di una basilica. Una piccola abside fu aggiunta nella parete sud-orientale della sala (rivolta verso Gerusalemme), preceduta da un gradino e provvista di una balaustra. Nella sala è stato rinvenuto anche un recipiente di terracotta inserito nel mosaico, contenente frammenti di vetro e sette portastoppini, presumibilmente per la lampada della sinagoga. In una stanza che fu aggiunta sul lato opposto dell’edificio (non comunicante direttamente con la sinagoga) è stato rinvenuto un altro vaso di terracotta contenente una brocca con 3079 monete di bronzo, principalmente della prima metà del V secolo, che probabilmente costituivano le offerte della congregazione. Un altro edificio eretto nei pressi potrebbe essere servito come alloggio per i visitatori della sinagoga. Durante gli scavi è stata trovata anche una necropoli; una delle tombe conteneva una moneta di Arcadio (383-408). Un edificio di culto a Vibo è stato interpretato come una possibile sinagoga ma non c’è nulla che possa confermarlo. È un caso eccezionale che la sinagoga di Bova abbia conservato la prova della propria funzione nel disegno del pavimento; in altri casi in cui gli elementi ebraici visibili si trovavano sulle pareti o erano oggetti trasportabili, l’identificazione non è possibile. David Noy

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LE COMUNITÀ ITALIANE

Campania

B

enché l’area sepolta dal Vesuvio, e soprattutto la città di Pompei, abbia fama di essere stata sede di una consistente presenza ebraica già nel I secolo e.v., in realtà è stato da tempo chiarito, almeno fra gli addetti ai lavori, che le prove in tal senso – una serie di rinvenimenti archeologici ed epigrafici generalmente male interpretati – sono meno numerose di quanto si creda e che gli stessi materiali meno problematici non sono esenti da difficoltà interpretative. Il graffito latino in cui sono stati letti i nomi delle città di Sodoma e Gomorra, di cui restano poche lettere, ha buone possibilità di essere stato tracciato ben posteriormente all’eruzione; le poche anfore contenenti vino «giudaico», secondo il titulus greco già d’incerta lettura e oggi evanido, può darsi che non fossero affatto destinate a clientela locale. Solo indizi dunque, poco piú che

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suggestioni. Dall’area sinora scavata non sono però mancati – come a Ercolano, dove in un graffito si è potuto leggere il nome David – ritrovamenti che, inaspettatamente, hanno documentato presenza e anche conoscenza di cose ebraiche. Si deve, per esempio, forse all’antigiudaismo del padrone di casa o alle sue origini alessandrine, o a entrambi i fattori, se nella decorazione pittorica del viridario della Casa del Medico, a Pompei, fra scene nilotiche con pigmei, è stato inserito quel singolare dipinto – un unicum a tutt’oggi – raffigurante nei particolari nientemeno che la scena principale del Giudizio di Salomone (qui sotto). Piú che all’epigrafia o all’archeologia, si deve tuttavia a fonti letterarie l’aver tracciato, per prime, un collegamento esplicito fra la catastrofe vesuviana e quella toccata pochi anni prima, per mano dell’uomo, alla città di

In basso, sulle due pagine quadretto ad affresco raffigurante il Giudizio di Salomone, da Pompei, Casa del Medico. Ante 79 e.v. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


A destra sigillo in bronzo di Samues, forse da Atella. IV sec. e.v. Madrid, Museo Arqueológico Nacional. Lo strumento era destinato, come tutti gli altri dello stesso tipo, a lasciare la sua impronta su beni alimentari prodotti da Ebrei o destinati all’uso ebraico.

Gerusalemme. Se all’eruzione si fa solo un accenno nella pur vasta opera di Flavio Giuseppe (in Ant. iud. 20, 144), il libro IV giudaico degli Oracoli sibillini inserisce l’eruzione del 79 – raccogliendo una tradizione probabilmente formatasi subito dopo i fatti – in una serie di sciagure che Dio avrebbe

inviato su Roma per dieci generazioni come punizione per aver distrutto Gerusalemme, il Tempio e il popolo santo. Sempre alla fine del I secolo un modo abbastanza simile di reinterpretare la storia si riscontra in Flavio Giuseppe, secondo cui l’assassinio di Caligola sarebbe già stato un

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LE COMUNITÀ ITALIANE

Campania castigo divino per aver tentato d’introdurre la propria immagine nel Tempio (Antichità giudaiche 18, 308-309). È sempre Giuseppe a fornirci peraltro alcune delle prime descrizioni di siti campani che sarebbero stati interessati, già prima dell’età flavia, dalla frequentazione giudaica. I riferimenti convergono però non sull’area vesuviana, ma su quella flegrea e particolarmente su Puteoli (ora Pozzuoli), il grande centro mercantile a nord-ovest di Napoli che ben prima di Ostia svolse per Roma funzione di porto annonario e di approdo per uomini e merci provenienti da ogni parte del Mediterraneo. Puteoli è anche menzionata in varie fonti rabbiniche, abbastanza tarde, in cui si riferiscono eventi o tradizioni risalenti sino all’età domizianea, quando nel corso della loro missione a Roma vi avrebbero fatto tappa i quattro maestri palestinesi guidati da Rabbi Gamaliel II (Talmud di Gerusalemme, Mo‘ed qatan 3, 1; et al.). Di fronte a cosí varie informazioni dalle fonti letterarie, colpisce la rarità delle iscrizioni. Il documento epigrafico piú significativo giunto dal territorio è tuttavia davvero eccezionale, perché si tratta dell’iscrizione funeraria di Claudia Aster, «schiava di Gerusalemme», apparentemente venduta a un liberto campano di cui non ci è rimasto integro il nome, del quale divenne forse concubina e che infine, dandole l’ultima dimora in un’area funeraria non lungi da Neapolis, ne dettò l’epitaffio. Un altro liberto di Claudio o di

Epitaffio di Claudia Aster [CL]AVDIA ASTER [HI]EROSOLYMITANA [CA]PTIVA CVRAM EGIT [TI] CLAVDIVS AVG LIBERTVS [---]CVLVS ROGO VOS FAC [ITE] PER LEGEM NE QVIS [MI]HI TITVLVM DEICIAT CV [RA]M AGATIS VIXIT ANNIS XXV «Claudia Aster, fatta prigioniera a Gerusalemme. (Della sepoltura) si occupò Tiberius Claudius [---]culus, liberto imperiale. Vi prego: fate secondo la legge che nessuno mi rimuova l’iscrizione, abbiatene cura. Visse 25 anni». L’iscrizione funeraria di Claudia Aster, proveniente da un sepolcreto non identificato lungo la strada fra Napoli e Pozzuoli (oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), è uno dei documenti piú toccanti della sorte delle migliaia di prigionieri che, presi in Giudea dopo la conquista del 70 come parte del bottino di guerra, furono condotti in catene a Roma. Testimonianza unica, perché coeva e direttamente collegata a quei tragici avvenimenti, l’epitaffio, nella sua brevità, fornisce diverse informazioni sulla vita della giovane donna. Il nome Aster non è

A sinistra epitaffio in greco ed ebraico del rebbi Abba Maris, da Brusciano (Napoli). IV-V sec. (?). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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altro che l’adattamento greco dell’ebraico Ester («Stella»). Quando la fanciulla fu fatta prigioniera a Gerusalemme (forse insieme ad altri membri della sua famiglia, se nel 70 era ancora bambina), dovette seguire il flusso di prigionieri giudei che, come testimonia Flavio Giuseppe, era iniziato già con Vespasiano e che con Tito divenne talmente ingente da far crollare il prezzo degli schiavi «per abbondanza della merce e scarsità di compratori». Condotta in Italia, a un certo punto Aster fu acquistata da un liberto imperiale, il cui nome non ci è pervenuto per intero (forse Masculus, o Proculus), il quale, liberato a sua volta ai tempi di Claudio o di Nerone – e avendone cosí assunto il prenome di Tiberius Claudius – trasmise il gentilizio Claudia alla sua schiava. Troppo giovane, tuttavia, per poter essere affrancata secondo le leggi romane, Aster dovette diventarne la moglie o, piú probabilmente, la concubina. Alla sua morte, il suo patrono volle darle dignitosa sepoltura e inserire nell’epitaffio un elemento insolito, per lui (o per lei) particolarmente significativo: che Aster era stata una Hierosolymitana captiva, una dei prigionieri di Gerusalemme.

Nerone, il gerusiarca Tiberius Claudius Philippus – forse un discendente del patrono di Claudia Aster – ha lasciato memoria dell’erezione di un muro, forse a ridosso di una sinagoga o di uno spazio sepolcrale. Il rinvenimento di quest’ultima epigrafe presso una delle arterie di collegamento fra Neapolis, Puteoli e Capua ci ricorda peraltro come in quest’ultimo centro campano, noto per l’importanza della presenza ebraica in età medievale, gli Ebrei fossero già presenti in età romana. Giancarlo Lacerenza



LE COMUNITÀ ITALIANE

Basilicata

A

differenza dell’area campana, non si hanno per i centri dell’attuale Basilicata attestazioni specifiche di presenze ebraiche prima della tarda età imperiale, entro cui si colloca un frustulo epigrafico con menorah rinvenuto nei pressi di Potenza. Tuttavia, la città di Venosa – l’antica Venusia, già parte dell’Apulia settentrionale – ha restituito da sola una tale concentrazione di testimonianze di tipo epigrafico, archeologico e

Epitaffio in lingua ebraica di Paregoria bat Fozio. 822-823. Venosa, Museo Archeologico Nazionale.

letterario, da farle senza dubbio meritare un certo primato fra i centri di piú significativo insediamento ebraico di tutta l’Italia meridionale, fra i secoli IV e X. Le prime e piú importanti informazioni sull’insediamento ebraico di Venosa giungono comunque tutte dalle locali catacombe, scavate in area extraurbana nella collina della Maddalena e di cui, apparentemente, gli Ebrei si servirono sin dalla metà del IV secolo: condividendo, a quanto sembra, parte del colle con un cimitero ipogeo cristiano. Le catacombe ebraiche erano


originariamente arricchite da numerose iscrizioni funerarie, molte delle quali sono andate purtroppo distrutte nel corso delle prime esplorazioni. Le catacombe furono infine abbandonate, anche per il susseguirsi di cedimenti strutturali, forse entro il VII secolo. Quando la presenza ebraica è nuovamente documentata, grazie a una serie d’iscrizioni tutte datate nella prima metà del IX secolo o collocabili nello stesso periodo, il quadro che ne emerge è di una comunità in pieno sviluppo e che già ha fatto propri tutti i mezzi espressivi della cultura ebraica, di cui negli epitaffi si fa largo uso: con testi talora molto elaborati, interamente in ebraico, non piú rozzamente dipinti ma incisi, spesso con finezza, su grandi matzevot di marmo o di calcare da conficcare nel terreno. Questo periodo d’oro dell’ebraismo venosino trova riscontro in alcune narrazioni della Megillat Achima‘atz, in cui la città appare come un centro ebraico vivace e ancora visitato

Ricostruzione dell’arcosolio delle catacombe ebraiche di Venosa (Potenza). V-VI sec. Nella lunetta è raffigurata al centro una grande menorah dorata, a bracci curvi con elementi globulari e a base tripode; sui bracci sono ben visibili le fiammelle sulle lucerne accese. Alla sinistra vi sono la fiaschetta dell’olio e un cedro (l’etrog); a destra, il corno rituale (lo shofar) e un rametto di palma.

da rabbini e maestri giunti dalla Terra d’Israele. La presa e il saccheggio di Venosa da parte dei Saraceni, che occupano il territorio fino all’866, sembra aver messo definitivamente in crisi la comunità ebraica, dal momento che dopo l’849 non si hanno dal territorio – ne sono state rinvenute anche nella vicina Lavello e a Matera – altre epigrafi datate, né visibilmente piú tarde. Se le tracce documentarie di Ebrei riprenderanno a Venosa solo dall’età angioina, non è cosí per altri centri lucani, dove ne troviamo sin dalla seconda metà dell’XI secolo soprattutto nella vicina e fortificata Melfi, dove forse molti Ebrei avevano trovato rifugio. Poco oltre la metà del secolo seguente, Beniamino da Tudela vi troverà 200 Ebrei o nuclei familiari ebraici: e da quel momento presenze ebraiche si registrano sempre piú frequentemente ad Acerenza, Potenza, Tricarico e in vari altri luoghi. Giancarlo Lacerenza

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LE COMUNITÀ ITALIANE

Sardegna

G

li Ebrei sono presenti in Sardegna da età molto antica, che risale all’inizio dell’era volgare ed è di poco successiva a quella degli Ebrei a Roma. Secondo l’affermazione unanime degli storici Flavio Giuseppe (I secolo e.v.), Tacito (che scrive nel 114), Svetonio (75-150 e.v.), Dione Cassio (fra il II e il III secolo e.v.), come pure da alcune allusioni di Filone di Alessandria (30 a.e.v.-45 e.v. circa) e di Seneca (4 a.e.v.-65 e.v.), essa risalirebbe all’inizio del I secolo e.v. Si riferisce, infatti, che 4000 Ebrei residenti a Roma furono inviati in Sardegna dall’imperatore Tiberio nel 19 e.v. dopo essere stati scelti con una leva militare coatta, per combattere il brigantaggio e lavorare nelle miniere di metallo nell’isola. Nella vulgata degli storici romani, ripresa e ripetuta fino a oggi da tutti gli studiosi, si sarebbe trattato di una misura punitiva nei confronti del proselitismo ebraico che si sarebbe concretizzato nella conversione della moglie del senatore Seiano all’ebraismo, considerato all’epoca una religione orientale da contrastare, e per disordini causati da alcuni Ebrei di Roma nella capitale dell’impero. Alcuni storici aggiungono che, oltre a essere questa

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una misura punitiva, si sperava che, a motivo del clima insalubre della Sardegna, questi soldati ebrei vi perissero. In realtà, i motivi addotti erano un mero pretesto, perché di fatto il Senato Consulto del 19 non era motivato dal proselitismo ebraico e non può essere considerato una cesura nelle relazioni fra Roma e la comunità ebraica della città, ma piuttosto come una misura ad hoc, che rispondeva a una necessità socio-politica, economica e militare di un momento difficile, nel quale fra le altre cose Roma aveva difficoltà a reperire soldati di leva. Questa notizia, per collegarsi alle successive fonti letterarie, deve attendere l’epistolario di papa Gregorio Magno

In questa pagina ricostruzioni degli arcosoli di Bonus (in alto) e di Beronice, nelle catacombe ebraiche di Sant’Antioco.


A destra lucerna con menorah, forse da un sepolcreto giudaico scoperto nell’Ottocento a Capoterra (Cagliari). IV-V sec. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. In basso anello in bronzo con il nome del suo proprietario, Iuda. V sec. (?). Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Nel castone è rappresentata una menorah al centro con un ramo di palma (lulav) a sinistra e il corno d’ariete (shofar) a destra.

al termine del VI secolo, per avere nuove informazioni sugli Ebrei nell’isola. Il pontefice, contattato dagli Ebrei sardi che gli avevano narrato di un Ebreo convertitosi a Pasqua, che entra nella sinagoga ergendovi la croce e un’insegna della Madonna, condanna simili atti in maniera decisiva, in contrasto con il silenzio del vescovo Ianuario. Il silenzio delle fonti storiche, tuttavia, è in parte colmato da quelle archeologiche, che ci hanno lasciato una significativa documentazione per il periodo che va dalla fine del III al V secolo. Quelle piú rilevanti sono costituite dalle catacombe di Sant’Antioco, nella Sardegna sud-occidentale, che ci hanno restituito interessanti iscrizioni funerarie in ebraico e latino. Le due catacombe ebraiche finora scoperte, rinvenute accanto a un sistema catacombale cristiano, molto verosimilmente non sono le sole. Altre iscrizioni marmoree e alcune lucerne funerarie con sopra la menorah ci aprono uno squarcio sulla vita degli Ebrei nell’isola per i secoli I-VI. Ci si può chiedere se vi sia stata continuità fra i 4000 soldati ebrei mandati in Sardegna nel 19 e la famiglia di Beronice e degli altri defunti nella catacomba di Sant’Antioco. Si direbbe con maggiore probabilità di no: infatti, la logica dice che, una volta finita la leva militare, i soldati ebrei se ne siano tornati a Roma. Risulta dunque piú verosimile che alcuni Ebrei siano giunti nell’isola dalla costa nordafricana del Marocco; tanto piú che per avere una catacomba affrescata doveva, quella di Beronice, essere una famiglia dell’alta borghesia

ebraica, a cui verosimilmente non appartenevano dei soldati di leva. La documentazione archeologica ed epigrafica relativa agli Ebrei in Sardegna non è mai stata raccolta e presentata in uno studio organico fino a tempi relativamente recenti. Con un gap documentale di otto secoli, è solo con l’Infante don Alfonso IV che, dopo la campagna militare del 1324, in un documento del 1327 si testimonia la presenza ebraica in Sardegna, bandendo gli Ebrei dalla regione di Iglesias. Siamo ormai a Medioevo inoltrato, nel periodo che va dagli inizi del XIV al volgere del XV secolo, ossia dal dominio aragonese fino all’espulsione del 1492. Mauro Perani

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LE COMUNITÀ ITALIANE

Italia centro-settentrionale

L

a presenza ebraica nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale non ebbe, fra tarda antichità e sino alla metà almeno del Duecento, caratteristiche di capillarità. Mentre la parte meridionale della Penisola vanta, come abbiamo visto, una lunga – e sino alle soglie dell’età moderna, ininterrotta – tradizione di presenza ebraica, per le regioni del centronord, fatta eccezione per Roma, la situazione si presenta alquanto diversa. Allo stato attuale degli studi, l’unica considerazione possibile è che per molti secoli l’Italia fu effettivamente divisa in due: e che le regioni a nord di Roma (che furono, incidentalmente, quelle nelle quali gli Ebrei poterono continuare a vivere sino all’epoca dell’emancipazione dopo la grande ondata di espulsioni che li colpí verso la fine del Medioevo, eliminando in pochi decenni la storia di una presenza millenaria) non ospitarono, sino alla fine del Duecento, pur con qualche eccezione, un significativo numero di Ebrei. È ragionevole ritenere che molti Ebrei si siano stabiliti nei territori occidentali dell’impero romano tra il I e il II

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secolo dell’era volgare, in molti casi in seguito al fallimento degli ultimi tentativi di rivolta contro Roma. Un certo numero di individui furono resi schiavi, altri – benché liberi – furono costretti a spostarsi verso territori che potevano loro garantire migliori condizioni di vita. Non pochi Ebrei si trasferirono a vivere a Roma, altri si stanziarono nei già esistenti insediamenti ebraici. Dopo la conquista longobarda (568-569) i riferimenti a gruppi ebraici nei territori a nord di Roma si fanno rarissimi: tuttavia, il fatto che in un concilio romano del 743 si rinnovi il divieto a matrimoni tra Ebrei e cristiani e si condanni la vendita di schiavi cristiani agli Ebrei, indicherebbe che almeno qualche Ebreo doveva essere presente nei territori assoggettati ai Longobardi. Tra X e XI secolo le informazioni si fanno un poco piú numerose: nel corso del X secolo per tre volte si menzionano dei mercanti ebrei in relazione a Treviso, anche se la fonte non consente di stabilire se si tratti di residenti o di Ebrei di passaggio. Verso la fine del X secolo abitavano certamente Ebrei a Verona: lo si deduce dal fatto che attorno al 965 il vescovo Raterio, per difendersi dall’accusa di tenere un comportamento vessatorio nei confronti degli Ebrei, asserí che la causa della sua ostilità era da mettere in relazione con il loro rifiuto ad accettare la divinità del Cristo e alcuni dogmi cristiani. Sempre nel X secolo, abitava a Pavia Mosheh da Oria, un Ebreo originario dell’Italia meridionale; un secolo piú tardi si trova traccia della presenza in città di un famoso talmudista, Mosheh da Pavia. A Lucca dimoravano sicuramente Ebrei già nel IX secolo. Nella Vita Sancti Symeoni monachi, composta pochi anni dopo la morte del religioso a Polirone, vicino a Mantova, si narra di come il santo armeno avrebbe miracolosamente convertito al cristianesimo una moltitudo Iudeorum in lucana civitate. Ad Ancona esisteva quasi certamente una piccola comunità ebraica tra il X e l’XI secolo.

In basso pedina in osso con menorah. IV-VI sec. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale, Polo Museale del Friuli Venezia Giulia.


Le concessioni dell’imperatore Pergamena con il diploma di Berengario I. Verona, 9 gennaio 905. Treviso, Archivio Storico Diocesano. La pergamena presenta pieghe originali, funzionali alla sua natura di atto diplomatico, manca del sigillo ed è forata in corrispondenza. Berengario I (850 circa-924), già marchese del Friuli, poi re d’Italia e imperatore del Sacro Romano Impero, concede nel 905 al vescovo di Treviso Adalberto due terzi delle imposte del mercato locale: nel diploma si menziona esplicitamente la presenza in città di mercanti ebrei che esercitano negotia.

Per quanto riguarda Roma, le prime notizie relative alla comunità ebraica dopo quelle contenute nella corrispondenza di Gregorio Magno risalgono all’XI secolo, anche se si ha notizia di uno scambio di lettere tra il ga’on babilonese Sar Shalom e alcuni rabbini romani. Ebrei dovevano essere presenti infine a Rimini, dato che in un documento datato 7 novembre 1015 si menzionano il teloneum Iudeorum e il fundus Iudeorum, quest’ultimo nuovamente citato in una carta del 1065. A partire dagli inizi del XII secolo, le informazioni relative a insediamenti ebraici si fanno piú frequenti e consistenti. Per Aquileia, dove per il periodo romano la presenza giudaica è ben documentata, una testimonianza epigrafica attesta che in tale

località in quell’epoca erano presenti Ebrei, anche se non è possibile dire molto di piú. A Verona i documenti latini riguardanti gli Ebrei, pur non essendo moltissimi, sono tuttavia abbastanza distribuiti da un punto di vista temporale. Un documento riguarda la presenza di Ebrei a Venezia, anche se è molto probabile che nella città lagunare non si possa parlare di stabile insediamento, né tantomeno di comunità: quasi certamente, un certo numero di Ebrei si recava a Venezia per periodi relativamente brevi, soggiornando in città per occuparsi dei propri affari. A Mantova dimorava almeno un piccolo gruppo di Ebrei: sappiamo che in città sostò per un certo periodo Avraham ibn Ezra, prima di spostarsi a Verona (1145). Per Genova, i documenti superstiti indicano chiaramente l’esistenza di un piccolo nucleo ebraico: nel 1134, per esempio, i consoli della città stabilivano che gli Ebrei dovessero essere soggetti a una tassa di tre soldi l’anno. A Rimini abitavano Ebrei anche nel XII secolo. Il 1144, infatti, in una conferma alla chiesa riminese di papa Lucio II relativa ai diritti di ripatico, si diceva che tale diritto era da applicarsi sia ai cristiani che agli Ebrei. Della presenza ebraica a Pisa parla Beniamino da Tudela, che riferisce che la comunità ebraica pisana assommava, all’epoca della sua visita, a una ventina di individui; cosí il viaggiatore navarrino descrive Pisa e la sua comunità: «Pisa, posta a due giorni di viaggio da Genova, è una città di grandi dimensioni. Vi sorgono circa diecimila case munite di torri, che vengono usate in caso di scontri cittadini. I pisani sono uomini valorosi; non hanno né re né signore che li governi, ma giudici che essi stessi eleggono. A Pisa risiedono una ventina di Ebrei, con a capo rabbi Mosheh, rabbi Hayyim e rabbi Yosef. La città, che è priva di mura, sorge a circa sei miglia dal mare: vi si accede in nave grazie al fiume che la attraversa». Alessandra Veronese

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IL SEFER MASSA‘OT

Il viaggio di Beniamino da Tudela L

a nostra conoscenza della vita e della presenza ebraica nell’Italia del primo millennio è frammentaria e fitta di lacune. Abbiamo notizia dell’esistenza di numerose comunità, abbiamo anche un’idea delle loro dimensioni e del loro rapporto con il mondo esterno. Qua e là ci soccorrono lapidi funerarie che fanno emergere, togliendole dall’anonimato, figure di Ebrei, uomini o donne, di cui l’iscrizione ci racconta la vita, sia pur in breve: è, questo, il caso di Claudia Aster, prigioniera di Gerusalemme sepolta vicino a Pozzuoli. Dove abbiamo la fortuna di imbatterci nella parola scritta, nei manoscritti di poeti, cronisti, medici, storici, riusciamo a penetrare piú in profondità non tanto nella vita di quelle comunità ma nella cultura che esse esprimono. Sappiamo della rinascita dell’ebraico, della penetrazione e poi diffusione del Talmud Babilonese, abbiamo conoscenza dai frammenti della sua autobiografia che ci sono giunti della conversione all’ebraismo di Giovanni da Oppido, conosciamo qualche brano della sua musica. Abbiamo anche alcuni testi in volgare scritti in lettere ebraiche, che ci consentono la conoscenza del ruolo primario giocato dall’apporto ebraico ai primi passi della lingua italiana. A consentirci di mettere insieme tutte queste notizie sparse e a derivarne un panorama d’insieme dell’Italia ebraica nel primo millennio, però, è un testo di molti

decenni successivo al termine finale del nostro percorso espositivo, piú esattamente della seconda metà del XII secolo. È il Sefer massa‘ot, l’Itinerario o Libro di viaggi, composto da un viaggiatore ebreo proveniente dalla città spagnola di Tudela, Beniamino, nato intorno al 1130. Il suo autore era probabilmente un mercante e un rabbino. Quando Beniamino nasceva, la città di Tudela, in Navarra, era appena stata sottratta dalla Reconquista cristiana al califfato di Cordova, di cui faceva parte. Nei secoli successivi sarebbe divenuta una città connotata da una forte presenza ebraica, e un centro culturale importante, ma già nella seconda metà dell’XI secolo era stata la patria del poeta e filosofo Yehudah ha-Lewi. Il viaggio di Beniamino iniziò nel 1159. La sua meta era la Terra d’Israele, anche se il suo viaggio si allungò almeno fino a Baghdad. Beniamino passò naturalmente da Costantinopoli, a cui dedicò grande attenzione. Ma soprattutto, per quello che ci riguarda, passò dall’Italia, la attraversò nel suo viaggio di andata e si fermò in Sicilia in quello di ritorno. E le sue descrizioni delle città che attraversa e degli Ebrei che vi abitano sono una sorta di fotografia del mondo ebraico del XII secolo che ci consente di guardare indietro, verso gli ultimi secoli del primo millennio. In linea di massima, la storiografia concorda sulla veridicità della descrizione di Beniamino, se non sui numeri delle presenze ebraiche

che egli ci dà, almeno in generale sull’ordine di grandezza. Dobbiamo ricordarci, infatti, che i calcoli della popolazione non arrivano ad avere un grado di certezza sufficiente fino al XVII secolo, quando l’incrocio tra censimenti, registri parrocchiali (per i cristiani, evidentemente) e dati fiscali riesce a delineare numeri sufficientemente accurati. Le cifre che Beniamino ci dà sono quindi frutto di percezioni o di valutazioni a occhio e non di un accurato conteggio basato su fonti certe. Il Sefer massa‘ot è anche un testo problematico, due volte rimaneggiato in Spagna e in Francia, con alcuni vuoti e numerose contraddizioni, con parti che rivelano una conoscenza diretta e altre riprese da testi diversi, ma che per alcune località resta l’unica fonte utilizzabile e almeno per gli Ebrei italiani appare in linea di massima come una testimonianza attendibile. Dobbiamo però ricordare che, se le informazioni che Beniamino ci dà sulle comunità ebraiche che tocca nel suo viaggio ci appaiono affidabili e derivate da una conoscenza diretta, il suo viaggio non tocca, e non menziona, tutte le comunità ebraiche esistenti in Italia, ma solo una parte, anche se la piú importante. Ma quale era lo scopo del viaggio di Beniamino e di questa sua minuziosa descrizione, quasi un censimento, delle comunità ebraiche in cui si imbatte? Dal momento che lo scopo non è mai dichiarato direttamente dall’autore, ci dobbiamo

Nella pagina accanto manoscritto miscellaneo cartaceo, contenente varie opere tra cui, all’inizio, il Sefer massa‘ot (Itinerario o Libro di viaggi) di Beniamino da Tudela. 1428. Roma, Biblioteca Casanatense.

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IL SEFER MASSA‘OT

Frontespizio di un’edizione ebraico-latina del Sefer massa‘ot, con traduzione di Benito Arias Montano. Anversa, Plantin, 1575. Napoli, Università «L’Orientale».

accontentare di ipotesi. Alcuni interpreti lo hanno visto sotto l’aspetto mercantile, altri sotto quello religioso, come un pellegrinaggio in Terra di Israele, anche se un obiettivo non escludeva necessariamente l’altro. Ma non manca chi ha interpretato il viaggio di Beniamino come un pellegrinaggio alla ricerca dei sepolcri dei santi: in un contesto cristiano in cui il pellegrinaggio era divenuto frequente e vitale, gli Ebrei

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avrebbero accettato il confronto con i cristiani e sarebbero partiti alla ricerca dei sepolcri dei loro santi, sepolcri che potevano trovarsi soprattutto in Medio Oriente e che erano invece assenti in Europa. Qualunque sia stato l’obiettivo principale del viaggio di Beniamino, lo scritto che lo descrive resta, per la parte italiana, una delle fonti principali per la storia degli Ebrei in Italia intorno al XII secolo, prima quindi che i mutamenti intercorsi intorno

al XIII secolo modificassero sensibilmente le loro vite e il loro rapporto con le popolazioni circostanti. Piú che aprire al futuro, il libro riprende i fili del passato, insomma. Ripercorriamo l’Italia descritta da Beniamino, le comunità ebraiche in cui si imbatté. Imbarcatosi a Marsiglia, il viaggiatore arrivò in quattro giorni a Genova, dove trovò due Ebrei, due fratelli provenienti da Ceuta, in Nordafrica. Dopo Genova Beniamino si fermò a Pisa, dove incontrò venti Ebrei, e poi a Lucca, sede di una comunità di quaranta Ebrei. Per «ebreo», anche se la storiografia non è unanime su questo punto, Beniamino intendeva con ogni probabilità non gli individui, ma i capifamiglia, i «fuochi». Il numero va quindi moltiplicato per quattro circa. Si tratta comunque – anche nel caso di Lucca, in cui la presenza ebraica è documentata già nel IX secolo – di numeri bassi, soprattutto se confrontati ai 500 di Napoli o ai 1500 di Palermo. Per Lucca, su cui manchiamo di documentazione fra l’XI e il XII secolo, possiamo ipotizzare un allontanamento degli Ebrei dalla città e poi un loro reinsediamento nei decenni precedenti il viaggio di Beniamino. Comunque sia, la descrizione di Beniamino, per quanto possa non essere accurata


nei numeri, è importante per l’ordine di grandezza delle comunità e ribadisce che il Nord e il Centro Italia sono, nel XII secolo, ancora spopolate di Ebrei. Le comunità assumono consistenza numerica solo a Roma e a sud di Roma. In sei giorni di viaggio, da Lucca, Beniamino arrivò a Roma: «La grande città di Roma, il cuore del Regno dei cristiani. Vi sono circa duecento ebrei, in posizioni onorevoli ed esentati da tributi, e fra di loro si trovano anche dei funzionari di papa Alessandro, il capo spirituale di tutto Edom». Roma era quindi una grande città, il cuore della cristianità, ed era anche un luogo dove gli Ebrei vivevano tranquillamente, onorati e accolti alla corte pontificia, e soprattutto senza pagare tasse al papa. Ancora un secolo o poco piú e le tasse si sarebbero accumulate sugli Ebrei romani, fino a diventare nel XVI secolo un vero e proprio strumento per rendere loro la vita difficile e spingerli alla conversione. Inoltre, ci dice Beniamino, Roma era anche un importante centro culturale: «Qui risiedono grandi studiosi, con a capo R. Dani’el, il rabbino, e R. Yiechi’el, funzionario pontificio, giovane bello, intelligente e saggio, che può entrare liberamente nel palazzo del papa, poiché ne amministra la casa e tutti gli averi. Egli è il nipote di R. Nathan, che compose il Sefer ‘arukh e i suoi commentari. Altri studiosi sono R. Yoav, figlio del rabbino R. Shelomoh, R. Menachem, ro’sh yeshivah, R. Yechi’el, che vive a Trastevere, e R. Binyamin ben Shabbatay, benedetto sia il suo ricordo».

L’attenzione di Beniamino non era rivolta solo agli Ebrei romani, ma anche alla città: «Roma è divisa in due parti dal fiume Tevere: da un lato c’è la grande chiesa chiamata San Pietro di Roma. In città si trova il grande palazzo di Giulio Cesare; vi sono molti splendidi edifici, diversi da tutti gli altri del mondo. Considerando le zone abitate e quelle in rovina, Roma ha una circonferenza di circa ventiquattro miglia. In centro ci sono ottanta palazzi appartenuti agli ottanta re che vissero qui, chiamati imperatori, a cominciare con il re Tarquinio sino a Nerone e Tiberio, vissuti al tempo di Gesú il Nazareno, sino al regno di Pipino il padre di Carlomagno, che liberò Sefarad dagli Ismaeliti». Beniamino racconta dei grandi palazzi della città, del Colosseo, e dice anche, riferendo le informazioni ricevute dagli Ebrei romani, dell’esistenza di una caverna in cui Tito aveva seppellito le spoglie del Tempio di Gerusalemme. Narra inoltre, sempre riportando leggende che circolavano fra gli Ebrei, che in S. Giovanni in Laterano c’erano due colonne di bronzo, sottratte al Tempio di Salomone, che a ogni 9 di Av – il giorno di lutto per la caduta del Tempio – trasudavano un liquido simile ad acqua. Una leggenda, questa delle colonne di bronzo del Tempio, già antica all’epoca di Beniamino e non solo ebraica, anche se lo era certamente l’aggiunta sul 9 di Av. Il tono generale di Beniamino è quello di ammirazione, anche se è un’ammirazione inferiore a quella che mostrerà per Costantinopoli e naturalmente per Gerusalemme. Figlio di un mondo ebraico, quello

iberico, che faceva miticamente risalire le sue radici ai tempi di Nabucodonosor, Beniamino non era d’altronde consapevole della grande antichità della presenza ebraica a Roma, o almeno non riteneva che valesse la pena di menzionarla. Quanto sappiamo di Roma e dei suoi Ebrei da Beniamino è tuttavia particolarmente importante, perché tanto per i cento anni precedenti che per quelli successivi, non possediamo fonti che ci diano informazioni sulla vita degli Ebrei romani, con l’eccezione di due documenti papali della prima metà dell’XI secolo in cui c’è un riferimento ai quartieri in cui vivevano, l’Isola Tiberina e Trastevere (nel testo di Beniamino, la residenza di R. Yechi’el). Solo intorno al Trecento la zona di Sant’Angelo, dall’altra parte del Tevere rispetto a Trastevere, dove poi sorgerà il ghetto, sarebbe divenuta il luogo principale di residenza degli Ebrei. Ma per quell’epoca, la vita degli Ebrei romani è conosciuta attraverso innumerevoli fonti. L’immagine generale che traiamo dalle pagine su Roma di Beniamino è comunque quella di una continuità nelle caratteristiche principali dell’insediamento ebraico: convivenza e tranquillità. Da Roma, in quattro giorni Beniamino arrivò a Capua, attraversando un territorio malsano dov’era facile ammalarsi di febbri, ci dice. Quando Beniamino vi faceva tappa, la città era passata sotto il dominio degli Svevi, dopo essere stata, tra X e XI secolo, il centro di un vasto principato dominato prima dai Longobardi e poi dai Normanni.

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IL SEFER MASSA‘OT

Solo secoli dopo, con la dominazione spagnola, Capua avrebbe perso la sua rilevanza politica. Non è quindi strano che nella città, ci racconta Beniamino, vivessero all’epoca ben trecento famiglie di Ebrei, piú che a Roma, e che essa fosse un centro culturale di primo piano. Fra i suoi importanti studiosi possiamo

ricordare Achima‘atz ben Palti’el, l’autore del Sefer yuchasin, nato proprio a Capua intorno al 1017, dopo che la sua famiglia vi si era trasferita da Oria. Nei secoli successivi, gli Ebrei di Capua avrebbero ancora conosciuto un’intensa attività culturale, commerciale e feneratizia, interrottasi solo alla fine del XIII

Roma. Il Tevere all’altezza dell’Isola Tiberina. Sulla destra, sopra le chiome degli alberi, svetta la cupola del Tempio Maggiore, cuore religioso del quartiere ebraico della città. Qui, all’epoca in cui vi transitò, vivevano, secondo Beniamino da Tudela, duecento famiglie di Ebrei.

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secolo, sotto gli Angioini, in un contesto di pressioni conversionistiche ed espulsioni, da un’ondata di conversioni piú o meno forzate al cattolicesimo, che fece nella sola città una cinquantina di neofiti. Da Capua Beniamino attraversò la Campania, diretto verso le Puglie. Si imbatté in Pozzuoli, di cui


descrisse minuziosamente le sorgenti solfuree medicamentose e che, ripetendo l’equivoco già presente nel Sefer Yosippon, confuse con Sorrento. Ma non parlò dell’esistenza di una comunità ebraica mentre sappiamo della sua esistenza, almeno per il I e il II secolo dell’e.v., tanto da Flavio Giuseppe, quanto da Paolo

di Tarso che vi si fermò, oltre che dalle iscrizioni e dai reperti archeologici. Da Pozzuoli Beniamino arrivò a Napoli, attraversando una strada fra le montagne che – commentò riprendendo ancora una volta le leggende del Sefer Yosippon sulle guerre tra Romolo e il re David – sarebbe stata costruita dal mitico

fondatore di Roma per difendere la città contro il primo sovrano di Gerusalemme. Napoli è una grande città, ci informa, con cinquecento famiglie di Ebrei: «È una città molto fortificata, che si trova sulla riva del mare, ed è fondazione dei Greci» aggiunge, nominando poi i leader della comunità e i rabbini. Una realtà, quella della Napoli ebraica in questi secoli, di cui si sa assai poco e che poco ha attratto l’attenzione degli studiosi, ma che sembra, nelle linee generali, a cominciare dalla grandezza della comunità, corrispondere al quadro tracciato da Beniamino da Tudela nella sua breve descrizione: una comunità ricca di cultura, al centro di scambi e incroci culturali con le comunità del Sud, tutt’altro che depressa, come dimostrerà anche la sua storia successiva. Da Napoli la strada di Beniamino si diresse verso Salerno, dove trovò seicento famiglie di Ebrei e un gran numero di dotti e rabbini. Beniamino menziona la scuola cristiana di medicina, le mura e il castello. Di là, verso Amalfi, «terra di vigneti e di olivi, di giardini e di piante», con venti famiglie di Ebrei, e Benevento con duecento famiglie di Ebrei. Beniamino passò quindi in Puglia: dapprima Melfi con duecento famiglie, quindi Ascoli con quaranta (si tratta ovviamente di Ascoli Satriano, non dell’omonima città nelle Marche); poi Trani, «grande e bella città» con duecento famiglie di Ebrei, munita di un porto dove si radunavano i pellegrini diretti a Gerusalemme. Beniamino menziona poi Bari, distrutta nel 1156 da Guglielmo il Malo di Sicilia nella guerra tra

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IL SEFER MASSA‘OT

Normanni e Bizantini per punire i suoi abitanti di avere appoggiato i Bizantini e lasciata in quegli anni deserta dai suoi abitanti, ebrei o gentili che fossero. Bari sarebbe stata ricostruita pochi anni dopo, nel 1169, il che ci consente di collocare il passaggio di Beniamino in questa città nel periodo precedente la sua ricostruzione. Beniamino si spostò quindi a Taranto, all’epoca sotto il dominio di Bisanzio. I suoi abitanti erano greci e vi si contavano trecento famiglie di Ebrei, con molti studiosi e sapienti. Le due ultime tappe italiane del viaggio di andata di Beniamino furono Brindisi, dove vivevano solo dieci famiglie di Ebrei occupati nella tintoria (altro importante mestiere esercitato all’epoca dagli Ebrei), e Otranto, con cinquecento famiglie, una delle comunità piú popolose. Di là, Beniamino si imbarcò verso est, per raggiungere attraverso Corfú Costantinopoli, Aleppo, Damasco, Baghdad, Gerusalemme. Sarebbe ripassato dall’Italia, però, alcuni anni dopo, nel viaggio di ritorno in Spagna. Il quadro del Sud d’Italia, un Sud in cui Normanni, Longobardi e Bizantini si mescolano e si fanno guerra, è quindi molto vivace. Vi si muove un gran numero di Ebrei, in confronto a quelli presenti nel Nord e nel Centro e a quelli della stessa Roma. C’è un forte fermento culturale, illustrato dalla presenza di medici, studiosi di scienze talmudiche, ed economico, con mercanti e artigiani. Beniamino menziona i nomi dei maggiorenti di ogni comunità, del rabbino o dei dotti piú rinomati. Essi operano in una sostanziale convivenza, agitata in

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A destra un’edizione a stampa del Sefer massa‘ot. Ferrara, Avraham Usque, 1555. Oxford, Bodleian Library. Nella pagina accanto il Palazzo dei Normanni di Palermo, città nella quale Beniamino da Tudela poté constatare la presenza di una comunità ebraica assai numerosa.

alcuni momenti da conflitti politici che non li riguardano direttamente ma in cui possono finire coinvolti. La continuità con il passato è evidente, e questa continuità durerà ancora per alcuni secoli, fino all’espulsione del XVI secolo, ma con maggiori tensioni e rotture, come quella che alla fine del Duecento, sotto gli Angioini, rappresenterà per gli Ebrei una vera catastrofe, con espulsioni e conversioni, da cui

tuttavia il mondo ebraico meridionale uscirà ridimensionato ma non ancora distrutto. Al centro dell’itinerario italiano del viaggio di ritorno, svoltosi fra il 1173 e il 1177, di Beniamino c’è invece la Sicilia. Infatti la nave lo sbarcò a Messina, dove comincia l’isola, «il luogo dove ci sono tutte le cose belle del mondo», fitta di piante e giardini. A Messina risiedevano circa duecento famiglie di Ebrei, e il suo porto era


sempre affollato di pellegrini diretti a Gerusalemme. Da Messina, a Palermo, una grande città dove vivevano cristiani e musulmani, con una forte presenza ebraica: circa 1500 famiglie. Beniamino descrisse i palazzi, i giardini, le fontane che la rendevano ineguagliabile. Di lí il suo viaggio continuò attraverso Siracusa, Marsala, Catania, Petralia e Trapani. Non ci sono riferimenti agli Ebrei che abitavano queste città, l’unico particolare che il viaggiatore aggiunge è che a Trapani si poteva trovare il corallo. Quando Beniamino visitava la Sicilia, questa si trovava da circa un secolo sotto il dominio dei sovrani normanni. Gli oltre duecento anni di dominazione araba avevano lasciato tracce importanti nella vita e nella cultura del mondo ebraico, ma il

ritorno, con i Normanni, sotto la giurisdizione di un sovrano cristiano non sembra avesse provocato significativi cambiamenti nella grandezza delle comunità, nella loro struttura politica, nei loro rapporti con il mondo esterno. È pur vero che assai scarse sono le testimonianze scritte che illuminano la presenza ebraica in Sicilia fino al XIII secolo: oltre al testo di Beniamino, documenti della Genizah del Cairo sugli Ebrei sotto il dominio musulmano, e numerose lettere di Gregorio Magno. Fari che illuminano brevi momenti nel buio. Quasi inesistente è la documentazione sul periodo bizantino. Di certo, gli Ebrei in Sicilia erano numerosi, piú che nel resto della Penisola e piú che nel Sud continentale, e i numeri riportati da Beniamino a proposito di Palermo non fanno che

confermarcelo. Ma, a differenza che in Calabria, in Puglia, in Campania, l’età d’oro dell’ebraismo siciliano non sarebbe stata tra il X e il XII secolo ma piú tardi, nel Tre-Quattrocento, con il crescere del numero delle comunità e del rapporto percentuale fra Ebrei e cristiani. Il che rende ancora piú impressionante il fatto che l’espulsione del 1492 abbia davvero segnato la fine di quell’esperienza. Quando Beniamino percorreva affascinato i giardini e i palazzi di Palermo, non avrebbe mai potuto prevedere questo lontano esito. Ma quando il mercante di Tudela compiva i suoi viaggi, gli Ebrei italiani avevano ancora molto da dare al mondo in cui vivevano e alla cultura cui partecipavano attivamente. Anna Foa

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Medici senza frontiere Quali furono le ragioni per cui la professione del medico era diffusa presso gli Ebrei sin dall’età imperiale e, soprattutto, in quella bizantina e altomedievale? La tradizione medica di Grecia, Egitto, Mesopotamia, India e il singolare caso di Shabbetay Donnolo, il sapiente di Oria, tra astrologia, astronomia e fisiologia… di Giancarlo Lacerenza

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un medico ebreo al suo scrittoio. XIV sec. Parma, Biblioteca Palatina. Per lo studio della medicina, gli Ebrei si servivano degli stessi testi dei colleghi non ebrei: tuttavia, accanto alle singole traduzioni e agli adattamenti degli scritti di Ippocrate e di Galeno, sin dal VII sec., nel mondo ebraico si fece strada un apprezzato centone di testi medici, il Sefer Asaf, forse elaborato a Bisanzio.

I

l coinvolgimento degli Ebrei nelle scienze avviene in Italia relativamente tardi, anche se precocemente rispetto ad altri luoghi, e non appare rilevante prima dell’età bizantina e longobarda. Fa eccezione a questo quadro l’esercizio della medicina, su cui per la prima età imperiale le fonti trasmettono notizie su vari medici di accertata o presunta origine ebraica, mentre in seguito rare figure di medici ebrei – poco piú di un nome accanto al titolo professionale – appaiono nelle iscrizioni funerarie di Roma (Aulus Vedius Collega) e di Venosa (Faustinus figlio di Isa, anche gerusiarca). Si tratta in entrambi i casi di archiatri, quindi di medici di rango, che possono essere stati attivi presso il palazzo imperiale, in una città o in un piccolo centro, presso un’organizzazione privata o una struttura pubblica. Alla carica erano connessi vari privilegi, fra cui l’esenzione dai munera (tributi), che venivano conservati anche al termine della carriera; gli Ebrei tuttavia cessarono di usufruirne sin dal momento in cui, dopo la

cristianizzazione dell’impero, in forza della legislazione vigente non poterono piú accedere ad alcuna funzione civica.

Divieti d’acquisto A questi veti si aggiunsero un po’ alla volta anche quelli provenienti dalla legislazione conciliare, ossia ecclesiastica, in cui fra le varie misure tese a ostacolare i rapporti fra cristiani ed Ebrei appare, da un certo momento in poi, anche il divieto di acquistare medicine e farmaci da medici ebrei, che in area bizantina troviamo espresso nel canone XI del concilio noto come Quinisext, svoltosi presso Costantinopoli nel 691/692. Questa raccomandazione cosí specifica – l’altra, espressa nella stessa circostanza, è che Ebrei e cristiani non si servano contemporaneamente degli stessi balnea (terme) – fu evidentemente sollecitata da una prassi che andava in senso contrario e quindi rivela ex adverso come, almeno nel VII secolo, nel mondo bizantino – di cui anche varie aree dell’Italia meridionale

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LE SCIENZE

fecero parte – il ricorso a medici ebrei dovesse essere tutt’altro che infrequente. Se sulla formazione dei medici ebrei in questo periodo non sappiamo quasi nulla, ci sono pochi dubbi sul fatto che fossero molto diffusi – non esisteva, peraltro, alcun percorso per conseguire il titolo – e che presso le rispettive comunità essi godessero generalmente di una buona reputazione. Le fonti associano spesso l’esercizio dell’arte medica a una funzione

I medici godevano generalmente di una buona reputazione presso le rispettive comunità

In questa pagina frammento di un manoscritto membranaceo con il testo di una lettera, dalla Genizah del Cairo. X sec. New York, Jewish Theological Seminary. Nell’epistola si fa riferimento a un Rabbi Shabbetay ben Avraham ben ‘Ezra, da alcuni studiosi identificato come il nonno paterno di Donnolo; altri deducono dalla lettera legami di parentela di Donnolo con Amittay, antenato dell’autore del Sefer yuhasin, Ahima‘as ben Palti‘el.

Le due facce di un manoscritto membranaceo con il testo di una lettera, dalla Genizah del Cairo. X sec. New York, Jewish Theological Seminary. Nell’epistola si fa riferimento a un Rabbi Shabbetay ben Avraham ben ‘Ezra, da alcuni studiosi identificato come il nonno paterno di Donnolo; altri deducono dalla lettera legami di parentela di Donnolo con Amittay, antenato dell’autore del Sefer yuhasin, Ahima‘as ben Palti‘el.

rabbinica e non infrequentemente il titolo di rofe’, «medico», si trova per individui di censo medio-alto, impegnati parallelamente in attività commerciali o amministrative all’interno delle rispettive comunità. Lo studio sembra che avvenisse attraverso gli stessi testi di cui si servivano i medici non ebrei: ma accanto alle singole traduzioni e agli adattamenti degli scritti di Ippocrate e di Galeno, sin dal VII secolo nel mondo ebraico si farà strada un apprezzato centone di testi medici, il Sefer Asaf, elaborato forse a Bisanzio

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– secondo altri, ma inverosimilmente, in area mesopotamica – in cui sono riuniti scritti di argomento anatomico, fisiologico, embriologico, sull’igiene, l’uroscopia, eccetera; generalmente basati su fonti greche.

La sapienza di tutte le nazioni Non mancano prontuari di prescrizioni e ricette e persino un «giuramento», affine a quello ippocratico, formato dalla ricomposizione di varie citazioni bibliche. «Asaf» è chiaramente solo una figura posticcia o simbolica, secondo alcuni forse anche ispirata a quella di Flavio Giuseppe, in cui confluisce la sapienza di tutte quelle nazioni in cui sarebbe stata prodotta sapienza medica degna di essere conservata:

Pagine di un codice cartaceo contenente, fra le altre, la trascrizione della Vita di san Nilo il Giovane (Vita Nili). Italia meridionale, 1566. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Grecia, Egitto, Mesopotamia e India; anche se, in ultima analisi, il punto di arrivo e di riferimento resta senza dubbio sempre la scienza greca. La confluenza di varie culture entro un recipiente unico è comunque un tópos non solo ricorrente, ma anche cosí persuasivo che lo ritroviamo nella ben nota tradizione che vuole un ebreo, un musulmano, un bizantino e un latino alle origini della Scuola Medica Salernitana. Si tratta ovviamente di un paradigma eziologico che indica, in maniera molto efficace, che il sorgere della piú prestigiosa scuola medica europea dell’Alto

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LE SCIENZE

Medioevo è stato possibile grazie al particolare tessuto multiculturale della società meridionale altomedievale, in perpetua tensione fra Bizantini, Longobardi, Arabi, con in piú quella componente sociale trasversale costituita dagli Ebrei. Verso la fine del X secolo, Ebrei sono effettivamente già documentati a Salerno, ma lo sono ancora di piú e da un periodo sensibilmente anteriore nella città di Benevento, a Salerno collegata tramite lo spostamento della capitale voluto da Arechi II (758-787). È Benevento, fra l’VIII e il IX secolo, un crocevia di presenze ebraiche ben piú

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Pagina di un codice membranaceo contenente il testo della Vita di san Nilo il Giovane. Italia meridionale, XII sec. Grottaferrata, Biblioteca dell’Abbazia.

ragguardevoli rispetto a quelle di Salerno ed è probabilmente in quel punto del ducato, e non sul lungomare, che vanno ricercati quegli elementi ebraici ai quali riferire un contributo, sia pure parziale, alle origini della scuola salernitana: che peraltro, per quanto ci è noto, nulla lega alla figura coeva e importantissima di Shabbetay ben Avraham Donnolo (913-982 circa), sulla quale ci soffermeremo.

«Peritissimo nella Legge» Donnolo è il piú noto fra i vari sapienti e scienziati ebrei che vissero o si formarono in Italia meridionale nel X secolo. Altre figure furono forse, in quel tempo, piú rinomate e ottennero riconoscimenti maggiori: ma molti fra questi ci sono noti solo da fonti posteriori e contaminate dall’agiografia e dalla leggenda, come nel caso della Megillat Achima‘atz. Donnolo, invece, risulta ben piú tangibile e calato nella storia, sia grazie al breve testo autobiografico premesso alla sua opera piú importante, il Sefer chakhmoni (piú o meno, Libro di sapienza), sia per le varie menzioni che lo riguardano, incluse, paradossalmente, in un testo agiografico – ma con caratteri abbastanza eccezionali rispetto al genere – quale il Bíos del suo contemporaneo e vecchia conoscenza san Nilo il Giovane (910 circa-1004), in cui egli è definito «peritissimo nella Legge e rinomato nell’arte medica» (Vita Nili, 50). Nativo di Oria, centro particolarmente coinvolto nella fioritura culturale del Meridione altomedievale ebraico, Donnolo se ne allontana abbastanza presto in seguito a un evento traumatico: l’aggressione saracena condotta contro la città nel 925, che assesta un duro colpo alla piccola comunità ebraica e ne determina la temporanea riduzione in schiavitú di vari suoi membri, fra cui lo stesso Shabbetay, allora dodicenne. Riscattato a Taranto e lasciata forse per sempre la città natale, della sua giovinezza egli dice di aver girovagato a lungo fra il Salento, l’Apulia, forse i possedimenti bizantini in Campania e certamente, infine, in Calabria. Qui si stabilirà, molto probabilmente a Rossano: dove, come attesta il Bíos di san Nilo, fu al


servizio del giudice imperiale Euprassio. Primo commentatore in Italia dell’enigmatico Sefer yetzirah, Donnolo è spesso citato come il primo autore occidentale di testi medici scritti in lingua ebraica, fama dovuta a un breve testo redatto verso il 970, il Sefer ha-yaqar (Il libro prezioso; anche noto come Sefer ha-mirqachot, Libro delle misture), il cui interesse risiede anche nel fatto che nella descrizione delle varie preparazioni, fra molti termini presi a prestito

Shabbetay Donnolo era nativo di Oria, un centro particolarmente coinvolto nella fioritura culturale del Meridione altomedievale ebraico In alto manoscritto membranaceo che conserva le prime pagine del Sefer chakhmoni di Shabbetay Donnolo. Italia meridionale, XI-XII sec. Oxford, Bodleian Library. A sinistra la Porta degli Ebrei di Oria (Brindisi), città natale di Shabbetay Donnolo.

dal greco e dal latino, sono impiegate varie glosse volgari. Senza mostrare alcun interesse, qui e altrove, per la cultura araba, Donnolo resta ancorato alla tradizione occidentale anche per quanto riguarda quello che fu forse il suo interesse principale, l’astronomia, a cui dedicò almeno uno scritto, il Sefer ha-mazzalot (Libro delle costellazioni), di cui restano solo citazioni e frammenti. Le sue conoscenze nel ramo sono state tuttavia almeno in parte profuse nel già citato Sefer chakhmoni, silloge di testi redatti in momenti diversi, almeno fra il 946 e il 982, a metà strada fra la fisiologia, la mistica e l’astrologia, sul cui sfondo vi è la questione dei rapporti micro-macrocosmici e dell’influenza degli astri e degli elementi sulle varie parti del corpo e sullo stato generale di salute dell’essere umano. Il Sefer chakhmoni ha conosciuto – con ogni

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LE SCIENZE

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probabilità, soprattutto grazie al commento al Sefer yetzirah che vi è incluso – una certa diffusione durata almeno fino al Rinascimento, anche se ciò non ha impedito che nel corso della trasmissione alcune sezioni siano state omesse o abbreviate, per cui oggi non godiamo dell’opera, nota peraltro da diverse recensioni, nella sua interezza, e non ne conosciamo nemmeno l’estensione. Secondo alcuni studiosi, Donnolo avrebbe anche lavorato attivamente al Sefer Asaf: che in effetti, come si è visto, condivide con i testi dello studioso oritano l’impianto basato solo su fonti greche, classiche e bizantine, talora anche tramite la mediazione o il limitato supporto di qualche testo latino. Se cosí è stato, il che è virtualmente possibile, è però da credere che Donnolo possa avere al massimo editato il testo, mettendoci pochissimo di suo, come mostra nel Sefer Asaf l’assenza quasi totale di riferimenti astronomicoastrologici, che costituiscono invece il nerbo di ogni discussione nel Sefer chakhmoni.

Astrolabio bizantino in ottone, forse da Costantinopoli. 1062. Brescia, Museo di Santa Giulia. Lo strumento, forse in uso a Bisanzio, a Rodi e nell’Ellesponto (i Dardanelli), non mostra influenze arabe e riflette, ancora in pieno XI sec., l’orientamento culturale classicista di Shabbetay Donnolo.

Un’attività molto apprezzata Donnolo, infatti, fu profondamente interessato all’astronomia anche come sussidio alla scienza medica, grazie alla teoria della melotesia, l’influsso di costellazioni e pianeti su ogni organo o arto del corpo umano. Sulla scienza degli astri, tuttavia, Donnolo dichiara di non aver trovato maestri sufficientemente esperti nell’ambiente ebraico: il che stupisce, considerando sia come conoscenze astronomico-astrologiche siano ben attestate, per esempio, nelle composizioni poetiche di studiosi e poeti dell’ambiente meridionale, come Amittay ben Shefatyah, vissuto proprio a Oria vari decenni prima; sia il fatto che lo studio dell’astronomia costituiva tradizionalmente una delle attività piú coltivate e apprezzate nell’ambito della cultura ebraica.

Nella pagina accanto tavola astronomica circolare, da un manoscritto in lingua ebraica. XV sec. Londra, British Library.

A lungo appannaggio dei piú grandi fra maestri e saggi, a questa scienza sono infatti legati aspetti fondamentali della vita ebraica, quali il calcolo dei cicli planetari e dell’intercalazione, indispensabili per la determinazione del calendario. Veti rabbinici impedirono a lungo, tuttavia, che queste conoscenze fossero messe per iscritto, malgrado le

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LE SCIENZE

raccomandazioni che gli ingegni piú vivaci si dedicassero all’astronomia (cfr. Talmud Babilonese, Shabbat, 75a; Ketubbot, 112a). Probabilmente è per questo che i riferimenti a questioni o problemi astronomici sono cosí rari sia nel Talmud che nei Midrashim. Benché Donnolo conoscesse e stimasse in alto grado il testo noto come Barayta di-Shemu’el, attribuito a un ‘amora (dottore) del periodo talmudico, egli era forse in cerca di qualcosa di specifico, o quanto meno di un insegnante meno reticente o particolarmente esperto sul versante tecnico. Trovò infine quanto cercava, secondo le sue stesse parole, in un goy echad mi-Bavel («un gentile di Babilonia»), chiamato Bagdash: personaggio misterioso, al contempo astronomo speculativo e astrologo pratico, forse di origine persiana, incontrato nel corso dei suoi spostamenti giovanili. La descrizione del suo insegnamento, ottenuto dietro onerosa remunerazione, merita di essere citata quasi per intero, cosí come appare nell’introduzione al Sefer chakhmoni: «Ed egli m’insegnò a riconoscere nel firmamento le dodici costellazioni e i cinque pianeti; la stella crescente, la stella calante, la stella del basso e quella dell’alto; la regola dell’osservazione delle stelle e delle costellazioni. M’insegnò a riconoscere le costellazioni, le stelle positive e negative. M’insegnò la misurazione dell’ombra dell’asta, com’è descritta nella Barayta di-Shemu’el, per conoscere e trovare la costellazione e la stella di una data ora, per intendere e rispondere a ogni cosa e ogni richiesta».

Studio e sperimentazione... Che Donnolo sia stato piú o meno attivo anche nel campo delle predizioni astrologiche, come suggerisce il brano, è ben possibile. Possiamo facilmente immaginarlo nella sua casa, a Rossano, intento a compulsare astrolabi e fare calcoli, immerso fra i suoi numerosi libri, molti dei quali trascritti personalmente «dai libri degli antichi sapienti d’Israele» e «dai libri dei sapienti di Grecia e di Macedonia, nella loro

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scrittura e nella loro lingua, e i loro commenti, e anche dai libri dei sapienti di Babilonia e dell’India». Molta sapienza teorica e conoscenza libresca, quindi; ma anche molta conoscenza sperimentale. Shabbetay ben Avraham fu, infatti, indagatore instancabile non solo di quanto avveniva nel mondo degli astri e nel corpo umano, ma anche attento e curioso osservatore di ogni fenomeno naturale, anche minuto, che sembra aver annotato nel corso della sua vita, delle sue ricerche e dei suoi spostamenti. Per questo il Chakhmoni non manca di alcune descrizioni e spiegazioni – in senso assoluto ingenue, ma sorprendentemente acute per alcuni accostamenti – di vari fenomeni osservabili in natura, tramite esempi molto semplici e basati su esperienze verificabili e replicabili da chiunque nella vita quotidiana: da qui le esemplificazioni, come da maestro ad allievo, sulle cause di reazioni chimico-fisiche di elementi, sostanze e materiali, o su tecnologie poco note o diffuse, come quella del vetro.

...per conoscere le cause Donnolo sfida il lettore a replicare l’esperimento, per esempio quando si tratta di dimostrare alcuni assiomi del Sefer yetzirah. Ottenere «terra dall’acqua» per mezzo del fuoco è possibile, provocando concrezioni di deposito scaldando l’acqua in bollitori di rame; «terra dall’acqua» senza ausilio del fuoco, è il sedimento del vino nei barili; appena piú elaborato produrre «fuoco dall’acqua», facendo bruciare stoppa o altri materiali infiammabili servendosi di un recipiente di vetro colmo d’acqua che, agendo come una lente – trapela qui un certo interesse anche per l’ottica – concentrerà il raggio solare sulla materia da ardere. Desideroso di apprendere del mondo il piú possibile e, senza fermarsi alla superficie, di conoscerne le cause, le logiche e i meccanismi, Donnolo è stato dunque quasi uno «scienziato» nel senso moderno del termine e, nella sua immagine, si prefigura una tipologia di ricercatore e sapiente che si diffonderà in Europa soltanto dopo due o tre secoli.

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un’abluzione rituale. XV sec. Parma, Biblioteca Palatina. Le fonti associano spesso l’esercizio dell’arte medica a una funzione rabbinica e il titolo di rofe’, «medico», ricorre spesso per individui di censo medio-alto, impegnati parallelamente in attività commerciali o amministrative all’interno delle rispettive comunità.


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TRADIZIONI MISTICHE

Conoscitori di misteri Amittay ben Shefatyah, Shabbetay Donnolo, Achima’atz ben Palti’el: sono loro i protagonisti della grande tradizione mistica nell’Italia meridionale dell’Alto Medioevo di Giulio Busi

U

na Penisola sbilanciata. Vuota a settentrione, carta muta senza nomi. Piena, affollata da Roma verso il Sud, in specie lungo la linea che da Napoli e Salerno giunge a Otranto, attraverso Benevento e Melfi. È la sesta decade del XII secolo, e nell’Itinerario di Binyamin (Beniamino) da Tudela, uno dei piú grandi scrittori di viaggi del Medioevo, l’Italia ebraica è tutta protesa verso il cuore del Mediterraneo. È vero che quella di Binyamin è la descrizione di un percorso, e che quindi

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risente della direzione e dei ritmi di spostamenti concreti. Ma la sproporzione riflette quanto sappiamo del giudaismo in quel periodo. L’ebraismo pulsa a sud e langue nella pianura padana. Poesia, letteratura, commenti alla Bibbia, libri scientifici. La cultura scritta ebraica italiana attecchisce e si sviluppa tra Puglia, Campania, Calabria e Sicilia, sempre ravvivata dall’antica fiamma della comunità di Roma, vero ner tamid, lampada perpetua, che ancor oggi rimane accesa, dopo ventuno secoli. Nemmeno la mistica fa eccezione.

Sulle due pagine veduta di Oria (Brindisi), città natale di Shabbetay Donnolo.


Sono gli Ebrei dell’Italia meridionale a farsi avanti con cronache, leggende, poesie in cui balenano dottrine sull’origine del cosmo, la sua struttura nascosta, e sui poteri magici di maestri sapienti e perennemente indaffarati tra visibile e invisibile. Di questa letteratura del segreto conosciamo tre grandi protagonisti, Amittay ben Shefatyah (IX secolo), Shabbetay Donnolo (912/13-dopo il 983) e Achima‘atz ben Palti’el, nato a Capua nel 1017. Sono loro a tener banco, guardiani di un patrimonio esoterico che dovette essere molto piú ampio, ma che è stato irrimediabilmente sepolto dal mutar di fortune e dall’oblio. Da dove vengono le loro conoscenze? Si direbbe dall’incrocio di correnti diverse. Per la sua posizione geografica, l’Italia è ricetto naturale delle merci e delle idee che migrano dalla sponda africana e da quella asiatica del Mar Mediterraneo. Roma non è solo l’antagonista che ha vinto Gerusalemme e ha In alto rillievo moderno con un ritratto dello stesso Donnolo, collocato sulla Porta degli Ebrei di Oria.

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CAPITOLO

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Nella pagina accanto La Visione di Ezechiele, olio su tavola di Raffaello Sanzio. 1516-1518. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina e Appartamenti Reali. A destra frammento di un manoscritto membranaceo contenente il testo di un piyyut (poema religioso) camposto da Amittay ben Shefatyiah. IX o X-XI sec. Cambridge, Cambridge University Library.

distrutto il Secondo Tempio. Della città santa è anche la vicina e l’allieva. Rifugio antico di Diaspora, centro politico e commerciale del mondo antico, l’Urbe raccoglie influssi dalla Terra d’Israele già nel I secolo a.e.v. È un legame stretto e concreto, che nei secoli successivi diviene anche elemento d’orgoglio e di legittimazione: «I miei avi (…) furono trasportati con una nave sul fiume Po [che è il Pishon], il primo fiume dell’Eden, insieme con gli esiliati che Tito deportò dalla città perfetta in bellezza» (Sefer yuchasin, traduzione di Cesare Colafemmina 2001).

L’inizio della saga Cosí, con il richiamo alla deportazione da Gerusalemme dopo la vittoria romana, evento drammatico ma fondante, esibito con consapevolezza, comincia la saga familiare di Achima‘atz ben Palti’el, in cui meraviglia, storia e magia sono indissolubilmente legate. Gerosolimitana per ascendenza ma italiana per lunga consuetudine, la tradizione di cui Achima‘atz si fa interprete, verso il 1050, è

conscia della propria complessità e profondità. Per caratterizzare la sapienza dei propri avi, Achima‘atz si concentra non, come ci si potrebbe attendere, sulle loro competenze giuridiche, di esperti di halakhah, ma proprio sulla padronanza dei segreti della Torah: «Rabbi Amittai [il capostipite della famiglia] ebbe figli (…) dotti e poeti (…) esperti di dottrine mistiche, compositori di rime, conoscitori di misteri, investigatori della Sapienza (Chokhmà), indagatori della Binà, sussurratori dell’arcano, intenditori del Libro del giusto (Sefer hayashar), scrutatori del segreto del Carro (Merkhavà)» (traduzione di Cesare Colafemmina 2001). In poche righe abbiamo la definizione del perfetto mistico dell’età altomedievale. Particolarmente interessante è il connubio tra poesia ebraica e descrizione del Ma‘aseh merkavah, la visione del Carro celeste, ovvero dell’apparato divino che si estende oltre la soglia del visibile. Di questa mistica della Merkavah ci dà un saggio importante un altro componente della famiglia, Amittay ben Shefatyah. I suoi inni per

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TRADIZIONI MISTICHE

lo Shabbat contengono tessere dell’antico mosaico delle visioni oltremondane: «Quando l’umile ascese alla città dei prodi / l’aggredí Qemuel, il custode, con l’esercito dei suoi angeli. / Ma il fedele lo redarguí, e quello fuggí dal suo cospetto, / cosí egli si aggirò nel firmamento come se fosse nel luogo della sua dimora. / Udí un clamore altissimo provenire dalla cortina, / che diceva: Santo, Santo, Santo il Signore delle schiere» (traduzione di Ivo Fasiori 2012). L’ascesa, la faticosa conquista di un accesso allo spazio difeso da angeli ben poco amabili, l’umiltà brandita come unica arma, sono gli ingredienti di una lirica visionaria e ambiziosa. La recitazione del carme comporta, da parte del fedele, una tacita identificazione con il protagonista. È un viaggio iniziatico, costellato di difficoltà ma coronato dal successo. Vinta l’opposizione dei «prodi», ovvero degli arconti celesti, l’umile (‘anaw) si può muovere a proprio agio tra stelle e dimore di fuoco. Non manca un particolare esoterico di grande profondità. Le acque superne partecipano qui all’eulogia del Signore, cosí che della voce della natura si trasforma in parola: «E udí Mosè, davanti a sé, come lo scroscio di molte acque / che dicevano “Santo, Santo, Santo il Signore delle schiere”. / Nubi d’acqua si mescolano alle angeliche compagnie, / scintille lucenti e fiamme, al ritornare dalle loro missioni, si uniscono a loro. / Essi invitano il Principe delle tenebre nella loro accolta, / con un balzo, l’Angelo della morte si unisce a loro / e tutte le schiere lanciano in risposta un grido, / che dice “Santo, Santo, Santo il Signore delle schiere”» (traduzione di Ivo Fasiori 2012). Il carattere formulare, il martellare del Trisagion, la triplice invocazione del «Santo», danno al componimento un carattere estatico. Dislocazione sonora e mentale, che mira a uno stato di potenza e unione interiore con il non-

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qui. Acque che sostituiscono gli angeli, lodando Iddio, e cieli che si svolgono come un archetipico rotolo di scrittura: «Se tutti i cieli stillanti pioggia / fossero di pergamena / e in essi scritto e riscritto, non basterebbero per insegnare / (…) Se le acque di tutte le terre, / di tutti i pozzi e fenditure / si mutassero in inchiostro, / non sarebbero sufficienti per scrivere» (traduzione di Ivo Fasiori 2012). Ciò che la poesia esprime attraverso la suntuosa plasticità dell’ebraico, la prosa narrativa lo incastona in cammei di quotidiana consuetudine magica. I rabbi dell’Italia meridionale dei secoli X-XI sono Signori del Nome, ovvero posseggono la forza del suono, della grafia, dell’irraggiarsi del Tetragramma. Oria, la città pugliese da cui la famiglia di Achima‘atz è costretta a emigrare dalla conquista araba del 932, dev’essere stata un centro rinomato per chi volesse conseguire il dominio delle consonanti ebraiche, al fine di difendere e di offendere. Achima‘atz narra di guarigioni ottenute con l’invocazione del Nome e di un morto-vivo, prototipo della fortunatissima leggenda del golem, fatto rimanere in uno stato di vita apparente grazie all’introduzione, nel suo braccio destro, di una pergamena con «il Nome santo che era nel Santuario». Scoperto lo stratagemma, basta rimuovere lo scritto per provocare l’immediata caduta a terra del cadavere putrefatto.

Modelli venuti dal passato In un altro episodio, un giovane è stato trasformato in un asino da una strega. Il protagonista di questo episodio è Ahron di Baghdad, maestro di misteri che, secondo la narrazione di Achima‘ atz, sarebbe venuto dall’Oriente in Italia. In un terzo racconto, infine, il Tetragramma infilato sotto la lingua permette al rabbi di far rivivere, almeno temporaneamente, un defunto. Sono storie che attingono al patrimonio folklorico del Mediterraneo, ma paiono anche


Illustrazione miniata per un’edizione dell’Asino d’oro di Lucio Apuleio. XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

ispirate a modelli letterari. Il paragone con l’Asino d’oro viene immediato alla memoria, ed è probabile che Achima‘atz abbia conosciuto il testo di Apuleio, che sappiamo apprezzato all’epoca in quell’area geografica. Accanto alla poesia e alla narrazione, l’interesse degli Ebrei dell’Italia meridionale per la cosmologia e la cosmogonia è attestato dall’importante Commento al Sefer yetzirah di Shabbetay Donnolo, un altro Ebreo originario di Oria. In contatto con gli ambienti cristiani, ove fu stimato per le sue conoscenze mediche, Donnolo dà una lettura originale dello Yetzirah, massimo capolavoro della cosmologia precabbalistica. La sua è l’interpretazione di un profondo conoscitore dei meccanismi del corpo umano, che cerca di penetrare il mistero della Creazione in base al principio dell’analogia. «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (Genesi 1:26) significa per Donnolo una

corrispondenza funzionale tra macro e microcosmo. L’ambizione conoscitiva si dilata, in questo esponente dell’intreccio culturale ebraico-bizantino, a tutta la sfera del noto e dell’ignoto: «Come Dio conosce il passato e il futuro, cosí anche l’uomo, a cui Dio ha concesso la sapienza necessaria, [li può] conoscere». Il rispecchiamento tra divino e umano fonda, e interiorizza, il cammino verso la scoperta di sé: «Come non esiste creatura al mondo che conosca i segreti di Dio, cosí non esiste essere umano che conosca i segreti dei reconditi pensieri dell’uomo». Segreto di Dio e segreto dell’uomo, incommensurabili per estensione, sono simili per impenetrabilità. Con la differenza che l’autonomia psichica individuale rimane sempre accessibile a Colui che scruta i cuori. Shabbetay Donnolo, maestro sapiente dell’Italia meridionale, c’insegna che conoscere sé stessi significa scendere verso il mistero del Creatore.

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IL RINASCIMENTO

Il Rinascimento parla ebraico

di Giulio Busi

Il Rinascimento è senza dubbio un’epoca decisiva per la creazione dell’identità italiana, sia per l’ineguagliata creatività artistica sia per il valore simbolico e per l’influsso esercitato sull’intera costruzione storica e intellettuale, al di qua e al di là delle Alpi. È una stagione, quella rinascimentale, che accoglie in sé esperienze multiple: incontri, scontri, momenti armonici e brusche cesure. Non a caso, nella storiografia piú recente, si parla talvolta di «Rinascimenti», per sottolineare queste sfaccettature della vita intellettuale alle soglie della modernità. Il laboratorio plurale del Rinascimento ha parecchio da insegnare anche al nostro presente, sempre piú multiculturale. Non perché la Storia si ripeta, e il passato possa essere imitato. Ma perché una società aperta deve sapersi interrogare sulle radici molteplici della propria vitalità. Gli Ebrei, durante il Rinascimento, c’erano. In prima fila, attivi e intraprendenti. E hanno contato parecchio. Certo, hanno preso, imitato, riprodotto. Ma hanno anche dato, influenzato, ispirato. Sebbene l’ebraismo abbia rappresentato un elemento costitutivo del panorama rinascimentale, non è stato finora messo sufficientemente in luce il carattere complessivo del confronto tra la rinnovata tradizione cristiana e l’identità giudaica in Italia. Se infatti l’ambito maggioritario diffuse parecchi dei propri modelli formali, l’ebraismo seppe penetrare a sua volta la cittadella dell’arte, della letteratura e della filosofia umanistiche e dare cosí al Rinascimento italiano alcune cadenze originali e inimitabili.

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Giobbe sullo scranno, dalla Miscellanea Rothschild. Italia, 1479 circa. Gerusalemme, Israel Museum. Nella pagina accanto Sefer Torah (Rotolo della Torah), dalla Sinagoga di Biella. Produzione della Francia settentrionale, 1250 circa (bastoni del XVII sec.). Vercelli, ComunitĂ ebraica.

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IL RINASCIMENTO

A

lla fine del Duecento, agli albori del movimento umanistico, le comunità ebraiche della penisola italiana sono in una fase di profonda trasformazione. Se per secoli gli Ebrei di Roma hanno rappresentato un nucleo forte del giudaismo italiano, un progressivo afflusso migratorio verso nord comincia ora a portare i prestatori di origine romana nell’Italia centrale e poi in Romagna e nella pianura padana. Allo stesso tempo, un buon numero di Ebrei provenienti dall’area franco-tedesca scende verso sud, insediandosi soprattutto nel Veneto e in Piemonte. Gli Ebrei diventano cosí parte, sempre piú vitale, della turbinosa vita economica dell’Italia dei secoli XIV e XV. È anche grazie all’apporto del capitale ebraico che i comuni e le corti italiane possono ampliare la loro sfera d’investimenti e dare vita a quell’intenso fermento sociale e artistico che trasforma la Penisola in un irripetibile laboratorio intellettuale. Pur mantenendo una loro pronunciata identità, gli Ebrei italiani entrano a contatto piú stretto con la vita quotidiana della maggioranza cristiana. Fino all’ultimo scorcio del Quattrocento, l’Italia è toccata solo marginalmente dalle traumatiche persecuzioni che angustiarono l’ebraismo nel resto d’Europa, e anche l’antigiudaismo di matrice ecclesiastica è qui bilanciato da considerazioni sull’utilità economica dei nuclei ebraici. È cosí possibile, oltre a un attivo scambio economico, anche la fioritura di espressioni letterarie e artistiche ebraiche, nello spirito del rinnovamento rinascimentale. Alcuni eruditi cristiani cominciano a rivolgere la loro attenzione all’ebraismo, come a una fonte di conoscenza ancora inesplorata eppure fondamentale. Nel generale movimento di rivalutazione delle fonti antiche tipico dell’ideale umanistico, l’ebraico acquista a poco a poco un proprio prestigio, accanto al latino e al greco. È in Italia che l’ebraistica cristiana dà le sue prime prove, attraverso dotti che raccolgono libri e cercano anche d’impossessarsi dei rudimenti della lingua e di una nozione generale della cultura giudaica,

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attraverso il rapporto diretto con gli Ebrei dell’epoca. Questi studi sono non di rado condotti in ambiente ecclesiastico ma non mancano gli intellettuali laici, interessati a una riscoperta della sapienza ebraica. Nel volgere di tre secoli, dalla fine del XIII e il compiersi del XV secolo, l’ebraismo in Italia si trasforma profondamente. Gli Ebrei s’insediano in moltissime località. In qualche caso, si tratta della ripresa di comunità d’età antica o alto medievale. Molto spesso, questa crescita è però fenomeno nuovo e sorprendente. Il bilancio, naturalmente, non è solo positivo. La pianura padana, un tempo cosí rada di vita ebraica, fiorisce di nuclei che penetrano nel territorio e permeano le attività economiche, la vita sociale, la cultura. Il Sud presenta invece un quadro composito, sfrangiato, cosí come ancora in gran parte da ricostruire sono le dinamiche piú generali del Rinascimento meridionale. Se Napoli ha una importante attività culturale ebraica per tutto il Quattrocento e diviene, per qualche anno, centro di rifugio per gli esuli ebrei provenienti da Spagna e Portogallo, iniziative importanti fioriscono anche in altre località - si pensi al commento alla Torah di Shelomoh ben Yitzchaq, stampato a Reggio Calabria nel 1475. Al diffondersi capillare in Italia centrale e settentrionale, fa tuttavia riscontro l’espulsione

Miniatura raffigurante una scena di pagamento nell’ufficio dei Procuratori di San Marco a Venezia, dal Catastico di San Maffeo di Murano dei Camaldolesi. 1390 circa. Venezia, Biblioteca del Seminario Patriarcale.


Manoscritto membranaceo contenente preghiere secondo il rito romano e La iente de Zion, un componimento liturgico per il 9 di Av, data in cui si colloca tradizionalmente la distruzione del Tempio di Gerusalemme, giornata di lutto e digiuno per gli Ebrei. XV sec. Parma, Biblioteca Palatina.

La iente de Zion, un testo giudeo-italiano L’uso scritto di varietà italiane da parte degli Ebrei è documentato con continuità a partire dalla fine dell’XI secolo. Alla lingua santa, impiegata nel culto e in scritture di vario tipo – poetico, storico, filosofico, scientifico, oltre che pratico (iscrizioni, atti, ecc.) – si vengono affiancando i volgari italiani, in posizione non certo paritaria ma gradualmente sempre piú significativa. Nei primi testi il volgare è infatti strumentale alla comprensione di parole o espressioni in ebraico; questa funzione sussidiaria non scompare mai del tutto, ma con il passare del tempo il volgare acquista autonomia ed è impiegato anche nella scrittura di testi originali. Il rapporto fra l’ebraico e i volgari italiani si può dunque paragonare a quello che questi ultimi intrattengono, in ambito cristiano, con il latino, che pure funge da lingua della religione, della letteratura, della scienza ecc. I testi volgari scritti dagli Ebrei d’Italia sono detti convenzionalmente «giudeo-italiani»:

completa degli Ebrei dalla Sicilia e dalla Sardegna prima e dal Mezzogiorno peninsulare poi, che per secoli erano stati fulcro demografico dell’ebraismo italiano. La carta geografica ci mostra insomma uno sconvolgimento, con un rovesciarsi di numeri e di luoghi. Se i decreti di cacciata del 1492 - e poi del 1510, 1514 e 1541 - hanno la loro origine nella politica antigiudaica decisa nella Penisola iberica, il motore del successo insediativo nelle nuove terre a est e a nord di Roma si deve

glosse e glossari, volgarizzamenti dall’ebraico (soprattutto del testo sacro), composizioni poetiche, sermoni, grammatiche, dizionari, ecc. Il testo per vari aspetti piú rappresentativo della produzione giudeoitaliana antica è l’elegia La iente de Zion, una qinah (lamento) per la distruzione del Secondo Tempio a destinazione liturgica: essa è infatti conservata in due machazorim (libri delle preghiere di tutto l’anno) di rito romano, nella sezione relativa al 9 di Av, la ricorrenza piú luttuosa del calendario ebraico. Il componimento è anonimo e consiste di 40 terzine monorime di versi anisosillabici (dalle 9 alle 15 sillabe). La metrica rimanda alla tradizione poetica ebraica, con cui si riscontrano notevoli affinità anche sul piano tematico: la rievocazione della passata grandezza del popolo d’Israele e degli avvenimenti drammatici seguiti alla distruzione del Tempio e l’invocazione al Signore perché ripristini una situazione di prosperità.

all’intraprendenza degli Ebrei italiani. Dapprima in concomitanza col prestito esercitato da cristiani, e poi con prevalenza netta, fino a raggiungere un sostanziale monopolio, gli imprenditori provenienti da Roma conquistano un ruolo di primo piano. Si è calcolato che, con meno dell’un per cento della popolazione, gli Ebrei s’insediano, tra il XIV e il XVI secolo, in circa il quindici per cento degli attuali comuni centro-settentrionali. Mentre il prestito al consumo gestito dai

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cristiani declina progressivamente tra fine Trecento e inizi del Quattrocento, i banchieri ebrei sono in grado d’inserirsi nello spazio finanziario che si offre loro. Utile alle élite cristiane, che ne traggono finanziamenti per le loro attività economiche e per i consumi, la banca ebraica su pegno serve anche a calmierare i tassi d’interesse passivi per le classi meno agiate, o a «soccorrere i poveri», come si afferma spesso nelle condotte. Il beneficio portato da queste attività finanziarie è reciproco. Sebbene il mito di un’universale ricchezza ebraica rifletta astratti stereotipi antigiudaici contraddetti dalle fonti, è pur vero che i maggiori banchieri ebrei conseguono un livello socioeconomico per certi versi paragonabile a quello della nobiltà e dell’alta borghesia cristiana. Di fatto, in età rinascimentale il giudaismo italiano gode di una prosperità che altrove verrà raggiunta solo dopo l’emancipazione. Il benessere attrae linfa nuova d’oltralpe e d’oltremare, e rende la Penisola il centro demografico piú importante della Diaspora. Colma di traffici, attiva di scambi, innervata di progetti culturali, l’Italia ebraica del Rinascimento si presta naturalmente a essere esaltata

Nasce il ghetto Copia del decreto per l’istituzione del ghetto di Venezia del 29 marzo 1516. XVIII sec. Venezia, Archivio di Stato. Nel 1516, gli Ebrei dei territori veneziani di terraferma, che fino ad allora potevano risiedere in città solo per un tempo limitato, furono confinati in una zona, appositamente scelta, nel sestiere di Cannaregio. In quell’area esisteva in precedenza una fonderia, o «geto», da cui sarebbe derivato il nome di ghetto, attribuito poi per antonomasia a ogni area di residenza forzata ebraica.

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Un particolare della sezione dedicata al ghetto ebraico di Venezia dal MEISMuseo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara.


e idealizzata, oasi felice nella lunga e tormentata storia giudaica. Una simile idealizzazione, che è stata predominante nella storiografia dell’Ottocento e di buona parte del Novecento, deve fare però i conti con le dinamiche avverse, di pregiudizio e di persecuzione. Se la banca è il fulcro dell’espansione, non stupisce che proprio il prestito sia anche il tema privilegiato di molti attacchi antiebraici, soprattutto durante il Quattrocento. Per i predicatori degli Ordini mendicanti, e in specie per i Francescani, che vogliono promuovere i Monti di Pietà, strutture di prestito senza scopo di lucro, gli Ebrei sono antagonisti da segregare, privare del loro influsso economico e sociale, espellere.

Spazi, scene, fondali La presenza ebraica nelle città italiane è varia e cangiante, proprio come sempre diversi sono i volti del panorama urbanistico e politico della Penisola. Per alcuni centri abbiamo notizie che si susseguono, con poche lacune, per centinaia

e centinaia di anni. In altri luoghi, gli Ebrei compaiono nei documenti e si eclissano senza apparente continuità. Vivono spesso raccolti gli uni vicini agli altri, in vie o in isolati a prevalenza giudaica, ma non mancano testimonianze di dimore sparse tra quelle del resto della popolazione. Quasi sempre, stare assieme è scelta volontaria, che rinsalda i legami del gruppo, permette una miglior difesa in caso di attacchi antiebraici, consente una piú piena vita religiosa (preghiera comune, macellazione rituale, istruzione). Tra le rare imposizioni della dimora in un’area specifica della città, vi è il caso di Pisa, nel XIII, quando viene permesso agli Ebrei di risiedere solo nel loro vicolo, il «classus Iudeorum», sebbene non si tratti di un ghetto vero e proprio. Le vie ebraiche hanno colori, suoni, abitudini proprie. Costituiscono un microcosmo intimo in cui riconoscersi e condividere gli spazi e i ritmi della quotidianità. Nel Trecento, a Roma, ove il gruppo ebraico è sparso in vari luoghi, nelle strade prevalentemente, o esclusivamente ebraiche

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IL RINASCIMENTO

Una traduzione celebre Frontespizio della prima traduzione della Bibbia ebraica in lingua spagnola, pubblicata a Ferrara da Avraham Usque, nel 1553. Ferrara, Biblioteca Ariostea. L’opera, nota anche come «Bibbia di Ferrara», è pensata per i conversos – che al cristianesimo si sono dovuti piegare a forza ma che cristiani non si sentono –, ma è appetibile anche per molti cristiani con inclinazioni poco ortodosse, attratti dalla protezione benevola di Renata di Francia, consorte del duca Ercole II d’Este.

non vige per esempio l’obbligo di indossare sopra le vesti un segno distintivo, che gli Ebrei devono invece esibire quando si trovano tra i cristiani. Sempre nella stessa epoca, diversa appare la situazione a Ferrara. Un giuramento di fedeltà a papa Clemente V, prestato dai cittadini ferraresi nel 1310 , ci mostra un nucleo ebraico piuttosto nutrito in contrada «Centum Vassurarum», che peraltro abita in prossimità di altri Ferraresi di religione cristiana, in una vicinanza

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urbanistica che è certamente anche condivisione e scambio quotidiano, diremmo comunanza di vita vissuta. Siamo qui ancora molto lontani dalla residenza forzata e discriminante che verrà imposta quasi ovunque in Italia a partire dal Cinquecento. È Venezia, nel 1516, a istituire per la prima volta quest’obbligo abitativo in un’area delimitata del sestiere di Cannaregio, denominata «ghetto», che darà il nome per antonomasia a questa brutta pagina della segregazione. Per secoli e secoli, da quando il cristianesimo s’è imposto come religione predominante, l’esistenza dei luoghi di culto ebraici è sí tollerata, ma deve sottostare a rigide restrizioni. Rigide e inflessibili le norme, almeno sulla carta. Varia la loro applicazione, costellata di eccezioni. Accanto alle sinagoghe antiche ne nascono cosí qua e là nuove. E se non si tratta mai, per quel che ne sappiamo, di edifici sfarzosi all’esterno, gli interni sono spesso curati e ornati. Di quelle medievali e del primo Rinascimento ci restano quasi solo testimonianze iconografiche nei codici miniati, e rari manufatti. Il cuore della sinagoga è l’aron ha-qodesh, l’armadio sacro, in cui sono conservati i rotoli della Torah, arricchiti da finimenti d’argento e scritti su pergamena, in lingua ebraica. Nerissimo l’inchiostro, antiche le parole sacre, che vengono lette ad alta voce durante il servizio liturgico a cui, secondo le prescrizioni ebraiche, devono partecipare almeno dieci maschi adulti.

Professioni e mestieri Gli intellettuali ebrei di spicco di questo periodo riuniscono in sé non di rado diverse competenze. Si dà spesso il caso di medici attivi anche come banchieri e capaci di una sofisticata riflessione teorica come filosofi e poeti. Le donne ebree non sono da meno. Sebbene i loro ruoli tradizionali di spose e madri siano incentrati sulla casa e la famiglia, le troviamo ripetutamente impegnate negli affari. Sono prestatrici, in proprio o in rappresentanza dei mariti o dei figli. Tra loro si trovano poi levatrici e medichesse. È il caso di Virdimura,


Ebrea siciliana e moglie del medico Pasquale di Catania, che nel 1376 chiede e ottiene di poter praticare la scienza medica. Ma questa non è certo la sola attestazione di un sapere medico femminile che dovette essere ampio, e che andrà valorizzato nelle ricerche future. A Fano troviamo cosí, nel 1460, Perna, Ebrea forse originaria di Urbino, che chiede licenza di esercitare la medicina, anche in questo caso con successo.Vi sono poi copiste di manoscritti, come per esempio Paola, figlia dello scriba ebreo romano Avraham ben Yo’av. A Paola si devono quattro codici, copiati tra il 1288 e il 1306. Le opere da lei vergate, e i brevi riferimenti personali che vi ha incluso, ci parlano di una donna colta e intraprendente, capace di misurarsi con difficili testi della tradizione rabbinica. Nella Sicilia quattrocentesca si trovano persino donne che gestiscono una taverna, o fanno da sensali o banditrici d’asta. Maestre e maestri di danza, cantori di sinagoga, musici, giocatori d’azzardo, calderai, fabbri, pittori, argentieri, orefici, conciapelli, fabbricanti e mercanti di stoffe – gli Ebrei italiani intrecciano le loro vite tra loro, con i non ebrei, tra le mura della città in cui sono nati e al di là di mari lontani. Partono, tornano, s’immaginano di raggiungere in pellegrinaggio Gerusalemme o vi si stabiliscono davvero per sempre. Oppure da Gerusalemme rientrano in Italia, per rimanervi, finché si riesca, finché sarà possibile.

Un altro particolare dell’allestimento del MEIS di Ferrara, con una ricostruzione grafica della città di Ferrara in epoca rinascimentale e, in primo piano, un capitello con Cena di Erode e Decollazione del Battista (1200 circa. Ferrara, Museo della Cattedrale).

degli Ebrei, tollerati sí ma relegati in una condizione d’inferiorità sociale piú o meno marcata, e la concreta pratica sociale e politica ci sono spesso scarti anche molto considerevoli. Non di rado, pontefici e sovrani hanno prima proibito e vessato, poi permesso e anzi incoraggiato la vita ebraica nei loro domini. Non c’è dubbio che gli Ebrei siano un elemento importante della vita economica dell’epoca, per la loro intraprendenza e mobilità. Ed è altrettanto evidente che queste stesse doti di intraprendenza, cui s’è già accennato sopra, li

Scontri Se è vero che gli Ebrei italiani godono durante il Rinascimento di una relativa tolleranza, non mancano episodi di persecuzione, particolarmente intensi nella seconda metà del XV e durante il XVI secolo. L’antigiudaismo, visto lungo la storia della Penisola italiana, ha vari gradi. In molti casi, livelli distinti d’intolleranza sono coesistiti, in aree geografiche diverse, o addirittura all’interno della stessa città. Non v’è un’unica, coerente linea d’insieme, che attraversi i secoli XIV-XVI, che qui ci interessano piú da vicino. Tra la teologia della Chiesa, che mira alla conversione

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IL RINASCIMENTO

rendono invisi ai loro potenziali concorrenti, e facile bersaglio di risentimenti sociali. Inveterati pregiudizi religiosi – viene loro rivolta l’accusa di deicidio, per cui sarebbero colpevoli della morte di Gesú, e quella di «perfidia», ovvero l’ostinato rifiuto di aderire alla fede cristiana – si mescolano alle polemiche per le presunte «usure» ebraiche. Uno dei piú clamorosi casi di persecuzione è il processo inscenato a Trento, sotto il governo del principe vescovo Johann Hinderbach e sfociato nella condanna e messa a morte di 15 Ebrei della locale comunità, accusati di aver ucciso un bimbo cristiano di nome Simon Unverdorben, durante la Pasqua 1475. La venerazione di Simonino da Trento, ammessa ufficialmente nel 1588, è stata soppressa dalla Chiesa cattolica nel 1965.

Incontri Il racconto degli scontri, dell’antigiudaismo, della discriminazione è una verità. C’è però un’altra parte della vita ebraica nell’Italia dei secoli XIII-XVI che è fatta d’un colore diverso, molto meno cupo. Curiosità reciproca, contatti quotidiani, persino amicizia. Sarebbe un errore sopravvalutarla, questa parte piú chiara, e fare dell’Italia del tardo Medioevo e del Rinascimento un’isola felice e idilliaca. Ma è altrettanto parziale non voler vedere la compenetrazione tra cultura ebraica e cristiana. Anzi, non vederla, è quasi impossibile, almeno per chi abbia occhi per guardare. Basta scorrere i dipinti dei grandi maestri della pittura italiana dell’epoca, per accorgersi che i soggetti ebraici, e la stessa lingua santa, sono messi in bella evidenza, risaltano in primo piano. E non nelle opere minori. Sono i grandi a sciorinare davanti ai fedeli in chiesa, e ai ricchi committenti nei palazzi e nei castelli, un ebraismo antico, autorevole, quasi sempre rispettato e preso a modello. Giotto, Beato Angelico, Cosmè Tura, Ghirlandaio, Mantegna, Carpaccio, Michelangelo, Raffaello. Non sono tutti i nomi di quest’albo dell’ebraistica in punta di pennello (e di scalpello), ma bastano per capire con chi si ha a che fare. Tra la fine del Duecento e gli inizi del

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Le corti dell’Italia rinascimentale sono un luogo d’incontro per eccellenza


Cinquecento, l’ebraismo entra nel cuore della creatività artistica, in alcuni dei piú importanti centri intellettuali della Penisola. Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Roma sono gli scenari di questo studiarsi reciproco, che porta gli umanisti cristiani a raccogliere libri ebraici e a immergersi nella lingua santa, spesso grazie all’aiuto e all’amicizia dei dotti ebrei. L’arte non è che un segnale, splendido, di quello che avviene negli studi degli eruditi, e anche nelle corti dei potenti del Rinascimento. Proprio le corti sono un luogo d’incontro per eccellenza. Lí gli Ebrei sono di solito accolti e ben visti. Prestatori, medici, mercanti, svolgono un ruolo non secondario di

Sulle due pagine confronto tra un Aron ha-qodesh (armadio sacro adibito alla conservazione dei rotoli della Torah) in legno di noce e legni colorati, intagliati e intarsiati prodotto a Modena nel 1472 e la ricostruzione grafica dell’ambiente in cui veniva utilizzato.

sostegno economico, di consulenza, e persino d’intrattenimento. Volete un altro elenco, questa volta di principi, di filosofi, di letterati? Lorenzo de’ Medici, Federico da Montefeltro, Isabella d’Este, Giovanni Pico della Mirandola, Angelo Poliziano. Tutti patroni, collezionisti, studiosi, appassionati di cose ebraiche. È a Pico che si deve la scoperta del misticismo ebraico, e il suo inserimento nel canone della sapienza umanistica. Certo, non tutti sono d’accordo con questa corsa all’ebraico. Le Conclusiones, pubblicate da Giovanni Pico nel 1486 e tutte pervase dai misteri della qabbalah ebraica, vengono prima proibite poi bruciate per ordine di papa Innocenzo VIII. E la qabbalah cristiana, appena nata, è subito in odore di eresia. Né questa stagione di scambi, di discussioni e di diatribe, all’insegna della curiosità per l’altro, durerà a lungo. Nel 1517, Lutero, nutrito anche di studi ebraici e traduttore della Bibbia dall’ebraico in tedesco, scatena la bufera della Riforma. La Chiesa si fa piú guardinga. Se non ci fosse stata l’ebraistica cristiana, si pensa, forse la traduzione luterana della Scrittura sarebbe stata impossibile. E gli Ebrei, liberi di andare e venire, di studiare assieme ai cristiani e di far loro da maestri, non sono forse un focolaio di confusione dottrinale e d’insubordinazione? Ancor prima di passare al contrattacco contro i protestanti al di là delle Alpi, le prove di repressione del dissenso cominciano sulla soglia di casa, e sono gli Ebrei a farne le spese. Nel 1553, Giulio III ordina un primo gran falò di libri ebraici. Nel 1555 papa Paolo IV stabilisce, con la bolla Cum nimis absurdum, che gli Ebrei siano costretti a vivere solo in alcune aree, ben distinti dal resto della popolazione. È una crisi amara, non solo per l’ebraismo. Tutta la cultura e la società italiana subiscono il contraccolpo della svolta autoritaria della Controriforma. Vi si aggiunga la perdita dell’autonomia politica in vaste zone della Penisola. Il lungo crepuscolo della dominazione straniera e della decadenza politica ed economica italiana è cominciato.

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IL RINASCIMENTO

L’età degli incontri s’è impallidita. Con danno per tutti, al di qua e al di là delle mura dei ghetti. Le prime tracce di un interesse iconografico per l’ebraico nella penisola italiana sembrano doversi ricollegare ad ambienti ecclesiastici e addirittura a pittori conventuali (Lorenzo Monaco e Beato Angelico), in Toscana e in particolare a Firenze e a Siena. S. Maria Novella a Firenze è uno dei principali centri di studio domenicano. Tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, vi insegnano tanto l’arabista Ricoldo di Montecroce quanto Giordano da Pisa, di cui sono note le frequentazioni ebraiche. Giotto vi crea un titulus crucis trilingue con la prima riga in corretto ebraico. L’ebraico segnala e definisce, nei dipinti di tema religioso cristiano, l’ambientazione vetero-testamentaria. Nel piú generale programma umanistico del ritorno alle fonti, alla precisione storica e alle conoscenze filologiche del passato, la lingua santa pare uno

dei modi migliori per mostrare l’ebraicità di Gesú e del suo ambiente, in un recupero antiquario delle storie bibliche e della predicazione evangelica. Poco importa che la maggioranza dei fruitori delle opere d’arte non sia in grado di leggere quanto è vergato in ebraico. Committenti, eruditi ispiratori dell’iconografia e pittori si adoperano per mostrare, alfabeto alla mano, che l’hebraica veritas è parte integrante della rinascita dell’antico e dell’annuncio della fede cristiana. Non a caso, una delle icone piú diffuse del trilinguismo cristiano rinascimentale è il cosiddetto titulus crucis, ovvero l’iscrizione che, secondo i Vangeli, fu apposta sulla croce.

La scoperta della qabbalah È con l’arrivo a Firenze di Giovanni Pico della Mirandola, nel settembre-ottobre del 1484, che la Toscana diviene il centro internazionale di una nuova moda culturale, che fa dell’ebraico, e

Supposto martirio di Simon Unferdorben (Simonino da Trento), gruppo in legno policromo. 1500-1510 circa. Trento, Museo Diocesano Tridentino. L’opera evoca l’episodio avvenuto nel 1475, quando gli Ebrei di Trento furono appunto incolpati di avere ucciso, durante la Pasqua, Simon Unferdorben, figlioletto di un conciapelli cristiano, e di averne usato il cadavere per un macabro rito in sinagoga.


una robusta presenza di cose ebraiche. E se gli Ebrei non vogliono privarsi dei loro tesori bibliografici, neppure a caro prezzo, vorrà dire che si potrà ricorrere al bottino di guerra. Federico da Montefeltro è collezionista compulsivo e privo di scrupoli. Lo dimostrano i codici ebraici di cui fa incetta dopo la caduta di Volterra nel 1472, dopo aver comandato le truppe inviate dai fiorentini per impadronirsi della città ribelle. Naturalmente il gran condottiero l’ebraico non lo sa leggere. Ma ne riconosce il prestigio e il valore simbolico, e questo gli basta. Guerra o non guerra.

Maestri in società Contratto per l’istituzione di una scuola di ballo, musica e canto, fra due maestri di danza: l’ebreo Joseph di Moysè da Pesaro e il cristiano Francesco di Domenico. Firenze, 1467. Firenze, Archivio di Stato. L’atto fu rogato dal notaio Ser Piero di Antonio da Vinci, padre di Leonardo.

in particolare della qabbalah, la tradizione mistica, una delle piú importanti chiavi di accesso alla sapienza antica. Dal lavorio di traduzioni, condotto per Pico soprattutto da Flavio Mitridate (un Ebreo convertito che, nel giro di pochi mesi, traduce per il conte un ingente numero di testi cabbalistici) la moda ebraicizzante si irradia nell’arte. Questo filo-ebraismo mediceo si riflette fra l’altro artisticamente in opere di Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio e nel titulus trilingue che il giovane Michelangelo appone al crocifisso ligneo di Santo Spirito a Firenze (vedi foto a p. 120).

Un collezionista spregiudicato Nella seconda metà del Quattrocento, l’ebraico è ormai entrato nell’ideale umanistico di una perfetta erudizione. Nella passione ebraistica del Montefeltro, uno dei piú reputati condottieri del suo tempo e grande esperto di cose militari, si riflette quella che è ormai convinzione diffusa nelle piú raffinate cerchie intellettuali del tempo. Il curriculum degli studi non è completo senza

Gli Este a Ferrara Tra il 1475 circa e il 1528 la Ferrara estense è teatro di un prolungato connubio tra dottrina ebraica ed esperienza artistica. Questo episodio - forse unico per la sua durata nella storia della cultura, non solo italiana, è dovuto a diversi fattori. Innanzitutto, all’atteggiamento di apertura mostrato dagli Este verso gli Ebrei, e in particolare nei confronti dei prestatori e degli imprenditori che ruotavano attorno all’ambiente di corte. Ma l’ingresso della lingua ebraica in alcune grandi opere dell’arte ferrarese del tardo Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento si deve anche a taluni legami personali. Il vincolo piú noto è l’amicizia che si sviluppò tra Avraham Farissol, un erudito ebreo vissuto a Ferrara e due intellettuali cristiani di spicco, Pellegrino Prisciani e Celio Calcagnini. Fatto ancora piú importante, l’attenzione per i temi ebraici, nata dagli interessi umanistici di Prisciani e Calcagnini, trova espressione formale nell’opera dei grandi pittori della città estense. L’ebraico la fa da protagonista già a metà degli anni settanta del Quattrocento nella Madonna Roverella di Cosmè Tura, dove campeggia nelle due tavole poste ai lati del trono di Maria. Il disegno particolare delle tabelle le lega sicuramente a Pellegrino Prisciani, che negli stessi anni si serve delle medesime forme nel sarcofago da lui ideato per il padre Prisciano. È però Ludovico Mazzolino il pittore rinascimentale che piú di

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IL RINASCIMENTO

L’albero delle categorie divine A destra albero sefirotico redatto da Eliyyah Menah em ben Abba Mari Halfan (Elia Alphan) con l’aiuto di Avraham Tzarfatti. Venezia, 1533. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Si tratta di una delle tradizionali visualizzazioni delle sefirot (plurale di sefirah, ebraico per «cifra»), le categorie divine al centro della qabbalah. Nella pagina accanto un altro esemplare di albero sefirotico, in questo caso unito al Commento alla Grande Pergamena di Avraham Sarfatti, copia di James Hepburn. 1606. Oxford, Bodleian Library.

ogni altro ha fatto dell’inserto ebraico la cifra del proprio stile. La Disputa di Gesú con i dottori al Tempio, nelle varianti conservate a Roma e a Berlino (vedi foto a p. 122), diffonde come in un’onda l’impatto visivo di un ebraismo presente e attivo, benché mostrato nella sua tensione dialettica con il cristianesimo, qui prefigurato dalla sorprendente sapienza del Gesú appena dodicenne.

Mantova e i Gonzaga Già negli anni Settanta del XV secolo, Mantova ospitò la scuola di umanesimo ebraico di Yehudah Messer Leon, in cui i principi della retorica rinascimentale venivano impartiti

Crocifisso ligneo (particolare) scolpito da Michelangelo Buonarroti. 1493 circa. Firenze, chiesa di Santo Spirito. Sulla sommità della croce l’artista pose un titulus trilingue, riflesso del filo-ebraismo mediceo.

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agli allievi mediante esempi tratti dalla cultura biblica. All’insegnamento di Messer Leon si affiancò l’attività editoriale di Avraham Conat e l’apporto di intellettuali come Yochanan Alemanno, versati tanto nella cultura latina quanto nella filosofia e nella mistica ebraiche. Con l’arrivo in città d’Isabella d’Este, la scena artistica mantovana si animò anche di una curiosità per l’ebraismo. Mentore d’Isabella in questo campo e ispiratore d’iconografie ebraizzanti fu il patrizio Paride da Ceresara, singolare figura di cortigiano, letterato e umanista. Fu probabilmente da suggerimenti del Ceresara che nacquero, almeno in parte, gli spunti ebraistici dell’opera di Andrea Mantegna, il maggiore e piú reputato artista attivo in città nel tardo Quattrocento. Pallade scaccia i vizi dal giardino delle virtú, questo il titolo di un enigmatico capolavoro,


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IL RINASCIMENTO

realizzato da Mantegna per lo Studiolo d’Isabella d’Este, tra il 1499 e il 1502 (vedi foto alla pagina seguente). Sul lato sinistro, rispetto all’osservatore, si leva una Dafne-albero. La ninfa ha già cominciato a trasformarsi in lauro, per sfuggire alle mire di Apollo, come narrato da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Lungo il suo corpo, ormai fisso nell’immemore materia vegetale, s’attorciglia una pergamena, vergata di caratteri strani, torti, indecifrabili. Le stringhe alfabetiche danno l’impressione di risalire dalle radici

A destra Disputa di Gesú con i dottori al Tempio, olio su tavola di Ludovico Mazzolino. 1519 circa. Roma, Galleria Doria Pamphilj.

verso l’alto, nella successione trilingue d’ebraico, greco e latino. Ma è solo un inganno ottico. L’ebraico non è decifrabile. Certo, vi sono alcune «vere» consonanti ebraiche, ma altre hanno tratti spuri, e paiono piuttosto fantastiche cifre d’incerta provenienza. Né miglior sorte tocca al greco, che greco non è ma un torcersi di ghirigori, che nascondono lettere latine e che contengono la medesima frase, che finalmente si legge, in autentico latino, nell’ultima voluta in alto, a coronamento di tanto spiraliforme avvolgimento: Agite pellite sedibus nostris | foeda haec vicioru[m] monstra | virtutum

L’opera di Salomone «per il Signore» Gesú dodicenne al Tempio, olio su tavola di Ludovico Mazzolino. 1520-1521 circa. Berlino, Gemäldegalerie. Come nella Disputa di Gesú con i dottori al Tempio (foto in alto), l’artista ha inserito nella composizione un’iscrizione ebraica, che qui, tuttavia, è diversa, e almeno apparentemente, piú consona al contesto evangelico: «Il Tempio che Salomone ha costruito per il Signore». È una frase tratta, con alcune omissioni, da 1 Re 6.2 e appartiene al racconto della costruzione dell’antico Tempio di Gerusalemme.

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coelitus adnos red[e]u[n]tium divae comites («Orsú, compagni della dea delle virtú, che ritornano a noi dal cielo, scacciate dalle nostre dimore questi mostri vergognosi dei vizi»). Perché tanti sotterfugi e travisamenti alfabetici? Perché l’ebraico è sfalsato e il greco è tale solo in disguisa? Bisogna sapere che, nella tradizione medievale dell’Ovidio moralizzato, che Mantegna aveva certo presente, l’alloro di Dafne è ritenuto anticipazione del legno della croce. Come quest’ultima reca in cima il titulus trilingue, cosí crediamo che l’albero-Dafne si orni, sotto il pennello di Mantegna, di una sorta di titulus ancora in divenire. Del tutto diversa è invece la funzione

Pallade scaccia i vizi dal giardino delle virtú, tempera e olio su tela di Andrea Mantegna. 1499-1502. Parigi, Museo del Louvre

dell’ebraico nella Sacra famiglia e famiglia di Giovanni Battista (vedi foto a p. 124). Qui Giuseppe, all’estrema sinistra rispetto all’osservatore, reca nella fascia del capo alcune lettere ebraiche. Due, centrali, si aggregano nella parola av, «padre», come per rafforzare, agli occhi di chi possa intenderle, il significato della figura che ornano. Sappiamo che il dipinto fu realizzato da Mantegna per la propria cappella funebre, ove è rimasto ininterrottamente fino a oggi. È bello pensare che la parabola ebraistica del sommo artista, dopo esser passata per lo pseudo-ebraico, sia infine approdata, nell’imminenza della morte, a una serena leggibilità, priva di connotati antigiudaici o arcanamente sapienziali.

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IL RINASCIMENTO

Dalla tolleranza al ghetto Un profondo interesse per la cultura ebraica è attestato a Venezia almeno a partire dagli inizi del XV secolo, quando il nobile Marco Lippomano si impegna in uno scambio epistolare, in lingua ebraica, con l’erudito Crescas Meir, che dimora in Puglia. Alimentata In alto Sacra Famiglia e famiglia di Giovanni Battista, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1504-1506 circa. Mantova, basilica di S. Andrea. Il personaggio sulla sinistra è Giuseppe, che ha il capo cinto da una fascia sulla quale, in lettere ebraiche, si legge av, «padre» (vedi particolare qui sotto). Nella pagina accanto Nascita di Maria, olio su tela di Vittore Carpaccio e bottega. 1502-1507 circa. Bergamo, Accademia Carrara.

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da studiosi come Francesco Zorzi, un patrizio con importanti incarichi nell’Ordine francescano e con una forte inclinazione per la qabbalah, l’erudizione giudaistica influenza in Veneto anche le arti visive. All’ambiente del Manuzio fu legato, per un breve ma intenso periodo, Gershom Soncino, tipografo ed erudito che aveva cominciato la sua attività editoriale nell’omonima cittadina, in terra lombarda, per poi approdare in laguna, forse già nel 1498, in cerca di nuove occasioni di collaborazione editoriale. Soncino fu probabilmente coinvolto da Aldo Manuzio nell’ambizioso progetto di dare alle stampe un’edizione trilingue della Bibbia. Di questa impresa, che richiedeva ingenti capitali e l’opera di provetti stampatori ebrei, non resta che un unico foglio di prova. È possibile che i due, Manuzio e Soncino, non s’intendessero sul piano personale, o sulla gestione economica del lavoro. A metà del 1501, Soncino dovette lasciare Venezia, subito prima che Manuzio desse alle stampe una breve Introduzione all’ebraico in lingua latina, composta proprio dal Soncino. Il fatto che l’edizione uscisse senza il nome dell’autore, e che anni piú tardi Soncino, nel ristamparla, si lagnasse dell’omissione, fa pensare che i rapporti tra i due fossero ormai piuttosto tesi. Al di là delle asperità di carattere, un risultato del soggiorno di Gershom Soncino a Venezia l’abbiamo davanti agli occhi, in un raffinato


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IL RINASCIMENTO

quadro di Vittore Carpaccio, eseguito per la veneziana Scuola degli Albanesi. La datazione è discussa, ma deve porsi tra il 1502 e il 1507. Nel dipinto, ora all’Accademia Carrara di Bergamo, scorgiamo un interno di calda e quotidiana intimità. Nella parete centrale campeggia una tabella con una dicitura ebraica (vedi foto a p. 125). È il Sanctus della liturgia cristiana, in cui si succedono due citazioni bibliche (Isaia 6. 3 e Salmi 118. 26): «Santo santo santo in eccelso. Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore». Chi suggerí a Carpaccio questo inserto ebraistico? Non lo sappiamo, anche se un particolare rivelatore può aiutare a dissipare almeno in parte il mistero. La parola «Signore» corrisponde nell’originale al Tetragramma, il nome quadrilittero che nell’ebraismo è proibito pronunciare e anche scrivere in contesti profani. I tratti usati da Carpaccio per rendere il Tetragramma sono gli stessi che si ritrovano nell’Introduzione all’ebraico di Soncino, ove compare la stessa formula del Sanctus. Le lettere sono accostate in modo da non riprodurre esattamente il nome santo; è una cautela a cui un cristiano non sarebbe certo ricorso, ma che ben si comprende in un erudito ebreo. Insomma, sia che dietro al quadro di Carpaccio ci sia un suggerimento diretto di Soncino, sia che qualcuno si sia basato sull’Introductio per l’abbozzo delle lettere, la Natività della Vergine di Vittore Carpaccio, per la Scuola degli Albanesi, «parla ebraico», nei modi e con gli accenti dettati dalla cultura degli Ebrei del Rinascimento. Solo pochi anni dopo il breve soggiorno di Gershom Soncino, il panorama ebraico di Venezia cambiò radicalmente. Nel 1509, sotto l’incalzare della lega di Cambrai, che sembrava

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Frontespizio di un’edizione de I cinque libri de le antichità de Beroso sacerdote Caldeo, di Annio da Viterbo (Giovanni Nanni). Venezia, per Baldissera Constantini, 1550. Castiglione delle Stiviere, Fondazione Palazzo Bondoni Pastorio.

minacciare l’esistenza stessa della Serenissima, Venezia concesse agli Ebrei dei propri possedimenti di Terraferma di trovar scampo in città. Dopo qualche anno di assestamento, la crescente popolazione ebraica venne costretta a dimorare in un’area appositamente designata, nel sestiere di Cannaregio. Era il 1516, e ci si sarebbe potuti aspettare che, cosí soffocati e ai margini della città, gli Ebrei si sarebbero presto piegati a un ruolo minore e sottomesso. E invece, cominciava una nuova, lunga epoca sociale e culturale, fatta di traffici, di convivenza piú o meno agevole ma anche di brusche chiusure e di discriminazioni. Proprio negli anni dell’istituzione del ghetto, Daniel Bomberg, un imprenditore venuto da Anversa, dava vita a una straordinaria avventura editoriale, che avrebbe portato alla stampa di edizioni ebraiche diffuse in tutta la Diaspora. Grazie a Bomberg, e a una serie di altri editori cristiani, che si appoggiarono alla rete di eruditi e tipografi ebrei attivi in città, Venezia avrebbe conquistato il primato indiscusso nella produzione del libro ebraico.

Tra Milano e Genova La politica filo-ebraica dei Visconti favorí l’insediamento ebraico nelle terre del Ducato già nell’ultimo scorcio del Trecento. Nei possedimenti milanesi si venne cosí a creare una ricca trama culturale giudaica, che continuò anche in epoca sforzesca, perlomeno fino al 1489, quando Ludovico il Moro, dopo un processo contro alcuni Ebrei, ordinò l’espulsione dal Ducato. La produzione intellettuale giudaica in terre lombarde è documentata, tra l’altro, dalla vivace attività


tipografica promossa dalla famiglia Soncino, da cui proveniva quel Gershom di cui abbiamo appena seguito i passi a Venezia. Legata in parte a Milano dal punto di vista politico, ma diversa nell’atteggiamento verso gli Ebrei, fu Genova. Gelosa delle proprie prerogative commerciali, la città cercò di limitare una stabile presenza ebraica, anche se un’attenta lettura dei documenti dimostra, a piú riprese, l’attività di Ebrei in città e nel territorio nel corso del Quattrocento. Qui fece poi tappa la diaspora sefardita dopo il 1492. A Genova si collega, almeno per un breve periodo, l’attività di Leone Ebreo che, nei suoi Dialoghi d’amore, diede la piú compiuta sintesi del platonismo giudeo-umanistico del Cinquecento.

Una protezione precaria La comunità ebraica di Roma è la piú antica d’Italia e l’unica che possa vantare una storia ininterrotta di due millenni. Legato alla corte pontificia da un rapporto particolare e spesso assiduo, il giudaismo romano costituiva, agli inizi del Trecento, un’entità di un certo rilievo nella vita economica e culturale della città. Nonostante il declino dell’età avignonese, gli Ebrei di Roma vennero coinvolti nel movimento umanistico e influenzarono l’interesse per l’erudizione semitica dei papi, documentabile almeno a partire da Niccolò V. A Roma, tra il 1469 e il 1475 circa, furono stampati ben otto incunaboli ebraici, i piú antichi dei quali sono ritenuti i primi volumi in lingua ebraica a essere apparsi con il nuovo procedimento tipografico, da poco introdotto in Italia, proprio nel Lazio, tra Subiaco e Roma, da artigiani tedeschi. Sempre nell’Urbe, nel 1498, apparve l’opera fantasiosa, influente e zeppa di rimandi

Frontespizio di un’edizione dei Dialoghi di amore di Leone Hebreo medico, di nuovo corretti et ristampati In Venetia, appresso Nicolò Bevilacqua, 1572. Ferrara, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah.

semitici, quasi tutti inventati o stravolti, del domenicano Giovanni Nanni, meglio noto come Annio da Viterbo. È questo un vero monumento all’interesse umanistico per il mondo ebraico e aramaico. Ma è un monumento spropositato, in cui l’autore, che assurse addirittura alla dignità di teologo ufficiale di Alessandro VI, finge di trovare radici «caldaiche» della primordiale storia italica, a costo di fabbricare falsi documenti e di piegare lingue ed etimologie ai suoi propositi pseudo-eruditi. L’atteggiamento generale della Chiesa cattolica nei confronti della cultura giudaica andò cambiando decisamente verso la metà del secolo XVI. Nel 1553, papa Giulio III ordina la confisca e la distruzione del Talmud, un atto che ha pesanti conseguenze sull’intero patrimonio librario ebraico. Ma non sono solo i libri a soffrire. Il principio stesso di convivenza, che piú o meno faticosamente ha resistito, nei fatti se non nella legislazione, per centinaia e centinaia d’anni, viene rivisto, irrigidito e fortemente limitato dalla Chiesa controriformistica. Dimora forzata, severa applicazione delle norme sul segno di riconoscimento, limitazione dei mestieri leciti, abolizione di tutti i titoli onorifici: per gli Ebrei dell’Urbe, e per molti altri tra coloro che dimorano nell’Italia centrosettentrionale, comincia un’epoca di prove e umiliazioni. Se si aggiunge che le comunità ebraiche del Meridione e delle isole sono state nel frattempo cancellate dalle espulsioni, si capisce come, a metà Cinquecento, la stagione delle contraddizioni, degl’incontri e della creatività rinascimentale possa dirsi davvero in declino.

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Glossario I

l glossario, in ordine alfabetico latino, riporta le parole ebraiche senza segni diacritici con, tra parentesi, la pronuncia accentata. Si tenga conto che ch e kh indicano due fonemi originariamente ben distinti, entrambi affricati (come in tedesco ach); che la g è sempre dura (come nella parola «gomma») e che š e sh si leggono entrambi come sc in «scia».

Archon

Arconte (greco), alta carica nell’organizzazione delle comunità ebraiche antiche.

Aron, aron ha-qodesh (aròn, aròn hakkòdesh) Armadio o stipo per i rotoli liturgici. È presente in ogni sinagoga.

Ashkenaz

L’area franco-tedesca (da cui l’aggettivo «ashkenazita»).

Av (Av)

Undicesimo e penultimo mese del calendario ebraico, cade di solito in luglio-agosto. 9 di Av: nono giorno del mese di Av, data convenzionale in cui si ricordano la distruzione del Primo e del Secondo Tempio di Gerusalemme e altri eventi luttuosi.

chashuv, pl. chashuvim (chashùv, chashuvìm) Persona di riguardo, membro importante di una comunità.

Elul

Dodicesimo e ultimo mese del calendario ebraico, cade di solito in agosto-settembre.

halakhah, pl. halakhot (halakhà, halakhòt)

etrog (etròg)

Via, diritto, normativa rabbinica; per estensione, legge.

Frutto del cedro. È usato liturgicamente, insieme ad altri vegetali, durante la Festa di Sukkot.

ga’on, pl. ge’onim (ga’òn, ge’onìm)

Alimento conforme alle regole ebraiche.

kasherut (kasherùt)

Capo dell’accademia talmudica di Sura o Pumbedita in Mesopotamia.

Il sistema delle regole alimentari ebraiche.

genizah (genizà)

lulav (lulàv)

Luogo o ripostiglio in cui si raccolgono i rotoli liturgici dismessi o altro materiale scrittorio ritenuto sacro. Genizah del Cairo: deposito medievale di libri e frammenti ebraici rinvenuto presso la sinagoga Ben Ezra di al-Fustat (Cairo Vecchio).

Ramo di palma. Insieme a un cedro e a rami di mirto e di salice viene agitato dai fedeli durante la preghiera mattutina della festa di Sukkot.

ger (ger)

megillah, pl. megillot (meghillà, meghillòt)

Proselito, convertito all’ebraismo.

gerusiarca «Capo della gerusìa» (greco: consiglio degli anziani), alta carica nell’organizzazione delle comunità ebraiche antiche. In alto lucerna con menorah. IV-V sec. Verona, Museo Archeologico al Teatro Romano. A sinistra epitaffio in lingua greca di Zosimiano, da Catania. IV-V sec. (?). Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».

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kasher (kashèr; con diversa pronuncia, kòsher)

matzevah, pl. matzevot (matzevà, matzevòt) Stele funeraria.

Rotoli liturgici diversi dal Sefer Torah; per antonomasia, la megillah di Ester (anche: Megillat Ester), ma anche alcune opere medievali (per esempio, la Megillat Achima‘atz).

menorah, pl. menorot (menorà, menoròt) Candelabro a sette bracci, talora rappresentato anche a cinque bracci o nove e, in quest’ultimo caso, chiamato chanukkyah (chanukkià).


pater

«Padre» (latino) titolo onorifico o alta carica in uso presso le comunità ebraiche mediterranee fra età tardo-antica e altomedievale, talora completato come pater sinagogae (anche nella versione femminile mater / mater sinagogae).

estensione composizione poetica e liturgica per occasioni luttuose.

rabbiniche palestinesi o babilonesi.

schola

Shavu‘ot (Shavu‘òt)

Nella tradizione italiana, per indicare la sinagoga.

Sefarad

Nel Medioevo, la penisola iberica e, per antonomasia, la Spagna (da cui l’aggettivo «sefardita»).

Pesach (pésach)

Celebrazione primaverile anche nota come Festa delle azzime, ricorda l’uscita degli Ebrei dall’Egitto. Durante la festa è prevista la rigorosa astensione dai cibi lievitati.

sefer, pl. sefarim (séfer, sefarìm) Libro, libri; per antonomasia, il Sefer Torah e gli altri rotoli liturgici.

Sefer Torah (Séfer Torà)

Poesia o componimento liturgico; l’autore: paytan o payyetan (pl. paytanim, payyetanim).

Rotolo pergamenaceo manoscritto contenente il Pentateuco. È usato per le letture pubbliche festive, sabbatiche e infrasettimanali della Torah.

proseuche

Shabbat (Shabbàt)

piyyut, pl. piyyutim (piyyùt, piyyutìm)

«Casa di preghiera» (greco), per indicare la sinagoga.

presbúteros

«Anziano» (greco), titolo usato nell’organizzazione delle comunità ebraiche antiche.

qinah, pl. qinot (kinà, kinòt) Lamentazione funebre. Per

Sabato, settimo e ultimo giorno della settimana ebraica, dedicato allo studio e al riposo e in cui è prevista la astensione da ogni attività creativa e trasformativa.

shaliach, pl. sheluchim (shalìach, sheluchìm) Messi o inviati (nelle iscrizioni latine, apostuli) delle accademie

Festa delle Settimane, celebrazione tardo-primaverile anche nota come Festa delle primizie. Ricorda la promulgazione dei dieci comandamenti sul Sinai.

sheqel (shékel)

Siclo, unità di misura ebraica; anche, moneta d’oro o d’argento pari allo stesso peso (circa 11 g).

shofar (shofàr)

Corno di montone. È usato durante la liturgia di Rosh ha Shanah, il Capodanno.

Sukkot (Sukkòt)

Celebrazione autunnale anche nota come Festa dei Tabernacoli o delle Capanne, ricorda il quarantennale vagare nel deserto del popolo d’Israele.

tefillin (tefillìn)

Piccoli astucci cubici di cuoio che contengono alcuni brani biblici manoscritti. Vengono legati al braccio e alla fronte e indossati dagli uomini durante la preghiera mattutina dei giorni feriali.

Un edificio pieno di storie Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) è ospitato dall’ex carcere di Ferrara, ristrutturato in modo impeccabile per essere adibito alla nuova destinazione d’uso: da luogo di segregazione e di esclusione, quale è stato per tutta la durata del Novecento e in particolare negli anni bui del fascismo, ha assunto, in una sorta di contrappasso, il ruolo quanto mai significativo di centro di

cultura, di ricerca, di didattica, di confronto e dialogo, in una parola, di inclusione. Il MEIS verrà completato nel 2021, con la costruzione di cinque edifici moderni, connotati da volumi che richiamano i cinque libri della Torah, destinati a ospitare, accanto agli spazi espositivi, luoghi di accoglienza per il pubblico e per i servizi, dando cosí vita a un grande complesso museale e culturale.

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MONOGRAFIE

n. 31 giugno/luglio 2019 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Giulio Busi è direttore dell’Istituto di Studi Ebraici della Freie Universität di Berlino. Anna Foa è stata professore di storia moderna presso «Sapienza» Università di Roma. Fabio Isman è giornalista. Giancarlo Lacerenza è professore di lingua e letteratura ebraica biblica e medievale presso l’Università degli Studi di Napoli «L’Orientale». Fabrizio Lelli è professore associato di lingua e letteratura ebraica all’Università del Salento (Lecce). David Noy è professore associato onorario di archeologia classica presso la Open University. Mauro Perani è professore ordinario di ebraico presso Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Alessandra Veronese è professore associato di storia medievale ed ebraica all’Università di Pisa. Fausto Zevi è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità di «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 20/21) e pp. 22 (alto), 23, 102/103 Cortesia MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, Ferrara: pp. 7, 8-19, 33, 34/35, 37, 38 (basso), 39, 52 (basso), 54-63, 64/65 (alto), 68-83, 85, 86, 90, 94-95, 96, 97 (alto), 99, 105, 108-129 – Doc. red.: pp. 22/23, 24-31, 38 (alto), 40-50, 52/53, 64/65 (basso), 66-67, 88/89, 91, 97 (basso), 103 – Studio Inklink, Firenze: pp. 32/33 – Bridgeman Images: pp. 93, 98, 101 – Mondadori Portfolio: per concessione MiBAC/Electa: p. 104 – DeA Picture Library: pp. 106/107 – Cippigraphix: cartina a p. 36. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Roma. Particolare di uno dei rilievi dell’Arco di Tito che mostra il trasporto del bottino saccheggiato dai Romani a Gerusalemme, del quale fa parte la menorah, il candelabro a sette bracci in oro massiccio. I sec. e.v.

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