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TRAFFICI, COMMERCI E VIAGGI ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ di Massimo Vidale
N°32 Agosto/Settembre 2019 Rivista Bimestrale
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MERCANTI
SENZA FRONTIERE TRAFFICI, COMMERCI E VIAGGI ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ di Massimo Vidale
6. Introduzione
Il «grande civilizzatore»
16. Le forme dello scambio Doni, baratti e altre storie
28. I primi mercanti Tutti pazzi per le perle
46. La navigazione
Prove tecniche di globalizzazione
62. Colonie e colonialismo Si ampliano gli orizzonti
72. Le vie del lapislazzuli Caccia all’oro blu
104. I Fenici
La storia scritta dagli altri
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ROC N° 0702 PERIODICO ENTO POSTALE – AUT. – SPEDIZIONE IN ABBONAM
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Rivista Bimestrale N°31 Giugno/Luglio 2019
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«GRANDE CIVILIZZATORE» IL
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La diseguale distribuzione di risorse fondamentali sul nostro pianeta ha da sempre costretto individui e civiltĂ a stringere contatti commerciali, e a scambiare informazioni e esperienze. Commerci e scambi hanno creato progresso, solidarietĂ , nuovi modi di vita, ma anche rovinosi fallimenti e sopraffazione Capi nubiani presentano doni e tributi alla corte faraonica, copia litografica di una delle pitture murali della tomba di Rekhmire, a Tebe. 1380 a.C. circa (da Friederich Ratzel, History of Mankind, Vol. III).
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INTRODUZIONE
I
n quanto specie, noi uomini abbiamo «solamente» due milioni di anni: siamo quindi ospiti appena arrivati su questo antichissimo pianeta. Per come abbiamo inventato la nostra vita, dipendiamo strettamente dalle condizioni e dalle risorse del suolo e del sottosuolo, dall’immensità degli oceani e dell’atmosfera, e da tutto ciò che chiamiamo biosfera. Ancora non sappiamo sino a che punto il pianeta sia in grado di sopportare i rapidissimi cambiamenti che gli stiamo imponendo, ma siamo ormai consci del fatto che le risorse delle quali abbiamo bisogno – animali, piante, minerali – sono limitate nelle quantità, probabilmente non rinnovabili e condannate all’esaurimento entro un numero sconosciuto di cicli di vita umana. Molte di queste risorse sono caoticamente disperse negli spazi geografici – ciò che gli esperti chiamano «diversa allocazione delle risorse» –, per effetto di una complicata e ancora in gran parte sconosciuta storia geologica, e delle contorte vicende dell’evoluzione biologica. Selce, calcedonio e altre rocce silicatiche a grana fine, usate da sempre per ottenere schegge da taglio dai nostri antenati, hanno una distribuzione limitata; intere macroregioni ne sono prive, e queste assenze ci aiutano a spiegare, almeno in parte, la differenza tra le industrie paleolitiche a ciottoli (chopper) e schegge e i manufatti bifacciali chiamati amigdale (termine derivante dalla parola greca per «mandorla»), in quanto questi ultimi sarebbero dovuti a ipersfruttamento delle pietre dove queste scarseggiano.
I tesori dell’«anello di fuoco» Se è vero che i metalli formano quasi un quarto della crosta terrestre, quelli di interesse cruciale – come rame, stagno, oro e argento – abbondano nel cosiddetto «anello di fuoco», creato dai bordi in movimento di enormi placche continentali. Fatto soprattutto di vulcani attivi, l’anello si estende intorno all’Oceano Pacifico, dai rilievi montuosi delle coste occidentali del Nuovo Mondo alle coste giapponesi e cinesi, fino alle regioni peninsulari del Sud-Est asiatico. Gli affioramenti metalliferi causati dai flussi idrotermali (cioè da getti liquidi ad altissima temperatura e pressione che seguono le vie del magma) proseguono quindi lungo una vasta zona latitudinale che si addentra, sinuosa e discontinua, nel cuore dell’Eurasia meridionale, dalla Cina meridionale al Portogallo. Lo stagno affiora esclusivamente, qua e là, a distanze di centinaia e anche migliaia di chilometri, in un immenso arco che dall’Arcipelago Indonesiano si allarga in Asia Centrale, per finire tra Normandia, Cornovaglia e Portogallo. Di giacimenti di minerali ferrosi, al contrario, i nostri continenti sembrano abbondare: le carte geologiche ne appaiono quasi butterate. Pietre ornamentali e semipreziose (marmi, alabastri, agate, diaspri e altre) sono state estratte da località disparate e spesso remote; mentre in età ellenistica i lapicidi (intagliatori di gemme) scoprirono che l’India, oltre a contenere le «montagne del calcedonio» ricordate dal naturalista e scrittore latino Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), era l’unica fonte dei diamanti usati per perforare e incidere altre durissime rocce. Tra le risorse della biosfera, è impossibile non ricordare, sempre dall’India, dall’Asia sud-orientale e dalle coste africane, il commercio di spezie, essenze profumate e legni pregiati; mentre il Libano, per tutte le civiltà medio-orientali, è
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Nella pagina accanto. in alto tavoletta in caratteri cuneiformi recante la trascrizione del contenzioso fra due mercanti, dall’Anatolia (forse da Kultepe, l’antica Kanesh). Età del Bronzo medio, XX-XIX sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. A oggi, si tratta del piú lungo testo neo-assiro conosciuto. Nella pagina accanto, in basso ostrakon ricavato da una scheggia di pietra calcarea recante il testo di un baratto, dall’Egitto. Nuovo Regno, XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art.
Hanno detto del commercio
«I
n ogni società la gente si scambia delle cose – beni, servizi e informazioni. Lo scambio costituisce il cuore della società: mantiene vive le relazioni sociali e distribuisce beni di valore all’interno del corpo sociale. È per questo che gli antropologi sociali hanno prestato tanta attenzione ai sistemi di scambio e si sono sforzati di elucidarne i principi fondanti» (Per Binde, antropologo, docente presso l’Università di Göteborg, Svezia). «La storia della civiltà...è la storia della circolazione tra le società dei vari beni e delle conquiste di ognuna. Le società vivono prendendo prestiti l’una dall’altra, ma definiscono sé stesse dal rifiuto di tali prestiti, piuttosto che accettandoli» (Marcel Mauss – 1872-1950 – antropologo e sociologo francese). «Il commercio regolare inizia con
lo scambio del metallo» (Vere Gordon Childe – 1892-1950 – paletnologo inglese di origini australiane, uno dei «padri» dell’archeologia preistorica). «Col commercio potete essere liberi. Potete vivere e lavorare in qualsiasi parte del mondo. Potete liberarvi dalla routine e non rispondere a nessuno» (Alexander Elder, trader russo-americano). «Il segreto del successo da un punto di vista commerciale è l’avere una infaticabile e permanente sete di informazione e conoscenza» (Paul Tudor Jones, imprenditore, finanziere e filantropo statunitense). «I mercati sono in uno stato di costante incertezza, e flussi e denaro si ottengono scartando ciò che sembra ovvio, e scommettendo sull’inaspettato» (George Soros, imprenditore ungherese,
naturalizzato statunitense). «È giunto il momento in cui dobbiamo costruire sulla ricchezza creata dai mercati aperti, e condividere in modo egualitario i benefici da essa creati. Il commercio è stato una pietra miliare della nostra crescita e dello sviluppo globale. Ma non saremo in grado di sostenere tutto ciò se quanti ne avranno vantaggio saranno i pochi, e non i molti» (Barack Obama, politico statunitense e presidente degli USA dal 2009 al 2017). «Commercio, turismo, scambi culturali, e la partecipazione in istituzioni internazionali servono tutti a erodere la legittimità dei regimi repressivi» (Jacob Weisberg, giornalista politico statunitense).
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rimasto sí per millenni la fatale soglia della conquista del «Mare Superiore» (il Mediterraneo), ma anche la terra dei mitici cedri, ricercati per costruire templi, manufatti di lusso e navi. E l’ambra scandinava (e non solo), le perle delle ostriche del Golfo Persico, l’avorio d’Africa e India, pelli pregiate o meno dalle regioni artiche e tropicali attirarono per millenni l’attenzione di chi estraeva, trasformava, trasportava e rivendeva beni di lusso di ogni genere. In ultima analisi, tramite i crescenti bisogni umani, questa «anarchia naturale» determinò la formazione di reti di contatti sempre piú ramificate. Tra l’uomo e questa condizione di caleidoscopico disordine, infatti, si trovano due grandi e primordiali sfere di esperienza umana: la tecnologia, che crescendo insieme a noi continua a estremizzare le nostre capacità di sfruttare e trasformare le materie prime; e il commercio, che ci ha consentito di scoprire, trasportare e diffondere in tutto il pianeta queste stesse risorse, e le nozioni tecnologiche che a esse sono strettamente avvinte. Come lapidariamente si espresse l’oratore e politico statunitense Robert Green Ingersoll (1833-1899), «il commercio è il grande civilizzatore; scambiamo idee nel momento in cui scambiamo tessuti».
Interessi potenzialmente «capitalistici» Che il commercio sia stato e sia tuttora un grande equalizzatore geopolitico, appare indubbiamente vero: ma insieme agli scambi, e insieme alle istituzioni e agli accordi che permettono la gestione concordata di traffici e mercati, diamo vita anche a continue violazioni di codici etici e sociali fondamentali, quali la generosità, l’altruismo e il senso del vivere collettivo. Queste infrazioni avvengono nel nome di interessi e attività necessariamente egoistiche come il perseguimento, a ogni costo, del profitto personale, e in prospettiva di interessi
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Un carico di anfore medievali affondato con l’imbarcazione che lo trasportava al largo dell’isola di Büyük Maden, provincia di Balikesir, Turchia.
potenzialmente «capitalistici». Non è forse vero che lo spirito del commercio consiste nell’acquistare a poco e rivendere a molto di piú? Per questo motivo – soprattutto nel caso del commercio a lunga distanza per via di mare – chi al commercio si dedicava in toto era spesso uno straniero o un individuo marginalizzato, il quale non aveva troppo da temere dalle sanzioni sociali che rischiavano di colpire duramente il «mercante disonesto» (aggettivo, questo, facilmente attribuito, quasi per antonomasia, a mercanti di ogni tempo e cultura). Piú semplicemente, si doveva fare i conti con il mercante straniero, perenne elemento di disturbo per la sua autonomia e la sua ricchezza. Vi fu sempre la tendenza – un po’ per reciproca convenienza locazionale, un po’ per sottolineare l’insopprimibile distanza sociale tra la comunità urbanizzata e il ceto mercantile – a chiudere le famiglie dedite a commerci e viaggi nei quartieri ben controllati che circondavano approdi e baie. In queste enclave si installarono famiglie culturalmente ibride, sospettabili di ingerenze straniere; vi si mescolavano lingue, etnie e interessi di ogni genere, spesso con effetti creativi e rivoluzionari. Qui, le ricchezze si muovevano in spazi difficilmente controllabili, e certamente vi nacquero le prime agenzie assicurative, dato che il mercante rischiava grosso, scarsamente protetto al di fuori della sua giurisdizione cittadina e continuamente esposto al continuo rischio di essere rapito, derubato e assassinato, come testimoniano, per esempio, gli archivi di Kanesh e Ugarit. Nelle pagine che seguono, si parlerà di materie prime rare o meno rare, di navigazione e carovane, di commercianti e dell’inesauribile scambio di idee, esperienze e contrasti sociali che il commercio, a ogni scala di attività umana, continua a generare; tenendo sempre bene in mente che ogni scoperta archeologica, e ogni vicenda a essa
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INTRODUZIONE collegata, costituiscono storie autonome, e che generalizzare continua a essere un esercizio molto rischioso.
Un vecchio dibattito Parleremo di teorie sul commercio e sul ruolo che esso ha avuto nelle trasformazioni delle società umane. Le teorie economiche dette «neoclassiche» o «formaliste» sono strettamente collegate all’indagine sul commercio e sulle sue ricadute positive sulle nostre condizioni di vita. Da tale punto di vista, infatti, la scienza economica coinciderebbe con lo studio di strategie volte a ottenere il massimo profitto dalle condizioni di scarsità delle risorse e dei beni da esse estratti. Gli economisti neoclassici si attendono quindi che l’economia sia regolata da gruppi di individui razionali, che agiscono a proprio vantaggio, artefici di un insieme di scelte progettuali – consce o inconsce, fortunate o fallimentari – comunque volte a ottenere nell’arena delle contrattazioni di scambio e di mercato non solo ricchezza, ma anche prestigio, solidarietà o altri valori importanti per il proprio gruppo sociale. A torto o a ragione, questa visione proietta non solo sul mondo antico, ma anche sulle società non industrializzate di interesse etnografico, meccanismi e aspetti ideologici propri del mondo industriale (capitalista) contemporaneo. Nel 1944, quando il sociologo e antropologo d’origine ungherese Karl Polanyi (1886-1964) pubblicò il saggio The Great Transformation (La Grande Trasformazione, tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1974) tracciò un limite netto, in senso storico, tra gli stravolgimenti
Un’immagine del relitto di Uluburun, scoperto 10 km a circa sud-est di Kas, costa della Turchia sud-occidentale. Tardo XIV sec. a.C. Si riconosce una coppa d’oro, intatta, che affiora dal fondale tra altri vasi.
socio-economici causati dall’industrializzazione e dalle politiche imperialiste delle nazioni-stato occidentali e le economie del mondo antico. Polanyi imputò i cambiamenti all’improvviso emergere di una moderna «società mercantile». Le economie precedenti, non-capitaliste e pre-industriali, invece d’essere plasmate da pratiche e interessi commerciali contingenti, sarebbero state dominate da istituzioni che praticavano forme di reciprocità (prestazioni reciproche di servizi e scambi simmetrici di lunga durata) e redistribuzione: la raccolta di scorte di cibo e di altri beni da parte di un forte centro politico, incarnato nella figura di un leader influente, seguita dalla redistribuzione collettiva, in occasione di importanti cerimonie, di quanto raccolto. L’importanza del leader era commisurata all’estensione del reticolo di relazioni personali e politiche che queste cerimonie riuscivano ad attivare. Poiché, secondo Polanyi, nelle società pre-capitaliste queste forme economiche coincidevano strettamente con le relazioni instaurate tra gli individui e la vita reale delle persone, Polanyi applicò alle sue teorie l’etichetta di «sostantiviste». Su questa visione gravava una concezione sostanzialmente negativa dei mercati, come luoghi nei quali le relazioni umane diventano contingenti ed effimere, col risultato finale di creare individui e momenti di vita sempre piú alienati dai valori fondanti del vivere collettivo.
Il ruolo delle istituzioni e della comunicazione In seguito a nuovi scavi e scoperte archeologiche in diverse parti del globo, ad attente riletture dei testi economici mesopotamici, e, soprattutto, a decadi di studio sui testi cuneiformi della colonia antico-assira di Kultepe (l’antica Kanesh, di cui parleremo in seguito), i due punti di vista («formalista» e «sostenibile») non sono piú considerati come una paralizzante dicotomia. Le idee di Polanyi sono state criticate come «romantiche» e sottoposte a revisione, e si sta tornando a una concezione tutto sommato maggiormente modernista dell’antico commercio. Nell’opera Collective Action in the Formation of Pre-Modern States (L’azione collettiva nella formazione degli Stati pre-moderni, 2008), gli antropologi Richard Blanton e Lane Fargher non solo assolvono i mercati dalle colpe a essi prima imputate, ma riconoscono in essi, e nelle economie collegate, l’importante ruolo della costruzione di istituzioni e meccanismi di comunicazione capaci di relazionare gli individui in tutta sicurezza, addestrando, peraltro, le comunità alla contrattazione, alla mediazione e al riconoscimento ufficiale dell’utilità reciproca di tecniche standardizzate di scambio. La trasparenza delle contrattazioni pubbliche, in prospettiva, avrebbe fluidificato gli scambi tramite la standardizzazione dei prezzi, della qualità dei prodotti e delle unità di misura; promosso importanti valori di reciprocità e lealtà; stabilito regole, norme e valori condivisi da tutti; e cosí stimolato la crescita della fiducia tra mercanti e consumatori (idee già ampiamente prefigurate, del resto, in diversi scritti di Polanyi). In fondo, non può essere del tutto casuale che il piú universalmente noto simbolo di equità e giustizia sia una comune bilancia da negozio! Inoltre, tali mercati
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INTRODUZIONE avrebbero incoraggiato l’intervento di intermediari super partes (valutatori dei beni, ispettori neutrali e garanti), i quali, svolgendo (allo scopo di diminuire i rischi) ruoli comparabili a quelli di agenzie di controllo di qualità e persino di agenti assicurativi, avrebbero aumentato in modo significativo la complessità dell’intero sistema economico. Tutto ciò si sarebbe verificato e varrebbe, in particolare, nelle zone di mercato libero sorte in aree marginali di confine tra nazioni, etnie o Stati territoriali diversi. Solitamente posti sotto la protezione simbolica di potenti divinità o di prestigiosi antenati, a volte sovrastati da possenti immagini megalitiche, tali spazi di mercato sacralizzati precludevano l’uso delle armi e permettevano a genti diverse di scambiare beni e servizi essenziali senza rischiare, una volta tanto, la vita.
L’inizio di un’età moderna In un saggio dedicato al ruolo del commercio antico nella promozione degli scambi culturali e nella costruzione delle società complesse (Trade and Civilisation, 2018), l’archeologo Kristian Kristiansen ha scritto che «Con il sorgere delle civiltà dell’età del Bronzo in Mesopotamia e in Egitto, a partire dal 3000 a.C., ha inizio, almeno in parte, una prima età moderna. È da questo momento in poi che possono essere
Un grande filosofo contro gli scambi mercantili
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e idee di Aristotele sul giusto prezzo dei beni e sull’economia urbana in generale compaiono nel Libro V dell’Etica Nicomachea e nel Libro I della Politica. L’essenza del suo pensiero in proposito può apparire molto semplice: le attività mercantili e il perseguimento dell’umana virtú sono incompatibili, in quanto le prime generano una continua ansietà sulle prospettive di vita della famiglia, e tendono a dissolvere le relazioni di amicizia e cittadinanza all’interno della polis. Un pensiero, quello del grande filosofo, chiaramente «sostantivista»: dopo tutto, non è forse esperienza comune a tutti che affari condotti in famiglia oppure con amici personali sono spesso destinati a generare cocenti delusioni? In realtà, le valutazioni di Aristotele sono ben piú articolate e complesse e non sempre del tutto chiare; tuttavia, esse dipendono da un’accurata
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considerazione del concetto di acquisizione dei beni materiali. Per il filosofo, come la medicina persegue la salute del singolo, cosí lo scopo dell’acquisizione dei beni materiali è il benessere economico del nucleo domestico. Tuttavia, esistono un’acquisizione naturale e una innaturale. La seconda accumula beni in eccesso, allontanando il capofamiglia dall’etica della polis e dalla partecipazione alle attività collettive, mentre la prima (bilanciata, senza elevata accumulazione) lo salda alla partecipazione della vita cittadina. L’acquisizione piú naturale avviene attraverso l’agricoltura, seguita da quella proveniente dallo sfruttamento delle miniere. Un naturale modo di acquisizione è lo scambio tramite baratto che si svolge tra nuclei familiari. Aristotele si rivela piú sospettoso nei confronti del commercio con l’estero: qui si deve distinguere tra gli
Nella pagina accanto: coppa di produzione laconica raffigurante il re Archesilao II di Cirene che sovrintende alla pesatura di carichi di silfio (una pianta del genere Ferula, famiglia Apiaceae) ampiamente usata nel mondo antico in cucina e come medicina, da Vulci. 565-560 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Cabinet des Medailles. In basso: busto in marmo di Aristotele (384-322 a.C.), opera romana del II sec. d.C. Firenze, Gallerie degli Uffizi.
identificate le piú importanti tecnologie e istituzioni che sarebbero continuate, espandendosi, sino al punto di rottura della moderna età industriale». Ciò non significa che un funzionario di corte faraonica, o il proprietario di un naviglio dell’antica Creta, abbiano concepito il proprio mestiere, o le proprie prospettive di carriera e di vita, alla stregua del consulente di un’odierna compagnia telefonica. Tuttavia, è innegabile che visioni troppo primitiviste, in parte implicite nella visione di Karl Polanyi e di altri, ci impedirebbero di cogliere, anche se in nuce, idee, progetti, pratiche manageriali vecchi di 5000 anni, ma che ci appaiono oggi fortemente connaturati a quanto avviene, giorno dopo giorno, in una banca, in una compagnia assicurativa o su una piazza del mercato azionario. Il commercio, e per esso i grandi spazi aperti di valli, cime montuose e deserti, ma soprattutto la navigazione devono aver sempre fornito alternative di vita a coloro che trovavano limitativi gli spazi psicologici e materiali della vita nelle prime grandi città. Teniamo sempre presente, addentrandoci nelle pagine che seguono, che, in archeologia, il caso e la conservazione delle testimonianze materiali della storia la fanno da padroni: intere teorie faticosamente costruite su pochi dati possono evaporare in un attimo di fronte a un’unica subitanea scoperta, cambiando ogni prospettiva. Alla luce di questa endemica discontinuità, le narrazioni che seguono, organizzate in successione cronologica, sono pensate come altrettante finestre aperte su specifici aspetti del commercio nel mondo antico.
scambi necessari alla vita della polis e gli sviluppi commerciali richiesti da regimi politici diversi, questi ultimi bollati – ovviamente – come innaturali. Infine, i sistemi di vendita al dettaglio, basati notoriamente sull’acquistare a poco e rivendere a prezzi superiori tramite intermediari – come il prestito di denaro con interesse – sono vigorosamente condannati come del tutto innaturali. Simili pratiche portano con sé la necessità e l’ansia di incrementare continuamente l’acquisizione, con gravi e contagiosi effetti: il capofamiglia convincerà altri cittadini a investire le proprie risorse in progetti commerciali e militari, per dare sicurezza e impulso ai nuovi modi di acquisire la ricchezza; e un numero crescente di nuclei familiari minaccerà in tal modo di corrompere l’intera città.
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DONI, BARATTI E ALTRE STORIE Immense pire sulle quali si bruciavano beni d’ogni tipo, scambi basati su equivalenze fra materie prime di natura fra loro diversa, transazioni effettuate «a distanza»: la storia e l’etnografia rivelano la sorprendente gamma delle procedure messe a punto dall’uomo prima di giungere al commercio vero e proprio | ANTICHI COMMERCI | 16 |
Persepoli (Iran). Particolare dei rilievi della scala est dell’Apadana (sala delle udienze) raffigurante inviati di Lidia che portano prestigiosi doni al trono imperiale. Molto probabilmente opera di scultori greci, fine del VI-inizi del V sec. a.C.
LE FORME DELLO SCAMBIO
U
na forma di scambio di portata tanto generale quanto asimmetrica è certamente il tributo, vale a dire l’esborso di materiali, servizi o semplicemente lavoro da parte di una periferia sociale verso il suo centro politico. Ma lo scambio dei beni in un corpo sociale non comporta inevitabilmente la cessione bilaterale permanente di un diritto di proprietà. Nelle società non industrializzate, i beni (di qualsiasi tipo, ma soprattutto quelli alimentari) vengono frequentemente condivisi su base volontaria, ottenendo in cambio il prestigio acquisito presso i propri pari. Diverse istituzioni (oggi diremmo «piattaforme») garantiscono l’efficienza e/o la copertura di prestiti, oppure
di prestazioni volontarie di lavoro, indispensabili all’interesse collettivo. Esiste poi una celebre «economia del dono» o «cultura del dono»: tecnicamente, un modo di scambio nel quale i beni di valore non vengono venduti o alienati, ma ceduti volontariamente ad altri o consumati pubblicamente in assenza di accordi espliciti che prevedano un’immediata retribuzione valutabile in termini strettamente economici. Per esempio, quando i piú potenti sovrani vicino-orientali del II millennio a.C. formavano una sorta di pretesa «fratellanza internazionale», formalmente cementata da matrimoni dinastici e dall’uso della lingua accadica, i doni erano una componente essenziale della politica. Alleanze e accordi tra case reali – tanto piú vantati e
In basso Tebe, tomba di Rekhmire (TT100). Particolare di una delle pitture raffigurante inviati stranieri che portano animali e altre offerte al cospetto del faraone. XVIII dinastia, 1479-1398 a.C.
A destra, sulle due pagine Kish, Tell al-Uhaymir, (Iraq). Resti della ziggurat di età neobabilonese (VI sec. a.C.). Il gregge evoca il dodicesimo re di Kish, Etana, ricordato come «il pastore, che salí al cielo».
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dichiarati, a quanto sembra, quanto piú distavano le rispettive frontiere – prevedevano costanti richieste ed elargizioni di carri, cavalli, stoffe, partite di rame, oggetti d’oro e soprattutto d’argento.
Nozze da... nababbi! Le doti matrimoniali erano senza dubbio un altro aspetto strategico di questi scambi: una
principessa di Ebla (città dell’antica Siria) mandata in sposa a un principe di Kish, in Mesopotamia, portò con sé – oltre a gioielli, tessuti e preziosi oggetti personali – 3290 buoi, 1680 pecore, 159 muli, un asino, cinque maiali, 19 bisonti e 14 orsi. Ingenti doni matrimoniali viaggiavano anche in senso contrario: la lista dei beni donati da Akhenaton al re di Babilonia, in seguito al matrimonio del
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LE FORME DELLO SCAMBIO
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Danzatori kwakiutl a un potlatch (festa di redistribuzione collettiva), in una foto scattata il 5 settembre 1914 in un insediamento temporaneo nella Columbia Britannica, Canada. Il capo, in piedi a sinistra, senza maschera, impugna il bastone cerimoniale dell’oratore. Sullo sfondo, tre pali totemici con figure di antenati e altre creature mitiche.
faraone con sua figlia, comprendeva ben 1200 mine di oggetti d’oro (una mina corrispondeva a 500 gr; il valore odierno si aggirerebbe sui 23 milioni di euro). L’oro fu donato in forma di gioielli, vasi, scatole, coltelli. Era stato inoltre applicato su tre statue, su troni, mobili e carri e persino su imbarcazioni (smontate) di varia taglia. Vi erano poi 130 oggetti d’argento, per un peso totale di 292 mine e 3 sicli; e 300 oggetti di bronzo, tra i quali 170 specchi, 73 rasoi e 92 cucchiai. La lista era completata da quasi 1100 capi di tessuto pregiato, piú di 1000 vasi in pietra contenenti olio pregiato, e circa 500 oggetti in avorio. È facile intuire come simili cessioni di tesori, oltre al valore esibito e propagandato del dono personale tra sovrani, rappresentassero un importante trasferimento di capitale da un regno all’altro. Passando a realtà etnografiche ben piú recenti, esempi classici di circolazione istituzionalizzata della ricchezza in forma di doni, e della sua manipolazione intensiva a scopi politici, sono i circuiti cerimoniali denominati potlatch delle tribú nordamericane della costa nord-orientale del Nuovo Mondo (intorno all’isola di Vancouver, all’odierno confine statunitensecanadese) e quelli noti col nome di kula, studiato nelle isole Trobriand (oggi Isole Kiriwina), a nord-est della costa della Nuova Guinea. Nel potlatch – praticato dai gruppi Haida, Tlinglit, Kwakiutl, Tshimshian, Nootka e altri –, i capi clan, convenuti in grandi assembramenti temporanei di case cerimoniali, si sfidavano gli uni con gli altri nella distruzione pubblica e ritualizzata di beni materiali, per contendersi il prestigio e la supremazia politica nella comunità. Un capo sfidato con tali esibizioni era tenuto a ricambiare la sfida, organizzando un evento distruttivo di portata ancora maggiore. Nelle cerimonie si consumavano carne di foca e di salmone, e si gettavano in grandi focolari centinaia di litri di olio di pesce; i rivali invitati erano tenuti a non allontanarsi dalle fiammate, perché in questo caso avrebbero involontariamente riconosciuto la supremazia economica dell’ospite.
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LE FORME DELLO SCAMBIO
Altre forme di consumo erano la scultura di enormi pali totemici, che riassumevano la genealogia e le imprese di mitici antenati animali, e la distribuzione di grandi quantità di coperte di lana di capra selvatica, che venivano equiparate al valore di una serie di curiose piastre di rame, anch’esse coperte di icone totemiche, che cosí gradualmente assumevano il ruolo di «banconote» scambiabili sulla base di un valore continuamente accresciuto. Il culmine delle cerimonie a volte consisteva nella rottura ritualizzata della piastra di rame che alla fine veniva scagliata in mare pezzo per pezzo. Nel XIX secolo, quando gli etnografi occidentali iniziarono a descrivere i potlatch (destinati a essere ben presto vietati dalle autorità statali), le cerimonie e la loro portata economica erano già parzialmente inflazionate dal contatto con le industrie russe e nordamericane: dagli scafi dei navigli naufragati gli indigeni ottenevano a costo quasi nullo grandi lastre di rame, con le quali fabbricare le tradizionali piastre, prima ottenute con lavoro indicibilmente lungo e faticoso da rari noduletti di rame nativo. Mentre le coperte di lana, prima tessute a mano, erano fornite a basso costo da interessati commercianti stranieri in cambio di preziose pellicce. Il kula coinvolgeva in un unico percorso circolare in senso orario, oltre alle isole Trobriand, le isole d’Entrecasteaux, Dobu e Amphlett. Vi si partecipava imbarcandosi su piroghe, in viaggi di centinaia di chilometri. Lo scopo era quello di scambiare temporaneamente ornamenti con i leader delle comunità insulari vicine: collane di ornamenti fatti di ostriche rosse (soulava), viaggiavano verso nord, ottenendo in cambio braccialetti di conchiglia bianca (mwali), che venivano portati in direzione sud. Al di là del prestigio sociale, agli ornamenti si attribuivano magici poteri di controllo sul mondo oceanico. Preparativi, viaggi e scambi erano regolati da precise norme sociali e morali e appositi rituali; i viaggi fornivano anche l’occasione per
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Villaggio di Gitanmaks, Columbia Britannica, Canada. Particolare del palo scolpito del capo Git-Dum-Kuldoah, originariamente eretto davanti alla casa dei potlatch. Cultura Tsimshian, prima metà del XX sec.
scambiare informazioni e per qualche transazione commerciale suppletiva. Risultato di prestigio ultimo era l’essere accettati come partner da un importante gruppo familiare, allargando cosí il network di alleanze e possibili collaborazioni del proprio.
Valori condivisi Il baratto non ha nulla a che vedere con l’economia dei doni, in quanto prevede lo scambio di un oggetto contro un altro considerato di valore analogo; il che postula un sistema di valutazione piú o meno esplicito e condiviso del valore di una cosa, potenzialmente estraneo alle complesse
Acconciatura cerimoniale per il potlatch con volto umano circondato da una doppia fila di maschere minori e ornamenti in conchiglia; la parte superiore è realizzata con baffi di leone marino, piume e code di ermellino, dalla Columbia Britannica, Canada. Toronto, Royal Ontario Museum.
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LE FORME DELLO SCAMBIO
costruzioni e intricati obblighi sociali dei casi precedenti. Questa prassi è stata per millenni alla base delle economie umane prima dell’avvento di monete metalliche, distinte da lega, forma e peso standardizzati. Nel Vicino Oriente antico di 5000-4000 anni fa, la tendenza a rapportare i valori di cose e merci a quantità standardizzate di pochi beni Un caravanserraglio (Robat-i Zeid ad-Din Han) presso Yazd, Iran. XVII-XVIII sec. d.C. In questa struttura murata dodecagonale, le nicchie custodivano uomini e merci delle carovane che transitavano nelle rotte terminali della Via della Seta; gli animali erano al sicuro nel cortile centrale.
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pregiati, o di universale e immediata utilità, conviveva con l’uso di svariati sistemi di conteggio, calcolo frazionale, misurazione lineare e ponderale, che variavano fortemente da cosa a cosa. In altre parole, animali vivi e morti, tessuti, metalli, pietre, diversi tipi di birra, e contenitori di beni differenti venivano contati, registrati, sommati e utilizzando, di
caso in caso, sistemi decimali, sessagesimali (cioè basati sul numero 6 e sui suoi multipli) oppure misti (dal momento che gli animali e i carichi di beni venivano regolarmente suddivisi in parti e frazioni, e altrettanto non si faceva per gli individui, i nomi e gli attributi di questi ultimi sono in genere facilmente riconoscibili). Inoltre, tutto questo variava
fortemente da cittĂ a cittĂ . Ancora intorno al 1300 a.C., i mercanti che persero imbarcazione, ricchezze e forse la vita a Uluburun (vedi oltre, alle pp. 97-103) andavano di scalo in scalo con circa 150 pesi, appartenenti a 9 diversi sistemi ponderali, e con tre diverse bilance a due piatti. La strada verso la semplificazione dei sistemi
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LE FORME DELLO SCAMBIO
di conto e amministrativi propria del mondo moderno era ancora lunga. Eppure, sopravvivono ambiti economici specializzati (come la proprietà delle barche, oppure il calcolo del peso dell’oro e dei diamanti) che usano sistemi e unità di misurazione totalmente diversi da quelli usati per altre categorie di beni. Infatti, come è possibile riconoscere in alcune antiche pratiche di scambio i semi di sviluppi e invenzioni essenziali nella nostra economia, cosí non è difficile identificare nei nostri stessi comportamenti sopravvivenze e adattamenti di prassi basate sull’utile collettivo e la reciprocità, che hanno radici antichissime.
Tutti sanno, per esempio, che il problema della simmetria degli scambi e dei doni si pone in occasione delle festività familiari e, soprattutto, delle... temibili feste di compleanno dei piú piccoli. E chi, come lo scrivente, si è servito degli uffici postali italiani degli anni Sessanta e Settanta, dove ancora si usava stampare chiusure di piombo su cordicelle con «sigilli» in acciaio, ha potuto sperimentare aspetti tipici dell’amministrazione... dell’età del Bronzo!
In basso Il mercato dei cammelli al Cairo, olio su tela di Leopold Carl Müller. 1889. Linz, Oberösterreichisches Landesmuseum. Müller si recò piú volte in Egitto, specializzandosi in scene di carattere orientalista tratte dalla vita popolare.
Un nuovo marketing tribale Piú seriamente, il baratto riaffiora, con tutta la sua portata sociale, nelle cosiddette «banche
Transazioni silenziose: le testimonianze di Erodoto e Ibn Battuta
L
a letteratura specializzata menziona forme di baratto di tipo jahili, nome dato a contrattazioni (molto mal conosciute) che escludevano i messaggi verbali, praticate nella penisola arabica prima di Maometto. Queste transazioni, note soltanto perché furono condannate come obsolete nella letteratura giuridica islamica a causa della loro potenziale ambiguità, si svolgevano per mezzo di contatti
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manuali (anche al buio, cioè sotto tessuti), oppure mediante il lancio di dadi e pietruzze, per cui erano ufficialmente considerate come disdicevoli tipi di gioco d’azzardo dai potenti mercanti arabi. Di forme di baratti silenziosi (silent trade), addirittura in assenza di interazioni faccia a faccia tra le due parti, hanno parlato grandi geografi del mondo antico come Erodoto (V secolo a.C.) e Ibn Battuta (XIV secolo d.C.).
In basso statere d’oro cartaginese con testa (recto) e cavallo (verso). IV sec. a.C. Londra, British Museum. Cartagine importava grandi quantità di polvere d’oro che giungevano allo scalo mediterraneo attraverso le rotte trans-sahariane.
del tempo», accordi interfamiliari nell’ambito dei quali si scambiano, a titolo gratuito, servizi specializzati (per esempio, collaborazioni lavorative, assistenza o didattica scolare). Internet ha reso possibile la creazione di piattaforme digitali grazie alle quali si possono offrire in vendita gli oggetti che tutti abbiamo in casa o in cantina e che non utilizziamo, ma che possono essere ambiti e magari collezionati da altre persone; lo scambio, in questo caso, viene regolato da equivalenze in monete o crediti virtuali che vengono stabiliti dalla piattaforma, lasciando, tuttavia, a chi cede l’oggetto dei margini contrattuali per innalzare o diminuire il valore
Erodoto scrive di Cartaginesi che si spingevano nella Lybie oltre le Colonne d’Ercole per ottenere oro dalle popolazioni locali: «Quando i Cartaginesi arrivano da loro, scaricano le merci, le allineano sulla spiaggia, salgono sulle navi e fanno segnali di fumo; i locali, visto il fumo, si recano sul litorale. Deposta una certa quantità di oro in cambio delle merci, si ritirano da parte. Allora i Cartaginesi sbarcano e valutano l’offerta. Se l’oro corrisponde al valore delle merci, lo accettano e se ne vanno; altrimenti, ritornano sulle navi. Allora gli indigeni si accostano e aggiungono altro oro, finché i Cartaginesi sono soddisfatti. Nessuno si comporta slealmente; né i Cartaginesi toccano l’oro prima che gli indigeni lo abbiano aggiustato al valore delle merci, né gli indigeni toccano le merci prima che il quantitativo d’oro sia stato accettato dai Cartaginesi» (Storie, IV, 196, 1-3). Ibn Battuta descrive esattamente allo stesso modo i medesimi meccanismi di scambio remoto (questa volta, merci contro pelli animali), nell’ambientazione delle sponde del Volga. Alvise da Ca’ da Mosto, un agente portoghese di origini veneziane, ebbe modo di osservare una pratica del tutto simile in Mali (XV secolo d.C.). Nei commerci a lunga distanza che
presunto, secondo una data percentuale. Siamo entrati nell’epoca di un nuovo marketing tribale, basato su communities di piccolamedia scala? Nell’ossessione per like e follower che permea i social media, possiamo individuare qualcosa di simile agli sforzi aggregativi praticati dagli adepti dei circuiti kula. Con l’organizzazione di gruppi di acquisto (che oggi gli economisti chiamerebbero «pratica commerciale intra-gruppo»), ma anche, per esempio, attraverso le odierne forme di car sharing, le collettività urbane intervengono attivamente a modificare a proprio vantaggio alcune strutture elementari della distribuzione mercantile.
avvenivano mediante trasbordi, da una barca o da una carovana all’altra, simili tecniche potevano permettere gli scambi tra popolazioni che non parlavano la stessa lingua, e che non possedevano sistemi di comunicazione ibridi. Curiosamente, il dispositivo «istituzionale» che regolava questo tipo di scambi sembra avere avuto lo scopo di limitare, piuttosto che incentivare e gestire, l’interazione tra comunità diverse. È probabile che resoconti del genere esprimano anche topoi letterari dell’esotico e dell’incredibile. Ibn Battuta, per esempio, scrive che «Coloro che partecipano non sanno se stanno commerciando con jinn (spiriti) o uomini». E in ultima analisi, nel caso dei Cartaginesi, dato il valore del metallo, viene da chiedersi che cosa impedisse ai navigatori levantini, o a chi per loro si spacciasse, di intascare l’oro, tenersi strette le merci e prendere il largo. Tutto doveva basarsi su una sorprendente fiducia a controllo remoto, che non necessitava neanche di una stretta di mano, cosa tutto sommato impensabile anche nelle moderne transazioni. Tuttavia, valide informazioni e non pochi indizi suggeriscono che il baratto silenzioso fu effettivamente praticato in epoche diverse, e da disparate società del globo.
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Particolare della cuffia decorata da conchiglie marine del Principe, sepolto nella Caverna delle Arene Candide (Liguria). 22.000 a.C. circa. Finale Ligure Borgo, Museo Archeologico del Finale. Il corredo, ricostruito nell’originaria giacitura (vedi disegno alla pagina accanto), oltre alla cuffia di conchiglie comprendeva altri ornamenti e bracciali in conchiglia e in avorio di mammut, una grande lama in selce e quattro pale di palco di alce, forate e decorate, probabili insegne di potere.
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TUTTI PAZZI PER LE PERLE 30 000 anni fa, i capi delle bande di cacciatori del Paleolitico Superiore furono i primi a volersi distinguere dai propri compagni, indossando capi di vestiario e ornamenti fatti di migliaia di perline in conchiglia e osso. L’esclusività del vestiario e delle acconciature stimolò i traffici di queste materie prime rare ed esotiche, arricchendo l’economia e favorendo gli scambi di informazioni e culture | ANTICHI COMMERCI | 29 |
I PRIMI MERCANTI
Q
uanto antico è l’Homo negotians (l’«uomo mercante»)? «Forse non piú di 130 000 anni», risponde Francesco d’Errico, lo studioso italiano che piú di ogni altro ha potuto studiare di persona gli ornamenti personali piú antichi sinora noti. Si tratta di gruppi di conchiglie intenzionalmente perforate, spesso macchiate di ocra rossa, che compaiono in varie parti del globo nelle fasi centrali del Paleolitico Medio. Le conchiglie appartengono al genere Nassarius, le nasse o lumachine di mare, comuni nei bassi fondali sabbiosi del Mar Mediterraneo e che spesso si vedono impiegate negli acquari come spazzini, a pulirne, con il loro lento incedere, le pareti interne. In alcuni casi, le conchiglie perforate risultano aver viaggiato sino a 200 km dalle presunte località di estrazione. Il record dell’antichità (o, se volete, della vanità) appartiene ancora al Vicino Oriente; ai frequentatori della grotta di Skhul, in Israele, i quali, tra i 135 000 e i 100 000 anni fa vi persero pezzi dei propri ornamenti. Seguono i Neandertaliani della Cueva de los Aviones, in Spagna (120 000 anni fa) e, tra i 120 000 e i 60 000 anni fa, le popolazioni della costa nord dell’Africa Settentrionale e del Marocco (siti di Taforalt, Ifri n’Aammar, Contrabandier, Rhafas, L’Mnastra); buoni ultimi sono i cacciatori-raccoglitori sudafricani (tra i 75 000 e i 60 000 anni fa, nelle grotte di Blombos, Sibudu e di Klasies River). Nello stesso arco di tempo, in Europa tipi di selce pregiata viaggiavano su distanze superiori ai 200 km. Da allora, le industrie e il commercio di ornamenti personali e materiali pregiati si svilupparono senza sosta, allargando estrazione, manifattura e commercio a un raggio sempre piú vasto di risorse minerali (pigmenti rossi, violacei, gialli e neri per pittura sul corpo e su roccia, ossa e denti animali, artigli di uccello, forse piume). Possiamo immaginare un quadro di graduale aumento demografico; quindi a gruppi di cacciatori-raccoglitori che si specializzano nello sfruttamento di risorse locali, disponibili in
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AVORIO A PROFUSIONE
Restituzione grafica (a sinistra) e ricostruzione ipotetica di una sepoltura da Sungir (Russia), che conservava gli scheletri di un ragazzo e di una ragazza, deposti testa contro testa in mezzo a numerose lance o scettri in avorio. I defunti erano vestiti, verosimilmente, con pellicce, ricoperte di migliaia di perline in avorio e di alcune decorazioni. Vladimir, Museo Nazionale.
Restituzione grafica (a sinistra) e ricostruzione ipotetica di un’altra sepoltura, maschile, da Sungir (Russia). Gli abiti del defunto erano ricoperti di migliaia di perline di avorio. Vladimir, Museo Nazionale.
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Tutto ebbe inizio 2 milioni d’anni fa
I PRIMI MERCANTI
Cronologia Forme umane Evoluzione in anni dal Periodi archeologici delle industrie presente litiche
2 000 000
PALEOLITICO INFERIORE
Homo ergaster/erectus Prime amigdale in Africa e Asia in Africa
1 500 000
Homo antecessor Homo heidelbergensis in Europa
Amigdale in Africa, Europa e in parte dell’Asia
Conchiglia incisa a Trinil; prime perline ad Abbeville (?) Venere di Tan Tan (?)
Ocra in Africa e a Nizza (Francia)
400 000 350 000
Homo heidelbergensis/ Industrie dette neanderthalensis musteriane in Europa
Ossa animali decorate a Bilzingsleben
170 00080 000
PALEOLITICO MEDIO
Circoli di stalattiti, Grotta di Bruniquel Invenzione dei vestiti
150 000130 000 130 000 100 000 80 00070 000
Homo neanderthalensis in Europa
40 000
PALEOLITICO SUPERIORE
20 00018 000 18 00010 000 12 50011 500
Forme umane moderne in Eurasia e in Australia
Perline di conchiglia in Marocco, Tunisia, Sud Africa Perline di conchiglia a Skhul (Israele) Pigmenti colorati a Peche de l’Azé
Industrie su lama in Sri Lanka e in Sudafrica
50 00045 000
35 00020 000
Prime industrie su lama in Africa e in Medio Oriente
Forme umane moderne out of Africa (?) Homo neanderthalensis in Europa
60 000
40 000
Industrie ceramiche
Choppers e schegge
1 800 000
500 000
Ornamentazione e arte
Lastre di ocra incise a Blombos (Sudafrica) Cuppelle su lastra di roccia a La Ferrasie Contenitori in uova di struzzo decorate a Diepkloof (Sudafrica) Prime pitture in grotte spagnole Perline di uova di struzzo a Border Cave (Sudafrica), e a Mumba (Tanzania)
Industrie su lama in Europa
Prime pitture rupestri in Australia
Aurignaziano
Arte rupestre in Indonesia. Artigli e piume come ornamenti a Fumane (Italia). Bracciale in clorite levigato a Denisova (Russia)
Gravettiano
Esplosione dell’arte parietale e mobiliare in Europa e in Russia. Statuette delle Veneri. Vesti colorate con fibre ritorte e intrecciate (Georgia, Moravia, Francia)
Figurine ceramiche e fornaci in Moravia. Primi vasi ceramici in Cina meridionale
Grandi punte foliate in selce
Apogeo della pittura parietale in grotta
Microliti geometrici
Arte natufiana (Levante) Complessi megalitici di Göbekli Tepe (Turchia)
Ripetute invenzioni della ceramica dal Giappone alla Siberia e alle sponde dell’Adriatico
Solutreano Maddaleniano MESOLITICO
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alcuni ecosistemi e non in altri, e che iniziano a scambiare i propri «ornamenti esclusivi» e pregiate varietà di selce con altri prodotti, al di fuori della propria portata geografica. Non si pensi solo a vezzi e collanine: scambiarsi beni di prestigio in occasioni particolari e ricorrenti permetteva ai diversi gruppi di trasmettere informazioni e di discutere in modo pacifico di contrasti di vario ordine, con effetti benefici sulla gestione concordata delle risorse territoriali. Inoltre, poiché dipendono da scelte estetiche molto specifiche, gli ornamenti registrano e trasmettono informazioni su quanti li producono, indossano e scambiano. E da una funzione si passa a un’altra: «Il concetto di esattazione culturale – scrive Francesco d’Errico – si riferisce al riuso di
In alto particolari dei fori praticati sull’orlo di conchiglie di Nassarius kraussianus, con lo strumento presumibilmente usato nella perforazione, dalla Grotta di Blombos (Blombos Cave), Sudafrica. 76 000 a.C. circa. A sinistra e in basso residui di ocra rossa custoditi all’interno di una valva madreperlacea di abalone, anch’essi dalla Grotta di Blombos, Sudafrica. 76 000 a.C. circa.
elementi culturali per nuovi e inaspettati propositi. Il ri-uso neurale culturale si riferisce a casi nei quali l’esposizione a nuove pratiche culturali induce la formazione, l’attivazione, e la stabilizzazione di nuovi reticoli cerebrali (funzionali o strutturali) nell’arco di vita di un individuo». Insomma, al di là della terminologia specialistica, il crescente uso e scambio di ornamenti, secondo queste recenti linee di ricerche, avrebbe addirittura influenzato e modificato alcuni aspetti essenziali della mente umana: il piú antico commercio preistorico potrebbe essere responsabile di alcuni tratti fondamentali della nostra successiva evoluzione.
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I PRIMI MERCANTI
LE PRIME SPECIE DOMESTICATE La diversità nella distribuzione delle specie vegetali e animali innescò processi di adattamento locale e diffusione a lunga distanza, che fornirono indirettamente il razionale economico per l’intensificazione dei traffici ad ampio raggio.
Nord America Carciofo Mirtillo
I diecimila anni che vanno dai 32 000 ai 22 000 anni fa, oltre alla graduale scomparsa dei tipi fisici neandertaliani e all’affermazione planetaria delle moderne forme umane, videro un’ulteriore affermazione dell’ornamentazione e di tutto quanto in essa era implicata, compresi gli scambi a media-lunga distanza. Sepolture sontuose come quelle di Sungir in Russia (36-34 000 anni fa circa: piú di 13 000 perline in avorio e osso, vesti, ocra rossa, aste di avorio di elefante; vedi disegni alle pp. 32-33) o delle Arene Candide in Liguria (23 000 anni fa circa: strato di ocra rossa, copricapo di Nassarius, altri ornamenti di conchiglia, ossa animali, corna di cervo lavorate e un manufatto in selce; vedi foto e disegno alle pp. 30-31) mostrano come il trasporto e la cessione di materiali rari si fossero ormai saldamente legati all’esigenza di rappresentare il predominio sociale e politico (altre sepolture, a Sungir, erano del tutto prive di ornamenti). Ai tempi del Mesolitico europeo (tra l’8000 e il
Girasole Tabacco
Mesoamerica Fagiolo Peperoncino Cotone Mais Manioca
Patata dolce Taro Cane Tacchino
Altopiano Andino Papaya Patata Zucca Pomodoro
Porcellino d’India Alpaca Lama
Brasile orientale Fagiolo Noce brasiliana Cacao Arachide
Caverna del Pettirosso
Caldeirao
Baume Fontbrégoua Abri Pendimoun ? Peiro-Signado Chateaneuf les Martigues Draga
Jamina Sredi
Pena Agua Cabranosa
Covina
Smilcic Zelena Pecina Crvena Stijena
Basi
?
?
Cova de l’Or Cendres Cova del la Sarsa Carigüeta
Ananas Taro Tabacco
? Sidari
El Khril
Yarimburgaz Ilipinar
Otzaki Magoulitsa
Cheirospilia
?
Mersin
Tarsus Ras Shamra
Levante
Regione adriatica occidentale
Marmara
Calabria e Sicilia (Stentinello)
Tessaglia (Magoulitsa)
Regione tirrenica e atlantica (Cardiale)
Epiro e isole Ionie (Sidari)
Africa del Nord
Regione adriatica orientale (Smilcic)
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Byblos
Mar Mediterraneo
Asia sud-occidentale Fagiolo Pisello Orzo
Grano Rapa Carota
Alberi da frutto Vite Canapa
Melone Cipolla Avena
Segale Palma da dattero Pecore e capre
Bovini Maiale Cavallo
Cammello battriano (a due gobbe)
Bacino mediterraneo Orzo Bovini Sedano Dattero Aglio
Capre Uva Lenticchia Lattuga Olivo
Cina settentrionale e centrale Orzo Grano saraceno Albicocco Pesco
Africa Occidentale Marantacee (fecola) Zucca Melone Miglio Palma da olio Riso Igname Maiale
Nella pagina accanto, in basso le principali rotte di diffusione di migranti ed economie neolitiche basate su agricoltura e allevamento lungo le coste del Mediterraneo, dall’VIII mill. a.C. in poi.
Africa Orientale Orzo Caffè Cotone Miglio Gombo (Okra) Sorgo Grano Asino Dromedario
5000 a.C. circa) d’Errico e i suoi collaboratori hanno contato una cinquantina di diverse culture archeologiche, testimoniate da piú di 1000 siti, nei quali circolavano almeno 224 tipi diversi di perline. Analizzando con particolari software la cronologia e la diffusione degli ornamenti, gli studiosi si sono resi conto che i cacciatori-raccoglitori europei manifestarono a lungo la propria identità culturale continuando a portare accessori personali ben diversi da quelli delle popolazioni che stavano abbracciando il nuovo modo di vita agricolo,
Cavolo Soia Pruno
Asia meridionale e sud-orientale Riso Banano Albero del Pane Cetriolo Cocomero Noce di cocco Melanzana Canapa Cotone Lattuga
Lenticchia Taro Te Igname Gallina Cane Anatre e oche Maiale Zebú Bufalo
sotto la spinta di flussi migratori e di scambi e contatti culturali con gruppi provenienti dall’Oriente. Alla fine, le «dighe estetiche» cosí tracciate in materia di vestiario e ornamentazione cedettero, grazie a una generale globalizzazione estetica e semantica. Nuove prestigiose mode, e nuove attività e articoli di scambio, si delineavano alla soglia dei primi grandi insediamenti sedentarizzati, alla luce di un’ulteriore straordinaria innovazione: l’introduzione della metallurgia. (segue a p. 38)
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I PRIMI MERCANTI
Il tesoro piú antico del mondo
L’
oro, elemento chimico «extraplanetario» o se volete alieno (formato com’è, nello spazio, da collassi stellari di indicibile potenza) entra negli scenari archeologici tra il VI e il V millennio a.C., con un impatto straordinario e un po’ insidioso sull’evoluzione delle società ed economie umane. Uno degli elementi piú rari al mondo (nella crosta terrestre è mediamente presente in ragione di 0,03 g per tonnellata) questo metallo – passata la breve stagione, in età neolitica, della raccolta in superficie – da tempo richiede enormi sforzi estrattivi, con tecniche sostanzialmente identiche, giungendo cosí a rappresentare un equivalente immediato del lavoro umano. Inconfondibile nella sua esclusività, fu scelto per rappresentare il potere delle prime élite di società che si facevano, passo dopo passo, sempre piú diseguali. Molto malleabile e duttile, riconvertibile per fusione con perdite ridotte, facilmente divisibile in parti anche minime, l’oro accompagnò i suoi significati simbolici affiancando il piú comune argento nella funzione premonetale di medium di scambi di lusso. Per l’archeologia mondiale, la preistoria dell’oro comincia dalla località di Varna, in Bulgaria, sulla sponda occidentale del Mar Nero. Quella di Varna è una delle molte culture calcolitiche (o dell’età del Rame: 4600-4200 a.C. circa) di coltivatori-allevatori dell’Europa centro-orientale. Ma si distingue dal quadro generale per una straordinaria necropoli. Vi furono scavate 312 sepolture, alcune delle quali cenotafi (tombe senza resti
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In alto ornamenti, monili e insegne di potere in oro trovati nelle tombe della necropoli calcolitica di Varna, in Bulgaria, sulla sponda occidentale del Mar Nero. Metà del V mill. a.C. Varna, Museo Archeologico.
Nella pagina accanto un’immagine della tomba 43 della stessa necropoli, che ben illustra lo sfarzoso abbigliamento e la profusione di oggetti aurei che accompagnarono la sepoltura di un capo della comunità.
scheletrici): custodivano oggetti e gioielli in oro (elementi di collana, applique, anelli, braccialetti, pettorali e diademi, per un totale di circa 3000 oggetti e un peso di 6 kg), maschere in terracotta, simboli di status e armi in rame, vasi in ceramica (alcuni dei quali impreziositi da lamine d’oro), elementi di collana in calcedonio e cornalina finemente sfaccettati, strumenti in pietra e in ossidiana, conchiglie e perline di Spondylus, l’ostrica rossa del Mediterraneo. La rappresentazione del rango, o della ricchezza, di parte dei defunti è piú che evidente: solo quattro delle tombe piú ricche contengono 3/4 del totale dell’oro trovato nell’intera necropoli. La fossa-cenotafio 36, per esempio, conteneva, in quattro strati diversi, anelli, bracciali, numerose applique, file di perline,
lamine figurate a forma di toro, uno scettro, un falcetto, una corona in miniatura e il modello di un astragalo (l’osso del calcagno di pecore e capre comunemente usato nel mondo antico come elemento da gioco), ma, per qualche motivo, nessun resto umano. L’individuo sepolto nella tomba 43 – avvolto in tessuti con applique, bracciali, collane, piastre, un martello-scettro e persino un astuccio penico d’oro – rappresenta probabilmente il primo esempio di tomba principesca mai scoperto, e certamente la tomba piú ricca nota prima delle sepolture regali del III millennio a.C. Il raggio commerciale testimoniato dai reperti della necropoli va dalle sponde del Volga alle isole Cicladi. Per
Varna, non vi sono spiegazioni convincenti per una tale capacità di accumulazione di ricchezza, né è immediatamente comprensibile la logica con cui questi tesori venivano «distrutti» per sempre
seppellendoli in un cimitero, se non l’arcaica ideologia del vanto economico ritualizzato: la stessa che abbiamo già riconosciuto nelle società di interesse etnografico sopra ricordate. In
poche parole, la capacità tecnica e la sapienza politica dei commercianti dell’età del Rame sembra aver sopravanzato, a Varna, quella delle classi socialmente emergenti.
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I PRIMI MERCANTI
L’ossidiana è un vetro di origine vulcanica, quindi naturale, formato in larga misura da silicati. Quando alcuni tipi di colata emergono dai camini, e si raffreddano troppo velocemente, al contatto con acqua o aria, per poter formare complesse strutture cristalline, il materiale assume una struttura caotica, simile a quella di un liquido, e diventa parzialmente traslucido. Le sue innumerevoli varietà cromatiche (dal grigio, al bruno, a sfumature verdastre al nero) sono dovute a bolle di gas o a diversi tipi di impurità. Le varietà piú belle tendono al nero omogeneo; il materiale, del tutto privo di piani cristallini interni, risulta perfettamente lavorabile con la stessa tecnica della selce, e si trasforma, spesso per semplice e controllata pressione, in eleganti lamelle di forma allungata. Se viste in controluce, queste mostrano affascinanti sfumature e trasparenze: si pensa che simili strumenti abbiano avuto un
Copricapo ricamato
Collane
Pettorale
Bracciale Anello
Grande anello in serpentinite, da Breuilpont (Normandia, Francia). IV mill. a.C. Saint-Germainen-Laye, Musée d’archéologie nationale. Medaglione e cintura
Vari tipi di abiti e accessori ricamati
forte impatto su diverse tecnologie applicate dai primi agricoltori neolitici.
Magiche suggestioni L’abbinamento tra il nero – immagine dell’oscurità – e la sua lucentezza ha ispirato nella preistoria diversi usi, che sconfinavano largamente in suggestioni magiche: per esempio, la deposizione di specchi di ossidiana nelle sepolture tardo-neolitiche di Çatal Höyük, in Turchia. Uno straordinario braccialetto in ossidiana, trovato nel vicino sito di Asikli Höyük sulla sponda destra del Melendiz Çay, sempre in Turchia, si data all’VIII millennio a.C. e testimonia gli standard crescenti della
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UNA MATERIA PRIMA VERSATILE Il disegno mostra i diversi possibili impieghi delle conchiglie nel corso del Neolitico Antico attestati nella regione del bacino parigino e renano: come si vede, la materia prima poteva essere sfruttata per fabbricare monili oppure per decorare abiti e accessori del vestiario. Qui sotto il corredo funerario rinvenuto in una tomba scoperta in località Bas-de-Vignes (Marne, Francia nord-orientale). Épernay, Musée d’Archéologie et du vin de Champagne. Spicca, in particolare, il grande pettorale, composto da oltre 800 piastrine ricavate da conchiglie.
Conchiglie, giada e ossidiana: gli ornamenti personali contribuivano a definire l’identità culturale delle genti neolitiche
In alto collana fatta di perle di variscite, un raro fosfato idrato di alluminio, dalla grotta di Salpêtre a Pompignan (Gard, Francia meridionale). Cultura di Chassey, 4200-3500 a.C. circa. A sinistra ascia in giadeite finemente levigata, da Pezens (Aude, Francia). Narbonne, Musée d’archéologie de Narbonne.
tecnologia neolitica. E con l’ossidiana, in Egitto, si tagliavano i capelli dei morti. Non sorprende quindi che l’ossidiana sia stata oggetto di traffici e commerci già dal Paleolitico Inferiore (sito di Kariandusi in Kenya) e in giacimenti del Paleolitico Medio del Caucaso. La grande stagione degli studi analitici su questo materiale ha avuto inizio negli anni Sessanta del Novecento: dapprima tramite il riconoscimento del principio dell’idratazione dell’ossidiana come indicatore cronologico (cioè la possibilità di misurare gli spessori degli strati superficiali dei manufatti formati
dall’assorbimento dell’acqua, come funzione del tempo trascorso dall’esposizione delle stesse superfici); poco dopo, e in tempi brevi, divenne possibile definire nei minimi dettagli la composizione chimica delle ossidiane archeologiche, riferendole a quella degli affioramenti geologici noti, e si scoprirono nuovi e piú raffinati metodi di datazione. Ciò trasformò improvvisamente l’ossidiana in uno straordinario indicatore, geografico e cronologico al tempo stesso, non solo degli scambi e delle vie di traffico, ma anche degli spostamenti delle popolazioni delle età neolitiche.
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I PRIMI MERCANTI
A queste ricerche si dedica oggi un ristretto numero di appassionati archeologi-geochimici, che ogni anno pubblicano dati quantitativi sulla composizione elementale di campioni geologici e archeologici. Il quadro che ne risulta è intricato, date le diverse zone di origine del materiale: Armenia, Azerbaigian, Georgia, Turchia (in Cappadocia, in Anatolia orientale, e presso le sponde del lago Van), Romania, Ungheria, Grecia ed Egeo, Italia (Lipari, Pantelleria, Palmarola – nelle Isole Ponziane – e Monte Arci, in Sardegna), Francia meridionale, Scozia e Islanda.
Le direttrici del «flusso nero» Le relazioni commerciali accertate sono fitte e molteplici: nella Francia sud-occidentale giungevano non solo l’ossidiana degli antistanti depositi sardi, ma anche quelle, ben piú remote, di Lipari e Pantelleria; queste ultime, in direzione opposta, raggiungevano anche le coste del Maghreb. Strumenti in
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Un blocco scheggiato di ossidiana, sul quale è visibile parte della sua superficie esterna, o cortice.
ossidiana di Lipari sono stati identificati in Campania, in Calabria, e lungo le coste adriatiche, fino all’entroterra friulano. L’ossidiana della Cappadocia risulta essere stata ampiamente diffusa non solo nell’Anatolia centrale, ma anche verso il Mar di Marmara, e in direzione est lungo il medio Eufrate. Di qui in poi, il «flusso nero» ricadeva verso le coste mediterranee e l’entroterra del Negev. L’ossidiana del Lago Van scendeva lungo il Tigri e l’Eufrate verso le sponde del Golfo Persico e le coste dell’Arabia; verso ovest, seguiva le rive dell’Oronte e dei corsi della Giordania, fino al Mar Morto. I giacimenti del Caucaso rifornivano cercatori e mercanti che poi diffondevano la pietra lungo i versanti dei Monti Zagros, in direzione opposta, verso le alture e le coste del Levante. E diversi importanti giacimenti, lungo le coste del Mar Rosso, complicano ulteriormente questo quadro di scambi e trasporti, peraltro in continuo aggiornamento... l’ossidiana
africana raggiungeva lo Yemen già nel VI millennio a.C., e, due millenni piú tardi, raggiungeva l’Egitto, insieme a carichi di mirra e incenso. Va infatti tenuto presente che, insieme all’ossidiana, viaggiavano molti altri tipi di merci. La «rivoluzione neolitica», come dimostrano con crescente chiarezza gli studi di genetica antica, avanzò anche su barche cariche di pecore, capre, bovini, legumi e cereali: il «pacchetto produttivo» rurale che ne avrebbe decretato il rapido e inesorabile successo nel Mediterraneo. Dietro i pochi traffici neolitici che riusciamo a percepire, si celano probabilmente scambi e interazioni di ben altra portata.
Artigiani itineranti? Era il 1930 quando il grande paletnologo Vere Gordon Childe, con la sua abituale concretezza, definiva l’età del Bronzo «il momento in cui l’uomo aveva imparato che certi tipi di pietra, nelle condizioni adatte, possono essere costrette dal calore a liberare sostanze le quali, riscaldate, possono essere modellate e persino fuse entro stampi; ma che dopo il raffreddamento mantenevano la nuova forma, diventando piú dure e durevoli della roccia, ma con bordi ugualmente taglienti». Per Childe, il metallo – il rame per primo – fu la chiave di tutto. I cercatori e fabbri del rame, depositari di segreti tecnici oscuri, sarebbero stati specialisti a tempo pieno, che lavoravano in abitazioni segregate. Avrebbero fatto parte di speciali caste o gilde, che complicarono in vari modi le scale sociali. Molti, secondo lo studioso d’origine australiana, erano metallurghi itineranti, cioè si muovevano da centro a centro, mettendo periodicamente i propri servigi a disposizione delle comunità. I giacimenti di rame sfruttati nell’antichità erano rari e, come altre risorse, dislocati in località spesso remote. Il rame nativo, che si trova sulle superfici dei depositi, alterate dagli agenti atmosferici, fu presto esaurito, e gli artigiani dovettero affrontare nuove sfide nell’estrazione e nella trasformazione dei minerali cupriferi.
In alto punta di freccia in ossidiana scheggiata, dalle isole Cicladi. V-IV mill. a.C. In basso nucleo di forma piramidale, e lame in ossidiana e selce, da un sito anatolico (Turchia) di età neolitica. VII-VI mill. a.C.
A partire dal 5500 a.C., dall’Anatolia all’India, si era ormai diffusa la fusione a cera persa (l’uso di forme di fusione con modelli in cera). Rame puro, rame piombato, e infine rame arsenicale si succedettero nelle leghe usate dai metallurghi euroasiatici, fino a che, negli ultimi due o tre secoli del III millennio a.C., per motivi ancora sconosciuti, lo stagno (un metallo molto raro, e relativamente poco utile per se stesso) fu eletto a componente necessario delle leghe «binarie» stagno-rame, cioè del bronzo. Splendenti oggetti in rame, con il loro colore rosso-dorato, divennero il simbolo piú importante della preminenza sociale delle élite delle prime città. Allo stesso tempo, la proprietà di nuovi ed efficienti strumenti metallici permetteva il controllo della lavorazione del legno (essenziale per l’edilizia, le navi, e la fabbricazione di svariati articoli di lusso), mentre spade, pugnali, alabarde e asce rafforzavano il monopolio della violenza organizzata, cruciale per lo sviluppo delle prime città-stato presso società gerarchizzate. E infine – cosa forse ancor piú importante – l’accumulo del rame, sotto varie forme, permetteva di tesaurizzare nelle case dominanti crescenti quantità di ricchezza,
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I PRIMI MERCANTI
quindi di potere sugli altri. La ricerca e l’approvvigionamento del metallo, dall’Asia Media all’Europa, divennero alcune delle principali attività dei centri di potere. Non tutti, oggi, credono ancora agli «artigiani itineranti» di Childe; e la questione del commercio e dei mercati si ripropone in tutta la sua ambiguità. Sino a ora, infatti, nessuno ha mai scavato una piazza del mercato preistorica! Come abbiamo detto in precedenza, Karl Polanyi aveva immaginato le prime città orientali dell’età del Bronzo come mondi piuttosto statici, fatti di comunità solidali e abbastanza compatte, nelle quali ogni individuo o famiglia forniva agli altri i frutti del proprio lavoro sulla base di accordi ereditari, non vi era alcuna necessità di spazi aperti per lo scambio collettivo allargato, e i prezzi erano mantenuti sostanzialmente stabili dalle autorità della città-stato. In seguito, teorie simili furono diffuse e amplificate dagli scritti di un altro famoso economista del mondo antico,
Qui sopra ascia cerimoniale in oro e argento raffigurante un leone all’assalto di un cinghiale, dalla Battriana (Afghanistan settentrionale). Tardo III mill. a.C. The George Ortiz Collection. A destra lingotto in rame grezzo «a pelle di bue», da Cipro. XIII sec. a.C.
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Moses Finley (1912-1986). In una luce analoga, l’archeologo italiano Luca Peyronel cosí descrive, alla luce dei documenti scritti, il mercante di Ebla: «È innanzitutto un funzionario del palazzo, e la maggioranza del movimento dei beni di lusso si doveva svolgere a livello reciprocativo sotto forma di doni e scambi cerimoniali (festività, matrimoni, alleanze, ecc.) o di tributo (reciprocità negativa), mentre il movimento di lana, tessuti, prodotti alimentari era regolato da assegnazioni a funzionari e personale dipendente, fissate a monte dall’autorità pubblica». Questi «funzionari di palazzo»
erano posti a capo di vere e proprie grandi aziende cittadine. Per comprendere il potenziale produttivo che le grandi case reali del Bronzo antico potevano sostenere con razioni alimentari, mobilitare e investire in diversi tipi di attività commerciale, basti pensare alla seguente lista di lavoranti, trovata negli archivi di Ebla: 800 donne impiegate nella tessitura, nella macinazione della farina e in cucina; 500 fonditori e lavoratori del rame; 160 falegnami; e poi dozzine di medici, musicisti e barbieri. Nessuno spazio, quindi, per attività «libere» o meno controllate nel III millennio a.C.? Gli esperti hanno opinioni diverse. Certo, questa è l’immagine del mercante – chiamato in sumerico dam-gàr, quando operava ufficialmente per la corte – che emerge dagli archivi di palazzo.
La «disinvoltura» dei mercanti Ma sappiamo che anche in missione ufficiale, gli incaricati svolgevano marginali operazioni private, e quasi mai abbiamo informazioni altrettanto
In alto pesi in ematite dagli scavi di Ur (Iraq meridionale). Età paleo-babilonese, 1900-1600 a.C. circa. In basso vasi presumibilmente cultuali, da Gilat, nel Negev settentrionale, Israele. VI-V mill. a.C.
attendibili per quanto avveniva a latere dell’incarico regale. Del resto, il commercio, in senso storico, ha sempre mostrato una notevole disinvoltura in materia di questioni istituzionali e legalità: basti pensare, per il XVI secolo della nostra era, alla pirateria istituzionalizzata contro le navi spagnole nel nome degli interessi commerciali della corona inglese. Durante il III millennio a.C., nelle
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ROMA
economie delle prime città dell’Egitto, della Mesopotamia e del Vicino Oriente – i centri delle civiltà della prima età del Bronzo, per i quali abbiamo informazioni piú complete – si stabilirono gradualmente, sistemi di equivalenza precisi (malgrado inevitabili fluttuazioni). Venivano equiparati beni di lusso che, mantenendo un proprio valore d’uso (cioè rivestendo comunque funzioni pratiche almeno in parte condivise tra l’intero corpo sociale), potevano essere scambiati e circolare con maggiore agio. Si tratta, quasi invariabilmente, di partite d’argento e di rame, di lana e di derrate alimentari (cereali, olio e birra). L’argento, in particolare, sembra aver svolto una funzione che molti hanno definito premonetale: era infatti al centro di sistemi di equivalenze stabilite tra peso del metallo, peso della lana, volume di cereali e superfici di lotti di terreno coltivabile. Lavorato in spirali continue simili a molle di spessori standardizzati, l’argento poteva essere
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suddiviso con facilità in unità minori. Segmenti di simili spirali d’argento del III millennio a.C. sono stati trovati in vastissimo areale – dall’India alla Spagna – ed è forse per quest’uso globalizzato in scambi a lunga distanza che i Sumeri, che chiamavano
A sinistra lastra votiva sumerica raffigurante inservienti che portano animali e altro per il banchetto regale. Epoca anticodinastica, metà del III mill. a.C. circa. Istanbul, Museo Archeologico. In basso statuetta in rame di un toro o bisonte barbuto, dalla regione del lago Van. Metà del III mill. a.C. circa. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in alto tavoletta cuneiforme mesopotamica con registrazione di transazioni di malto e orzo, probabilmente da Uruk, Iraq meridionale. Periodo di Jemdet Nasr, 3100-2900 a.C. circa.
come un riferimento ideale. Le economie basate su questo genere di equivalenze comprendono diversi aspetti dell’interazione tra quella che gli economisti chiamano staple finance (finanza basata su beni consumabili di sussistenza) e wealth finance (finanza basata sui metalli, in quanto beni permanenti, accumulabili e capaci di essere facilmente suddivisi a piacere); e non è certo un caso che entrambe le strategie finanziarie siano presupposto necessario di ogni avventura militare.
l’argento ku3-babbar (letteralmente «puro bianco») usavano per esso, come per indicare il sole, un segno cuneiforme che, per alcuni, potrebbe essere basato sulla forma della spirale. Secondo l’archeologo Toby C. Wilkinson, tra il V e il III millennio a.C. le comunità protourbane dell’Eurasia, a partire da un epicentro mesopotamico, diffusero un sistema di correlazione economica tra tessuti di pregio e partite di oggetti metallici che avrebbe rapidamente contagiato tutte le vicine comunità, sotto la spinta della forte visibilità sulla persona delle due classi di beni. In età accadica, con 10 sicli d’argento (allora, circa 110 g) si potevano comprare due tori; oppure 6 arieti, 20 kg di lana, o 100 litri d’olio; mentre il costo di uno schiavo oscillava tra i 20 o i 30 sicli; per un asino, animale di gran pregio, bisognava sborsare quattro volte tanto. In età paleo-babilonese (intorno al 1800 a.C.), l’equivalenza fondamentale era quella garantita tra 1 siclo d’argento (1/50 di una mina: allora poco piú di 8 g) e un gur di cereali (circa 300 «litri» di orzo); mentre il rapporto del valore dell’oro sull’argento si attestava su 1:6. Malgrado il crescente uso dell’argento come proto-valuta, nella vita quotidiana molte transazioni avvenivano in orzo, lana o in un metallo meno nobile come il rame, mantenendo la corrispondenza in argento
In basso statuetta in terracotta di un pastore con il suo agnello, da Tello, l’antica Girsu (Iraq meridionale). 2000 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
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Battelli da trasporto a fondo piatto, adatti alla navigazione fluviale, ancorati sulle sponde del Nilo. Fotografia datata al 1907.
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PROVE TECNICHE DI GLOBALIZZAZIONE Non solo portatori umani e quadrupedi, ma anche slitte, carri e soprattutto navi a vela. Il mondo dei viaggi commerciali e dei trasporti fu rivoluzionato, tra il IV e il II millennio a.C., da questa innovazione cruciale. Affollati di vele, il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo Persico divennero, da ostacoli, ponti alla diffusione delle civiltĂ
LA NAVIGAZIONE
L’
introduzione della navigazione a vela è un’invenzione difficile da collocare con precisione nel tempo e nello spazio. Probabilmente si trattò di un’innovazione policentrica, che cioè ebbe luogo simultaneamente, e per lunghi periodi di rodaggio, in diverse regioni del globo. Tra queste si annoverano quasi certamente le acque del Nilo, le sponde del Mar Rosso, lo specchio del Golfo Persico e le vaste distese oceaniche tra la parte piú orientale della penisola arabica, la penisola del Gujarat indiano e le sabbie del delta dell’Indo. Nel Golfo Persico, almeno a partire dal VI millennio a.C., barche fatte di giunchi legati e calafatate con bitume e olio di pesce si muovevano tra coste e lagune, diffondendo in siti di cacciatori e pescatori «neolitici» ceramiche dipinte negli stili mesopotamici di Halaf e Ubaid. Alcuni modellini e immagini su ceramica, risalenti a queste antiche fasi di navigazione, suggeriscono la presenza di un albero maestro, ma le testimonianze non appaiono sufficienti.
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Particolare di un rilievo dipinto nella tomba di Ankmahor, funzionario alla corte del faraone Teti, a Saqqara. VI dinastia, 2350-2300 a.C. circa. Si noti il doppio albero maestro teso tra molteplici cordami. In basso vaso in terracotta con la rappresentazione schematica di un’imbarcazione sospinta da una quarantina di remi, ma dotata in apparenza anche di albero maestro. Egitto, epoca predinastica, 4000-3500 a.C. circa.
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LA NAVIGAZIONE
importanti dettagli costruttivi: erano fatte di assi di legno leggero (acacia, tamericio e sicomoro), assemblate e legate con cordami, in modo da essere facilmente smontate per superare le cataratte e, eventualmente, essere portate a est, verso gli approdi del Mar Rosso. Imbarcazioni molto simili, e possibilmente piú antiche, A sinistra Giza. La barca funeraria o «solare» del faraone Cheope (Khufu), ricostruita in una apposita struttura museale dopo essere stata ritrovata, perfettamente conservata, smontata in pezzi ri-assemblabili, in un pozzo a lato della grande piramide dello stesso sovrano. 2550 a.C. circa.
Rimane il problema di come un albero ligneo potesse essere efficacemente montato su uno scafo di giunchi tenuti insieme da cordame. In Alto Egitto, le raffigurazioni di barche su ceramica e su pietra avevano avuto una storia antichissima, risalente addirittura al VII millennio a.C.: intorno alla metà del IV millennio, è praticamente ufficializzata l’immagine di possenti imbarcazioni dotate di grandi cabine centrali, guidate con grandi remi posteriori, e brulicanti di rematori e insegne di potere. I resti di non meno di 14 barche sepolte ad Abido ne rivelano
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Sulle due pagine ricostruzione grafica che mostra l’aspetto originario della stessa imbarcazione.
compaiono su un blocco megalitico in uno dei «templi» di Tarxien, a Malta. Le prime vele egiziane (se non sono vessilli) sembrano apparire a prua, in immagini posteriori al 3200 a.C.: sono piccole, quadrate e rettangolari, presumibilmente tessute in lino. Ma si tratta pur sempre di barche sospinte principalmente a forza di remi, come la grande barca «solare» lignea, perfettamente conservata, sepolta a lato della grande piramide di Cheope a Giza (2609-2580 a.C.). Occorre attendere i rilievi funerari dei suoi successori Sahure (2502-2489 a.C.) e Unas (2378-2350 a.C.) per vedere il disegno dettagliato di grandi navi dotate, oltre che di lunghi remi, di ancore litiche e alberi maestri a due o tre fusti, capaci di affrontare con una certa sicurezza il mare aperto. Questi natanti, dotati di ampie vele rettangolari, inaugurarono la grande stagione dei commerci con il Levante. Qui, l’intensificazione della produzione di olio e vino, anche grazie a un’avanzata tecnologia di gestione dei fianchi collinari, fatta di terrazzamenti e impianti idraulici, sostenne gli interessi commerciali legati all’approvvigionamento del legname del Libano,
del turchese e del rame che provenivano dall’entroterra del Sinai e dell’argento che giungeva dalle piste settentrionali. Cosí, in breve tempo, le imbarcazioni egiziane diedero vita alle «navi di Biblo» ripetutamente citate nei testi geroglifici.
A braccia, su ruota, e su animali Come avveniva, invece, l’antico commercio per via di terra? Chi organizzava e gestiva la carovana, doveva innanzitutto avere
In alto Giza. Il pozzo scavato nella roccia che custodiva la barca funeraria di Cheope, alla fine dello scavo e del recupero. 2550 a.C. circa.
accesso a considerevoli prestiti, e avere reputazione di persona affidabile. Doveva quindi essere un esperto di relazioni sociali, avere contatti stretti e affidabili con altri commercianti e gestori che operavano in stazioni intermedie, e la capacità di convincere gli investitori nella solidità delle sue imprese. Per millenni non vi furono strade ben sistemate e militarmente protette come quelle realizzate, dal VI secolo a.C., dai (segue a p. 57)
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LA NAVIGAZIONE
Sapori senza confini
L
e liste lessicali e i reperti paleobotanici di Ebla e di altre città dell’antica età del Bronzo riportano una ventina di specie di piante aromatiche di uso culinario (tra le quali aneto, coriandolo, timo, cumino, assafetida, rucola, senape, finocchio, zafferano, aglio e cipolle); ma si tratta, come nel Vaso in terracotta con versatoio a forma di toro gibbuto o zebú. Cultura di Marlik, Iran, fine del II mill. a.C. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. Introdotto dall’India a partire dal IV mill. a.C., lo zebú divenne una delle piú importanti risorse zootecniche dell’Africa orientale.
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caso dei cereali e dei legumi oggetto di consumo di massa, di specie locali del Vicino Oriente, a quanto pare «autarchicamente» coltivate e trattate in piccoli appezzamenti od orti di proprietà del palazzo. Il quadro dell’alimentazione era destinato a graduali ma radicali mutamenti.
Mentre in Mesopotamia crollava il grande impero della III dinastia di Ur (2000 a.C. circa), i naviganti delle coste meridionali d’Arabia, forti di 4000 anni di esperienza, stabilivano e consolidavano rotte di navigazione che univano le coste africane a quelle del subcontinente indo-pakistano.
Assuan, Egitto. Un contadino mostra una manciata di grani di pepe nero, una specie vegetale anticamente importata dal Sud-Est asiatico.
Sorgo, miglio perlato, dolico egiziano, piante originarie dell’Africa, e, in particolare, della fascia del Sahel subsahariano, furono portate su navi come semplice alimento per i naviganti, e poi trapiantate in zone piú aride dell’India centro-occidentale. Si trattò di commerci quasi casuali, effettuati completamente al di fuori delle sfere di interesse commerciale delle grandi civiltà proto-urbane del margine meridionale dell’Eurasia. L’effetto dei trasferimenti, inoltre, fu ritardato, poiché gli agricoltori dell’area indiana avevano già addomesticato, in modo indipendente, importanti varietà di miglio. Contemporaneamente, i nomadi delle steppe portavano alla volta dell’Europa centrooccidentale la canapa e altre varietà di miglio d’origine cinese. L’antropologo Michael Rowlands e
il paleobotanico Dorian Fuller ritengono che le attività commerciali di questo corridoio afro-indiano si siano presto specializzate, trasportando in India incenso, resine e piante medicinali richiesti per specifici usi rituali. Secondo i due studiosi, questa rotta commerciale, separata da quelle del Golfo Persico dalle sabbie insuperabili del deserto arabico del Rub-al Khali, rappresenterebbe un adattamento economico fatto proprio da locali società tardo-neolitiche, piú che un’altra dinamica periferia commerciale delle prime città-stato orientali. In senso contrario, i primi granelli di pepe nero – pianta originaria dell’India meridionale – di cui si abbia notizia fecero la loro comparsa nell’Egitto dei tempi di Ramesse II (XIX dinastia, 1279-1212 a.C.), come una delle sostanze profumate
usate nell’imbalsamazione del corpo del faraone. Ben piú importanti furono le vicende dello zebú indiano (Bos indicus), anch’esso originario del subcontinente indo-pakistano. L’animale fu importato nel Vicino Oriente e in Africa in modo piú progettuale, incrociandolo sistematicamente con varietà di bovidi locali. Ancora oggi, le varietà piú «pure» di zebú africano si trovano lungo la costa orientale e in Madagascar. Le piú antiche immagini di zebú in Egitto si datano ai secoli del Nuovo Regno (1453-1069 a.C.). I traffici transoceanici di specie vegetali dal Sud-Est asiatico e dall’India all’Africa – che includono specie di enorme importanza, come il riso, la patata dolce, il taro e la banana – divennero piú visibili ed economicamente rilevanti nel corso del I millennio a.C.
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LA NAVIGAZIONE
Come rami di terebinto
O
ltre al legname, i cedri libanesi fornivano un olio profumato, molto richiesto per le cerimonie delle élite internazionali dell’antica età del Bronzo. Sembra che quando l’egittologo inglese William Matthew Flinders Petrie (18531942) scavò le tombe reali di Abido, nell’Alto Egitto (tardo IV millennio a.C.), il profumo dell’olio di cedro sparso al suolo fosse ancora molto forte. «Come il cinnamomo e l’aspalato, io ho regalato una fragranza di essenze; come la nobile mirra, ho diffuso un odore piacevole; come il galbano, l’onice, la mirra liquida e le volute fumose dell’incenso nella tenda. Come il terebinto ho steso i miei rami, ed essi sono carichi di gloria e grazia» (Ecclesiastico, 24, 10). La citazione biblica rende piena giustizia al soprannaturale fascino dei profumi e degli afflati che i sacerdoti innalzavano sugli altari. Le spezie, ha scritto James Innes Miller, «in quanto articoli di lusso, paragonabili alle gemme e alla seta, si potevano acquistare soltanto con l’oro, che era di per sé raro (...) Parecchie spezie provenivano dall’Estremo Oriente, ed era pertanto necessario trovare i mezzi per effettuarne il trasporto per il mondo (...) Per via di terra vi si riuscí addomesticando i cammelli, sul mare utilizzando i monsoni» (Roma e la via delle spezie, 1974). La cassia, ossia la corteccia del cinnamomo dalla quale si ottiene la
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In alto particolare di una pittura murale raffigurante due donne che avvicinano al volto fiori di loto, recando sul capo coni di una sostanza odorosa, destinata a sciogliersi con il calore corporeo e a profumarle, da Tebe. XVIII dinastia, 1500 a.C. circa. Berlino, Museo Egizio. In basso brocchetta ad alto collo che sembra imitare la forma del baccello del papavero da oppio, usata in Egitto nello stesso periodo, da Tebe. XVIII dinastia, 1500 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.
cannella, si raccoglieva nell’entroterra cinese. Giunta agli empori costieri, veniva caricata su barche che prendevano il largo alla volta dell’arcipelago indonesiano. Qui i mercanti scambiavano la cassia con i chiodi di garofano, ingrediente indispensabile della cucina cinese. Una parte restante dei carichi veniva poi imbarcata negli scafi a bilanciere o catamarani, azionati a vela, che affrontavano la traversata dell’Oceano Pacifico – cosa quasi incredibile, dati i mezzi utilizzati – per raggiungere le coste del Madagascar e quelle orientali dell’Africa. Da qui altre imbarcazioni risalivano le coste, dirette agli empori costieri del Mar Rosso, dove si formavano le carovane che prendevano le piste
desertiche dirette alle coste del Nilo. Ultima meta erano le banchine dei mercati di Alessandria. L’idea dell’esotico, del raro e del remoto certamente contribuivano, insieme alle frammentarie notizie sugli aspetti misteriosi di questo commercio, a «santificare» queste essenze e i loro usi. Queste ricostruzioni si devono in larga misura alle informazioni dei testi di età storica (greco-romani, ma anche sanscriti), dato che l’archeologia riconosce a fatica i resti delle spezie, anche perché molte di esse erano macinate in polvere, quindi ingerite o bruciate. Vi è qualche eccezione. Un pendente trovato a Eshnunna (Mesopotamia, nei pressi di Baghdad), datato al III millennio a.C., era stato fatto con il coppale, una resina subfossile
proveniente dal Madagascar, dal Mozambico o da Zanzibar; e a proposito di una serie di piccole brocche cipriote a forma di testa di papavero, si è pensato che contenessero oppio d’origine orientale. Chiodi di garofano forse provenienti dalle isole Molucche sono stati trovati nella casa di un
uomo chiamato Puzurum, a Tell Ashara (l’antica Terqa, in Siria) in strati databili intorno al 1700 a.C. Nello stesso periodo, ad Akrotiri (Santorini) le pitture murali illustrano la raccolta dello zafferano, usato come colorante o prodotto medicinale, mentre resti bruciati di cicerchia porporina
(Lathyrus clymenum: vi si può estrarre una sostanza eccitante) trovati a Tel Nami, in Israele, postulano altri contatti commerciali con l’Egeo o la penisola italiana. Tentacoli del commercio protostorico si stavano estendendo anche direttamente verso ovest.
Particolare di un affresco preservato dall’eruzione di Santorini (isole Cicladi, Grecia) nel sito di Akrotiri (Thera): due donne raccolgono lo zafferano. XVI sec. a.C. Santorini, Museo di Thera preistorica.
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LA NAVIGAZIONE
Uno dei numerosi bassorilievi rinvenuti nella cittadella aramea di Tell Halaf, in Siria: mostra un dromedario incedente e un cammelliere. X sec. a.C. circa. Baltimora, The Walters Art Museum. La domesticazione del cammello battriano in Asia Centrale, e del dromedario, animale originario dei deserti arabici, si realizzò pienamente nel corso del II mill. a.C., consentendo maggiore velocità e maggior carico alle carovane dei nomadi che si muovevano tra le pianure del Vicino Oriente e il mondo delle steppe. Nella pagina accanto passa-briglie in bronzo montato in origine su un carro: abbraccio tra un uomo e un equide (un cavallo?) rampante, dalla capitale imperiale ittita di BogazkÜy (Hattusa). 2000-1900 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
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re persiani. In molti casi, si viaggiava semplicemente a piedi, oppure avvantaggiandosi di tratti fluviali che potessero velocizzare, sfruttando la corrente, la movimentazione di carichi e imbarcazioni a basso costo, piccole e leggere. I cani potevano aver fornito un altro comodo mezzo di trasporto, portando piccoli carichi sulle spalle, come gli uomini. Tuttavia, è verosimile che la parte piú importante, quella dell’involontario protagonista, l’abbia fatta l’asino, che, secondo recenti scoperte archeologiche in Asia Media, sarebbe stato già in corso di avanzata domesticazione tra il V e il IV millennio a.C. Stando ad altri studi, una seconda popolazione asinina proverrebbe dall’asino selvatico della savana africana. Secondo Cyprian Broodbank «gli asini si dimostrarono utili per fare la spola con piccoli carichi su distanze brevi e faticose, spesso verticali, tra le varie ecologie mediterranee, unendo cosí terreni sparpagliati, e, su scala intermedia, le località centrali con i propri entroterra». L’iconografia sumerica suggerisce che, intorno al XXV secolo a.C., gli onagri (asini selvatici) fossero addestrati a tirare carri grandi e pesanti come quelli che condussero alla sepoltura i re sumeri di Ur. Grandi carri a quattro ruote sono noti nell’Europa centroorientale della metà del IV millennio a.C., ma sembra che fossero piuttosto usati per il trasporto su brevi distanze e per particolari usi cerimoniali, tra i quali, appunto, i cortei funebri. Il cammello battriano (Camelus bactrianus, quello a due gobbe), originario delle regioni interne dell’Asia, vive oggi quasi esclusivamente in forme domestiche (nuclei residuali di popolazioni selvatiche si trovano ancora in Kazakistan, Mongolia e India). È stato, insieme all’asino, il fattore determinante della fioritura della Via della Seta, per due millenni e piú. Il dromedario (Camelus dromedarius, con una sola gobba) sembra
invece venire dalla penisola arabica; le due specie oggi si sovrappongono e convivono in una vasta fascia geografica che comprende l’altopiano iranico, l’Afghanistan e le pianure settentrionali della Valle dell’Indo (Punjab), parzialmente condivise da India e Pakistan. Nell’Asia Media, i resti ossei di cammello databili all’età del Bronzo sono piuttosto rari, ma non poche immagini dell’una o dell’altra specie (incisioni su ceramica, pietra e metallo, statuette in ceramica e argilla cruda, un’ascia figurata in rame) suggeriscono che nel corso del III millennio a.C. le popolazioni avessero una crescente dimestichezza con queste creature e le loro enormi potenzialità come mezzi di trasporto. Nei siti protourbani del Turkmenistan meridionale si sono trovati modellini di carri a quattro ruote con protomi di cammello; e a Shahr-i Sokhta (Iran) non solo frammenti di tessuti realizzati con lana di cammello, ma anche un vaso pieno di sterco dell’animale.
E l’uomo divenne cavaliere Piú complesso risulta il quadro attualmente disponibile per la domesticazione del cavallo e i suoi differenti impieghi. La storia inizia probabilmente tra il V e il IV millennio a.C., nella vasta regione delle steppe che si estendono tra il Mar Nero e il Mar Caspio, e nelle immense pianure limitrofe. Qui sono stati scoperti vasti campi di cacciatori nomadici, i cui abitanti vivevano, a quanto pare, in larga misura di carne di cavallo. Dobbiamo però attendere la soglia dell’ultimo secolo del III millennio a.C. perché su rari sigilli medio-orientali compaiano le prime, avventurose immagini di uomini che cavalcano l’animale. Le opinioni in proposito si dividono: per alcuni studiosi si tratterebbe dell’illustrazione di episodiche pratiche di corsa sportiva o di esercizi equestri; altri propendono per uno stadio di domesticazione piú avanzato. Allo stesso periodo appartengono le sepolture rituali di cavalli e cammelli battriani nei cimiteri (segue a p. 60)
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LA NAVIGAZIONE
Rilievo neo-ittita raffigurante una scena di caccia con biga trainata da un cavallo, protetta dal disco solare alato. da Sma’al-Zincirli (Turchia). IX-VIII sec. a.C. Berlino, Pergamon Museum. Da questo periodo in poi, oltre al carro da guerra leggero, sotto l’influenza scitica, si sarebbe accompagnato l’uso di reparti di arcieri montati a cavallo.
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LA NAVIGAZIONE
Quando l’anatra dormiva sulla bilancia
N
ell’antica Mesopotamia, «pesare» significava «pagare», tanto che il nome stesso dell’unità piú comune, il siclo o shekel, derivava, secondo alcuni, dal verbo «pesare». Ai tempi della III dinastia di Ur (XXI secolo a.C.), quando una merce e/o un mezzo di pagamento erano sul piatto di una bilancia, dovevano essere presenti un ispettore garante e un gruppo di testimoni, e si doveva pronunciare una dichiarazione giurata. Uno degli aspetti piú rilevanti delle riforme economiche del «Divino Shulgi» (2094-2047 a.C.), figlio del fondatore dinastico Ur-Nammak (2112–2095 a.C.), fu il notevole sforzo di standardizzazione di pesi e misure, tale da facilitare la riscossione dei tributi e, in generale, garantire una maggiore sicurezza nelle transazioni. Tra le forme dei pesi piú ricorrenti di quel tempo vi è quella di una anatrella che riposa reclinando il capo sul dorso, con il becco volto in direzione della coda. A pensarci, il significato simbolico è palese: le anatre assumono questa posizione mentre galleggiano lievi sul pelo di uno specchio d’acqua. L’allusione è alla bilancia sulla quale si devono
di grandi centri protourbani palatini, come Gonur Depe, in Margiana. Dal 1750 a.C. in poi, nell’Anatolia orientale vivevano le élite guerriere note col nome di Mitanni: parlavano una o piú lingue indo-iraniche e divennero famose per l’uso di leggere e veloci bighe a due ruote trainate da cavalli, e la perizia nell’addestramento di questi animali a scopi militari (come testimonia un celebre «manuale» in proposito ritrovato negli archivi reali della capitale del regno ittita a Hattusa). Intorno alla metà del II millennio a.C. bighe da combattimento di questo tipo erano usate dall’India all’Egitto. Molti concordano nel sostenere che i primi casi accertati dell’uso di contingenti di cavalleria nel Vicino Oriente non risalgano oltre il IX secolo a.C., periodo in cui gran parte dell’Anatolia fu a lungo devastata da bande armate di Cimmeri e Sciti (popolazioni di lingua iranica), predatori invincibili, anche grazie a velocissimi corpi di arcieri a cavallo. Sembra comunque certo che, nel corso del II millennio a.C., cammelli e cavalli si siano rivelati il «fattore
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pagare le tasse statali: quanto dovuto al dio-re è leggero. Il piatto della reale bilancia non affonda sotto il peso di richieste tributarie esose. Inoltre l’anatra, pur oscillando tra onde leggere, nella sua onirica immobilità rimane ferma: l’indicazione, in questa luce, è che il peso del re non varia, sfidando le oscillazioni dei prezzi. Naturalmente, menti sospettose come quelle di piú di un lettore penseranno subito che si tratti di pura propaganda, e che le condizioni reali dell’economia risentissero di condizioni ed esperienze pratiche ben diverse.
In alto peso da bilancia in basalto da 30 mine (15 kg) a forma di anatrella con il capo disteso sul dorso, da Nimrud. 770 a.C. circa. Londra, British Museum. L’iscrizione cuneiforme è del re Eriba-Marduk. A destra modellino di carro a quattro ruote in terracotta. III mill. a.C. Oxford, Ashmolean Museum. Nella pagina accanto Gökhem, Svezia. Resti di una giovane donna morta a causa della prima pestilenza a oggi accertata. 2900 a.C. circa.
X» che permise ai pastori nomadi centro-asiatici di inventare nuove forme di «pastoralismo multianimale»: grandi mandrie di bovini, caprovini, cani e – appunto – cavalli e cammelli, capaci di attraversare i deserti dell’Asia Centrale in tutta sicurezza, e con velocità inusitata. Queste mandrie, e i clan tribali nomadici che le
gestivano, erano al tempo stesso imprese commerciali, corpi militari e consistenti, continui trasferimenti di capitale vivente. Non stupisce, quindi, che vaste alleanze tribali nomadiche siano divenute, in pochi secoli, un fattore cruciale nell’evoluzione politica dell’Eurasia meridionale della media e tarda età del Bronzo.
L’alba delle periferie
Una piaga commerciale
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ra i rischi legati all’estensione dei reticoli commerciali e alla globalizzazione va annoverato quello delle epidemie. Tra il 1330 e il 1350 d.C., uno dei momenti di massimo sviluppo dell’economia medievale, lungo la Via della Seta viaggiarono, con uomini e animali, anche i temibili batteri della peste (Yersinia pestis). Allora il batterio fu responsabile di un’epidemia che cancellò dal 30 al 60% della popolazione europea. Ricerche recenti ne stanno rintracciando le vicende preistoriche; e ora forse sappiamo perché fu risparmiata parte della popolazione europea. Trasmesso da roditori delle steppe centro-asiatiche e da alcune specie di uccelli, il batterio si era già affacciato in Siberia e in Europa settentrionale intorno al 3000 a.C., contribuendo al declino di importanti popolazioni neolitiche. In seguito, agli inizi del II millennio a.C., il ceppo europeo tornò verso est, con gruppi di migranti che si spingevano in Asia Centrale. Dal 1000 a.C., secondo gli specialisti, un ceppo del batterio mutò, adattandosi a sopravvivere nell’intestino delle pulci. Probabilmente, questi antichi contatti favorirono lo sviluppo di forme di immunità presso gli antichi Europei, e resero meno devastante l’impatto della Morte Nera medievale.
Potremmo dire che, tra la città e la miniera, c’è di mezzo... il pastore nomade, data la lontananza delle zone estrattive di rame e, soprattutto, stagno dalle grandi pianure fluviali dove erano sorte le prime città-stato. Ciò determinò quella che Kristian Kristiansen ha chiamato «l’alba delle periferie dell’età del Bronzo», sottolineando che, insieme a preziosi carichi metallici e a ogni genere di mercanzie pregiate, lungo questa pristina Via della Seta (3000-1000 a.C. circa) viaggiavano i sempre piú preziosi cavalli, e consistenti gruppi di esseri umani: non solo schiavi, ma anche mercenari e artigiani specializzati. I legami tra centri e periferie svilupparono nuove rotte, e coinvolsero nuove popolazioni, aumentando la competizione. In questo panorama mercantile, costi e prezzi dello strumentario in rame gradualmente diminuirono, con importanti ricadute sulla tecnologia del legno. Ai costruttori di edifici e imbarcazioni – queste ultime, in lento ma inarrestabile sviluppo tecnico – si affiancarono cosí, altrettanto competenti, quelli dei carri da trasporto e da guerra. Con i beni quindi, viaggiavano lingue, ideologie e tecnologie, in primis quelle legate ai conflitti (carri e armi), e, come se la guerra non bastasse, anche gravi agenti patogeni (vedi box qui accanto). Molto probabilmente, in queste fluide periferie, sorte proprio grazie all’espansione economica dei tradizionali centri di potere nelle valli fluviali, il commercio tramite accordi specifici, episodici saccheggi e conquiste a mano armata divennero parte delle stesse strategie. Di lí a poco, come nota Kristiansen, l’Europa centro-occidentale stessa si trasformò in una di queste instabili periferie in tumultuosa crescita.
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SI AMPLIANO GLI ORIZZONTI Motivazioni economiche, ma non solo, stimolarono la ricerca, fin da epoche assai antiche, di nuove terre nelle quali insediarsi o dove procacciarsi materie prime in quantità maggiori o con minore sforzo. E cosí l’uomo si fece colono, avviando un processo destinato a rivoluzionare scenari politici e rapporti di forze, favorendo al tempo stesso la fioritura di inedite espressioni culturali | ANTICHI COMMERCI | 62 |
Nella pagina accanto disegno ricostruttivo delle attività in un magazzino nel centro di Arslantepe (Malatya, Turchia) negli ultimi secoli del IV mill. a.C.: addetti aprono e chiudono grandi giare, sacchi e cesti colmi di mercanzie, «garantendo» le proprie operazioni con l’uso di sigilli a stampo con un ricco repertorio di immagini. In questa pagina due «cretule», ossia masserelle d’argilla applicate sulle chiusure in cordami e stoffa degli stessi contenitori, sulle quali erano impressi i sigilli, da Arslantepe. 3350-3000 a.C. Malatya, Museo Archeologico. L’esemplare superiore reca immagini di animali; quello inferiore raffigura un personaggio regale su carro a slitta trainato da un bovino: la scena è stata interpretata come la rappresentazione di una trebbiatura rituale.
P
arlando di commercio nelle prime città dell’antica età del Bronzo, è quasi d’obbligo accennare a una congiuntura abbastanza misteriosa della storia mesopotamica (e del Vicino Oriente in generale): quella delle «colonie» del periodo del tardo Uruk. Già dal V millennio a.C. vi sono prove di forti contatti commerciali tra la Mesopotamia, notoriamente povera di risorse naturali (con l’eccezione di argilla, canne e bitume) e le regioni circostanti. Negli ultimi secoli del IV millennio a.C., tutto si intensificò. In alcune località della Siria settentrionale, lungo la valle dell’Eufrate, del confine anatolico, della Susiana (nel Khuzistan iraniano) e, sempre in Iran, lungo le valli dei Monti Zagros, fino alle pendici del Belucistan, comparvero e si propagarono nuclei abitativi che usavano l’inconfondibile ceramica mesopotamica del tardo periodo di Uruk (3400-3100 a.C. circa). Si tratta di vasi di carattere utilitario, non
decorati e, come nel caso delle ciotole a bordo tagliato (conosciute nella letteratura specialistica come bevelled rim bowls), prodotte in massa con tecniche semplici, materiale grossolano e nessuna attenzione estetica. Nei siti della Mesopotamia meridionale e della Susiana i frammenti di
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ciotole a bordo tagliato formano cumuli di metri e metri, e anche a Jiroft (estremo limite orientale della loro diffusione), in un saggio di pochi metri quadrati, ne sono state trovate centinaia: la loro precisa funzione rimane un enigma, anche se molti pensano che servissero a distribuire cibi e bevande sotto forma di razioni. Alla prova delle analisi chimiche, queste ceramiche «straniere» risultano sempre fatte di argille locali. Tuttavia, sono vasi che nulla hanno in comune con quelli piú antichi, né risultano avere avuto alcuna influenza sulle forme di quelle dei periodi successivi: si tratta certamente di una intrusione momentanea, e di limitato effetto. Quanto agli insediamenti periferici – di grandi dimensioni in Siria e al nord, minori in Anatolia e in Iran – erano a volte racchiusi da mura di cinta, come a ospitare nuclei di genti chiaramente distinte dal resto della popolazione. In alcuni furono erette costruzioni religiose affini, per aspetto e tecniche edilizie, a quelle della contemporanea Mesopotamia meridionale. Diversi di questi centri si dotarono
di tecniche amministrative che prevedevano l’uso di tavolette con segni numerali e impronte di sigillo, a volte recanti conteggi complessi e, in Iran, di iscrizioni nella locale scrittura detta «proto-elamica». L’antropologo Guillermo Algaze, e altri con lui, hanno proposto che questa straordinaria e relativamente rapida espansione corrispondesse alla fondazione di enclave, o addirittura piccole colonie commerciali, di città mesopotamiche in terra straniera. Come nei sistemi coloniali del XIX secolo della nostra epoca, le colonie avrebbero avuto lo scopo di intercettare i flussi di materie prime alla fonte, oppure in importanti nodi di traffico, per dirottare i carichi verso le industrie di trasformazione della madrepatria. Si delineerebbe quindi, in questa prospettiva, un «sistema mondiale» (world system, come lo definirono gli economisti) ante litteram. Come ogni colonialismo, anche questo avrebbe comportato precise dimensioni di predominio straniero e resistenza locale alle implicite condizioni di sfruttamento economico.
Come ai tempi del colonialismo moderno, le iniziative condotte in tal senso in età antica miravano a intercettare alla fonte i flussi delle materie prime Mar
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A sinistra la posizione di Arslantepe e di altri importanti siti del tardo IV mill. a.C., lungo le rotte commerciali che univano le pianure mesopotamiche alle coste mediterranee. Nella pagina accanto mappa del mondo mesopotamico e delle popolazioni confinanti tra la fine del III e gli inizi del II mill. a.C.
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COLONIE E COLONIALISMO
In alto disegno ricostruttivo delle operazioni di redistribuzione dei beni alimentari nel periodo del Palazzo, di Arslantepe. 3350-3000 a.C. A destra disegno ricostruttivo dei magazzini del Palazzo di Arslantepe. 3350-3000 a.C.
Tuttavia, alla luce delle sue ricerche, l’archeologo statunitense Gil Stein ha parlato di una «diaspora commerciale» piuttosto che di un sistema di tipo coloniale. A queste teorie si oppone il fatto che in nessuna di queste enclave – al di là di limitate tracce di metallurgia, che del resto si trovano quasi ovunque negli abitati contemporanei – sono stati mai trovati consistenti impianti artigianali e scarichi di resti lavorati in grande scala, tali da testimoniare indipendentemente i supposti interessi commerciali. Del tutto assenti sono anche i grandi magazzini, di cui, alla luce della
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In basso alcune delle numerose ciotole rinvenute nel Grande Tempio (o Tempio C) di Arslantepe, risalente alla prima metà del IV mill. a.C. Le ciotole (versione locale delle ciotole «a bordo tagliato» della Mesopotamia meridionale) verosimilmente utilizzate per la distribuzione cerimoniale dei pasti, venivano già prodotte in massa, ma ancora mediante l’utilizzo del tornio.
teoria del world system, sarebbe lecito aspettarsi la presenza in simili stazioni. L’espansione della cultura di Uruk del tardo IV millennio a.C. ha avuto effetti molto diversi da regione a regione, e da caso a caso. Nel sito di Arslantepe, in Anatolia sud-orientale (nell’odierna Turchia, nei pressi della città di Malatya), per esempio «alla comunità già piuttosto complessa dell’età del Rame (...) ne succedette una che ci ha lasciato sigilli in stile Uruk, edifici pubblici tra cui templi con pitture murarie, e ricchi reperti di metallo, tra cui punte di lancia e spade lunghe 60 cm, una delle quali con intarsi d’argento» (Cyprian Broodbank). Al contrario, la natura limitata ed effimera di non pochi di questi insediamenti (e delle loro attività) sembra escludere che vi si esercitasse un dominio sugli insediamenti locali. Rimane la possibilità – tutta da dimostrare – (segue a p. 70)
Gli scavi nel sito anatolico di Arslantepe hanno riportato alla luce edifici pubblici sontuosi e ricchi reperti in metallo
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el IV millennio a.C. si colloca un’altra relazione «coloniale» tra centro e periferia: essa teneva in contatto, il delta del Nilo e quindi la rotta fluviale per l’Alto Egitto, con insediamenti cresciuti nel Sinai e nelle regioni meridionali del Levante. Alle corti del sud, e soprattutto a Hyerakonpolis (Nekhen) questi centri mandavano legno di pini e cipressi, argento, ornamenti in pietra sempreziosa, e ingenti carichi di vino, a giudicare dalle 350 giare di vino cananeo trovate in una tomba reale (chiamata U-j) della necropoli di Abido. L’interferenza economica delle corti egiziane è denunciata, nel Levante, da ceramiche da trasporto che recano inciso il segno del serekh, simbolo del palazzo reale. Anche questo esperimento di penetrazione economica ebbe breve durata, in quanto, forse dopo solo 150 anni, nel corso del XXX-XXIX secolo a.C., molti centri palestinesi si dotarono di cinte murate, e le «colonie» egiziane e la «Via di Horus» che le connetteva alla madrepatria furono rapidamente abbandonate. A questo irrigidimento o militarizzazione della frontiera settentrionale dello Stato egiziano corrispose l’apertura di una nuova rotta per via di mare, che permetteva una piú veloce e forse piú sicura traversata dal delta al porto cananeo di Biblo, distante circa 500 km a nord-est. Nella tomba del re Djer (I Dinastia, 3000 a.C. circa) furono trovati 75 lingotti e almeno 7000 manufatti di rame, perline di turchese estratto dalle miniere sinaitiche, olii aromatici e
resine di conifere in vasi fatti a Biblo, o transitati per le banchine della città cananea. Nei tre secoli successivi, le rotte terrestri furono definitivamente abbandonate. Da allora in poi, per ottenere direttamente rame e turchese dalle montagne del Sinai, i faraoni avrebbero dovuto organizzare vere e proprie spedizioni militari, proteggendo i minatori entro temporanei campi fortificati provvisti di templi, magazzini e laboratori di raffinazione; ne rimane traccia anche nei «graffiti» con i cartigli reali lasciati dalle spedizioni sulle rocce annerite dal sole che fiancheggiano le piste desertiche. Al di là di quello che gli Egiziani chiamavano wadj wer – «il grande verde», cioè il mare che trovavano oltre il delta –, Biblo divenne un polo privilegiato del commercio faraonico, continuando a inviare a sud legno di cedro, olio, vino e resine, e importando oro, avorio e tessuti di lino. Intorno al 2800 a.C.
la città-stato di Biblo si muní di un sistema di fortificazioni urbane, mentre altri centri costieri, in posizioni intermedie alla traversata (Tiro, Ascalona) diventavano, a loro volta, importanti terminali dello stesso reticolo commerciale, aperti alle carovaniere di terra; ben presto, i contatti con l’Egitto della IV dinastia (XXVI secolo a.C.) si fecero molto intensi. Il cosiddetto «Tempio della Torre», costruito verso la fine del III millennio a.C., sembra essere stato una sorta di faro destinato ai naviganti, dotato com’era, sulla sommità, di un grande altare sacrificale. Ai piedi dell’edificio si trovarono – scolpite a metà, quindi solo simboliche – grandi ancore in pietra; a Ugarit, il Tempio di BaalHadad aveva caratteristiche molto simili. Frequentata da mercanti, artigiani, scultori e spie della terra del Nilo, Biblo era diventata una vera porta egiziana e mediterranea spalancata verso l’Asia.
In alto Abido. La tomba U-j, uno dei cui vani conteneva 350 giare colme di vino cananeo. 3100 a.C. circa. Nella pagina accanto mappa delle materie prime d’origine egiziana e della loro circolazione.
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COLONIE E COLONIALISMO
Poemi, mercanzie e incantesimi
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lla prima metà del III millennio a.C., periodo nel quale la storiografia sumerica colloca re ancora largamente leggendari, risale il ricordo di antichi legami e dinamiche commerciali che da tempi immemorabili univano le città mesopotamiche ai contemporanei centri dell’altopiano iranico. Parliamo dei poemi della serie nota come Enmerkar e il Signore di Aratta, a loro volta parte del ciclo (forse piú antico) oggi intitolato Enmerkar e Lugalbanda. Aratta rimane una città invisibile, menzionata esclusivamente in testi di carattere mitologico e letterario, e mai in tavolette di natura amministrativa. Probabilmente essa corrisponde alla vaga nozione di un Oriente iranico remoto e ricco di materiali preziosi (una sorta di Eldorado dell’età del Bronzo), piú che a una città-nazione storicamente esistita (anche se diversi archeologi hanno tentato di collocarla in una delle diverse civiltà protostoriche della regione). Nei poemi, è terra ricca di lapislazzuli, oro, rame e altri materiali preziosi,
che la materia prima ricercata da questi agenti commerciali dell’Ovest fossero rare, eccellenti qualità di lane esotiche in un momento in cui, nei laboratori annessi ai templi mesopotamici, la manifattura laniera era oggetto di un vero e proprio boom produttivo: una di quelle fluttuazioni
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ma povera di una risorsa essenziale: i cereali. Il protagonista è Enmerkar, un mitico re di Uruk sul quale veglia la dea cittadina Inanna. Ma anche il signore della lontana Aratta è protetto dalla stessa dea e si tratta forse della proiezione di come un’ideologia religiosa sincretistica potesse aver agevolato il commercio a lunga distanza. Nelle storie, corrieri inviati dalla Mesopotamia viaggiano per migliaia di chilometri con carovane di asini carichi d’orzo, attraversando impervie catene montuose, per mettere in atto faticose contrattazioni con misteriosi sovrani orientali, fatte di offerte, contro-offerte, alterchi, vaticini, scambi di oggetti magici, preghiere e formule, in una sfibrante «guerra dei nervi» che sembra non avere fine. Lo scopo, per le città di Sumer, è ottenere il controllo di materie prime rare e preziose, necessarie a esibire e celebrare la supremazia politica dei re e dei templi mesopotamici. Secondo gli studiosi, si tratta di elaborate allegorie delle difficili condizioni dei commerci carovanieri tra la Mesopotamia e l’Est, e dell’enorme prestigio che derivava alle élite occidentali dalla positiva conclusione di questo genere di affari. Il desiderio di questi materiali esotici pare quasi frenetico: grazie a una tavoletta trovata a Mari, per esempio, sappiamo che per un grosso pezzo di cristallo di rocca un sovrano pagò 3000 pecore e 60 schiavi. Piuttosto, restano dubbi sulla veridicità letterale del modello commerciale tramandato, invece, dai testi epici: lungo i grandi deserti iranici, i carichi di orzo messi per via, percorrendo 1500 o 2000 km di piste desolate, sarebbero certamente stati mangiati da uomini e asini ben prima di arrivare a destinazione.
mercantili tanto forti ed espansive quanto forse temporanee. La lana potrebbe essere stata l’articolo di commercio principale, proprio perché, in quanto deperibile, non può essere riconosciuta negli scavi. Ma l’archeologia, giustamente, non ama le argomentazioni ex absentia.
Sulle due pagine veduta d’insieme e particolari del cosiddetto «vaso di Warka», da Uruk, Iraq meridionale. Seconda metà del IV mill. a.C. Baghdad, Museo Nazionale Archeologico. Articolata in diversi registri, dal basso verso l’alto, la decorazione rappresenta le acque primordiali, il mondo delle piante addomesticate e degli animali, per concludersi in una sacra processione di inservienti nudi, che portano offerte alla dea Inanna, protettrice di Uruk, oppure alla sua sacerdotessa o ancora, forse, alla sua statua. Alle spalle dell’immagine femminile principale si stagliano i fasci di giunco ricurvo, simbolo per eccellenza di Inanna, ma anche un gruppo di oggetti e simboli nei quali, come logogrammi, si cela il nome della città di Uruk.
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CACCIA ALL’ORO BLU
Originario del misterioso Oriente, il lapislazzuli è la «pietra del colore del cielo» cosparsa, come tante stelle, di punti dorati. L’uomo ne ha fatto l’oggetto dei suoi desideri fin da tempi lontani e, per impossessarsene, non ha esitato a uccidere e ridurre in schiavitú. Tuttavia, non meno richieste, per il loro valore o per l’irresistibile fascino esotico, furono anche altre importanti materie prime: dall’oro al rame, dall’avorio alle spezie, in una rete di scambi sempre piú fitta | ANTICHI COMMERCI | 72 |
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e vie del lapislazzuli sembrano essere state principalmente due: una settentrionale, che dalle valli dell’Hindukush scendeva alla volta delle sponde meridionali del Mar Caspio, proseguiva in direzione delle pendici del Caucaso e terminava nelle pianure della Mesopotamia settentrionale, piú o meno all’altezza del sito calcolitico di Tepe Gawra, in Assiria; e una via meridionale, che si
addentrava in direzione sud, seguendo i margini dei grandi deserti dell’Iran, costellati da ricche oasi, per poi girare verso ovest, proseguendo lungo le valli del Baluchistan e dei monti Zagros, fino a raggiungere le pianure dell’attuale Dhi Qar, nel sud dell’Iraq. I testi cuneiformi del III millennio a.C., tuttavia, parlano di una terza via, che non è ancora materialmente visibile: quella per mare, a opera dei commercianti e navigatori della valle
Il lato detto «della Pace» dello «stendardo a mosaico», fatto con conchiglie, pietre colorate, bitume e lapislazzuli e trovato nel Cimitero Reale di Ur da Leonard Woolley (1880-1960) e databile a poco dopo la metà del III mill. a.C. Londra, British Museum. Il pannello mostra le processioni di uomini e animali diretti alla preparazione di un banchetto regale.
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dell’Indo (l’antico paese di Meluhha), che avrebbero viaggiato verso sud lungo il corso dell’Indo, fino a raggiungerne il delta in prossimità dell’attuale Karachi (Pakistan); da qui, avrebbero salpato verso ovest, costeggiando le sponde del Golfo Persico, e trasportando alle corti sumeriche e accadiche carichi e carichi di lapislazzuli. A causa della natura dei fondali del Golfo Persico e delle dinamiche delle correnti, nessun relitto dell’età del Bronzo – almeno sino a ora – è mai stato scoperto. Tuttavia, gli archeologi hanno individuato numerose tracce indirette, lungo siti costieri della penisola arabica, di una navigazione arcaica, iniziata almeno nel VI millennio a.C. A tale età risalgono infatti modellini di barche di giunco, disegni di imbarcazioni su ceramica, e numerosi frammenti di rivestimenti di scafi in bitume, con impronte di giunchi, stuoie e cordame all’interno, e incrostazioni di organismi infestanti marini, prova che gli scafi avevano affrontato il mare. Alla fine del III millennio a.C. risalgono
insediamenti e avamposti ricchi di oggetti indiani, identificati non soltanto lungo le coste, ma anche nell’entroterra della penisola omanita (qui i mercanti orientali cercavano soprattutto rame). L’antichità della via di mare è anche dimostrata da una lunga serie di importazioni, nella terra del Tigri e dell’Eufrate, di oggetti orientali: sigilli con iscrizioni indiane, perle di cornalina (il calcedonio rosso fuoco), avorio e, soprattutto, lapislazzuli. È stato calcolato che il 95% circa di tutto il lapislazzuli mai trovato nel Vicino Oriente antico è rappresentato dai gioielli sepolti con i re e le regine del Cimitero Reale di Ur (2500-2300 a.C. circa), un autentico «buco nero» capace di attrarre quantità inverosimili della costosissima pietra blu.
Morire per i re e le regine A Ur, persino gli animali che avevano trainato le bare reali nelle fosse sepolcrali erano addobbati con pietre semipreziose. Lo spreco di lavoro e di vite umane (nel cimitero giacevano non meno di 300 «morti di accompagnamento», cioè di persone uccise
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sigilli di Dilmun
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In basso mappa schematica delle principali vie di trasporto del lapislazzuli afgano, estratto dalle miniere di Sar-i Sang nel Badakhshan, verso ovest e verso sud. A una via settentrionale, che costeggiava le catene del Kopet Dag e dei monti Elborz in Iran, si accompagnava una seconda via continentale che si snodava lungo i margini meridionali dei grandi deserti dell’altopiano iranico. Una terza via coinvolgeva i mercanti della valle dell’Indo; a partire dal centro di Shortugai, i carichi della pietra blu scendevano lungo l’Indo, e dagli scali oceanici prendevano la via, per mare, che costeggiava il Golfo Persico, fino alle banchine di Ur e Lagash in Mesopotamia. Nella pagina accanto, in alto miniere di lapislazzuli di Sar-i Sang, Afghanistan. Portatori d’acqua all’imboccatura dei tunnel. Nella pagina accanto, in basso un mercante locale esibisce la pietra della migliore qualità.
Una vasta ragnatela blu
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a un blu intenso, innaturale, che permea anche il suo nome. Il lapislazzuli (dal latino lapis, pietra, accostato al persiano lazaward, blu) è una roccia insolitamente complessa, formata com’è da numerosi diversi minerali. Le componenti blu sono usualmente descritte come lazurite, sodalite, haüyna e noseana (tecnicamente noti come feldspatoidi); quelle bianche o traslucide sono feldspati (costituiti da silicati di alluminio, sodio, potassio, calcio e bario, diffusissimi nelle rocce vulcaniche), come albite, microclino e soprattutto diopside; altre particelle brune o giallastre sono miche; presenti all’appello sono anche l’onnipresente quarzo, mentre le piccole nuvole dorate che la abbelliscono non sono certamente oro, ma la molto piú comune e «vile» pirite, cioè solfuro di ferro. Spesso indicata come una delle principali componenti, la calcite vi rientra in sottili vene infiltrate da marmi circostanti. Causa di questa complessità sono
particolari condizioni geologiche, che, a differenza di quanto detto a proposito dell’ossidiana (vedi alle pp. 37-43), si riscontrano in pochissimi punti del globo: quando cioè il magma vulcanico di tipo granitico incontra calcari che si «cuociono» e cristallizzano in marmi candidi. Il lapislazzuli cosí compare nel Nord-Est dell’Afghanistan (miniere di Sar-i Sang, nella regione del Badakshan), piú a nord nelle montagne del Pamir (nell’attuale Tagikistan, in realtà una prosecuzione delle vene rocciose del Badakshan); poi ancora in Siberia tra i monti Saiani, nelle rapide del torrente Slyudyanka, che sfocia nel lago Bajkal, al confine con la Mongolia. E ancora nelle Ande cilene, in Colorado, in California, nel Labrador canadese e, nel SudEst asiatico, in Birmania. Piccole
vene di lapislazzuli sono state trovate anche in Italia, presso il Vesuvio e nei Colli Albani. Ma non ci si inganni: le analisi piú recenti, effettuate da geologi dell’Università di Torino, hanno dimostrato in modo definitivo che l’unica fonte di lapislazzuli sfruttata nel mondo antico in modo significativo sono le miniere afghane di Sar-i Sang. Ogni frammento della pietra blu trovato nei siti archeologici protostorici dell’Eurasia segna perciò – similmente alle briciole di pane lasciate da Pollicino nel bosco – nello spazio (e nella storia) una sottile, inconfondibile ragnatela di fili blu: la traccia delle antiche carovane che, snodandosi per piú di 5000 km, portavano il lapislazzuli dalla bocca delle miniere nelle montagne afgane fino alla soglia delle corti faraoniche d’Egitto.
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A sinistra i resti del tempio dilmunita di Saar, Bahrein. 2000-1800 a.C. circa. Nella pagina accanto, in alto un tipico sigillo rotondo, a stampo, in steatite cotta, degli insediamenti commerciali del paese di Dilmun (Kuwait, Emirati Arabi, Bahrein). 2000-1800 a.C. circa. Sulle due pagine veduta aerea di una necropoli con tumuli monumentali in pietra a Bahrein. III-II mill. a.C.
per accompagnare i propri signori nell’altro mondo) ha dell’incredibile. La strategia della distruzione dei beni materiali per esibire il rango sembra essere ancora la stessa della preistorica necropoli di Varna. Che dietro tutto questo vi siano i mercanti indiani (harappani, dal nome della città protostorica di Harappa nel Punjab pakistano) e i loro navigli, è piú che probabile; ma né degli uni, né degli altri abbiamo testimonianze dirette. È certo che navi provenienti dall’India sfruttavano le correnti stagionali monsoniche, per attraversare l’Oceano Indiano dalle coste del Gujarat (India) all’estremità orientale dell’Oman, e di qui penetrare nel Golfo Persico. Nelle sue iscrizioni di propaganda, il re Sargon si vanta d’aver fatto approdare sulle banchine dei porti di Akkad, la sua capitale, le navi di Dilmun, Magan e Meluhha (rispettivamente, le isole di Faylaka e Bahrein nel Golfo Persico, l’Oman e le coste occidentali dell’India). Le poche menzioni di «uomini di Meluhha» che abbiamo in Mesopotamia indicano artigiani, pastori e persone al servizio dei templi,
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piuttosto che mercanti; quanto ai navigli, le rarissime immagini di imbarcazioni che abbiamo dalla valle dell’Indo sembrano illustrare schematicamente barche fluviali, non adatte al trasporto transoceanico. Centrale, nelle rotte marine che univano le coste indiane era il ruolo del paese di Dilmun, una serie di enclave portuali disposte in isole e insenature tra gli odierni territori del Kuwait (isola di Faylaka), Bahrein, Qatar e delle regioni orientali dell’Arabia Saudita. «Dalla cima della bassa collina usavamo guardare in basso, con desiderio, all’ombra dei palmeti che si allungavano verso nord. Al di là delle palme si scorgevano le case bianche e i tetti piatti del villaggio di Barbar, e ancor oltre le acque verdi del Golfo sembravano fresche e invitanti»: cosí scriveva Thomas Geoffrey Bibby (1917-2001), scopritore di questa antica civiltà marinara, ricordando le sue spedizioni. Per i Sumeri, Dilmun era una terra mitica e paradisiaca, sia per le sorgenti di acqua dolce che dal fondo del mare salivano a bagnarne le rive, sia per la venerazione dei suoi templi. A lato di questi,
gli archeologi hanno portato in luce, insieme ai resti di abitazioni, laboratori metallurgici e grandi cumuli di gusci di ostriche perlifere, grandi vasche sacrali per la raccolta dell’acqua dolce. «Il paese di Dilmun è santo, il paese di Dilmun è puro. A Dilmun il corvo non spande il suo verso, né l’uccello del malaugurio profetizza disgrazie. Il leone non uccide, né il lupo si porta via l’agnello indifeso. Sconosciuto è il cane selvatico che uccide il capretto indifeso. La colomba non nasconde il capo...», recitano le tavolette cuneiformi. Probabilmente, l’insistenza sull’assenza di
disordini, violenza e sopraffazione in questa terra ha molto a che fare con le funzioni commerciali svolte dal clero e dai mercanti dilmuniti: la sicurezza era una condizione necessaria per garantire il volume dei traffici che tra gli ultimi secoli del III e i primi del II millennio a.C. si svolgevano nel Golfo Persico. La fioritura degli scali di Dilmun sarebbe quindi imputabile al ruolo esplosivo di un’area commerciale «libera», all’intersezione di due grandi sfere di attività (quella mesopotamica e quella indiana), come ipotizzato nei recenti scritti di Richard Blanton e Lane Fargher. La sacralizzazione
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LE VIE DEL LAPISLAZZULI
degli scali corrispose certamente all’instaurazione di regole e istituzioni commerciali ben precise. Alcune di esse trovano espressione materiale in una vasta produzione di sigilli a stampo circolari con una ricchissima iconografia locale, fatti con tecniche chiaramente influenzate da quelle della sfragistica indiana; e soprattutto nell’uso di sistemi di pesi che seguivano strettamente le scale frazionali dei sistemi ponderali della civiltà dell’Indo. La grigia e sabbiosa isola di Faylaka, al largo dell’odierna Kuwait City, dove sono stati scavati importanti santuari della fine del III millennio a.C., è l’unico posto al mondo dove si incontravano mercanti che recavano scarabei egizi, sigilli a cilindro mesopotamici e sigilli con caratteri harappani (cioè della Civiltà della Valle
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dell’Indo). I testi cuneiformi raccontano che beni come il rame omanita, il legname proveniente dal Baluchistan e dall’India, avorio, lapislazzuli, perle, elementi di collana in cornalina e in faïence, spesse e candide conchiglie marine usate per fabbricare mosaici e intarsi, animali vivi transitavano per Dilmun, viaggiando da est a ovest; in Mesopotamia, tali merci venivano scambiate con argento, stagno, tessuti di lana, olio e grano. L’importanza di mercanti e agenzie indiane è rivelata, in primo luogo, dalla circolazione, nei livelli piú antichi del principale insediamento di Bahrein, di un particolare tipo di sigillo a stampo in steatite cotta di chiara ispirazione harappana; ma circolare, invece che quadrato (come era norma in madrepatria). Secondo gli studiosi, le iscrizioni in caratteri dell’Indo su questi sigilli esprimerebbero una lingua locale (forse amorrea?), invece che una di quelle comuni nel mondo harappano.
Saccheggio a Ebla Mentre la gente urla terrorizzata, e dal soffitto cadono nere travi infuocate, gli assalitori cercano di arraffare, stanza dopo stanza, quanto resta delle ricchezze e degli arredi del grande palazzo. Un armato fugge dalla stanza svuotata della tesoreria reale, ormai avvolta dalle fiamme. Si è gettato sulle spalle un sacco
In alto, a destra e in basso, a sinistra particolari di collane di conchiglie di vari generi, tra cui Dentalium, Spondylus e Conus, da una tomba di Madinat Hamad (Bahrein). 2000-1800 a.C. circa. Manama, Museo Nazionale. A sinistra vasi in calcite alabastrina dall’insediamento di Barbar, a Bahrein. 2000 a.C. circa. Manama, Museo Nazionale. In basso, a destra lingotti di rame, di forma pianoconvessa, da An-Nasiriyah. 2000-1800 a.C. circa. Manama, Museo Nazionale.
pieno di blocchi grezzi di lapislazzuli; nel passare la soglia di una porta, ne urta lo stipite. Il sacco si strappa, i blocchi blu gli cadono tra le gambe e poi rotolano a terra, mescolandosi al carbone e a rottami di intonaco arrossati dal fuoco. Il fumo ha ormai riempito occhi e polmoni, e non c’è piú tempo per tornare indietro. Al saccheggiatore non resta che scappare, boccheggiando, con i pochi oggetti di valore che è riuscito a tenere in grembo. In breve, su tutto regneranno il vento, poi l’oscurità e il silenzio. La distruzione di una casa reale nemica aveva raggiunto il suo scopo: in termini moderni, qualcosa di simile a una colossale rapina in banca. Quasi 4300 anni piú tardi, i pavimenti del palazzo reale di Ebla, distrutto intorno al 2250 a.C. dall’esercito del conquistatore accadico Sargon, sono stati scavati dagli archeologi della missione guidata da Paolo Matthiae. Tra il carbone polverizzato e le tavolette cuneiformi cadute al suolo, luccicano pezzi di cristallo di rocca; spiccano frammenti di filati e frammenti aurei sopravvissuti al saccheggio, e parti di delicate statuette polimateriche calpestate. Sparsi al suolo, emergono decine di blocchi di lapislazzuli. La pietra semipreziosa sembra essere stata spezzata, quasi appositamente, in parti squadrate a forma di parallelepipedo; lungo le pareti bluastre, parzialmente annerite dall’incendio, spiccano gli strati ondulati di una seconda pietra biancastra e cristallina. Nelle poche stanze scavate se ne raccoglie circa mezzo quintale. Le dimensioni dei blocchi piú o meno corrispondono a quelle di altri blocchi trovati in altre città mesopotamiche. Sembrerebbe trattarsi di sbozze standardizzate per il trasporto, di un peso mediamente oscillate tra 400 e 600 g (la mina di Ebla era lievemente inferiore a quella mesopotamica). Com’era giunto in Siria, dall’odierno Afghanistan, questo prezioso carico? Per trovare una risposta, dobbiamo fare un salto temporale (piccolo, questa volta: meno di 50 anni) e recarci all’estremo confine orientale dell’altopiano iranico, presso il confine afgano.
I re di Dilmun
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testi mesopotamici rivelano che a Dilmun esisteva, sin dal XXIV secolo a.C., un regno indipendente, con dinastie di re e regine. E proprio negli ultimi anni, a Bahrein, è venuta alla luce la tomba monumentale del re Yagli-’el («Il Dio si è manifestato»), figlio e successore di Ri’mum (forse «Toro Selvatico») ed erede del palazzo reale della dinastia, che si trovava probabilmente a Qalat al-Bahrein, sulla sponda settentrionale dell’isola. Questo prezioso frammento della storia del Vicino Oriente è stato ricostruito dall’assiriologo Gianni Marchesi (Università di Bologna), che ha letto testi cuneiformi in lingua accadica incisi su vasi in clorite trovati nele sepolture. I re di Dilmun si qualificavano come «Servo di Inzak di Akarum», cioè del dio Inzak di tale località, probabilmente in una regione orientale della penisola arabica. Come molti nomi propri letti su sigilli e altri oggetti lungo le coste settentrionali del Golfo Persico, si tratta di nomi amorrei. Gli Amorrei (in sumero Martu) erano la costellazione di tribú in parte nomadiche, di lingua e cultura semitica che, nei primi secoli del II millennio a.C., troviamo stanziate in Mesopotamia. Sempre piú influenti e minacciose, le tribú amorree, dopo il crollo dell’impero accadico e di quello della III dinastia di Ur, fondarono la potente prima dinastia di Babilonia, legata al nome del re Hammurabi. Secondo Marchesi, le nuove iscrizioni, e un testo mesopotamico che definisce Dilmun «La terra degli Amorrei», suggeriscono che le terre d’origine degli Amorrei fossero proprio le coste meridionali del Golfo Persico. Tale eventualità confermerebbe l’intuizione di Maurizio Tosi, per il quale i principali modi di vita tradizionali della penisola arabica furono sviluppati 5000 anni fa da popolazioni di non-coltivatori di cereali (non farmers: cioè commercianti, navigatori, pescatori, allevatori nomadi, coltivatori di palme da dattero), che gettarono cosí le radici del modo di vita degli Arabi delle successive età storiche, come delle future fortune commerciali della meridionale Arabia Felix. E, non a caso, le fonti assire designavano il paese delle città fenicie della costa siro-palestinese con il nome, antichissimo, di Amurru.
In alto frammento di vaso in clorite con iscrizione cuneiforme con dedica a una divinità, da un tumulo sepolcrale ad Aali (Bahrein). XIX-XVIII sec. a.C.
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Lo scavo è quello di Shahr-i Sokhta, che diverrà famosa, in archeologia, nella traduzione dal persiano del suo toponimo: la «città bruciata». È il 1972, e l’archeologo dell’IsMEO Maurizio Tosi (1944-2017) ha appena finito di scavare, a varia profondità, 200 mq di scarichi, databili, grazie al radiocarbonio, tra il XXVI e il XXV secolo a.C. Negli strati, migliaia di schegge di calcedonio traslucido e selce sono mescolate a grandi quantità di minuti frammenti di lapislazzuli e turchese. L’industria in selce e calcedonio (detta «microlitica» dagli specialisti) indica la produzione di piccole lamelle, probabilmente usate per tagliare le pietre; ma soprattutto di centinaia e centinaia di punte di trapano, usate per perforare perline in lapislazzuli e turchese (quest’ultima pietra semipreziosa veniva dalle miniere del Kyzyl Kum, nel Nord del Turkmenistan). Si tratta di una scoperta straordinaria – l’unica area di lavorazione estensiva di queste pietre semipreziose in tutta l’Asia Media e del Vicino Oriente Antico. Sui blocchetti semilavorati di lapislazzuli l’archeologo italiano nota profondi solchi marginali: sono i tagli preliminari destinati a guidare successive operazioni di spezzatura per percussione, finalizzate a fabbricare dei blocchetti a forma di parallelipedo, le
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sbozze delle perline. L’area di scarico sembra molto vasta, a testimoniare la produzione di migliaia e migliaia di piccoli ornamenti. Ma a chi potevano essere destinati questi prodotti? Tosi sapeva che, a Londra, restauratori britannici erano appena intervenuti su una delle opere simbolo dell’archeologia orientale, lo «stendardo a mosaico» trovato da Leonard Woolley (1880-1960) nel ricchissimo Cimitero Reale di Ur, in Iraq (foto alle pp. 72/73). Sulla base di un’intuizione scrive al British Museum, chiedendo immagini del retro delle tessere in lapislazzuli che formano lo sfondo dell’opera. Le foto mostrano lo stesso solco marginale visto su centinaia di blocchetti e schegge della stessa pietra nell’area di lavorazione di Shahr-i Sokhta. Alla luce di questa eccezionale coincidenza, gli studiosi italiani – Maurizio Tosi, e i suoi collaboratori Marcello Piperno e Maria Grazia Bulgarelli – propongono una spiegazione molto articolata: le città dell’Oriente dell’altopiano iranico come Shahr-i Sokhta e Tepe Hissar (Damghan, Iran) avrebbero intercettato carichi di lapislazzuli grezzo, lo avrebbero semilavorato, liberandolo dalla ganga biancastra del diopside, con la tecnica del solco-guida e della percussione, per poi spedire verso ovest carichi di pietra raffinata, e ricavare un profitto. Si riproponeva cosí una forma di scambio a lunga distanza, parte di un «sistema mondiale» incentrato sulla domanda delle città mesopotamiche. Ciò presupponeva che gruppi di élite controllassero le carovane, ospitassero gli artigiani entro «grandi organizzazioni» come templi e palazzi, nutrendoli, di conseguenza, con razioni alimentari. Oggi gli studi suggeriscono un quadro piuttosto diverso. Innanzitutto, sappiamo che la tecnica di rottura mediante solco inciso non appartiene alla sola Shahr-i Sokhta, dato che è stata
Dall’alto collana, spillone e orecchini in oro e lapislazzuli, dal Cimitero Reale di Ur. 2600-2400 a.C. Oxford, Ashmolean Museum. È stato calcolato che nei corredi di questa ricchissima necropoli si concentri il 95% circa di tutto il lapislazzuli mai trovato nel Vicino Oriente antico.
Particolare di una lira (parzialmente ricomposta e integrata) rinvenuta nella tomba di Pu-Abi, nel Cimitero Reale di Ur. 2600-2400 a.C. Londra, British Museum. L’immagine si riferisce a una testa di toro in oro e lapislazzuli che ornava la cassa armonica dello strumento, che costituisce uno dei piú antichi esemplari di cordofono a oggi noto. La scoperta ebbe luogo nel corso degli scavi condotti negli anni Trenta del Novecento da Leonard Woolley. Il legno della cassa armonica si era decomposto, ma grazie a un calco della traccia che aveva lasciato nel suolo fu possibile ricostruirne le dimensioni e la fisionomia.
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identificata nei siti di Jiroft e a Mehrgarh (Pakistan) intorno al 3500 a.C., e in Turkmenistan intorno al 3000 a.C. La cronologia dei laboratori di Shahr-i Sokhta corrisponde al periodo chiamato in Mesopotamia Dinastico Antico II (2800-2600 a.C. circa), nel corso del quale sia le importazioni mesopotamiche, sia quelle egiziane raggiunsero valori minimi: un aspetto che non suffraga certo l’idea del commercio internazionale verso ovest. Negli scarichi, poi, non vi sono grandi quantità di ganga biancastra, quanto frammenti di pietra blu-indaco di qualità buona, se non ottima.
Tavole e blocchetti Per le dimensioni dei blocchi del lapislazzuli di Shahr-i Sokhta non abbiamo ancora dati certi, ma i frammenti piú grossi sono generalmente compatibili con quanto osservato nelle rovine del palazzo di Ebla. Il ciclo di lavorazione partiva da blocchi a forma di parallelepipedo, identici a quelli trovati a Ebla, a Ur e in altre città; sfruttando le vene interne parallele di diopside, i blocchi erano suddivisi in tavolette, a loro volta solcate e spezzate per ricavarne barrette, poi blocchetti squadrati, e, infine, le sbozze cilindriche per perline cilindriche e a botte, che costituivano, finalmente, il prodotto desiderato.
Tra Mesopotamia ed Egitto
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ome ha scritto Michael Rice (1928-2013), «il lapislazzuli è uno degli indicatori cruciali dell’influenza asiatica occidentale nell’Alto Egitto, e uno degli articoli di importazione favoriti dai “principati” che crearono le fondamenta dello stato egiziano». Le importazioni in Egitto di lapislazzuli nel IV millennio a.C. corrisponderebbero quindi a un periodo di forte influenza mesopotamica, molto evidente nell’arte e probabilmente nell’ideologia di corte. Ne è prova un ripostiglio di blocchi di lapislazzuli grezzo trovato nel sito di Jebel Aruda (Siria) sepolto e perduto tra il 3100 e il 2900 a.C., forse destinato a essere trasmesso a sud-ovest. Le importazioni avevano avuto inizio intorno al 4000 a.C., nel periodo detto Naqada I, per poi dilatarsi nella successiva fase Naqada II, intorno alla metà del IV millennio. L’immagine-simbolo dell’importazione del lapislazzuli, in questo periodo, è la splendida statuetta femminile nuda dell’Ashmolean Museum di Oxford trovata a Hierakonpolis: scoperto nel 1897 sulla soglia di un probabile tempio, il corpo fu completato solo nove anni dopo dalla scoperta della testina, ancora recante il perno in legno che la fissava al torace. Le due parti, alla prova, combaciavano perfettamente. La delicata scultura dei tratti facciali e dei riccioli, secondo molti,
IL SOLCO RIVELATORE Frammenti di lapislazzuli che mostrano il tipico solco-guida destinato a guidare la rottura del materiale in piccoli parallelepipedi, dal laboratorio per la produzione di perline di Shahr-i Sokhta (Sistan, Iran). 2650-2550 a.C.
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In alto la famosa statuetta femminile in lapislazzuli da Hierakonpolis (Nekhen). 3000-2800 a.C. circa. Oxford, Ashmolean Museum.
Che cosa ci dice tutto questo, infine, sul carico perduto tra i tizzoni di Ebla? Primo, che lotti di quel tipo, giunti da Mari lungo l’Eufrate o da altre città sul versante orientale, doni o acquisti che fossero, dovevano essere stati accompagnati, passo dopo passo, da scorte armate; pena il rischio di rapine, o di esose richieste di balzelli da parte delle città dell’altopiano incontrate per via. Secondo, la natura dei blocchi di Ebla, attraversati da sottili vene parallele di diopside – come il materiale usato a Shahr-i Sokhta –, corrisponde a blocchetti selezionati e preparati per fabbricare perline, tessere di mosaico o
qualifica la testina come una scultura africana, piuttosto che medio-orientale. La si accosta solitamente ad altre figurine nude in avorio, stilizzate con tratti piú angolari e gli occhi intarsiati della pietra blu, oggi al British Museum; e alla scoperta a Hierakonpolis, come in contemporanei siti del Delta, di notevoli quantità di perline e intarsi nella stessa pietra afgana. Già ai tempi della I dinastia (3200-3000 a.C.) le importazioni della pietra blu avevano cominciato a diradarsi. Tra il III e il II millennio, le fortune del lapislazzuli lungo le sponde del Nilo oscillarono fortemente, fino a ridursi drasticamente. Il suo commercio continuava a essere ben rappresentato dai blocchetti, ancora pre-sagomati a paralellepipedo, nel cosiddetto «Tesoro di Tod» (1900 a.C. circa), insieme a sigilli siriani, palestinesi, babilonesi e a un unico esemplare nello stile di Jiroft, nell’Oriente iranico, insieme a vasi d’argento di foggia micenea. Ma già intorno al 2200 a.C. i testi geroglifici distinguevano il «vero lapislazzuli» da qualche imitazione artificiale. Infatti, con il consolidamento dello Stato faraonico e l’ampiamento dei ruoli burocratici, all’estremità opposta della linea commerciale era diventato sempre piú difficile rifornire funzionari e sacerdoti con autentiche pietre azzurre come turchese e lapislazzuli (anche se la locale amazzonite poteva, in parte, ovviare al problema). Non tutti erano in grado di permettersi la protezione simbolica, nella tomba, degli splendidi «scarabei del cuore» in lapislazzuli posti a protezione dei resti e dell’anima di Tuthankamon (1328-1318 a.C.).
altri piccoli oggetti simili. È certo che queste perline, identiche a quelle trovate nelle tombe della città, erano destinate in prevalenza al consumo interno. Invece di essere racchiusi in laboratori palatini, gli artigiani del lapislazzuli lavoravano in semplici abitazioni abbandonate, già in fase di crollo, come moderni squatter. Sembrano aver operato in modo indipendente, piuttosto che dipendere da gruppi socialmente elevati. Infine, il ritrovamento di grandi quantità di ossa di pesce e gusci d’uova di folaga (Fulica atra) sui pavimenti delle stanze-laboratorio indica che gli artigiani si mantenevano pescando e raccogliendo uova sulle vicine
Il cosiddetto «Tesoro di Tod», scoperto casualmente nel corso degli scavi di un tempio egizio di età tolemaica, ma Risalente alla metà del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Celato in due casse di legno sotto il pavimento templare, il tesoro, conteneva lingotti e vasi d’argento di ispirazione micenea, blocchi di lapislazzuli grezzi, sigilli a cilindro e persino un sigillo a stampo di mille anni piú antico, nello stile di Jiroft (Iran sud-orientale).
Nei laboratori palatini gli artigiani, a forza di esperimenti, inventarono cosí la «pietra delle fornaci» (un vetro azzurro prodotto in significative quantità dalla metà del II millennio a.C.), e dei plausibili surrogati in faïence o faïence vetrosa. Nel tempo, questi materiali artificiali finirono con il conferire alla gioielleria egizia, per millenni, una connotazione fortemente «autarchica».
SCARTI DI LAVORAZIONE Perline in lapislazzuli di elevata qualità, perse oppure spezzatesi durante la trapanazione, dai laboratori di Shahr-i Sokhta (Sistan, Iran). 2650-2550 a.C.
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sponde lacustri, come i cacciatori-raccoglitori di epoche ben piú antiche. Quello delle uova di folaga è un particolare doppiamente interessante: gli uccelli nidificano in primavera, per cui è presumibile che quella delle perline fosse un’attività svolta in questa stagione. Era il momento in cui pastori e greggi, scesi dalle alture afgane, potevano fermarsi ai margini del lago, per scambiare tessuti, latticini e carne con gli abitanti delle pianure, prima di riprendere la via del ritorno alla volta dei pascoli estivi d’altura. Forse portavano con sé i blocchi squadrati di lapislazzuli da lavorare in città, cosí da arrotondare le entrate grazie alle «ordinazioni» di collane che ricevevano dagli abitanti; probabilmente, il fatto che nella grande necropoli di Shahr-i Sokhta le tombe (una minoranza) contenenti l’offerta di un capretto siano anche le piú ricche di elementi di collana in lapislazzuli non è una coincidenza casuale. Non si tratta, in questo caso, dell’ipotizzato «sistema mondiale», quanto di uno dei molti circuiti regionali che, dinamici e coinvolgenti, strettamente connessi gli uni agli altri, fecero decollare l’economia protourbana del III millennio a.C.
Mercanti dai diritti speciali La finestra successiva da aprire, nella discontinuità delle fonti, riguarda l’archeologia e i testi trovati nell’antica città anatolica di Kanesh, l’attuale Kültepe («Collina di cenere» in turco), presso Kaiseri, in Turchia. E si aprirà su scenari completamente diversi. Tra il 1945 e il 1835 a.C. (le date sono precise grazie a migliaia di testi scritti) Kanesh – con altri centri simili, ancora non scavati – fu abitata da una colonia di famiglie mercantili legate alla città di Assur, distante piú di 1000 km, nell’alta Mesopotamia. In cambio dei notevoli profitti
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Qui sopra sigillo a stampo in steatite di tipo e stile anatolico raffigurante un uccello da preda che assale due erbivori, dagli scavi della città di Kültepe. 1800-1700 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
ottenuti dal palazzo reale, queste famiglie mercantili godevano di speciali diritti di protezione ed extraterritorialità. All’indomani della distruzione completa dell’insediamento, causata da conflitti locali, il centro venne poi riabitato tra il 1800 e il 1730 a.C. La comunità assira viveva in un quartiere sottostante l’acropoli, chiamato karum («il porto»). Circa 23 500 tavolette in caratteri cuneiformi – ancora coperte dalle loro «buste» d’argilla e sigillate negli strati del catastrofico incendio – testimoniano in dettaglio le attività,
gli apparati legali, lingue, religione e consuetudini di quella che è stata definita «la piú antica società commerciale della storia». La metà circa dei testi non è stata ancora tradotta. Sta cosí emergendo, con insolita chiarezza, l’estensione di un reticolo commerciale che univa l’Asia Centrale e la Mesopotamia al cuore dell’Anatolia e all’Egeo. Il commercio paleo-assiro a Kanesh era gestito da imprenditori individuali, mossi dall’aspirazione al personale profitto. Si basava su un circuito elementare, nel quale carovane chiamate
Il sito di Kültepe, l’antica città di Kanesh, presso Kaiseri, in Turchia.
sepum o ellatum, cariche di stagno (a volte accompagnato da lapislazzuli) e tessuti, viaggiavano da Assur alla volta di Kanesh, dove quei beni venivano venduti in cambio di argento. Quest’ultimo, estratto dalle miniere del Caucaso meridionale sotto il controllo delle élite di Trialeti, veniva inviato ad Assur per essere investito in nuove partite di stagno e stoffe, con effetto moltiplicatore. In questo schema, Babilonia importava lo stagno che giungeva dall’altopiano iranico e lo commerciava alla volta di Assur, insieme a carichi di stoffe.
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Tavoletta con iscrizione cuneiforme di argomento mercantile trovata, con migliaia di altre, nel karum (avamposto commerciale) della colonia paleo-assira di Kanesh, riscontrata con quattro diversi sigilli a cilindro. 1900-1800 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.
Oltre a questo fondamentale schema, le tavolette dicono che i mercanti di Kanesh mandavano stagno e carichi di rame – quest’ultimo ottenuto da una sorta di monopolio esercitato dagli Assiri su importanti giacimenti presso la costa nord della penisola anatolica – alla volta delle coste dell’Asia Minore e che, insieme all’argento, spedivano oro in madrepatria. Con ogni probabilità, lo stagno proveniva da importanti zone estrattive recentemente identificate nell’attuale Kazakistan (in parte, persino da giacimenti al confine mongolo), anche se alcune mineralizzazioni anatoliche non escludono provenienze meno remote. I tessuti venivano da Assur, ma come si è detto, erano prodotti da laboratori babilonesi. Come bestie da soma, i capi delle carovane compravano «asini neri» ad Assur per 20 sicli, e li rivendevano per 30 una volta giunti a Kanesh; le tavolette parlano di carovane che comprendevano fino a 300 di questi animali; ognuno di essi poteva portare da 75 a 80 kg di mercanzie. È stato calcolato che nell’arco della generazione piú attiva negli scambi, ogni anno viaggiassero in carovana 1500 asini, che
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trasportavano verso nord 15 tonnellate di stagno e non meno di 32 000 capi di tessuto (l’intensificazione dell’estrazione e della distribuzione dello stagno, alla lunga, determinò un consistente crollo dei prezzi del metallo, come si evince dal confronto dei prezzi di Kanesh con quelli della fine dell’età del Bronzo). Se tra Babilonia e Sippar un capo di tessuto si vendeva per un siclo e mezzo o due d’argento, ad Assur lo si rivendeva per quattro o cinque sicli.
Una seconda famiglia Giunto in Anatolia, lo stesso tessuto aveva un prezzo di mercato quasi dieci volte superiore a quello originario, di 14-16 sicli. Tutto ciò si sviluppava sotto forma di venture trading, vale a dire mediante la creazione ad Assur di partnership nelle quali dei soci investivano argento nell’acquisto di beni da esportare in Anatolia. Il mercante incaricato effettuava il trasporto, controllava le vendite, per poi tornare a casa con il profitto che veniva suddiviso tra gli investitori. Il viaggio di andata e ritorno di un mercante poteva durare un paio di anni, ma le famiglie assire avevano spesso agenti commerciali che risiedevano permanentemente a Kanesh, dove finivano per mettere su una seconda famiglia. Nelle tavolette piú antiche si leggono accuse di abbandono, reclami e richieste di sostegno economico da parte delle mogli lasciate ad Assur; ai capi della comunità assira, le donne richiedevano di liberare i propri uomini dagli obblighi commerciali e lasciarli tornare temporaneamente a casa. I mercanti di seconda generazione regolarizzarono in qualche modo questo stato di cose, mediante matrimoni legali con donne anatoliche e conformandosi a precise condizioni giuridiche. Cosa che deve aver comportato problemi, poiché, a giudicare dai testi, la posizione delle donne anatoliche era nettamente piú indipendente e autorevole di quella delle donne assire. Nomi di donne anatoliche, infatti, figurano spesso accanto a quelli dei mariti nei documenti legali che trattano questioni di un
I tessuti prodotti ad Assur giungevano fino all’Anatolia, dove venivano venduti a un prezzo che poteva salire di dieci volte rispetto a quello originario certo peso per la famiglia. Si conoscono anche, meno frequenti, casi di matrimoni tra donne assire e uomini anatolici. Sembra che i figli di matrimoni misti, comunque, avessero una condizione sociale inferiore. In simili circostanze, non stupisce che le rispettive culture – assira e anatolica – si fossero confrontate assiduamente, e, per alcuni aspetti, fortemente compenetrate. La straordinaria documentazione di Kültepe illustra, nei minimi dettagli, come la società multietnica e il commercio internazionale condizionassero in profondità la vita della comunità. A differenza di quanto osservato nelle enclave mesopotamiche di 1500 anni prima, Assiri e Anatolici vivevano insieme, e allo stesso modo, dando vita a un complesso processo di ibridizzazione. Le case e la cultura materiale erano le stesse; le donne assire fabbricavano tipici tessuti anatolici e i fabbri locali recavano nomi assiri. Gli Anatolici adottarono le tecnologie amministrative assire, compreso l’uso di tavolette e sigilli, dando vita, col tempo, a propri stili. Gradualmente, anche le famiglie di origine locale iniziarono a scrivere, nella propria lingua, su tavolette d’argilla. I partner locali
Un’altra tavoletta cuneiforme, racchiusa in una «busta» di argilla, insieme a una seconda tavoletta, piú piccola, di corrispondenza privata, dal karum di Kanesh. 1900-1800 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.
acquistarono gradualmente importanza, al punto che alcuni commercianti assiri furono costretti a riscattare i propri compatrioti dalla schiavitú contratta a causa di debiti. La collaborazione era resa piú complessa dal fatto che le comunità di Kanesh, e probabilmente di altri centri coevi, dovevano rispondere sia al palazzo reale della locale città-stato, sia agli obblighi del regno della madrepatria. Mentre specifici trattati regolavano il pagamento delle tasse locali (che alcuni cercavano di evadere), vi erano specifiche corti e assemblee assire per discutere casi legali. In materia di prestiti, gli Assiri erano tenuti a pagare interessi variabili tra il 30 e il 60%, mentre per gli Anatolici le stesse percentuali salivano anche al 240%. I debiti si pagavano nel periodo della tosatura delle pecore, il che sottolinea il ruolo premonetale giocato dalla lana. Quando vi erano contenziosi tra mercanti assiri, qualcuno ricorreva anche a energumeni reclutati in centri vicini, con funzione di «recuperatori di crediti». I ricorrenti conflitti tra i mercanti stranieri e i nobili anatolici venivano invece affrontati con lunghe mediazioni e il ricorso ad apposite commissioni.
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Manaccora Molinella
Giovinazzo Bari
Arcipelago Flegreo
Vivara
Monopoli Punta Le Terrare
Scoglio del Tonno
Porto Perone Roca Vecchia
Broglio di Trebisacce Torre Mordillo
Arcipelago Eoliano
Ustica
Idoletto femminile in terracotta dipinta d’importazione micenea, da Ugarit (Ras Shamra, Siria). Età del Bronzo Recente. Parigi, Museo del Louvre. Orcomeno
Capo Piccolo
Tebe
Micene Tirinto Malti Pietraperzia
Mursia
Monte Grande Madre Chiesa
M a r Mediterraneo
Pilo
Asine
Peristeria Nichoria Menelaion Ayos Stephanos
adi
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Pantelleria
Kythera
et
Cr a
Malta
Mappa delle principali rotte e degli scali dei mercanti micenei alla volta delle coste della penisola italiana e della Sicilia; sono indicati anche i beni al centro delle piú importanti transazioni commerciali. In basso particolare della decorazione dipinta su un’anfora micenea, raffigurante una biga a due ruote trainata da un cavallo. XIV sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
In ultima analisi, il commercio era parte integrante di un quadro sociale ben piú complesso, che, al di là del lucro, proteggeva con cura le proprie infrastrutture, come le relazioni personali che le sostenevano. Come ha scritto l’archeologo e antropologo Levent Atici, «La maggiore preoccupazione e priorità di entrambe le parti, Anatolici e Assiri, sembra essere stato il controllo della terra pubblica e privata e della ricchezza circolante, come dimostrato dalla presenza di numerose istituzioni all’interno di una struttura fortemente gerarchica nelle città di Kanesh e Assur. A questo scopo, le due città erano totalmente dedite a proteggere la propria
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Ceramica Ceramica micenea micenea dipinta dipinta Ceramica Ceramica a pittura a pittura opaca opaca di tradizione di tradizione mesoelladica mesoelladica Ceramica Ceramica lucidata lucidata monocrama monocrama di tradizione di tradizione mesoelladica mesoelladica Grandi Grandi pithoipithoi da trasporto da trasporto marittimo marittimo Ceramiche Ceramiche policrome policrome dall’area dall’area levanto-egizia levanto-egizia Anfore Anfore di tipo di «cananeo» tipo «cananeo»
NodiNodi marittimi marittimi occidentali occidentali
N
NodiNodi marittimi marittimi grecigreci ReteRete marittima marittima locale locale Direttrice Direttrice marittima marittima nordafricana nordafricana Principali Principali direttrici direttrici egeo-micenee egeo-micenee
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NO
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S
agenti di intelligence all’estero, proprietari terrieri e di carri e trasportatori. Erano personaggi influenti, che possedevano le migliori case in città e parlavano piú lingue. I loro archivi contenevano tavolette con la corrispondenza tra sovrani di diversi paesi. Un singolare, ma comprensibile aspetto di questa relativa indipendenza è la scarsità di testi scritti che abbiano registrato eventi e aspetti del commercio via mare. Su circa 3000 tavolette cuneiformi sinora trovate a Ugarit, solo 30 hanno a che fare con navigli e spedizioni marinare, che – immaginiamo – potevano svolgersi in maggiore autonomia e con maggior profitto degli scambi per via di terra.
struttura amministrativa, l’operatività imprenditoriale e i fondamenti ideologici del reticolo commerciale internazionale».
«Quelli che vanno ad Assur» Alla fine di un lungo processo di integrazione, i documenti legali finirono con il riconoscere nella comunità assira tre componenti diverse: i cosiddetti «pagatori di imposta», i mercanti d’élite attivi sul mercato anatolico; gli «insediati», che appaiono ormai membri della comunità locale, staccati dalle imprese commerciali e piuttosto dediti all’agricoltura e ad affari locali; e «quelli che vanno ad Assur», a quanto pare mercanti di rango ascendente, ancora strettamente legati al circuito di scambio tradizionale. È molto probabile che il caso di Kanesh-Kültepe non sia stato isolato; per molti versi, le testimonianze di Kanesh ci appaiono uniche e anomale per il solo fatto di essersi conservate in modo tanto dettagliato. In casi simili – pensiamo soprattutto alla condizione di relativa marginalità della città rispetto al regno assiro, alla sua condizione nodale rispetto alle piú importanti rotte carovaniere, e ai vantaggi ottenuti da molteplici portatori di interesse –, diversi siti e regioni dell’Eurasia meridionale, svilupparono verosimilmente una seppur condizionata libertà imprenditoriale, come le stesse capacità di interazione commerciale, di dialogo e fusione culturale. Lo confermano recenti studi effettuati su documenti cuneiformi di Ugarit, datati alla tarda età del Bronzo: pur vivendo in una cittàstato dominata da un regno dinastico, e pagando tasse ben precise, i commercianti (sia quelli che operavano con e per il sovrano, sia quelli indipendenti) erano liberi di dedicarsi agli scambi finalizzati al profitto personale; e nessuno di loro era qualificato come servo della casa reale. Il re non appare direttamente coinvolto nell’organizzazione degli scambi, ma era circondato da funzionari di alto rango, che figurano nei documenti come capi militari,
L’altra fonte dello stagno Dall’alto frammento di tazza micenea con decorazione dipinta a spirali (XVII-XVI sec. a.C.); frammento di giara micenea, con decorazione a linee sinuose (XVI-XV sec. a.C.). Entrambi i reperti sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Gli archeologi possono ricostruire le rotte e le direttrici di scambio delle spedizioni dal mondo miceneo grazie alla dispersione lungo coste e territori interni dell’inconfondibile ceramica greca del II mill. a.C.
Nella seconda metà del XVIII secolo a.C., mentre l’impero unificato creato da Hammurabi (1810-1750 a.C. circa) si avviava al declino, i mercanti della Mesopotamia avevano cessato di importare il rame omanita dalle rotte del Golfo Persico. Avevano infatti scoperto zone alternative di approvvigionamento e porti piú convenienti lungo le sponde del «Mare Superiore» (a Cipro e lungo le coste del Levante). Anche gli scali commerciali di Dilmun erano entrati in crisi. Per quanto parziali, oggi i dati suggeriscono che, piú o meno nello stesso periodo, anche il traffico dello stagno abbia cambiato polarità: mentre si esaurivano i carichi delle carovaniere centro-asiatiche, i prospector di minerali metallici iniziarono a interessarsi seriamente degli ingenti depositi di minerali di stagno nell’estremo limite nord-occidentale d’Eurasia: in Normandia e Cornovaglia. Come negli altri casi prima menzionati, l’apertura di queste nuove aree e opportunità estrattive ebbe un significativo impatto sulle locali società dell’antica età del Bronzo: la
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cultura britannica del Wessex, infatti, negli ultimi secoli della sua storia, con i monumenti megalitici e i grandi tumuli in terra, nelle importazioni di ambra e d’oro dall’Europa settentrionale, nei contatti col mondo miceneo, mostra i segni di attività economiche enormemente accresciute.
L’ascesa di Micene Quanto ai Micenei, anch’essi, secondo Kristiansen, possono essere considerati in origine una periferia del mondo anatolico, levantino ed egiziano trasformatasi rapidamente in un possente centro di potere: inizialmente coinvolti nelle forniture di materie prime metalliche dalla regione del Lavrion ai Minoici di Creta, in cambio degli impressionanti simboli di ricchezza e autorità malamente recuperati da Heinrich Schliemann nei circoli delle tombe reali di Micene, essi ottenevano ambra dalle nebbiose sponde del Po nell’alto Mare Adriatico, stagno dalla Cornovaglia, argento e oro dai bacini metallurgici dei Carpazi. Da qui giungevano anche carichi di sale che da millenni era estratto da fonti di acqua salina, e i cavalli delle steppe. Nel corso del II millennio a.C., il traffico dell’ambra e di altri prodotti del settentrione europeo si saldò stabilmente ai reticoli che partivano dai grandi giacimenti di rame, situati ad alta quota, dell’arco alpino; recenti ricerche, basate sullo studio degli isotopi del piombo, stanno rivelando quanto estesa fosse la distribuzione in Europa di armi e ornamenti fatti con i solfuri di rame delle Alpi. Dopo la disastrosa eruzione di Thera (Santorini) del 1623 a.C., il reticolo commerciale minoico e cicladico incentrato sui palazzi di Creta si infranse. Era il tempo in cui le armate imperiali ittite premevano verso sud, giungendo a saccheggiare Babilonia, Ebla e altri empori commerciali della fascia costiera levantina. Subito dopo, troviamo i mercanti micenei saldamente a capo di una nuova rete di traffici estesa da Cipro e dall’Egitto agli scali commerciali del Mediterraneo centrooccidentale e alla Cornovaglia. La loro forte
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espansione commerciale era stata accelerata dalla crisi generale delle rotte del Mediterraneo orientale. Dopo la metà del II millennio a.C., vasi di lusso di manifattura o ispirazione greca, figurine di avorio e perline in vetro segnalano le tappe e l’estensione dei traffici e degli scambi tra i mercanti dell’Argolide, di Egina e altre località egee con innumerevoli comunità indigene delle isole e delle coste italiane. Le navi percorrevano le coste occidentali della Grecia, per poi attraversare il canale d’Otranto; giunti all’estremità dell’attuale regione pugliese, potevano costeggiare le sponde occidentali dell’Adriatico oltrepassando il Gargano, e, ancora piú a nord, puntando agli scali commerciali del delta del Po. Lungo il fiume, le ceramiche orientali, con i loro sconosciuti contenuti, venivano portate entroterra e raggiungevano lo scalo di Fondo Paviani, nelle basse pianure veronesi, uno dei maggiori centri arginati della cultura delle terramare. La rotta alternativa consisteva nel dirigersi verso le coste calabre, quindi alla volta della Sicilia; oppure passare lo stretto di Messina e raggiungere gli approdi delle isole Eolie, e di qui l’isola di Vivara e l’insenatura campana. Se di questo commercio miceneo-indigeno abbiamo un’immagine davvero minimale, non dobbiamo dimenticare che esso era condotto tramite imbarcazioni simili, per forma e carico, a quelle affondate al largo delle coste turche (si veda oltre) e al fiorire della vita palatina in Egitto, a Cipro e in Anatolia.
L’avventura del faraone-regina La spedizione verso Punt, direttamente suggerita dal «Grande Trono» di Amon-Ra, era stata considerata tanto importante da Hatshepsut (1479-1457 a.C.), che la regina volle immortalarla, in mille particolari, e con attenzione decisamente burocratica, sulle pareti del suo imponente tempio funerario terrazzato di Deir el-Bahari, sulla sponda occidentale del Nilo, davanti a Luxor. Dall’ampio cortile del primo terrazzo si saliva la rampa centrale, con un ingresso fiancheggiato da statue leonine. Oltre alla
Nella pagina accanto ornamenti in ambra baltica, da Låddenhøj (Holbæk, Danimarca). Età neolitica, IV-III mill. a.C. Copenaghen, Nationalmuseet. Grazie al suo aspetto inconfondibile e alla sua peculiare composizione chimica, l’«oro del Nord» è un altro fedele «tracciante» degli antichi reticoli commerciali dell’età del Bronzo.
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tomba di Senenmut, ideatore del complesso architettonico e probabile amante della sovrana, il secondo terrazzo ospitava sfingi, due vasti bacini idrici e la rampa che conduceva al terzo piano. I tre livelli erano contornati da portici colonnati, rilievi, dipinti e statue. Sul lato destro della rampa che conduce al terzo terrazzo si trovano i rilievi con il racconto della concezione di Hatshepsut dalla massima divinità Amon, un’affermazione di cruciale importanza politica, in quanto giustificava l’inedito privilegio della regina di regnare da sola, e non come sposa di un fratello (come avveniva da sempre). Il colonnato con i rilievi del viaggio a Punt – l’esotica terra considerata «il Paese degli Dèi» – deve essere stata considerata di eguale importanza, dato che occupa,
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Incenso a volontà
«S
ua Maestà del Palazzo ha chiesto consiglio alle scale del Signore degli Dei. Si è udito un ordine del Grande Trono, un oracolo dello stesso Dio, che fossero cercate le vie verso Punt, che fossero esplorate le vie alle terrazze dove si coltiva la mirra (...) Cosí ha detto Amon-Ra, il Signore dei Troni delle Due Terre: “Vieni, vieni in pace figlia mia, la bella che è nel mio cuore, la regina Maatkare
Hatshepsut. Io darò a te Punt, nella sua interezza (...) condurrò i tuoi armati per mare e per terra, su spiagge misteriose, che conducono ai porti dell’incenso (...) Essi prenderanno incenso a volontà. Caricheranno le navi fino a soddisfare i loro cuori con arbusti vivi di incenso, e con tutte le cose buone di quella terra”» (dal nono pannello dei rilievi di Punt a Deir el-Bahari).
A destra restituzione grafica di uno dei rilievi policromi del tempio funerario di Hathsepsut a Deir el-Bahari (Tebe) raffigurante il viaggio nel Paese di Punt. 1480 a.C. circa. Nella pagina accanto particolare del rilievo originale, raffigurante inservienti egiziani che trasportano a bordo, con le radici e in appositi cesti, alberi di mirra. In basso particolare di un rilievo della «Cappella Rossa» del tempio di Hatshepsut (poi demolita dal suo successore Thutmosi III) raffigurante la regina che getta dei grani di incenso in un braciere, per onorare il suo dio. 1480 a.C. circa.
simmetricamente, il lato destro dei porticati presso la stessa rampa. La narrazione si svolge in dieci pannelli. Nel primo, la spedizione parte per mare con cinque grandi navi a vela. Nel secondo, gli Egiziani sbarcano a Punt, sotto scorta armata. Davanti a loro sono ammucchiati quelli che sembrano doni destinati ai signori del Paese straniero:
bracciali, accette e daghe. Giunge la famiglia reale, composta da re Perehu, dalla regina Ati (rappresentata con fattezze corpulente, quasi grottesche), dai figli e da un asinello. Sullo sfondo – è uno dei particolari piú affascinanti della narrazione visiva – si stagliano capanne a tetto ricurvo, su palafitta, circondate da palmeti; una striscia d’acqua suggerisce che il villaggio dei Puntiti sorgesse sulla riva del mare o presso un corso d’acqua, forse risalito dalla flotta egiziana. Sembra quasi di sentire il lento battito dei tamburi che, in mille opere letterarie, fanno da classico sfondo a questo tipo di storie ambientate in Africa. Nel terzo pannello, i Puntiti portano le loro ricchezze «nelle terrazze della mirra di Punt, di fronte al mare», come spiega una didascalia. La scena è commentata come se fosse la riscossione di una tassa o di un tributo, anche se una tenda vicina contiene pane, birra, vino, carne e frutta destinati ai capi di Punt, come in uno scambio reciproco. Nel successivo quarto pannello, i preziosi beni sono caricati sulle navi per il viaggio di ritorno: vi figurano alberi vivi di mirra, sacchi (forse di mirra), zanne di elefante, grandi scimmie. Segue, nel quinto pannello, la scena del viaggio di ritorno verso Tebe, insieme ad alcuni maggiorenti di Punt. Nel sesto, i tesori di
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Punt vengono presentati a corte, mentre gli ospiti puntiti si inchinano a pregare: «per la pace di Sua Maestà: evviva a te, re d’Egitto, Ra, colui che splende come il sole, il vostro sovrano, la Signora del cielo».
3000 piccoli bovidi Si giunge cosí al settimo pannello, nel quale le offerte sono dedicate ad Amon, signore di Tebe, con ulteriori liste che parlano di elettro, cosmetici, bastoni da lancio, ebano, avorio, conchiglie, una «pantera del sud», pelli di pantera e «3000 piccoli bovidi». Nell’ottavo, si procede, tra iperboliche lodi alla regina, alla pesatura di anelli d’oro e cumuli di mirra, sotto gli occhi vigili di Thot (dio della scrittura) e di Sesciat (dea delle lettere). Il nono pannello è in realtà un prequel (il ricordo di come lo stesso dio Amon abbia chiesto ad Hatshepsut di effettuare la spedizione, si veda sopra), mentre il decimo rappresenta il rapporto finale della spedizione al palazzo. «Mai vi fu un re, sin dagli inizi, che abbia portato tesori del genere» recita una delle ultime chiose. Oltre a scimmie che sembrano grandi primati (scimpanzè o gorilla), i rilievi mostrano rinoceronti e giraffe, che indicano l’entroterra etiopico, nonché, piú a est, alle sponde del Mar Rosso, la localizzazione di Punt. Ma le didascalie dei rilievi sembrano anche indicare, secondo alcuni, forniture di arbusti di cinnamomo, dai quali si ottiene la cannella: pianta assente in Africa, nativa di Sri Lanka e del Sud-Est asiatico, il che suggerisce fossero già attive alcune rotte transpacifiche del commercio di spezie meglio note da fonti molto piú tarde. Le transazioni immortalate dalla propaganda di Hatshepsut vengono presentate come se si trattasse di una tassazione, o di un tributo dovuto alla maestà faraonica, ma (curiosamente) senza volere o poter cancellarne del tutto gli aspetti di reciprocità commerciale. Malgrado le affermazioni della regina, non furono certo impresa unica. Contatti con Punt sono noti sin dai tempi dell’Egitto predinastico (tardo IV millennio a.C.), e ancora ai tempi dei faraoni della IV
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dinastia (XXVI secolo a.C.); lo stesso successore della regina, Thutmosi III (1479-1424 a.C.) organizzò nel 1446 a.C. un’altra spedizione del genere, i cui proventi furono rappresentati, come vedremo, in un altro monumento funebre. La gestione a corte del prestigio derivante dall’impresa occupa, nella narrazione grafica di Deir el-Bahari, uno spazio nettamente superiore a quello dedicato al viaggio stesso. L’enfasi con la quale la regina ha narrato l’impresa delle sue navi ha probabilmente a
Deir el-Bahari (Tebe). Un altro rilievo policromo del tempio funerario di Hathsepsut raffigurante il viaggio nel Paese di Punt. 1480 a.C. circa.
che fare con la delicatezza della sua posizione personale sul trono, piú che con la portata economica dell’impresa; che, peraltro, sembra intrisa di tinte ideologiche fortemente arcaiche, se confrontata con il mondo «modernista» che traspare dalle tavolette anatoliche, di ben tre secoli precedenti.
Sulla pelle del bue Rekhmire era un importante funzionario del successore di Hatshepsut, Thutmosi III. Era il nipote dello stesso visir della grande sovrana,
e, oltre ai suoi incarichi di governatore di Tebe e giudice, doveva essere stato incaricato dalla corte di soprintendere a una lunga serie di uffici e manifatture artigianali. Per esibire la sua lealtà al sovrano, e come tanti altri burocrati, Rekhmire, nel suo sontuoso sepolcro tebano, noto come Tomba 100, aveva fatto dipingere numerose scene lavorative, quali la fabbricazione di gioielli in oro e pietre semipreziose, la fusione di grandi oggetti in bronzo, la fabbricazione di mattoni e la scultura di grandi statue in pietra, l’opera di cordai e
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ROMA
conciatori, la preparazione di birra, cibo e torte, la raccolta del miele, la cattura di vari animali, pesca sul Nilo, scene agricole e di vendemmia, il calcolo del raccolto e tutto quanto riguardava la riscossione dei tributi. Rekhmire sembra essere stato anche orgoglioso di aver controllato e – a suo dire – scrupolosamente seguito il flusso di preziosi doni esotici portati a Thutmosi III dalle periferie del regno. Della sua onestà, oppure dei suoi buoni favori a corte, è lecito anche in questo caso dubitare, se è vero che dopo la morte di Thutmosi e l’accessione al trono di Amenhotep II (1424-1398 a.C.) i suoi ritratti, quelli della moglie e dei figli furono abrasi e coperti da strati di pittura rossa. A noi, comunque, ora importa uno dei maggiori settori dipinti che rappresenta le cosiddette «processioni tributarie»: queste si sviluppano su cinque registri sovrapposti, nei quali emissari di diversi Paesi stranieri consegnano e
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fanno inventariare dagli scribi reali lunghe liste di doni. Da Punt, troviamo ancora cumuli e cumuli di resine aromatiche, piante d’incenso, anelli d’oro, collane, pelli, legname pregiato e animali africani. I doni dei Keftiu (i Cretesi) occupano tre registri, con anelli e lingotti d’argento, lapislazzuli, vasi metallici, anche a testa d’animale. Tre portatori hanno sulle spalle altrettanti lingotti di rame del tipo «a pelle di bue»: grandi pani rettangolari di forma piatta, con «zampe» o angoli allungati che offrono una presa confortevole ai portatori. Piú in basso tocca ai Nubiani, con altre file di doni esotici (tra i quali una giraffa, un leopardo e scimmie), cani e bovini. Infine, ancora piú in basso, a sottolineare la relazione di sottomissione del loro Paese, sfilano i Retenu, cioè gli Asiatici del Levante, che portano con sé, oltre a una nutrita schiera di schiavi legati, vasi tipici della terra di Canaan contenenti olio e resina, vasi d’argento,
In alto Deir el-Bahari (Tebe). Ancora un rilievo policromo del tempio funerario di Hathsepsut raffigurante la spedizione nel Paese di Punt. 1480 a.C. circa. In questa scena si vede un funzionario di nome Nehesji alla testa di un drappello di soldati. Nella pagina accanto Iti, moglie del re di Punt, in uno dei rilievi del tempio funerario di Hathsepsut a Deir el-Bahari. 1480 a.C. circa.
carri, cavalli e altri grandi lingotti di rame. Sono proprio questi grandi lingotti, attribuiti nelle pitture egiziane a Cretesi (a Micenei insediati a Creta) e Cananei, il principale vettore dell’ultima stagione del commercio dell’età del Bronzo nel Mediterraneo, all’incirca tra il 1400 e il 1200 a.C. L’unico stampo di fusione per questi oggetti sinora rinvenuto si trovava nel sito di Ras Ibn Hani, nelle rovine di un palazzo di Ugarit dove aveva vissuto per qualche tempo la regina madre.
Nuove vie commerciali Subito dopo, la stessa stagione si sarebbe chiusa all’insorgere della grande crisi socioeconomica e militare che molti ricorderanno con il termine di «Invasione dei Popoli del Mare». Questi lingotti, maneggevoli e facilmente caricabili sulla groppa di un asino proprio grazie alle lunghe «zampe» che si protendono agli angoli, erano ottenuti mediante una prima fase di raffinazione del minerale, piuttosto che dalla rifusione di precedenti oggetti finiti. Diffusi dalle coste del Levante a Creta e a siti micenei, fino in Sardegna, i lingotti rintracciano nuove linee
commerciali, e inedite strategie economiche. Alla fine del II millennio a.C., il valore di uno di questi lingotti corrispondeva precisamente a quello di un bue o toro, il che semplificava notevolmente la chiusura dei conti e lo scioglimento delle carovane. Come al solito, dai disastri antichi traiamo quell’utile che fu tragicamente negato ai diretti interessati. Le nostre conoscenze su questo periodo del commercio protostorico internazionale dipendono infatti in larga misura dalla scoperta e dallo scavo subacqueo di due relitti pressoché contemporanei (tra la fine del XIII e il primo XII secolo a.C.) naufragati al largo della costa meridionale turca: uno a Capo Gelidonya, al margine occidentale della baia di Antalya, scoperto nel 1954; l’altro a Uluburun, a poca distanza dal centro di Kas, scientificamente recuperato tra il 1984 e il 1994. Due disastri, si è detto, e come non ricordare le parole profetiche di Ezechiele (27, 27), spese contro la città fenicia di Tiro? «Le tue ricchezze, i tuoi beni e il tuo traffico, i tuoi marinai e i tuoi piloti, i riparatori delle tue avarie, i trafficanti delle tue merci, tutti i guerrieri che sono in te e tutta la turba che è in mezzo a te piomberanno nel fondo dei mari, il giorno della tua caduta». L’imbarcazione di Capo Gelidonya, affondata a 30 m di profondità, era carica di metallo: portò con sé 34 grandi lingotti a pelle di bue, pesanti in media 25 kg l’uno, piú una partita di lingotti a forma di disco piano-convesso, interi (3 kg circa l’uno) o spaccati in due, e una serie di altri lingotti minori, piatti e di forma ovale, del peso di 1 kg circa. La nave aveva anche caricato ceste piene di rottami di oggetti in rame o bronzo destinati alla rifusione (pezzi di strumenti, armi, vasi e ornamenti personali), e un numero imprecisato di lingotti di stagno a forma di barrette. Il tutto era accompagnato da una numerosa collezione di pesi in pietra, a quanto pare conformi sia alle scale ponderali usate nel Levante, sia a quelle dell’area egea. Il secondo relitto aveva dimensioni maggiori (15 m circa di lunghezza, con uno stivaggio di piú di 20 tonnellate). Una lunghezza di 15-20 m e una
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capacità da 10 a un massimo di 20 tonnellate sembrano essere stati lo standard dei carghi commerciali dell’epoca. Sprofondato su un fondo fortemente inclinato (un’antica frana) a circa 50 m di profondità, il relitto di Uluburun aveva disperso il suo carico su un areale molto maggiore, rendendo il recupero piú gravoso. La forma delle 24 ancore in pietra che coprivano parti dello scafo, come del resto lo scafo in legno di cedro, suggerivano una provenienza dalle coste levantine o da Cipro, piuttosto che dal Mar Egeo (circostanza confermata anche dai pesi che usavano i proprietari). Anche i resti di un topolino annegato nel naufragio suggeriscono la provenienza levantina.
Lo scarabeo di Nefertiti Una giara conteneva un gruppo consistente di fini vasi ciprioti, ma altre ceramiche erano micenee. Vi erano gioielli, uno splendido calice e vari ornamenti in oro; una figurina in bronzo di tipo cananeo coperta di lamine auree; e, nello stesso metallo prezioso, uno scarabeo recante il nome di Nefertiti, sposa del faraone Akhenaton (1348-1331 a.C.). Nel lungo inventario dei preziosi manufatti portati a bordo e perduti nei flutti, impossibile non ricordare, tra i manufatti in bronzo, strumenti artigianali, spade, pugnali e lance di foggia micenea, e una spada fusa nel fangoso
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In basso riproduzione di una delle pitture murali della tomba di Rekhmire (TT100) raffigurante personaggi stranieri che conducono vari animali, da Monumenti dell’Egitto e della Nubia di Ippolito Rosellini. 1832-1844. A sinistra e a destra due Siriani, riconoscibili dalla barba e dall’abito, conducono un animale identificabile con un orso e un piccolo elefante e portano oggetti destinati a costituire doni o tributi: zanne d’avorio, un lingotto di rame a pelle di bue e un vaso. Al centro è invece un Etiope, con un leopardo al guinzaglio e sulle spalle un tronco di legno nero, il prezioso ebano.
laboratorio di una terramara della Pianura Padana; e ancora contenitori in materiali pregiati, strumenti musicali, migliaia di elementi di collana in vetro, faïence, ambra, agata, cornalina e conchiglia marina, piú una lunga serie di beni commestibili (olive, uva, mandorle, coriandolo, melograni e fichi). Un’ascia in pietra levigata proveniva dalla valle del Danubio. Il carico conteneva anche orpimento (un pigmento rosso fatto di solfuro di arsenico) da usare per fare cosmetici o conciare pelli o per tingere fibre. Unica è anche la scoperta di tavolette lignee destinate a essere coperte di cera come supporto scrittorio, che testimoniano come lo scambio di informazioni fosse un aspetto cruciale del commercio internazionale. Il grosso del carico era però formato da materie prime, piú che da prodotti. I lingotti a pelle di bue, in questo caso, erano 348, di forme in parte diverse, e accompagnati da 130 lingotti piano-convessi, per un totale di circa 10 tonnellate di rame. L’ammontare è stranamente superiore a qualsiasi altro menzionato dalle fonti scritte contemporanee. Ancora una volta, al rame si accompagnavano barre e altri tipi di lingotti di stagno, per un peso complessivo di poco meno di una tonnellata. Insieme ai due metalli necessari a creare leghe bronzee, i naviganti avevano calcolato di fare buoni affari rivendendo una tonnellata di resina
di terebinto (una varietà di pistacchio) accuratamente confezionata in 150 giare di tipo cananeo, e piú di 170 blocchi di vetro blu e azzurro per un totale di 350 kg circa, forse colati in Egitto e pronti per essere rifusi altrove, per produrre ornamenti locali. Nella dispersione del carico furono inoltre recuperati fusti di legno pregiato, denti di ippopotamo e avorio di elefante, gusci di tartaruga e uova di struzzo. Il tutto, secondo alcune stime, doveva valere non meno di 7000 sicli d’argento (pari a 90-100 kg del metallo). Altri hanno calcolato, sulla base dei prezzi contemporanei, che il valore del carico avrebbe potuto sfamare una città come Ugarit per almeno un anno. Senza dimenticare che, se il naviglio aveva caricato anche tessuti, difficilmente questi sarebbero sopravvissuti per 3000 anni sul fondo del mare. Non sempre tanta ricchezza, e tanta evidenza, semplificano l’interpretazione. Innanzitutto, il cargo di Uluburun ha troppe cose da spiegare. Partito dalle coste siriane o forse da Cipro, sembra essere stato diretto verso ovest,
Tebe, tomba di Rekhmire (TT100). Particolare di una delle pitture originali raffigurante, fra gli altri, Nubiani che portano giraffe e Siriani che conducono altri animali. XVIII dinastia, 1479-1398 a.C.
probabilmente facendo scali intermedi lungo approdi e stazioni mercantili dove era stata ceduta, e acquistata, parte del carico. Detto questo, iniziano difficili domande. Chi doveva scrivere sulla tavoletta trovata a bordo intonsa, e con quali caratteri? Su simili tavolette dovevano essere registrati i conti del carico, o messaggi tra case reali? L’imbarcazione stava dirigendosi verso Creta oppure verso coste piú settentrionali? Gli oggetti piú preziosi erano doni fatti da un sovrano a un altro, magari scortati da mercenari professionisti internazionali – come potrebbero suggerire le spade micenee e quella padana – o erano parte di transazioni successive, succedutesi nel tempo, come indicherebbe il carattere eterogeneo degli oggetti in oro? Ma, in tal caso, come potrebbe conciliarsi quest’ultima ipotesi con l’acquisizione di carichi metallici e di resina di una simile portata, che sembra postulare l’intervento o l’interesse di una casa reale, o comunque di una agenzia economicamente rilevante? Alcuni propendono per l’ipotesi di una
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essere scambiato con 2 quintali di rame. Lungo le coste della penisola dello Jutland e del Mar Baltico, nei secoli centrali dell’età del Bronzo (circa 2000-1200 a.C.), una famiglia di raccoglitori, durante la stagione delle mareggiate, poteva raccogliere sulla spiaggia, con uno sforzo tutto sommato ridotto, da 10 a 15 kg della preziosa resina fossile. Era il contenuto di una giara di medie dimensioni, equivalente, in teoria, a due o tre tonnellate del metallo: grosso modo, a un quarto o un terzo del carico di lingotti stipati in imbarcazioni come quelle testimoniate dai naufragi dei secoli seguenti. Sono questi impressionanti margini di profitto (dai quali tuttavia andavano sottratti i balzelli e le regalie che i commercianti dovevano sborsare per via, stazione dopo stazione) ad aver reso possibile sfortunata commissione regale, altri sottolineano, al contrario, il carattere opportunista, maggiormente indipendente, di alcune strategie commerciali, che si sarebbero sovrapposte o accompagnate ai carichi principali. Le imbarcazioni, quindi, sarebbero stati autentici «bazar semoventi», con carichi in continuo ricambio da scalo a scalo. Certo è che al centro degli affari si collocava il grande traffico in lingotti di rame, che nel XIII secolo a.C. ebbe come epicentro i quartieri industriali della costa levantina e soprattutto di Cipro: alla prova delle analisi chimiche, sia i lingotti di Capo Gelidonya, sia quelli di Uluburun sembrano provenire dai minerali dell’isola. Anche se una terza imbarcazione affondata nel XIII secolo a.C. al largo di Punta Iria, lungo la costa orientale del golfo dell’Argolide, trasportava un intero carico di vasi ciprioti, cretesi e greci, in parte usati per il commercio di vino e olio di oliva. Secondo alcuni calcoli, ai tempi di Hatshepsut (XV-XIV secolo a.C.), il rapporto tra oro e argento si era abbassato a 1:2, e la stessa quantità di argento si scambiava per 200 unità di rame. Un altro calcolo porrebbe, nel Mediterraneo, il rapporto tra rame e ambra intorno a 1:200: 1 kg di ambra, cioè, poteva
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Nella pagina accanto, in alto e in questa pagina, in alto due immagini del recupero dei materiali imbarcati a bordo della nave di Uluburun, naufragata al largo delle coste di Kas (Turchia) intorno al 1400 a.C. In particolare, si riconoscono alcuni lingotti a pelle di bue. Il relitto fu scoperto nel 1982 da un subacqueo turco. A destra la sezione ricostruttiva della nave di Uluburun realizzata nel Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum.
l’affermazione del grande traffico preistorico dell’ambra in direzione sud. Quintali d’ambra venivano inviati lungo la valle del Reno e le altre vie commerciali transeuropee, per giungere negli abitati fortificati della cultura delle terramare nella Pianura Padana, agli empori della foce del Po e nei castellieri delle piane friulane. Il volume del traffico d’ambra, le prove che suggeriscono una via di diretti contatti tra la Scandinavia e la Germania meridionale, e l’evidente interesse dei mercanti micenei per i mercati terramaricoli, aiutano a spiegare la vistosa ricchezza in rame e oro, esibita nelle sepolture, delle élite della Scandinavia meridionale nella seconda metà del II millennio a.C. Si calcola che, nella sola Danimarca, tra il 1500 e il 1200 a.C., entro 50 000 tumuli funerari siano state deposte non meno di 20 000 spade di bronzo, provenienti in larga misura dalla penisola iberica e dalla Sardegna. Alle grandi quantità di ornamenti e armi in bronzo trovate nelle tombe scandinave piú ricche, infatti, corrisponde un numero di ornamenti in ambra sempre piú consistente in tombe scavate nel cuore dell’Europa, in Italia e in Grecia. Qui – deposta nelle tombe reali di Micene – l’ambra veniva addirittura usata per aromatizzare il vino dei signori: lo indicherebbero curiose ruote in filo aureo, che recano sospesi al centro, sulle quattro braccia di una stessa croce, altrettanti spessi elementi perforati e ben sagomati fatti della preziosa resina fossile. L’ambra riscaldata, infatti, diffonde un forte aroma di resina; bastava sospendere la ruota d’oro su di un braciere, e poi immergerle in un cratere pieno di vino, per donare alla bevanda quell’aroma che è ancora tanto popolare nei vini della Grecia odierna. Similmente, le società protostoriche della regione del Caucaso meridionale, oggi compresa nei confini politici di Georgia e Armenia, molto ricca di mineralizzazioni di rame, oro e argento, si erano sviluppate in stretto contatto con i pastori nomadi delle steppe centro-asiatiche. Proprio in Georgia, nel distretto di Bolnisi-Sakdrissi, presso il confine armeno, è
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Troia: fu guerra commerciale?
T
ra gli elementi di collana scavati a Troia sono recentemente emersi esemplari in cornalina fabbricati nella Valle dell’Indo del III millennio a.C.; altre perle in cornalina indiana dello stesso periodo sono state trovate nell’isola di Egina, di fronte ad Atene. E tra i piú fini gioielli in oro trovati nelle rovine della famosa città non mancano esemplari giudicati molto simili a quelli dissotterrati nel ricchissimo Cimitero Reale di Ur (2500-2300 a.C. circa). La rilevanza commerciale del sito che conosciamo come Troia «con i suoi famosi tesori di complessi gioielli, vasi, statuette, armi e attrezzi variamente lavorati in oro, argento, rame, diverse leghe e ferro
stata scavata la piú antica miniera d’oro d’Europa, nella quale il piú prezioso metallo si estraeva, con un lungo ed estenuante processo, da vene verticali di quarzo aurifero. Da queste terre gli occidentali ottenevano importanti carichi di stagno (estratto in Kazakistan) e cavalli. La cultura georgiana detta di Trialeti (2200-1700 a.C. circa) è nota soprattutto per i preziosi ed elaborati manufatti in oro e argento deposti nei kurgan (grandi tumuli sepolcrali con camera lignea interna), a testimonianza dei ricchi introiti commerciali dei suoi capi. Il commercio dei cavalli e la graduale diffusione delle tecnologie come della cultura dell’equitazione spiega le forti somiglianze stilistiche nelle componenti delle bardature equine tra i cavalieri delle steppe, le élite del Caucaso e dell’impero ittita, e quelle del mondo miceneo. Tra il XV e il XIV secolo, sullo sfondo di questo accresciuto e arricchito panorama di scambi a lunga distanza si colloca l’economia – in apparenza quasi paradossale – dello scambio di doni tra le grandi case regali e della progressiva accumulazione di ricchezza sotto forma di metallo circolante nelle loro tesorerie.
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Collana in cornalina e ametista di probabile produzione cretese, dall’isola di Egina. 1700-1500 a.C. Londra, British Museum.
meteoritico, cristalli di rocca e splendenti asce di battaglia in pietra del tipo del Mar Nero, di cui una intagliata in lapislazzuli» (Cyprian Broodbank) è palese sin dai suoi livelli piú antichi, e continuò fino alla distruzione cantata da Omero. Dopo tutto, Elena era sí fuggita con Paride, ma anche con il tesoro reale della sua gente.
In basso terminale d’asta (o scettro) rivestito in lamina d’oro decorata a rilievo stampato con leoni e motivo a meandro, dal kurgan n. 15 di Trialeti (Georgia). Prima metà del II mill. a.C.
Questo mondo, già ampiamente globalizzato, venne meno nel corso del XIII secolo a.C. Per una serie di concause – quali crisi climatiche, da cui derivò una crescente aridità, distacco tra le case reali e le società urbane e mercantili in via di sviluppo, e introduzione di navigli piú solidi e compatti dalle prue a testa di uccello e di vele piú maneggevoli –, nuove masse umane presero a muoversi attraverso il Mediterraneo. Erano mercenari, pirati e commercianti, capi tribú e migranti armati di etnie diverse, in cerca di fortuna. La Pianura Padana, anch’essa colpita da un processo di inaridimento, si svuotò nell’arco di due o tre generazioni, e – visto il ritrovamento in Oriente di spade di foggia italiana, e della tipica ceramica grezza delle terramare – è stato proposto che parte dei migranti si siano uniti a truppe mercenarie, pronte a riversarsi contro i vecchi centri di potere palatini d’Egitto, della Grecia e dell’Anatolia. Mentre la propaganda reale egiziana scelse di rappresentare questi epocali sommovimenti in termini etnici, con l’etichetta dei minacciosi e alieni «Popoli del Mare», il traffico del rame continuava a espandersi. Pensiamo all’abitato di
Non si deve infatti dimenticare che «quasi tutte le guerre, forse tutte, sono guerre commerciali basate su specifici interessi. Sono sempre camuffate da guerre sacre, fatte nel nome di Dio, della civiltà o del progresso. Ma tutte, o quasi tutte le guerre, sono state commerciali» (Eduardo Galeano).
Enkomi a Cipro, dove è stato scavato un intero quartiere metallurgico esteso per un ettaro, con strati di scorie e residui metallurgici spessi non meno di 1 m, e dove si veneravano divinità guerriere che si manifestavano ai fedeli, come mostrano le statuette, sorgendo su lingotti di rame a pelle di bue, gli stessi di Capo Gelidonya e Uluburun. Nell’area estrattiva di Bir Nasib, nel Sinai, furono abbandonate in loco piú di 100 000 tonnellate di scorie di riduzione del minerale di rame. Questa produzione intensificata, e una domanda di rame che continuava a essere incalzante spiegano, in ultima analisi, l’espansione di commerci di svariato genere della tarda età del Bronzo dal Mar Baltico al Sudan, e dal Mar Nero alla Sardegna. Ciò avveniva a prescindere dalla graduale emersione del nuovo mondo tecnico della
In alto tazza a due manici in argento dorato di produzione anatolica. 2300-2000 a.C. In basso collana con vaghi di lamina d’oro decorati, e pendente centrale in agata, dal kurgan n. 8 di Trialeti (Georgia). Inizi del II mill. a.C.
siderurgia, che si lasciava alle spalle la produzione di manufatti con il rarissimo ferro meteoritico. Il passaggio allo sfruttamento del ferro tramite riduzione del minerale e forgiatura dei blumi avvenne tra il XIII e il XII secolo a.C., a quanto pare a opera di fabbri anatolici, ciprioti e caucasici (ma altrettanto stava accadendo in un areale ben piú vasto, che abbracciava l’altopiano iranico e le regioni settentrionali del mondo indiano). Con i nuovi ornamenti e le prime armi in ferro, ora a disposizione di un numero crescente di società periferiche, il mondo non sarebbe mai piú stato lo stesso. Simili testimoniannze consigliano di sfumare la facile «retorica della catastrofe» e meglio valutare la portata economica del cambiamento. Piú che descrivere le sconfitte dell’Egitto, degli Ittiti e dei Micenei, (come ha scritto Cyprian Broodbank) dovremmo forse parlare della vittoria del Mediterraneo e delle sue genti. Sono i tempi della guerra di Troia, immortalati dai racconti omerici. Sullo sfondo, infine, bruciarono, nella notte, le cittadelle di Micene, Tirinto e Hattusa, e, con esse, numerose città fortificate della costa cananea; ma altre continuarono a prosperare. Grazie all’estensione della navigazione in latitudine sugli assi est-ovest – che permetteva di evitare i pericoli degli approdi costieri –, le importazioni di beni di lusso in Grecia, e in generale i traffici internazionali di articoli esotici, dopo il collasso, sembrano essere aumentati, piuttosto che cessare. Nell’entroterra cretese e a Cipro, in particolare, la vita urbana e le attività artigianali e mercantili non sembrano aver subito drammatiche interruzioni: la società cipriota continuò a prosperare e a svilupparsi economicamente, diventando sempre piú composita dal punto di vista etnico e linguistico.
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Illustrazione ottocentesca nella quale si immagina Hiram, re di Tiro, che si reca in visita da Salomone, portandogli doni.
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LA STORIA SCRITTA DAGLI ALTRI Dei Fenici si è radicata la convinzione, diffusa da autori e storici antichi e moderni, che fossero «nati» mercanti: un’idea corroborata dalla straordinaria diffusione dei loro prodotti in tutta la regione mediterranea e dalla fitta rete di colonie via via stabilite in molte delle terre affacciate sul Mare Nostrum
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I FENICI
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«Età Oscura» a cavallo tra II e I millennio a.C. nacque, come abbiamo visto nel capitolo precedente, tra assalti, razzie, disastrosi incendi e lotte intestine. Dai fumi delle ultime cittadelle murate, e da una fase di rinnovati e intensi contatti e scambi, emerse una realtà non semplice da descrivere. Innanzitutto, il collasso non fu simultaneo, perché nel Vicino Oriente antico l’autorità degli stati di Assiria e Babilonia, centralizzati da piú di un millennio, posticiparono sensibilmente la crisi. Mentre l’impero ittita era ormai completamente disintegrato, l’Egitto continuava a perdere autorità. Ne trassero vantaggio numerose case dinastiche della fascia siro-palestinese (incluse le cinque maggiori città-stato dei Filistei di Ascalona, Gaza, Ashod, Ekron e Gath), quelle degli Aramei della Siria settentrionale, le tribú dominanti di Israele e Giuda, e i centri della costa orientale mediterranea. Le attività estrattive del rame nel Sinai ripresero con grande intensità. Le fonti storiche e l’archeologia hanno usato nomi diversi per descrivere genti e comunità che, a partire dalla costa levantina, hanno letteralmente dato forma alla storia successiva del Mediterraneo. Le società calcolitiche e le città-stato portuali della fascia costiera siro-palestinese (attuali Libano, Siria, Israele), sviluppatesi tra il 5000 e il 1200 a.C. circa, sono solitamente chiamate «cananee». La parola corrisponde al termine geo-politico Kinahhu che, insieme a quello di Amurru (che naturalmente ricorda la terra degli Amorrei o Martu) identifica, in testi accadici e ugaritici della tarda età del Bronzo (XIV-XIII secolo a.C. circa) la Fenicia di età successive. Si parla di città o regni fenici, usando una parola introdotta da Omero e adottata da successivi scrittori e geografi greci, per le stesse genti, ma esclusivamente lungo l’arco cronologico che va dal 1200 al 600 a.C. Oltre questa soglia,
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invece, si parla di una fase «punica», che terminerebbe con l’anno 146 a.C., quello della distruzione di Cartagine. Secondo parte degli studiosi, questi tre orizzonti successivi sarebbero distinti da una fondamentale continuità culturale; altri, invece, vi vedono fratture consistenti, che non giustificherebbero l’immagine storica di una longue durée dell’identità nazionale fenicia.
La mancanza del nome È assai probabile che i Fenici chiamassero se stessi con il nome della città d’origine. All’assenza di un etnonimo comune e persistente in cui queste genti si siano mai
Mappa della regione fenicia con, in evidenza, la città di Biblo, che fu a lungo uno degli scali commerciali piú importanti del mondo antico.
Rilievo raffigurante il trasporto via mare dei tronchi di cedro del Libano destinati alla costruzione di un edificio, dalla corte d’onore del palazzo reale di Sargon II nella città assira di Dur-Šarrukin (oggi Khorsabad, Iraq). Fine dell’VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
riconosciute corrisponde l’incertezza nell’attribuire loro uno specifico stile formale nella produzione artigianale e «artistica»: molti hanno sostenuto che se uno stile vagamente unitario sia mai apparso, ciò accadde in un areale vasto e discontinuo, posteriore all’VIII secolo a.C. Vi è anche un altro evidente paradosso: il popolo al quale tutti attribuiamo l’onore dell’invenzione e della diffusione della scrittura alfabetica ha lasciato sí migliaia di brevi iscrizioni funerarie e dedicatorie, ma nessuna narrazione storica propria. Quasi tutto quel che è stato scritto in proposito è stato tramandato da scrittori di altre culture, spesso avverse, con interessi e visioni divergenti.
Per esempio, secondo gli autori dell’età ellenistica, il XII secolo a.C. sarebbe stato un’età di profonda penetrazione fenicia verso ovest, con fondazioni di empori sulle coste iberiche, in Tunisia e persino in Marocco, fondazioni che tuttavia hanno lasciato, in termini direttamente archeologici, poco o nulla, mentre evidenti sono le tracce dei traffici cananei a Cipro e, in genere, lungo le sponde e gli approdi del Mediterraneo orientale. Alcuni studiosi sostengono addirittura che queste narrazioni avessero come unico scopo, al di là della realtà storica, quello propagandistico di ricalcare il ritorno dei conquistatori greci di Troia.
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I FENICI
Di un centinaio d’anni piú tardo è il testo egiziano noto come La storia di Wenamun, che descrive le tribolazioni e le continue umiliazioni di un ufficiale della corte faraonica incaricato di ottenere preziosi fusti di cedro, ambientata tra Biblo e Cipro, in un momento in cui lo Stato egizio aveva perso gran parte della sua autorità e le città del Levante erano in forte ascesa. Altre informazioni (indirette) sulla protostoria dei centri costieri sono fornite dallo storico
Flavio Giuseppe, giudeo, il quale sembra aver attinto da un’opera perduta nota come Annali di Tiro, la cui esattezza storica è messa in dubbio. Da Biblo (l’antica Gebal) ci sono invece giunte alcune importanti iscrizioni, tra le quali quella che compare sul sarcofago del re Ahiram, posta da suo figlio Ittuba’al (forse risalente al XIII secolo a.C.), o l’iscrizione del re successivo Yehimilk, datata intorno al 950 a.C. Altri discontinui frammenti di informazione
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Leptis Lep Le tis Ma M gna g gn
La regione mediterranea con le principali città fenicie: un’ampia rete di scali e di insediamenti venne creata in ondate successive, tra l’VIII e il VII sec. a.C.
dei cedri tanto agognati da re e sacerdoti si continua a parlare nella Bibbia, a proposito della costruzione del palazzo reale davidico e del tempio di Salomone, tradizionalmente collocati agli inizi del I millennio a.C. Sotto il re di Hiram I, Tiro era riuscita a diventare una delle piú importanti città fenicie, a capo di un vasto impero commerciale. Secondo la Bibbia, Hiram era un fedele alleato di Davide, e mandò i suoi artigiani a erigere il
storica ci vengono da tavolette trovate nella reggia abbandonata del faraone Akhenaton, oppure a Ugarit; da numerose menzioni bibliche (soprattutto le vicende di Davide a Salomone, ambientate nel X secolo a.C.); e, soprattutto, da fonti assire, a partire da resoconti del re Tiglat Pileser I (1114-1076 a.C.), che otteneva legno di cedro e altre ricchezze sotto forma di tributo dai centri costieri di Biblo, Arvad e Sidone. E di legno,
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I FENICI
nuovo palazzo reale di Gerusalemme, naturalmente con le possenti travi fatte con i grandi cedri del Libano, le uniche che permettevano di coprire e sorreggere sale di vaste dimensioni. Dopo la morte di Davide, il figlio Salomone ereditò, con il trono, l’alleanza con Hiram I, il quale poté cosí continuare ad arricchirsi grazie alle carovaniere dirette alla volta dell’Egitto, della penisola arabica e della Mesopotamia. L’alleanza con gli Israeliti inoltre permise ai Fenici di Tiro di accedere ai porti del Mar Rosso, e, verso sud, di raggiungere un remoto paese, chiamato Ofir (una sorta di terra di Punt, variamente localizzata ad Aden, in Somalia, o addirittura nell’Asia sud-orientale). Quando Salomone iniziò a costruire il
grande tempio di Gerusalemme, Hiram I, oltre ai soliti materiali pregiati, gli forní squadre di architetti, artigiani e operai fenici, a riprova del fatto che nel mondo antico, insieme alle materie prime, viaggiava costantemente la manodopera specializzata. Qui la storia, malgrado le molteplici informazioni fornite in diversi libri e passi dall’Antico Testamento, finisce per annebbiarsi; la figura di Hiram si sdoppia, anzi si triplica, in quanto vi si narra di un altro Hiram metallurgo, e di un capomastro-architetto Hiram-abi, entrambi incaricati (se non si tratta dello stesso personaggio) di costruire gli arredi sacri del nuovo tempio. Tra gli arredi, con toni davvero favolosi, si ricordano due enormi colonne bronzee, chiamate
Grazie all’alleanza con gli Israeliti, i Fenici di Tiro ebbero accesso ai porti del Mar Rosso
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Nella pagina accanto xilografia ottocentesca che raffigura Hiram-abi mentre fa appello alla folla per reclutare operai da impiegare nella costruzione del tempio di Gerusalemme. In basso il grande sarcofago del re Ahiram, rinvenuto nel febbraio del 1922 nella tomba V di Biblo. XIII-XII sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale.
(misteriosamente) Yakin e Bo’az, poste ai lati del portale dell’edificio sacro; un grande bacino (tanto grande da essere nominato il «mare di bronzo»), posto su un supporto fatto da quattro gruppi di tre tori ciascuno; ed elaboratissimi carrellisostegni figurati montati su ruote (la cui descrizione, peraltro, ricorda da vicino l’aspetto di alcuni supporti mobili trovati a Cipro, e nell’Italia centrale). Questi preziosi e sacri tesori sarebbero scomparsi nel 586 a. C., durante il sacco della città da parte dei Babilonesi di Nabucodonosor.
Luli, storia di un re in fuga Quanto i racconti delle collaborazioni di Hiram I, Davide e Salomone – parte di un’immagine fortemente espansiva dell’economia fenicia nel X secolo a.C. – abbiano una vera base storica, ancora non è facile dire. È indubbio che la memoria della corrispondenza tra i re tramandata dalla Bibbia sembra ancora risentire fortemente dell’ideologia arcaica della «fratellanza» tra sovrani di case diverse, e della prassi dello scambio di fastosi e costosissimi doni. Per lo stesso periodo, i testi assiri contemporanei parlano di un centro politico dell’alta Mesopotamia che si fa sempre piú vorace e aggressivo, quanto nutrito di una incrollabile fede nel proprio diritto a dominare le periferie con un ferreo apparato burocratico. Se all’inizio le richieste assire non sembrano eccedere quelle di normali prassi mercantili, e le città fenicie riuscivano a mantenere variabili livelli di autonomia, le stesse richieste, col passare del tempo, si fecero sempre piú gravose e pressanti. Nella seconda metà dell’VIII secolo, il re Tiglat Pileser III (745-727 a.C.) impose a Tiro, insieme allo spettacolare tributo di 150 talenti (qualcosa come sei tonnellate) d’oro, la presenza dei suoi ispettori doganali e agenti delle tasse. Lo stesso sovrano, nelle sue iscrizioni, si vanta di aver distrutto e raso suolo 17 diverse città da Amurru (la
Origine delle mitologie massoniche
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rasportare e viaggiare per costruire: i fili del commercio nell’antico Levante non si dipanano solo nello spazio, ma attraversano anche il tempo e le ideologie. Cosí Hiram-abi, o Hiram-abif, una delle trasfigurazioni bibliche dell’artigiano-commerciante fenicio, è diventato nei secoli la principale figura mitologica del credo massonico. Infatti, sempre nella Bibbia, a Salomone che gli chiedeva maestranze e materiali di pregio per il tempio, il re Hiram I risponde: «Ti sto inviando Hiram-Abi, un uomo di grande abilità (...) capace nel lavorare con oro e argento, bronzo e ferro, pietra e legno e nell’utilizzo di lino fine tinto di porpora, blu e rosso cremisi. È un esperto in vari tipi di bassorilievo e incisione» (Cronache II, 2:13). Poiché nel Primo Libro dei Re (7:13-14), Hiram è descritto come il figlio di una vedova di Tiro, i massoni si riferiscono a Hiram-Abi come al «Figlio della vedova». Ciò pone la sua figura in una luce misteriosa, poiché anche il dio egizio Horus era figlio di una vedova: Iside, il cui fratello e marito era stato ucciso dal malvagio Seth. Sia il rituale massonico, infatti, sia la mitologia del ciclo osirico, prevedono, da alcuni punti vista, un percorso misterico indirizzato alla trascendenza e la resurrezione. Secondo la tradizionale versione massonica della leggenda, l’architetto Hiram-Abi sarebbe stato ucciso da tre dei suoi operai con i loro strumenti di lavoro: gli operai corrotti volevano sapere la parola segreta per passare a un grado iniziatico successivo. Questa parola segreta è ancor oggi per i massoni la mistica «Parola perduta».
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fascia siro-palestinese) fino a Babilonia, e di aver portato un ingente bottino ad Assur. Nessuna meraviglia, quindi, che, intorno al 690, il re di Tiro Luli abbia scelto per sé e i familiari la via della fuga a Cipro, episodio fedelmente narrato in uno dei rilievi di Khorsabad. Il re Esharaddon (680-669 a.C.) continuò a interferire con la libertà e l’economia degli scali costieri fenici, da Dor a Biblo. Tutto ciò deve aver pesantemente condizionato le attività dei ceti mercantili locali, che, oltre alla rapina dei propri profitti, dovettero subire le conseguenze della repressione imperiale e gli effetti delle politiche di deportazione di massa di vaste masse umane, deleterie nei confronti di quei reticoli di alleanze e interessi comuni sui quali si basavano le loro attività. Shalmanasser III (858-824 a.C.), oltre ai gravosi tributi, portò la politica di aggressione a livelli estremi, mediante campagne lungo la costa contro gli
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eserciti di Arad e Biblo. Sempre a suo dire, le sue truppe lasciarono i corpi di 14 000 caduti sulle rive dell’Oronte. In questo quadro gli storici hanno tradizionalmente collocato l’inizio della diaspora commerciale dei Fenici verso ovest: in particolare verso il centro di Tarshish, noto ai Greci del V secolo a.C. come Tartessos (il principale scalo delle coste andaluse, oltre le quali la geografia antica collocava le Colonne d’Ercole). Al tempo, oltre a essere un luogo reale, pienamente identificato dalle testimonianze archeologiche, Tarshish era anche l’immagine dell’ultima terra conosciuta prima dell’apertura dell’immensità atlantica. Secondo alcuni, l’espansione fenicia verso ovest sarebbe stata addirittura una precipitosa «corsa all’argento», indispensabile per placare l’esosità della macchina statale assira, ma l’ipotesi sembra poco probabile: nessuno è mai
In alto le rovine della città fenicia di Tiro in una incisione della metà dell’Ottocento. Nella pagina accanto rilievo raffigurante una nave fenicia, dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive. 705-681 a.C. Londra, British Museum.
cosí ansioso di pagare i propri debiti, né tantomeno le tasse. Piú verosimile appare l’idea che ad attirare i Fenici, oltre al metallo spagnolo, fossero anche le ricche foreste di conifere della regione andalusa, che fornivano ai cantieri navali una preziosa alternativa ai tanto abbattuti cedri libanesi. Ipotesi contrarie collocano un picco espansivo fenicio già nel X secolo a.C. (quindi capace di includere le alleanze commerciali con gli Israeliti menzionate dalla Bibbia). L’idea ha notevolmente guadagnato terreno grazie a scoperte archeologiche degli ultimi decenni. A Huelva, in Spagna – un importante insediamento portuale già intorno al 1000 a.C., che dava accesso ai piú ricchi giacimenti metalliferi del Mediterraneo occidentale – 3000
frammenti ceramici risultano molto simili a quelli del centro fenicio di Tell Dor (Israele); mentre altri vasi importati, oggetti in rame e ferro, bronzi ciprioti, avorio e uova di struzzo, e pesi da un siclo con iscrizioni fenicie lasciano pochi dubbi sulla portata degli interessi commerciali della costa levantina nel polo opposto del Mediterraneo. Sembra evidente come, agli inizi dell’età del Ferro, ai già noti assi di espansione commerciale del Vicino Oriente – i reticoli di scambio lungo il Golfo Persico, il Mar Rosso e le sue coste, e le rotte per l’entroterra anatolico e il Mar Nero – si fosse già pienamente sviluppato, sulle onde dei circuiti minoici e micenei, un piú ampio e dilatato sistema di rotte e scali verso ovest. Nel corso dei secoli XI
Tarshish/Tartessos era l’immagine dell’ultima terra conosciuta prima dell’immenso oceano
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L’onirica opulenza di Tiro
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elebre, nell’Antico Testamento, è l’allegoria della potenza commerciale di Tiro, nel Libro di Ezechiele, che include profezie fatte nella prima metà del VI secolo a.C., e trascritte un secolo dopo. «Gli abitanti di Dedan trafficavano con te; il commercio delle molte isole era nelle tue mani: ti davano in pagamento zanne d’avorio ed ebano. Aram commerciava con te per la moltitudine dei tuoi prodotti e pagava le tue merci con turchese, porpora, ricami, bisso, coralli e rubini. Con te commerciavano Giuda e la terra d’Israele. Ti davano in cambio grano di Minnit, dolci, miele, olio e balsamo. Damasco trafficava con te per i tuoi numerosi prodotti, per i tuoi beni di ogni specie, scambiando vino di Chelbon e lana di Sacar. Vedan e Iavan da Uzal ti fornivano ferro lavorato, cassia e canna aromatica in cambio dei tuoi prodotti. Dedan trafficava con te in coperte di cavalli. L’Arabia e tutti i principi di Kedar commerciavano con te: negoziavano con te agnelli, montoni e capri. I mercanti di Saba e di Raamà trafficavano con te, scambiando le tue merci con i piú squisiti aromi, con ogni sorta di pietre preziose e con oro. Carran, Canne, Eden, i mercanti di Saba, Assur, Chilmad trafficavano con te. Al tuo mercato scambiavano con te vesti di lusso, mantelli di porpora e di broccato, tappeti tessuti a vari colori, funi ritorte
e robuste. Le navi di Tarshish viaggiavano portando le tue mercanzie. Cosí divenisti ricca e gloriosa in mezzo ai mari» (Ezechiele 27: 15-25). Naturalmente, la descrizione dell’opulenza dei commerci di Tiro in termini quasi onirici – inclusa la stessa menzione della remota Tarshish – aveva come unico scopo quello di drammatizzare l’inevitabile e rovinosa caduta dell’empia città; ma rende comunque un’idea della potenziale vastità della rete commerciale degli scali della costa levantina nella prima metà del I millennio a.C.
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In alto, sulle due pagine particolare di uno dei pannelli in bronzo che rivestivano le porte del palazzo di Salmanassar III a Balawat. 858-824 a.C. Londra, British Museum. Nella fascia superiore il re riceve i tributi di una città fenicia; in quella inferiore, vengono condotti al cospetto del sovrano i prigionieri della città di Khazazu (oggi Azaz, in Siria). Nella pagina accanto, in basso tavoletta cuneiforme con il testo di una lettera nella quale si menzionano la città di Tiro e i suoi prodotti, da Ugarit (Siria). 1250 a.C. circa. Aleppo, Museo Nazionale.
e X, gli scavi evidenziano un sistema di contatti stabilizzati e fiorenti tra la costa levantina, Cipro, Creta, l’Egeo, l’Eubea, la Sicilia e la Sardegna; in particolare, la cultura materiale dei centri fenici è tanto simile a quella dei contemporanei insediamenti ciprioti da risultare indistinguibile. Contatti col mondo fenicio sono stati notati anche in siti costieri portoghesi datati tra il IX e l’VIII secolo a.C. Nel 2000, nuovi scavi a Cartagine hanno retrodatato i primi livelli di occupazione della città al tardo IX secolo a.C., in piena
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Grazie a uno stratagemma, Didone fissò l’estensione di Cartagine con una semplice pelle di bue... concordanza, quindi con le fonti storiche che pongono la fondazione della città intorno all’815 a.C. Intrigante è anche una secondaria assonanza tra le leggende ellenistiche sulla fondazione a opera della principessa di Tiro, Didone (o Elissa), la quale, giunta alla costa tunisina, avrebbe acquistato il terreno necessario alla colonia dal capo indigeno nella misura dell’estensione di una pelle di bue, ma tagliando quest’ultima in strisce parallele che potevano essere spostate a piacere. Sembra proprio un ricordo del frazionamento dei celebri lingotti mediterranei della tarda età del Bronzo! Come ha scritto l’archeologo statunitense Christopher M. Monroe, «la fuga di Elissa, come le joint venture dei re Hiram I e Salomone, sta finalmente convergendo verso i dati archeologici» E una famosa e variamente tradotta stele in pietra trovata a Nora, in Sardegna, potrebbe contenere l’unica menzione
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In alto monili facenti parte del tesoro di Aliseda rinvenuto presso Caceres (Spagna). VII sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Si compone di oltre 350 manufatti in oro e argento di produzione orientale. Nella pagina accanto idoletto fenicio in bronzo, dalla Spagna meridionale.
extrabiblica della città di Tarshish (800 a.C. circa). Secondo gli studiosi contemporanei, in queste luci dovremmo forse abbandonare definitivamente l’idea che l’espansione fenicia nel Mediterraneo nel I millennio a.C. sia stata causata semplicemente dalla crescente pressione politica e tributaria assira, e vederla piuttosto come lo sviluppo intensivo di nuove partnership volte alla scoperta, o alla creazione, di nuove fonti di ricchezza. La creazione di un nuovo sistema di scambi e di informazioni, aperto e pluralista, va quindi attribuito a quello che troppo a lungo era stato considerato il margine arretrato e passivo, privo di una propria identità culturale, delle civiltà del Levante e del Vicino Oriente.
Al cospetto del «Carro degli Dèi» Annone, detto «il Navigatore», fu un esploratore cartaginese, forse vissuto tra la fine del VI e il V secolo a.C., le cui imprese erano note a Erodoto (484-430/425 a.C.). Annone ha indissolubilmente legato il suo nome a una grande impresa navale: una spedizione coronata da successo intorno alle coste occidentali dell’Africa fino al Golfo
di Guinea. Tramandato da un testo chiamato Periplo, il suo viaggio fa da contraltare simmetrico alle antiche esplorazioni fenicie della costa portoghese; ma anche, e soprattutto – almeno dal punto di vista della letteratura dei viaggi in Africa – alle spedizioni costiere orientali di Hatshepsut e di Thutmosi III. Secondo il resoconto del Periplo a noi pervenuto (una traduzione dal punico in lingua greca effettuata qualche secolo dopo, e trasmessa da un unico manoscritto bizantino del X secolo), Annone sarebbe partito con una flotta di 60 navi, con migliaia di uomini e donne. Le tappe menzionate dal manoscritto sono oggetto di lungo dibattito. Partito da Gades (Cadice), raggiunse un porto chiamato Timiaterio (forse l’odierna Mehdia, alla foce del fiume Sebou, in Marocco). Dopo 35 giorni di navigazione la flotta avrebbe raggiunto l’isola di Cerne (forse Herne, nell’ex Sahara spagnolo; oppure l’isola di Arguin, in Mauritania). Dopo aver lasciato il grosso della flotta negli scali intermedi, Annone proseguí con due navi. Superò la foce del fiume Senegal, lasciandosi a ovest le isole di Capo Verde, quindi passò un promontorio detto Corno d’Espero, per addentrarsi in una enorme insenatura (il Golfo di Guinea). Spintisi al margine opposto di questa apertura, i Cartaginesi assistettero all’eruzione violenta di un grande vulcano, che ribattezzarono «Il Carro degli Dèi». Per alcuni, si tratterebbe del Kakulima, nella Guinea Francese; altri pensano che si siano spinti ancora piú a sud, e che il «Carro» fosse il Monte Camerun, la vetta piú alta dell’Africa occidentale. Della storicità del viaggio – numero dei naviganti a parte – non c’è da dubitare. I Cartaginesi, spintisi tanto a sud, avevano notato come il sole brillasse in direzione nord, nozione accolta per secoli
con scetticismo dai geografi. Vasco Da Gama (1469-1524), durante il suo periplo dell’Africa, confermò invece come il sole nell’emisfero sud effettivamente appaia in direzione nord per l’inclinazione dell’asse terrestre, riabilitando cosí l’autorità dell’osservazione diretta di Annone. Probabilmente i Cartaginesi avevano puntato alle fonti del commercio dell’oro che transitava attraverso il Sahara per raggiungere le coste nordafricane, ma il viaggio non sembra aver sortito conseguenze storiche di lunga durata. Data la distanza cronologica che separa il viaggio dal manoscritto bizantino, è possibile che le molte note drammatiche e di colore che ci sono state cosí tramandate – i fiumi africani brulicanti di coccodrilli, il suono dei tamburi, i campi incendiati da fiamme alte fino al cielo per fertilizzarli con la cenere – siano aggiunte posteriori; ma probabilmente non lo sapremo mai. Certo è che il termine «gorilla», o qualcosa di simile, fu usato per la prima volta dai Cartaginesi per indicare grandi scimmie, oppure donne molto pelose (!) che avrebbero incontrato in viaggio; ben 2300 anni dopo, il biologo francese Isidore Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1884) avrebbe applicato il nome ai grandi primati che cosí conosciamo. Ma questa direttrice dell’espansione punica, oltre a tale singolare eredità linguistica, non ha davvero lasciato alcuna traccia? Lungo le coste spagnole e portoghesi, ma anche in quelle tunisine, delle isole Canarie e delle Azzorre, fino al Marocco e alla Mauritania, si pratica, o si è praticata, una forma tradizionale di pesca al polpo, basata sull’uso di lunghe funi, armate a distanze regolari di vasi di terracotta. I polpi si infilano nei vasi e sono facilmente catturati quando i cordami vengono ritirati a bordo. Dato che alcuni
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I FENICI
molluschi carnivori del Mediterraneo centroorientale, che hanno la sfortuna di contenere una ghiandola dal forte potere colorante, vengono tradizionalmente catturati con simili trappole sottomarine, viene spontaneo domandarsi se la distribuzione di questa tecnica di pesca al polpo – non dissimile dalle rotte del Periplo – non ricalchi la memoria delle antiche tecniche di cattura della materia prima della porpora dei Fenici. Giulio Polluce, un sofista e grammatico greco del II secolo d.C., nel suo Onomastikon (una sorta di enciclopedia scritta intorno al 170 d.C.), attribuisce poco verosimilmente il merito della scoperta della porpora al cane di un certo Eracle di Tiro: l’animale si sarebbe macchiato il muso di rosso, mentre annusava le conchiglie disperse sulla spiaggia. Nello stesso contesto, al di là dell’aneddoto, lo scrittore descrive abbastanza puntualmente come i fabbricanti di porpora, per catturare i Murex, immergessero in bassi fondali lunghe corde alle quali erano sospesi canestri coperti di fronde per dissimularli. Corde e cesti erano recuperati, con le prede, dopo un giorno e una notte. Di queste tecniche di caccia al Murex
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sopravvivono varianti contemporanee: per catturare i molluschi del genere Muricidae, fonte principale della porpora, si possono affondare contenitori o copertoni di automobile armati con esche di carne, e attendere l’arrivo dei molluschi. L’ipotesi della continuità tecnica, quindi, è verosimile. Ancora oggi il nome francese delle Îles Purpuraires, al largo della costa del Marocco, ricorda la localizzazione e l’importanza di questa antica e celeberrima attività artigianale fenicia.
Tutti i segreti della porpora
Pendenti in pasta vitrea a testa barbata. IV-III sec. a.C. Cartagine, Musée de Carthage.
A dire il vero, anche se il nome che convenzionalmente diamo all’intero popolo rimanda al termine greco phonix, «rosso porpora», l’industria di questo costosissimo pigmento risale a tempi ben piú antichi: almeno agli inizi del II millennio a.C., a opera delle popolazioni minoiche di Creta. L’esplosione dei traffici marinari a vela, che uní per la prima volta in modo organico le coste e le isole del Mediterraneo, e il ruolo cruciale giocato in questo cambiamento dai navigatori fenici sono le ragioni alle quali dobbiamo probabilmente addebitare il fatto che di essi sia impossibile
parlare senza menzionare l’industria mediterranea della porpora. Il gran pregio della porpora, secondo gli antichi, era che i tessuti tinti di rosso-viola, una volta esposti al sole, assumevano una colorazione piú intensa, invece di sbiadire. La sostanza che produce il colore della porpora è una specie di muco che si ottiene dalle ghiandole ipobranchiali del Bolinus brandaris (nome originario, Murex brandaris: Linnaeus, 1758); ma anche dall’Hexaplex trunculus e da altre specie della famiglia Muricidae. Il principio colorante è un composto organico del bromo, che gli animali usano come sedativo degli organismi che attaccano e come protettivo per le masse delle proprie uova. I Fenici ottenevano anche una sostanza dal colore blu intenso detta «blu reale» dall’Hexaplex trunculus.
Incisione raffigurante lo stratagemma adottato da Didone per fondare Cartagine. Fuggita da Tiro, la principessa giunse in Africa e chiese di poter affittare tanto terreno quanto poteva delimitarne una pelle di bue. Tagliando la pelle in strisce sottilissime, i nuovi venuti definirono uno spazio vastissimo, su cui poterono edificare la nuova città.
Le sostanze coloranti possono essere estratte dalla conchiglia «mungendone» la carne, oppure piú sbrigativamente spaccandone il guscio e recuperando la ghiandola. È stato calcolato che per ottenere 1,5 g di colorante puro, che bastava appena a colorare l’orlo di una veste, servissero ben 12 000 molluschi. Ancora oggi, le spiagge delle località di insediamento fenicio nel Mediterraneo sono cosparse di enormi cumuli di conchiglie infrante. Camminando sui resti dell’abitato punico di Menninx, a Gerba (Tunisia), ci si accorge di come l’intera città fosse stata costruita su riempimenti fatti con gusci tritati di Murex. Nel sito produttivo di Andriake (Turchia sud-occidentale, VI secolo a.C.), si è calcolato che un deposito di 300 mc di gusci infranti sia stato prodotto dalla cattura e dal trattamento di
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non meno di 60 milioni di molluschi. Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, libro 9 e altri passi) scrive che, dopo la salita di Sirio nel firmamento (agli inizi di luglio), iniziava la stagione dell’estrazione della ghiandola dei molluschi. Al materiale si aggiungeva del sale, e si lasciava riposare il tutto per tre giorni, ma non di piú, perché solo la freschezza del preparato originale garantiva la qualità del pigmento. La poltiglia era poi
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Colonie fenicie Periplo di Annone
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Oggetti legati al mondo fenicio
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Massalia Emporium
Arcipelago delle Azzorre
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Oceano Atlantico
Mar Mediterraneo
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Madeira Kerne? Isole (Mogador)
Canarie
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Carro degli Dèi? Monte Camerun?
Nella pagina accanto, in alto mappa del viaggio compiuto dal navigatore fenicio Annone e da lui narrato nel Periplo, opera giuntaci grazie a una trascrizione del X sec. d.C. Sulle due pagine, in basso modellini in terracotta di barche, dalla regione fenicia. VII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
bollita a fiamma bassa per 10 giorni mediante un apparato formato da una fornace, una storta e vasi di stagno (la descrizione non è chiarissima) riducendo l’originario contenuto di 100 anfore (grosso modo 2000 litri) in 2 quintali circa di estratto. Il lavoro necessario all’estrazione doveva essere estenuante, fetido e sottopagato. Ed è tuttora molto mal conosciuto. Nei siti produttivi sinora scavati, sono venute in luce vasche e bacini, canalette e inghiottitoi, ma i dettagli del processo tecnico dell’estrazione del pigmento sono ancora ignoti, né moderni esperimenti, ispirati dalle lacunose descrizioni pliniane, hanno avuto esito positivo. La qualità dell’estratto, scrive ancora Plinio, si provava inserendovi e lasciando riposare
in esso per ore dei fiocchi di lana. Sembra che il processo di tintura migliore (e piú costoso) precedesse una doppia immersione dei tessuti, prima nell’estratto del Bolinus trunculus, poi in quello del Bolinus brandaris. L’industria della porpora continuò a essere praticata nel Mediterraneo almeno fino al XIII secolo d.C., quando le fonti storiche attestano che essa, per disastro ambientale, per costi eccessivi di manodopera, oppure per altra vocazione produttiva, non era piú economicamente conveniente.
La bottega del mercante La disamina dell’artigianato artistico fenicio operata da Sabatino Moscati (1922-1997)
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parte dalla distinzione tra un livello di produzione popolare e uno colto, e si snoda dai laboratori di palazzo e dai cantieri templari dei periodi piú antichi agli spazi aperti degli approdi e degli emporia mediterranei dei secoli successivi. «Destinatarie del commercio diventano necessariamente le genti locali, e in particolare le élite, a cui i Fenici offrono materiali intesi a evidenziarne il lusso e il potere» (La Bottega del Mercante, SEI 1996). Focalizzando l’attenzione sull’artigianato di Tiro, Moscati esamina le terracotte figurate ivi prodotte, i sarcofagi di Sidone, gli splendidi avori dipinti e dorati trovati a Nimrud in Assiria, e le coppe auree sbalzate di Cipro. Si sposta quindi nelle aree occidentali dell’espansione fenicia e punica, considerando le stele figurate di Cartagine e
Sousse in Africa, di Sicilia e Sardegna; quindi i rasoi di Cartagine, i gioielli di Tharros (Sardegna) e di Tartesso (Tarshish) in Spagna; e, nella stessa regione, gli avori di Carmona, e le uova di struzzo decorate di Villaricos. La produzione artigianale fenicia ci appare quindi come frutto di sensibilissimi adattamenti tra la disponibilità locale di materie prime e tradizioni tecniche locali, nuove opportunità di trasporto e vendita, e il fiorire e l’abbandono di particolari richieste locali: il tutto filtrato e trasformato secondo l’estetica e gli stili dell’artigianato del Levante, di Cipro e una persistente ispirazione egiziana. Si assiste alla nascita di un’estetica innovativa, profondamente contaminata, che, tuttavia, non appare ispirata, come si potrebbe pensare, da semplice opportunismo commerciale.
Un tipico paesaggio nei pressi del Monte Camerun, vulcano dell’omonimo Paese africano che raggiunge i 4000 m d’altezza. È stato ipotizzato che in esso possa identificarsi il «Carro degli Dèi» menzionato nel Periplo di Annone.
Al contrario, potrebbe riflettere una nuova e organica visione del mondo, promossa dall’esperienza vissuta di reticoli commerciali in forte e libera espansione. «Con l’aumento dei contatti e della conoscenza reciproca, questo “internazionalismo” (in realtà “mediterraneismo”, termine piú appropriato in un mondo senza nazioni nel senso moderno) divenne piú prominente, soprattutto nelle affermazioni di potere reale (...) alcune rappresentazioni crearono un idioma genuinamente ibrido che mostrava idee universali di potere e armonia e trascendeva il localismo. Persino i simboli erano ibridi, che si trattasse di grifoni e sfingi o di palmette a spirale, che univano tratti della palma mesopotamica, del loto e del papiro egiziani a quelli del giglio cretese» (Cyprian Broodbank).
In sostanza, gli artigiani e commercianti fenici proposero ai palazzi della loro epoca un’arte mobiliare dotta e cosmopolita, legata, sul piano cognitivo, a un mondo di nuova globalizzazione. Era lo stile orientalizzante.
Come una galassia Qualche riga a mo’ di epilogo, tornando a citare Vere Gordon Childe: «Un risultato molto concreto degli scambi, in pace o in guerra, è stata l’espansione della civiltà stessa, di cui l’archeologia ci dà la misura nei resti materiali delle città. Verso il 2500 a.C. queste sorsero come astri isolati, o come gruppi ristretti in una gran notte (...), soltanto sul Nilo, lungo il corso inferiore del Tigri e dell’Eufrate e sull’Indo. Mille anni dopo, le città formano una costellazione continua dall’Egitto, Creta e
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Turchia fino alle montagne dell’Iran, e un astro sta sorgendo anche sul Fiume Giallo. Prima del 500 a.C., la costellazione è divenuta una Via Lattea, a comprendere tutto il bacino del Mediterraneo, con le coste del Mar Nero, l’Iran, l’India e l’Arabia meridionale, e con un altro gruppo di nebulose in Cina (...) Dopo il 500 d.C., una sola Via Lattea cinge l’Eurasia dal Pacifico all’Atlantico, nonostante molte zone oscure
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e il tramonto, a occidente, di alcune di queste stelle lucenti» (Progresso e Archeologia, Colip 1953). L’esplosione delle nebulose commerciali descritte in toni forse un po’ troppo lirici da Childe, sarebbe avvenuta, almeno a partire dal 2000 a.C., a opera di istituzioni tanto dinamiche quanto civilizzatrici, capaci di permeare in profondità buona parte del mondo allora conosciuto. Il commercio, quindi, mentre il
L’area archeologica di Byrsa, a Cartagine.
ciclo dei traffici a lunga distanza gestiti dalle grandi case reali del Bronzo Antico assumeva le fattezze del «dono reciproco», si sarebbe parallelamente mosso in prospettive tutto sommato egualitarie, capace di creare un sistema di accordi, trattati, vincoli protettivi a garanzia degli scambi a lunga distanza. Avrebbe quindi promosso un reticolo parzialmente indipendente, piú esteso in senso
orizzontale (geografico) che secondo un asse verticale (diseguale e politico). Lo stesso reticolo sarebbe stato improntato a schemi che oggi si definirebbero «eterarchici», nei quali le varie unità coinvolte, invece di agglomerarsi in rigide e ricorrenti strutture di potere, tendevano a restare connesse, ampliando le proprie attività nel nome di crescenti interessi
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Sulle due pagine i resti dell’insediamento punico di Menninx (Gerba, Tunisia) e la conchiglia di un Murex, mollusco di cui l’antico abitato fu uno dei principali centri di lavorazione, impiantato al fine di ottenere la ricercatissima porpora.
comuni. Sabatino Moscati, che dei Fenici è stato, in un certo senso, lo scopritore, immaginava che questa escalation commerciale si fosse riverberata nella nascita di reticoli indipendenti di laboratori e botteghe dedite a produzioni di pregio, di proprietà di artigiani-commercianti al dettaglio, annidati «nelle viuzze strette e tortuose come i suk in tante città arabe». In simili situazioni, si attivavano potenziali conflitti tra la «nuova moneta» – cioè la ricchezza di nuova acquisizione da parte di ceti emergenti – e le forme tradizionali di accumulazione aristocratica, con importanti conseguenze sul piano sociale e politico. Nel corso del I millennio a.C., la società conobbe rapidamente mutazioni accelerate. Ma questi stessi reticoli potenzialmente indipendenti,
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In alto placchetta in avorio sagomata in forma di albero della vita. Manifattura fenicia, IX-VIII sec. a.C. Nella pagina accanto piccolo gruppo in terracotta raffigurante una madre che allatta il proprio bambino, dai dintorni di Tiro. VIII-VII sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale. In basso placchetta in avorio e foglia d’oro raffigurante due sfingi, forse da Arslan Tash (Siria). Produzione assira, IX-VIII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
con l’avvento dei secoli centrali dell’età del Ferro, avrebbero fornito le basi, o, se si vuole, l’interesse materiale per successive fasi di espansione imperiale, tanto gerarchiche quanto violente e militaristiche, come quelle di Assiria e Babilonia, dei tre successivi imperi iranici (Achemenidi, Parti, Sasanidi) e, naturalmente, dell’impero romano. Se simili ricorrenze siano state e siano – nei cicli storici – inevitabili, e se ciò sia stato un bene, o abbia invece rappresentato un regresso, la storia ancora non sa dire. Tanto piú che, nel cuore stesso delle grandi compagini statali e imperiali, lo sviluppo economico e urbanistico comportò comunque un relativo allentamento del controllo centralizzato sulle attività produttive e commerciali. Si assiste, in questi casi, alla nascita di influenti corporazioni artigianali e commerciali, allo sviluppo della proprietà individuale terriera e alla fioritura dell’attività privata nel settore creditizio. Alla fine, è lecito sospettare che l’evoluzione del commercio antico sia proceduta per ondate concentriche di controllo verticistico, alternate a momenti di esplorazione economica spontanea, e disseminazione libera; e che, una volta fattisi avanti gli imperi, la conquista di margini di libertà e indipendenza economica degli uni sia stata troppo spesso pagata
PER SAPERNE DI PIÚ • Maria Eugenia Aubet, Commerce and Colonization in the Ancient Near East, Cambridge University Press, Cambridge 2013 • Richard Blanton, Lane Fargher, Collective Action in the Formation of Pre-Modern States, Purdue University, West Lafayette, IN 2008 • Cyprian Broodbank, Il Mediterraneo. Dalla preistoria alla nascita del mondo classico, Einaudi, Torino 2015 • Moses Finley, L’economia degli antichi e dei moderni, Laterza, Bari-Roma 2008 • Kristian Kristiansen, Thomas Lidkvist, Janken Myrdal (a cura di), Trade and Civilisation. Economic Networks and Cultural Ties, from Prehistory to the Early Modern Era, Cambridge University Press, Cambridge 2018 • Lucio Milano, Nicola Parise (a cura di), Il regolamento degli scambi nell’antichità (III-I millennio a.C.), Laterza, Bari-Roma 2003 • Luca Peyronel, Storia e Archeologia del Commercio nell’Oriente Antico, Carocci, Roma 2008 • Karl Polanyi, La Grande Trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 2000 • Karl Polanyi (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi. Le economie nella storia e nella teoria, Einaudi, Torino 1978
dall’oppressione sistematica degli altri. Di questo, lo si ammetterà facilmente, ci sarebbe ben poco da esser fieri.
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MONOGRAFIE
n. 32 agosto/settembre 2019 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore: Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. pp. 104/105) e pp. 29, 30-31, 33, 37-39, 54 (basso), 60 (alto), 61, 63, 67, 69, 75, 79, 89, 100-101, 102, 103 (basso), 107, 110, 113, 117-119, 126-127 – Bridgeman Images: pp. 6/7, 42 (alto), 55 – Mondadori Portfolio: Album/The Metropolitan Museum of Art, NY: pp. 9 (alto), 84, 87, 129 (basso); AKG Images: pp. 9 (basso), 14-15, 26, 41 (alto), 43 (basso), 45 (alto), 48-49, 50/51, 56, 78, 86, 88 (basso), 92, 93 (basso), 96-97, 111, 112/113, 114, 128, 129 (alto); Werner Forman Archive/E. Strouhal/Heritage Images: p. 18; Age: pp. 18/19; Zumapress.com: pp. 20/21; Werner Forman Archive/Heritage Images: pp. 22, 50, 99; Werner Forman Archive/Royal Ontario Museum, Canada/Heritage Images: p. 23; Archivio Mozzati/Luca Mozzati: pp. 24/25; Fine Art Images/Heritage Images: p. 36; Erich Lessing/ Album: pp. 41 (basso), 42 (basso), 43 (alto), 45 (basso), 57, 70-71, 88 (alto); CM Dixon/Heritage Images: pp. 44, 72/73, 81; Album/Quintlox: pp. 52, 77, 103 (alto); Mauritius Images/Rene Mattes: p. 53; Werner Forman Archive/Ägyptisches Museum, Berlino/Heritage Images: p. 54 (alto); Album/Prisma: pp. 58/59; Ashmolean Museum, University of Oxford/Heritage Images: pp. 60 (basso), 80, 82 (alto); Werner Forman Archive/British Museum, Londra/Heritage Images: pp. 114/115; Album/Oronoz: p. 116 – Getty Images: Anadolu Agency: pp. 10/11; Bill Curtsinger: pp. 12/13; Hulton Archive: pp. 46/47; Steven L. Raymer: pp. 76/77 – DeA Picture Library: pp. 27 (alto), 91; W. Buss: pp. 16/17; G. Dagli Orti: p. 27 (basso); E. Bernardini: pp. 28/29; G. Lovera: p. 98 – Shutterstock: pp. 40, 51, 76, 84/85, 94/95, 122-125 – Tiziana D’Este: disegni alle pp. 62, 66/67 (alto e basso) – Cortesia dell’autore: pp. 82 (basso), 83 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Les frères Chuzeville: p. 83 (alto); RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Raphaël Chipault: pp. 120/121– Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34-35, 64-65, 68, 74, 88, 106, 108/109, 120. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: illustrazione ottocentesca nella quale si immagina Hiram, re di Tiro, che si reca in visita da Salomone, portandogli doni.
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