Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
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• TUTTI GLI IMPERATORI • LEGIONARI AI CONFINI DEL MONDO • I GRANDI CONDOTTIERI • NEI LUOGHI DEL POTERE • L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO • BARBARI E CRISTIANI • UN GIORNO NELL’URBE N°33 Ottobre/Novembre 2019 Rivista Bimestrale
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Profilo di una capitale
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Vite al comando
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Avversari irriducibili
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Dall’aquila alla Croce
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Un impero multietnico
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La Cina è vicina!
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L’ impero dei Cesari
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SCOPRILE TUTTE!
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S.P.Q.R. Q
uello dell’antica Roma è uno dei capitoli piú avvincenti della storia universale. L’Urbe ebbe un destino straordinario: da piccolo villaggio di pastori riuscí a dare vita a un grande impero che cambiò il volto del mondo. La storia di Roma inizia nell’VIII secolo a.C. e, per convenzione, termina nel 476, anno della deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore dell’impero romano d’Occidente, a opera di Odoacre: un periodo lungo piú di dodici secoli. A ciò si deve aggiungere che in Oriente uno Stato con il nome di Roma, con le sue istituzioni e con tutto il patrimonio di cultura politica e amministrativa specificamente romana, sopravvisse ancora per molto tempo, sino al 1453, anno della caduta di Costantinopoli per mano degli Ottomani. Roma rimase per molto tempo una città-stato e mantenne questa dimensione anche quando il suo territorio si estese a tutta l’area mediterranea e a gran parte dell’Europa occidentale. La progressiva costituzione di un grande impero creò un’alterazione graduale del sistema e una lenta trasformazione, in quanto, dalla res publica, si passò a un potere che sovrintendeva e provvedeva, decideva e imponeva: questa metamorfosi poté dirsi conclusa alla fine dell’impero romano e si trasmise nei secoli successivi, trovando terreno favorevole nel sistema feudale elaborato dalle genti germaniche. Fin dagli albori della sua storia, Roma mostrò una capacità di accogliere l’«altro da sé» che non trova eguali nella storia universale: pertanto Sabini,
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Latini, Etruschi, genti magno-greche, Cartaginesi e poi altri popoli furono integrati e le loro civiltà e culture assimilate e, per cosí dire, «metabolizzate» e concorsero in maniera significativa al grande destino dell’Urbe. Certamente la conquista romana fu violenta e invasiva, ma, a differenza degli altri conquistatori, i Romani non si limitarono solamente a imporre con la forza il loro modello di civiltà, bensí, con una visione del tutto innovativa e di grande apertura, seppero adattarsi alle varie situazioni e alimentarsi delle culture «altre» con cui vennero in contatto e che concorsero a inverare e rendere piú solida la propria. Nel processo di romanizzazione dei popoli assoggettati, un formidabile strumento di assimilazione e di integrazione fu rappresentato dalla cittadinanza romana, che consentí a tutti di avere un senso di appartenenza a una patria communis, e rappresentò un forte incentivo per coloro che cittadini romani non erano. E proprio la cittadinanza fu uno degli elementi piú innovatori della civiltà romana: a differenza delle città greche, che anche nel momento del loro massimo splendore erano apparse incapaci di estendere la cittadinanza e anzi l’avevano custodita come un privilegio, concependola come un diritto «esclusivo», Roma seppe proiettarla al di fuori dei propri confini e condividerla, una volta compiuto il processo di romanizzazione, con le popolazioni che entrarono a far parte del suo impero. In sostanza, la
IL FASCINO DI UNA STORIA SEMPRE ATTUALE cittadinanza romana, la civitas appunto, aveva un forte carattere «inclusivo», poiché costituiva il «cemento» che permetteva a persone di diverse lingue e religioni e dagli usi e costumi differenti, di sentirsi comunque pienamente integrate e partecipi di un unico mondo: quello romano. Essere Britanni, Galli, Greci e Siriani era cosí un mero dato geografico di provenienza; la cosa importante era essere tutti accomunati sotto il nome di Roma. In ragione di questo, un noto filosofo francese, Rémi Brague, nel libro Europe, la voie romaine (tradotto in italiano con il titolo Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Milano 1998), ha proposto come modello culturale per l’Europa, in cui permangono ancora spinte e tensioni centripete, proprio la romanità, nel senso che Roma seppe realizzare quella che egli definisce la «secondarietà culturale», sempre piú significativa in un mondo globalizzato quale è il nostro, vale a dire l’attitudine al saper ricevere e trasmettere, a trovare ciò che è proprio soltanto attraverso ciò che è altro o straniero. Già duemila anni fa infatti l’impero romano aveva sperimentato una globalizzazione ante litteram, in cui non vi erano Romani e stranieri, ma cittadini e non cittadini, e in cui a tutti era consentito, per il forte dinamismo sociale che caratterizzò per molto tempo la storia di Roma, di migliorarsi e progredire, tanto che uno schiavo poteva affrancarsi e divenire libero. Dell’impero romano si è data talvolta un’immagine distorta e densa di stereotipi, nonché
di incrostazioni ideologiche: era, in realtà, un mondo permeabile sul piano culturale e religioso, salvo alcune eccezioni. Lo stesso concetto di limes, cioè di frontiera, lo dimostra chiaramente: non si trattava di una ben precisa linea di demarcazione, come avviene tra gli Stati moderni, se si eccettuano il Vallo di Adriano e pochi altri casi, ma di spazi aperti e in cui tutti potevano entrare, purché non belligeranti, e si viaggiava molto di piú di quanto si è indotti a pensare, senza avere bisogno di passaporto e salvacondotti. Da queste fugaci ed estemporanee considerazioni si evince che anche la nostra modernità, in ragione di quella «secondarietà culturale» evocata da Brague, dovrebbe alimentarsi di una buona conoscenza del passato, per cogliere preziosi e utili strumenti di confronto che possono essere forniti da passate esperienze, come quella dei Romani. Non si deve certo idealizzare quell’antico intervento, oggi improponibile, perché realizzato da una potenza egemone, che alcune cose poteva imporre, altre tollerare, altre, infine, acquisire nel suo patrimonio culturale, a suo insindacabile giudizio; mentre oggi tutto dovrebbe essere concordato, mediato e deciso tra Stati di pari diritti, se non di pari autorità. Tuttavia, nel controllo romano su parte dell’Europa vi furono alcune linee di condotta, come l’adesione, in certi punti, alle culture locali, la salvaguardia di certe autonomie, il rispetto di certe unità etniche, che potrebbero, ancora oggi, risolvere problemi e attriti, senza crearne di nuovi.
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PROFILO DI UNA
CAPITALE
ROMA FU LA CITTÀ DEL COLOSSEO, DEL FORO, DELLE TERME DI CARACALLA E DEL CIRCO MASSIMO. MA FU ANCHE UNA METROPOLI CAOTICA E RUMOROSA, CHE SEMBRAVA NON DORMIRE MAI... | IMPERIUM | 8 |
Disegno ricostruttivo dell’area centrale del Foro Romano, attraversata dalla via Sacra. Vi si possono riconoscere, fra gli altri: la sommità dell’arco di Settimio Severo, sormontato da una quadriga in bronzo; i Rostri; le colonne onorarie, alle cui spalle è la facciata della Basilica Giulia; i Rostri del Divo Giulio, dietro i quali è l’omonimo tempio; alla sinistra di quest’ultimo, si succedono il portico di Gaio e Lucio Cesari e la Basilica Emilia.
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ROMA
L
e civiltà moderne, in modo particolare dall’Ottocento in poi, si sono notevolmente differenziate da quelle antiche grazie ai progressi scientifici e alla tecnologia. Per noi risulterebbe ormai impossibile vivere senza l’illuminazione artificiale e l’energia elettrica, che hanno profondamente mutato non solo i sistemi produttivi e l’esercizio delle occupazioni lavorative, ma anche il nostro modus vivendi. Date queste premesse, risulta evidente che i
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ritmi della vita degli antichi Romani erano scanditi dalle ore di luce, in cui si concentravano tutte le attività, che dovevano pertanto svolgersi dall’alba al tramonto. Occorre inoltre considerare che non esisteva una precisa scansione del tempo, per via dell’approssimazione delle tecniche di misura, basate sulla clessidra a sabbia e sulla meridiana. La giornata dei Romani iniziava cosí alle prime luci dell’alba. Dopo una colazione molto
Particolare dei pannelli marmorei (reimpiegati da monumenti piú antichi) sull’attico dell’Arco di Costantino a Roma, raffiguranti originariamente l’imperatore Marco Aurelio, la cui testa è stata sostituita con quella di Costantino. A sinistra, l’adlocutio, il discorso rivolto ai soldati; a destra, la lustratio, con l’imperatore che celebra un sacrificio al campo su un altare mobile.
frugale, chiamata ientaculum, generalmente a base di pane e formaggio, e talvolta costituita da un semplice bicchiere d’acqua, si preparavano ad affrontare il nuovo giorno. Le ricche abitazioni patrizie, le domus, iniziavano ad accogliere, come ogni mattina, i primi clientes – soprattutto se il padrone di casa rivestiva cariche pubbliche –, che qui convenivano per la salutatio matutina, vale a dire l’ossequio quotidiano, in cambio della
quale ottenevano doni in denaro o in cibo. Fin dai primi tempi della repubblica, infatti, la casa diventò un mezzo per ostentare il proprio ruolo sociale, lo status symbol dell’aristocrazia e, pertanto, obbediva a criteri di rappresentanza e di prestigio. La domus costituiva in sostanza l’elemento rivelatore della condizione sociale di chi vi abitava e, nel caso dell’élite, gli stessi spazi interni erano funzionali a comunicare questa distinzione di rango.
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ROMA | Un nucleo «esteso» | La familia romana, a differenza delle nostre, non si limitava a un gruppo di persone accomunate da vincoli di matrimonio e di sangue, ma si componeva di un nucleo ben piú allargato, riunito sotto l’autorità del padre, il paterfamilias, composto non solo dalla madre, dai figli e dalle nuore, ma anche da eventuali schiavi domestici, considerati non come soggetti, bensí come oggetti di diritto; quando gli schiavi venivano liberati, divenendo cosí liberti, potevano rimanere nell’ambito della famiglia oppure, se lasciavano la casa dell’ex padrone, erano tenuti a tornare a rendergli omaggio o a prestargli alcuni servizi, come ringraziamento per l’acquisita libertà. La sacralità della famiglia era sancita sul piano religioso dal culto dei Lari (Lares) e dei Penati (Penates), le divinità protettrici del focolare, a cui in particolari occasioni e ricorrenze, sotto la direzione del paterfamilias, venivano dedicate feste e cerimonie. Il padre godeva di grande autorità e aveva ampi poteri sulla famiglia, tanto che, a titolo d’esempio, a Roma la patria potestas non cessava, come avviene nel diritto moderno, al raggiungimento della maggiore età dei figli, ma durava sino alla morte del paterfamilias. Il diritto privato romano, infatti, riconosceva solamente al capofamiglia la possibilità di essere «soggetto di diritto» (sui iuris), vale a dire di essere titolare di diritti.
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In alto stele funeraria di Lucio Vibio Felicio, raffigurato con la moglie e il figlio. I sec. a.C.-I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto il larario della casa del Menandro, a Pompei. II sec. a.C.-I sec. d.C. In basso mosaico con scene campestri, da Caesarea (l’odierna Cherchell in Algeria). I-II sec. d.C. Cherchell, Museo Archeologico.
Per l’uomo romano, la casa era soprattutto lo spazio del privato, dell’otium e dell’intimità della famiglia, all’interno della quale il padre, il paterfamilias, con il supporto della moglie, cresceva ed educava i figli (vedi box alla pagina precedente). Nei primi secoli della repubblica la casa, perlopiú a un solo piano, secondo il gusto romano-italico, era formata da tre parti essenziali: il vestibolo, l’atrio e il tablino. Nonostante la loro fastosità, all’esterno le case erano spoglie e disadorne e quasi del tutto prive di aperture. Spesso, a riflettere l’articolata struttura economico-sociale, la facciata sul fronte strada di queste residenze ospitava le tabernae, cioè le botteghe, all’interno delle quali era ricavata l’abitazione del bottegaio, di modeste dimensioni – dai 16 ai 50 mq –, nel retrobottega o su un soppalco (pergula), con una scala di legno di accesso posta in uno degli angoli.
I frutti della speculazione edilizia Le persone comuni abitavano nelle insulae, cioè in caseggiati grandi e affollati, ben documentate a Ostia. Questa forma di edilizia popolare si affermò nel mondo romano a partire dal I secolo e soprattutto in quello
| Da mietitore a magistrato supremo | La storia di Roma annovera numerosi casi di persone che, in ragione delle capacità, del lavoro e dell’intraprendenza, seppero migliorare la propria condizione sociale. Come si direbbe oggi, la società romana era meritocratica, e consentiva di dispiegare opportunità precluse in altre civiltà antiche. È quanto si evince, per esempio, da un’iscrizione proveniente da Maktar, l’antica Mactaris (Tunisia), in cui un mietitore africano racconta, pieno d’orgoglio, la sua ascesa sociale, che, da umile bracciante, lo ha portato a divenire uno dei notabili della sua città: «Io sono nato da una famiglia povera; mio padre non aveva risorse economiche e non aveva neppure una casa di sua proprietà. Da quando sono nato ho vissuto coltivando il mio campo. Né la
mia terra, né io abbiamo mai conosciuto momenti di riposo. E quando veniva la stagione dell’anno in cui le messi erano mature, io ero il primo a tagliare le spighe e quando comparivano nelle campagne le squadre di contadini che andavano a lavorare come braccianti a pagamento vicino a Cirta, capitale della provincia di Numidia, o nelle pianure che domina la montagna di Giove, io li precedevo tutti nel compiere il lavoro di mietitura nei campi. In seguito ho lasciato il mio paese e per dodici anni ho lavorato per altri, mietendo sotto un sole di fuoco. Sono diventato poi capo di una squadra di mietitori e per undici anni ho comandato gruppi di braccianti e le mie mani hanno falciato il grano nei campi di Numidia. A forza di lavorare e poiché ho sempre saputo accontentarmi
di poco, ho risparmiato sino a poter diventare proprietario di una casa e di un podere: oggi io vivo nell’agiatezza e non mi manca nulla. E raccogliendo i frutti del mio modo di vivere ho fatto anche carriera nell’amministrazione pubblica: sono stato chiamato a far parte dell’assemblea che governa la mia città e da povero contadino sono arrivato a essere magistrato supremo della città. Ho visto nascere e crescere attorno a me i miei figli e i miei nipoti. Ho trascorso la mia vita onorato da tutti per i miei meriti. Nessuno ha potuto trovare da dire sulla mia vita irreprensibile. Imparate, o uomini, a vivere una vita onesta. Cosí merita di vivere, pieno di onore, chi visse senza ingannare nessuno» (Corpus Inscriptionum Latinarum, VIII S. 11824 = ILS 7457).
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ROMA | Anatomia di una domus | Nella domus romana il vestibolo (vestibulum) rientrante, aperto sulla strada, precedeva la porta dell’entrata principale. In alcuni casi nel vestibolo, come deterrente per eventuali ladri, i pavimenti a mosaico si prestavano a messaggi inequivocabili, come il celebre cave canem, cioè «Attenti al cane!», con la raffigurazione di un cane rabbioso a protezione dell’abitazione della Casa del Poeta tragico a Pompei. Un corridoio di accesso (fauces) immetteva nell’atrio (atrium) centrale, il luogo in cui, intorno al larario, vale a dire il sacello contenente le statuette dei Lari, le divinità tutelari della casa, si svolgeva la vita della famiglia. L’atrio, che prendeva il nome dalla colorazione scura prodotta dal fumo (da ater, nero), in quanto in origine era la sede del focolare, era il cuore della casa italica primitiva; qui le famiglie nobili custodivano le maschere in cera degli antenati illustri, le imagines maiorum, esposte come modello per i giovani e portate in corteo durante i funerali di ogni parente importante. L’atrio era fonte di approvvigionamento idrico, di aria e di luce per gli ambienti circostanti: al centro dell’atrio vi era infatti un’ampia vasca, l’impluvio (impluvium) per la raccolta dell’acqua piovana, essenziale per le esigenze domestiche; l’acqua veniva convogliata attraverso una vasta apertura, il compluvio (compluvium), ricavata sul tetto, che costituiva anche un’importante sorgente d’illuminazione, a maggior ragione se si considera che le abitazioni romane erano generalmente prive di finestre sui muri perimetrali. Ai lati dell’atrio, poste simmetricamente, vi erano piccole stanze da letto, dette cubicoli (cubicula), che successivamente, quando il peristilio venne ad aggiungersi alla domus ad atrio italica, spesso furono collocate in quest’area verde e meno rumorosa della casa. All’esterno dell’atrio vi erano stanze laterali (alae) e piú in fondo il tablino (tablinum), in posizione assiale rispetto all’ingresso. Il tablino era un’ampia sala, solitamente del tutto aperta verso l’atrio e verso il portico del giardino retrostante. L’ambiente si poteva chiudere verso l’atrio con una porta pieghevole e il nome pare derivi proprio dalle tavole (tabulae) di questa porta oppure dall’archivio della famiglia, che qui era conservato. In seguito il tablino fu adibito essenzialmente a sala di soggiorno e di rappresentanza e divenne una sorta di ampliamento dell’atrio, nel quale il padrone di
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casa riceveva i clienti e gli altri ospiti. Il tablino era infine seguito da un giardino interno, l’hortus, nella parte postica della casa, che costituiva una peculiarità della domus italica. La parte di servizio dell’abitazione era perlopiú decentrata rispetto a quella di rappresentanza e ruotava intorno alla cucina (culina o coquina). Per l’ubicazione della cucina all’interno della casa, tranne casi particolari, era determinante non tanto la vicinanza del triclinio (triclinium), quanto la facilità di scarico e la fonte di calore, mentre anticamente, come si è detto, il posto del focolare era nell’atrio. Per queste ragioni si preferiva che la cucina fosse localizzata dietro la facciata o lungo uno dei vicoli perimetrali, per avere la possibilità di scarico nella strada, che cosí funzionava da fogna a cielo aperto. Le cucine erano di dimensioni relativamente piccole; avevano un balcone in muratura, sul quale poteva esserci un piccolo forno murato, affiancato solitamente da una vasca, con il deflusso dell’acqua di spurgo nella latrina, che non sempre era separata con un tramezzo dalla cucina. In seguito la domus romana si rinnovò con l’aggiunta di una parte dietro il tablino. Questo secondo nucleo, che si sviluppò attorno al peristilio (peristilium), riprendeva modelli VESTIBOLO ellenistici: consisteva in un giardino, circondato da un portico colonnato e abbellito da fontane e statue, fonte di luce per altre stanze, nel quale non potevano entrare che gli amici piú intimi e che divenne un ritiro privato dove riposarsi e dedicarsi all’otium.
successivo. La crescita delle insulae fu tale che un censimento, i Cataloghi Regionari, redatto al tempo dell’imperatore Costantino (306-337), registra nell’Urbe la presenza di 46 602 insulae contro 1790 domus di tipo classico. Le insulae erano spesso il frutto della grande speculazione edilizia che colpí la piú grande metropoli
dell’antichità; le condizioni abitative erano infatti alquanto precarie, con «appartamenti» piccoli, poco soleggiati e privi dell’approvvigionamento idrico, in quanto solo le ricche domus avevano l’allacciamento all’acquedotto. Per l’avidità dei proprietari, inoltre, le strutture erano talvolta fatiscenti e
TABLINO
COMPLUVIO
PERISTILIO
ATRIO
IMPLUVIO
TRICLINIO
la casa e i suoi spazi
CUBICOLO CUCINA
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ROMA
non vi era una manutenzione adeguata, tanto che non era insolito assistere a crolli rovinosi. Forse proprio per arginare questi pericoli incombenti, Augusto emanò direttive edilizie che vietavano costruzioni troppo alte, non oltre il limite dei 70 piedi (21 m circa), ridotti poi a 60 piedi (18 m circa), da Traiano; le insulae, quindi, non potevano superare i quattro-cinque piani. La qualità della vita nei quartieri in cui si concentravano le insulae era decisamente scadente. E, a questo proposito, numerose
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testimonianze letterarie si soffermano sulle pessime condizioni igieniche, sul traffico caotico e sul rumore insopportabile. Nelle tabernae situate al piano terra delle insulae si esercitavano i mestieri piú vari, e una folla di persone, in particolar modo proletari e poveri, percorreva le strade e spesso vi «viveva». Di notte la situazione non doveva essere migliore, dal momento che i carri da trasporto avevano libera circolazione. La giornata lavorativa si concentrava quasi del
In alto, sulle due pagine disegno ricostruttivo e i resti del Thermopolium di Asellina, una locanda di via dell’Abbondanza, a Pompei. Rimangono i tre banconi di vendita con gli orci murati, nei quali si tenevano in caldo cibi e bevande.
NELLE TABERNAE SITUATE AL PIANO TERRA DELLE INSULAE SI ESERCITAVANO I MESTIERI PIÚ VARI, E UNA FOLLA DI PERSONE PERCORREVA LE STRADE E SPESSO VI «VIVEVA» tutto nell’arco della mattinata e proprio per questo i Romani si recavano di buon’ora a svolgere le loro attività. L’Urbe sin dal primo mattino già brulicava di gente, soprattutto se ci si avvicinava al cuore della città: il Foro.
La prima legge di polizia urbana
A destra la tabula lusoria (piano da gioco), con la lista di una cena, recita: «Abbiamo pollo, pesce, prosciutto e pavone», dal Castro Pretorio di Roma. Roma, Musei Capitolini.
Come le metropoli moderne, Roma dovette avere notevoli problemi di traffico, tanto che, con il passare del tempo, l’intensificarsi dei commerci impose una regolamentazione della circolazione urbana ed extraurbana. La formulazione di un vero e proprio ordinamento di polizia stradale urbana si ebbe con la lex Iulia Municipalia, del 45 a.C., di ispirazione cesariana. Alcuni paragrafi di questa legge prevedevano norme per una limitazione del traffico veicolare, introducendo il divieto di transito per i carri durante il giorno. L’imperatore Claudio estese il divieto di
circolazione dei carri nelle aree urbane anche alle altre città italiche. Queste misure cercavano di fare fronte a uno dei tanti problemi incontrati da una città che aveva conosciuto in poco tempo una notevole espansione edilizia e un eccezionale incremento della popolazione, sensibilmente accresciuta anche dai moltissimi individui inattivi che vivevano di espedienti.
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ROMA
Disegno ricostruttivo di una via di Pompei, su cui si affacciano insulae a due piani. In questi caseggiati le condizioni abitative erano precarie: le case erano piccole, fatiscenti e non disponevano di acqua corrente. Nella pagina accanto la Casa di Diana, insula del II sec. d.C., a Ostia antica.
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Una rappresentazione dell’intenso traffico e del sovraffollamento di Roma ci viene fornita da Giovenale, il quale si lamenta aspramente dell’impossibilità addirittura di camminare per le strade (Satire, III, 243-248), anche perché molto spesso, come del resto ricorda il poeta Marziale (Epigrammi, VII, 61), i negozianti tendevano a invadere con i loro esercizi commerciali e le loro merci le strade. In questa rumorosa animazione della città esistevano tuttavia oasi di relativa quiete: innanzitutto vi erano numerosi giardini (horti), nei quali si poteva passeggiare tranquillamente, e poi le piazze, i portici e le gallerie. L’aspetto di Roma, e probabilmente anche di altre città dell’impero, era dunque diverso nel corso della giornata: il giorno per le strade vi era un intenso traffico di
veicoli e un grande affollamento di persone, tanto da indurre, come già detto, i pretori e lo stesso imperatore a decretare il divieto di transito per i carri all’interno della città nelle ore diurne; di notte i veicoli potevano circolare liberamente e inevitabilmente il loro passaggio disturbava la quiete notturna. Poiché vi era il divieto di circolazione durante il giorno, i carri venivano parcheggiati fuori dalle mura, presso le porte urbiche, in vere e proprie aree di parcheggio (area carruces) per i veicoli.
Il problema dei rifiuti Particolarmente gravi e di non facile soluzione dovevano essere anche i problemi legati al servizio di nettezza urbana, dal momento che la maggior parte della vita quotidiana si svolgeva proprio sulle strade, tanto che nel Digesto vi
sono testi legislativi che proibivano «di gettare immondezze, carogne o pelli di animali nella pubblica strada». La pulizia delle vie si configurò quindi come un servizio pubblico assai delicato per gli effetti immediati sull’igiene e la salubrità di Roma, richiedendo notevole impegno quotidiano. Oltre ai rifiuti dovuti all’intensa frequentazione delle strade e delle piazze, dovevano essere rimosse le immondezze provenienti dagli edifici pubblici, dai mercati e dalle case private, solitamente deposte lungo le strade. Non era insolito poi il caso di rifiuti gettati durante la notte dalle finestre, con grave pericolo per i passanti, che potevano essere investiti dal contenuto dei vasi usati per i bisogni notturni, se non addirittura veder minacciata la propria incolumità a causa del lancio di rottami. Per scoraggiare simili abitudini, i pretori emanarono editti che estendevano la responsabilità, con le relative sanzioni, dei lanci notturni a tutti gli inquilini del palazzo da cui era precipitata sul passante qualunque cosa liquida (effusum) o solida (deiectum), stabilendo un risarcimento per le vittime, comprensivo del rimborso delle spese mediche sostenute sino alla guarigione, nonché dell’ammontare dei salari non percepiti a causa dell’inabilità al lavoro.
La vita quotidiana era animata dai negozi e dalle voci dei venditori ambulanti che cercavano di vendere ogni sorta di merce. A Roma e nelle grandi città dell’impero vi erano vari mercati, come quello del pesce (forum piscarium), del bestiame (forum boarium) e delle verdure (forum olitorium), di cui possiamo farci un’idea dai bassorilievi e dalle pitture parietali. I negozi alimentari si trovavano generalmente raggruppati in prossimità del Foro, vale a dire nel centro della città. Nell’Urbe, per esempio, il mercato di Traiano era costituito da due terrazze sovrapposte di negozi e di magazzini, simili in un certo senso ai nostri moderni centri commerciali, in cui non si vendevano soltanto prodotti alimentari, ma anche di altro genere. La costruzione di vasti mercati nelle grandi città mostra la volontà da parte dell’amministrazione romana di esercitare un controllo sull’approvvigionamento della popolazione e sulla qualità e sul prezzo dei beni di consumo. Dall’«Editto dei prezzi» di Diocleziano, emanato dall’imperatore nel 301, si possono per esempio desumere molte informazioni interessanti sulla natura dei prodotti alimentari venduti e, almeno a livello orientativo, sul loro prezzo.
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Roma. Veduta aerea del complesso delle Terme di Caracalla (o Antoniniane), costruite dall’imperatore tra il 212 e il 217 d.C. lungo il tratto urbano dell’Appia. Restauri importanti si devono agli imperatori Aureliano, Diocleziano e Teodorico.
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Tra i luoghi piú frequentati e graditi dai Romani vi erano le taverne (tabernae), nelle quali si poteva mangiare e bere. In generale, i locali in cui si consumavano pasti fuori casa erano ovunque assai numerosi. Questi luoghi di ritrovo erano perlopiú dislocati nei pressi dei teatri e dei bagni, in prossimità del Foro, nelle vicinanze dei mercati e delle zone in cui si trattavano gli affari, nonché accanto alle caserme dei gladiatori e nel quartiere dei lupanari e delle prostitute di strada. Le tabernae godevano solitamente di una cattiva reputazione, in quanto erano abitualmente frequentate da persone di bassa estrazione e perché nelle zone piú malfamate vi si esercitava la prostituzione. Proprio per
questi motivi i proprietari e i gestori di tali locali appartenevano alle classi sociali piú basse, visto che era considerato un mestiere disonorevole, ma erano soprattutto liberti. In certi quartieri piú signorili esistevano comunque luoghi di ristoro di rango superiore. Di uno di questi ci parla Marziale: si trattava di un piccolo locale, denominato dal poeta con il termine cenatio, che si trovava presso il Mausoleo d’Augusto, dove si poteva mangiare comodamente sdraiati su letti triclinarii (triclinia). Nelle taverne o nelle locande di livello basso o medio i pasti venivano invece consumati al banco oppure seduti su sgabelli o su sedie. Questi ambienti offrivano di solito piatti molto semplici, quasi sempre già pronti
che ebbero grande successo occorre senza dubbio annoverare le terme, uno dei luoghi piú tipici della vita romana, a cui gli uomini e le donne accedevano in spazi e orari diversi. In effetti, a partire dal I secolo si ebbe un notevole sviluppo degli impianti termali e in particolare la nascita dei grandi stabilimenti imperiali, tanto che nella sola Roma alla metà del IV secolo si contavano circa novecento balnea, oltre a undici complessi termali. I bagni pubblici erano nati a Roma nel II secolo a.C. per andare incontro alle esigenze igieniche della popolazione. In età repubblicana, prima della diffusione delle terme, all’interno delle abitazioni esisteva una stanza riservata alla pulizia del corpo, la lavatrina o latrina, che si trovava a fianco della cucina, per permettere di sfruttare il calore e avere l’acqua calda a portata di mano. Il termine latrina, quando l’ambiente perse la sua funzione originaria di stanza da bagno e per lavarsi ci si recava alle terme, passerà poi a indicare i servizi igienici. Invece, nelle insulae, le case del popolo, le persone, per la mancanza dell’acqua corrente, (segue a p. 24)
o tali da essere preparati in poco tempo. Solo i ristoranti piú eleganti disponevano di un triclinium; infatti, per i Romani delle classi piú abbienti non mangiare coricati era considerata una cosa indecorosa.
Le ore dell’otium
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Pianta delle Terme di Caracalla. Lo schema prevedeva un corpo centrale che conteneva gli ambienti principali e due corpi laterali identici tra loro, disposti simmetricamente. Nel settore centrale, dopo l’ingresso, si succedevano l’ambiente scoperto con la piscina, la natatio (1), l’aula basilicale con funzione di frigidarium (2), il tepidarium (3) e il calidarium (4), lateralmente si trovavano gli spogliatoi (apodyterium) (5), le palestre (6) e una serie di sale riscaldate.
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Terminate le occupazioni della giornata e dopo una seconda colazione (prandium), che corrispondeva al pranzo, alquanto frugale, costituita per lo piú da cibi freddi e avanzi della sera precedente, i Romani dedicavano il pomeriggio all’otium e in tal senso le occasioni non mancavano, anche se le terme e gli spettacoli riscuotevano i maggiori consensi. Infatti, tra gli edifici pubblici delle città romane
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gli orari delle terme 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24
UOMINI ORARIO ROMANO INVERNALE DIURNO
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| Il chiasso come prezzo del benessere | A dare un’idea di cosa fosse la vita all’interno e nelle immediate vicinanze di uno stabilimento balneare del tipo «minore» – di quelli cioè che, ubicati nel cuore dei quartieri urbani, spesso al pianterreno dei grandi caseggiati d’affitto, continuarono a essere sempre assai diffusi, anche durante l’età imperiale – ecco una sintetica ma efficace testimonianza di Seneca: «Abito proprio sopra un bagno pubblico; immaginati perciò ogni sorta di voci che possano assordare le orecchie. Quando gli “atleti” s’esercitano a sollevare i pesi di piombo e s’affaticano o fingono d’affaticarsi, io li sento gemere e ogni volta che mettono fuori il fiato prima trattenuto, sento i sibili del loro respiro. Se qualcuno se ne sta zitto a farsi fare il massaggio allora sento la mano che passa sulla spalla e fa un suono diverso a seconda che colpisca piatta o incavata. Quando poi arrivano quelli che giocano a palla e cominciano a contare i colpi ad alta voce è finita. C’è anche l’attaccabrighe, il ladro colto sul fatto, il chiacchierone che si compiace d’ascoltare il suono della sua voce. E che dire del fracasso che fanno quelli che si tuffano nella piscina? Ma tutti questi, perlomeno, emettono voci che sono normali: pensa al depilatore che per richiamare
A sinistra disegno ricostruttivo della natatio, piscina scoperta delle Terme di Caracalla. In basso disegno di un ambiente termale con sistema di riscaldamento a ipocausto. La sezione mostra una grande caldaia (1) dalla quale il flusso d’aria calda veniva convogliato entro tubuli (2) (tubi in laterizio) posti all’interno delle pareti verticali e nello spazio vuoto sotto il piano pavimentale, sopraelevato grazie a pile di mattoni, dette suspensurae (3).
l’attenzione sui servigi che offre parla in falsetto e non sta zitto che quando strappa i peli a qualcuno; ma allora fa urlare chi gli sta sotto! Senza contare le esclamazoni e le grida sempre diverse del venditore di bibite, del salsicciaio, del pasticciere e di tutti i garzoni delle bettole che vanno in giro magnificando i loro prodotti, ognuno con una speciale modulazione della voce!». Quanto alle grandi terme, lo stesso Seneca scrive: «Centinaia di schiavi solerti provvedono nel sottosuolo a trasportare fascine e ciocchi di legna, a tenere fuochi accesi che servono a scaldare l’acqua e a dare ai vari ambienti la temperatura desiderata (...) Altri schiavi scivolano qua e là, nient’altro che ombre nella densa nebbia del vapore, portando pile di asciugatoi e anforette d’olio profumato per i massaggi. Amici giocondi ed espansivi si salutano a gran voce da un capo all’altro della sala, tra il vapore denso dei bagni. Venditori di bibite, di focacce, di noci, vantano la loro merce. Furfanti temerari approfittano della confusione per allontanarsi in fretta con un bel mucchio di vestiti, sollevando un putiferio da non dire: inseguimenti, pugni, imprecazioni. Un gran chiasso, se vuoi, ma dalle terme si esce risanati».
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per l’igiene personale dovevano ricorrere ai bagni pubblici. Con l’introduzione e la diffusione degli stabilimenti termali pubblici tutti i cittadini poterono cosí usufruire dei servizi essenziali per l’igiene e la cura di sé, poiché le tariffe erano molto basse e a volte l’accesso era addirittura gratuito. In età imperiale il bagno diventò un vero e proprio fenomeno di moda e la cura del corpo perse progressivamente la funzione igienica, che aveva caratterizzato l’età repubblicana, divenendo una pratica quotidiana di massa, un’occasione di incontro e di comunicazione
Il Colosso di Nerone. La statua in bronzo dorato ritraeva l’imperatore con le sembianze del dio Helios-Sole. Sul capo aveva la corona radiata, mentre con la mano sinistra reggeva il globo, simbolo del regno.
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con gli altri, che coinvolgeva un numero sempre maggiore di persone. Il complesso termale aveva uno schema architettonico fisso. Un vasto corpo centrale, circondato da uno spazio in cui erano allestiti dei giardini, con alberi e fontane, era suddiviso
in vari ambienti: gli spogliatoi, il frigidarium, il locale di acqua fredda in cui nuotare, il tepidarium, con le vasche tiepide, la sala nella quale ci si intratteneva prima e dopo il bagno, conversando e spesso trattando anche di affari, il calidarium, dove l’acqua era riscaldata, il
luogo destinato ai bagni d’acqua calda e di vapore, con una funzione molto simile alle moderne saune. C’erano inoltre altri ambienti, quali gli unctoria, stanze per i massaggi e le unzioni, e le palestre, per gli esercizi fisici. (segue a p. 31) La Valle del Colosseo, cosí come doveva apparire nel IV sec. d.C. L’Anfiteatro Flavio, realizzato da Vespasiano e completato da Tito nell’80 d.C., fu ribattezzato Colosseo per la vicinanza della statua bronzea colossale di Nerone.
La Meta Sudans, fontana di epoca flavia, cosí chiamata per la forma tronco-conica, simile a quella delle mete dei circhi, e perché l’acqua fuoriusciva dalla sommità e discendeva lungo le pareti della struttura, dando l’impressione che «sudasse». L’Arco di Costantino, eretto per celebrare il trionfo dell’imperatore su Massenzio dopo la battaglia di Ponte Milvio del 312 d.C.
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Ricostruzione del Circo Massimo, situato nella Valle tra Aventino e Palatino. Secondo lo storico Dionigi di Alicarnasso, era lungo 621 m e largo 118 e poteva ospitare, in epoca augustea, 150 000 spettatori circa.
I dodici carceres, i cancelli di partenza per i carri, si trovavano sul lato corto settentrionale; erano dotati di un meccanismo che ne permetteva l’apertura simultanea.
Al centro del circo si trovava una lunga spina, nel tempo arricchita da statue, edicole e monumenti. Nel 10 a.C., vi fu posto l’obelisco di Ramesse II proveniente da Heliopolis (ora in piazza del Popolo) e, nel IV sec. d.C., l’obelisco di Thutmosi III da Tebe (ora in piazza San Giovanni in Laterano). Al centro, erano collocate 7 uova in pietra che servivano per contare i giri compiuti dalle quadrighe, a cui furono aggiunti da Agrippa 7 delfini di bronzo con la stessa funzione. L’imperatore Claudio fece costruire alle estremità della spina, nel punto intorno a cui giravano i carri, le metae (elementi conici) in bronzo dorato.
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Sotto Augusto fu costruito, sul lato lungo nord-orientale, contiguo al Palatino, il pulvinar, una zona sacra riservata agli dèi che presiedevano agli spettacoli.
La facciata esterna aveva tre ordini: quello inferiore, di altezza doppia, era ad arcate. La cavea poggiava su strutture in muratura, che ospitavano i passaggi e le scale per raggiungere i diversi settori e gli ambienti di servizio interni. I sedili erano suddivisi orizzontalmente da praecinctiones in tre zone, ognuna corrispondente a un piano, e verticalmente in cunei.
Al centro del lato curvo meridionale in antico si apriva una porta, sostituita con un arco trionfale da Stertinio nel 196 a.C., e dall’arco di Vespasiano e Tito nell’80-81 a.C.
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sulla scena in pieno giorno
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Disegno ricostruttivo del teatro gallo-romano di Alise-Sainte-Reine, l’antica Alesia, nella Gallia Lugdunense, realizzato in età augustea o durante il I sec. d.C.
A Cavea 1 precinzione 2 ingressi B Edificio scenico 3 palcoscenico 4 postscaenium, o struttura di fondo della scena 5 porticus post scaenam (portico dietro la scena) C Orchestra
| Su il sipario! | Le rappresentazioni teatrali si svolgevano di giorno. Si hanno notizie, rarissime, di spettacoli notturni in Spagna, illuminati da torce entro vasi. Sconosciuto ai Greci, il sipario si «abbassava» scomparendo nella fossa sul bordo del palcoscenico del teatro romano e iniziava lo spettacolo! Il sipario sembra sia stato introdotto nel 13 a.C. utilizzando ricchi tappeti provenienti dal regno di Pergamo sui quali erano rappresentati personaggi a grandezza naturale. Quando veniva srotolato da terra verso l’alto si aveva l’impressione che queste persone sollevassero il sipario con le braccia. La situazione era molto diversa dall’attuale modo di andare a teatro. La luce del sole, infatti, illuminava tutto l’edificio all’aperto, tutto era visibile e la scenografia non poteva puntare su effetti illusionistici. Tuttavia, come è raccontato in Apuleio, è ampiamente documentato l’uso di scenografie, che talvolta coprivano parzialmente il muro di fondo della scena (di per sé ricco di colonne e statue), o si inserivano in vario modo all’interno di essa. Erano infatti usati pinakes, quadri fissi, e periaktoi, prismi dipinti sulle varie facce che
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ruotavano su un perno centrale per cambiare il quadro. Inoltre la scena doveva avere, come nei teatri moderni, un pavimento in tavole di legno. Nei teatri greci con edificio scenico a proscenio rialzato i pinakes si disponevano anche inferiormente tra le colonne o i pilastri che sostenevano il palcoscenico. Da Vitruvio e da Polluce (II secolo d.C.), sappiamo che in epoca romana venivano usati macchinari per effettuare rapidamente cambi di scenari: il piú antico – scaena ductilis – era costituito da pannelli scorrevoli su guide, mentre la scaena versilis, usata successivamente, era formata da alcuni pannelli mobili dipinti su ambedue le facce, che giravano su se stessi cambiando cosí lo scenario. Gli scenari variavano a seconda del genere di rappresentazione: porticati con vedute di templi per la tragedia, vedute di città con case per la commedia, grotte con giardini, pergole e fontane per il dramma satiresco. Le pitture di un ambiente della villa di Boscoreale, databili alla metà del I secolo a.C. (e attualmente ricostruite al Metropolitan
Museum di New York), propongono i tre tipi di scenografie (presenti anche nelle meno note pitture della villa di Oplontis, ove compaiono alcune maschere, a conferma dell’ispirazione teatrale nelle scene dipinte sulle pareti delle ville, testimoniate soprattutto a Pompei). Il palcoscenico, molto diverso da quelli profondi cui siamo abituati oggi, era una striscia piuttosto lunga e stretta; gli attori avevano quindi qualche limitazione nei movimenti durante la recitazione, soprattutto non potevano essere molto numerosi. Per spettacoli di ampio respiro, dunque erano probabilmente necessari adattamenti che garantissero un ampliamento dello spazio e l’utilizzazione dell’orchestra. II palcoscenico era anche attrezzato con macchine teatrali. Utilizzate soprattutto nelle tragedie e nelle parodie tragiche, le piú note sono: l’ekkiklema, una piattaforma ruotante provvista di una struttura al centro (per esempio un trono, una tenda o una casa), nella quale venivano rappresentati i fatti che non si riteneva opportuno mostrare al pubblico, al quale però si faceva vedere l’esito dell’azione svolta
(per esempio un cadavere dopo un assassinio), facendo ruotare la piattaforma; la mechanè, un gancio legato a una carrucola posto in alto alla scena per mezzo del quale apparivano gli esseri volanti e gli dèi (il deus ex machina di Euripide), che poi «atterravano» sul theologheion, un’alta piattaforma di legno dalla quale le divinità pronunciavano i loro discorsi, e infine le scale (o fossa) «di Caronte», una botola aperta nell’orchestra collegata a un passaggio che conduceva all’esterno della scena, mediante il quale era possible simulare delle apparizioni dall’Oltretomba, come nel teatro di Segesta. Come segno di gradimento dello spettacolo, il pubblico usava battere i piedi sui gradini e le mani una contro l’altra con le palme concave o distese: sono i tradizonali applausi, che avevano quindi anche varie gradazioni di sonorità, cosí come i fischi esprimevano anche in antico la riprovazione del pubblico verso gli attori! Sembra, infine, che l’applauso concordato, quello che oggi chiamiamo claque, sia stata un’invenzione dell’imperatore-attore Nerone.
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| Quando ricchezza faceva rima con filantropia | In tutte le città romane, dalle piú grandi alle piú piccole, sono testimoniate, soprattutto in età imperiale, numerose donazioni di ricchi benefattori, desiderosi di rendersi benemeriti presso i concittadini, spinti da spontaneo mecenatismo o per contraccambiare l’appoggio politico ricevuto per assurgere a una carica pubblica. Volendo individuare una sorta di corrispettivo moderno della munificenza privata e della figura dell’evergete, si potrebbe in qualche modo avvicinarli ai termini di «sponsorizzazione» e di sponsor, anche se questa identificazione risulta certamente
riduttiva, nel senso che, a differenza di quanto avviene oggi, nell’antichità il principio che il ricco doveva donare parte della sua ricchezza per il bene della comunità costituiva, per cosí dire, la regola, e non certo l’eccezione. L’evergetismo privato, in un certo senso, lo si può accostare alla moderna filantropia, ben radicata e diffusa negli Stati Uniti, che induce munifici mecenati, che si sentono partecipi dei destini della collettività proprio in ragione della loro ricchezza, ad assumersi e farsi carico di una responsabilità pubblica, donando parte delle proprie sostanze e sviluppando, in
un contesto di crisi del welfare state, nuove forme di solidarietà. Simili «sponsorizzazioni», indubbiamente molto piú frequenti di quanto non lo siano ai giorni nostri, si radicarono a tal punto nella prassi comune, e assunsero già alla fine dell’età repubblicana cosí ampie proporzioni, da indurre lo stesso Cicerone, nel secondo libro del De officiis, a parlarne diffusamente, indagandone l’origine e la natura, per ricondurle nell’alveo della misura e della moderazione, affinché non fossero superiori ai mezzi e alle sostanze del donatore, come talvolta poteva avvenire.
MARCO VIPSANIO AGRIPPA, IL GENERO DI AUGUSTO, SI FECE PROMOTORE DELLA COSTRUZIONE DEL PRIMO GRANDE STABILIMENTO TERMALE DELLA ROMA IMPERIALE, CHE SORSE NELLA ZONA DEL CAMPO MARZIO Una peculiarità di questi impianti era la presenza di spazi destinati a scopi culturali, come biblioteche, sale per conferenze, per spettacoli musicali e per letture pubbliche, per i clienti piú esigenti: in sostanza si trattava di complessi polifunzionali, che andavano dalla cura del corpo a quella dello spirito. Tutti i servizi, come il riscaldamento e il deflusso delle acque, avvenivano invece tramite gli ambienti sotterranei. Il sistema di riscaldamento delle terme romane si basava su tecniche indubbiamente assai sofisticate per quei tempi: una serie di tubature portava l’acqua calda dalla cisterna di raccolta alle vasche; un ambiente sotterraneo, l’ipocausto, teneva calda l’aria, mentre la testudo alvei, un recipiente bronzeo a forma di testuggine e a diretto contatto con il forno, manteneva costante la temperatura dell’acqua. Il primo grande stabilimento termale imperiale fu fatto edificare da Agrippa, a partire dal 25 a.C., nel Campo Marzio, tra il Pantheon e l’attuale Largo Argentina. Il complesso termale che testimonia una svolta importante per lo
Nella pagina accanto frammento di mosaico raffigurante un combattimento di gladiatori, da Terranova, presso la via Casilina (Roma). IV sec. d.C. Roma, Galleria Borghese.
sviluppo architettonico delle terme fu costruito dall’imperatore Traiano, il quale sul Colle Oppio realizzò un enorme impianto, costituito da un corpo di fabbrica centrale circondato da un grande recinto; all’interno della struttura principale gli ambienti erano disposti in modo simmetrico rispetto all’asse centrale. Le terme edificate dai successori di Traiano seguirono sempre lo stesso schema. Importanti per la loro monumentalità e per lo stato di conservazione sono le terme fatte erigere dall’imperatore Caracalla, a partire dal 212, lungo il tratto urbano dell’Appia.
Il tifo: una passione trasversale Ma era soprattutto nei riguardi dei giochi e degli spettacoli pubblici che si scatenava la vera e propria passione e l’entusiasmo dei Romani, ben espressa da Giovenale con i termini panem et circenses, a sottolineare come le distribuzioni di viveri e denaro e l’organizzazione di giochi fossero ormai gli strumenti piú efficaci per la gestione del consenso da parte dell’imperatore.
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Nella vita delle città romane gli spettacoli avevano perciò un ruolo rilevante, in quanto vi partecipava l’intera collettività e durante il loro svolgimento i cittadini avevano modo di riconoscersi come un insieme, come un corpo civico. A giudicare dall’importanza degli edifici di spettacolo la partecipazione del popolo avveniva in massa: il Circo Massimo, per esempio, aveva una capienza di 150 000 persone in età augustea e di 250 000 all’epoca di Nerone; il Colosseo poteva ospitare sino a 68 000 posti a sedere e 5000 in piedi; il Teatro di Marcello aveva una capienza di circa 20 000 persone. Nella Roma imperiale le diverse forme di spettacolo avevano luogo in strutture costruite ad hoc: nel teatro le rappresentazioni sceniche (ludi scaenici), nel circo le corse dei carri (ludi circenses), nell’anfiteatro i combattimenti gladiatori (munera), le cacce di belve (venationes) e le battaglie navali (naumachiae) e nello stadio le gare di atletica (agones o certamina graeca).
Teatri smontabili Nel periodo di maggior splendore del teatro romano, durante il quale furono attivi commediografi come Plauto e Terenzio e tragediografi come Ennio, Pacuvio e Accio, l’edificio scenico era costituito da un rudimentale palcoscenico di legno (pulpitum), eretto nelle piazze davanti ai templi, attorno al quale gli spettatori assistevano in piedi alle rappresentazioni. Una parete, anch’essa di legno, delimitata da colonne, su cui si aprivano porte e finestre riccamente decorate, faceva da fondale (scaena). In seguito, per la necessità di offrire al pubblico un maggior comfort, furono costruiti teatri provvisori con gradinate in legno, sul modello di quelli greci, che venivano smontati dopo gli spettacoli. Il primo a erigerne uno a Roma, nel 145 a.C., fu Lucio Mummio, il conquistatore della Grecia. Sino alla metà del I secolo a.C., per la decisa ostilità del Senato agli influssi greci che stavano profondamente penetrando a Roma, non vi fu la costruzione di teatri stabili. Il primo
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edificio in muratura per spettacoli teatrali fu realizzato soltanto nel 55 a.C., da Pompeo, che riuscí a costruire un teatro nel Campo Marzio, eludendo i divieti che ne impedivano la creazione, con il pretesto che la cavea doveva costituire la struttura delle gradinate di accesso al tempio di Venere Vincitrice, fatto innalzare dallo stesso generale. In origine le corse dei carri si svolgevano nei fondovalle naturali, ma, col tempo, lo straordinario successo di questi spettacoli portò alla costruzione di edifici monumentali come i circhi. Il Circo Massimo, lungo 621 m e largo 118, secondo lo storico greco Dionigi di Alicarnasso (60 a.C. circa-7 a.C.), fu il piú imponente del mondo romano e rappresentò il modello di riferimento per i numerosi circhi che sorsero in tutti i principali centri d’Italia e delle province. Nato come una semplice pista, con gli spettatori che sedevano sui pendii dei
Ricostruzione di un triclinio nel Museo della domus della Calle di Anón a Saragozza, in Spagna.
Inaugurato da Tito nell’80, il Colosseo, alto quasi 50 m, divenne il piú grande anfiteatro del mondo romano.
Banchetti interminabili
colli Aventino e Palatino, successivamente si sviluppò in una costruzione con una cavea a tre ordini di gradinate. L’altro importante edificio di spettacolo della Roma imperiale fu l’anfiteatro. A Roma i munera gladiatoria sino a Cesare e all’inizio dell’età imperiale avevano luogo inizialmente nel Foro Boario, poi nel Foro Romano, come del resto è comprovato dal sistema di gallerie scoperto sotto l’area centrale. Solo in seguito, per i combattimenti dei gladiatori e le lotte con le belve, fu creata una struttura originale, chiamata anfiteatro. A Roma, il primo esemplare stabile, in parte in muratura, fu dedicato sotto Augusto da Tito Statilio Tauro nel Campo Marzio; dopo la sua distruzione, nell’incendio del 64, i Flavi fecero costruire l’anfiteatro che porta il loro nome, piú noto con il nome di Colosseo, per la vicinanza della statua colossale dell’imperatore Nerone.
All’imbrunire i Romani tornavano nelle loro abitazioni: li aspettava la cena, l’unico piatto importante della giornata. La sala da pranzo era il triclinium, il cui nome deriva dai tre letti, disposti a ferro di cavallo, dove si sistemavano i commensali, tre per ogni letto, semisdraiati, appoggiati ai cuscini; il banchetto era il momento della socialità, in cui si condivideva la serata con gli amici piú cari. Nel caso delle cene sontuose, come quella di Trimalcione, celebrata da Petronio nel Satyricon, si arrivava quasi sino all’alba e il banchetto rappresentava una forma di ostentazione della ricchezza e del rango sociale. In questi casi la cena si contraddistingueva, oltre che per l’abbondanza e la qualità dei cibi e delle pietanze, anche per la loro scenografica presentazione, che doveva stupire i commensali; poteva prevedere almeno sette portate, dette fercula: si iniziava con la gustatio, gli antipasti, e si concludeva con la commissatio, un rito con cui si poneva fine al convivio, durante il quale bisognava vuotare una serie di coppe tutte d’un fiato. I Romani avevano gusti diversi dai nostri e prediligevano l’agrodolce o il sapore dolciastro, soprattutto nei condimenti; ne è prova il garum, una salsa considerata prelibata, ricavato dalle interiora di pesce messe a macerare nel sale. Molto piú frugali erano le cene delle persone comuni, che terminavano prima del buio, dal momento che le lucerne erano costose. Per loro la giornata si concludeva con un misero pasto, in genere a base di verdure e legumi oppure un piatto unico, che poteva essere di porri e ceci e frittelle. Mentre i Romani cenavano, la notte calava sull’Urbe e il buio avvolgeva tutte le cose, visto che non vi era ancora un impianto di illuminazione delle strade, ma il rumore dei carri che trasportavano le merci e che potevano circolare solo di notte dava l’impressione che la città eterna non dormisse mai.
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ROMAIL CENTRO Ricostruzione dell’area nella quale si concentravano le sedi delle principali istituzioni amministrative, politiche e religiose della Roma imperiale. 1. TABULARIUM Ultimato nel 78 a.C., era l’imponente archivio delle tabulae di bronzo con le leggi e gli atti ufficiali dello Stato. 2. TEMPIO DELLA CONCORDIA Voluto da Furio Camillo per sancire la fine delle lotte tra patrizi e plebei grazie alle leggi Licinie-Sestie del 367 a.C., ospitava spesso le riunioni del senato.
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3. BASILICA GIULIA Cosí chiamata perché iniziata da Cesare e ultimata da Augusto, era un edificio grandioso, sede di ben quattro tribunali. 4. FORO DI TRAIANO Inaugurato nel 112 d.C., era un complesso enorme (300 x 185 m), opera dell’architetto Apollodoro di Damasco. Sul Foro affacciavano la Basilica Ulpia, alle cui spalle fu innalzata la Colonna di Traiano, e due ambienti interpretati come biblioteche. 5. FORO DI AUGUSTO Dominato dal tempio di Marte Ultore, sorse nell’ambito di una riorganizzazione dell’area centrale della città. 6. FORO DI NERVA Voluto da Domiziano, fu inaugurato da Nerva nel 97 d.C.
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7. CURIA GIULIA Sede delle assemblee del senato, sostituí la Curia Ostilia, danneggiata da un incendio. 8. BASILICA EMILIA Era sede di tribunali, nonché di transazioni e attività commerciali. 9. REGIA Residenza dei re in età monarchica. 10. TEMPIO DI VESTA Al suo interno ardeva in perennità un fuoco pubblico, simbolo della vita eterna di Roma.
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DEL POTERE
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VITE AL
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A VOLER RICORDARE I GRANDI DI ROMA, IL PENSIERO CORRE SUBITO AGLI IMPERATORI. IN REALTÀ, FRA GLI ARTEFICI DELLA REPUBBLICA E POI DELL’IMPERO, VI FURONO ANCHE MOLTI GRANDI GENERALI
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Sulle due pagine, da sinistra a destra: ritratto di Marco Antonio; statua di un generale romano; busto dell’imperatore Aureliano; statua di Traiano.
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VITE AL COMANDO | IMPERIUM | 38 |
LUCIO EMILIO PAOLO IL «MACEDONICO»
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ucio Emilio Paolo nacque nel 229 a.C. in una delle piú nobili famiglie patrizie di Roma. Suo padre, omonimo, fu il console che morí nella battaglia di Canne (216 a.C.). Il giovane Lucio Emilio fu nominato edile nel 193 a.C., poi pretore, nel 191 a.C., carica che ricopriva quando si recò in Spagna per combattere i Lusitani (191-189 a.C.); fu eletto console nel 182 a.C. e, poi, come proconsole, lottò contro gli Ingauni della Liguria. In quegli anni accrebbe la sua fama, acquisí una notevole esperienza amministrativa e militare e diede prova di buone capacità strategiche.
Vinta una prima volta dai Romani, la Macedonia cercava di riprendere il suo ruolo di grande potenza dell’area balcanica. Il nuovo re, Perseo, figlio di Filippo V, aveva pertanto preparato un forte esercito, guadagnandosi anche l’alleanza di varie tribú barbare. Molte città greche, scontente dell’egemonia romana, sostenevano ogni movimento che si proclamasse contrario al sistema politico instaurato dopo l’anno 197 a.C. (ovvero all’indomani del secondo conflitto tra Roma e la Macedonia). Nel 171 a.C. cominciò cosí la terza guerra tra Macedoni e Romani. Malgrado i successi iniziali, Roma si
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Percorso di Publio Cornelio Scipione Nasica Percorso di Milone
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Percorso di Lucio Emilio Paolo Percorso di Perseo, re di Macedonia Primo e secondo accampamento dei Romani Primo e secondo accampamento dei Macedoni
trovò in grande difficoltà nei Balcani, e, alla fine, affidò la direzione della guerra a Lucio Emilio Paolo, il quale, divenuto di nuovo console nel 169 a.C., sbarcò con notevoli forze nell’Epiro. Perseo beneficiava però di un vantaggio, vale a dire, disponeva di truppe superiori e del sostegno degli alleati barbari. Il comandante romano operò con grande abilità e riuscí a penetrare nella stessa Macedonia senza scontrarsi con le preponderanti forze nemiche.
Manovre notturne Accampatosi presso la costa, inviò lungo il mare un distaccamento abbastanza consistente, costituito da 8200 fanti e 120 cavalieri, comandato da Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo; questi, di notte,
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cambiando all’improvviso direzione verso sud, attraversò rapidamente le montagne, per appostarsi, non visto, alle spalle dell’esercito macedone. Un disertore romano svelò poi al nemico il piano di battaglia e Perseo poté mandare subito 12 000 soldati, diretti dal generale Milone, contro la nuova minaccia. Nondimeno i Romani schiacciarono rapidamente le forze nemiche. Allora Perseo fu costretto a ripiegare verso nord, sino ad arrivare nelle vicinanze della città di Pidna. Qui Lucio Emilio Paolo, che l’aveva seguito con il grosso del suo esercito, poté finalmente impegnarlo nella battaglia decisiva. I due eserciti si scontrarono in un’ampia pianura, il 22 giugno del 168 a.C. Apparentemente i Macedoni erano in vantaggio: disponevano di 44 000
In alto denario emesso nel 71 a.C. per commemorare la vittoria ottenuta da Lucio Emilio Paolo a Pidna, nel 168 a.C. A sinistra cartina nella quale sono riportati i movimenti delle truppe romane e macedoni che fecero da preludio alla battaglia combattuta a Pidna, nel 168 a.C., tra le truppe di Lucio Emilio Paolo e quelle del re di Macedonia, Perseo. Nella pagina accanto Il trionfo di Lucio Emilio Paolo. Olio su tela del pittore francese Carle Vernet (1758-1836). 1789. New York, Metropolitan Museum of Art.
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soldati, 21 000 dei quali costituivano la temibile falange, mentre la cavalleria contava circa 4000 uomini. I Romani disponevano solo di 29 000 soldati, con una cavalleria di quasi uguale consistenza. Il terreno pianeggiante permetteva l’attacco massiccio della falange, munita di lance lunghissime, le sarissae. Perseo dispose la falange nel centro e si schierò subito a sinistra con la sua guardia, formata da uno squadrone di 3000 guerrieri scelti, devoti al re, e con la cavalleria pesante; ai fianchi della fanteria pesante, su ambedue i lati, collocò la fanteria leggera e gli alleati traci, mentre la cavalleria leggera occupava le ali. I Romani posero le legioni al centro e la fanteria degli alleati sui fianchi; la cavalleria occupava sempre le ali, ma, nella parte destra, essa venne accompagnata da 22 elefanti da combattimento. Lucio Emilio Paolo sperava cosí di rompere la formazione compatta e quasi invincibile dei nemici.
Le lance spezzate dagli scudi La lotta iniziò con l’attacco irresistibile della falange, di fronte alla quale i Romani cominciarono a ritirarsi. Ma proprio la faticosa marcia della loro fanteria aveva indebolito i Macedoni: arrivata ormai su un terreno corrugato, la falange aveva dovuto separarsi in varie linee, con spazi vuoti tra l’una e l’altra. Una tradizione, riportata da Frontino, sostiene che Lucio Emilio Paolo attaccò subito la falange con la cavalleria e che gli scudi spezzarono le sarissae. Le truppe romane sfruttarono subito la nuova situazione: raggruppati in manipoli molto flessibili, i legionari penetrarono nei vuoti creatisi tra i fanti della falange, impegnandoli nella lotta corpo a corpo. Equipaggiati di gladio e corazza, essi ebbero facilmente la meglio sui nemici e il fianco sinistro dei Macedoni fu annientato. In quel difficile frangente Perseo avrebbe potuto colpire duramente con la sua
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Ritratto in marmo di Lucio Emilio Paolo, dall’Albania. Copia della prima età augustea (?) di un originale dell’inizio del II sec. a.C. Tirana, Museo Archeologico.
cavalleria pesante e con la guardia scelta, ma non lo fece. Al contrario, si allontanò in fretta, suscitando cosí confusione nel suo esercito. La sua guardia lottò disperatamente: 3000 soldati furono uccisi; ma fu un sacrificio inutile, che non mutò le sorti dello scontro. Inseguendo i nemici ormai in fuga, i Romani ne fecero strage: 32 000 Macedoni caddero sul campo di battaglia o vennero catturati. Rimase memorabile il successo conseguito da una legione romana, suddivisa in manipoli, nel corso di un attacco frontale condotto da una falange: un evento unico nel suo genere. Il disastro macedone fu totale: l’orgoglioso Perseo, che si reputava successore del grande Alessandro, capitolò e si arrese, il bottino di guerra fu ingente; le conseguenze per il Paese vinto, che aveva sino ad allora rappresentato una seria minaccia, furono tremende. Il re, la sua famiglia e molti sostenitori della politica antiromana furono deportati in Italia, 500 notabili furono condannati a morte e le confische impoverirono la classe dirigente e non solo. Le deportazioni colpirono – si dice – piú di 300 000 Macedoni, in gran parte denunciati come oppositori di Roma dai loro compatrioti. La stessa Macedonia cessò di esistere come Stato e fu divisa in quattro repubbliche, controllate dai Romani. L’anno successivo fu devastato anche il vicino Epiro, dove furono distrutte una settantina di città e 150 000 abitanti furono venduti come schiavi. Vent’anni piú tardi Macedonia ed Epiro entrarono a far parte di una nuova provincia romana, quella, per l’appunto, di Macedonia. Lucio Emilio Paolo celebrò a Roma un grande trionfo, nel corso del quale anche Perseo sfilò come prigioniero, e da quel momento fu detto «Macedonico». Divenuto censore nel 164 a.C., la sua carriera, tuttavia, non conobbe altri momenti importanti. Morí nel 160 a.C.
L’ESPANSIONE ROMANA FINO ALL’ETÀ DI CESARE o
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QUINTO SERTORIO IL RIBELLE
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l caso di Quinto Sertorio è del tutto particolare: fu un capo politico e militare molto capace, dotato di virtú straordinarie, peraltro ammiratissime, ma divenne celebre soprattutto perché lottò contro lo stesso Stato romano. Sertorio era nato intorno al 122 a.C. a Nursia (oggi Norcia, Perugia), un paese sabino. All’età di 17 anni era già sotto le armi e combatteva contro i Cimbri e i Teutoni e venne ferito nel 105 a.C. nella battaglia, perduta, di Arausio. Gaio Mario diventò il suo modello e da lui imparò i segreti dell’arte militare. Molto apprezzato per il suo coraggio nelle battaglie di Aquae Sextiae e Vercellae, Sertorio fu promosso tribuno militare, cioè incluso nell’ordine senatorio, e fu mandato in Spagna per combattere una rivolta locale. Qui ottenne, per valore e astuzia, un grande successo militare a Castulo, nella Spagna centrale, ricevendo anche la piú onorevole decorazione, la corona graminea, che veniva accordata solamente a quelli che salvavano un esercito in pericolo. Ma la cosa piú importante per Sertorio fu la conoscenza profonda della Spagna, ancora ribelle e poco integrata nella civiltà romana, che divenne la base dei suoi futuri successi. Nel 91 a.C. Sertorio si trovava come questore nella Gallia Transalpina, ma dovette entrare in Italia a causa della guerra sociale. Lottando con accanimento, perse un occhio. Successivamente diventò legatus di una legione e, dopo la guerra, si candidò alla pretura, ma fu ostacolato dal partito di Silla. Abbastanza conosciuto e popolare a Roma, egli diventò un valente sostenitore del partito popolare, capeggiato da Gaio Mario. Sertorio partecipò poi alle vicende drammatiche dell’87 a.C.: la guerra civile, l’occupazione di Roma con le forze popolari di Cinna e di Mario e, in seguito, il regime brutale del vecchio generale. Benché fosse considerato uno dei capi del governo popolare,
Sertorio disapprovava gli eccessi di Mario, in modo particolare la liberazione di schiavi, utilizzati in seguito nei gruppi armati che terrorizzavano la popolazione, al pari della guardia di barbari illiri del generale, i baridaei, che turbavano gravemente la società, suscitandone l’odio. Dopo averne proposto varie volte, invano, lo scioglimento, alla fine Sertorio agí senza l’accordo di Mario e, con Cornelio Cinna, mosse l’esercito contro i loro accampamenti, massacrandoli tutti. Sorprendentemente, lo stesso Mario non osò far niente contro il suo unico collaboratore, che mostrava di possedere una forte personalità. Tuttavia, la morte di Mario e di Cinna non accrebbe l’influenza di Sertorio sul governo.
Un governo equo e illuminato All’arrivo in Italia di Silla, nell’84 a.C., il gruppo dirigente di Roma si dimostrò disunito e incapace. Spesso in disaccordo con gli eccessi e gli abusi dei suoi colleghi, Sertorio, nell’82 a.C., fu mandato come governatore in Spagna. In questa posizione attuò una politica totalmente diversa da quella dei suoi predecessori: amministrando con giustizia e clemenza e con l’avveduto rispetto della società autoctona e delle élite locali, Sertorio riuscí rapidamente a guadagnarsi la fiducia e la stima delle popolazioni ispaniche. Nondimeno, il governo sillano lo cacciò da questa provincia nell’81 a.C. Proscritto e ricercato, Sertorio si rifugiò in Africa, poi tornò in Spagna, lí dove gli abitanti della penisola iberica lo stimavano e lo tenevano nella piú alta considerazione. Infatti, la potente tribú dei Lusitani gli offrí rifugio, insieme ad altre tribú che si erano schierate a suo favore. Per di piú, molti mariani fuggiaschi, proscritti dal regime di Silla, si raccolsero intorno a lui. Sertorio si trovò cosí alla testa di un vero e proprio movimento popolare diffuso in tutta la Spagna romana. In breve tempo
Statua eroica di rango militare in marmo, dal teatro di Cassino (Lazio). Metà del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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A Valencia (l’antica Valentia), l’area urbana dell’Almoina, presso la cattedrale cittadina, ha restituito gli scheletri di 14 maschi adulti, misti a ceneri e carboni, due dei quali compaiono nelle foto in questa pagina. Si tratta di alcuni dei soldati dell’esercito di Quinto Sertorio, governatore in Spagna, sconfitti, nel 75 a.C., dalle truppe di Pompeo, sotto le mura della città. Dopo la battaglia, Valentia fu rasa al suolo e i prigionieri radunati e giustiziati. Gli archeologi hanno infatti osservato sugli scheletri segni di mutilazioni e torture praticate su individui ancora vivi: segno che i soldati non morirono in combattimento, ma furono barbaramente assassinati.
riuscí a formare un esercito di tipo romano, composto da Romani ribelli e da autoctoni in rivolta, in grado di controllare gran parte della Spagna e di formare una vera amministrazione sul modello di quella romana, non piú sottoposta, anzi del tutto indipendente dal governo sillano. Lo «Stato» ispano-romano di Sertorio perdurò dall’80 al 72 a.C., in permanente guerra con Roma.
Maestro di guerriglia L’atteggiamento di Sertorio verso le popolazioni locali, il loro coinvolgimento nella direzione della guerra e i privilegi e i diritti offerti alle comunità ispaniche favorirono la romanizzazione e l’integrazione della Spagna nel sistema romano molto di piú di quanto avessero ottenuto i precedenti governatori: solo in questo periodo le élite iberiche cominciarono veramente a romanizzarsi. Negli anni della guerra Sertorio non mancò mai di mostrare grande coraggio, eccezionale abilità militare, ma anche grande umanità e clemenza. La sua popolarità raggiunse l’apice e riuscí a vincere tutte le battaglie contro i
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Lo scheletro di un soldato giustiziato dopo la battaglia di Valentia (in alto) e quello di un uomo di età matura (in basso), forse il comandante delle forze sertoriane, trapassato con un pilum, una lancia lunga. Nella pagina accanto punte di lancia,
falci e altri reperti in metallo recuperati nell’area dell’Almoina. La presenza di armi romane e indigene si spiega con la composizione delle truppe sconfitte, formate da coloni italici stanziati in Spagna e, per la maggior parte, da genti locali.
governatori inviati da Silla (79-76 a.C.), usando la tattica della guerriglia, appoggiata dagli autoctoni. Spaventato dall’indipendentismo iberico, il Senato si risolse a inviare contro di lui un potente esercito, comandato dal già noto Pompeo. Questi invase la Spagna dal nord, mentre nella Baetica operava l’esercito di Metello Pio. I generali inviati da Roma speravano di conquistare innanzitutto la sponda marittima spagnola orientale. Pompeo, infatti, riuscí dapprima a occuparne la metà settentrionale; poi però, nel 76 a.C., fu sconfitto dall’astuzia di Sertorio nella battaglia di Lauro, vicino a Sagunto, quindi nei pressi della stessa Sagunto e, in ultimo, nel tentativo di prendere Carthago Nova. Alla fine dell’anno le forze senatoriali furono costrette a ritirarsi.
Una scelta impopolare Sertorio strinse anche un’alleanza con Mitridate, re del Ponto, nemico irriducibile di Roma; ma, sfortunatamente per lui, proprio quest’alleanza causò la perdita di molte simpatie tra i Romani accorsi a sostenerlo, senza apportargli alcun vantaggio. L’anno successivo, l’attacco di Roma fu ripreso dai mariani. Dopo due vittorie, il corso degli eventi sembrava favorire i due proconsoli, ma si trattava solo di una semplice apparenza.
Una grande battaglia sul fiume Sucro, l’odierna Jucar, ebbe un esito incerto; tuttavia, Sertorio dovette ripiegare, per continuare la sua vivace guerriglia. Un altro scontro importante avvenne vicino Sagunto, ma questa volta furono Pompeo e Metello, quest’ultimo ferito, a doversi ritirare. Il bilancio era scoraggiante per il governo romano, quando Pompeo ricevette grandi forze supplementari. Nel 74 a.C. l’esercito senatoriale dette inizio a un’altra offensiva, questa volta direttamente verso l’altopiano centrale iberico. Venne, inoltre, emanato un proclama che chiamava i ribelli a sottomettersi, promettendo loro l’amnistia, mentre una consistente taglia venne posta sulla testa di Sertorio. L’offensiva ebbe successo e l’altopiano iberico centrale – territorio dei Celtiberi – fu invaso e devastato. La lotta si trascinò sino al 73 a.C.; Sertorio ormai conosceva la sconfitta e il suo esercito si indeboliva sempre di piú. Ciononostante, nessuno riuscí a vincerlo direttamente. Egli venne ucciso a tradimento da un ufficiale subalterno, che cercò poi di prenderne il posto. La morte del grande generale decise alla fine l’esito della guerra: le popolazioni locali abbandonarono il nuovo comandante, colpevole della morte di Sertorio, accettando di sottomettersi; i resti dell’esercito ribelle furono annientati da Pompeo e i capi furono trucidati. Tuttavia, il vincitore mostrò grande clemenza per i ribelli, facilitando il loro reinserimento nella società e la stessa decisione fu presa anche per gli autoctoni. La rivolta politica e militare di Sertorio aveva fallito, ma le sue misure per una migliore amministrazione della provincia furono mantenute, il che giovò considerevolmente alla duratura pacificazione e alla romanizzazione della Spagna.
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MARCO ANTONIO
CHE PER AMORE PERSE L’IMPERO
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n questa rassegna dei piú importanti condottieri romani non può mancare Marco Antonio, simbolo, per certi aspetti, dell’eroe tragico, duramente colpito dalla sorte e fatalmente condannato al fallimento. D’altronde, il suo destino fu dovuto innanzitutto alla grande debolezza del suo carattere. Antonio nacque a Roma in un anno drammatico, l’82 a.C., allorquando Silla conquistava il potere attraverso una sanguinaria guerra civile. Dopo un’infanzia difficile, già all’età di vent’anni, fattosi avvenente e intelligente, era un uomo dedito al lusso e alla dissolutezza, con amici poco raccomandabili come Curione o Clodio. Di lí a poco entrò nel circolo politico del partito popolare, diretto da suo zio Giulio Cesare, e si recò poi a studiare a Rodi, divenendo un oratore molto abile (59-57 a.C.). Con gli anni, Antonio migliorò anche le proprie capacità militari: per cameratismo, coraggio e generosità si rendeva degno di ammirazione; gli mancava però il discernimento. Diede prova di talento militare in Samaria (57 a.C.), catturando il ribelle Aristobulo, e poi in Egitto (56 a.C.), dove il suo intervento risultò decisivo per la vittoria romana sul re Tolomeo XI. Circondato da una certa fama, Antonio si recò quindi in Gallia per combattere sotto la guida di Giulio Cesare, divenuto il suo idolo; vi rimase dal 54 al 51 a.C., anche quando – eletto questore nell’Urbe – preferí continuare il suo servizio nell’esercito per partecipare attivamente alla guerra contro Vercingetorige. Marco Antonio faceva ormai parte del seguito personale di Cesare e godeva di tutta la sua fiducia, come luogotenente fedele e capace. Nel 50 a.C., inviato da Cesare a Roma ed eletto tribuno, Antonio si impegnò in
In alto Augusto trasportato in trionfo sulle acque, in un cammeo commemorativo che celebra la vittoria dell’imperatore su Antonio nella battaglia di Azio (31 a.C.). I sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto ritratto in marmo forse identificabile con Marco Antonio, dal Comizio (Foro Romano, Roma). 80-70 a.C. Roma, Centrale Montemartini.
un’opposizione durissima contro Pompeo, tanto da mettere a rischio la propria vita. Riuscí a mettersi in salvo solo fuggendo in segreto dall’Urbe. Nella guerra civile che ne seguí combatté con grande coraggio, sempre dalla parte di Cesare: fu lui a comandare l’avanguardia cesariana che avanzò velocemente verso l’Italia. Lo stesso Cesare gli affidò il compito di governare l’Italia durante la sua breve campagna spagnola, compito che Antonio svolse con clemenza e intelligenza, lasciandosi tuttavia corrompere dalla sua deprecabile dissolutezza. Nella successiva campagna balcanica, iniziata nell’inverno del 48 a.C., Marco Antonio ricoprí un ruolo di grande rilievo: dopo l’audace traversata di Cesare, passato con poche truppe sull’altra sponda dell’Adriatico, riuscí a forzare il poderoso blocco navale pompeiano, raggiungendo il futuro dittatore con i rinforzi a lui necessari. Nella grande battaglia di Farsalo Antonio lottò coraggiosamente e uccise Domizio Enobarbo, il luogotenente di Pompeo. A trentacinque anni Marco Antonio divenne il piú valente generale cesariano, comandante di tutta la cavalleria, ammirato dai suoi soldati e dallo stesso Cesare.
Una grave sequenza di errori Tuttavia, lasciato ancora una volta al governo dell’Italia, durante la campagna di Cesare in Oriente, Marco Antonio commise diversi errori, frutto della sua scarsa maturità politica, e si lasciò andare ancora una volta alle sue dissolutezze. Al ritorno di Cesare venne però perdonato e, nel 44 a.C., fu eletto console. A quel tempo Antonio era il piú fedele e importante confidente del grande dittatore, ma aveva problemi quando doveva decidere da
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solo. Di lui si dice che abbia incoraggiato le tendenze monarchiche di Cesare. All’indomani delle idi di Marzo, Antonio manifestò grande energia e capacità politica: riuscí ad agitare il popolo contro i congiurati e ad allontanarli dall’Urbe, evitando una nuova guerra civile; ma poi rivendicò apertamente tutto il potere. Questa sua richiesta gli procurò l’ostilità del senato e l’inimicizia di tutti gli altri pretendenti; tra questi vi erano alcuni generali e politici e anche il giovane Ottaviano, figlio adottivo di Cesare. Marco Antonio cercò di imporsi con un esercito personale, ma fu vinto a Modena nel 43 a.C. e costretto alla fuga. In Gallia – dove poteva contare sull’alleanza con il governatore Lepido – aveva ancora un esercito fedele. Nel frattempo, Ottaviano, a capo di un altro esercito personale, cercava di imporsi, senza successo, al senato. Nella prospettiva di una pacifica composizione dei contrasti e delle ambizioni personali, Antonio, Ottaviano e Lepido unirono le proprie forze e, nell’ottobre del 43 a.C., diedero vita al secondo triumvirato: una vera giunta militare, che si impadroní con la forza del potere e lo esercitò non senza violenze e proscrizioni.
Lo scontro decisivo Gli ultimi repubblicani, comandati da Bruto e Cassio, furono vinti nel 42 a.C. nella grande battaglia di Filippi, in Macedonia. L’esercito dei triumviri annoverava 8 legioni ed era comandato da Antonio e Ottaviano; in realtà, era il primo che dirigeva tutte le operazioni militari. A Filippi Marco Antonio affrontò l’esercito repubblicano, piú numeroso del suo. Con i suoi uomini occupò le posizioni contro Cassio, mentre Ottaviano si opponeva a Bruto. Quando Bruto attaccò, Ottaviano non riuscí a reggere lo scontro e perse anche il proprio accampamento. Nel contempo, Cassio attaccò Antonio, ma fu rapidamente vinto. Marco Antonio sfondò il centro dell’esercito nemico, distruggendone anche l’accampamento. Le truppe di Cassio furono spinte nella vicina palude e nonostante l’aiuto di Bruto, lo stesso Cassio non seppe fronteggiare la situazione e,
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vedendosi perduto, si suicidò. Antonio riuscí a respingere l’esercito di Bruto e a rioccupare l’accampamento perso da Ottaviano. Toccato dalla morte del suo compagno, Bruto reagí con crudeltà, uccidendo i prigionieri, e poi si rifugiò nel suo campo fortificato. Nei giorni seguenti la situazione dei triumviri sembrò peggiorare, perchè le loro truppe erano prive di rifornimenti alimentari. Marco Antonio già pensava di ritirarsi, quando Bruto attaccò in forze. Era ciò che Antonio desiderava: dare battaglia al piú presto e in modo risolutivo. L’inesperto Ottaviano fu battuto di nuovo, ma Antonio, dopo aver sfondato le linee nemiche, penetrò con alcune legioni nello schieramento avversario, sino a prendere alle spalle l’esercito di Bruto, che reagí in modo disastroso, fino a disgregarsi. Lo stesso Bruto si suicidò, con la maggioranza dei suoi ufficiali. Tra la sorpresa generale, mentre Ottaviano massacrava i vinti, Marco Antonio tenne un comportamento nobile e generoso, accrescendo la propria popolarità. La vittoria di Filippi segnò il culmine della sua maestria militare e della sua gloria politica. Confermatosi grande generale, Marco Antonio si dimostrò ancora una volta un politico debole: partí per l’Oriente, cercando di ripristinare il controllo romano, ma cadde sotto l’influenza della bella e intelligente regina egiziana Cleopatra VII. Il potere, l’immensa ricchezza disponibile e la mancanza di ogni freno, contribuirono a fiaccare ulteriormente il debole carattere del Romano. Mentre Ottaviano sottometteva l’Occidente e guadagnava gradualmente il consenso della società romana, Marco Antonio si abbandonava agli agi accanto a una regina straniera: dimentico non solo della politica, ma anche del suo esercito, regnò sull’Oriente come un faraone. Peraltro, Antonio perse le campagne contro i Parti e finí con lo scontentare anche gli alleati, anteponendo a tutto gli interessi politici dell’Egitto. I suoi piú validi collaboratori furono allontanati dalla stessa Cleopatra, che cercava di averne l’esclusivo controllo. Tuttavia, Marco Antonio godeva ancora di molte
Frammento di un bassorilievo raffigurante la regina Cleopatra. I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Definitivamente sconfitti da Ottaviano nella battaglia di Azio, del 31 a.C., Antonio e Cleopatra morirono suicidi l’anno successivo.
simpatie popolari a Roma. Inoltre, gli rimaneva fedele un grande esercito, forte ed esperto. Malgrado le battaglie propagandistiche e politiche perdute, egli era ancora il piú potente e ricco capo politico dell’Urbe.
Una nuova guerra civile Cosí, quando il lungo e difficile rapporto con Ottaviano entrò in crisi scatenando una nuova guerra civile, le sue forze – sostenute anche dall’esercito egiziano – sopravanzavano tutte quelle che il futuro Augusto poteva opporgli.
I due avversari si scontrarono per la battaglia decisiva ad Azio, sulle sponde dell’Epiro, il 2 settembre del 31 a.C. Marco Antonio fece di tutto per vanificare il suo vantaggio iniziale. Innanzitutto evitando la battaglia sulla terraferma, dove godeva di notevole superiorità; per assecondare le pretese di Cleopatra, preferí infatti attaccare sul mare con la flotta. Ma le sue navi, pesanti e lente, erano molto vulnerabili rispetto all’agile flotta di Ottaviano, diretta dal capace e abile Marco Agrippa. Infine, durante la battaglia, Cleopatra non resse alla tensione emotiva della situazione e, in preda allo scoramento, invece di dirigere l’esercito, fuggí con le sue navi. Anche Antonio fuggí, abbandonando i suoi soldati nel momento piú critico. Questo inaspettato comportamento decise la battaglia e il destino della romanità. La flotta di Marco Antonio fu distrutta, e abbandonato dal suo comandante, anche il suo potente esercito terrestre capitolò nel giro di una settimana. Antonio e Cleopatra tentarono un’ultima resistenza in Egitto, ma ormai tutti li avevano abbandonati, e, alla fine, i due ambiziosi amanti si suicidarono. Cosí Ottaviano, nel 30 a.C., poté occupare l’Egitto quasi senza incontrare resistenza. Era ormai l’unico padrone di Roma e, come tale, avrebbe potuto riformare lo Stato, al culmine di una profonda crisi. Sebbene si trattasse di un generale molto capace e di un uomo di Stato con qualità incontestabili, Antonio aveva fallito: aveva concepito la folle ambizione di imitare il destino di Cesare, ma non disponeva del suo genio. Furono soprattutto le sue debolezze personali a determinarne la rovina: l’incapacità di misurarsi con politici di lunga esperienza, la crudeltà, la mancanza di tenacia e di lungimiranza e l’inclinazione al lusso e alla dissolutezza. Questi limiti e difetti furono esaltati in lui da Cleopatra, desiderosa di poterlo dominare; fu lei, infatti, a indurlo ad adottare un modello di vita ormai fuori dal tempo: quello del faraonedio, dedito agli eccessi e allo spreco irresponsabile. L’amore di Antonio per la regina egiziana fu la causa della sua rovina.
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L’IMPERO ROMANO DA AUGUSTO A TRAIANO | IMPERIUM | 50 |
L’impero romano da Augusto a Traiano (30 a.C.-117 d.C.) I territori di Roma alla vigilia della battaglia di Azio (31 a.C.)
Conquiste e annessioni di Ottaviano Augusto (27 a.C.-14 d.C.) degli imperatori giulio-claudi (14-68 d.C.) degli imperatori flavi (69-96 d.C.) di Traiano (98-117 d.C.) Massima estensione dell’impero nel 117 d.C. Asia
Province senatorie
T h ra c i a
Province imperiali Battaglie di Ottaviano per la supremazia interna Altre battaglie di espansione e consolidamento dei confini
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VITE AL COMANDO
TRAIANO
L’«OTTIMO PRINCIPE»
F
ra i protagonisti della storia di Roma, l’imperatore Traiano è uno di quelli che piú hanno colpito l’immaginario collettivo per gli importanti successi militari conseguiti, che gli sono valsi l’epiteto di «Ottimo Principe», e per il generale consenso dei contemporanei. Negli anni giovanili e della formazione, e durante il servizio militare, nulla faceva presagire la grande gloria che avrebbe avuto come conquistatore, poiché Traiano non aveva certo avuto una carriera particolarmente brillante, soprattutto se comparata a quella dei grandi protagonisti della storia passata. La svolta si ebbe nell’89, quando a Magonza, come comandante della legione VII Gemina, Traiano riuscí a domare la rivolta di Antonio Saturnino, governatore della provincia della Germania Superiore. In segno di riconoscenza per la fedeltà dimostrata, l’imperatore Domiziano offrí il proprio sostegno a Traiano, che nel 91 divenne console.
Al potere in un momento delicato Il 28 gennaio del 98, mentre era a Colonia come governatore della Germania Superiore, Traiano venne raggiunto dalla notizia della morte dell’imperatore Marco Cocceio Nerva, il vecchio senatore, succeduto due anni prima a Domiziano, che lo aveva adottato, scegliendolo come suo successore: la sua carriera subiva cosí un’improvvisa accelerazione. Il nuovo imperatore si rendeva conto del delicato momento che Roma stava vivendo, scossa da avvenimenti che, nel giro di pochi anni, avevano creato non poche difficoltà all’impero: la fine della dinastia flavia, con l’uccisione di
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Domiziano; la nuova centralità assunta dal senato, con l’elezione di Nerva; e ora con lui si apriva una nuova fase. Prima di allora nessun uomo venuto dalle province si sarebbe potuto aspettare di guidare e decidere le sorti di Roma. Fu l’inizio del principato adottivo: in nome della «ragion di Stato», si concluse l’era delle dinastie e si aprí quella delle virtú, dei meriti e delle capacità: non furono piú i vincoli di sangue a determinare a chi spettasse il compito di tenere le redini dell’impero; la successione, d’ora in poi, ricadde sul migliore: l’Optimus. Divenuto imperatore all’età di quarantacinque anni, Marco Ulpio Traiano era nativo della regione ispanica della Baetica, ma proveniva, in realtà, da un’antica famiglia di coloni di origine italica. Il padre era riuscito a fare carriera sotto i Flavi e, nel 79-80, era arrivato a rivestire il proconsolato dell’Asia. E proprio alle dipendenze del padre, svolgendo il ruolo di tribuno militare, ebbe inizio la lunga esperienza, dai diciassette ai ventisette anni d’età, che spianò a Traiano la strada verso i suoi successi. Questa prolungata militanza tra le truppe fu particolarmente preziosa, visto che gli insegnamenti che ne trasse consentirono a Traiano di accumulare una grande esperienza militare e di acquisire piena conoscenza delle questioni belliche. È noto, infatti, che egli amava definirsi innanzitutto un vir militaris, un «uomo esperto della vita militare»; una consapevolezza che gli permise di ottenere una grande popolarità tra i soldati, che lo identificavano e lo sentivano come uno di loro e non solo come il loro comandante.
Come vir militaris, all’indomani della morte di Nerva, il nuovo imperatore, anziché rientrare a Roma, preferí rimanere sul Reno finché non fosse stato certo di aver esaurito il proprio compito di consolidare la frontiera, evitando cosí futuri rischi e pericoli per l’impero. Cosí, per quasi due anni, sino all’ottobre del 99, Traiano rimase presso gli eserciti di stanza nelle province renane e danubiane per porre ordine ai problemi che erano sorti lungo quel limes.
Statua in marmo dell’imperatore Traiano. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
Una questione indifferibile Tra le questioni piú urgenti da affrontare vi era anche la rinnovata preoccupazione causata dai Daci, capeggiati da Decebalo. Il re dei Daci, infatti, non aveva rispettato in alcun modo le clausole del trattato di pace con Domiziano: non solo non aveva restituito tutti i prigionieri, né le spoglie di guerra, ma stava utilizzando i sussidi economici e l’aiuto tecnico romano sia per rafforzare l’esercito, fabbricando nuove armi e perfezionando gli addestramenti, sia per presidiare meglio la Dacia, costruendo nuove fortezze e garantendo cosí una difesa piú efficace del territorio. In sostanza, la Dacia non solo godeva di una condizione e di un potere molto piú grandi di qualunque regno alleato, ma, addirittura, stava assumendo sempre di piú la fisionomia di un potenziale nemico per l’impero romano, poiché tutti i segnali che da lí provenivano, a partire dalle alleanze che Decebalo stava stringendo, preannunciavano la volontà di questi di prepararsi gradualmente a muovere guerra contro Roma. Ma era davvero questa l’unica motivazione che spingeva Traiano a far guerra al re dei Daci? Vi erano, in realtà, varie ragioni, sia di carattere, si potrebbe dire, personale, legate alla legittimazione della propria autorità imperiale, sia di ordine militare, strategico, politico ed economico. L’impresa dacica costituiva insomma per Traiano una ghiotta occasione per affermare la miglior forma possibile di legittimazione di potere per un imperatore, cioè quella che veniva attraverso il
Nella pagina accanto aureo di Traiano coniato nella zecca di Roma, nel 111 d.C. Al dritto, l’imperatore distribuisce viveri ai bambini. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Nel 103 d.C. l'imperatore creò l’institutio alimentaria, un sistema di assistenza per gli orfani e gli indigenti.
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successo delle armi, a maggior ragione là dove Domiziano aveva fallito. Il ricordo del trattato disonorevole con Decebalo era ancora ben vivo nei Romani: quella «pace comperata» aveva rappresentato una profonda ferita per il loro orgoglio e aveva intaccato l’immagine della grandezza di Roma.
Un impero mai cosí vasto La politica del nuovo imperatore fu pertanto quella di un deciso ampliamento territoriale. Traiano voleva emulare l’esempio di Alessandro Magno, del cui impero riconosceva Roma come erede diretta, e se alcuni dei risultati raggiunti si dimostrarono alla fine effimeri, altri furono duraturi e destinati a ripercuotersi sulla Traiano e il generale Sura. Calco in gesso di un particolare dei bassorilievi scolpiti sulla colonna Traiana, eretta a Roma nel 113 d.C. per celebrare le vittorie di Traiano sui Daci. Roma, Museo della Civiltà Romana. Il fregio si estende per 200 m circa, presentando piú di 2500 figure a rilievo continuo. Il racconto degli avvenimenti segue abbastanza coerentemente il susseguirsi degli eventi bellici, pur se esemplificati in una serie definita di episodi ricorrenti, quali costruzioni di accampamenti, discorsi all’esercito, sottomissioni di capi barbari. La figura di Traiano appare circa sessanta volte.
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storia delle nazioni europee. Le guerre espansionistiche di Traiano furono non solo dovute alla fame di gloria che egli voleva dare al suo principato, ma anche all’urgente bisogno di manodopera servile che ormai scarseggiava nell’impero, nonché alla necessità di incamerare nuovi territori per la popolazione italica impoverita e nuovi introiti, destinati a fronteggiare l’incipiente crisi economica. Le campagne daciche, condotte tra il 101 e il 106, miravano quindi principalmente al controllo delle miniere della Transilvania, che i Romani sapevano ricche d’oro. Dopo grandi preparativi e notevoli sforzi militari, il successo fu totale e, nel 106, la Dacia diventò provincia romana. L’Arabia Petrea, che controllava le vie carovaniere verso il Golfo Persico e il traffico commerciale con l’Oriente, venne annessa in maniera sostanzialmente pacifica nel periodo delle ultime guerre daciche. Approfittando di contese dinastiche scatenatesi all’interno del loro impero, Traiano poi condusse contro i Parti, tra il 114 e il 117, seguendo l’esempio di Alessandro, una grande guerra articolata in quattro diverse spedizioni. Essa portò all’annessione dell’Armenia, della Mesopotamia e, a est del fiume Tigri, dell’Assiria. Traiano vagheggiava di avanzare sino all’India, sulle orme di Alessandro Magno, quando una serie di rivolte antiromane dilagò tra le popolazioni orientali da poco sottomesse e tra le comunità giudaiche della diaspora orientale. L’imperatore dovette affrettarsi a tornare verso Occidente, ma nel 117 si ammalò e morí in Cilicia. Con Traiano il dominio romano aveva raggiunto la sua massima estensione territoriale, portando le legioni romane in Arabia, Armenia e Mesopotamia. Ma la fama dell’imperatore, accanto alle virtú militari e civili e alla giustizia e tolleranza da lui praticate, è legata anche alle sue realizzazioni edilizie. A seguito delle guerre daciche e dell’ingente bottino raccolto, Traiano risanò le finanze dell’erario imperiale. Risorse rilevanti vennero destinate alla costruzione a Roma di un ulteriore foro monumentale, dovuto al genio del grande architetto Apollodoro di Damasco.
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Roma. I Mercati di Traiano, un complesso di edifici situato tra il Foro di Traiano e il colle Quirinale, progettato da Apollodoro di Damasco nel corso del II sec. d.C. La facciata è costituita da un emiciclo a due piani, realizzato in mattoni e dominato dalla Torre delle Milizie, di epoca medievale.
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VITE AL COMANDO
AURELIANO
IL SALVATORE DELL’IMPERO
L
ucio Domizio Aureliano fu imperatore per soli sei anni (270-275), ma pur in cosí breve tempo riuscí a restaurare l’impero, ormai sull’orlo di una profonda crisi. Ciò si spiega, almeno parzialmente, con le sue grandi qualità: carattere forte, integrità fisica e morale, capacità militari eccezionali e amore per la giustizia. Tuttavia, nel tentativo di imporre l’ordine e il rispetto per le leggi, applicò metodi addirittura brutali, tanto da
essere apprezzato in ultimo come un imperatore «piú necessario che buono». Aureliano era nato in un’umile famiglia della Mesia, in un villaggio vicino alla città di Sirmio, nella Pannonia, l’odierna Sremska Mitrovica, nei pressi di Belgrado (Serbia). Sano, vigoroso e intelligente, entrò nell’esercito e divenne un eccellente soldato. Nel 242 era tribuno, già noto per i suoi successi militari contro i Franchi e i barbari danubiani, ma anche per la sua severità contro ogni abuso o atto di indisciplina. La sua ascesa fu rapida e divenne presto generale, molto apprezzato dall’imperatore Valeriano; non altrettanto però dal suo successore, il figlio Gallieno. Aureliano si batté sempre con coraggio, alla guida di una unità di cavalleria la cui forza divenne quasi leggendaria. Sino al 268 ottenne significativi successi contro i vari usurpatori. Nello stesso anno sembra fosse implicato nella congiura che sfociò nell’assassinio dell’imperatore Gallieno.
Il terrore dei Goti
Busto in bronzo dell’imperatore Lucio Domizio Aureliano. III sec. d.C. Brescia, Museo di Santa Giulia.
In seguito, Aureliano si dimostrò valente e fedele sostenitore del nuovo imperatore Claudio II Gotico (268-270). In qualità di comandante di tutta la cavalleria, divenne il piú importante capo militare dopo l’imperatore. In tale veste, contribuí in larga misura alle vittorie imperiali contro gli usurpatori e specialmente contro le invasioni dei Goti. Dopo la schiacciante vittoria di Claudio II contro i Goti nella battaglia di Naissus, nel 269, fu proprio Aureliano a inseguirli dovunque, cacciarli e annientarli. Ma la peste dell’anno 269 causò molte perdite e, tra le tante, nel 270, anche quella dello stesso imperatore vittorioso. L’esercito, allora, elesse imperatore proprio Aureliano, il quale si adoperò fin dall’inizio per salvare l’impero, gravemente minacciato. Il regno di Aureliano apportò non pochi cambiamenti importanti: un’ampia riforma monetaria, l’accentuazione dell’autocrazia
imperiale, il culto ufficiale del dio Sole come divinità suprema e misure severe per imporre la legalità. Nondimeno, egli rimane nella storia soprattutto come grande comandante militare, piú volte vincitore dei barbari, come gli Iutungi, i Vandali, i Sarmati, i Carpi e i Goti. Tra l’altro, l’imperatore ottenne la capitolazione e la reintegrazione della Gallia, ribellatasi tra il 260 e il 274. Fu proprio lui a dare il via alla costruzione di una nuova cinta muraria, eretta a difesa di Roma, le cosiddette Mura Aureliane, ancora oggi visibili per lunghi tratti. Tuttavia, egli fu costretto ad accettare anche alcuni sacrifici: per meglio difendere i troppo minacciati confini danubiani abbandonò la Dacia transdanubiana, limitandosi al controllo della Dacia a sud del Danubio. Il suo regno è senza dubbio uno dei piú gloriosi della storia di Roma. La piú importante guerra di Aureliano fu quella contro Palmira, città orientale, antica alleata dei Romani, che dominava il commercio tra l’impero romano e l’Oriente; diventata perciò ricchissima, disponeva di importanti forze militari. Il re Settimio Odenato era intervenuto con successo contro i Persiani, nella guerra del 260, allorché, dopo aver contribuito alla difesa delle province orientali, ne ottenne il controllo,
con il titolo di corrector totius Orientis, conferitogli da Gallieno. Ma, dopo la sua morte, la moglie, la regina Zenobia, occupò l’Egitto e quasi tutta l’Asia Minore, assumendo su di sé, nel 271, il titolo imperiale. Palmira dunque non era piú alleata di Roma, ma cercava di costituire un regno autonomo. La situazione era gravissima, perché comprometteva l’approvvigionamento di Roma, a cui erano necessari i cereali provenienti dall’Egitto. Aureliano non poté piú evitare lo scontro e agí con energia e competenza.
Nessuna pietà per i vinti Un potente corpo militare, diretto dal generale Probo, marciò verso l’Egitto e lo occupò rapidamente. Nel frattempo, Aureliano si dirigeva in Asia Minore con circa 35 000 soldati; Zenobia gli oppose piú di 70 000 combattenti. Se l’esercito di Palmira era piú numeroso, i Romani disponevano però di maggiore esperienza e coesione. Il nemico inizialmente si ritirò; l’esercito imperiale arrivò quindi a Tyana. Di fronte alla tenace resistenza della città, l’imperatore promise una drastica punizione: «Non sarà risparmiato nemmeno un cane». E infatti, quando la città fu conquistata, non vi fu
Roma. Un tratto delle Mura Aureliane, realizzate dall’imperatore tra il 271 e il 275 d.C. per difendere la città dalle incursioni dei barbari. Alte circa 6 m e lunghe 19 km, erano intervallate ogni 30 m da una torretta sopraelevata a pianta quadrata e da 14 porte principali, inquadrate da torri semicircolari; posterulae (porte minori) si aprivano nel tratto di muro compreso tra due torri. La cinta fu restaurata al tempo di Massenzio (306-312), con Onorio e Arcadio tra il 401-402, e nel corso del VI sec.
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Rilievo raffigurante la dea Ishtar con le sembianze della regina Zenobia e Tiche come la sua ancella, da Palmira. Damasco, Musée National de Damas. Nella pagina accanto rovine della città di Palmira, in Siria. In seguito alla ribellione della regina Zenobia che, resasi indipendente da Roma, aveva esteso il suo dominio sull’area orientale dell’impero, l’imperatore Aureliano, nel 272 d.C., attaccò il regno di Palmira. L’anno dopo la città fu saccheggiata e la sua potenza annientata.
clemenza per i vinti. Ai soldati che gli chiedevano il diritto di saccheggio, Aureliano rispose: «Ho promesso di non risparmiare nemmeno un cane; dunque, uccideteli tutti». Questo duro comportamento gli guadagnò la rapida sottomissione di tutte le altre città vicine. La prima importante battaglia si svolse nei pressi di Antiochia e fu una vittoria dei Romani. Poi, con la stessa abile tattica, l’imperatore ottenne, nell’autunno del 271, anche la resa di Emesa. I Palmireni, diretti dal generale Zabda,
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disponevano di diversi punti di forza: la superiorità numerica e una forte cavalleria corazzata, i clibanarii, insieme ai fanti arcieri. Ma Aureliano riuscí ad annientarli; benché avesse una grande esperienza al comando della cavalleria, egli comprese che il punto forte dei Romani era in questo caso la fanteria. I cavalieri romani sferrarono il primo attacco, ma furono respinti e finsero di ritirarsi; la cavalleria nemica si lanciò all’inseguimento, allontanandosi dal campo di battaglia. In questo
frangente la fanteria pesante romana colpí duramente le linee dei fanti orientali, che, rimasti soli, furono annientati. Le truppe palmirene rimaste, incapaci di opporsi, furono costrette alla ritirata.
In marcia verso Palmira Prima di partire verso Palmira, l’imperatore non mancò di compiere un atto di devozione verso il dio Sole, culto originario di Emessa, e la città, dopo essere stata conquistata, fu trattata con clemenza; ambedue i gesti gli apportarono molte simpatie e sottomissioni volontarie. Quindi, l’esercito di Aureliano attraversò il deserto siriano, non senza difficoltà, e, finalmente, arrivò a Palmira. La città disponeva di una cinta muraria lunga 12 km, di un esercito forte e di provviste abbondanti. Alla richiesta di sottomissione, la regina Zenobia rispose con coraggio e arroganza, poiché sperava nell’aiuto dei Persiani e delle tribú nomadi del deserto. Aureliano non rinunciò al confronto militare e Palmira fu cinta d’assedio. Nel frattempo, i distaccamenti persiani arrivati in soccorso furono facilmente sconfitti, mentre le tribú nomadi vicine furono ammansite dall’imperatore con regali e denaro. Sempre piú isolata e ridotta alla fame, Zenobia cercò di fuggire verso l’Eufrate, ma la cavalleria romana la inseguí e la catturò, con tutta la corte. Poco piú tardi, nella primavera del 272, Palmira si arrese. La vittoria di Roma fu grande.
L’Oriente tornò sotto la dominazione romana. Aureliano risparmiò Palmira e vi lasciò una guarnigione; quindi, entrò a Roma. Ma, nello stesso anno, una rivolta popolare scoppiò a Palmira, unitamente a una ribellione in Egitto. L’imperatore dovette condurre un’altra campagna orientale, ma questa volta i ribelli furono trattati con la massima severità. Nel 273 l’Egitto fu riconquistato, un quartiere di Alessandria venne saccheggiato e la cinta muraria della città fu demolita. La stessa Palmira fu presa con la forza e questa volta distrutta. L’orgogliosa città del deserto orientale, che aveva cercato di sfidare Roma, non fu mai piú ricostruita. Questi eventi bellici avevano dimostrato le capacità strategiche di Aureliano. Dopo queste vittorie e la sottomissione della Gallia, l’imperatore riportò ordine nell’impero e ne ristabilí i confini; di qui la giustificazione del suo titolo di restitutor orbis. Nel 275 fu assassinato da alcuni congiurati, ma i suoi successi – anche quelli militari – furono duraturi.
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AVVERSARI
IRRIDUCIBILI IN MILLE ANNI DI STORIA, ROMA COMBATTÉ UN NUMERO INCALCOLABILE DI GUERRE. E IN MOLTI FURONO ANCHE COLORO CHE, SPESSO CON FIEREZZA, TENTARONO DI RESISTERLE
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Nella pagina accanto particolare del dipinto con la resa di Vercingetorige di fronte a Cesare (vedi a p. 76). In alto busto di Pirro, re dell’Epiro (vedi a p. 64). A sinistra ritratto di Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (vedi a p. 70).
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AVVERSARI IRRIDUCIBILI
I NEMICI DELL’IMPERO
PIRRO
VITTORIOSO SENZA GLORIA | IMPERIUM | 64 |
Busto di Pirro, re dell’Epiro, con elmo ornato da una corona di quercia. Replica in gesso di una statua romana del I sec. d.C., proveniente dal peristilio della Villa dei Papiri di Ercolano, copia di un originale greco dei primi decenni del III sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
A
gl’inizi del III secolo a.C. Roma cominciava a sottomettere le popolazioni italiche nell’Italia meridionale, dove erano state fondate anche numerose colonie greche, cosí numerose da giustificare il nome di Magna Grecia per quei territori. La piú potente e ricca era Taranto, che, entrata in contrasto con Roma nel 282 a.C., chiamò in suo aiuto Pirro, re dell’Epiro, uno Stato ellenizzato sulla sponda orientale dell’Adriatico, al di là del Canale d’Otranto. Discendente da un’antica dinastia epirota, Pirro aveva vissuto una giovinezza tumultuosa: cacciato dalla sua terra, invasa dai Macedoni, fu educato nella vicina Illiria e poi alla corte dei Tolomei, ad Alessandria. Sin da giovane mostrò grandi capacità militari e diplomatiche, ma la sua ambizione era quella di essere innanzitutto un guerriero valoroso. Nel 297 a.C., all’età di 22 anni, Pirro ottenne il trono dell’Epiro, partecipando successivamente a moltissimi conflitti militari e politici nel mondo greco, nella speranza di allargare il suo regno. Era convinto che le sue qualità gli avrebbero permesso di creare un impero universale simile a quello di Alessandro Magno. Tuttavia, questo instancabile condottiero mancava di realismo politico e – sebbene fosse un gran combattente – non aveva la costanza necessaria per condurre un piano di lunga portata; e gli storici antichi, infatti, hanno sempre sottolineato la permanente predilezione di Pirro per nuovi progetti politici, talvolta troppo ambiziosi, elaborati prima di consolidare una situazione favorevole ottenuta. La richiesta dei Tarentini suscitò in Pirro la speranza di costituire un grande Stato nell’Occidente, prima in Italia meridionale e Sicilia, e poi anche oltre. Peraltro, difendere le città greche minacciate dal potere crescente degli Italici era stata, da sempre, la politica dei re dell’Epiro. Pirro e la sua corte erano certi del fatto che i Romani non fossero altro che uno dei tanti popoli barbari e il sovrano accettò di intervenire con entusiasmo ed eccessiva sicurezza. Nel 280 a.C., sbarcò in Italia con un esercito di 28 000 uomini: 20 000 fanti, 3000 cavalieri, arcieri e altri corpi specializzati, ai
quali si aggiungevano 20 elefanti da combattimento. Sin dall’inizio il re dovette affrontare difficoltà e disillusioni: il sostegno dei Greci, infatti, era molto inferiore rispetto alle promesse fatte. I Tarentini, inoltre, non volevano prestare gli sforzi necessari ed erano scontenti del carattere autoritario di Pirro, che cominciava a regnare sulla loro città come se si trattasse di un proprio dominio. Nel frattempo, il re stringeva alleanze con gli Italici nemici di Roma, come i Sanniti, i Lucani, i Bruzi, i Messapi e gli Apuli.
Gli elefanti per l’attacco finale Il primo scontro con Roma ebbe luogo a Eraclea, dove l’esercito romano di Publio Valerio Levino fu pesantemente sconfitto. La battaglia confermò la forza della falange ellenistica e fu un saggio del genio militare di Pirro. Il sovrano, che combatté valorosamente accanto ai suoi soldati, aveva saputo sfruttare al meglio l’efficacia delle sue truppe e soprattutto l’attacco finale degli elefanti mise in grande difficoltà i Romani, impreparati a questa insolita situazione. Le perdite umane furono consistenti su entrambi i fronti: sul campo di battaglia rimasero circa 7000 Romani e 4000 Epiroti, ma lo scontro assicurò a Pirro il controllo dell’Italia meridionale. Sulle ali della vittoria, il re puntò verso nord in direzione di Roma: il suo esercito arrivò sino a Preneste (l’odierna Palestrina), quindi a pochi chilometri dall’Urbe, ma la Campania e altre regioni resistettero, e, d’altro canto, i Romani ricostruirono rapidamente una forza militare importante. Pirro cercò pertanto di trattare una via d’uscita pacifica, ma senza alcun esito; Roma rifiutava ogni accordo, se prima il re epirota non avesse lasciato l’Italia. Nella circostanza, l’incorruttibilità degli ufficiali romani – esemplare in tal senso è la condotta del console Gaio Fabrizio Luscino – e l’intransigenza dei senatori – ben testimoniata dal vecchio censore Appio Claudio Cieco – suscitarono l’ammirazione generale e impressionarono lo stesso Pirro. L’anno successivo, in Puglia, il re si scontrò di
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nuovo con le truppe romane, guidate dai consoli Publio Decimo Mure e Publio Sulpicio Severo. Le forze dei belligeranti erano quasi uguali, con 40 000 soldati per parte, ma l’equipaggiamento e la tecnica militare dei Romani erano inferiori, come del resto la capacità strategica dei comandanti. Teatro della battaglia, che si protrasse per due giorni, fu Ascoli Satriano: i contendenti si scontrarono su un terreno ruvido e paludoso, nella Valle dell’Ofanto, sfavorevole alla falange e anche agli elefanti, tanto che nemmeno la cavalleria poteva manovrare con facilità. Pirro si rese conto delle difficoltà, e reagí organizzando la sua falange con manipoli di alleati italici, costituiti da unità piú piccole e manovrabili. Alla fine, sebbene il re epirota, che venne ferito combattendo in prima linea, godesse di una situazione vantaggiosa dal punto di vista strategico, non riuscí a sfruttarla a causa delle ingenti perdite umane, tanto che è ben nota l’espressione «vittoria di Pirro», a indicare un successo ottenuto a costi troppo elevati. L’esito dello scontro fu di fatto favorevole ai Romani, i quali mantennero le loro posizioni che poterono anche rinforzare con l’alleanza di Cartagine, che, spaventata dai disegni espansionistici del re epirota, decise di schierarsi con Roma.
Sogni di conquista Nel 278 a.C. cedendo a inviti e richieste di aiuto da parte di varie città greche della Sicilia minacciate dai Cartaginesi, sbarcò nell’isola. Il suo audace intervento salvò la minacciata Siracusa e, successivamente, con limitate forze militari, Pirro ottenne numerose vittorie e prese tutte le fortezze cartaginesi in Sicilia, con l’eccezione di Lilibeo, nella parte occidentale. Cartagine chiedeva la pace, ma Pirro voleva prendere anche l’ultima roccaforte nemica e vagheggiava nel contempo la conquista dell’Africa punica. Tali progetti, però, ottennero l’effetto di spaventare i Greci di Sicilia, già scontenti della politica assolutistica e repressiva del re, nonché dei continui sacrifici richiesti e cosí le città cominciarono a tradirlo, avviando contatti con i Cartaginesi. Lo stesso
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Pirro sentiva di non poter piú controllare l’isola e, nel 276 a.C., la abbandonò, per tornare in Italia, chiamato dagli alleati, che si sentivano minacciati dalla pressione romana. Nella Penisola, malgrado alcuni successi, Pirro si trovò in difficoltà: la sua flotta fu distrutta dai Cartaginesi a Messina; del suo tesoro non era rimasto ormai piú nulla ed egli dovette confiscare i beni dei templi greci, suscitando cosí paura e odio. In quel momento poteva contare su un esercito di 25 000 uomini, in maggioranza mercenari, ma il numero dei Romani era decisamente superiore, e Pirro cercò allora di combattere separatamente le truppe dei due consoli, tentando una sortita in territorio sannita. Dopo una marcia difficile e faticosa, il suo esercito arrivò presso Malevento, dove, nell’estate del 275 a.C., si combatté la battaglia decisiva: sebbene fosse in inferiorità numerica, il console Manio Curio Dentato attaccò l’esercito nemico; Pirro, da parte sua, respinse l’offensiva con la falange e con gli elefanti, ma fallí nell’attacco del campo romano. I Romani ferirono e spaventarono gli elefanti, i quali, a loro volta, si gettarono sulla falange, scompaginandola completamente. La controffensiva romana fu efficace e il re epirota fu costretto a ritirarsi con grandi perdite. Scoraggiato, decise di abbandonare l’Italia e si ritirò in Epiro con gli ultimi 8000 soldati. Seppur a caro prezzo, Roma aveva avuto ragione del nemico: la città dell’ultima battaglia, Malevento, venne ribattezzata Benevento e l’Italia meridionale passò integralmente sotto la dominazione romana. La guerra lasciò Pirro privo di risorse e ne ridimensionò il prestigio. Del resto, proprio la sua personalità lo aveva posto in questa difficile situazione: era stato un geniale capo militare, ma aveva mostrato scarso realismo politico. Alla fine, coinvolto in varie contese in Grecia, nel 272 a.C. fu ucciso ad Argo.
Piatto raffigurante un elefante in assetto da guerra, seguito da un elefantino, dalla tomba 233 della necropoli delle Macchie, Capena (Roma). Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Il manufatto appartiene a una serie creata, probabilmente, in occasione del trionfo, presso Malevento (oggi Benevento) del console Manio Curio Dentato sull’esercito di Pirro, nel 275 a.C.
CON LUI CARTAGINE FU L’INCUBO DEI ROMANI
N
ella storia di Roma affiorano a piú riprese anche le imprese e le gesta di numerosi capi politici e comandanti militari che sono stati fieri avversari del potere romano, ma nessuno di loro è diventato tanto noto come il generale cartaginese Annibale. Nato nel 247 a.C., Annibale apparteneva a un’illustre famiglia aristocratica di Cartagine, i Barca. Era il primo figlio del glorioso generale Amilcare, il piú valente comandante militare cartaginese durante la prima guerra punica e poi l’efficace pacificatore della città nordafricana, devastata dalla rivolta dei mercenari. I Barcidi, molto ricchi e potenti, giocavano un ruolo eminente nella vita pubblica di Cartagine: erano molto amati dal popolo, anche se le élite politiche e
sociali temevano che questa famiglia intendesse acquisire un potere personale, al di là della costituzione, e queste tensioni furono accresciute dalla carriera di Amilcare. Il governo aristocratico, infatti, lo aveva nominato comandante dell’esercito punico in Spagna, allo scopo di allontanarlo dalla scena politica, ma qui Amilcare aveva ampiamente ingrandito il dominio di Cartagine, incrementato notevolmente le entrate dello Stato e ottenuto l’alleanza di molte popolazioni iberiche. Il generale era anche convinto della necessità di scatenare una nuova guerra contro Roma, allo scopo di ripristinare il potere e la gloria di Cartagine. A questi valori educò i figli, tanto che si diceva che Annibale avesse dovuto
AVVERSARI IRRIDUCIBILI
ANNIBALE
Annibale in Italia, particolare. Affresco attribuito al pittore bolognese Jacopo Ripanda. Inizi del XVI sec. Roma, Musei Capitolini, Appartamento dei Conservatori, Sala di Annibale.
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I NEMICI DELL’IMPERO
giurare di fronte al padre di rimanere per sempre un nemico dei Romani. Dopo la morte di Amilcare e del cognato Asdrubale, nel 221 a.C., il giovane Annibale, che già godeva di una grande popolarità tra i soldati e ugualmente tra gli Iberi, fu eletto comandante dell’esercito punico di Spagna. Nel 219 a.C. pose l’assedio a Sagunto, città situata a sud dell’Ebro, fiume oltre il quale, per un patto tra Roma e Cartagine, non si doveva spingere l’espansione cartaginese, ma che era alleata dei Romani, i quali intimarono all’assediante di ritirarsi. Annibale invece portò a fondo l’assedio espugnando la città e la guerra divenne inevitabile.
Il passaggio delle Alpi Cartagine aveva accettato lo scontro militare per la popolarità di Annibale, ma non lo sosteneva adeguatamente. Il conflitto sembrava un affare privato della famiglia Barca, e il Barcide doveva pertanto gettarsi nella mischia basandosi esclusivamente sulle risorse della Spagna punica. Roma credeva di avere tutte le possibilità per vincere rapidamente e
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già preparava due eserciti per combattere il nemico in Spagna e anche in Africa. Ma il genio militare di Annibale rovesciò la situazione: con estrema audacia, il giovane generale passò con l’esercito al di là dei Pirenei, e giunse in Gallia; poi, raccogliendo nuovi alleati galli, valicò le Alpi, impresa difficilissima e incredibile per quel tempo, arrivando inaspettatamente nell’Italia Settentrionale. Questa azione, un capolavoro di organizzazione e logistica, fu tuttavia molto onerosa: Annibale perse quasi la metà dei circa 40 000 fanti, 8000 cavalieri e 37 elefanti da combattimento con cui era partito. Tali forze non erano certamente sufficienti per vincere Roma o per sottomettere l’Italia, ma il Cartaginese aveva un progetto politico molto ampio e lungimirante: intendeva sollevare gli alleati italici contro Roma e cosí – attraverso alcune vittorie militari – dissolvere il sistema politico romano in Italia. Per i Romani la sorpresa fu grande. Nell’autunno del 218 a.C. Annibale riuscí a vincere due eserciti consolari nella Gallia Cisalpina, al Ticino e poi al Trebbia. I Galli e i Liguri passarono dalla sua parte,
Ricostruzione della collina di Byrsa, dove sorse la città punica di Cartagine, e del kothon (bacino artificiale scavato nella roccia) costituito da due strutture portuali distinte, di cui una, di forma circolare, adibita alle navi da guerra. Cartagine, Museo Nazionale.
le date di un odio secolare 814 a.C. Data tradizionale della fondazione di Cartagine 600 I Focesi emigrati dall'Asia Minore fondano Marsiglia e sconfiggono i Cartaginesi in mare 540 Cartaginesi ed Etruschi vincono i Greci ad Alalía, in Corsica 509 Primo trattato commerciale tra Romani e Cartaginesi 480 I Cartaginesi vengono sconfitti a Imera da Gerone di Siracusa
405 I Siracusani riconoscono in un trattato i possedimenti punici in Sicilia 264-241 Prima guerra punica; con il trattato di pace Roma costringe Cartagine ad abbandonare la Sicilia 241 Vittoria romana alle isole Egadi 238 La Corsica e la Sardegna sono cedute dai Cartaginesi ai Romani 228 Il cartaginese Amilcare Barca inizia la conquista della Spagna
225 I Romani sconfiggono i Galli a Talamone 221 Annibale, figlio di Amilcare, succede ad Asdrubale, morto assassinato 219 Annibale espugna Sagunto: l’evento causa lo scoppio della seconda guerra punica 218-217 Annibale sconfigge i Romani presso il Ticino e al lago Trasimeno. I Romani affidano le operazioni militari al dittatore Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore
216 Annibale vince a Canne; trattati con Capua e altre città italiane 209 Publio Cornelio Scipione, detto l'Africano, occupa Cartagena 207 Asdrubale, fratello minore di Annibale, accorre in Italia in aiuto dei Cartaginesi, ma è sconfitto e ucciso nella battaglia del Metauro 202 Scipione l'Africano vince i Cartaginesi a Zama 149-146 Terza guerra punica vinta da Scipione Emiliano
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Oceano Atlantico
I NEMICI DELL’IMPERO La II guerra punica (218-202 a.C.)
Oceano Atlantico
Roma e i suoi alleati all’inizio della guerra
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rinfoltendo considerevolmente il suo esercito, La II guerra punica Cartagine e i suoi domini che poteva ormai contare su 40 000 unità. all’inizio(218-202 della guerra a.C.) Poi, nella primavera del 217 a.C., il generale Territori in rivolta Roma e i suoi alleati contro Roma all’inizio della guerra entrò in Etruria, evitando con astuzia gli eserciti e i suoi domini Territori persi daCartagine Cartagine romani. Il console Flaminio lo attaccò sulla rivadopo la guerra all’inizio della guerra Territori in rivolta del Lago Trasimeno, ma i Romani furono Territorio controllato contro Roma Annibale sbaragliati e lo stesso console perse la vita. da Territori e città sue alleate (216 persi a.C.) da Cartagine
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successi, ma senza essere riuscito a rendere risolutiva la sua azione. Nel 202 a.C. la guerra terminò in seguito alla grande vittoria romana di Zama, dove Annibale fu vinto da Publio Cornelio Scipione. Cartagine sopravvisse, ma perse ogni cosa: l’impero coloniale, la flotta, il potere militare ed economico, la politica estera indipendente e gli alleati.
Le ultime parole del generale Malgrado la guerra e l’inimicizia durevole, Annibale fu ammirato per il suo incontestabile genio anche dallo stesso Scipione e la conclusione della guerra non significò la fine della sua carriera. Tra il 200 e il 195 a.C. governò Cartagine come sufeta, cioè magistrato supremo, conservando grande popolarità tra i cittadini e la sua amministrazione portò a una rapida ripresa dello Stato e dell’economia. Ma il rifiorire di
Cartagine, seppur priva di forza militare, inquietava Roma, che per questo motivo domandò la resa di Annibale, il quale andò allora in esilio, prima a Tiro, in Fenicia, poi alla corte del re seleucide Antioco III. Il Barcide, però, non dimenticò la sua Cartagine, né l’odio verso Roma e, come consigliere di Antioco, esortò sempre il re a muovere guerra ai Romani. Il che avvenne, nel 193 a.C., ma Antioco condusse male il conflitto e, nel 190 a.C., fu sconfitto e umiliato. Poiché Roma domandò nuovamente la sua resa, Annibale andò ancora in esilio e dopo un soggiorno in Armenia, si rifugiò presso Prusia, re della Bitinia. Questi acconsentí a consegnarlo ai Romani, ma Annibale, per non cadere nelle mani del nemico, nel 183 a.C. si suicidò con il veleno. Si dice che, prima di esalare l’ultimo respiro, abbia ironicamente detto: «liberiamo finalmente i Romani dalla paura».
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MITRIDATE
UNA SPINA NEL FIANCO ORIENTALE
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ra i molti nemici di Roma il re asiatico Mitridate occupa un posto speciale: è stato forse il piú dotato capo politico del suo tempo, ma anche il piú detestabile. Nato nel 142 a.C. a Sinope, Mitridate VI Eupatore apparteneva alla famiglia regale del Ponto, uno Stato ellenistico collocato sulla sponda nord-orientale dell’Asia Minore. Nella politica e nella cultura pontica si mescolavano tradizioni persiane, barbariche e greche e anche la dinastia pretendeva di discendere dagli antichi re persiani e da alcuni monarchi ellenistici. Lo Stato poteva cosí presentarsi come ellenistico ai sudditi greci e come asiatico per le popolazioni autoctone oppure per i vicini dinasti orientali. Il regno del Ponto era retto in modo assolutistico, con metodi duri, e i rapporti tra i membri della dinastia erano sempre molto tesi. Il padre omonimo di Mitridate fu assassinato nel 120 a.C., e il potere passò nelle mani della dispotica vedova. Mitridate aveva all’epoca 12 anni e, per evitare pericoli, si allontanò dalla corte e si dedicò alla sua formazione: diventò un combattente forte e bene addestrato, ma sviluppò anche una cultura veramente enciclopedica; tra le altre cose imparò a parlare tutte le 22 lingue usate nel regno. Dotato di un’intelligenza molto vivida e di grandi capacità amministrative, diplomatiche e militari, Mitridate aveva però un’indole spietata. E, cresciuto in un contesto segnato da tensioni interne fortissime, scelse anche di addestrarsi contro alcune decine
di veleni, prendendone ogni giorno piccole dosi, fino al punto di diventarne immune. Tornato nel Ponto tra il 116 e il 113 a.C., Mitridate prese facilmente il potere, sopprimendo i possibili rivali, cioè la madre e il fratello. Governò con pugno di ferro, deciso a fare del Ponto un regno importante e capace di assumere l’egemonia sulla regione.
Le cause del primo conflitto Dopo avere occupato la Colchide, Mitridate si spostò in Crimea e ricevette la sottomissione delle città greche e del regno del Bosforo, minacciati dagli Sciti nomadi. Poi sconfisse duramente gli Sciti e i Rossolani, che si piegarono alla supremazia del Ponto, mentre altre città greche del Mar Nero strinsero patti di alleanza con lui, come del resto alcune tribú barbariche. Mitridate tuttavia intendeva soprattutto estendere i suoi domini nella ricca Asia Minore, in quel momento divisa in piccoli regni e con la parte occidentale ormai divenuta provincia romana. Molti Stati erano già alleati della repubblica romana e il Ponto entrò successivamente in conflitto con il regno di Bitinia, il cui re, Nicomede IV, poteva contare sul sostegno di Roma. Dopo essersi divisi i territori della Paflagonia e della Galazia, i due sovrani si contesero la Cappadocia: Mitridate vinse alcune battaglie e cercò anche di assassinare il re Nicomede. A quel punto, per aiutare il suo alleato, Roma mandò un esercito, dando cosí inizio nell’89
a.C. alla prima guerra mitridatica. Per Roma, tormentata dalla guerra sociale che si combatteva nella stessa Italia, il momento non era favorevole e l’esercito inviato in soccorso del re di Bitinia era debole: Mitridate approfittò della situazione e attaccò in modo fulmineo, ottenendo un grande successo. Riuscí a occupare l’intera provincia d’Asia e le sue numerosissime truppe giunsero in Grecia. Al suo passaggio il sovrano incontrava le simpatie delle popolazioni locali, esasperate dagli abusi dell’amministrazione romana, e seppe trasformare questo malcontento in uno strumento politico, accreditandosi come un grande liberatore. Nell’88 a.C., sull’onda di un sentimento antiromano ormai sempre piú forte, sterminò 80 000 persone, tra Romani e Italici, certo che un’azione del genere avrebbe legato per sempre le popolazioni locali alla sua causa. E, per accrescere la sua popolarità, adottò misure populistiche, come l’abolizione dei debiti e le confische delle proprietà, sconvolgendo cosí i fondamenti della società. Ma tali provvedimenti, insieme con la sua crudeltà e gli abusi commessi, gli alienarono rapidamente le simpatie di larghi ceti popolari e specialmente delle élite greche.
Una vittoria non risolutiva La risposta romana non si fece attendere: dopo avere preso il potere per gli ottimati, il console Lucio Cornelio Silla diede il via alla campagna militare contro Mitridate. Tra l’88 e l’84 a.C. l’esercito romano vinse tutti i generali del sovrano pontico, malgrado la sua inferiorità numerica. Dapprima fu riconquistata la Grecia, dove Silla attuò repressioni sanguinarie; poi furono riprese le isole e i Romani sbarcarono anche nell’Asia. Nel frattempo, molte città cominciarono a ribellarsi contro il re del Ponto e il partito filoromano guadagnava consensi sempre piú larghi. Anche la flotta di Mitridate fu sconfitta e affondata, ma Silla non eliminò definitivamente il re del Ponto, poiché era
preoccupato dall’insediamento di un nuovo governo popolare di Roma, contro il quale intendeva combattere. Per questo motivo, nell’85 a.C., il generale vittorioso concluse a Dardano la pace con Mitridate: il re si impegnava a rinunciare a tutte le conquiste fatte, ma preservava il suo regno e importanti risorse; il trattato non affrontava in alcun modo la questione dei crimini commessi dal sovrano, ma, del resto, non fu mai ratificato dal senato. Mitridate approfittò della guerra in Italia tra Mario e Silla (84-82 a.C.) per ripristinare la sua forza militare e quando nell’83 a.C. il
Testa in marmo di Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, raffigurato come Eracle. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto moneta di Mitridate VI.
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I NEMICI DELL’IMPERO
governatore romano d’Asia, Lucio Licinio Murena, lo attaccò, con un esercito insufficiente, fu vinto. Silla, divenuto nel frattempo dittatore, intervenne per mantenere la pace ponendo cosí fine alla seconda guerra mitridatica (83-81 a.C.). Mitridate non voleva tuttavia accantonare i suoi propositi e, dopo la morte di Silla, la crisi sempre piú grave della repubblica romana gli offrí nuove opportunità. Il sovrano mise insieme un grande esercito e trovò altri alleati: i pirati della Cilicia agivano in sintonia con lui e rappresentavano una forza navale considerevole; in Spagna il ribelle Sertorio entrò in contatto con Mitridate e fece un accordo contro Roma; inoltre, in Oriente una nuova potenza emergente – l’Armenia – stava diventando sempre piú minacciosa e il re del Ponto si alleò con il re Tigrane, che divenne anche suo genero. La coalizione antiromana era piú potente che mai, in un momento difficilissimo per la repubblica; basti pensare in tal senso alla ribellione in Spagna, ai conflitti con i barbari nei Balcani e alle tensioni nella stessa Italia, per via della rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco e, soprattutto, a causa della crisi politica.
L’Oriente sconvolto La terza guerra mitridatica scoppiò nel 73 a.C. in seguito alla morte del re bitino Nicomede, che aveva lasciato il suo regno allo Stato romano. Mitridate pretendeva questo territorio e per questo attaccò con un potente esercito, che comprendeva anche contingenti di barbari pontici e caucasici. Rispetto a quindici anni prima, però, la situazione era mutata: sebbene piú volte vittorioso, il re non riuscí ad annientare le forze romane in Asia e, del resto, né le popolazioni locali, né i Greci lo sostenevano come un tempo. Mitridate assediò senza successo la città di Cizico e anche altri centri resistettero ai suoi attacchi. Tuttavia, la guerra sconvolse gravemente tutto l’Oriente, distruggendo il fragile equilibrio di potere esistente: l’esercito pontico occupò la Cappadocia e altre regioni microasiatiche;
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l’Armenia allargò notevolmente il suo territorio e invase la Siria, caduta nel frattempo nell’anarchia; mentre al di là dell’Eufrate cresceva il potere dei Persiani. Alla fine Roma, continuamente sollecitata nei vari teatri delle operazioni belliche, arruolò un esercito potente, guidato da Lucio Licinio Lucullo, e lo mandò contro Mitridate. Il generale romano sbaragliò gli alleati del re del Ponto nei Balcani, sbarcò in Asia Minore e ottenne vittorie importantissime. Mitridate perse la flotta, circa due terzi dell’esercito e la maggior parte della penisola; ciò lo indusse a fuggire dal Ponto, senza tuttavia essere annientato. Con coraggio e abilità il re continuava a resistere e trovò rifugio in Armenia. Qui lo raggiunse anche Lucullo, il quale vinse
L’Asia Minore alla vigilia delle guerre mitridatiche (90 a.C.) Province romane Protettorati L’Asia Minore alla vigilia delleromani guerre mitridatiche (90Regno a.C.) di Mitridate VI Eupatore Province romane
Alleati di Mitridate
Protettorati romani Regno di Mitridate VI Eupatore
Regno di Cimmerian Bosforo
Alleati di Mitridate
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A destra cartina dei Sinope Iberia Paflagonia Amisus Macedonia T r a c i a territori bagnati Albania C Nicomedia a Armavira u c dalle acque del Mar Mar Nero Pon to Dioscurias Mar Epiro a s Amasia Bitinia Artaxata Nero, con il regno o Caspio Pessinus Colchide Gr a nde Galatia Sinope del Ponto nel T r a c i a Pergamo Iberia Paflagonia Amisus Mazaca Macedonia Albania momento della sua A s i a ArmaviraCappadocia Nicomedia Atropatene Atene A r menia Acaia Licaonia Epiro massima o Amasia Ponto Bitinia r u Artaxata a Pisidia espansione, sotto Pessinus Tigranocerta Grande T Galatia Pergamo Trachea ia Mitridate VI. Mazaca Lycia A s i a c Regno di Arsacids Nella pagina C ili Atropatene Atene Armenia Creta Cappadocia Acaia Licaonia ro u accanto statua di Cipro a (Impero Persiano) Siria M a Lycia rPisidia M eTrachea d i t eT r r a n e oTigranocerta Eu Lucio Cornelio Silla Regno di Seleucides f r a a ci (138-78 a.C.). Regno di Arsacids te C ili Creta I sec. a.C. Parigi, Cipro (Impero Persiano) R e gS i r i a M a r del MLouvre. e d i t e r r a nCirenaica eo Museo E Regno n odi Seleucides E g i t t o ufrat ’ d Il generale romano e vinse a Cheronea Cirenaica e Orcomeno, in R e g n o d ’ E g i t t oe riuscí a occupare la capitale, isolato. L’esercito romano avanzò nel regno Beozia, l’esercito molte battaglie pontico, conquistandolo gradualmente. di Mitridate VI ma il suo esercito si rifiutò di continuare la lotta Eupatore, e, a causa della rivolta dei suoi soldati, i risultati Sebbene piú volte sconfitto, Mitridate non costringendolo, della campagna furono vanificati in un attimo. abbandonò la lotta e si ritirò nella Colchide. nell’85 a.C., alla Cosí, nel 68 a.C., Mitridate riuscí a recuperare il Con grandi sforzi Pompeo occupò anche pace di Dardano. Tig
ri
suo regno e continuò a battersi.
Una resistenza strenua, sino alla fine Nel frattempo Pompeo iniziava la sua ascesa politica nell’Urbe e conduceva con grande successo la guerra contro i pirati che infestavano il Mediterraneo. Nel 66 a.C. gli venne affidato anche il comando della guerra contro Mitridate, insieme con poteri illimitati per riorganizzare tutto l’Oriente. La guerra entrò cosí in un’altra fase. Pompeo dapprima riorganizzò le truppe romane e consolidò le posizioni già tenute; poi preparò diplomaticamente la guerra, stringendo un’alleanza con il nuovo regno persiano, grazie al cui appoggio l’Armenia fu isolata e sconfitta. Inoltre, proprio il figlio di Tigrane, insieme con alcuni aristocratici, tradí il sovrano, che fu perciò costretto ad accettare una pace onerosa: l’Armenia perdeva tutte le conquiste, diventava alleata di Roma e doveva cacciare Mitridate. Pompeo poteva ormai concentrarsi esclusivamente contro il re del Ponto, rimasto
questa lontana regione, ma Mitridate si ritirò in Crimea e quindi Pompeo decise di temporeggiare (64 a.C.). Privo di risorse, con il regno quasi completamente perduto, il vecchio re trovava sempre nuove forme di resistenza e pensava di colpire i Romani in Europa, servendosi dei nomadi della sponda settentrionale del Mar Nero. Ma erano solo idee, senza alcun supporto reale: anche i suoi migliori collaboratori lo abbandonarono e il figlio Farnace si ribellò contro di lui. Rifugiatosi nel palazzo reale di Panticapeo, Mitridate cercò di suicidarsi, ma il veleno non sortiva effetto sul suo corpo assuefatto; allora domandò a un soldato gallo di ucciderlo (63 a.C.). Morí cosí, solo e sconfitto, questo irriducibile nemico di Roma, che aveva creato scompiglio in Oriente per piú di quarant’anni. Pompeo lo seppellí onorevolmente nella necropoli regale del Ponto e confermò Farnace come re alleato del Bosforo. Il Ponto, insieme con altri territori, divenne provincia romana.
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AVVERSARI IRRIDUCIBILI | IMPERIUM | 76 |
VERCINGETORIGE E L’ORGOGLIO GALLICO
Vercingetorige getta le sue armi ai piedi di Cesare. Olio su tela di Lionel Noël Royer. 1899. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier.
L
a figura di Vercingetorige, il capo gallico che guidò la piú grande insurrezione delle sue genti contro i Romani, ha come tratto specifico principale non tanto l’odio contro Roma, quanto il fervido amore per la patria. Della sua vita sappiamo poco e la fonte
principale sulle sue imprese è lo stesso Giulio Cesare, conquistatore delle Gallie. Vercingetorige nacque intorno all’82 a.C. in una famiglia aristocratica degli Arverni, tribú che popolava la regione centrale e montuosa della Gallia. A quel tempo il mondo celtico dell’Europa occidentale era dilaniato dalle lotte di potere tra i vari gruppi aristocratici. Il regime politico e sociale dominante nei numerosi Stati gentilizi della Gallia, di carattere aristocratico, era sempre piú contestato dai ceti popolari, guidati da vari capi politici, che avrebbero voluto un potere esecutivo piú forte, cioè un re. Il padre di Vercingetorige, Celtillo, aveva cercato di imporsi come capo autorevole della sua tribú e anche di unificare la Gallia, ma fu ucciso dal governo aristocratico. Poco tempo dopo, gli eventi confermarono la giustezza delle idee di Celtillo, cioè la necessità, per i Galli, di unirsi, al fine di resistere di fronte alle minacce esterne. Nel 58 a.C. gli Svevi germanici cominciarono a migrare verso la Gallia, seminando il panico; gli Elvezi delle Alpi, popolo gallico, intendevano abbandonare il loro territorio e conquistarne altri nella Gallia centrale, dove la frammentazione politica e i conflitti endemici tra le tribú impedivano ogni azione coerente. In basso aureo di Cesare con trofeo di armi galliche. 50-49 a.C. Roma, Musei Capitolini.
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I NEMICI DELL’IMPERO
alesia: i giorni della fine PRIMO GIORNO
SECONDO GIORNO
Monte Rea Cavalleria dei Germani Alesia
Campo dei Galli
Monte Flavigny
Attacco dei Galli e risposta dei Romani
Attacco della cavalleria gallica
Di questa confusione approfittò il governatore romano della Gallia Narbonense, Giulio Cesare, che entrò con un potente esercito nella Gallia centrale, sconfisse gli Elvezi e li obbligò a tornare sul loro altopiano alpino, ma come sudditi di Roma. Cesare ebbe poi la meglio anche sugli Svevi invasori, guidati da Ariovisto, suscitando l’ammirazione e le simpatie dell’aristocrazia gallica. Il futuro dittatore stipulò trattati con le comunità galliche e, dopo alcuni anni di manovre, pressioni e vittorie contro varie tribú ribelli assoggettò a Roma l’intera Gallia. I Romani si installarono in quei territori come padroni e la loro presenza si fece sempre piú onerosa e ingombrante per la società autoctona.
Spettacolari spedizioni punitive Vercingetorige, ormai maturo, assisteva a tutti questi eventi e già pensava a come poter liberare la madrepatria. Fino a quel momento Roma aveva soffocato ogni tentativo di ribellione: la tribú dei Veneti venne sconfitta in una sorprendente battaglia navale, i Nervi del Nord furono sottomessi e Cesare effettuò spedizioni punitive spettacolari al di là del
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Statuetta in bronzo di guerriero gallico, da Saint-Maur (Oise). Fine del I sec. a.C. Beauvais, Musée Départemental de l’Oise.
Reno, in Germania e anche in Britannia. Quando la tribú degli Eburoni, nella Gallia orientale, si ribellò, rimase da sola (54 a.C.) e cosí fu vinta dai Romani e poi completamente annientata dagli altri Galli, alleati di Cesare. Su una parte del loro territorio furono insediati gli Ubi germanici, guerrieri valenti e fedeli al generale romano. Tuttavia Vercingetorige non aveva perso il coraggio, né la speranza, e l’esempio degli sfortunati Eburoni confermava che la prima necessità dei Galli era l’unità. Il capo arverno riuscí pertanto a coagulare intorno a sé numerosi seguaci e lanciò appelli all’unità di tutta la Gallia contro i Romani: la mossa ebbe una grande eco e numerosi capi politici delle popolazioni galliche cominciarono a prepararsi per una guerra liberatrice. Quando, però, Vercingetorige chiese agli esponenti piú importanti della sua tribú di sostenerlo, essi rifiutarono l’offerta, temendo lo strapotere dei Romani. Cacciato dagli aristocratici arverni, Vercingetorige tornò subito dopo alla testa di un esercito ribelle, conquistò il potere politico attraverso un vero e proprio «colpo di Stato» e, nel 52 a.C., si proclamò re a Gergovia, la capitale arverna. Divenne cosí l’idolo della popolazione gallica e il capo di tutto il movimento antiromano. La sua politica era audace e lungimirante: egli incoraggiava tutte le popolazioni galliche a unirsi per riconquistare la loro libertà. Quest’unione avrebbe dovuto condurre alla
NOTTE DEL SECONDO GIORNO
TERZO GIORNO Fanterie scelte Monte Rea
Monte Rea
Sortita
Campo dei Galli
Fanteria dei Galli
Alesia
Rinforzi romani
Sortite Alesia
Cesare Monte Flavigny
Campo dei Galli
Fanterie Monte Flavigny
Assalto delle fanterie galliche Fuga dei Galli
costituzione di un regno, il cui sovrano avrebbe potuto essere lo stesso Vercingetorige, ma, prima di tutto, era necessaria un’alleanza militare e diplomatica. L’Arverno diede vita
Cavalleria germanica
Monte Rea
Alesia Fuga dei Galli
Campo dei Galli
Monte Flavigny
Assalto finale dei Galli respinti e battuti dai Romani
all’unica unità gallica preromana, una vera e propria lega, nella quale fu eletto capo politico e militare dai rappresentanti delle tribú alleate. Il sodalizio, tuttavia, era fragile e si basava soprattutto sul suo prestigio e sul suo carisma, essendo Vercingetorige il solo personaggio autorevole accettato e rispettato da tutti.
Strategia vincente Ritratto in bronzo di Cesare. I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.
L’azione politica del capo gallico ebbe comunque grande successo: anche perché il momento era particolarmente favorevole: la popolazione pativa l’occupazione romana e proprio in quel momento Cesare si trovava nella Gallia Cisalpina per compiere reclutamenti. Pertanto i Galli approfittarono della situazione che si era venuta a creare e sconfissero alcune truppe romane. Ma Cesare comprese l’ampiezza del problema e giunse rapidamente con un grande esercito: a quel
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I NEMICI DELL’IMPERO
punto la guerra si diffuse in tutta la Gallia. Non potendo vincere l’esercito professionista romano, Vercingetorige adottò la tattica della «terra bruciata» per affamare e scoraggiare il nemico. La tribú dei Biturigi non volle però abbandonare e distruggere la propria capitale, Avarico, e tale decisione si rivelò un grave errore, perché Cesare conquistò la città, massacrando la popolazione e accumulando un bottino ingente. L’evento, comunque, rinforzò l’autorità di Vercingetorige, la bontà della cui strategia fu confermata a Gergovia, dove i Romani furono sconfitti.
Un’unione effimera
Elmo di cavaliere gallo, trovato con altri reperti nelle acque della Saône. Chalon-sur-Saône, Musée Denon.
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La vittoria portò alla generalizzazione delle rivolte e anche la potente tribú degli Edui, sino a quel momento fedele a Roma, si ribellò. Ma dopo tante perdite, Vercingetorige si ritirò nella città fortificata di Alesia, sperando di costringere Cesare a un assedio e aspettando nel frattempo l’aiuto delle popolazioni galliche alleate. Anche il generale romano cercava uno scontro risolutivo e, nonostante le difficoltà, assediò Alesia. Cesare eresse una linea di fortificazioni intorno alla città, ma nel contempo ne fece costruire una simile alle spalle delle sue truppe per evitare ogni possibile attacco a sorpresa. Quando il grande esercito gallico unito arrivò in prossimità di Alesia, i Romani erano ormai ben preparati e avevano inoltre chiamato rinforzi, compresi i Germani alleati. L’unione dei Galli, tanto invocata da Vercingetorige, era divenuta una realtà, ma l’abile e capace guerriero gallico non poteva comandare l’esercito unificato, dal momento che era bloccato nella città assediata e nel campo gallico non c’era nessuno in grado di sostituirlo. Malgrado il numero imponente, circa 200 000 combattenti, l’esercito gallico mancava di compattezza e di coordinamento. I Galli attaccarono il campo romano, che resistette bene, sino a quando non individuarono un punto debole, sul quale si concentrarono. Anche gli assediati concentrarono le forze
nello stesso punto. La situazione dei Romani si fece molto critica, ma l’intervento personale di Cesare, con una riserva di truppe, riportò l’equilibrio. Alla fine i Galli non riuscirono a rompere le linee romane e furono sconfitti; e quando iniziarono la disordinata ritirata furono attaccati anche dai rinforzi romani che stavano sopraggiungendo. Il contrattacco di Cesare mise i Galli nella piú totale confusione e ne seguí una strage feroce. L’unione dei Galli, raggiunta per un attimo, crollò per sempre, nel settembre del 52 a.C. Gli assediati non avevano ormai speranze e, per risparmiare la vita dei compagni, Vercingetorige si arrese. Cesare aveva bisogno di questo passo, cosí da scoraggiare definitivamente ogni eventuale tentativo di resistenza. La caduta di Vercingetorige rappresentò una vera e propria catastrofe politica per i Galli: ogni tribú si sottomise a Roma. Cesare accordò generalmente condizioni non troppo onerose, ma mantenne uno stretto controllo sulla Gallia e soffocò ogni ulteriore tentativo di ribellione. La Gallia diventava cosí una provincia romana, profondamente pacificata. Vercingetorige fu considerato un traditore dei trattati stipulati da Cesare con i Galli e per questo non gli fu accordata alcuna clemenza: rimase cinque anni prigioniero a Roma e, nel 46 a.C., fu trascinato in catene durante il trionfo di Cesare e, alla fine, ucciso.
In alto L’assedio di Alesia. Olio su tela di Henri-Paul Motte. 1886. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier. L’artista propone la sua ricostruzione delle macchine da guerra utilizzate da Cesare per il piú potente sforzo bellico delle legioni romane in Gallia. TORRE ARETARIA Modello di macchina da guerra dotata di un ariete per lo sfondamento e di un ponte mobile per la presa delle mura.
ARIETE Modello di macchina da guerra utilizzata per sfondare i muri di cinta delle città assediate.
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AVVERSARI IRRIDUCIBILI | IMPERIUM | 82 |
ARMINIO
E LA STRAGE DI TEUTOBURGO
A
rminio nacque probabilmente tra il 18 e il 17 a.C., da Segimero, capo autorevole della tribú germanica dei Cherusci, stanziata nella parte nord-orientale dei territori attraversati dal medio corso del Reno. A quell’epoca l’esistenza delle genti germaniche che vivevano tra il Reno e l’Elba fu sconvolta da Roma. L’impero, infatti, da poco instaurato da Augusto, cercava di «pacificare» la Germania, estendendo la sua dominazione a est del Reno e le campagne condotte da Tiberio e da Druso il Vecchio avevano portato alla sottomissione delle tribú locali. Sebbene le fonti scritte non forniscano ulteriori notizie, si
può sostenere che l’affermazione orgogliosa di Augusto di aver «pacificato» la Germania fosse divenuta una realtà. Negli ultimi anni del I secolo a.C. esisteva, infatti, una provincia romana di Germania tra il Reno e l’Elba, una circostanza che produsse significativi mutamenti nella società autoctona, in primo luogo tra le sue élite. Come altri capi germanici, il giovane Arminio entrò al servizio dell’impero. Aveva ricevuto un’istruzione militare romana, combatteva nell’esercito imperiale come capo di un distaccamento ausiliario di Cherusci e aveva ottenuto la cittadinanza, nonché il rango di cavaliere (eques Romanus); anche un suo fratello, detto dai Romani Flavius, cioè il «Biondo», aveva compiuto lo stesso percorso. Questi giovani aristocratici germanici sembravano dunque totalmente romanizzati, ma la realtà provò il contrario.
Gli abusi alimentano il malcontento L’impero stava preparando una grande spedizione per sottomettere anche le genti della Germania orientale e l’avversario piú pericoloso era Marobodo, re dei Germani stanziati nei territori dell’attuale Boemia. Ma il piano dei Romani fu vanificato, negli anni 6-9, dalla rivolta della Dalmazia e della Pannonia, che innescò un conflitto al quale Arminio partecipò, tra il 6 e il 7, in qualità di ufficiale romano. È probabile che in quella occasione abbia individuato le debolezze del sistema politico-militare dell’impero, che, in ogni caso, meditava di smantellare, cosí da liberare il territorio dei Germani dalla dominazione romana. Quest’ultima si era fatta particolarmente oppressiva e iniqua: il nuovo governatore della Germania, Publio Quintilio Varo, agiva senza alcuna abilità politica, scontentando le popolazioni locali e perdendo gradualmente l’appoggio delle élite germaniche. Un comportamento al quale si univano gli abusi dei suoi ufficiali, che crearono un’atmosfera molto ostile. Arminio e i suoi seguaci ebbero perciò buon gioco nel coagulare intorno a sé il malcontento popolare,
naturalmente all’insaputa dei Romani. Il progetto dei cospiratori era quello di attirare l’esercito romano in una trappola e annientarlo: si voleva in questo modo porre fine all’odiosa occupazione. Ma Arminio aveva anche un progetto politico ampio: egli intendeva divenire re della sua tribú e successivamente di tutta la Germania; era infatti consapevole del fatto che, senza unità politica, i Germani avrebbero potuto facilmente essere domati di nuovo. I Germani accettarono di costituire una lega diretta da Arminio: vi parteciparono, accanto ai Cherusci, i Marsi, i Catti, i Bructeri, i Cauci e i Sigambri. Il complotto riuscí alla perfezione: nell’autunno del 9 Arminio convinse Varo a partire con le sue truppe per domare una presunta rivolta nel nord della provincia, e senza aver alcun sospetto, il governatore si mosse sino alla riva dell’Elba con tutto l’esercito provinciale, composto da tre legioni e numerosi ausiliari, per un totale di 20 000 soldati circa. Non avendo incontrato alcuna rivolta, le truppe tornarono verso gli accampamenti invernali, senza prendere le necessarie misure di sicurezza, in una regione che credevano pacificata. Nel contempo, gli alleati autoctoni disertarono gradualmente e coloro che rimasero fornirono false
In alto maschera di ferro ricoperta d’argento, già parte di un elmo cerimoniale romano, rinvenuta nel 1990 nella località di Oberesch, presso l’altura di Kalkriese, nella foresta di Teutoburgo (Germania settentrionale). Qui l’esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo, governatore della Germania, fu sconfitto, nel 9 d.C., da una lega di tribú germaniche guidate da Arminio. Nella pagina accanto La sconfitta di Varo. Incisione ottocentesca di Johann Michael Mettenleiter (1765-1853).
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I NEMICI DELL’IMPERO
Molti Romani, disorientati dalla confusione della battaglia, fuggirono a nord, ma trovarono la morte nella vicina palude Sentiero principale
I Romani tentano un’ultima e disperata difesa, provando a trincerarsi in un campo di fortuna fatto di carriaggi Sentiero deviato dai Germani
e)
rso attual
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Canale Ren
La colonna romana, formata da 3 legioni (XVII, XVIII e XIX), 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliare (per un totale di circa 20 000 uomini), si allungava nella foresta di Teutoburgo per circa 3,5 Km
ietro il terrapien o ani d erm G 0 0 0 e n l l i a selva /7 erman 00 0G 50 700 / 0 500 7000/10 000 Germani nascosti nella selva
Terrapieno costruito dai Germani
Altura di Kalkriese
informazioni. Cosí l’esercito di Varo giunse in uno stretto passaggio tra foreste e paludi, vicino alla collina chiamata oggi Kalkriese, presso l’odierna città di Osnabrück, nella grande foresta di Teutoburgo: qui lo aspettava Arminio con tutte le forze dei ribelli, che avevano anche fortificato alcune posizioni. La sorpresa fu totale e brutale. Disorganizzato, non preparato per la lotta, l’esercito romano si batté strenuamente per circa tre giorni, ma fu completamente distrutto, e, consapevole del disastro, Varo si diede la morte. Seguí una strage terribile: i Germani torturarono e uccisero tutti i prigionieri. Le tre legioni furono annientate e le loro insegne furono prese dai barbari; i pochissimi Romani scampati al massacro portarono alle guarnigioni renane la notizia della disastrosa sconfitta.
«Varo, rendimi le mie legioni!» Roma subí a Teutoburgo una delle piú disastrose sconfitte di sempre: l’intera Germania al di là del Reno era stata perduta e i capi germanici, apparentemente fedeli, in un attimo erano diventati nemici atroci, insieme con le loro popolazioni. Il panico scatenato dalla tragica sconfitta si estese sino a Roma: le forze militari rimaste sul Reno erano insufficienti e tutti temevano un’invasione dei Germani; fu pertanto necessario trasferire nuove truppe per
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Grande Palude
difendere la frontiera, ma sembrava ormai impossibile riconquistare il territorio perduto. La tradizione sostiene che Augusto, quando venne a conoscenza della strage di Teutoburgo, abbia esclamato: «Varo, rendimi le mie legioni!». Arminio aveva solamente 25 anni ed era al culmine della gloria, ma la sua posizione si indebolí subito dopo la vittoria: infatti, la disciplina e la coesione dei Germani vittoriosi crollarono ed egli ebbe problemi per imporre la sua autorità anche sulla sua stessa tribú. Per questo motivo il progetto di un attacco in Gallia fu accantonato, malgrado la pochezza delle forze nemiche. Inoltre, alcuni capi dell’aristocrazia germanica, compreso il fratello Flavio, abbandonarono Arminio e continuarono a servire l’impero. Dal canto suo, Roma intendeva ripristinare il suo prestigio, ma ciò avvenne solo alcuni anni dopo, nel 15, quando un potente esercito, comandato da Germanico, nipote di Tiberio, il nuovo imperatore, attraversò il Reno e sconfisse la tribú dei Marsi, riuscendo poi ad arrivare proprio a Teutoburgo, dove finalmente venne data degna sepoltura alle ossa dei caduti. I Romani batterono poi gli stessi Cherusci e catturarono la moglie di Arminio, la nobile Tusnelda. Arminio, sebbene fuggiasco,
A sinistra una ricostruzione ipotetica degli avvenimenti succedutisi nel corso della battaglia di Teutoburgo. In alto punte di lancia e proiettili da fionda utilizzati dalle truppe romane, rinvenuti a Kalkriese, sul luogo della battaglia.
In basso La Battaglia della Foresta di Teutoburgo. Dipinto di Friedrich Gunkel (1819-1876). 18621864. Monaco, Maximilianeum.
continuò a comandare azioni di guerriglia comunque molto pericolose e, poiché si avvicinava l’autunno, Germanico fu costretto a rientrare negli accampamenti renani, senza essere riuscito a riprendere il controllo della regione, né a smantellare la coalizione nemica.
I Germani abbandonati al loro destino La guerra riprese nel 16: forte di 25 000 uomini circa, con il supporto di una flotta e l’aiuto di alcune tribú alleate, tra cui i Cauci, l’esercito romano devastò la Germania transrenana e attraversò il fiume Weser. Con uno stratagemma, Germanico riuscí a obbligare Arminio a una battaglia in campo aperto, a Idistaviso, tra le attuali città di Minden e Hamelin. Lo scontro si risolse in una grande vittoria dei Romani, che riuscirono a uccidere 20 000 nemici circa, e raggiunsero il cosiddetto Vallo angrivariano. Tuttavia, alla fine, Germanico dovette tornare di nuovo sul Reno, perché, malgrado gli insuccessi, Arminio riusciva ancora a opporre una certa resistenza, la regione rimaneva fuori dalla dominazione romana e le alleanze intorno al giovane capo cherusco non si erano spezzate. L’imperatore Tiberio decise allora di mettere fine a queste campagne, assai onerose per le
casse dell’erario. Il prestigio di Roma era comunque salvo e il territorio dei Germani sembrava troppo povero per sostenere un esercito romano e nel contempo troppo ostile per essere pacificato facilmente. La mossa dell’imperatore si rivelò assai accorta: privi di una grande minaccia comune, i capi germanici abbandonarono la lega, ridando vita ai loro conflitti permanenti e alle loro rivalità. Questa nuova realtà significava il totale fallimento del progetto politico di Arminio. Egli rimase a capo della sua tribú, ma la grande alleanza tra i Germani era ormai finita. Dopo varie vicissitudini, cercò di affermare il suo potere con una guerra contro Marobodo, ma, malgrado le vittorie e la fuga del nemico nell’impero, non riuscí a conquistare la regione corrispondente all’odierna Boemia. Il capo cherusco era indebolito politicamente, aveva numerosi avversari tra i principi germani e non rappresentava piú una vera minaccia per i Romani, tanto che, lo stesso Tiberio respinse anche la proposta di un nobile catto di avvelenarlo, sostenendo che l’impero non faceva uso di tali metodi disonorevoli. Entrato in contrasto con alcuni nobili della suà tribú, Arminio fu da questi ucciso, nel 21, e con lui tramontò ogni tentativo di unire i Germani.
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Roma, Catacombe di S. Domitilla. Cristo tra gli Apostoli, affresco. IV sec. Sorto lungo l’antica via Ardeatina, il cimitero di Domitilla accolse le sepolture dei martiri Nereo e Achilleo, vittime probabilmente della persecuzione di Diocleziano del 304 d.C.
DALL’AQUILA ALLA CROCE
IN UN PRIMO MOMENTO IL CRISTIANESIMO VENNE PERCEPITO COME UNA MINACCIA. IN SEGUITO, PERÒ, DI FRONTE ALLA SUA ESPANSIONE INARRESTABILE, ROMA COMPRESE CHE LA RISPOSTA MIGLIORE SAREBBE STATA QUELLA DELLA TOLLERANZA E DELL’INTEGRAZIONE | IMPERIUM | 87 |
ROMA CRISTIANA
M
olti sono i luoghi comuni e gli stereotipi che si sono sedimentati sul rapporto conflittuale tra l’impero romano e i cristiani, tanto che spesso si pensa a un atteggiamento persecutorio sino all’imperatore Costantino, che mutò questo stato di cose. Nella realtà la situazione fu ben diversa: delle dieci persecuzioni ricordate dalla storiografia cristiana, alcune di queste si sono rivelate prive di consistenza storica; senza contare poi che il cristianesimo non avrebbe potuto attecchire se il contesto fosse stato del tutto ostile. In sostanza, non si può ridurre la storia dei rapporti tra Romani e cristiani a facili semplificazioni, che non consentono di comprenderne la reale complessità. L’ideologia cristiana, per i suoi contenuti fortemente innovatori ed egualitari, fu vista con preoccupazione e timore da Roma, tanto piú
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che essa non ammetteva di venerare l’immagine dell’imperatore. Ma le persecuzioni contro i cristiani furono il frutto di rapporti tesi, che si inasprirono soprattutto con gli imperatori che, piú di altri, videro nel nuovo credo una seria minaccia per la loro autorità. L’incendio di Roma del 64, e i conseguenti provvedimenti presi da Nerone contro i cristiani, scelti come capro espiatorio nella difficile situazione venutasi a creare nei suoi confronti, furono il primo drammatico impatto dell’autorità imperiale nei riguardi del cristianesimo. A Nerone, di fatto, si deve la prima persecuzione. L’imperatore, in realtà, non
Diffusione del cristianesimo nel mondo romano dal I sec. alla fine del V sec. Nascita e primo sviluppo del cristianesimo Comunità cristiane documentate nel I e II sec. Altre importanti comunità cristiane documentate nel III sec. e agli inizi del IV sec. Le grandi persecuzioni contro i cristiani (249-305)
La diffusione del cristianesimo nel IV e V sec. Regioni cristianizzate all’inizio del IV sec.
Organizzazione gerarchica del cristianesimo Roma Sedi patriarcali e relativa giurisdizione Petra
Sedi metropolitane alla fine del V sec.
Efeso
Sedi dei quattro Concili ecumenici del IV e V sec. L’Impero romano all’inizio del V sec., prima delle migrazioni barbariche
Stanziamento dei popoli barbarici alla fine del V sec. Suebi Cristiani ariani
Diffusione del cristianesimo nel IV sec.
Franchi Cristiani cattolici
Penetrazione del cristianesimo nel V sec.
Bavari Non evangelizzati
Sulle due pagine la diffusione del cristianesimo nel mondo romano dal I alla fine del V sec. In basso riproduzione di un sarcofago di epoca paleocristiana, particolare con gli apostoli Paolo e Pietro raffigurati sul frontale. Roma, Museo della Civiltà Romana.
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ROMA CRISTIANA
ebbe alcuna responsabilità dell’incendio che colpí Roma tra il 18 e il 19 luglio del 64 e che rapidamente si propagò per tutta la città. Anzi Nerone, che si trovava ad Anzio, raggiunse l’Urbe non appena gli fu possibile per seguire le operazioni di soccorso; ciononostante, cominciarono a circolare voci di una sua presunta colpevolezza, a maggior ragione quando egli prospettò l’ipotesi di costruire, in alcuni quartieri devastati dalle fiamme, la Domus Aurea, la sua fastosa residenza, imponente e straordinaria per bellezza. Per allontanare da sé questi sospetti, sempre piú insistenti, cominciò allora ad accusare i cristiani di aver appiccato il fuoco alla città eterna e da qui a perseguitarli e a mandarli a morte; tra questi, subirono il martirio l’apostolo Pietro,
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crocifisso sul colle Vaticano, e Paolo, il quale fu decapitato, in quanto cittadino romano, fuori dalle mura, dove sorse la basilica a lui dedicata.
Rigore, ma senza accanimento Tuttavia, se si eccettua la persecuzione neroniana, ancora nel II secolo non esisteva una legislazione specifica per punire i cristiani, come ben testimonia una lettera di Plinio il Giovane, nel suo incarico di governatore della Bitinia, a Traiano, per avere indicazioni sulle misure repressive anticristiane e sul comportamento da tenere nei loro confronti; l’imperatore, nella sua risposta, indicava di adottare provvedimenti severi, ma soltanto sulla base di regolari, e non anonime, denunce, senza però alcuno spirito persecutorio.
La Samaritana al pozzo, affresco. Roma, Catacombe di Via Latina.
Persecuzioni contro i cristiani furono promosse, oltre che da Nerone, da Domiziano, Valeriano e Diocleziano, l’«inventore» della tetrarchia. Il regime tetrarchico, infatti, cercò di imporre una disciplina sociale rigorosa, dotandola di un sostrato ideologico in grado di giustificarla, che fu trovato nell’antica religione romana. Ogni resistenza o deviazione sembrò pertanto un crimine politico e, in un progetto di restaurazione dell’autorità imperiale in senso assolutistico e divinizzante, non poteva esserci
SEPOLTURE COLLETTIVE Accanto a quelli relativi alle persecuzioni e alle torture, uno dei luoghi comuni piú spesso evocati a proposito della storia dei primi cristiani riguarda le catacombe. Queste gallerie sotterranee, il cui nome deriva forse dal tardo latino catacumbae, furono scavate in gran numero a Roma, ma non solo, e, data la loro natura, sono state spesso immaginate come nascondigli nei quali i fedeli della nuova religione avrebbero cercato rifugio al tempo delle persecuzioni. In realtà, le catacombe furono utilizzate esclusivamente come luoghi di sepoltura collettiva dei membri delle comunità cristiane e per il culto dei martiri che vi erano deposti. I defunti erano seppelliti in loculi, ricavati nelle pareti e chiusi con lastre di marmo o mattoni, sui quali era spesso inciso il nome o una breve epigrafe. Oltre ai loculi, vi erano i cubicoli, piccoli ambienti destinati a ospitare le tombe di un gruppo familiare e gli arcosoli, destinati alla sepoltura di martiri o papi. In alto il livello inferiore della catacomba di S. Gennaro a Capodimonte (Napoli), il cui nucleo originario risale al II sec. d.C.
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ROMA CRISTIANA
spazio per forme di dissenso radicali come quelle espresse dalla dottrina cristiana. Nel 303 e nel 304 furono pertanto emanati alcuni editti contro i cristiani: in essi si ordinava di confiscarne i beni, di chiuderne le chiese e di proibirne le riunioni. Ma non solo: fu condotta una vera e propria epurazione nei loro riguardi, eliminati dalle fila dell’esercito e dall’apparato burocratico statale; e molte furono le condanne
a morte. Questa persecuzione, la piú grande della storia di Roma, si sviluppò con brutalità e coinvolse tutti i ceti sociali, provocando moltissime vittime e numerosi martiri. Ciononostante, la Chiesa sopravvisse e persino progredí. Se Massimiano e Galerio misero in pratica la stessa politica di Diocleziano nei confronti dei cristiani, Cloro assunse un comportamento piú mite: in Occidente, infatti, la religione cristiana non si era ancora diffusa cosí capillarmente come in Oriente. Pur tuttavia, la grande persecuzione contro i cristiani, che si protrasse sino al 311, indebolí lo Stato, creò ulteriori tensioni e non sortí gli effetti desiderati.
«In questo segno vincerai» Fu l’imperatore Costantino a porre finalmente fine alle persecuzioni. Secondo la tradizione, l’importante vittoria riportata contro Massenzio, al Ponte Milvio, nel 312, che fu decisiva per l’affermarsi dell’autorità del futuro imperatore, sarebbe stata preannunciata da un sogno, in cui egli avrebbe ricevuto l’indicazione di porre sugli scudi dei propri soldati un simbolo cristiano: «In hoc signo vinces», vale a dire «In questo segno vincerai».
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Nel 313, un anno dopo la battaglia, Costantino, insieme a Licinio, emanò l’Editto di Milano, con cui veniva concessa ufficialmente ai cristiani la libertà di culto. L’avvicinamento al cristianesimo, probabilmente dettato anche da ragioni interiori, fu però motivato da un notevole realismo politico: oltre alle personali convinzioni dell’imperatore, che però si fece battezzare solo poco prima della morte, l’apertura alla Chiesa si spiega all’interno di un progetto piú generale, che mirava a ridare pace e solidità all’impero romano. Costantino aveva infatti compreso che il cristianesimo, con la sua forza morale e la sua ormai ben radicata presenza nella società, avrebbe potuto costituire una solida base su cui rifondare l’autorità imperiale e l’unità sociale; di fatto l’impero romano venne cosí a caratterizzarsi come cristiano. La complessità del legame che si instaurò tra la Chiesa e l’impero si fece tanto piú evidente nel momento in cui si pose il problema delle eresie. Dato che Costantino si basava sulla nuova energia morale e sociale della Chiesa per rinnovare un impero romano in crisi, fu particolarmente interessato al mantenimento
dell’unità interna della Chiesa, in quanto essa era divenuta anche un importante fattore di coesione. Pertanto, l’imperatore intervenne in prima persona, talvolta coinvolto direttamente dalla Chiesa nei momenti di maggiore difficoltà dal punto di vista dottrinale, prendendo sempre posizione a suo favore. Costantino divenne dunque una sorta di «tredicesimo apostolo» e la religione cristiana era ormai un problema statale. Fu proprio l’imperatore, nel 325, a convocare e a presiedere a Nicea, non molto distante da Costantinopoli, un importante concilio ecumenico, nel corso del quale fu condannata la dottrina del sacerdote di Alessandria, Ario, che negava la natura divina di Cristo, e si stabilirono inoltre le formule canoniche del credo cristiano e del rituale; egli divise poi i Vangeli sinottici da quelli apocrifi e istituí l’organizzazione amministrativa della Chiesa, modellata su quella dell’impero. L’eredità niceana, nell’ambito della quale il ruolo di Costantino fu rilevante, pose le basi della Chiesa universale, da cui emersero le forme che si sarebbero poi maggiormente diffuse: il cattolicesimo occidentale e l’ortodossia orientale.
Cristo insegna agli Apostoli, altorilievo di un sarcofago in marmo, da Rignieuxle-Franc, nella regione del RodanoAlpi. IV sec. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto riproduzione di una lastra tombale raffigurante il Battesimo di Cristo. III sec. a.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.
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A destra Galata Ludovisi o Galata suicida, parte del gruppo marmoreo dedicato da Attalo I al santuario di Athena Nikephoros a Pergamo. Copia romana del I sec. a.C. da un originale greco in bronzo della seconda metĂ del III sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Nella pagina accanto statua in marmo di Galata in ginocchio. Copia romana del II sec. d.C. da un originale di scuola pergamena del II sec. a.C. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.
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UN IMPERO
MULTIETNICO NEL CORSO DELL’ESPANSIONE DEI PROPRI DOMINI VERSO TERRITORI FINO AD ALLORA SCONOSCIUTI, I ROMANI VENNERO A CONTATTO CON LE POPOLAZIONI PIÚ DIVERSE, IN UN CONTINUO SUCCEDERSI DI INCONTRI E SCONTRI
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LE GENTI STRANIERE
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reci e Romani utilizzarono frequentemente il concetto di «barbaro». Occorre perciò comprendere il vero significato di questa parola greca nella cultura e nella mentalità del civilizzato Mediterraneo. I Greci introdussero tale termine nella cultura europea attraverso i loro scrittori dell’età arcaica. La parola fu poi sempre piú usata per definire gli «altri», cioè «l’altro da
sé», quelli che avevano un’altra civiltà e altri valori basilari rispetto a quelli dei Greci. Piú tardi la parola e il concetto di barbaro furono ripresi dai Romani e la letteratura latina li ha trasmessi alla successiva cultura europea. Nel chiamare «barbari» tutte le altre popolazioni, i Greci non intendevano esprimere il loro orgoglio e il disprezzo per gli altri: cosí facendo, essi si dichiaravano consapevoli della loro civiltà e di ciò che essa aveva apportato, cioè i Un legionario e un barbaro, particolare del fregio della Colonna Traiana raffigurante una legione che attacca un villaggio in Dacia. Il monumento fu eretto nel Foro di Traiano a Roma, nel 113 d.C., per celebrare le vittorie dell’imperatore sui Daci, nel 101-102 e nel 105-106 d.C.
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vantaggi della vita comunitaria nei nuclei urbani, l’esistenza della proprietà privata, i diritti e i doveri del cittadino libero e responsabile, la libertà politica e la giustizia basata sulle leggi adottate dal popolo stesso. I Greci, insomma, consideravano «barbari» i popoli meno sviluppati dell’Europa o degli altri continenti, in considerazione del fatto che questi non avevano una struttura sociale stabile, né forme urbane di vita comunitaria e né Stati consolidati e duraturi.
La «sapienza dei barbari» Tale realtà non impediva la loro ammirazione per «la sapienza dei barbari», ma, in ogni caso, non avrebbero voluto vivere presso di loro. Anche popolazioni ben sviluppate, con una civiltà urbana e con Stati antichissimi, come quelle dell’Oriente, erano ritenute ugualmente barbare, a causa della mancanza di libertà personale e degli eventuali abusi di potere del monarca dispotico. Non a caso, Tucidide sottolineava che i barbari dovevano portare sempre con sé le armi, mentre i Greci non ne avevano bisogno nella loro vita quotidiana. Altre civiltà sviluppate, come quella etrusca o quella cartaginese, venivano spesso considerate come «barbariche», ma solo in ragione dei costumi molto diversi e della crudeltà manifestata in alcune occasioni. In ogni caso, la civiltà non aveva per i Greci alcuna connotazione etnica: ogni straniero, attraverso l’istruzione e la cultura, poteva ascendere alla condizione di «ellenico civilizzato». Questo fu il concetto di barbaro che Roma ricevette dalla civiltà greca, molto ammirata e copiata. E anche i Romani furono a lungo ritenuti alla stregua di «barbari» dal mondo greco. Solamente il controllo della Magna Grecia, insieme con l’accettazione della cultura ellenica, ma anche con il prestigio e la stabilità delle sue istituzioni, fecero sí che la società romana venisse considerata civilizzata dai Greci. In sostanza, per giudicare «gli altri», Roma applicò le stesse concezioni del pensiero greco. Lo Stato romano sviluppò la sua politica e le sue istituzioni sempre nel
contesto di relazioni e conflitti con i vari popoli vicini oppure piú lontani. Molti di tali popoli non godevano di alcun livello superiore di civiltà ed erano perciò considerati come barbari. L’idea di «barbaro» si estendeva pertanto a varie realtà locali o regionali, ma i Romani, pur considerandole tutte come barbari, applicò nei loro riguardi politiche diverse, di volta in volta adattate alle specificità di ogni civiltà e di ogni società straniera. Per parlare dei diversi tipi di barbari con cui i Romani entrarono in contatto, occorre considerare la geografia fisica e umana del mondo romano. Al suo apogeo, l’impero romano includeva vasti territori dell’Europa occidentale, con montagne, colline, foreste e fiumi, dove abitavano popolazioni piuttosto sedentarie. Alquanto diverso era il paesaggio dell’Europa nord-orientale, dominato da enormi pianure, non controllate dallo Stato romano e popolate da gruppi di nomadi in perenne migrazione. A Oriente l’impero confinava con il potente regno persiano dei Parti, che continuava realtà e tradizioni dell’antica Persia, un tempo sconfitta da Alessandro il Grande. Si trattava di civiltà e di società diverse che i Romani dovettero affrontare e – se era possibile – domare o conquistare. Ma anche tipi simili di civiltà barbariche interagirono diversamente con i Romani. Lo Stato romano cambiò molte volte la sua visione dei barbari confinanti e nel contempo la politica nei loro riguardi ebbe modo di evolversi. In Occidente tra le popolazioni barbariche un ruolo importante fu rivestito dai Celti o Galli, come li chiamavano i Romani; tra i quali i Britanni rappresentano un caso particolare. Sebbene europei e stanziati in regioni con condizioni simili, i Germani apportarono altri problemi e i loro collegamenti con il mondo romano ebbero uno sviluppo sorprendente. Per la situazione specifica delle popolazioni nomadi steppiche non si può che fare riferimento ai Sarmati, anch’essi divisi tra vari gruppi tribali e culturali. Infine, i rapporti con la Persia rimangono un capitolo particolare e diverso da tutti gli altri.
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LE GENTI STRANIERE
I GALLI
LA VIA CELTICA ALLA ROMANITÀ
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e tribú galliche penetrate nel V secolo a.C. nella Pianura Padana furono i primi veri barbari conosciuti dai Romani. Con il loro aspetto e modo di vita, assai diversi da quelli delle popolazioni italiche, i Galli suscitarono paura e ostilità. Erano valenti guerrieri, ma non riuscirono mai a realizzare alcuna forma di unità politica. Dopo aver invaso e popolato tutto il bacino del Po, nel secolo successivo diversi gruppi di Galli minacciarono gravemente la Penisola italica; si pensi, in tal senso, al saccheggio di Roma del 390 a.C. Il timore dei Galli (metus Gallicus) rimase cosí come un topos duraturo nella cultura romana. I piú affini agli Italici erano i Senoni, insediati nell’attuale regione tra Ravenna e Senigallia, con i quali i Romani si scontrarono a piú riprese. Alla fine i Senoni furono sconfitti e annientati e il loro territorio fu attribuito ai coloni romani. Nel III secolo a.C. i Romani sottomisero progressivamente tutto il bacino padano, malgrado la resistenza dei Galli. Ma la politica seguita da Roma fu diversa: se le tribú celtiche del sud del Po furono annientate, al nord si procedette alla sottomissione di ciascuna tribú, accompagnata da alcune colonizzazioni. Sebbene ribellatisi contro Roma durante la guerra annibalica, i Galli padani furono alla fine domati. Ciò portò a una loro rapida romanizzazione e cosí Cesare, nel 49 a.C., poté accordare la cittadinanza romana a questa popolazione, senza suscitare contestazioni significative. Successivamente Augusto integrò pienamente tutta la Gallia Cisalpina nella stessa Italia. Questo successo totale,
Nella pagina accanto statua di capo gallico armato, da Vachères (Provenza-AlpiCosta Azzurra). Seconda metà del I sec. a.C. Avignone, Musée Calvet.
sancito dalla completa romanizzazione, si spiega anche per la specificità della società gallica, strutturata in modo simile a quella romana, e per il comportamento delle stesse élite celtiche. I rapporti con gli altri Celti seguirono generalmente lo stesso modello, vale a dire prima lo scontro militare, poi la sottomissione e alla fine la romanizzazione.
Nel II secolo a.C. i Romani dovettero lottare energicamente per sottomettere i Celtiberi della Spagna e le popolazioni della Gallia Narbonense. La loro strenua resistenza si spiega in ragione del fatto che ora combattevano per la loro libertà e sopravvivenza. Le tribú galliche infatti non intraprendevano piú invasioni, né grandi guerre di conquista. La loro società si confrontava con intere trasformazioni e con la costituzione di regimi politici aristocratici; nel contempo anche la loro civiltà progrediva e si I resti del Trofeo delle Alpi, detto anche Trofeo di Augusto, nel comune di La Turbie (Provenza-Alpi-Costa Azzurra). Il monumento venne eretto nel 6 a.C., per commemorare le vittorie dell’imperatore sulle popolazioni alpine.
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LE GENTI STRANIERE
sviluppavano contatti con il Mediterraneo. D’altro canto, il mondo celtico era sempre di piú sotto la pressione di altre popolazioni europee barbariche, come i Daci, gli Illiri e, soprattutto, i Germani. La migrazione dei Cimbri e dei Teutoni germanici verso sud, avvenuta nel 110-101 a.C., aveva spaventato anche i Celti. Tali sviluppi spiegano la politica filoromana dei Celti centro-europei, come del resto, sotto Augusto, l’annessione abbastanza facile dei loro territori, come la Vindelicia, il Norico e la Pannonia, nonché la conseguente romanizzazione.
Scelte politiche concilianti La minaccia dei Germani agevolò anche l’ingresso di Giulio Cesare nella Gallia, anche se la vittoria dei Romani fu resa possibile, innanzitutto, dalla frammentazione politica e sociale della regione. Dopo la sconfitta di
In basso l’Arco di Trionfo di Orange, eretto alla fine dell’epoca repubblicana o in età augustea per onorare i veterani delle guerre galliche della Legio II Augusta, e dedicato, nel 27 d.C., all’imperatore Tiberio, come ricorda un’iscrizione. A destra particolare della decorazione scultorea in bassorilievo, sull’attico dell’arco, raffigurante una scena di battaglia tra Romani e Galli.
LA CONQUISTA DELLA GALLIA
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Vercingetorige, nel 52 a.C. (vedi anche alle pp. 76-81), la politica abile e conciliante di Cesare consentí a Roma di avvalersi della collaborazione delle élite locali e cosí l’intera Gallia rimase una provincia pacificata, segnando un rapido cambiamento di civiltà nell’ambito celtico provinciale. La società si ristrutturò secondo i modelli di Roma, molti Celti acquisirono la cittadinanza romana e, già verso la metà del I secolo, discendenti dell’aristocrazia gallica entrarono nel senato romano. Ma l’evento piú sorprendente rimane il comportamento dei Galli durante la grande crisi politica degli anni 68-69: dopo avere partecipato alla caduta di Nerone, la Gallia rimase senza l’esercito renano, che aveva raggiunto Roma per sostenere Vitellio e poi per difenderlo, e fu coinvolto nella rivolta dei Batavi, guidata da Giulio Civile. Questi, divenuto padrone della valle del Reno, propose alle città galliche l’indipendenza e forse addirittura uno Stato gallico, opposto all’impero. Sebbene privi di ogni forza militare o sostegno dall’Urbe, nel 71 i rappresentanti delle comunità della Gallia decisero di respingere l’offerta e di rimanere
fedeli a Roma. Un atto politico che prova in modo eclatante l’avvenuta e radicata romanizzazione della Gallia. Distretto fiorente, la Gallia sviluppò una civiltà romana provinciale con diversi tratti celtici, preromani, sempre visibili, come i nomi, i culti, i riti, gli aspetti economici e della produzione artistica; e un processo molto simile, ma con minori elementi celtici, ebbe luogo anche tra i Celtiberi o i Celti dell’Europa centrale. Nel III secolo, nell’ambito gallo-romano, apparvero manifestazioni artistiche e culturali definite dagli storici moderni «rinascimento celtico»; ma, anziché dimostrare una supposta resistenza alla romanizzazione, tali fenomeni mostrano invece il duraturo successo della compiuta romanizzazione. Nel III secolo il cosiddetto «impero gallico» dell’Occidente (260-274) fu soltanto una struttura politica ribelle, che voleva separarsi di Roma, ma non combatté in alcun modo la cultura romana o i valori basilari del mondo classico. Anzi, il mondo celtico cooperò con lo Stato romano e i Celti romanizzati rimasero i migliori guardiani della romanità, che proprio la Gallia preservò, con la latinità, sino all’Alto Medioevo.
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LE GENTI STRANIERE
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L’ESPANSIONE DELLE POPOLAZIONI CELTICHE
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Grande espansione del VI sec. a.C.
Principali ritrovamenti archeologici celtici
Area formativa della cultura di La Tène nel VI sec. a.C.
Impero di Alessandro Magno nel 323 a.C.
Migrazioni e incursioni del V-IV sec. a.C.
Domini cartaginesi e di Marsiglia
Migrazioni e incursioni del III sec. a.C.
L’espansione di Roma in Italia
Influssi culturali celtici
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In basso dritto di uno statere in oro degli Arverni, dalla regione di Clermont-Ferrand. Collezione privata. Nella pagina accanto dritto di uno statere aureo dei Parisi. Collezione privata.
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Popoli celtici
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Espansione dei Celti nei secoli VI-III a.C.
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LE GENTI STRANIERE | IMPERIUM | 104 |
I BRITANNI
NELL’ISOLA DI BOUDICCA
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e isole britanniche furono da sempre popolate da tribú celtiche. Con l’eccezione dell’Irlanda, poco coinvolta con il mondo esterno, e di altre piccole isole, la Britannia nell’età antica ebbe un ruolo significativo, pur con le differenze derivanti dalle diversità delle popolazioni. I rapporti esterni della Britannia si limitavano al Settentrione della Gallia, attraverso il quale i Romani cominciarono a interessarsi di questi territori insulari. La conquista romana della Britannia ebbe inizio nel 42 e si sviluppò in varie tappe. In primo luogo fu sottomessa la parte sud-orientale dell’isola, dove Roma insediò tre legioni e alcune comunità di coloni. Ma le malversazioni e gli abusi dell’amministrazione imperiale scatenarono la rivolta di alcune tribú, capitanata da Boudicca, regina degli Iceni. La ribellione fu domata, ma determinò comunque un mutamento del regime imposto da Roma che, in seguito, scelse di comportarsi con le élite locali allo stesso modo in cui aveva fatto in Gallia, avviando un graduale processo di romanizzazione. I Romani estesero a poco a poco la loro autorità sulla grande isola sino ai confini dell’attuale Scozia; questo territorio, popolato da tribú povere e violente che attaccavano frequentemente la provincia, fu occupato per brevissimo tempo, sotto l’imperatore Domiziano, dal governatore Agricola, ma fu poi rapidamente abbandonato. La frontiera tra la provincia di Britannia e le tribú mai domate dei Pitti e Caledoni fu stabilita sul Vallo di Adriano. Nella provincia erano di stanza numerose truppe e ciò favorí lo sviluppo di una vita urbana di tipo romano, anche se la Britannia non assorbí fino in fondo il modus vivendi di Roma, la cultura latina si diffuse meno di quanto fosse accaduto in Gallia e vaste regioni furono meno toccate dalla romanizzazione, in primo luogo i territori montuosi occidentali e centro-settentrionali. Spinti dalla povertà e dalla mancanza di prospettive i Britanni entrarono in gran numero
nell’esercito romano, distinguendosi per le loro capacità, e le loro unità militarono ovunque nei territori imperiali. La società britanno-romana non produsse aristocratici capaci di entrare in senato, né manifestazioni culturali o religiose paragonabili a quelle sviluppatesi in Gallia o in Hispania. Il territorio accettò la presenza di un esercito imponente, senza d’altro canto avere alcun ruolo economico maggiore, ed è significativo che nell’isola non siano esplose ulteriori rivolte contro il dominio romano, in quanto la società provinciale si sentiva abbastanza ben integrata nell’ambito imperiale.
La via del declino I limiti della romanizzazione emersero in maniera concreta nel momento in cui l’impero entrò in crisi: nel IV secolo Roma controllava ancora la Britannia, malgrado gli attacchi di varie genti barbariche. Ma le risorse e l’esercito della provincia erano sempre piú spesso utilizzati per altri interessi, lontano dall’isola. La civiltà provinciale imboccò cosí la via del declino e anche la popolazione si ridusse: nel 406, quando l’impero dovette affrontare una crisi maggiore e ritirare le truppe per difendere l’Italia, la Britannia fu abbandonata. In seguito, nonostante le richieste della stessa società britanno-romana e le intenzioni degli imperatori, Roma non riuscí mai piú a riportare la sua dominazione sull’isola. La Britannia si divise allora in piccoli «Stati», guidati da aristocratici, veri e propri «signori della guerra», in perenne conflitto. Apparentemente vi era un ritorno al livello pre-romano di guerre endemiche e insicurezza e proprio questa società in declino, incapace di trovare un equilibrio politico, fu colpita nei secoli V e VI dalle invasioni degli Angli e Sassoni. Nello stesso tempo l’isola fu invasa anche dai Celti della Scozia: la resistenza fu disperata, ma non bastò a fermare gli invasori che smantellarono il sistema politico della Britannia e cancellarono ogni traccia dell’eredità romana.
Fotografia aerea della fortezza romana di Vercovicium (Housesteads Roman Fort), in Northumbria. L’accampamento era costruito a ridosso del Vallo di Adriano, linea di confine fortificata, costruita tra il 122 e il 127 d.C., che congiungeva la costa occidentale della
Britannia a quella orientale, separando le aree poste sotto il controllo romano da quelle in cui erano stanziate le tribĂş del Nord. La frontiera, estesa per 120 km, era intervallata da accampamenti militari, posti a distanze regolari, e da torrette di guardia.
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Le invasioni barbariche del III sec. d.C.
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L’impero romano all’avvento di Diocleziano (284)
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Principali battaglie contro i barbari incursori e data
Principali guarnigioni di frontiera
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LE GENTI STRANIERE | IMPERIUM | 108 |
I GERMANI
«FRATELLI» DEL RENO
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Romani entrarono in contatto per la prima volta con le tribú germaniche alla fine del II secolo a.C., al momento della migrazione dei Cimbri e dei Teutoni, genti barbariche che all’inizio si riteneva fossero Celti. Solo in un secondo momento compresero che si trattava di un’altra popolazione, molto diversa, e li chiamarono «Germani», cioè «fratelli», perche tutti sembravano simili: biondi, di alta statura, con occhi blu e lunghe barbe. Le campagne di Giulio Cesare impedirono alle tribú germaniche di raggiungere i territori situati sulla sponda occidentale del Reno, ma lo stesso generale ne insediò alcuni gruppi sulla riva sinistra del fiume, allo scopo di utilizzarli come alleati. Augusto cercò di estendere il dominio romano ai territori orientali del Reno e riuscí a creare la provincia di Germania sino all’Elba, ma questa regione fu perduta a causa della disastrosa sconfitta patita nel 9 nella foresta di Teutoburgo. La frontiera tra il mondo romano e i Germani rimase quindi sul Reno, con piccole ulteriori variazioni nei quattro secoli successivi. Dal I secolo a.C. i Germani popolavano una
grande parte dell’Europa centrale e settentrionale, cioè lo spazio tra la Vistola e il Reno, dalla Scandinavia meridionale sino al medio corso del Danubio. Alcuni gruppi isolati penetrarono piú a oriente, come i Bastarni, stanziati a nord della foce del Danubio.
Guerrieri valorosi, ma poco coesi Tutte queste popolazioni parlavano idiomi apparentati, piuttosto diversi dalle lingue celtiche e avevano tutti la stessa religione e gli stessi costumi. Noti come guerrieri, i Germani avevano un assetto sociale basato sui gruppi gentilizi; ma le unioni tribali piú potenti non erano durature. Al tempo di Cesare esisteva una grande unione degli Svevi, nella Germania meridionale, che però si disgregò dopo la loro sconfitta. Nell’età di Augusto, nella parte orientale del Reno erano insediate molte tribú, che Arminio cercò di unire, senza successo (vedi alle pp. 80-84), mentre nell’Europa centrale dominava il regno di Marobodo. Dopo il fallimento della conquista augustea, i Romani non cercarono piú di sottomettere la Germania, perché l’impero ritenne piú semplice e meno oneroso stabilire rapporti con i diversi capi gentilizi e non impedire che essi si dilaniassero in contrasti intestini. Nei primi due secoli dell’era cristiana le relazioni tra l’impero e il mondo germanico ebbero modo di evolversi notevolmente: molti Germani servivano direttamente Roma come mercenari oppure alla guida di piccoli Stati clientelari; l’esercito romano e persino la guardia personale dell’imperatore comprendevano ormai molti Germani, provenienti da diverse tribú; le truppe ausiliarie germaniche costituivano una parte importante e valente dell’esercito imperiale. Nel bacino renano vi erano due province di frontiera, la Germania Superiore e la Germania Inferiore, che avevano una
popolazione mista, costituita da coloni romani e Celti autoctoni, ma anche da intere stirpi germaniche, una situazione che favorí il processo di romanizzazione.
Una frontiera fortificata Come già detto, Roma spendeva ingenti somme di denaro per assicurarsi la fedeltà dei capi germanici e l’alleanza dei loro piccoli Stati: questa politica migliorava la situazione, ma non poteva però prevenire tutti gli attacchi predatori di questi barbari guerrieri. L’impero edificò cosí una frontiera fortificata, un limes appunto, per tenere meglio sotto controllo i Germani. Le truppe stanziate sulla frontiera dovevano sorvegliarli, impedire qualsiasi attacco
e – se necessario – colpirli nel loro territorio. L’imperatore Domiziano ampliò i possedimenti romani nella Germania meridionale, oltrepassando il Reno e il Danubio superiori, ed estese pertanto il limes; ma si trattava comunque di semplici ampliamenti territoriali e nulla venne modificato in modo sostanziale. Tacito, con ironia, osservava che «ormai da cento anni noi sconfiggiamo sempre la Germania». In realtà, a partire da Domiziano, il peso militare del confine germanico fu ridimensionato, mentre crebbe quello della frontiera danubiana, dove le tribú germaniche dei Quadi, nell’attuale Slovacchia, e dei Marcomanni, nell’odierna Cechia, si erano fatte particolarmente minacciose.
In alto scena di battaglia tra Romani e Germani, particolare del rilievo di un sarcofago in marmo, da via Tiburtina (Roma). 180-190 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano. Nella pagina accanto oggetti facenti parte di un corredo funerario femminile di epoca gota.
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LE GENTI STRANIERE
Salvo rari momenti di tensione, la pace resistette sino al 166, anno in cui scoppiò la piú grande crisi nei rapporti tra Roma e i Germani, quando si ebbe un movimento generale dei gruppi centro-europei verso sud, allo scopo non solo di depredare le province romane, ma anche di insediarsi nell’impero. I Romani riuscirono a difendersi, ma con grandi difficoltà, e l’offensiva non fu mai piú ripresa.
Nuove strutture politiche Nel III secolo la situazione peggiorò ulteriormente, tanto che, dopo il 235, l’impero cadde nell’anarchia militare. Nel frattempo, nel mondo germanico apparvero nuove strutture politiche e grandi unioni tribali stabili e potenti: accanto agli «Stati» dei Quadi e dei Marcomanni furono fondate le unioni dei Sassoni, Franchi, Alemanni, Vandali, Gepidi e anche altri, che sopravvissero per molti secoli. Ma la piú potente e pericolosa era la grande unione dei Goti, insediati al nord del Mar Nero. Questi popoli mantennero rapporti con l’impero e lo servirono, ma, nei momenti di crisi, attaccavano e depredavano le province. Incoraggiate dagli endemici conflitti militari nel mondo romano, anche le diverse tribú germaniche attaccarono spesso le province: la pianura centro-europea fu devastata e depredata e altrettanto accadde nel bacino del Reno; gli invasori, inoltre, riuscirono a penetrare sino in Italia e in Spagna. In Oriente le invasioni gotiche, per terra e per mare, colpirono la Penisola Balcanica, la valle del basso Danubio e anche l’Asia Minore e la Grecia. Il IV secolo apportò cambiamenti basilari nel mondo romano: per molti anni l’impero, riavutosi dalla crisi, riuscí a controllare agevolmente i popoli barbari che premevano ai confini. I Germani, dal canto loro, erano una presenza sempre piú significativa per i Romani: accanto agli schiavi e ai mercenari molti di essi furono insediati nelle province per lavorare i terreni incolti e per supplire alla mancanza di manodopera. Anche le relazioni con vari capi germanici alleati furono consolidate e Roma accettò che intere tribú prestassero servizio
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militare, mentre i loro capi ricevevano ormai ruoli importanti nell’esercito e nell’amministrazione. Il fragile equilibrio stabilito lungo le frontiere europee finí brutalmente nel 378, con la calata degli Unni: sotto la loro pressione, i Visigoti penetrarono nell’impero e il 9 agosto del 378 annientarono l’esercito romano nella battaglia di Adrianopoli, nella quale rimase ucciso anche l’imperatore Valente. I Visigoti costituirono poi sul territorio romano, nella Penisola balcanica, un proprio Stato. L’Impero, ormai diviso, non poteva far altro che tollerare tale situazione per cercare di mantenere il controllo dei suoi confini. Ma, nell’inverno del 406, la frontiera renana fu oltrepassata da ingenti masse di Germani, senza che lo Stato romano potesse opporsi. Tutte le province occidentali furono cosí invase da varie tribú germaniche, che si combattevano reciprocamente e cercavano di costituire i loro
Veduta della cosiddetta Porta Nigra a Treviri (l’antica Augusta Treverorum), in Germania. La porta fu realizzata in pietra arenaria grigia tra il 180 e il 200 d.C., come ingresso nord della città romana.
regni sul suolo romano. Da questo momento in poi la penetrazione dei Germani nell’impero fu incontrollata e l’Italia e la stessa Roma furono depredate dai barbari, i Visigoti nel 410 e i Vandali nel 455. Tutto ciò che l’impero poteva ancora fare era cercare di stringere alleanze con diversi popoli germanici e di utilizzare i loro conflitti per ottenere il loro supporto e per riaffermare, almeno teoricamente, la sovranità romana su questi nuovi Stati.
Terreno di conquista Occorre anche sottolineare la diversa evoluzione delle due parti del mondo romano. L’impero romano d’Oriente limitò la presenza barbarica sul suo territorio ad alcune regioni balcaniche. Quello d’Occidente invece, molto piú debole, fu invaso continuamente dal 406 in poi e diventò un vero e proprio terreno di
conquista tra le diverse stirpi germaniche che successivamente lo divisero tra i loro nuovi regni e che, alla fine, nel 476, abbatterono anche la dignità imperiale. La coabitazione dei Romani con i Germani, che sino a quel momento aveva dovuto seguire le regole romane, entrò in un’altra fase. Questi popoli avevano un’altra società, con altri sistemi di famiglia e di proprietà, e gli aristocratici germanici non avevano alcuna esperienza amministrativa, motivo per il quale vi furono diverse forme di cooperazione tra loro e i Romani, dal momento che erano reciprocamente interessati. Furono promulgati codici di leggi, specifici per ciascun popolo, insediamenti germanici furono fondati dappertutto e i loro Stati fecero ampio ricorso alla plurisecolare esperienza di civiltà tesaurizzata dai Romani.
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LE GENTI STRANIERE
I SARMATI
DALLE STEPPE CON FURORE
L
e popolazioni sarmatiche, di stirpe e di lingua iranica, erano dedite al nomadismo nelle immense pianure dell’Europa orientale; erano divise tra diverse tribú, apparentate tra loro, come Iazigi, Rossolani, Aorsi e Alani. Già dal III secolo a.C. i Sarmati eliminarono, oppure sottomisero, gli Sciti, ed erano diventati la maggiore presenza barbarica sulla sponda settentrionale del Mar Nero. Noti come valenti guerrieri, cavalieri e arcieri i Sarmati non ebbero mai uno Stato duraturo, in quanto la loro struttura politica rimase di tipo tribale. La loro economia si basava sull’allevamento di bovini e cavalli; erano anche buoni fabbri, ma non avevano una produzione ceramica degna di rilievo. Penetrando nel bacino danubiano, i Romani incontrarono la prima volta i Sarmati come alleati del re Mitridate. La vittoria di Roma fu poi seguita da rapporti abbastanza pacifici con questi nomadi. Dopo il 20, al tempo di Tiberio, una grande tribú sarmatica, gli Iazigi, si spostò nella pianura centro-europea, nella valle di Tisa, con l’accordo dei Romani, forse per allontanare i Daci dal medio Danubio. Gli Iazigi, insediatisi in prossimità della provincia romana della Pannonia, ebbero rapporti di buon vicinato con i Germani che si trovavano nell’attuale Slovacchia, mentre si scontrarono con i Daci. Poi si fecero pericolosi anche per le province romane, che divennero oggetto delle loro razzie, e l’impero reagí con durezza, pur cercando di mantenerli come alleati. In questo modo nacque la
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«Sarmazia europea» nel bacino mediodanubiano, diversa dalla «Sarmazia asiatica», collocata al nord del Mar Nero. All’epoca di Nerone gruppi di Sarmati si insediarono sul confine basso danubiano dell’impero. Roma manteneva la sua pressione politica sugli Iazigi e sui Rossolani, tribú con i cui sovrani i Romani cercavano di avviare un’alleanza. Durante la conquista della Dacia gli Iazigi combatterono dalla parte dei Romani, mentre i Rossolani si schierarono al fianco dei Daci. All’indomani della conquista, sia tra gli Iazigi che tra i Rossolani si diffuse il malcontento, in quanto la nuova provincia vietava loro i contatti. Cosí, nel 107, gli Iazigi si ribellarono, ma furono rapidamente domati.
Vittorie e concessioni Nello stesso anno, vi fu una grande insurrezione di entrambe le tribú, alla morte dell’imperatore Traiano, che mise persino in pericolo la Dacia romana: Adriano riuscí a sconfiggerle e a riportare la pace, ma dovette cedere loro alcuni territori. Gli Iazigi dominavano tutto lo spazio tra la Pannonia e la Dacia e costituirono un’unione tribale potente e ben strutturata, capace di sviluppare anche attività politiche e diplomatiche. Nulla di simile avenne per i Rossolani, che – come per altre stirpi sarmatiche – erano ancora organizzati in clan. Tra il 166 e il 175, negli anni delle aspre guerre marcomanniche, gli Iazigi divennero di nuovo feroci avversari dei Romani; i loro attacchi
devastarono la Pannonia e la Dacia, ma, soprattutto, essi avevano barche rapide, con le quali praticavano la pirateria su tutto il medio Danubio. Anche i Rossolani colpirono molte volte l’impero. Sconfiggere gli Iazigi fu difficile e richiese molti sforzi. L’imperatore Marco Aurelio pensò persino di annettere il loro territorio, creando la nuova provincia di «Sarmazia», ma il progetto fallí. Nel 175, dopo la sconfitta dei Germani alleati, gli Iazigi accettarono la pace con i Romani, impegnandosi ad abbandonare la navigazione sul Danubio, a rispettare i confini romani e a sospendere i loro attacchi; essi inoltre potevano mantenere rapporti con i Rossolani, attraverso la Dacia romana, ma dovevano sempre avere l’assenso del governatore della provincia. Già dal II secolo gli Iazigi si erano differenziati dagli altri Sarmati: avevano insediamenti modesti, ma ormai stabili, e utilizzavano largamente i manufatti romani, che avevano persino iniziato a imitare. Nel III secolo un’importante trasformazione nei loro riti funerari, vale a dire la diffusione delle tombe a tumulo, induce a pensare a un’immigrazione dei Rossolani nel loro territorio. Nel frattempo, gli altri popoli sarmatici delle pianure dell’Europa orientale infastidivano le città costiere greche, sottomesse all’impero. Nel III secolo, soprattutto durante la grande anarchia militare, l’impero fu spesso attaccato dagli Iazigi, divenuti ormai il maggiore pericolo per le province centro-europee. La medesima situazione si ebbe nel nord del Mar Nero, dove i Sarmati distrussero totalmente l’antica città greca di Tanais, alla foce del Don, intorno al
260, e attaccarono in molte occasioni i possedimenti romani. L’impero non riuscí mai a sconfiggere definitivamente i Sarmati e anzi si serví spesso del loro aiuto. La ripresa che si ebbe con Diocleziano non apportò cambiamenti significativi, ma, alla fine, l’imperatore riuscí a imporre trattati di pace e di alleanza ai Sarmati che si erano stabiliti in prossimità dei confini dell’impero.
Scomparsa di un popolo Gli Iazigi erano sempre piú pressati dai Germani, che penetrarono nella Tisa superiore, ed ebbero conflitti anche con i potenti Goti, una situazione che li indusse a diventare alleati dell’impero. Nel IV secolo, forse con Costantino il Grande, la regione popolata dagli Iazigi fu circondata da imponenti valli in terra e fossati – senza dubbio eretti con il concorso romano – come il limes Sarmatiae. L’alleanza però non durò a lungo. Verso la metà del secolo la società degli Iazigi fu gravemente tormentata da guerre civili tra due gruppi, gli Argaragantes e i Limigantes; gli ultimi ebbero la meglio e successivamente attaccarono le province romane. Pertanto, nel 359 essi furono crudelmente annientati dall’imperatore Costanzo II. Ciò segnò il rapido declino dei Sarmati europei e il loro territorio si ridusse alla valle della Tisa inferiore: il loro potere politico si dissolse, il loro nome scomparve nelle fonti e poco tempo dopo furono sottomessi dagli Unni. Con l’esclusione degli Alani, insediati vicino al Caucaso, gli altri Sarmati persero la loro identità, senza lasciare alcuna eredità culturale o etnica degna di nota.
Altorilievo con scene di battaglia, particolare della Colonna di Marco Aurelio a Roma, eretta tra il 180 e il 192 d.C. Nel rilievo sono raffigurate le guerre di Marco Aurelio sulle popolazioni germaniche dei Marcomanni, dei Sarmati e dei Quadi. Nella pagina accanto anello in oro, turchesi, corallo e topazio, realizzato con motivi decorativi di stile animalistico, arte sarmatica, I sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
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I PARTI
UNA SPINA NEL FIANCO
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a civiltà e la società dei Persiani hanno avuto caratteristiche diverse rispetto a quelle dei grandi popoli del Mediterraneo. E anche la religione, alquanto particolare, contribuí a creare una specificità culturale. Il loro impero universale, apparentemente fiorente, fu smantellato e conquistato da Alessandro Magno, e, nel II secolo a.C., nacque un nuovo Stato persiano, che continuò le tradizioni e le istituzioni dell’antico regno, i cui sovrani appartenevano alla dinastia di Arsace, un nobile della regione chiamata Partia, situata a sud del Mar Caspio. Questo Stato, cioè il regno dei Parti, intorno alla metà del I
secolo a.C. sottomise tutta la regione compresa tra l’Eufrate e l’Indo. Il regno aveva un’imponente forza militare, basata soprattutto sulla cavalleria e sugli arcieri. Come avveniva per l’impero romano, il regno degli Parti dovette sempre difendersi dai barbari nomadi confinanti, sia quelli della regione caucasica, sia del deserto arabico, ma specialmente dell’Asia centrale. Le conquiste dei Persiani in Siria furono fermate da Pompeo nel 66 a.C. e da quel momento ebbe inizio la rivalità tra i due grandi Stati che intendevano dominare l’Oriente: Roma e la Partia. A Roma si pensava di poter conquistare tutto l’Oriente civilizzato, come era riuscito a fare Alessandro Magno; mentre la politica dei Parti mirava a ricreare l’antico impero persiano, con l’annessione dell’Asia e dell’Egitto. I rapporti tra Romani e Parti peggiorarono notevolmente a causa della spedizione di Crasso, il cui esercito fu completamente annientato dai Parti. Ne scaturí
un lungo conflitto: Cesare voleva conquistare la Partia, Antonio intraprese due sfortunate guerre, e la tensione tra i due Stati fu superata solamente con il principato di Augusto, il quale, nel 20 a.C., giunse a una pace onorevole. I due imperi si contesero sempre l’Armenia, ambita per via della sua posizione.
Roma guarda all’Oriente
In basso i resti del Taq-Kisra o palazzo di Cosroe II (591-628), re della dinastia iranica dei Sasanidi, a Ctesifonte, in Iraq. Nella pagina accanto statua in bronzo raffigurante un guerriero dell’esercito partico. I sec. d.C. Teheran, Museo Nazionale dell’Iran.
Una guerra, dal 58 al 63, si chiuse con un accordo che fece salvo l’orgoglio romano e, piú tardi, indusse i Parti a non intervenire contro Roma durante la guerra giudaica e la crisi degli anni 68-69. La pace venne di nuovo turbata nel 113, dall’attacco di Traiano, il quale sperava di annientare il potere persiano; ma il progetto fallí e il nuovo imperatore, Adriano, nel 117 stipulò un nuovo accordo, in forza del quale i Parti non intervennero durante la nuova rivolta degli Ebrei, scoppiata tra il 132 e il 135. Nel 161 il re Vologese attaccò Roma, ma fu sconfitto e, nel 165, si giunse a una pace che non comportava variazioni territoriali. Poi, durante il regno dei Severi, Roma cercò diverse volte di estendere il suo dominio in Oriente,
mentre la dinastia partica degli Arsacidi, a causa di alcuni insuccessi, fu soppiantata nel 226 dai Sasanidi. La nuova dinastia cambiò politica: la Persia intendeva ora estendere il proprio regno a scapito dell’impero romano e persino imporre con la forza la propria religione. Tutto questo nel momento in cui per Roma la situazione peggiorava in modo significativo. La Persia divenne cosí un nemico molto aggressivo: nel III secolo gli attacchi dei Persiani furono devastanti e nel 260 l’imperatore Valeriano fu fatto prigioniero. L’impero romano era ormai fragile e solo intorno al 272 la situazione venne ripristinata. Il nuovo slancio dello Stato, con Diocleziano e Costantino, portò ad alcuni successi militari di Roma, ma i positivi risultati conseguiti furono vanificati nel 363 dalla sconfitta di Giuliano. I Persiani non riuscirono mai ad abbattere il potere romano, ma i loro ripetuti attacchi contro l’impero lo indebolirono molto. Roma, d’altro canto, malgrado tante difficoltà, aveva sperato a lungo di annientare la Persia e in ragione di questo dissipò molte energie, nonché risorse, in guerre lunghe e inutili.
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Statuette in terracotta policroma di guerrieri con lancia, dalla regione di Shaanxi. Dinastia degli Han occidentali, I-III sec. Nella pagina accanto resti della fortezza di Apsaros (oggi Gonio, in Georgia).
LA CINA Ăˆ
VICINA! | IMPERIUM | 116 |
AL MOMENTO DELLA SUA MASSIMA ESPANSIONE, L’IMPERO ROMANO ARRIVÒ A INCLUDERE TERRITORI COMPRESI FRA L’EUROPA SETTENTRIONALE E L’ESTREMO ORIENTE, I CUI LIMITI ERANO SPESSO SEGNATI DA IMPONENTI OPERE DI DIFESA
P
er il mondo antico il centro del mondo era rappresentato dal Mar Mediterraneo, attorno al quale si erano sviluppate le piú antiche civiltà. All’apogeo dell’impero i Romani lo ribattezzarono Mare Nostrum, poiché tutti i territori che si affacciavano su di esso erano ormai sotto il dominio di Roma. Ma quali erano i confini di quell’impero? I limiti territoriali delle regioni controllate seguivano generalmente l’andamento geomorfologico e, in modo particolare, le linee naturali costituite dai fiumi, come fu, per esempio, per il Reno e per il Danubio. Per la difesa delle frontiere i Romani non impiegarono sbarramenti, muraglie e fossati, tranne poche eccezioni, come il Vallo di Adriano, il limes germanico-retico e il fossatum Africae, in quanto il limes, in sostanza, era un confine aperto e non vi erano demarcazioni dei territori nette come quelle in uso negli Stati moderni.
Le frontiere erano comunque attrezzate e sorvegliate, con una difesa che, per gran parte dell’età imperiale, era strutturata in profondità, con avamposti, torri e forti, almeno sino alle prime minacciose invasioni barbariche. La frontiera piú settentrionale dell’impero romano fu il Vallo di Adriano, una fortificazione in pietra, che segnava il confine tra la Britannia e la Caledonia (l’attuale Scozia), fatto costruire dall’imperatore Adriano per prevenire le frequenti incursioni delle tribú dei Pitti. I Romani successivamente si spinsero circa 160 km piú a nord, erigendo qui il Vallo che prese il nome dell’imperatore Antonino Pio, che ne aveva voluto la realizzazione, anche se pochi anni piú tardi, dovettero ripiegare all’interno del vallum precedente. Di particolare interesse è il forte romano di Vindolanda, l’odierna Chesterholm, nei pressi del Vallo di Adriano, edificato tra il I e
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AI CONFINI DEL MONDO
il II secolo, e piú volte ricostruito, che accoglieva unità ausiliarie. Nel forte sono venute alla luce piú di cinquecento tavolette di legno, scritte dai soldati della guarnigione, perlopiú databili tra il 90 e il 110, che costituiscono un prezioso documento su come doveva essere la vita ai margini dell’impero. Dalle tavolette si evincono non solo
interessanti informazioni sul servizio militare in una zona di frontiera, ma si hanno anche testimonianze amene, come le lettere delle mogli degli ufficiali, che erano al seguito dei mariti, sebbene ai soldati, almeno sino all’imperatore Settimio Severo, la legge proibisse di contrarre il matrimonio e tantomeno di portare con sé la coniuge.
Una sorta di protettorato
Da sinistra, in senso orario replica moderna di un’armatura, elmo funerario e spada, dal mausoleo di Shi Huangdi. 221-210 a.C. Xi’an, Istituto di Archeologia dello Shaanxi.
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Nella parte orientale dell’impero non vi fu mai un vero e proprio limes, nel senso che qui Roma esercitava una forte influenza su alcuni regni clientes, al di là dei quali vi era il potente regno dei Parti, gli acerrimi nemici di sempre. Infatti, portata a compimento l’espansione militare nei territori ritenuti strategici, nelle altre regioni poste ai margini del mondo romano vennero creati dei sistemi statali di vassallaggio e di semivassallaggio, attraverso rapporti e trattati con i re e i potentati locali, attuando in tal modo una sorta di protettorato su queste aree e costituendo zone-cuscinetto tra i confini dell’impero e ciò che si trovava al di fuori di esso, vale a dire il mondo barbarico. Una condizione imprescindibile perché ciò avvenisse era che i Romani consolidassero la
Statue di un cavaliere e del suo cavallo bardato facenti parte dell’«armata di terracotta», scoperta a Xi’an in una fossa attigua alla tomba del primo imperatore della Cina, Ying Zheng, poi proclamatosi Shi Huangdi. 221-210 a.C. Xi’an, Museo dei Guerrieri e dei Cavalli di Terracotta dell’Imperatore Shi Huangdi. I contatti fra Roma e l’impero cinese sono attestati già da epoca molto antica e furono stimolati dai traffici commerciali che si svolgevano lungo il percorso che divenne poi noto come Via della Seta.
loro influenza e i loro legami con l’élite dirigente dei territori di cui ricercavano l’appoggio. In tale scenario la catena montuosa del Caucaso rappresentava una barriera naturale contro le incursioni delle tribú nomadi e bellicose del Caucaso settentrionale verso il versante meridionale e quei territori chiamati Transcaucasia e da qui ancora piú a sud sino all’Asia Minore. Nel I-II secolo Roma impiantò una serie di fortezze per guarnigioni permanenti sulla sponda pontica del Caucaso e precisamente ad Apsaros (l’attuale Gonio, nei pressi della città di Batumi), Phasis (l’odierna Fasi), Sebastopolis (oggi Sukhumi) e Pitiunta (Bichvinta), il cui compito era di combattere i pirati, unitamente alla Classis Pontica, la flotta romana che pattugliava il Mar Nero meridionale e orientale, di respingere i frequenti attacchi delle
popolazioni bellicose che abitavano le montagne del Caucaso settentrionale e di garantire la sicurezza dei commerci. Il forte romano di Apsaros, attivo, come testimonia Plinio il Vecchio, già negli anni Settanta del I secolo, era uno dei principali punti di difesa che facevano parte del sistema di fortificazione creato da Roma a ridosso dei confini orientali dell’impero. Arriano, come egli stesso racconta nel suo Periplo del Ponto Eusino, su incarico dell’imperatore Adriano andò a ispezionare i forti costruiti lungo il confine a ridosso del Ponto, controllandone le capacità di difesa. Egli visitò cosí per la prima volta il forte di Apsaros, in cui, precisa, era di stanza una guarnigione di cinque coorti, senza dubbio unità ausiliarie, verificandone la capacità di affrontare una battaglia. Grazie alle roccaforti romane costruite sulla
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AI CONFINI DEL MONDO | La legione dispersa | Il villaggio di Zhelaizhai, centro rurale nei pressi del deserto del Gobi (nella contea di Yongchang, provincia cinese di Gansu), è oggi celebre perché molti dei suoi abitanti hanno un aspetto sensibilmente diverso dal resto della popolazione cinese, con caratteristiche somatiche molto simili a quelle occidentali. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, Homer Hasenpflug Dubs (1892-1969), professore di storia cinese all’Università di Oxford, basandosi sugli Annali degli Han Anteriori (dinastia che governò la Cina dal 206 a.C. al 220 d.C.), spiegò questa inusuale
costa orientale del Mar Nero sino alla metà del III secolo l’impero romano controllava militarmente e politicamente i territori situati a sud del Grande Caucaso e tutte le piú importanti vie di comunicazione per terra e per mare con il Caucaso e con l’Asia Minore, rendendo possibile lo sviluppo dei commerci tra Roma e l’Oriente.
Avorio e gusci di tartaruga Ma i Romani andarono ben oltre i loro confini. Nel 97 i Cinesi inviarono un loro ambasciatore, di nome Kan Ying ad Antiochia, per cercare di stabilire contatti diretti con i Romani. Del resto i Cinesi avevano notizie sull’impero romano, da loro denominato Ta-ch’in, cioè Grande Cina. Già sul finire del I secolo commercianti romani, alla ricerca di nuove merci e nuovi mercati, raggiunsero le coste dell’Asia sud-orientale sino alle foci del fiume Mekong e a Cattigara, sull’attuale golfo del Tonchino. Secondo gli Annali degli Han il contatto diretto con i Cinesi avvenne ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio, e piú precisamente nel 166, quando «un’ambasceria» giunse in Cina, con
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diffusione di tratti caucasici nel nord-ovest della Cina, sostenendo che gli abitanti di Zhelaizhai discendessero dai legionari partiti da Roma al seguito del triumviro Marco Licinio Crasso per attaccare i Parti e sconfitti nel 53 a.C. a Carre, oggi in Turchia. Di alcuni di quei soldati, perlopiú uccisi o fatti prigionieri, si persero misteriosamente le tracce. Fuggiti verso nord-est, essi sarebbero stati in seguito arruolati come mercenari dagli Unni. Negli Annali si legge di una battaglia vinta presso la città di Zhizhi (oggi in Uzbekistan) nel 36 a.C. dalle forze dell’impero cinese contro uno strano esercito,
tutta probabilità allo scopo di avere rapporti commerciali diretti. Cosí viene documentato quell’incontro: «Nel nono anno del periodo Yen-shi [nel 166 appunto], durante il regno dell’imperatore Huan-ti, il re di Ta-ch’in [l’impero romano], An-tun [forse Marco Aurelio], mandò un’ambasceria, che, venendo dalla frontiera di Jih-nan [l’attuale Annam], offrí avorio, corna di rinoceronte e gusci di tartaruga». Visti i doni, ben poco preziosi, che dovettero certamente meravigliare i Cinesi, che avevano un’immagine ben diversa della ricchezza e potenza dell’impero romano, è probabile che non si trattasse di ambasciatori mandati da Marco Aurelio, bensí di intraprendenti mercanti, arrivati in Cina molti secoli prima di Marco Polo, che, per fare affari in un nuovo e ricco mercato, fecero il nome dell’imperatore per cercare di trarne vantaggi. Alla fine dell’impero romano quel mondo globalizzato che consentiva addirittura di giungere sino in Cina lasciò il posto all’insicurezza dell’Alto Medioevo, in cui ladroni e pirati minacciavano continuamente i viaggi e gli spostamenti.
In alto i volti di alcuni degli abitanti della città cinese di Zhelaizhai, che mostrano tratti simili a quelli occidentali, da alcuni attribuiti all’antica presenza nella zona di soldati romani. Nella pagina accanto, in alto resti umani rinvenuti a Zhelaizhai, con caratteristiche affini a quelle delle etnie occidentali. È stato ipotizzato che possa trattarsi dei superstiti delle truppe guidate da Crasso e sconfitte a Carre nel 53 a.C. Nella pagina accanto, in basso ricostruzione di una «testuggine» romana.
guidato dal generale unno Jzh Jzh, che utilizzava tecniche militari proprie dell’antica Roma. I soldati, infatti, avrebbero adottato in combattimento una formazione a «scaglia di pesce», che ricorda la «testuggine», tipica delle legioni romane. Negli Annali, inoltre, si descrive il sistema di fortificazione a doppia palizzata che circondava la città unna, uguale a quello dei castra romani. Dopo la presa di Zhizhi, i Cinesi avrebbero deportato i legionari romani nel Gansu, impiegandoli come guardie di confine in una città fondata dagli stessi soldati: Liqian, situata, secondo una
mappa cinese del I secolo a.C., presso l’odierna Zhelaizhai. L’origine romana del sito sarebbe confermata anche dagli scavi che, negli anni Novanta del Novecento, hanno localizzato resti di fortificazioni simili alle strutture difensive romane e utensili di tipo occidentale. Nonostante molti studiosi siano convinti che gli abitanti del distretto di Zhelaizhai siano i discendenti di quell’antico esercito e le analisi del DNA eseguite sulla cittadinanza abbiano rilevato per il 46% della popolazione un legame genetico con gli Europei, il mistero rimane aperto. (red.)
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L’IMPERO
27 a.C.-14 d.C.
41-54 d.C.
AUGUSTO
CLAUDIO
Gaio Giulio Cesare Ottaviano (63 a.C.-14 d.C.), figlio adottivo di Cesare e primo imperatore romano. Sposa in terze nozze Livia Drusilla e ne adotta il figlio Tiberio.
Claudio Tiberio Druso Nerone Germanico (10 a.C.-54 d.C.), acclamato imperatore dai pretoriani nel 41 d.C., dopo l’uccisione di Caligola, sposa prima Messalina e poi Agrippina Minore. Muore avveIenato nel 54 d.C. 54-68 d.C.
14-37 d.C.
NERONE
TIBERIO
37-41 d.C.
Lucio Domizio Enobarbo (37-68 d.C.), figlio di Agrippina Minore. Succeduto a Claudio, fa uccidere il figlio di lui Britannico, la madre e infine la moglie Ottavia (figlia di Claudio), per sposare Poppea. Scampato alla congiura di Pisone nel 66 d.C., è costretto al suicidio dal Senato.
CALIGOLA
68-69 d.C.
Tiberio Claudio Nerone (42 a.C.-37 d.C.), figlio di Livia Drusilla e di Tiberio Claudio Nerone. Sposa nel 12 d.C. Giulia, la figlia di Augusto, al quale succede nel 14 d.C. Sotto il suo impero viene crocifisso Gesú Cristo.
Gaio Giulio Cesare Germanico (12-41 d.C.), soprannominato Caligola per la calzatura militare (caliga) che portava da bambino. Designato da Tiberio a succedergli, assume l’impero nel 37 d.C. Vittima di una congiura, muore nel 41 d.C.
GALBA Servio Sulpicio Galba (3 a.C.-69 d.C.). Eletto in Spagna dalle truppe nel 68 d.C. e riconosciuto imperatore dal Senato, viene ucciso nel 69 dai pretoriani, seguaci di Otone.
I GIULIO-CLAUDII: DA CESARE A NERONE C. Giulio Cesare 46-44 a.C.
Marco Antonio
Ottavia
Giulia Azia Scribonia
C. Ottaviano Augusto
27 a.C.-14 d.C.
Gneo Domizio Enobarbo
Antonia Maggiore
Gneo Domizio Agrippina Enobarbo Minore Nerone
54-68 d.C.
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Antonia Minore
Livia Drusilla Tiberio
Agrippa Giulia
14-37 d.C.
G. Cesare L. Cesare Giulilla Agrippina Agrippa Maggiore Postumo Nerone
Druso
Drusilla
Tiberio Claudio Nerone Antonia Druso Minore
Germanico Livilla Claudio
41-54 d.C.
Caligola
37-41 d.C.
Agrippina Minore
96-98 d.C.
OTONE
NERVA
Marco Salvio Otone (32-69 d.C). Primo marito di Poppea (poi moglie di Nerone), aderisce alla rivolta di GaIba, poi lo fa uccidere ed è acclamato imperatore dai pretoriani, ma viene sconfitto da Vitellio a Bedriaco e si toglie la vita.
Marco Cocceio Nerva (30 circa-98 d.C.), di estrazione senatoria, giurista e uomo di cultura, viene eletto dopo l’uccisione di Domiziano. Adotta Traiano, appartenente all’aristocrazia provinciale spagnola. 98-117 d.C.
69 d.C.
VITELLIO Aulo Vitellio (15-69 d.C.). Acclamato imperatore dalle legioni renane avverse a Otone, viene sconfitto da Vespasiano a Cremona e muore durante un tumulto a Roma. 69-79 d.C.
VESPASIANO Tito Flavio Vespasiano (9-79 d.C.), generale di Nerone in Giudea, è designato imperatore dalle legioni d’Oriente in opposizione a Vitellio. Alla morte di questi torna in Italia e governa con il consenso del Senato, nominando coreggente il figlio Tito, che gli succede nel 79 d.C.
TRAIANO Ulpio Traiano (Italica in Spagna, 53-117 d.C.), associato all’impero da Nerva nel 97, gli succede nel 98, sposa Plotina e adotta Adriano. Conquistata la Dacia, muore a Selinunte in Cilicia dopo una vittoriosa spedizione contro i Parti. Sotto di lui l’impero raggiunge la sua massima estensione. 117-138 d.C.
ADRIANO
Publio Elio Adriano (Italica, 76-138 d.C.), cugino di Traiano, gli succede nel 117 d.C. e ne sposa la nipote Vibia Sabina. Non avendo figli adotta Tito Aurelio Antonino per garantire la successione.
79-81 d.C.
TITO Tito Flavio Vespasiano (39-81 d.C.), al seguito di Vespasiano conduce a termine la guerra contro i Giudei, conquistando Gerusalemme (70 d.C.). Sotto il suo regno avviene l’eruzione del Vesuvio che distrugge Pompei ed Ercolano (79 d.C.). 81-96 d.C.
DOMIZIANO Tito Flavio Domiziano (51-96 d.C.), figlio di Vespasiano succede al fratello Tito e instaura un regime dispotico che gli inimica la classe senatoria. Muore vittima di una congiura, nel 96 d.C.
DEI CESARI
69 d.C.
138-161 d.C.
ANTONINO PIO Tito Aurelio Antonino (86-161 d.C.) assicura all’impero un periodo di pace, sposa Faustina e, morti i figli maschi, adotta come successori Marco Aurelio, marito della figlia Faustina Minore, e Lucio Vero, figlio di Elio Vero (già scelto da Adriano come successore, ma morto prematuramente).
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L’IMPERO
161-180 d.C.
193 d.C.
MARCO AURELIO
PERTINACE
Marco Elio Aurelio Vero (121-180 d.C.), marito di Faustina, figlia di Antonino Pio, regna con il fratello adottivo Lucio Vero fino alla morte di lui (169), combatte contro i Parti in Oriente e i Quadi e i Marcomanni sul Danubio. Filosofo stoico, scrive I ricordi. 161-169 d.C.
LUCIO VERO Lucio Aurelio Vero (130 circa-169 d.C.), adottato da Antonino Pio nel 138 insieme con Marco Aurelio, che lo associa all’impero nel 161 d.C.
180-192 d. C.
COMMODO Lucio Elio Aurelio Commodo (161-192 d.C.), figlio e successore di Marco Aurelio, conclude la pace con i Marcomanni. Divenuto un despota sanguinario, viene ucciso in una congiura di palazzo.
Publio Elvio Pertinace (126-193 d.C.), viene assassinato dai pretoriani dopo soli 80 giorni di regno. 193 d.C.
DIDIO GIULIANO Marco Didio Giuliano (133-193 d.C.), acclamato dai pretoriani, dopo due mesi viene messo a morte per ordine di Settimio Severo, eletto dalle legioni in Pannonia. 193-211 d.C.
SETTIMIO SEVERO Lucio Settimio Severo Pertinace (Leptis Magna, 146-211 d.C.), marito di Giulia Domna, nata nel 158 circa a Emesa in Siria, ha due figli, Caracalla e Geta. Riorganizza lo Stato e riordina le finanze, combatte contro i Parti e rende piú sicuri i confini dell’impero.
I SEVERI: DA SETTIMIO AD ALESSANDRO P. Settimo Geta
Fulvia Pia
Settimio Severo Pertinace 193-211 d.C.
Marco Aurelio Antonino Caracalla 211-217 d.C.
P. Settimio Geta 211-212 d.C.
Giulio Bassiano
Giulia Soemia
Giulia Domna
Giulia Mesa
Giulio Avito
Giulia Soemia
Giulia Mamea
Valerio Marcello
Marco Aurelio Antonino Elagabalo 218-222 d.C.
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Gessio Marciano
Marco Aurelio Severo Alessandro 222-235 d.C.
DEI CESARI
211-217 d.C.
235-238 d.C.
CARACALLA
MASSIMINO TRACE
Marco Aurelio Antonino Caracalla (188-217 d.C.), figlio di Settimio Severo, associato dal padre nel 198, gli succede con il fratello Geta, che poi uccide. Nel 212 concede la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero (Constitutio antoniniana). Viene fatto uccidere dal prefetto del pretorio Macrino.
Gaio Giulio Vero Massimino (170 circa-238 d.C.), acclamato a Magonza, combatte i Germani; frattanto le legioni d’Africa acclamano Marco Antonio Gordiano e il figlio. La rivolta si estende all’Italia e Massimino è ucciso dai suoi stessi soldati ad Aquileia. 238 d.C.
GORDIANO I
211-212 d. C.
Marco Antonio Gordiano (157 circa-238 d.C.), acclamato imperatore dalle legioni d’Africa, si associa il figlio Gordiano II. Venuto a conoscenza della morte di lui in battaglia, si uccide.
GETA
238 d.C.
Publio Settimio Geta (189-212 d.C.), associato all’impero dal padre nel 209, ucciso nel 212 dal fratello Caracalla nelle braccia della madre Giulia Domna, viene sottoposto alla damnatio memoriae.
GORDIANO II
217-218 d.C.
238 d.C.
MACRINO
PUPIENO
Marco Opellio Macrino (Mauretania, 164-218 d.C.), fa uccidere Caracalla ma è a sua volta ucciso dalle truppe che acclamano il piccolo Elagabalo, nato da Giulia Soemia, figlia di una sorella di Giulia Domna.
Clodio Massimo Pupieno (?-238 d.C.), eletto dal senato con Balbino, è ucciso dai pretoriani.
218-222 d.C.
ELAGABALO
Gordiano Il (192 circa-238 d.C.), acclamato imperatore con il padre in Africa, è vinto dal legato di Numidia e muore in combattimento.
238 d.C.
BALBINO
Decimo Celio Calvino Balbino (178-238 d.C.), eletto dal senato con Pupieno, ne condivide la sorte per mano dei pretoriani.
Marco Aurelio Antonino Elagabalo (204-222 d.C.), figlio di Giulia Soemia (effettiva detentrice del potere, con la madre Giulia Mesa) instaura il culto solare di El Gabal. Nel 221 adotta il cugino Severo Alessandro, ma è ucciso dai pretoriani insieme con la madre.
238-244 d.C.
222-235 d.C.
244-249 d.C.
SEVERO ALESSANDRO
FILIPPO L’ARABO
Marco Aurelio Severo Alessandro (208-235 d.C.), figlio di Giulia Mamea, seconda figlia di Giulia Mesa, instaura un regno tradizionalista-illuminato.Viene ucciso a Magonza, insieme con la madre, dai soldati.
Marco Giulio Filippo (204 circa-249 d.C.), acclamato dai soldati che avevano ucciso Gordiano III. Celebra il millenario di Roma (248), marcia contro Decio, ma è sconfitto a Verona e ucciso.
GORDIANO III Gordiano III (?-244 d.C.), nipote di Gordiano I, è acclamato imperatore dai pretoriani. Viene ucciso dai soldati presso Dura Europos.
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L’IMPERO
249-251 d.C.
DECIO
Spagna, con capitale a Treviri (imperium Galliae).
Messio Traiano Decio (200 circa-251 d.C.), nato in Pannonia, acclamato imperatore vince Filippo a Verona, governa con i figli Etrusco e Ostiliano; muore con il figlio Etrusco combattendo ad Abritto sul Mar Nero.
268 d.C.
251-253 d.C.
268-270 d.C.
TREBONIANO GALLO
VITTORINO
Vibio Treboniano Gallo (207 circa-253 d.C.), si associa il figlio Volusiano, ma le legioni della Mesia acclamano il legato Marco Emilio Emiliano, e Gallo e Volusiano vengono uccisi dai loro soldati presso Terni.
Piavonio Vittorino, ufficiale del pretorio di Postumo, poi suo successore nell’imperium Galliae.
253 d.C.
EMILIANO Marco Emilio Emiliano (206 circa-253 d.C.), legato imperiale in Mesia, dopo tre mesi è attaccato da Valeriano, a sua volta acclamato imperatore dopo la morte di Gallo. Viene quindi ucciso dai suoi soldati.
MARIO Mario, successore per pochi giorni di Postumo nell’imperium Galliae.
268-270 d. C.
CLAUDIO IL GOTICO Marco Aurelio Valerio Claudio (219-270 d.C.), dalmata, riesce a fermare i barbari ad Aquincum (Budapest) e a Naisso in Mesia (269). Muore di peste. 270-274 d.C.
253-260 d.C.
TETRICO
VALERIANO
Esuvio Tetrico, ultimo imperatore gallico, vinto da Aureliano.
Publio Licinio Valeriano (195 circa-260 d.C.), dopo una persecuzione anticristiana, in un impero assediato dai barbari affida l’Occidente al figlio Gallieno e combatte i Persiani, ma cade prigioniero di Sapore l. 253-268 d.C.
GALLIENO Publio Licinio Egnazio Gallieno (218 circa-268 d.C.), non tenta di liberare il padre e sospende la persecuzione contro i cristiani. Combatte Postumo in Gallia e Zenobia, in Oriente. Muore vittima di una congiura.
270-275 d.C.
AURELIANO Lucio Domizio Aureliano (215-275 d.C.), dalmata, riunifica l’impero combattendo contro i barbari e contro il regno della regina Zenobia a Palmira. Fortifica Roma con una nuova cinta muraria. Viene ucciso nel 275 d.C. 275-276 d.C.
TACITO Marco Claudio Tacito, eletto dal senato come successore di Aureliano, vince i Goti in Cilicia, poi rimane vittima di un attentato.
258-268 d.C.
POSTUMO Marco Cassiano Latino Postumo, acclamato nel 258 dai suoi soldati contro Gallieno, crea un regno autonomo in Gallia, Germania, Britannia,
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276-282 d.C.
PROBO Marco Aurelio Probo (232-282 d.C.), riafferma l’unità
DEI CESARI
dell’impero vincendo i Goti in Asia Minore e i Franchi e gli Alemanni in Gallia. Viene ucciso a Sirmio dai suoi stessi soldati.
(293) per l’Oriente, sposa la figlia di lui, poi gli succede come imperatore d’Oriente. Tenta inutilmente di contrastare l’ascesa di Costantino.
282-285 d.C.
305-306 d.C.
CARO
COSTANZO I CLORO
Marco Aurelio Caro (223 circa-285 d.C.), prefetto del pretorio di Probo, acclamato imperatore dai soldati della Rezia e del Norico, durante una spedizione in Persia muore, forse ucciso dal prefetto del pretorio Apro.
Costanzo I Cloro (250 circa-306 d.C.), prima Cesare (293) di Massimiano in Occidente (sposa la figliastra di lui Teodora, ripudiando Elena, già madre di Costantino), poi imperatore d’Occidente. Muore combattendo in Britannia.
283-285 d.C.
306-307 d.C.
CARINO E NUMERIANO
FLAVIO SEVERO
Figli e successori di Caro, Marco Aurelio Carino in Occidente, Marco Aurelio Numerio Numeriano in Oriente, ambedue uccisi dalle truppe: Numeriano nel 284 in Persia, Carino dai suoi soldati, malgrado la vittoria ottenuta in Mesia contro un ufficiale dalmata, Valerio Diocle (Diocleziano). 284-305 d.C.
DIOCLEZIANO Gaio Valerio Diocle (247 circa-313 d.C.), nato in Dalmazia, acclamato imperatore dai soldati, attua la restaurazione imperiale con la tetrarchia (divisione dell’impero in occidentale e orientale con due Augusti e due Cesari al potere). Fissa la propria residenza a Nicomedia. Attua un’importante riforma del sistema monetario. Abdica il 1° maggio del 305. 286-305 d.C.
MASSIMIANO Erculio Massimiano (245 circa 310 d.C.), eletto Augusto per l’Occidente regna con Diocleziano, portando la residenza a Milano, e vince una ribellione della Gallia. Abdica, insieme con Diocleziano, i 1° maggio del 305. 305-311 d.C.
GALERIO Gaio Valerio Massimiano Galerio (250 circa311 d.C.), scelto da Diocleziano come Cesare
Flavio Severo, Cesare di Costanzo Cloro (305), non riesce a succedergli alla morte di lui nel 306, perché ostacolato da Costantino, figlio illeggittimo di Costanzo Cloro, e da Massenzio. 306-312 d.C.
MASSENZIO Marco Aurelio Valerio Massenzio (275 circa-312 d.C.), figlio di Massimiano Erculio, acclamato dai pretoriani a Roma, si contrappone a Costantino, ma viene vinto nella battaglia di Ponte Milvio (312) e annega nel Tevere. 308-313 d.C.
MASSIMINO DAIA
Gaio Galerio Valerio Massimino (?-313 d.C.), eletto Cesare sotto Galerio (305), alla morte di lui (311) partecipa alla lotta per il potere, unificando l’Oriente. Divenuto Augusto con Costantino e Licinio, muore nel 313. 306-337 d.C.
COSTANTINO Costantino (280 circa-337 d.C.), nato da Costanzo Cloro ed Elena, acclamato imperatore dall’esercito in Britannia (306) alla morte del padre, sconfigge Massenzio e diviene imperatore dell’Occidente. Nel 313, con l’editto di Milano, accorda piena legalità al cristianesimo.
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L’IMPERO
308-324 d.C.
LICINIO
restaura il culto pagano. Muore durante una spedizione contro i Parti.
Valerio Licinio Liciniano (250 circa-325 d.C.), Augusto dell’Occidente (308) e alleato di Costantino contro Massimino e Massenzio, ottiene in seguito l’impero d’Oriente. Rotta l’alleanza con Costantino è vinto da lui ad Adrianopoli e a Crisopoli nel 324.
363-364 d.C.
337-340 d.C.
364-375 d.C.
COSTANTINO II
VALENTINIANO I
Costantino II (316 circa-340 d.C.), primogenito di Costantino, nella divisione con i fratelli Costanzo e Costante ottiene la prefettura delle Gallie; tenta di impadronirsi del territorio di Costante, ma è da lui sconfitto e ucciso presso Aquileia.
Valentiniano I (321-375 d.C.), ufficiale pannonico, muore in Pannonia durante una spedizione contro i Quadi.
337-350 d.C.
COSTANTE Costante (320 circa-350 d.C.), figlio terzogenito di Costantino, ottiene l’impero d’Occidente dopo la morte di Costantino Il. Viene ucciso dal ribelle Magnenzio, un Gallo semibarbaro, che lo aveva dichiarato deceduto. 337-361 d.C.
COSTANZO II Costanzo II (318-361 d.C.), secondo figlio di Costantino e Augusto in Oriente, dopo la morte dei fratelli sconfigge Magnenzio nella battaglia di Mursa (353) e rimane unico imperatore.
GIOVIANO Gioviano (?-364 d.C.), dopo la morte di Giuliano assume il potere, restaura il cristianesimo e conclude una rovinosa pace con i Persiani.
364-378 d.C.
VALENTE Valente (328-378 d.C.), fratello e co-Augusto di Valentiniano, prima accoglie i Visigoti nell’esercito, poi in seguito alla loro ribellione li combatte nei Balcani, ma è ucciso nella battaglia di Adrianopoli. I Goti arrivano alle porte di Costantinopoli. 375-383 d.C.
GRAZIANO Flavio Graziano (359-383 d.C.), figlio di Valentiniano, succede al padre nel 375 con il frateIlastro Valentiniano II. Nel 379 nomina Teodosio imperatore d’Oriente. Muore a Lione in seguito alla rivolta dello spagnolo Massimo. 375-392 d.C.
350-353 d.C.
MAGNENZIO Flavio Magno Magnenzio (?-353 d.C.), di origine gallica, generale di Costante lo fa uccidere e si proclama Augusto (350), ma è sconfitto da Costanzo e si uccide.
VALENTINIANO II Valentiniano II (371-392 d.C.), figlio di Valentiniano, nominato Augusto dalle truppe dell’Illirico, regna dapprima con la madre Giustina. All’avvento di Teodosio viene relegato in Gallia. È ucciso nella ribellione del suo generale Arbogaste.
360-363 d.C.
GIULIANO L’APOSTATA Flavio Claudio Giuliano (332-363 d.C.), acclamato Augusto dai soldati della Gallia (360), alla morte di Costanzo II rimane unico imperatore. Dal 351 rinnega il cristianesimo e
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392-394 d.C.
EUGENIO Flavio Eugenio (?-394 d.C.), proclamatosi imperatore alla morte di Valentiniano II, è vinto da Teodosio al fiume Frigido (394).
TEODOSIO I Teodosio (347-395 d.C.), elevato all’impero orientale nel 379, combatte l’eresia ariana con sant’Ambrogio e, nell’editto di Tessalonica (380), proclama l’ortodossia cristiana, sancita dal Concilio di Nicea, unica religione di Stato.
senatore gallico, posto sul trono da Genserico, presto deposto, diviene vescovo di Piacenza. 457-461 d.C.
MAGGIORIANO Giulio Valerio Maggioriano (405-461 d.C.), generale, nominato imperatore dal barbaro Ricimero, poi da lui ucciso.
395-408 d.C.
ARCADIO Arcadio (377-400 d.C.), figlio di Teodosio, sale al trono d’Oriente. Da allora, l’impero si scinde in due parti distinte, orientale e occidentale.
461-465 d.C.
LIBIO SEVERO Libio Severo (?-465 d.C.), usurpatore dell’impero, non riconosciuto in Oriente.
395-423 d.C.
467-472 d.C.
ONORIO
ANTEMIO
Onorio (384-423 d.C.), figlio di Teodosio, ottiene l’impero d’Occidente sotto la tutela di Stilicone, generale romano di origine vandala, vincitore dei Visigoti poi ucciso per una ribellione delle truppe a Pavia (408).
Antemio Procopio (?-472 d.C.), nominato Cesare dall’imperatore d’Oriente, poi acclamato Augusto in Italia, viene assediato e ucciso a Roma dal genero Ricimero. 472 d.C.
423-425 d.C.
GIOVANNI
DEI CESARI
379-395 d.C.
OLIBRIO
Giovanni, funzionario imperiale, usurpa per due anni l’impero d’Occidente, quindi viene ucciso.
Olibrio (?-472 d.C.), della famiglia degli Anicii, nominato da Ricimero, rimane sul trono solo pochi mesi.
425-455 d.C.
473-474 d.C.
VALENTINIANO III
GLICERIO
Valentiniano III (419-455 d.C.), figlio del generale Flavio Costanzo e di Galla Placidia (figlia di Teodosio) sotto la cui tutela sale all’impero. Sposa Eudossia, figlia di Teodosio II (imperatore d’Oriente succeduto al padre Arcadio). Uccide il generale Ezio, vincitore di Attila, e a sua volta è ucciso dai soldati di Ezio.
Glicerio, nominato dal burgundo Gundobado, non riconosciuto in Oriente. Sconfitto da Giulio Nepote, diviene vescovo di Salona.
455 d.C.
PETRONIO Petronio Massimo (?-455 d.C.), senatore, succede a Valentiniano e costringe Eudossia a sposarlo, ma è ucciso da Genserico, re dei Vandali. 455-456 d. C.
AVITO Marco Mecilio Eparchio Avito (?-456 d.C.),
474-475 d.C
GIULIO NEPOTE
Giulio Nepote, nominato da Oreste, generale di origine illirica, poi da lui deposto a favore del figlio Romolo Augustolo. 475-476 d.C.
ROMOLO AUGUSTOLO Romolo Augustolo, figlio di Oreste, viene deposto da Odoacre, generale sciro che diviene rex gentium in Italia e patricius dell’imperatore d’Oriente. La sua deposizione segna la fine dell’impero d’Occidente.
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MONOGRAFIE
n. 33 ottobre/novembre 2019 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore: Livio Zerbini è professore associato di storia romana all’Università degli Studi di Ferrara. Illustrazioni e immagini: Shuttertsock: copertina – DeA Picture Library: pp. 14/15, 16/17, 18/19, 39 (alto), 77, 86/87, 89, 90, 95, 116; G. Nimatallah: p. 7; G. Veggi: pp. 10/11; V. Pirozzi: pp. 12 (alto), 52; G. Dagli Orti: pp. 12 (basso), 30, 37 (destra e p. 53), 48/49, 60-61, 68, 80/81, 92/93, 94, 102, 103, 109; A. Dagli Orti: pp. 17 (basso), 36 (alto, a sinistra, e p. 46), 37 (basso, a sinistra, e p. 58), 54/55, 63 (alto e p. 64), 66, 81 (basso), 91, 92; C. Bevilacqua: p. 81 (alto); C. Sappa: 98/99; N. Cirani: pp. 114/115 – Altair4 Multimedia: ricostruzioni alle pp. 8/9, 22-29, 34/35 – Doc. red.: pp. 13, 17 (alto), 19, 20/21, 32/33, 36 (destra e p. 42), 38, 40, 44-45, 47, 56/57, 62/63 (e pp. 76/77), 63 (basso e p. 73), 67, 72, 74/75, 78 (basso), 79 (basso), 80, 82-83, 84, 85, 96, 98, 100-101, 105, 108, 110-111, 112-113, 114, 117, 118-129 – Marka: p. 59 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 39, 41, 50/51, 69, 70/71, 75, 78-79, 84, 88/89, 102/103, 106/107. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: ritratti di epoca imperiale romana. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
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