GLI ETRUSCHI SI RACCONTANO
GLI ETRUSCHI SI RACCONTANO
di
giuseppe m. della fina
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N°36 Aprile/Maggio 2020 Rivista Bimestrale
Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
VO ET CI R DA US LP C AS HI SA TO
ARCHEO MONOGRAFIE
MONOGRAFIE
IN EDICOLA IL 14 APRILE 2020
GLI ETRUSCHI SI RACCONTANO personaggi, tempi e luoghi di Giuseppe M. Della Fina
6. premessa Vite etrusche
52. lars tolumnio L’ultimo duello
I PERSONAGGI
58. arrunte Traditore per vendetta
8. tanaquilla Regina di Roma 14. larth cupures Un homo novus a Velzna 20. vel Il marinaio che fece l’impresa 26. larth Memorie dal sottosuolo 30. velia Domani è un altro giorno... 34. porsenna Lo statista incompreso 40. velthur spurinna Una vita da comandante 44. thefarie velianas Il rinnovamento al potere 48. arnth Cronaca di una battaglia
64. aule Il rapimento di Giunone 70. vel saties Un uomo di larghe vedute
112. dall’accesa a vetulonia Terra di miniere, teatro della dura vita di Larth 113. murlo Il palazzo di Velia 115. chiusi Una capitale per Porsenna
76. aule velthina L’ora del tramonto
118. tarquinia, tombe dipinte I colori delle gesta di Velthur Spurinna
80. un sannita Gli ultimi giorni di Velzna
119. vulci La metropoli di Arnth
88. aulo cecina Quel che resta dell’Etruria 94. un etruscologo Il quadro storico
I TEMPI E I LUOGHI 104. tarquinia Nella città di Tanaquilla 106. orvieto Sulle orme di Larth Cupures, lo straniero 109. cerveteri Qui nacque Vel, grande uomo di mare
121. veio Nel regno di Lars Tolumnio 123. cortona Da Aule all’Accademia 126. vulci, tomba françois La lezione di Vel Saties 127. perugia Aule Velthina e quel contratto scritto sulla pietra 129. volterra L’ombra di Aulo Cecina
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VITE ETRUSCHE di Giuseppe M. Della Fina
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a storia degli Etruschi è stata narrata innumerevoli volte; qui ho cercato di farlo in una maniera originale, dando la parola a singoli protagonisti di quell’affascinante vicenda, noti dalle fonti letterarie latine o greche, o da opere dell’artigianato artistico, o da documenti epigrafici. In altri casi – quando i nomi mancavano – ho scelto di inventare un personaggio plausibile nella sua epoca e di farlo muovere all’interno di spazi ed edifici che l’archeologia ha saputo recuperare e valorizzare. Infatti, tra i protagonisti della nostra storia, non ci sono soltanto loro, ma anche le opere d’arte, i luoghi, i monumenti, i paesaggi giunti sino a noi. Ho voluto tentare questo esperimento per far comprendere che dentro la storia etrusca possiamo «entrare»: possiamo ancora sfiorare oggetti che i personaggi individuati devono avere toccato, entrare in ambienti ai quali anche loro hanno avuto accesso, soffermarci ammirati di fronte a sculture e dipinti che possono averli colpiti. Questa Monografia di «Archeo» si compone perciò di due parti: la prima incentrata sul racconto di un evento storico narrato da un uomo o da una donna, e la seconda dedicata alla descrizione di ciò che è rimasto dei luoghi nei quali essi si trovarono a operare. Un tentativo del genere vuole dare conto del fatto che un viaggio nel tempo – seppure con caratteristiche decisamente singolari – è possibile, è alla nostra portata, e può aiutarci quindi a comprendere che il passato è meno lontano di quello che siamo portati a ritenere. Accingendoci a partire, nell’ideale valigia dobbiamo riporre con cura soltanto il nostro bagaglio di conoscenze e un poco d’immaginazione. | GLI ETRUSCHI SI RACCONTANO | 6 |
Nella pagina accanto statua in terracotta policroma raffigurante un antenato seduto, dalla Tomba delle Cinque Sedie di Cerveteri. 640 a.C. circa. Roma, Musei Capitolini.
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TANAQUILLA REGINA DI ROMA
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ovessi raccontare tre momenti importanti della mia vita, non avrei dubbi. Il primo risale a quando, giovane donna, mio padre chiese di parlarmi. Non accadeva spesso, lui era una delle persone piú rappresentative della città – Tarchna (Tarquinia) – dove ero nata e i suoi impegni erano numerosi. La sua lontananza dalle vicissitudini quotidiane della nostra casa era un dato di fatto, lo accettavo come mia madre e i miei fratelli senza farmi alcun problema.
Nella pagina accanto ritratto immaginario di Tanaquilla, aristocratica etrusca appartenente a una nobile famiglia tarquiniese. Olio su tavola di Domenico Beccafumi, 1520-25. Londra, National Gallery.
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TANAQUILLA Non voglio dire che non s’informasse di noi o che non ci amasse, ma semplicemente che il suo sguardo sulle nostre vicende era gettato da lontano. Le sue preoccupazioni maggiori andavano verso gli interessi della nostra gens e della nostra città, che in parte si sovrapponevano. Non erano impegni di poco conto: occorreva seguire con attenzione gli sviluppi politici e sociali di Tarchna e tentare di condizionarli; curare i rapporti con le altre città-stato etrusche e cercare di rafforzare il peso e il prestigio di cui godeva la nostra; osservare quello che accadeva nel resto della penisola italiana e nel Mediterraneo. La sua richiesta mi colpí e provai a immaginare di cosa volesse parlarmi: intuii che doveva trattarsi di qualcosa tra il privato e il pubblico, ma non riuscivo proprio a ipotizzare l’argomento dell’incontro.
Mia madre – alla quale mi rivolsi – non disse niente: dubito che non sapesse, ma volle provare a farmelo credere. La mattina seguente entrai nella sua stanza, lo trovai che era seduto e con un umore difficile da decifrare: mi parve – per la prima volta ai miei occhi – imbarazzato. L’eccessiva cordialità con la quale mi ricevette, mi fece comprendere che era un poco in difficoltà nei miei confronti. Fece un lungo discorso di cui non riuscivo a intuire dove volesse andare a parare, poi con una chiusura brusca mi disse che ero in età da matrimonio. La notizia che voleva darmi non poteva essere questa: la mia età la conoscevo e sapevo che si stava avvicinando il tempo in cui avrei dovuto lasciare la casa. Gli chiesi, allora, se aveva individuato per me uno sposo. La risposta fu positiva e sorprendente: Lucumone, il figlio del corinzio Demarato. Lo conoscevo appena, il padre era un ricco mercante che aveva lasciato la sua città in Grecia a seguito di furiosi scontri politici e si era fermato a Tarchna dove aveva sposato una donna etrusca avendo due figli: Lucumone, appunto, e Arrunte. Dovevo sposare un uomo che non era un aristocratico etrusco. La sorpresa fu davvero grande, al punto che non riuscii a chiederne il motivo.
Non mi sarei potuta opporre, ma sarebbe stato possibile avanzare qualche perplessità. Non lo feci. Mi sono chiesta in seguito i motivi: il rispetto per la decisione di mio padre; l’inutilità di un’eventuale opposizione; la consapevolezza, sin da bambina, che avrei dovuto dare il mio contributo – anche attraverso un sacrificio – all’accrescimento del potere politico e sociale della gens alla quale appartenevo. Tutti motivi validi e presenti, ma c’era dell’altro: l’intuizione che la mia vita sarebbe stata diversa da quella delle mie coetanee e amiche. Sposare uno straniero, il figlio di un uomo greco di Corinto, avrebbe potuto
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portarmi altrove e offrirmi spazi maggiori. Non sapevo davvero dove quella scelta imposta mi avrebbe condotta, ma intuivo che la mia vita sarebbe stata piú complessa e intensa.
Il secondo momento – a occhi non etruschi – può apparire addirittura comico: ero da qualche tempo una giovane sposa e avevo convinto Lucumone a lasciare Tarchna per recarsi a Roma. La società tarquiniese la conoscevo bene e comprendevo che per mio marito non vi sarebbero stati spazi ampi. Il governo era retto da un’aristocrazia ristretta e orgogliosa e un uomo straniero seppure di notevole valore – come era Lucumone –, non sarebbe riuscito a inserirsi a pieno: i successi di mio marito non avrebbero potuto essere pari a quelli di mio padre. Roma era una città in formazione, nella quale gli spazi di azione erano maggiori. La posizione geografica, la vicinanza con un fiume importante, le caratteristiche delle genti che l’abitavano mi avevano convinto che avrebbe potuto conquistare uno spazio rilevante nella penisola italiana, seppure non significativo come quello di Tarchna. Insistetti a lungo con Lucumone che valutava bene quello che avremmo dovuto lasciare e meno ciò che avremmo potuto trovare.
Alla fine lo convinsi, anche se, senza darlo a vedere – una donna etrusca sa dissimulare –, le sue perplessità avevano iniziato a far breccia nelle mie convinzioni. Dentro di me pensavo che avrei potuto sbagliare e che avrei reso la sua e la mia vita molto piú difficili. Di Roma, in fondo, avevo sentito soltanto parlare da persone che stimavo, ma non ne avevo una conoscenza diretta. In quelle ore di dubbio pensavo al valore di Lucumone e che – se la sorte non fosse stata favorevole – saremmo potuti tornare indietro: la mia gens ci avrebbe accolti di nuovo. Le due considerazioni mi davano un po’ di sicurezza, ma non squarciavano il velo di angoscia sottile che aveva iniziato ad avvolgermi.
Decidemmo comunque di partire e, mentre eravamo lungo il cammino, vidi un’aquila che volteggiava sopra il nostro cocchio. Non feci in tempo a indicarla a Lucumone, che si era già abbassata con le ali tese e gli aveva tolto il pileo – il berretto – dalla testa. Dopo qualche attimo tornò a metterglielo sul capo. Guardai la scena con attenzione e compresi – valutando la zona del cielo da dove l’aquila era venuta e le sue azioni che un dio l’aveva inviata per indicare che Lucumone avrebbe ottenuto alti onori. Mi sentii sollevata ed ebbi la consapevolezza di avere visto giusto: abbracciai
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TANAQUILLA Lucumone, lo strinsi a me e provai a spiegargli che avevamo fatto la scelta migliore. Non so se comprese a pieno il messaggio del dio, o se fu solo colpito dal mio entusiasmo e dalla mia gioia, ma procedemmo felici verso Roma.
Giunti nella nuova città, ci procurammo un alloggio e lui si registrò col nome di Lucio Tarquinio Prisco. Da lí a qualche anno, alla morte del re Anco Marcio, col quale era entrato in consuetudine, divenne il quinto re di Roma. Un re amato e stimato, ma ciò non vuol dire che non abbia avuto oppositori. Tarchna e il mondo etrusco – attraverso di noi – arrivarono a esercitare una qualche forma di egemonia su Roma e sono sicura che riusciranno a tenerla a lungo. Poi si perderà, nuovi equilibri s’instaureranno: niente è per sempre nella storia.
Il terzo episodio accadde alcuni anni piú tardi e mio marito era già saldamente sul trono. Mi trovavo all’interno della reggia, quando sentii gridare e vidi accorrere un gran numero di persone, mi precipitai nella direzione del trambusto ed entrai nella stanza da dove giungevano le grida, praticamente insieme al re: notai un fanciullo che dormiva e fiamme che ardevano attorno alla sua testa. Un servo aveva portato un contenitore con l’acqua ed era pronto a spegnere il fuoco. Lo fermai e dissi di attendere, il fanciullo si svegliò e, contemporaneamente, le fiamme si spensero. Era un prodigio, gli dèi ci avevano mandato un nuovo segno. Chiesi come si chiamasse quel bambino, mi risposero «Servio Tullio».
Riflettei sulla scena prodigiosa alla quale avevo assistito: cosa voleva significare? Quale messaggio volevano inviarci gli dèi? Dentro di me si formò lentamente la consapevolezza che volevano suggerirci che quel fanciullo sarebbe potuto divenire – in tempi difficili – la luce e il sostegno della reggia. Ne parlai con Lucumone e gli suggerii di seguire la formazione di quel fanciullo come fosse il figlio maschio che non avevamo avuto. Dette ascolto alle mie parole e seguimmo l’educazione di Servio Tullio, che crebbe con un’indole davvero reale e nella stima generale. Divenuto adulto, sposò una nostra figlia. Ebbi la ventura che la mia interpretazione dei segni inviati dal Cielo fosse giusta anche quella volta. Vennero tempi difficili e violenti, i figli del defunto re Anco Marcio iniziarono a opporsi a mio marito. Sostenevano che a essi sarebbe toccato anni addietro il regno e che Tarquinio Prisco era un usurpatore. Temevano soprattutto di essere tagliati fuori da un’ulteriore
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successione: il fatto che Servio Tullio avesse sposato nostra figlia li preoccupava molto e dal loro punto di vista posso comprenderlo. Iniziarono a diffondere la voce che Servio Tullio fosse di origine servile e trovarono chi gli prestò ascolto. Arrivarono a progettare l’uccisione del re e organizzarono con cura – ricorrendo a uno stratagemma – il suo assassinio. Coinvolsero nel loro piano due pastori, i quali inscenarono una lite furibonda nel vestibolo della reggia; le guardie accorsero e li fermarono. Essi, allora, chiesero che il re li ricevesse per risolvere con la sua saggezza la questione che li divideva. Mio marito acconsentí di riceverli e ascoltarli: mentre uno stava raccontando la sua versione dei fatti, l’altro lo colpí con una scure sulla testa. Entrambi provarono a fuggire, ma vennero fermati. Giunsi nella sala quando il fatto era appena accaduto, vidi Lucumone a terra, riverso nel sangue, e alcuni uomini a lui fedeli che gli erano accanto.
Compresi subito quello che era accaduto e ciò che bisognava fare: in quel momento non ero la moglie di Lucumone, ma la regina. Detti ordine di serrare la reggia e allontanare i curiosi, quindi mi rivolsi verso il re: compresi che non aveva scampo, ma non lo detti a vedere. Anzi, chiesi a chi era intorno di approntare le cure per la ferita e, contemporaneamente, di chiamare Servio Tullio. Arrivò sconvolto, gli presi la mano destra e gli mostrai il re esangue chiedendogli di gestire la situazione. Non riusciva a parlare, non si muoveva, guardava il corpo a terra del re. Compresi che dovevo scuoterlo e dargli il tempo di riprendersi e organizzarsi. Non so come, mi trovai davanti a una delle finestre della reggia e vidi la folla che rumoreggiava: compresi che dovevo tranquillizzarla. Con tutta la voce che mi rimaneva – sforzandomi di apparire tranquilla – gridai che il re era soltanto ferito, che la scure non era penetrata a fondo nella sua testa, che lo si stava medicando, che da lí a poco si sarebbe mostrato. Dissi inoltre che Tarquinio Prisco aveva ordinato che, nel frattempo, il popolo ubbidisse a Servio Tullio.
Mi restava da scuotere quest’ultimo, incerto e spaventato dall’idea di salire sul trono. Ricordo con esattezza le parole che pronunciai con grande energia: «anche noi, nonostante fossimo stranieri, abbiamo regnato su Roma. Considera chi sei e non da chi sei nato». Riuscii a convincerlo. In quello stesso momento decisi di fare un passo indietro, di ritirarmi, di scomparire in un qualche modo: a mia figlia – tempo dopo – scherzando dissi, parlando tra noi volutamente in etrusco, che, dopo aver dato due re a Roma, potevo pensare finalmente a me stessa.
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LARTH CUPURES
UN HOMO NOVUS A VELZNA
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a giorni, ogni mattina, raggiungo la bottega di uno scalpellino. Esco di casa di buon’ora, percorro la strada che passa davanti al tempio in cui si onora Tinia tinscvil, mi fermo e getto uno sguardo sulla pianura sottostante dove scorre un fiume che confluisce poco piú avanti nel Tevere, e arrivo a scorgere le alture attorno a Camars (Chiusi). Conosco bene quel fiume, come conosco la Roma che attraversa. Sono nato a Veio e quindi non lontano da quella città che sta vivendo una fase di espansione notevole. Ho riflettuto piú volte sul fatto che col tempo possa divenire per i Veienti un serio problema: potranno convivere due città-stato importanti, abitate da genti diverse e situate cosí vicine? Nella pagina accanto cippo a testa di guerriero utilizzato come segnacolo di una tomba, dalla necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo. Seconda metà del VI sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
| TITOLO | 1515|
LARTH CUPURES
Sono nato a Veio e mi sento un etrusco, ma i miei genitori non lo erano. Venivano dalla Sabina e scelsero di lasciare la terra natale per raggiungere Veio. Non fu un viaggio di poco conto, né agevole. La distanza in termini di spazio non era molta e si poteva percorrere via terra e quindi in una situazione di minore rischio rispetto al mare. Ma i due mondi – l’etrusco e il sabino – erano distanti: la lingua differente, gli usi e le abitudini dissimili. Roma – sin dai suoi primi passi – si era mostrata aperta al mondo sabino e cosí come risposta dovettero fare le classi dirigenti veienti. Mi viene da pensare che accolsero strumentalmente i miei antenati. Loro si mostravano soddisfatti del ruolo sociale raggiunto e degli spazi a disposizione, a me – crescendo – apparvero invece i limiti e le contraddizioni.
Ebbi presto chiaro che avrei voluto lasciare Veio appena divenuto adulto; ero piú incerto, invece, su dove potessi trasferirmi. Pensavo spesso di tornare nella Sabina, ma mio padre sosteneva che il futuro sarebbe stato nelle mani degli Etruschi. Intuivo che non lo diceva solo per giustificare la scelta che aveva fatto, ma che la sua riflessione corrispondeva a verità. Allora ero ambizioso e comprendevo che avrei potuto trovare piú agevolmente un mio spazio all’interno di una comunità in fase di formazione. Consideravo inoltre che, contro la mia stessa volontà, ero ormai piú un etrusco che un sabino: parlavo la lingua etrusca in maniera fluente e la sabina con molta piú difficoltà. Crescevo robusto, mi piacevano le armi e con esse iniziai a esercitarmi.
Giunse il momento in cui fui libero di fare la mia scelta: a sorpresa decisi di lasciare Veio per Velzna (Orvieto). Quest’ultima non aveva assetti sociali definiti come quelli di Veio, era stata fondata piú tardi rispetto alle grandi poleis etrusche e quindi le sue classi dirigenti erano ancora in strutturazione. Non vi avrei incontrato l’orgogliosa e ristretta aristocrazia che avevo conosciuto e non apprezzato.
Arath, mio padre, comprese la decisione, o, almeno, dette l’impressione di capirla e a me questo bastava. Quando vi giunsi, la città raccolta sopra la rupe mi dette l’impressione di essere piccola, ricordo che provai a percorrerla tutta a piedi e potei farlo nel giro di breve tempo. I suoi templi e i suoi edifici erano modesti rispetto a
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quelli di Veio e di Roma che conoscevo. Inizialmente, insomma, ne rimasi deluso. Mi chiesi per settimane – insieme a mia moglie – se avessimo fatto la scelta giusta. Un giorno pensai che il confronto su un tema come questo con mia moglie indicava quanto fossi divenuto un etrusco: un sabino non lo avrebbe fatto. Ebbi quindi la certezza che tra i Sabini non sarei potuto tornare e che – se le mie carte dovevo giocarle in Etruria – tanto valeva farlo a Velzna. Iniziai ad apprezzare l’atmosfera di speranza che vi si viveva.
Tutto – seppur ingenuamente – sembrava possibile: acquistare terra, commerciare, arricchirsi, partecipare alla vita pubblica. Ogni anno quasi mutava la forma della città: era come il corpo di un adolescente che a ogni stagione è diverso. Questa continua metamorfosi della città mi piaceva come l’area egualitaria – passatemi l’espressione – che si coglieva tra le nascenti classi dirigenti. Oggi se qualcuno mi chiedesse in che cosa consistesse, gli consiglierei – e non vuole essere un paradosso – di visitare la necropoli ai piedi della rupe. Lí potrebbe comprenderla: l’impianto urbanistico regolare, le tombe quasi tutte eguali, a una sola camera, e le poche maggiori inserite all’interno di una griglia stabilita.
Qui l’orizzonte non era dominato dalle superbe tombe a tumulo delle grandi gentes aristocratiche che altrove segnavano il paesaggio, a ribadire un primato che doveva durare addirittura dopo la morte. Vi si potevano incontrare persone con storie interessanti: ricordo un vecchio che ebbi modo di conoscere quasi subito. Era alto, con un corpo ancora forte nonostante l’età, parlava un etrusco con un accento particolare che talvolta risultava difficile da comprendere: si chiamava Avile Katacina. Non si era chiamato sempre cosí: il nome quando si trovava nel suo paese natale, tra i Celti, era Catacus, un nome abbastanza comune all’interno di quel popolo. Aveva deciso di lasciare il villaggio dove era nato e di scendere in Italia raggiungendo l’Etruria. Mi raccontò che la sua permanenza tra gli Etruschi sarebbe dovuta essere breve: qualche mese al massimo e poi il ritorno vittorioso. Non era andata nella maniera immaginata: raggiunta l’Etruria e Velzna, Catacus aveva scelto di rimanervi. Gli chiesi quale era stata la molla che lo aveva spinto. Il desiderio di raggiungere una regione di cui aveva sentito vantare la feracità della terra? Figurare tra i guerrieri protagonisti di una spedizione gloriosa e che avrebbe consentito di guadagnare un ricco bottino?
Mi rispose – sorridendo – che non lo sapeva: aveva sentito il bisogno di partire e aveva seguito l’istinto.
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LARTH CUPURES La sua scelta era stata felice: era riuscito a inserirsi nell’aristocrazia locale e a raggiungere una posizione di rilievo all’interno della nuova comunità grazie alle sue doti di guerriero e poi a quelle di abile mercante in grado di aprire una via commerciale verso la Gallia per i prodotti di Velzna. Ricercavo i colloqui con lui: la sua storia mi dava forza e speravo che la mia scelta, col tempo, si rivelasse altrettanto indovinata.
Ero già un uomo inserito a pieno nella vita politica e sociale di Velzna, quando ebbi modo d’incontrare un giovane destinato – sono sicuro di non sbagliarmi – a entrare nella storia. Il suo nome è Larth Pursenas (Porsenna), è figlio di genti umbre divenute etrusche, ha intelligenza, visione, costanza e lungimiranza. Tutte doti che servono nella vita pubblica e a lui gli dèi ne hanno date in misura rilevante. Ho la netta sensazione che abbia intuito il potenziale che noi – homines novi – rappresentiamo nella società etrusca e che saprà utilizzarlo. Un giorno mi disse che avrebbe voluto lasciare Velzna per Camars: non detti consigli, dato che ho sempre pensato che serva a poco; mi limitai a raccontargli la mia storia.
I vecchi perdono il filo del loro discorso e cosí ho fatto; dovevo raccontarvi il motivo per il quale vado da qualche tempo, tutti i giorni, nella officina di uno scalpellino: devo pensare alla mia morte e ho commissionato un cippo a testa di guerriero con un riferimento palese al mestiere che ho esercitato. Non deve raffigurare le mie fattezze, un’operazione che mi appare inutile: oggi non assomiglio al ragazzo e all’uomo che fui e quindi quale sarebbe il mio vero ritratto? Quello di oggi, o di ieri, o dell’altroieri? Ho un’ambizione maggiore, vorrei che rappresentasse la mia essenza, quello che davvero sono e sono stato. Mi sembra che stia venendo bene, ho chiesto allo scalpellino d’incidervi l’iscrizione: Larth Cupures, figlio di Arath. Veduta laterale del cippo in forma di testa di guerriero (vedi foto a p. 14) che permette di vedere l’incisione recante il nome del defunto: Larth Cupures, figlio di Arath. Seconda metà del VI sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
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Statua in terracotta policroma raffigurante un personaggio barbato con clamide, facente parte della decorazione frontonale del tempio del Belvedere a Orvieto. V-IV sec. a.C. Orvieto, Museo ÂŤClaudio FainaÂť.
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20 | TITOLO
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IL MARINAIO CHE FECE L’IMPRESA
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ono un marinaio e la sorte ha voluto che abbia partecipato a una battaglia navale destinata ad assicurare a lungo il controllo del Mar Tirreno a noi e ai Cartaginesi. Sono nato a Cisra (Cerveteri) e sin da piccolo mio padre, un pescatore, mi accompagnava sulla spiaggia e lí potevo correre libero sul bagnasciuga giocando con le onde. Piú grande mi fece uscire con lui in mare aperto. Un compagno di giochi – ancora lo ricordo – mi chiese se il mare mi facesse paura: «no – risposi –, nemmeno di notte». Non era una vanteria, era la verità.
Nella pagina accanto testa di guerriero in terracotta dipinta, da Caere (l’odierna Cerveteri), forse parte della decorazione architettonica di edifici pubblici. 510 a.C. Berlino, Altes Museum Antikensammlung.
| TITOLO | 2121|
VEL
Dalla barca in legno di mio padre mi piaceva osservare da lontano il passaggio delle navi della nostra flotta: devo confidare che erano soprattutto le vele a colpirmi. Osservavo con attenzione anche i movimenti degli uomini che le manovravano, seguendo – anzi anticipando – i capricci del vento.
Amando il mare e le navi, per un giovane nato a Cisra, il futuro era quasi segnato: scelsi di diventare un marinaio e di trascorrere il tempo, che gli dèi mi avrebbero concesso di vivere, sul mare. Non era una scelta inconsueta: la nostra città aveva una flotta temuta dagli altri Etruschi, dai Greci e dagli stessi Cartaginesi. Controllavamo buona parte dei traffici nel Tirreno e i nostri porti erano frequentati da genti provenienti dalle diverse terre affacciate sul Mediterraneo. Quell’equilibrio provarono a romperlo i Focei, genti greche che avevano raggiunto l’Occidente e fondato una colonia sulle coste della Gallia meridionale, presso le foci del Rodano: Massalia (Marsiglia). Quell’avamposto consentiva loro di commerciare con i Celti dell’entroterra. Noi e i Cartaginesi non risentimmo inizialmente di quella nuova presenza, che scalfiva appena i nostri interessi. Da parte loro, in quegli anni, i Massalioti stettero attenti a non creare particolari attriti.
Qualche decennio piú tardi, quando l’insediamento di Massalia si era rafforzato e la città aveva potuto fondare altri approdi lungo la costa, essi spinsero altri Focei, costretti a lasciare la madrepatria, a insediarsi in Corsica. Dal loro punto di vista, la scelta era giusta, quasi obbligata per consentire che Massalia crescesse ulteriormente e con essa la presenza focese: avevano bisogno di un sicuro approdo intermedio lungo la rotta per poter ampliare i loro traffici commerciali. A questo punto dovemmo reagire: chi governava allora Cisra decise di coinvolgere nella risposta i Cartaginesi, o forse furono loro a chiedere la nostra alleanza. So, invece, con certezza che quando ci venne dato l’ordine di lasciare il porto, il comandante della nave sulla quale prestavo servizio assicurò che avremmo avuto dalla nostra parte i Cartaginesi.
Non si trattava di un aiuto di poco conto, sapevamo che erano tra i migliori marinai che navigassero nel Mediterraneo. Inoltre le loro navi erano veloci e ben armate. Ne fummo tutti tranquillizzati.
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Non era stato comunicato niente di ufficiale, ma tutti avevamo intuito che stavolta non ci saremmo limitati a mostrare la forza, a cercare d’intimorire i nemici con la sola presenza, ma che avremmo dovuto combattere. Mi chiedevo dove lo scontro potesse avvenire: di fronte a Massalia? Nel Mare Sardo? Quest’ultima mi sembrava l’ipotesi piú probabile: raggiungere Massalia avrebbe significato allontanarci troppo dalle nostre basi. In ogni caso avevamo davanti a noi diversi giorni di navigazione e trascorsi quel tempo guardando il mare con occhi diversi: mi era già accaduto in un’altra occasione mentre stavamo andando verso la battaglia.
Devo confessarvi che in quei giorni il mare mi fece paura, e il fatto che fosse tranquillo aumentava la mia angoscia. Osservare le onde deboli che s’infrangevano sullo scafo della nave quasi giocando; sentire, nelle prime ore dopo l’alba, il tepore del sole sulla pelle; osservare, durante la notte, le migliaia di stelle che splendevano nel cielo, non mi dava pace. Pensavo che avrei potuto perdere tutto questo; provavo a ricacciare indietro – senza successo – la paura che potesse essere l’ultima volta che osservavo tanta bellezza.
Il pensiero andava poi – in maniera ricorrente – a mia moglie e ai miei figli, in particolare a come sarebbe stata la loro vita senza di me. Avevo raggiunto un minimo di agio nella vita, ma ero consapevole che non sarebbe stato sufficiente a garantire loro un futuro sereno. Mi capitò di sognare che sarebbero stati costretti a lasciare la nostra casa e li vidi muoversi senza meta per le strade di Cisra mentre soffiava un vento freddo e impetuoso come accadeva da noi durante l’inverno. Mi svegliai di soprassalto, terrorizzato, e mi chiesi subito per quale motivo gli dèi mi avessero mandato quel sogno. Non seppi trovare la risposta, ma pensai – per la prima volta – che avrei potuto condurre una vita diversa: sarei dovuto stare lontano dal mare e coltivare la terra, o lavorare nell’officina di un fabbro o plasmare l’argilla nella bottega di un vasaio. La mattina seguente, ormai in prossimità della Corsica, salii sul ponte e vidi che eravamo giunti all’appuntamento: la nostra flotta e quella dei Cartaginesi si erano riunite. Mi guardai intorno ed era davvero un bel vedere: navi agili, con vele ben tese, erano dovunque intorno a me. Provai a contarle nell’arco della giornata, mentre ci muovevamo per raggiungere la nostra posizione: erano sessanta, un numero considerevole.
Gli ordini del comandante, le grida dei marinai della mia nave e di quelle piú prossime, il rumore del vento all’impatto con le vele, mi infusero di nuovo coraggio.
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VEL Il giorno successivo avvenne lo scontro, e fu duro. Il piú complicato, lungo e cruento al quale mi sia capitato di prendere parte. Sino alla fine non riuscivo a comprendere nemmeno l’andamento del combattimento. Ci siamo battuti noi e i Cartaginesi con grande ardimento e i Focei – devo ammetterlo – non furono da meno. Dalla parte nostra avemmo un vantaggio: conoscevamo meglio quel tratto del Mediterraneo, dato che vi navigavamo da molto tempo e il mare occorre conoscerlo. Riuscimmo a distruggere quaranta delle loro navi e venti arrivammo a danneggiarle seriamente. A bordo di queste ultime vidi i superstiti fare rotta verso Alalia, l’insediamento che avevano fondato sulle coste della Corsica.
Nelle ore successive presero a bordo le mogli, i figli e i beni che potevano trasportare e fuggirono lontano. Non ci venne dato l’ordine d’inseguirli e ne fui contento.
Nelle settimane che seguirono il nostro dominio sulla Corsica, o, almeno, sulle sue coste, divenne pieno e spero che lo resti a lungo: la posizione dell’isola è particolarmente felice e consente di esercitare un controllo reale sulle rotte commerciali del Tirreno centrale e settentrionale. Inoltre dalla Corsica – come tributo – si può ottenere resina, cera e miele dato che vi si trovano in abbondanza. Sulla mia nave – come sulle altre – vennero caricati i prigionieri che avevamo fatto e che i Cartaginesi con generosità ci avevano lasciato in gran numero. Ebbi modo di osservarli da vicino: alcuni si lamentavano per le ferite riportate e si sentivano le grida anche dalla parte opposta della nave rispetto a quella dove li avevamo riuniti; il loro sangue scorreva sulle tavole del ponte e si diluiva con l’acqua marina portata dagli spruzzi delle onde che s’infrangevano sui fianchi dell’imbarcazione. Altri nemmeno parlavano tra loro: mi è rimasto impresso lo smarrimento presente nei loro occhi dovuto a un futuro divenuto all’improvviso incerto e ostile. A uno provai a parlare con le poche parole di greco che conoscevo: volevo consolarlo, ma non comprese.
Chiuse gli occhi, abbassò la testa e portò le mani sopra di essa, come se avessi voluto picchiarlo. «No, no, no», gridai, e mi allontanai. Il ritorno verso Cisra mi sembrò particolarmente lungo, non vedevo l’ora di entrare in porto e scendere a terra: un desiderio che non avevo mai provato nemmeno dopo settimane di navigazione, o nei giorni in cui il mare era in tempesta. Il mio desiderio fu esaudito: al porto ad attenderci c’erano i
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maggiorenti della città e i nostri familiari. Compresi a pieno in quelle ore che avevamo portato a termine un’impresa storica che sarebbe stata registrata per secoli negli annali della città. Mi sentii felice e orgoglioso. Una felicità e un orgoglio che svanirono qualche giorno dopo, quando appresi che era stato deciso di sacrificare i prigionieri in onore delle nostre divinità. Non volevo credere a quello che veniva raccontato, ma ebbi modo di verificare che la decisione era stata presa veramente. Sono un uomo religioso – chi va per mare lo è sempre –, ma non potevo accettare una scelta simile. Mi sembrava – se mi è consentito dirlo – blasfema. I nostri dèi non avrebbero potuto gradire una simile offerta, anzi l’avrebbero rifiutata. Nessuno tra quelli che avrebbero potuto tornare sulla scelta lo fece e i prigionieri furono lapidati.
Successivamente chiunque si trovasse a passare nel luogo della lapidazione – bestie al pascolo, animali da soma o uomini – rimaneva rattrappito: i nostri dèi non avevano gradito affatto. Per rimediare alla colpa commessa, si decise – dopo aver consultato l’oracolo di Delfi – di tenere giochi ginnici e ippici in loro onore e ancora continuano a svolgersi. Sono ormai vecchio, cammino a fatica e la mia vista è indebolita, ma non sono mancato mai a quei Ludi e non mancherò sino a quando gli dèi mi lasceranno un poco di forza: è stato il mio modo per ricordare e onorare il prigioniero che aveva temuto che potessi picchiarlo.
Scena di battaglia navale raffigurata sulla facciata secondaria del cratere di Aristonothos, da Cerveteri. Metà del VII sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.
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LARTH
MEMORIE DAL SOTTOSUOLO
V
oglio scappare via da questo luogo, il piú lontano possibile. L’ultima volta che sono andato a Vatl (Vetulonia) mi è stato detto di resistere ancora per poco tempo e poi sarei potuto tornare stabilmente in città. Sono trascorsi mesi e nessuno mi ha detto piú niente.
Nella pagina accanto disegno ricostruttivo del lavoro nella miniera etrusca di Buca della Faina, presso Piombino (Livorno). L’immagine è esemplificativa di come si doveva operare negli insediamenti minerari etruschi del VII-VI sec. a.C.
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LARTH Qui tutto ruota intorno all’estrazione del metallo dalla miniera e alla sua prima lavorazione. Vorrei riuscire a descrivere quello che vedo: l’insediamento è ampio e si estende su alcuni ettari di terreno, ma non costituisce un insieme unitario. È articolato, infatti, per quartieri distanti alcune centinaia di metri l’uno dall’altro e costituiti da una decina di case quasi tutte a un unico vano. Ognuno è dotato di una propria necropoli.
Potreste non credermi, ma camminando per l’abitato non si vede un tempio, un edificio pubblico: non ci sono. In alcuni dei quartieri le abitazioni si alternano con i forni legati all’attività fusoria. Talvolta, nelle mie camminate giornaliere, raggiungo la miniera: la visione è ancora piú squallida e nei suoi pressi si addossano i ripari di fortuna dove sono alloggiati i minatori. Quelli che – come me – abitano in una casa, seppur modesta, vengono considerati e si considerano fortunati. Quello che mi colpisce è come la vita riesca, comunque, a trascorrere in questi tuguri: ci si alza all’alba, ci si lava, si consuma un breve pasto, si va in miniera, si ritorna sfiniti quando la sera sta per scendere, ci si lava di nuovo con la poca acqua rimasta a disposizione, si mangia qualcosa, si va a dormire consapevoli di dover riprendere il lavoro la mattina successiva.
In mezzo a tutto questo ho visto uomini e donne preparare con cura pasti modesti attorno a un focolare di fortuna, li ho ascoltati cantare, li ho osservati sorridere e scambiarsi atti di solidarietà considerabili piccoli solo a occhi distratti o superficiali: offrire un frutto in questo contesto è un grande gesto d’altruismo. Ho potuto vederli anche mentre si azzuffano, inveendo con una rabbia animalesca l’uno contro l’altro, e ho colto con lo sguardo chiari atti di sopraffazione, ma sono atteggiamenti che mi hanno sorpreso di meno: nella loro condizione, un comportamento simile va considerato normale, mentre uno diverso va ritenuto l’eccezione. Qui è un mondo a rovescio.
Il fine di quegli uomini – gente che ha perduto tutto, spesso senza una responsabilità diretta – e dei sovrastanti come me è soltanto estrarre la maggiore quantità di minerale possibile e inviarlo a Vatl. Servirà per le armi che in guerra daranno la vittoria all’esercito vetuloniese, sarà utilizzato per realizzare vasellame destinato a mense ricche ed eleganti, o per essere commercializzato raggiungendo altre mense ugualmente fastose.
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Non dobbiamo avere altra preoccupazione che quella; provare un sentimento è già qualcosa che distrae dallo scopo fissato per noi. Sentimenti, comunque, continuiamo a provarli. Tra i privilegiati – definiamoci cosí – nasce amicizia, o rivalità. Riusciamo persino ad amare; queste case durante il giorno sono rese vive da spose che hanno accettato di condividere una vita difficile e sono amate (anche se nessuno dei miei compagni di lavoro lo ammetterebbe apertamente) soprattutto per questo. Il focolare e il telaio sono la loro compagnia durante il giorno e le accomunano almeno alle donne che vivono a Vatl. Vedo che li usano con piacere e maestria forse proprio per questo.
Trovarsi ogni tanto insieme la sera per scambiare qualche parola, condividere un pasto, suonare il flauto, ridere, confessare a turno una speranza, cercare di lenire un dolore è un privilegio che riesce a sgorgare – imprevisto – dalle nostre giornate. Un miracolo che, nonostante tutto, riesce a materializzarsi, a prendere forma. Ci sono luoghi simili in Etruria? Me lo sono chiesto piú volte e ho cercato le risposte. Uguali forse no, qui non è la città-stato a gestire la miniera come sembra che accada a Pupluna (Populonia), ma alcune delle grandi gentes aristocratiche, e di conseguenza l’organizzazione è diversa. Mi hanno riferito che a Pupluna c’è un quartiere industriale sorto di fronte al mare e situato appena sotto la città. Vi lavorano il minerale estratto all’isola d’Elba e trasportato sin lí. Il lavoro sarà duro come da noi, ma almeno la città è vicina, si potranno vedere le sue mura e osservare il profilo dei suoi templi. Probabilmente all’Elba vi sarà una situazione piú simile alla nostra, o addirittura peggiore: i Greci la chiamano Aithalia, «la fumosa», per via del numero dei forni di arrostimento o di fusione in attività.
L’Etruria splendida, che conosco soltanto peraltro in minima parte, non nasce nelle domus aristocratiche, o nelle assemblee politiche, o nei santuari, ma scaturisce da posti schifosi come questo dove sto trascorrendo una parte della mia vita. Ho piena consapevolezza di ciò e vorrei che l’avessero anche altri. La bellezza di Vatl – per la quale provo una nostalgia fortissima – s’inizia a costruire qui. Sono certo che la mia non è una consolazione. Stasera avverto il desiderio di pregare e da un’olla d’impasto, dove li ho riposti con cura, estraggo, uno a uno, gli attingitoi miniaturistici che mi serviranno per la cerimonia.
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VELIA
DOMANI È UN ALTRO GIORNO...
M
i hanno ordinato di non allontanarmi dal palazzo, ma non ubbidirò. Voglio raggiungere le fortificazioni innalzate in tutta fretta e vedere il nemico. Da giorni lo attendiamo, da quando abbiamo saputo che da Camars (Chiusi) è partito un esercito pronto a distruggerci. Etruschi contro Etruschi: non è la prima volta e non sarà l’ultima.
Nella pagina accanto lastra di rivestimento fittile decorata a bassorilievo con scena di processione su un carro, dall’edificio monumentale di Poggio Civitate (Murlo, Siena), identificato come palazzo di una dinastia locale. VI sec a.C. Siena, Museo Archeologico Nazionale.
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VELIA Non sono stata mai una ragazza obbediente, ricordo quando mi veniva chiesto di non entrare nel lungo ambiente rettangolare prossimo alla reggia in cui lavoravano gli artigiani. E invece, piú di una volta, sfuggendo all’ancella che mi seguiva, vi sono entrata. Ero attratta dal disordine apparente che vi regnava, e poi dalle voci, dai rumori e dai fumi che ne fuoriuscivano.
Sembrava una realtà rovesciata rispetto a quella del palazzo ch’era la mia dimora. Rappresentava un’alternativa al mio mondo anche se vi era legato e, addirittura, viveva in funzione di esso: ciò che lí veniva realizzato era costruito o plasmato per il palazzo, anche il superfluo. Mi colpivano l’energia, la frenesia, l’illogico che vi dominavano. Le stesse caratteristiche che ora mi sembra si siano impadronite dell’intera Murlo con l’aggiunta di un’angoscia sottile e velenosa che è penetrata dentro noi tutti. Quella mancava nell’officina, anzi vi coglievo un’atmosfera di fiducia ingenua rispetto al presente e al futuro prossimo. Non sembrava che quegli uomini e quelle donne guardassero a un orizzonte temporale piú lungo, o, almeno, cosí mi appariva. Anche per noi ora – in questa situazione – vi è soltanto il domani e non il dopodomani. Domani dovremo dare il meglio, domani saremo costretti a respingere gli assalitori, altrimenti non ci sarà un dopodomani.
Chi sta marciando verso di noi non vuole soltanto abbattere muri e razziare, vuole cancellarci. A Camars, homines novi hanno conquistato con fatica spazio nella vita politica e vogliono ora ridimensionare il ruolo dell’aristocrazia tradizionale. Per far trionfare la loro rivoluzione devono indebolire la rete di alleanze che gli aristocratici chiusini hanno saputo costruire nel territorio. Hanno bisogno, inoltre, di bottino da poter distribuire e cosí ottenere l’appoggio di fasce ampie della popolazione.
Per queste ragioni l’esercito di Camars marcia contro di noi. Ho chiesto a mio fratello maggiore cosa accadrà. Mi ha risposto in maniera secca, facendo trasparire una certa preoccupazione, che i soldati chiusini sono numerosi e mi ha ripetuto di non muovermi. Mi ha baciato e si è allontanato. Attorno al palazzo sono state scavate trincee e mio padre ha ordinato di seppellirvi la decorazione in terracotta dell’edificio. Diversi uomini la stanno smontando con cura da alcuni giorni: ho osservato con attenzione le lastre del rivestimento architettonico arrivando – ora che sono a terra – a toccarle
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e a sfiorarne con le dita i rilievi. Vi sono rappresentati banchetti, processioni, scene di caccia, corse a cavallo. Mentre aiuto a metterle al sicuro, osservo la cura riposta nella loro realizzazione: non avevano solo una funzione decorativa, ma intendevano esibire i valori di chi viveva nel palazzo. Valori condivisi dai capomastri e dalle maestranze che le avevano eseguite: non si giunge a tanta perfezione se non si condividono, almeno in parte, gli stili di vita e gli ideali dei committenti e li si riconosce degni di essere tramandati. Quel modo di vivere che ora mi appare armonioso – anche se alcuni mesi fa ne vedevo le contraddizioni – scomparirà. Non riesco a prevedere l’esito dello scontro, ma sento che il nostro mondo comunque svanirà: le nostre idee non appaiono piú in grado d’interpretare la realtà e le nostre stesse abitudini iniziano ad apparire superate. Questi dati di fatto non muteranno, anche se dovessimo avere la meglio in battaglia.
Provo dispiacere? Devo rispondere di sí e non – come qualcuno potrà pensare – per la perdita dei privilegi di cui ho goduto, ma per il rispetto che porto alla tradizione anche se poi non saprei dire cosa sia. Mi verrebbe da definirla come l’equilibrio – certo precario – tra la sfera umana e quella divina che noi Etruschi, almeno sino a ora, abbiamo considerato prioritario e tentato di costruire con un’attenzione spasmodica ai segni che il Cielo voleva inviarci. I tempi nuovi sapranno rispettare la tradizione? Ne costruiranno una diversa? Eventualmente quali caratteristiche assumerà? Rifletto che nei giorni durante i quali potrei essere uccisa, sono divenuta curiosa del futuro come non sono stata mai in precedenza.
Ora, con l’aiuto di grosse funi, gli uomini incaricati di smantellare la decorazione del palazzo stanno facendo calare dal tetto le statue che raffigurano i miei avi. Le ho sempre viste lassú in alto, intangibili, lontane. Ora stanno alla mia altezza e posso addirittura camminarci in mezzo, osservarle da vicino, toccarle, quasi dialogare con loro. Vorrei chiedere qualcosa ai miei antenati? Non il ricordo delle loro gesta conosciute nei dettagli dai racconti che un aedo faceva nelle lunghe serate d’inverno e da qualche aneddoto meno glorioso accennato da mio padre. Nemmeno il nostro futuro prossimo, ammesso che a loro gli dèi concedano di saperlo. Vorrei poter chiedere, invece, se il palazzo verrà abbattuto, se gli altri edifici saranno incendiati, se noi verremo uccisi, rimarrà memoria di noi? Non lo chiedo come persona singola, ma come un mondo dai confini ristretti che aveva saputo trovare un equilibrio.
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PORSENNA LO STATISTA INCOMPRESO
E
ssere divenuto anziano per un uomo come me è un privilegio. Gli dèi hanno saputo starmi vicino e regalarmi una vita piú lunga di quello che mi sarei aspettato. Una morte da giovane l’avevo messa in conto: uno che eccelle nel mestiere delle armi e nella guida di uno Stato e non considera quell’eventualità è una persona superficiale. La superficialità – lo riconosco – può rendere la vita leggera, ma non mi è mai appartenuta.
Nella pagina accanto testa di una statua funeraria, da Chiusi. Seconda metà del VI sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».
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PORSENNA Non sono certo superficiali i miei pensieri stasera. Non riesco a comprenderne il motivo, ma sento la necessità di tracciare un bilancio della mia esistenza. Anzi no, devo essere piú preciso: non si tratta di stendere un bilancio (a quale scopo poi?), ma di soffermarmi sulle scelte che ho fatto. Avverto la necessità di ripercorrere la mia vita.
Arrunte – mio figlio – non c’è piú: è morto sul campo di battaglia di Aricia, combattendo contro i Latini e i Cumani. Con lui gli dèi sono stati meno generosi. Il mio racconto quindi non può essere per lui, anche se credo di dover a lui le spiegazioni maggiori. Non mi sento responsabile della sua morte: dovevo creare le condizioni per quello scontro e un successo – che era pienamente nelle nostre possibilità – gli avrebbe dato gloria e la possibilità reale di succedermi nel potere. Non avessimo avuto probabilità di vittoria, avrei dovuto evitare il combattimento o, almeno, non affidare a lui il comando dell’esercito, ma la situazione era diversa: si doveva e poteva correre il rischio.
Avevo acquisito il controllo su Roma – una città agitata dalla cacciata di Tarquinio il Superbo e dall’instaurazione della repubblica – e ora dovevo creare un corridoio via terra per saldare i territori dell’Etruria con quelli che controllavamo in Campania. Era una necessità: come si poteva immaginare di tenere a lungo terre fertilissime e a contatto diretto con i coloni greci solo attraverso collegamenti via mare? Devo riconoscere che altri re etruschi non condividevano la mia preoccupazione, sarebbe meglio dire che non la comprendevano. Le città della costa pensavano che le loro navi sarebbero state sufficienti a garantire le comunicazioni come era accaduto nei secoli precedenti e non volevano rinunciare ai guadagni che ne ricavavano. Era un’ottica ristretta, basata su una strategia che non teneva conto della forza crescente dei Greci nel Mediterraneo occidentale.
C’era un altro pericolo che loro non vedevano e che proveniva dal mondo italico; arrivo ad azzardare una previsione: saranno i Sanniti a conquistare Capua e la stessa Cuma, a sconfiggere noi e i Greci! Ci vorrà qualche decennio, ma accadrà. Non sto farneticando, conosco bene il mondo italico e ne vedo la forza e soprattutto le potenzialità. D’altronde i miei antenati erano Umbri. Può apparire strano che un campione del mondo etrusco – Larth Pursenas
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(Porsenna), forse il suo uomo piú rappresentativo – abbia origini umbre, ma è cosí: la fantasia della storia supera la nostra. Noi uomini disegniamo scenari, avanziamo ipotesi, immaginiamo sviluppi logici, poi gli dèi si divertono a sconvolgere i nostri piani. A loro è sufficiente far sollevare un soffio di vento per sconvolgere le foglie e noi siamo come le foglie, diceva Larth Cupures, una persona che ho molto apprezzato in gioventú: un guerriero e un uomo saggio. Lui era già avanti negli anni, quando ho iniziato la mia attività politica, comprendendo che avrei potuto dare voce a un gruppo di homines novi scaturiti dalle strette maglie della società del tempo, portando valori e interessi diversi rispetto a quelli delle tradizionali classi dirigenti etrusche. Larth era uno di loro ed ero legato a lui forse proprio perché figurava tra quelli che – con fatica – mi avevano aperto la strada. Dal mondo sabino era giunto a Veio e da lí a Velzna (Orvieto); la capacità di usare le armi gli aveva spalancato le porte: la sua storia aveva diversi punti in comune con la mia.
La consapevolezza della fragilità degli scenari umani l’ho sempre avuta, anche se non mi ha impedito di provare a realizzare i miei progetti: noi uomini, d’altronde, dobbiamo fare il nostro gioco. Il mio gioco era di rendere piú forte il mondo etrusco e, in particolare, le due città sulle quali regnavo Camars (Chiusi) e Velzna. Era anche un mio dovere? L’ho creduto a lungo e con grande fermezza, ma stasera ne sono meno sicuro. La base del mio potere era Camars, ma Velzna è stata sempre nei miei pensieri: lí erano giunti i miei antenati e lí erano stati accolti all’interno dell’aristocrazia. Un’aristocrazia recente, con minore esperienza, ma piú vivace di quella tarquiniese o ceretana. Legata alla proprietà della terra, ma con interessi importanti nel commercio e nell’artigianato e caratterizzata da una notevole curiosità intellettuale.
Ho cercato di favorirla: una leggenda che si sta diffondendo vuole che abbia salvato la città da un mostro terribile – Olta – che ne saccheggiava le campagne e che era pronto ad attaccarla per distruggerla. Avrei evocato un fulmine per fermarlo e folgorarlo. Lo avrebbe concesso il dio Tinia rispondendo alle mie preghiere. Si tratta di un racconto, che – in una qualche misura – ho contribuito a diffondere: mi presentava non piú come un uomo di armi, o un personaggio che aveva preso il potere in maniera piú o meno legittima, ma nelle vesti di
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PORSENNA un sacerdote che conosceva bene l’ars fulguratoria come gli esponenti dell’aristocrazia piú tradizionale. Dall’attenzione per Velzna era nato il mio impegno affinché il santuario federale di noi Etruschi si sviluppasse ai suoi piedi: vantai la sacralità del luogo, la facile accessibilità per i rappresentanti delle dodici città, la sua neutralità che nasceva dal mancato coinvolgimento – conseguente alla formazione recente – in vicende che avevano diviso in passato. La mancanza di tradizione, a volte, può trasformarsi in un vantaggio.
Devo ammettere che nella mia scelta si poteva leggere una volontà egemonica nei confronti delle altre città-stato etrusche. Lo facevo per mia personale ambizione? Per assecondare i miei desideri piú reconditi? In parte sí, ma solo in parte. Non è stata la seduzione del potere che mi ha spinto, su di esso infatti non mi sono fatto mai illusioni. Ho compreso presto che si accompagna alla solitudine, la quale è un peso difficile da portare: piú ti spingi in alto e piú ti allontani da chi hai intorno. È una dura legge che gli dèi hanno imposto. Chi, come me, si è formato combattendo accanto ad altri uomini, conosce i rischi del rimanere solo e tale consapevolezza se la porta dietro. Non ho amato quindi il potere, a taluni può essere sembrato, ma in realtà era altro che mi spingeva. Che cosa? L’adesione piena a un progetto che scaturiva dal legame affettivo con la mia gente – anche astrattamente intesa (questo è stato un mio limite grande) – e da una visione lucida della società etrusca. Nel dare vita a uno Stato sovracittadino esteso dalla Valdichiana alla media Valle del Tevere, nato dalla saldatura tra Camars e Velzna, c’era l’intuizione dei limiti della nostra città-stato.
Nel battermi per una maggiore coesione della lega tra le dodici poleis principali dell’Etruria, vi era la necessità di superare divisioni che non porteranno lontano. Mi rendo conto stasera che non sono stato compreso: sono riuscito ad avere il controllo su Roma cingendola di assedio e accompagnando le sue convulsioni istituzionali; ho stretto alleanze con altri popoli che non si scioglieranno come neve al sole; ho contribuito a portare al potere una nuova classe sociale
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(anche se, in breve tempo, ci siamo dovuti uniformare ai costumi dell’aristocrazia tradizionale e qui il pensiero va al maestoso monumento funerario che mi sto facendo costruire), ma non sono riuscito a spiegare le mie idee, a far comprendere agli altri lucumoni quello che avevo in mente e, in fondo, i rischi che corriamo: non hanno capito nemmeno che dobbiamo rafforzare la presenza in Campania! Le battaglie per le quali ho perso numerosi sodali e un figlio non le ho portate avanti – o, almeno, non solo – per la mia ambizione, o a favore delle città-stato che governavo. Rispondevano a un progetto piú ampio: paradossalmente, ho l’impressione che sia stato compreso meglio dalle classi dirigenti di Roma che da quelle delle altre poleis etrusche. Potrebbe finire che saranno loro a perpetuare il mio ricordo.
Coperchio dell’urna di Larth Sentinates Caesa, con il defunto ritratto a banchetto, dalla tomba della Pellegrina di Chiusi. IV-III sec. a.C. Chiusi, Museo Archeologico Nazionale.
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VELTHUR SPURINNA UNA VITA DA COMANDANTE
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n servitore ha appena aperto un diphros (uno sgabello pieghevole), e mi siedo, con qualche difficoltà, di fronte al mare. Da quando le mie membra si sono indebolite e non posso piú navigare vengo spesso sulla spiaggia. Mi hanno detto con garbo che dovrei evitarlo, perché si addice poco a un personaggio del mio rango e capisco le loro ragioni. Ma cosí mi sembra di non perdere il contatto con quella che è stata la mia vita.
Nella pagina accanto Tarquinia, tomba degli Auguri. Particolare di una delle pitture parietali raffigurante un personaggio, probabilmente uno dei giudici delle gare organizzate in onore del defunto, seguito da un servitore che porta uno sgabello pieghevole. 520 a.C. circa.
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VELTHUR SPURINNA Non l’ho trascorsa soltanto sul mare, ho partecipato con intensità alla vita politica di Tarchna (Tarquinia) come doveva fare uno Spurinna, ma i momenti salienti li ho vissuti a bordo di una nave e al comando di una flotta. Mi sono sempre piaciute le situazioni chiare e in mare riesci a distinguere l’amico da chi, invece – uomini o elementi atmosferici –, ti devi guardare.
L’esperienza del mare mi ha aiutato nella stessa lotta politica insegnandomi che si può rischiare sino a un determinato punto: il comandante affidabile, come l’uomo politico capace, riesce a riconoscere con prontezza la soglia da raggiungere e non valicare. Non si ferma prima e non procede oltre. All’interno della classe dirigente di Tarchna ho svolto il ruolo di colui che sosteneva l’importanza di avere una marina militare e commerciale efficiente. Non tutti lo comprendevano: la forza politica, economica e sociale di noi aristocratici era ed è la proprietà della terra e i ricavi che se ne ottengono e, pertanto, quasi a tutti sembrava necessario concentrare gli sforzi sul controllo del territorio e sulla sua eventuale espansione.
In quegli anni, con la cacciata di Tarquinio detto il Superbo stavamo perdendo l’egemonia esercitata per decenni su Roma. Inoltre dovevamo guadarci da Velch (Vulci) che con Macstrna (i Romani l’hanno voluto chiamare Servio Tullio) aveva osteggiato, già in passato, la nostra influenza sulla città latina, e da Camars (Chiusi) che, sotto il regno di Porsenna, era riuscita a unificare le sue terre con quelle di Velzna (Orvieto), arrivando ai nostri confini.
Sfide serie alla nostra presenza sul territorio dunque non mancavano, ma ritenevo che la politica ambiziosa che, per la sua storia, Tarchna si è trovata a dover portare avanti non poteva essere perseguita senza un ruolo importante sul mare. Il controllo dei traffici nel Mar Tirreno, insieme alla gestione delle miniere presenti nell’entroterra e sull’isola d’Elba, hanno costituito la base della ricchezza conseguita da noi e dall’intera Etruria. Tale consapevolezza non poteva venire meno quando quei traffici erano aumentati in modo considerevole e la vittoria conseguita da Cisra (Cerveteri) nella battaglia del Mare Sardo aveva ribadito il primato etrusco.
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Le classi dirigenti di Cisra sono ancora oggi – a miei occhi – le piú consapevoli dell’importanza di avere il controllo del mare e credo che dovremmo seguire con attenzione gli sviluppi della loro azione che le ha portate a un avvicinamento ulteriore con Cartagine.
Con le mie parole non voglio dare l’immagine di un’aristocrazia tarquiniese dalla visione ristretta e senza strategia, ma solo ricordare che ho dovuto fare ricorso a ogni pressione e alla mia riconosciuta capacità di convincere per portare la maggioranza sulle mie posizioni. Ottenuto il consenso, ho potuto realizzare due imprese di cui vado fiero e di cui spero che rimanga memoria e non solo negli annali della mia gens. Sono riuscito a condurre una flotta, con a bordo un intero corpo di spedizione, ad Aleria e persino nella lontana Sicilia. Ad Aleria, in Corsica, l’azione aveva soprattutto lo scopo di mostrare ai Ceretani e ai Cartaginesi che Tarchna voleva continuare ad avere uno spazio nei traffici del settore settentrionale del Mar Tirreno, vale a dire con il mondo dei Celti. Dopo la grande vittoria che avevano conseguito contro i Focei e i Massalioti, Cisra e Cartagine volevano occupare quel mercato per intero, anzi avevano iniziato già a farlo: noi, con l’azione da me diretta, facemmo capire di non essere d’accordo. L’altra spedizione fu piú ambiziosa dato che si trattava di fare ottenere un ruolo di primo piano alla mia città nel basso Tirreno, dove Siracusa iniziava a spadroneggiare. Incursioni etrusche nella zona, soprattutto attorno a Lipari, vi erano state già e altre vi saranno, ma riuscii a guidarvi un’intera flotta e un contingente militare. Per Tarchna fu uno sforzo rilevante dal punto di vista logistico, ma soprattutto diplomatico. Per me fu l’occasione di misurarmi con un mare difficile da navigare e che non conoscevo e con avversari di cui sapevo molto poco. È stata una sfida nella quale riuscimmo a dimostrare a pieno la forza della marina tarquiniese. Ne fui felice come comandante della flotta e in qualità di massimo magistrato di Tarchna. Avevo vinto la mia sfida sia sul piano militare che su quello politico.
Mentre continuo a guardare il mare penso che nella mia vita, ormai prossima alla conclusione, ho fatto il mio dovere, o, almeno, ho cercato di portare avanti al meglio il compito che gli dèi mi avevano affidato. È una consolazione. Il sole è calato e inizio a sentire un poco di freddo, faccio cenno al servitore di avvicinarsi: è ora di tornare a casa.
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THEFARIE VELIANAS
IL RINNOVAMENTO AL POTERE
C
he cosa resterà delle mie imprese? Me lo chiedo con sempre maggiore insistenza, mentre il tempo scorre inesorabile e inizio ad avvertire i suoi segni sul corpo. Governo su Cisra (Cerveteri) e ho progressivamente accentrato il potere nelle mie mani. Non è stato semplice, gli assetti politici e istituzionali della città sembravano saldi e ancorati a un passato luminoso. Inoltre, non discendevo da una prestigiosa gens aristocratica, tutt’altro, mi verrebbe da dire, anche se sono sempre stato orgoglioso dei miei natali.
Nella pagina accanto antefissa in terracotta policroma a testa di Sileno, da Pyrgi (uno dei porti della città di Cerveteri, presso l’odierna Santa Severa). V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
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THEFARIE VELIANAS Avevo molta fiducia in me stesso e – sin da giovane – mi prefiguravo un futuro luminoso. Le ragioni non so dirle, contavo sulla prestanza fisica, sulla capacità di resistenza, sulla curiosità intellettuale. Tutte doti notevoli, ma che da sole non avrebbero dovuto darmi la certezza di raggiungere i traguardi ragguardevoli che mi prefiguravo. Forse proprio quella certezza irragionevole mi diede la spinta necessaria.
Un merito – a distanza di tempo – me lo riconosco, ed è stato l’avere intuito che la società di Cisra era cambiata. La sua apertura mediterranea, i suoi rapporti stretti con il mondo greco e cartaginese, la vocazione imprenditoriale di parte della sua classe dirigente avevano reso fragili le basi sulle quali si era retta per secoli. Come in altre città-stato dell’Etruria si era venuta a creare una classe sociale nuova, la cui ricchezza era assicurata dai ricavi che riusciva a trarre dal controllo dei traffici commerciali che avvenivano nel Mar Tirreno oltre che dalla proprietà o, almeno, dal possesso della terra.
Quegli uomini si consideravano e, in parte, effettivamente erano, l’avanguardia di un mondo che sarebbe dovuto sbocciare e che avrebbe dovuto rompere schemi e consuetudini divenute improvvisamente obsolete. In quell’assetto tradizionale rientravano le istituzioni politiche che avevano previsto e continuavano a prevedere un duraturo controllo del potere da parte di poche famiglie di antico lignaggio.
All’improvviso quello che era sembrato per secoli un equilibrio naturale e indiscutibile iniziò ad apparire insufficiente e addirittura ingiusto. Questa consapevolezza mi spinse a cercare di prendere il potere: quegli uomini ormai influenti, seppure ancora posizionati in secondo piano, sarebbero stati il mio sostegno. Avevo intuito che iniziavano ad avere un peso politico consistente. Forzai la mano – ora posso ammetterlo – e sconvolsi gli assetti istituzionali con il gusto di rovesciare tutto e di eliminare privilegi che mi parevano tali forse per il solo fatto che non mi appartenevano.
Con chi si oppose fui spietato, ma non c’era altra strada. Lo penso ancora oggi, quando posso permettermi di non essere indulgente con me stesso. D’altra parte, la mia azione non era isolata nella penisola italiana e altri avevano percorso o, a breve, avrebbero intrapreso la mia strada: Larth Pursenas a Camars (Chiusi), Aristodemo a Cuma, Anassilao a Reggio e altri ancora, sia nel mondo etrusco che in quello magno-greco.
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L’area mediterranea stava cambiando e le aristocrazie tradizionali non lo comprendevano, o non volevano comprenderlo. Il mio governo non ha imposto solo rotture con il passato: ho conservato, e anzi ho rafforzato alcune direttrici della politica estera di Cisra. Il rapporto con i Greci non è venuto meno, e chi ha retto la città prima di me si è sforzato di riallacciare i rapporti anche dopo la rottura rappresentata dall’uccisione rituale dei prigionieri catturati a seguito della battaglia del Mare Sardo, e io ho continuato sulla sua strada. Ricordo sempre l’episodio drammatico che ho appena rammentato quando sento rimpiangere il buon tempo antico.
Un altro elemento di continuità è stata l’alleanza con i Cartaginesi, che ho cercato di rendere ancor piú stretta. Conosco le voci che parlano di un loro sostegno nella mia ascesa politica e di una loro influenza pesante sulle mie scelte attuali. Non c’è niente di vero se non che considero strategica l’alleanza con loro. Insieme abbiamo fronteggiato l’espansionismo dei Greci e dovremo continuare a farlo. Mi sembra che Etruschi e Cartaginesi – in una qualche misura – siano complementari. Piuttosto dobbiamo guardare all’eventualità che stringano patti troppo stretti con Roma, dato che, a quel punto, potrebbero crearsi problemi seri per noi.
Dobbiamo evitare assolutamente che Roma diventi una potenza marittima. Il mio intervento è stato realmente rivoluzionario nella forma della città: la Cisra che lascerò ai miei successori sarà molto diversa da quella che ho ereditato. Se un Ceretano fosse stato lontano e solo ora facesse ritorno, quasi non riconoscerebbe la sua città: grandi lavori hanno interessato gli spazi pubblici, gli edifici della vita politica, i templi. Io e chi mi sosteneva (e continua a farlo) volevamo un’altra città e l’abbiamo costruita. Ho fatto aprire cantieri anche nelle zone portuali affinché assorbissero l’incremento degli scambi commerciali e offrissero ai mercanti e ai marinai stranieri un’immagine tangibile della vivacità e della forza di Cisra.
Il mio nome sarà ricordato a lungo? Quello che ho realizzato impedirà che sia dimenticato? Me lo chiedo adesso, mentre ho in mano tre lamine in oro scritte in etrusco e in punico che ricordano un mio dono alla divinità Uni-Astarte nel santuario di Pyrgi. Prima di appenderle, hanno voluto mostrarmele. Le guardo con attenzione, penso che verrà criticata la scelta di fare incidere il breve testo anche nella lingua dei Cartaginesi. Ritengo, comunque, che sia corretto farlo, dato che essi frequentano con assiduità la zona. Concedo il mio assenso e, al contempo, mi viene da sorridere: ho pensato per un attimo che il mio nome sarà rammentato proprio grazie a queste fragili lamine che non pesano nulla.
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ARNTH
CRONACA DI UNA BATTAGLIA
L
a battaglia sta per iniziare, le navi sono schierate in posizione da combattimento e tra poco dovremo confrontarci con i Cumani e i Siracusani. Il vento gonfia le vele delle nostre imbarcazioni e quelle dei Cartaginesi, nostri alleati – al solito – nel cercare di contenere l’avanzata dei Greci nel Mar Tirreno. Mi chiedo perché noi Vulcenti ci troviamo di fronte a Cuma, ma conosco la risposta. È la prosecuzione di uno scontro iniziato da lungo tempo e la posta in gioco è il controllo dei traffici commerciali sempre piú intensi che si svolgono nel Mediterraneo occidentale. Perderlo per noi, per i Ceretani e i Tarquiniesi potrebbe significare un ridimensionamento pesante delle nostre aspettative e del nostro stesso tenore di vita.
Nella pagina accanto particolare della decorazione di un’anfora attica a figure nere rinvenuta a Vulci. VI sec. a.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma (MAAM).
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ARNTH Non esagero, è sufficiente passare una giornata tra i moli, le vie, i magazzini e i templi dei nostri porti per comprenderlo. Vi potrete incontrare genti diverse, ascoltare conversazioni in lingua greca e punica, osservare merci provenienti da tutto il Mediterraneo. Basta soffermarsi sulla mole delle importazioni di ceramiche da Atene per capire quanto i commerci si siano fatti intensi. Da tempo i loro vasi sono diventati per noi oggetti simbolo che un aristocratico deve utilizzare nei banchetti e nei simposi e che – quando gli dèi decideranno che la sua vita è finita – devono far parte del corredo funerario. S’immagina che potranno essergli utili negli incontri conviviali che si svolgeranno nell’aldilà.
C’è anche dell’altro: la nostra presenza in Campania è a rischio e un rafforzamento dei Cumani renderebbe la situazione ancora piú pesante. Ho ascoltato sulla mia stessa nave, nei giorni scorsi, alcuni che hanno sostenuto a bassa voce, quasi mugugnando, che potremmo lasciare soli gli Etruschi di Capua e della Campania e non affrontare rischi e costi cosí consistenti per difendere la loro indipendenza. Ho provato a spiegare che un ritiro da queste terre di straordinaria fertilità renderebbe piú debole il nostro ruolo nella penisola italiana e che questa regione è stata da sempre il luogo privilegiato del confronto/scontro coi Greci.
Ho aggiunto che non dovremmo rinunciare a una politica estera ambiziosa proprio mentre altri, come i Romani e i Siracusani, hanno iniziato a elaborarla. Non credo che abbiano compreso le mie ragioni. Da qualche anno le nostre società sembra che stiano diventando miopi e che si muovano in ottiche sempre piú ristrette. Il benessere raggiunto pare che possa essere conservato per sempre e quasi per una sorta di diritto naturale, ma non è cosí. Il futuro di un uomo, di una città-stato, di un popolo intero si costruisce con fatica ogni giorno. Lo sguardo deve essere ampio e aggiungo che talvolta occorre gratuità nelle azioni: non si può impostare una politica solo sul rapporto tra costi e benefici. I nostri antenati hanno fatto cosí e per questo il nome dell’Etruria risuona lungo l’intera penisola italiana e anche oltre. Il comportamento di Siracusa in questa occasione dovrebbe farci riflettere. Quando una delegazione dei Cumani si è recata sino in Sicilia per chiedere aiuto, che cosa hanno deciso i Siracusani? Avrebbero potuto prendere tempo, valutare con attenzione la situazione e magari ritenere che non era conveniente per loro aiutare un’altra importante polis della Magna Grecia. Invece hanno accolto con prontezza la richiesta dei Cumani. Le loro navi sono ora di fronte alle nostre e a quelle cartaginesi. Stanno correndo diversi
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rischi e credo che ne siano consapevoli, ma hanno compreso che questo scontro può rivelarsi per loro una grande occasione: sono entrati nelle dinamiche politiche ed economiche del Tirreno centrale. Hanno affermato, inoltre, un loro ruolo nel mondo dei Greci di Occidente.
Spero che riusciremo a fermarli, altrimenti vedremo presto la loro flotta davanti alle nostre coste e Siracusa arriverà a contenderci la Corsica. Uscire vittoriosi non sarà facile. Le loro navi sono triremi veloci e ben armate, con a bordo marinai provetti. Un uomo di mare che ha navigato per anni come me, comprende subito chi ha di fronte. Credo anche che i loro comandanti siano all’altezza della situazione e conoscano bene le rotte, i venti e le stelle del cielo. Il mare intorno alla Sicilia è difficile da navigare e lí hanno imparato a farlo. Ci siamo, lo scontro ha avuto inizio. Le domande, i dubbi, le perplessità vanno ricacciate indietro. Ora occorre soltanto essere lucidi nelle decisioni, puntare sull’affidabilità delle nostre imbarcazioni e sulla forza dei nostri muscoli. C’è ancora un poco di tempo a disposizione: bisogna impiegarlo per chiedere alle nostre divinità di darci la vittoria.
Mentre la battaglia è in corso, cerco d’intuirne gli sviluppi. Abbiamo sbagliato il momento per accettare lo scontro e il nostro schieramento poteva probabilmente essere piú compatto. Il vento non sta soffiando a nostro favore ed è uno svantaggio notevole. Osservo i miei marinai: sono robusti e sanno combattere. Porto una mano al di sopra degli occhi per evitare che il sole mi impedisca di osservare bene la situazione, cerco di dare gli ordini ad alta voce, scandendo bene le parole, per fare in modo che arrivino in maniera chiara.
Tento di mantenere la calma e di mostrarmi sicuro per dare fiducia agli uomini in combattimento. Spero di riuscire a non trasmettere i miei timori, che vanno aumentando mentre scorrono le ore. È finita. Siamo stati sconfitti, la notte scende e viene in nostro soccorso. Abbiamo perso molti uomini, numerose delle nostre navi sono state distrutte, altre risultano danneggiate in maniera seria. Si tratta ora di riorganizzarci, di rompere un’eventuale blocco e di provare a ritornare verso i porti da dove eravamo partiti: io e i marinai superstiti della nave che comando – dei quali sento a pieno la responsabilità – nella nostra Velch (Vulci). Non credo che i Siracusani ci inseguiranno, hanno raggiunto il loro risultato e non vorranno rischiare un nuovo scontro in acque per noi piú favorevoli. Almeno per ora.
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LARS TOLUMNIO L’ULTIMO DUELLO
«È
costui che infranse il patto stretto tra gli uomini e che violò il diritto delle genti?». Mi rivolsi verso il cavaliere che gridava quella domanda retorica e lo osservai con attenzione: era un uomo di una prestanza fisica notevole e pieno di rabbia, come s’intuiva dalle parole e dal tono col quale le pronunciava. Osservandolo meglio, mentre il mio cavallo scalpitava e quasi non riuscivo a tenerlo fermo, preso anche lui dall’eccitazione della battaglia, compresi che era un tribuno militare. Poteva trattarsi di Aulo Cornelio Cosso, di cui avevo sentito parlare per il valore e per la nobiltà della stirpe.Capii che quelle invettive erano dirette verso di me e compresi subito a cosa si riferisse. Nella pagina accanto particolare di una litografia raffigurante il sovrano veiente Lars Tolumnio ucciso dal tribuno militare romano Aulo Cornelio Cosso.
LARS TOLUMNIO Tra me e me riepilogai quello che era accaduto ultimamente. Andai, in verità, piú indietro nel tempo, quando il momento che stavo vivendo aveva avuto il suo inizio effettivo. Era stato un giorno felice, dato che ero riuscito a salire sul trono di Veio. Ricordo ogni momento di quella giornata: la sveglia all’alba, l’emozione di mia moglie, la vestizione, il corteo che mi accompagnava verso la cerimonia d’investitura, i riti preparatori, l’incoronazione, le felicitazioni piú o meno sincere di chi mi stava accanto, l’entusiasmo della gente di Veio lungo le strade, l’ingresso nella reggia, le primissime incombenze di governo, il banchetto, l’euforia per il traguardo raggiunto.
Solo nei giorni successivi ebbi la consapevolezza della difficoltà e del peso di governare. Mi ero preparato allo scopo, avevo avuto una formazione in tal senso e conoscevo le regole del potere, ma la realtà è sempre diversa da quella studiata o immaginata. I problemi che avevo davanti erano chiari: tenere unita una comunità che la complessità dei tempi nuovi aveva reso articolata e – mi verrebbe da dire – disomogenea; rompere l’isolamento di Veio rispetto alle altre città-stato etrusche che ormai avevano assetti istituzionali di tipo repubblicano; continuare a fronteggiare l’espansionismo di Roma.
Dopo qualche mese di regno, mi resi conto che non ero la persona adatta per affrontare le prime due emergenze. I miei valori erano quelli dell’aristocrazia tradizionale ed era difficile per me già solo comprendere – non dico condividere – altre categorie di giudizio.
Ero, inoltre, profondamente legato all’istituzione monarchica, che mi sembrava la piú adatta, al di là della mia persona, a reggere le sorti di una città-stato evitando (o, almeno, limitando) i ciclici scontri di potere connaturati alle istituzioni repubblicane. Con questa consapevolezza incentrai la mia azione di governo nel confronto con Roma ricollegandomi alle nostre tradizionali scelte di governo. Devo aggiungere che ero convinto (e lo resto tuttora) che Roma rappresentasse la minaccia piú grave per noi. Lo stesso dinamismo della sua società, la spingerà prima a cercare di ridimensionare il nostro ruolo e poi a tentare di conquistarci. Posso aggiungere – ripercorrendo la mia formazione – che la rivalità, forse
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sarebbe meglio dire l’odio, per Roma mi era stato inculcato sin da ragazzo: lo respiravo in casa e tra le persone che frequentavo. Ma torniamo a giorni piú vicini: Fidene aveva deciso di avvicinarsi a noi ribellandosi a Roma. A dire il vero, la scelta non fu improvvisa e io avevo svolto un intenso lavoro diplomatico affinché questo avvenisse. L’alleanza con Fidene era una pedina importante nella nostra partita politica e militare. Appresa la notizia, la sorpresa per i Romani fu notevole e comprensibilmente li contrariò. Decisero allora d’inviare una delegazione a Fidene per conoscerne le motivazioni e per fare pressioni affinché la città tornasse sulle sue decisioni. L’ambasceria era composta da Caio Fulcinio, Clelio Tullo, Spurio Anzio e Lucio Roscio.
All’arrivo degli ambasciatori romani, la situazione a Fidene si fece tesa e gli ambienti che non avevano condiviso l’avvicinamento a Veio ripresero forza. Alcuni personaggi con i quali avevo trattato vennero da me e mi illustrarono la situazione. Quando giunsero – non ci crederete – stavo giocando a dadi: mi è sempre piaciuto giocarvi. Per farlo, e soprattutto per vincere, occorrono concentrazione e fortuna e ho sempre pensato che siano due caratteristiche necessarie nella vita. Quindi giocarvi è un insegnamento.
Gettare un dado è come lanciare un progetto: servono poi attenzione, perseveranza e il fato a favore per realizzarlo. Senza smettere di giocare, osservavo il loro smarrimento nel vedere che continuavo nel mio intrattenimento – fatuo ai loro occhi – mentre, invece, li ascoltavo con attenzione. Accennarono alle tensioni che si erano venute a creare a Fidene, alle proposte dei Romani, alla paura che non sarebbero riusciti a far accettare l’alleanza stipulata con me ai loro concittadini. Compresi che i timori erano fondati e immaginavo la forza delle pressioni che Roma sarebbe stata in grado di esercitare attraverso i suoi ambasciatori. Presi allora una decisione crudele – vi ho già confessato che odiavo i Romani – e suggerii loro, al ritorno a Fidene, di ucciderli. Avevo calcolato, mentre continuavo a gettare i dadi, che, se mi avessero dato ascolto, la nostra alleanza sarebbe divenuta salda e duratura: i Romani, infatti, per vendicarsi dell’accaduto avrebbero certamente dichiarato guerra a Fidene e, per salvarsi, la città non avrebbe avuto altra possibilità che legarsi pienamente a noi Veienti.
Mi sento colpevole di quell’episodio atroce ed esecrabile? Ne porto il peso?
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LARS TOLUMNIO In parte sicuramente sí, ma i Fidenati avrebbero potuto fare una scelta diversa. Cosí, almeno, mi sono ripetuto sino a questa mattina. In ogni caso, oggi, sono qui con il mio esercito e con gli alleati falisci per difendere Fidene: il mio patto l’ho rispettato.
Lo scontro è iniziato da alcune ore – personalmente avrei preferito differirlo di qualche giorno, ma rischiavo che i Falisci lasciassero il campo di battaglia – e mi sto battendo al meglio. Vedo i Romani che indietreggiano al mio solo apparire. Lo scompiglio che riesco a portare mi incute forza e mi sembra di non avvertire la fatica. Sono un tutt’uno con il mio cavallo ed è una bella sensazione. Il cavaliere che gridava punta verso di me, sprona il suo cavallo, ha la lancia in resta e continua a inveire. Inizio anch’io a urlare per far capire che ho la sua stessa determinazione. Siamo vicini, mi ha colpito e disarcionato. È sceso da cavallo, mi viene incontro, cerco di rialzarmi, non ci riesco. Mi sta colpendo ripetutamente con la lancia. Da lontano un contadino, immobile, riparato dietro a un albero, sta osservando la scena da qualche tempo: ora vede la testa del re Lars Tolumnio mozzata e conficcata nell’asta e Aulo Cornelio Cosso, salito di nuovo a cavallo, che la sta mostrando come un trofeo.
In alto lastra con figure di guerrieri, dal tempio dell’Arce di Veio. Prima metà del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nella pagina accanto statue in terracotta policroma di Apollo (a sinistra) ed Eracle (a destra), dal tempio veiente di Portonaccio. Fine del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
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ARRUNTE TRADITORE PER VENDETTA
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ono il traditore, l’uomo che ha portato un popolo straniero ad assediare la propria città: Camars (Chiusi). Non nego l’accusa, ma vi chiedo di ascoltare la mia versione dei fatti. Vivevo a Camars e svolgevo il mio lavoro con impegno e soddisfazione. Si trattava di un mestiere particolare, rischioso, ma che consentiva di stare accanto a chi deteneva il potere e quindi di avere l’illusione di essere un privilegiato. Ero una delle guardie del corpo dell’uomo che governava la città.
Nella pagina accanto Brenno e la sua parte di bottino, olio su tela di Paul Joseph Jamin che ritrae il capo dei Galli Senoni col bottino ottenuto dopo il sacco di Roma del 390 a.C. 1893. La Rochelle, Musée des Beaux-Arts.
ARRUNTE Nei miei anni, Camars era una città-stato importante su cui splendeva ancora la luce che vi aveva irradiato Larth Pursenas (Porsenna): le campagne che la circondavano erano coltivate in maniera intensiva e davano frutti abbondanti. Affacciarsi dal colle di Camars e gettare uno sguardo sulla vasta e ordinata pianura sottostante trasmetteva serenità. In quei campi stava la nostra forza.
La coltivazione delle terre era una delle ragioni del benessere dell’intera Etruria, ma per noi rappresentava un fattore ancor piú importante. Le città della costa traevano vantaggi dai traffici commerciali che avvenivano nel Mar Tirreno; altre città-stato dell’interno erano riuscite a stabilire contatti commerciali fiorenti con gli Umbri, i Sanniti e i Celti. Noi contavamo soprattutto sull’agricoltura. C’era inoltre il peso del prestigio politico che Larth Pursenas ci aveva assicurato: avevamo ancora un rapporto privilegiato con Velzna (Orvieto) e un ruolo rilevante nelle scelte prese nelle assemblee annuali che si tenevano al Fanum Voltumnae. Per il lavoro che svolgevo, vi avevo accompagnato in piú occasioni i maggiorenti della mia città.
Ricordo un’assemblea drammatica di qualche anno fa: si trattava di una riunione straordinaria convocata su pressione dei Falisci e dei Capenati, nostri alleati. Da tempo i Romani assediavano Veio e l’esito dello scontro sembrava pendere a loro favore. Nell’assemblea si doveva discutere della situazione e decidere su un eventuale intervento armato. Nella mia valutazione la scelta era semplice, quasi obbligata: noi Etruschi saremmo dovuti intervenire con decisione e inviare un corpo di spedizione in soccorso di Veio. Non si sarebbero potuti lasciare i nostri connazionali alla mercé dei Romani. Non lo era altrettanto agli occhi di chi deteneva il potere. Me ne resi conto, quando lungo il viaggio verso il Fanum Voltumnae, in un momento di sosta, ne parlai con l’uomo che scortavo. Era un giovane, figlio di una delle piú antiche e prestigiose famiglie, dotato di un cinismo e una doppiezza che non riuscivo nemmeno a intuire.
Ritenevo che l’esercizio del potere – raggiunto da breve tempo – non avesse potuto ancora logorarlo nella sua moralità. Ma non era cosí, come imparai a mie spese. Ma torniamo al nostro colloquio. Chiesi con slancio l’autorizzazione ad andare a combattere a Veio, dando per scontato che l’assemblea si accingesse a decidere l’intervento. Mi rispose con un’ironia appena velata
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che probabilmente non sarebbe stato necessario alcun permesso, poiché i capi dell’Etruria avrebbero deciso di non intervenire. Lo guardai meravigliato e gli chiesi come sarebbe stato possibile: noi non avremmo potuto abbandonare Veio al saccheggio e alla distruzione. Fece una smorfia, si alzò e si allontanò. Giunti al Fanum Voltumnae, osservai come si adoperasse con astuzia per evitare l’aiuto: colloqui riservati, scambi d’intese con altri lucumoni, promesse. Mi venne addirittura il dubbio che avesse stipulato un accordo segreto con la stessa Roma...
La sua linea passò e Veio fu lasciata sola. Si decise solo che eventuali volontari avrebbero potuto raggiungere la sfortunata città e la blanda risoluzione fu adottata solo per tranquillizzare gli alleati falisci e capenati.
A un sacerdote, che avevo avuto modo di conoscere in assemblee precedenti e col quale – nella distanza dei ruoli – era nata una certa consuetudine, domandai le ragioni di una scelta che a me sembrava quasi sacrilega. Mi ascoltò con attenzione e, ponendomi un braccio sulla spalla, mi disse che la decisione nasceva dall’inimicizia verso il re di Veio, il quale, negli anni precedenti, aveva tentato di esercitare una sorta di supremazia sulla lega etrusca ed era arrivato – ritirando i suoi atleti e i suoi attori – a impedire lo svolgimento dei giochi e degli spettacoli che si svolgevano in occasione delle assemblee. Un fatto inaudito e di cui in effetti avevo sentito parlare a lungo.
Mi venne da rispondere d’istinto che non si poteva far pagare a una città intera la superbia di un solo uomo, sia pure il piú rappresentativo di quella comunità. Allora il sacerdote provò a spiegarmi che il potere ha logiche interne che arrivano a rendere giustificato ciò che – a occhi comuni – appare ingiustificabile. Mi ritrassi, allora mi strinse piú forte la spalla per trattenermi e mi disse che c’era un motivo ulteriore – ai miei e ai suoi occhi – piú comprensibile: i Celti stavano facendo pressione sulle terre che controllavamo nella pianura del fiume Po. Dover abbandonare quella ricca regione, che arrivava ad affacciarsi sul Mare Adriatico, sarebbe stata una perdita grave per noi Etruschi. Quindi una resistenza andava organizzata a Nord e non si potevano disperdere le forze. Ancora oggi non so se quel progetto esistesse davvero o se fosse stato sventolato per impedire una spedizione in soccorso dei Veienti. Devo ammettere che la forza e la volontà di dilagare nella pianura padana
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da parte dei Celti era reale: a distanza di pochi anni da quegli avvenimenti ho avuto modo di conoscerla direttamente. Chiusa l’assemblea con un nulla di fatto, tornammo a Camars. Lí – poco tempo dopo – appresi dalla voce di un sopravvissuto della fine di Veio e della ferocia con la quale era stata saccheggiata e incendiata. Un fatto, proprio in quei giorni, venne a sconvolgere la mia vita: non ho ancora detto che ero sposato con una donna di particolare bellezza e che amavo profondamente. Immaginavo una vita da trascorrere con serenità accanto a lei sino a quando gli déi mi avessero consentito di vivere. Appresi, invece, che l’uomo che proteggevo l’aveva sedotta.
Mi cadde il mondo addosso, avrei potuto chiedere giustizia, ma quale probabilità avrei avuto di ottenerla? Una guardia del corpo in giudizio contro il lucumone, contro il rampollo di una delle famiglie piú nobili della città: non avevo alcuna possibilità di far valere i miei diritti. Pensai, sulle prime, a una vendetta personale: avrei potuto ucciderlo, sapendo che le occasioni non mi sarebbero mancate. Il fatto che sarei stato poi arrestato e ucciso non mi importava molto: la mia vita era finita quel giorno. Scelsi una vendetta diversa che ricadesse non solo su quell’uomo, ma sul suo mondo. Lasciai Camars e andai lontano, sin oltre il fiume Po, tra i Celti. Fui io a prospettare loro la possibilità di una sortita sino a Camars, con la promessa di un ricco bottino. Sotto la guida di Brenno, i Celti si sono messi in cammino seminando il terrore al loro passaggio: abbiamo già oltrepassato Camars e proveremo a prendere Roma. A sinistra ricostruzione di una tomba della necropoli etrusca di Tolle, presso Chianciano Terme, con un canopo antropomorfo dai lineamenti schematici (foto alla pagina precedente) e i vasi del corredo. VII sec. a.C. Chianciano Terme, Museo Civico Archeologico delle Acque.
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AULE
IL RAPIMENTO DI GIUNONE
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i chiamo Aule, ma il mio nome non conta. Sono nato a Curtun (Cortona), ma nemmeno questo ha valore. Ora conta solo il fatto che sono un testimone oculare della conquista e del saccheggio di Veio. Non so quanto mi resti da vivere: dipende da troppe circostanze. Se la ferita, che ho appena medicato con un impiastro di erbe, si cicatrizzerà, avrò mesi e forse anni davanti a me. Se la spada che mi ha colpito non sarà entrata troppo profondamente – come mi sembra – nella carne e non l’avrà infettata e se non incontrerò qualcuno tra i vincitori che mi darà il colpo di grazia, potrò vedere ancora molte volte il mutare delle stagioni.
Nella pagina accanto testa votiva. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona (MAEC).
AULE Il mio futuro è avvolto nella nebbia dell’incertezza e voglio quindi raccontare quel che ho visto nella speranza che qualcuno possa raccogliere le mie parole e tramandarle. Ero giunto a Veio, da alcune settimane, come volontario. Magari conoscete già la storia, ma voglio riassumerla brevemente altrimenti non si spiegherebbe la mia presenza nei pressi del tempio di Giunone Regina. Veio combatteva da anni una guerra durissima con Roma e la morsa degli assedianti si stava stringendo. Il grido di allarme della città era stato portato all’assemblea della lega etrusca dai Falisci e dai Capenati.
I nostri governanti avevano deciso di non intervenire congiuntamente e con gli eserciti regolari, ma di consentire l’invio di volontari. Seppi della decisione alcuni giorni dopo e decisi subito di partire. Lo feci perché non mi sembrava giusto lasciare una città etrusca in mano ai Romani e lo ritenevo pericoloso per tutti. Valutazioni politiche, quindi, alle quali potrei aggiungere il desiderio che Curtun potesse avere un ruolo influente nelle dinamiche interne all’Etruria.
Ma vi erano anche motivazioni personali: avvertivo il bisogno di allontanarmi dalle mura di casa, di andare lontano. Alcuni amici con i quali mi confidai, mi ripetevano – forse per trattenermi – che Veio era distante da noi e che i suoi abitanti avevano consuetudini diverse dalle nostre e parlavano una lingua con un accento quasi straniero alle nostre orecchie. Mi dicevano con ironia che erano quasi latini. Non si rendevano conto che quelle parole non bastavano a farmi cambiare idea, ma anzi mi rafforzavano nella decisione che avevo preso.
Arrivato a Veio, mi unii agli altri volontari. Non eravamo in molti a dire il vero e questo non mi parve un buon presagio. Rimasi colpito, comunque, dalla ricchezza e dalla bellezza della città, nonostante fosse in guerra già da lungo tempo. Nei primi giorni, che furono di una relativa calma, ebbi modo di percorrere le sue strade e le sue piazze, di entrare nei suoi templi. Riflettevo sulle differenze con le città dell’Etruria interna che conoscevo e mi appariva chiara la superiorità di quelle meridionali e – per la prima volta – mi sembrò giustificata la supremazia che avevano esercitato e continuavano ad avere, seppure in una forma ridimensionata, all’interno della lega etrusca. La preoccupazione delle persone che incontravo e con le quali parlavo strideva con la solidità dell’immagine che la città trasmetteva.
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Iniziai a pensare che enfatizzassero i pericoli che correvano, o che non avessero piena consapevolezza della loro forza. Non era cosí: ero io a non avere coscienza della potenza di Roma e dell’astuzia – al limite dell’empietà – di chi guidava il suo esercito. I giorni trascorrevano e la tensione cresceva, iniziarono a girare le voci piú incontrollate e contraddittorie: alcuni sostenevano che i Romani fossero divisi al proprio interno e che alcuni ambienti politici influenti premevano affinché fosse tolto l’assedio. Altri, al contrario, sostenevano che il Senato fosse riuscito a imporre la decisione di andare sino in fondo e che gli assedianti avrebbero ricevuto rinforzi consistenti.
Noi volontari eravamo guardati con riconoscenza, ma anche con sufficienza. In qualche caso, addirittura, come se fossimo o potessimo diventare un peso. E devo ammettere che la nostra preparazione militare non era certo all’altezza di uomini avvezzi a combattere da anni e che vedevano minacciata la loro stessa libertà.
Chi aveva la responsabilità della difesa della città scelse di utilizzarci in un ruolo di supporto, a me e ad altri venne affidato il compito di proteggere il tempio di Giunone Regina. Ne rimasi deluso, ma accettai senza sollevare obiezioni. Chiesi il permesso di raggiungere le mura della città per osservare la dislocazione dell’esercito romano. Mi venne concesso di farlo con l’impegno di tornare al mio posto il prima possibile. Arrivai alle mura e guardai di fronte a me: vidi una massa enorme di persone che si muovevano scomposte intorno alla città. Uomini e donne che gridavano e brandivano coltelli, falci, bastoni; povere bestie, in mezzo alla confusione, che tiravano carri. Mi chiesi da dove venisse tutta quella gente, compresi subito che doveva giungere da Roma e che era lí per partecipare al saccheggio successivo alla conquista della città. Mi sembrava di distinguere i loro volti esaltati, di leggere in ognuno il desiderio di sottrarre brandelli di ricchezza al nemico sconfitto, d’intravedere la loro consapevolezza feroce di avere a portata di mano una scorciatoia per il benessere personale. Provai paura non tanto della situazione, ma di come la cupidigia riesca a trasformare: quegli uomini e quelle donne, in altri momenti della loro vita, forse solo qualche ora prima, saranno stati padri e madri esemplari, o meglio, apparentemente esemplari. Non posso comprenderli sino al punto di assolverli.
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AULE Decisi che avevo visto abbastanza e tornai al tempio di Giunone Regina, di cui mi era stata affidata la difesa. Qui il rumore e la frenesia della battaglia imminente non sembravano arrivare, eravamo sulla rocca della città, lontani dalle mura, dalla prima fila del combattimento: in un silenzio quasi assoluto, il re, affiancato da un aruspice, stava portando a termine un sacrificio.
All’improvviso si scatenò l’inferno: sentimmo grida, imprecazioni e una moltitudine di soldati corse fuori dal tempio. La sorpresa fu enorme e fummo travolti insieme alla scorta che aveva accompagnato il re. Alcuni di noi provarono a chiudere il tempio per guadagnare tempo prezioso, ma non ci riuscirono. Mentre, riverso a terra, perdevo sangue, vidi i Romani precipitarsi verso le porte della città per aprirle da dentro. Sperai che riuscissero a fermarli, ma dal tempio continuavano a uscire soldati. Inizialmente pensai che solo qualcuno di loro fosse riuscito a entrare in città e a nascondersi nell’edificio sacro, ma erano in troppi. Intuii allora che nelle settimane (forse nei mesi) precedenti dovevano aver costruito una galleria, sfruttando probabilmente la rete fognaria della città.
Astuzia, certo, ma anche empietà: non si arriva a profanare un tempio e non s’interrompe con le armi una cerimonia religiosa.
Nelle ore successive dominarono la violenza, il terrore, il fuoco, le armi, fino a quando Furio Camillo, il comandante romano, ordinò di mettere fine allo spargimento di sangue, ma non fermò il saccheggio.
Per cercare di suturare la ferita, mi ero tolto l’armatura e l’avevo gettata lontano. Il sangue, il sudore e la polvere avevano imbrattato la mia veste, il dolore mi aveva rattrappito il corpo e invecchiato il volto. I soldati romani, che continuavano a passare nella zona, dovevano avermi scambiato per un mendicante abituato a sostare nei pressi del tempio e – presi dal desiderio di prede piú desiderabili – mi avevano lasciato sul posto. Soltanto uno, per divertirsi, mi gridò qualcosa che non compresi e mi diede un calcio sulla faccia rendendola ancora piú irriconoscibile. L’indomani ebbi modo di assistere alla vendita all’asta delle persone libere che erano sopravvissute: non riuscii a trattenere il vomito. Svenni.
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Le grida dei venditori, le lacrime di chi veniva venduto saranno l’incubo dei miei sogni, se gli dèi mi concederanno di vivere ancora. Il giorno successivo (ma potrebbe essere trascorsa piú di una notte, non riesco a essere preciso) vidi alcuni giovani soldati romani, vestiti di bianco, entrare nel tempio: erano stati lavati e purificati. Procedevano con grande rispetto verso la cella che accoglieva la statua di Giunone Regina. Uno di loro chiese: «vuoi venire a Roma, Giunone?». Subito dopo la sollevò con cura per portarla via. Mentre uscivano sentii alcuni di loro che riferivano di avere udito la dea rispondere di sí alla domanda del loro commilitone.
Li guardai, provai ad alzarmi da terra e con tutta la voce che mi era rimasta, gridai: «Non è vero, non è vero, state mentendo: la dea non ha dato il suo assenso».
La Tabula Cortonensis, una lamina in bronzo con incisa sulle due facce un’iscrizione giuridica di compravendita di terreni e altri beni. III-II sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.
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VEL SATIES
UN UOMO DI LARGHE VEDUTE
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l mio nome è Vel Saties, sono nato a Velch (Vulci) e in questa città è trascorsa la mia vita. Ho avuto responsabilità considerevoli in tempi complicati e di questo non mi sono mai lamentato, avendo compreso presto che gli uomini si trovano a vivere quasi sempre in periodi pieni di ostacoli. Mutano le generazioni, ma le difficoltà, pur con sembianze diverse, tornano a proporsi.
Nella pagina accanto pittura parietale strappata dalla Tomba François di Vulci, in cui compare Vel Saties, titolare del sepolcro, mentre osserva un uccello lanciato dallo schiavo Arnza per trarne auspici. IV sec. a.C. Roma, Villa Albani.
VEL SATIES Le mie scelte hanno diviso e alcune non le rifarei. Un uomo non può essere lodato o biasimato per una singola azione, ma valutato complessivamente. Nell’insieme sono stato ritenuto saggio ed equilibrato e ne vado fiero. Se dovessi descrivermi, lo farei proprio in quei termini.
Ho accennato ai tempi difficili durante i quali gli dèi mi hanno dato l’opportunità di operare e posso soffermarmi su di essi. Velch non era piú una città-stato influente nelle dinamiche del Mediterraneo come in passato e la sua presenza sul mare appariva fortemente ridimensionata. La crisi non aveva investito soltanto noi e ne risentivano anche Cisra (Cerveteri) e Tarchna (Tarquinia). Siracusa era divenuta una potenza navale di prima grandezza ed era stata proprio la città siciliana a creare difficoltà alla nostra marina. Si trascinava poi da decenni il problema di Roma e della sua volontà espansionistica. Ormai i Romani erano presenti stabilmente nel territorio dell’Etruria avendo conquistato Veio da tempo e si confrontavano direttamente con Tarchna.
I Tarquiniesi si sentivano (e si sentono) i detentori di una qualche forma di primato e pertanto decisero di prendere la guida della riscossa dell’Etruria. Lo scontro è stato durissimo e si è concluso solo da poco, con la stipula di una tregua di quarant’anni. Nel corso della guerra i sacerdoti di Tarchna consentirono addirittura un ritorno al sacrificio umano in onore delle nostre divinità: 300 prigionieri romani furono uccisi nel Foro della città, come erano stati sacrificati – durante la guerra di Troia – i prigionieri troiani in onore di Patroclo. Ho operato nel periodo successivo a quella tregua, caratterizzato da una pace apparente. Piú volte mi sono chiesto se sia stato utile accettarla e se io mi sarei comportato alla stessa maniera dei magistrati tarquiniesi. Tarchna e i suoi alleati, compresi i Vulcenti, erano stremati da sette anni di conflitto che avevano quasi prosciugato le casse delle singole città-stato e, soprattutto, compromesso l’attività agricola. Si pensi solo alle continue razzie. Alla lunga, si rischiavano seri problemi di approvvigionamento alimentare, con le conseguenze che si possono facilmente immaginare anche in termini di coesione sociale.
Questo mi avrebbe spinto ad accettare la tregua. Al contempo penso che gli stessi problemi dovevano presentarsi per Roma, ma che là lo scontro in corso tra patrizi e plebei avrebbe potuto dividere i
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cittadini romani in profondità e soprattutto con una rapidità maggiore rispetto alle nostre realtà, all’apparenza politicamente piú coese. Tali considerazioni mi avrebbero sconsigliato di scendere a patti. C’è un elemento ulteriore da prendere in considerazione: noi eravamo gli aggrediti e loro gli aggressori: una guerra breve tende a favorire questi ultimi, mentre uno scontro di anni favorisce in genere chi ha subito l’aggressione. E di anni ne erano passati parecchi. Ancora oggi mi è perciò difficile valutare quale fosse la scelta migliore da fare.
Un aspetto ho comunque chiaro e nella mia azione politica ho agito di conseguenza: non si deve abbassare la guardia. Alla scadenza della tregua, o forse prima, lo scontro riprenderà e noi dobbiamo essere pronti. Sono sicuro che Velch si troverà in prima fila o per scelta propria o per rispondere alle provocazioni romane. Essere pronti significa cercare, innanzitutto, di vivacizzare la nostra economia. Verso il mare possiamo continuare a guardare, ma la ripresa non potrà venire da lí dove abbiamo perso troppe posizioni. Occorre invece – ne sono stato tra i promotori principali – sviluppare una politica che rivitalizzi il nostro territorio: ha dimensioni notevoli, comprende terre fertili, boschi e vie d’acqua navigabili. Dobbiamo, in particolare, dare nuova vita agli insediamenti che vi si trovavano e che poi, naturalmente o con la forza, sono stati abbandonati. È necessario, inoltre, rinnovare la rete stradale per consentire collegamenti piú rapidi tra gli abitati minori e Velch cosí da agevolare i commerci interni.
Un territorio ben gestito potrà fornire ricchezze da investire nelle fortificazioni e nell’esercito. Inoltre costituirà un baluardo verso l’avanzata di Roma. Vi è un’altra riforma necessaria e che vedo invece ostacolata apertamente o con tattiche dilatorie, ed è rappresentata dalla necessità di trovare forme e modi per allargare il consenso verso le classi dirigenti di Velch. Ogni città-stato etrusca è retta da un’aristocrazia troppo ristretta e isolata: una situazione simile, in un momento come questo, è pericolosa. Non ho idee chiare in proposito, ma avverto la necessità e l’urgenza di un’iniziativa in tal senso.
Accanto alla politica, l’altra mia passione è stata la storia. A dire il vero quasi non vedo le differenze, storia e politica per me quasi si sovrappongono. Una vive in funzione dell’altra e viceversa. Può essere un mio limite, ma non riesco a immaginare un politico che non costruisca la sua azione su una
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VEL SATIES conoscenza approfondita del passato: la storia ha sempre ripercussioni su una lunga durata e ne va tenuto conto, altrimenti si rischia di trovare soluzioni effimere e quindi di corto respiro. Ovviamente la storia di Velch mi appassiona in maniera particolare: i suoi rapporti con le altre città-stato etrusche e con Roma sono stati al centro dei miei interessi. Penso, per esempio, alle lotte che Caile Vipinas (Celio Vibenna), Aule Vipinas (Aulo Vibenna) e Macstrna (Mastarna) dovettero sostenere contro Velzna (Orvieto), quando la città, nei cui pressi si trova il Fanum Voltumnae, cercò di guadagnare una piena indipendenza e allargare il proprio raggio di azione. Lo stesso Caile Vipinas fu fatto prigioniero e, solo con un’incursione coraggiosa nel campo avversario, un manipolo di eroi riuscí a liberarlo e a salvarlo da una morte sicura, considerato che i Volsiniesi avevano pensato di sacrificarlo. In quello scontro venne ucciso Laris Papathnas, l’uomo che aveva immaginato un futuro diverso per Velzna; a ucciderlo fu Larth Ulthes. A tagliare i legacci che tenevano prigioniero Caile Vipinas fu proprio Macstrna.
Piú tardi, quest’ultimo – ma è una storia che, almeno in parte, conoscete –, sempre seguendo Caile Vipinas, raggiunse Roma e riuscí, dopo varie vicissitudini, a divenirne il re col nome di Servio Tullio. Mi dicono che i Romani raccontano una storia diversa, ma la vicenda andò in questo modo e prima o poi dovranno riconoscerlo. C’è un insegnamento in queste vicende? Ritengo di sí, un uomo di governo deve avere uno sguardo ampio. Deve saper osservare con attenzione e comprendere quello che accade nei paesi attorno al suo, e avere coraggio. Potrei decidere che, sulle pareti della tomba che ospiterà me e i miei discendenti, siano raffigurate proprio queste vicende. In questa pagina particolare di una delle riproduzioni delle pitture della Tomba François realizzate da Carlo Ruspi (1798-1863), raffigurante Achille che sacrifica un prigioniero troiano. Nella pagina accanto un affresco proveniente dalla Tomba François raffigurante Macstrna (il futuro sesto re di Roma Servio Tullio, a destra) che libera Caile Vipinas (Celio Vibenna). IV sec. a.C. Roma, Villa Albani.
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AULE VELTHINA L’ORA DEL TRAMONTO
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ono davanti a un cippo in travertino appena infisso nel terreno da diversi uomini e con molta fatica. Reca una lunga iscrizione che ricorda un contratto stipulato tra me e Larth Afuna in merito alla ripartizione della proprietà di un terreno nel quale, tra l’altro, si trova la nostra tomba di famiglia. Ho in mano il documento originario e sto verificando che lo scalpellino non abbia commesso errori nella trascrizione dell’atto sulla pietra. Non sono solo, ma in compagnia di un mio nipote. È un ragazzo curioso e gli consento spesso di accompagnarmi. Deve imparare a conoscere gli uomini e a trattare gli affari, perché un giorno sarà lui ad avere la responsabilità della nostra gens in tempi che non si preannunciano facili. Nella pagina accanto particolare del coperchio di un’urna cineraria in bronzo, con un giovane banchettante, da Perugia. Fine del V-inizi del IV sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
AULE VELTHINA Lo porto con me – devo essere sincero – anche per un altro motivo: gli piace la storia e a me piace altrettanto raccontarla. Oggi pensavo di narrargli lo scontro che ha consegnato gran parte della penisola italiana a Roma e di fatto ha segnato la fine dell’indipendenza politica per l’Etruria.
Non mi illudo, né credo che avremo una possibilità di riscossa: rivolte sono ancora possibili, ma la via è tracciata. Dovremo avere soltanto l’intelligenza d’integrarci nella nuova realtà e tentare di trarne benefici per noi e per la nostra gente cercando di tenere viva la nostra cultura e le nostre tradizioni. Anche su questo, comunque, non mi faccio illusioni e, probabilmente, tra qualche tempo, la nostra stessa lingua si perderà e magari non si riuscirà piú a intendere nemmeno questa banale iscrizione che ho di fronte a me. Ma ora forse esagero.
Poteva andare diversamente? Mi sento di rispondere che sarebbe potuto accadere. Sui decenni finali dello scontro con Roma, ho informazioni di prima mano poiché allora Perugia – la mia città – aveva, con Velzna (Orvieto) e Arezzo, un ruolo rilevante in Etruria, e noi Velthina, nell’ambito della politica perugina, avevamo e abbiamo un peso. Le mire espansionistiche di Roma erano divenute chiare ai nostri occhi e l’idea di dare finalmente una risposta unitaria era maturata nelle classi dirigenti etrusche, anche se singole gentes – penso ai Cilnii di Arezzo – ritenevano ancora che i Romani avrebbero potuto essere utilizzati per sostenere gli assetti sociali tradizionali. Quale cecità! Mi è stato tramandato il ricordo delle lunghe discussioni svolte presso il Fanum Voltumnae e della lenta formazione della consapevolezza di provare a dare vita a una coalizione aperta ad altri popoli ostili a Roma: i Sanniti, gli Umbri e i Celti. Riunirla non fu semplice: i rapporti tra i Celti e noi erano tesi da quando essi avevano cancellato la nostra presenza nella pianura padana e le loro pretese continuavano a essere pesanti. Chiedevano denaro e porzioni del nostro territorio per intervenire.
Quale città-stato avrebbe dovuto concederglielo? C’era poi da fidarsi, o si sarebbe rafforzato un alleato destinato a divenire presto nuovamente un nemico? Il rapporto con i Sanniti era piú disteso ed essi, impegnati da anni contro i Romani, compresero subito la necessità di fare fronte comune. A dire il vero avevano in proposito idee ancora piú chiare delle nostre e se la situazione si sbloccò si deve molto all’accelerazione che imposero alle trattative. Gli Umbri erano una realtà piccola, ma altrettanto decisa, e noi Perugini avevamo rapporti molto stretti con loro, che vennero fatti valere
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nell’occasione. Alla fine la coalizione venne messa insieme e si cercò lo scontro: la battaglia avvenne sui campi di Sentino. Mi hanno riferito che, prima dell’inizio del combattimento, nel nostro campo c’era un certo ottimismo. Impressionava soprattutto il numero dei guerrieri sanniti e la prestanza fisica di quelli celti. Inoltre le nostre armi apparivano all’altezza di quelle romane e la determinazione dei soldati sembrava alta. Su quest’ultimo aspetto non ci si sbagliava.
Con il senno di poi avremmo dovuto individuare i nostri punti di debolezza per tentare di neutralizzarli, o almeno di limitarli: il maggiore era rappresentato dalla difficoltà di coordinare i diversi contingenti militari che, tra l’altro, erano abituati a tecniche di combattimento diverse. Probabilmente anche sulla catena di comando non si fece la necessaria chiarezza e le nostre forze di fatto non si sommarono.
Combatterono tutti, comunque, con grande coraggio, consapevoli della posta in gioco. Ho raccolto numerose testimonianze di atti eroici: uomini che si batterono per ore; altri che, nelle ultime fasi dello scontro, affrontarono i Romani a mani nude; altri, ancora, che non volevano ritirarsi neanche quando l’esito della battaglia era ormai chiaro e ritirarsi poteva significare avere salva la vita. Fu una strage, qualcuno mi ha raccontato che vi morirono circa 100 000 uomini. Si tratta di un’esagerazione, ma i caduti furono almeno 25 000. Una generazione di Etruschi e Italici si misurò a Sentino e, in buona parte, vi cadde o ne portò i segni o il triste ricordo per il resto della vita. Dopo quella vittoria, i Romani dilagarono in Etruria: cadde, per prima, la città di Roselle e la sconfitta le costò 2000 morti e altrettanti prigionieri. Noi, gli Aretini e i Volsiniesi fummo costretti a chiedere una tregua e dovemmo pagare una cifra ingente: mezzo milione di assi. Qualche anno dopo i Volsiniesi ruppero la tregua e tentarono di capovolgere di nuovo la situazione riallacciando i rapporti con gli altri popoli sconfitti a Sentino.
La coalizione era, comunque, piú debole e alcune città-stato etrusche – come Arezzo – non se la sentirono di riprendere la lotta. Fummo di nuovo sconfitti, stavolta presso il lago Vadimone. Il sole sta calando dietro una collina e mi sento all’improvviso molto stanco, ho parlato troppo a lungo. Dico a mio nipote che dobbiamo tornare a casa. Ora corre lungo il fiume e ha guadagnato già una decina di metri rispetto a me. Che cosa lo attenderà?
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UN SANNITA GLI ULTIMI GIORNI DI VELZNA
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l mio nome non conta e in questo momento pronunciarlo può crearmi problemi molto seri. Posso essere piú esplicito e dire che rischio di essere ucciso, o venduto come schiavo se un Romano mi riconoscesse. Anche per questo nelle ultime settimane ho fatto crescere la barba, intuendo che presto sarebbe arrivato il momento in cui – se fossi stato ancora vivo – avrei dovuto nascondere la mia identità. Il fatto che parli etrusco e latino correttamente mi sta aiutando: nessuno dei soldati romani che ci sta scortando riesce a intuire la mia origine sannita.
Nella pagina accanto testa in terracotta policroma di vecchio che si accarezza la barba, con una profonda ruga sulla fronte, dal Tempio del Belvedere di Velzna (Volsinii, Orvieto). Fine del V sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
UN SANNITA Ma perché mi trovo a Velzna (Orvieto) nei suoi ultimi giorni? La storia è lunga e presenta aspetti paradossali. Se alcuni mesi fa, mentre ero a Roma, non mi fossi ammalato, la mia vicenda personale sarebbe stata diversa e forse anche la fine di Velzna.
Ero a Roma per un’ambasceria per provare a sostenere le ragioni di noi Sanniti ed ero stato ricevuto e accolto nella domus di un senatore influente. Era un uomo accorto, che conosceva bene la situazione della penisola italiana e sembrava che fosse disponibile ad ascoltare, consapevole del periodo difficile che stavamo attraversando: avvertivamo tutti che un equilibrio nuovo andava trovato, ma differivano, e di molto, le opinioni sulle caratteristiche che avrebbe dovuto avere.
Avevo raggiunto Roma con dubbi e perplessità: ancora giovanissimo, avevo combattuto contro i Romani nella battaglia di Sentino e poi al lago Vadimone. Mentre ero in cammino col resto della delegazione per raggiungere la città nemica, provavo un disagio profondo. Ricordavo il cozzare delle spade, le grida, gli uomini morti al mio fianco – alcuni dei quali conoscevo sin da ragazzo –, la durezza dei Romani; ma la diplomazia ha la sua forza e le sue regole.
Avanzavo, al tempo stesso, curioso di vedere la città nemica: le sue mura, le sue case, i suoi templi, i suoi palazzi, le sue strade, le sue piazze e i suoi abitanti. Per comprendere, in altri termini, le ragioni della sua forza. L’ingresso avvenne una mattina con un cielo terso e un sole radioso, quasi che gli dèi di Roma volessero mostrare la loro città al massimo dello splendore. E splendida ci apparve la città; ancora oggi – in queste circostanze terribili – ricordo la visione superba del tempio Capitolino. Iniziarono i colloqui che proseguirono per alcuni giorni senza fare grandi passi in avanti, nella mia mente diveniva comunque sempre piú chiara la forza di Roma e quindi la sua pericolosità. Comunicai la convinzione che avevo raggiunto a un altro membro dell’ambasceria, che si mostrò piú fiducioso. Riteneva che il nostro territorio, con le sue asperità, avrebbe saputo difenderci e la nostra forza in combattimento, nel caso di un nuovo scontro, avrebbe impedito ai Romani di vincere ancora una volta. Le sue parole non mi tranquillizzarono; nascevano da una lettura della realtà che trovava le ragioni della sicurezza solo nelle armi: sapevo che non si vince uno scontro di lungo periodo con gli eserciti, ma che occorre avere
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alle spalle una società dinamica e quella romana – pur nelle sue divisioni – lo era indiscutibilmente piú della nostra. In quelle giornate fui ospitato, con liberalità e generosità, nella domus del senatore al quale inizialmente ci eravamo rivolti. Fu lí che mi ammalai, una febbre altissima mi costrinse a restare nella stanza che mi era stata offerta e a lasciare i colloqui. Mi dispiacque mostrare la mia debolezza fisica, che mi sembrò anche foriera di cattive notizie per la trattativa che stavamo portando avanti con fatica. Quella fatica, quella preoccupazione forse fece ammalare il mio corpo. Mi sentivo sempre peggio, facevo fatica anche a camminare e dovetti accettare le prescrizioni del medico dal quale mi fecero visitare: un farmaco e alcuni giorni di riposo.
Trascorsi lunghe ore da solo, alternando un sonno agitato a risvegli bruschi quando sorseggiavo acqua che un servo non faceva mancare mai nella mia stanza. I miei sogni erano impressionanti: vedevo campi ben coltivati che andavano in fiamme, il fuoco che risaliva veloce clivi ammantati da alberi e arrivava a lambire le sponde di un fiume, uomini e donne in fuga. O, altrimenti, mura che crollavano con i massi che precipitavano in un rumore assordante. Uccelli, spaventatissimi, si agitavano in un cielo solcato da nuvole minacciose. O, ancora, io che non riuscivo a parlare e a gesti segnalavo a persone sconosciute un pericolo imminente di cui loro sembravano non avere consapevolezza.
Mi ripresi, ma il medico mi consigliò di non allontanarmi ancora dalla domus. Le forze, comunque, erano tornate e pensavo di riprendere a partecipare alle trattative nelle giornate immediatamente successive. Quella sera sentii parlare etrusco nell’atrio della casa: a me arrivava solo qualche parola, ma fece scattare la curiosità. Avevo combattuto insieme agli Etruschi proprio contro i Romani e con alcuni di essi, originari di Velzna, era nata una bella amicizia. Degli Etruschi mi piaceva il suono della lingua e il riuscire ad accettare il fato dando peso a ogni singola giornata, quasi a ogni momento di essa.
Mi piacevano anche la bellezza, la fierezza e, in una qualche misura, la libertà delle loro donne, almeno quelle di rango aristocratico. Incuriosito, mi avvicinai e iniziai ad ascoltare. Nel frattempo dall’etrusco erano passati al latino e compresi che si trattava di una delegazione inviata
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UN SANNITA per confrontarsi con lo stesso senatore al quale ci eravamo rivolti e che mi stava ospitando. Mi sarei dovuto allontanare, ma non lo feci. Appresi, allora, una notizia terribile: quegli uomini erano venuti da Velzna in rappresentanza delle gentes aristocratiche – o almeno di alcune di esse – che, dopo secoli, erano state allontanate dal potere in quella sorta di rivoluzione che aveva interessato la loro città. Chiedevano che un corpo di spedizione romano si recasse a Velzna e con la forza li rimettesse al potere garantendo – in cambio – che sarebbero stati fedeli a Roma e ne avrebbero condiviso le scelte. Rimasi sconvolto, rientrai subito nella mia stanza per paura di essere scoperto: quello che ero venuto a sapere, non bisognava conoscerlo.
Quella notte non dormii e pensai a cosa avrei dovuto fare: mi fu subito chiaro che se le classi dirigenti di Velzna fossero divenute completamente vassalle di Roma, per la mia gente la posizione si sarebbe ulteriormente indebolita. Decisi che avrei dovuto avvertire gli abitanti di Velzna del pericolo che correvano in maniera tale che potessero difendersi meglio e costituire un ostacolo – seppure non insormontabile – per Roma. Come fare? Pensai che la mattina seguente avrei potuto dire che le mie condizioni di salute erano migliorate ed erano tali da consentirmi di tornare nel Sannio, dove avrei potuto farmi visitare dal mio medico personale. Le discussioni avrebbero continuato a portarle avanti gli altri componenti della delegazione.
Riuscii a essere convincente con il mio ospite e con i miei connazionali ai quali non svelai nulla per cercare di non metterli in pericolo, ma consigliai di dare un taglio alle trattative e di prendere presto la strada del ritorno. Uscii da Roma diretto verso la mia terra natale. Poi, quando ebbi la piena consapevolezza di non essere seguito – temevo che qualcuno la sera prima avesse potuto osservarmi e potesse avere riferito l’accaduto al padrone di casa – invertii la direzione e mi diressi verso Velzna. Quando l’ebbi raggiunta, osservai da lontano, con attenzione, la rupe sulla quale era stata costruita, le sue pareti ripide, l’unica via che consentiva l’accesso alla città. Pensai che aveva le caratteristiche per resistere a lungo e che, in quell’eventualità, i Romani avrebbero potuto togliere l’assedio. Col senno di poi avrei dovuto comprendere che non sarebbe stato possibile e che i Romani non si sarebbero ritirati, ma in quel momento mi appariva uno scenario realistico.
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Attraversai – ormai prossimo alla città – il Fanum Voltumnae, il santuario federale etrusco e pensai che i Romani l’avrebbero rispettato. Sbagliavo anche in questo. Giunto in città chiesi di parlare con i maggiorenti, il colloquio mi venne concesso con prontezza, li avvertii del pericolo che correvano. Mi dettero ascolto e una conferma alle mie parole venne, qualche giorno piú tardi, al ritorno degli aristocratici che erano andati a perorare la loro causa. Furono arrestati e torturati sino a una piena confessione. Quindi vennero processati e condannati a morte. La sentenza – nell’atmosfera rivoluzionaria, confusa, febbrile che si viveva – fu eseguita subito. Quelle uccisioni contribuirono a rendere piú plumbea l’area che si respirava. In breve tempo un corpo di spedizione romano si accampò nei pressi di Velzna, venimmo a sapere che era guidato da uno dei consoli.
Non mi parve un buon segno: la presenza del console significava che la spedizione non era ritenuta un’azione minore. I Romani non erano intenzionati solo a portare al potere persone di cui si potevano fidare, ma a dare un colpo di grazia definitivo alla città che aveva guidato il mondo etrusco negli ultimi decenni. Lo compresi io con la mia esperienza politica e militare, ma devo dire che lo capirono subito tutti: chi reggeva lo Stato e chi svolgeva funzioni umili, gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani.
Si decise una sortita in campo aperto e contro ogni previsione riuscimmo a vincere lo scontro e, nel volgere di poche ore, arrivò la notizia che nel combattimento era stato ucciso il console. Un’atmosfera di euforia invase la città: ci si abbracciava, si ballava, si cantava. Vi fu chi arrivò ad allestire un banchetto con le scorte alimentari accantonate in previsione dell’assedio. In un attimo si sparse la voce che l’esercito romano fosse in procinto di ritirarsi, che avrebbe abbandonato le posizioni conquistate nei giorni precedenti. Uno dei responsabili della città arrivò a dirmi che da Velzna sarebbe partita la riscossa dell’intera Etruria destinata a tornare libera.
Non mi feci contagiare dall’ingenuo entusiasmo: conoscevo bene la caparbietà dei Romani e sapevo valutare la forza del loro esercito. O forse, invece, anch’io mi feci influenzare dall’ottimismo del momento: in quei frangenti avrei potuto tentare di lasciare Velzna e di rientrare tra i
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UN SANNITA Sanniti. Scelsi, invece, di rimanere. I Romani ricevettero nuovi rinforzi e l’assedio iniziò a stringersi. Trascorsero alcuni mesi costellati da scaramucce con esiti favorevoli ai Romani, ma, soprattutto, andavano riducendosi le nostre riserve alimentari e il morale della popolazione crollava. Si arrivò a razionare il cibo sempre piú scarso e al nostro interno nacquero divisioni tra chi era favorevole a una resa senza condizioni e chi sosteneva che la lotta dovesse continuare. Avevo chiara l’inutilità di entrambe le posizioni, dato che nella realtà non potevamo piú scegliere: i Romani volevano una vittoria piena. Pensai che potevamo soltanto difenderci e morire con onore. La fine venne presto: i Romani riuscirono a superare le difese e si sparsero per le vie della città. Sembravano demoni: entravano nei templi, negli edifici pubblici, nelle case; uccidevano e razziavano. Li ho visti abbattere statue di divinità, strapparle dalle loro basi, dividersi i tesori che a esse appartenevano. Ho visto uomini e donne uccisi senza una ragione, o in fuga disperata: regnavano la ferocia, il desiderio di vendetta, la volontà d’impadronirsi di un bottino.
Si arrivò a inseguire persone inermi nei cunicoli che correvano sotto la città e ne costituivano la rete fognaria, o tra le tombe della necropoli che cingeva la rupe. Il fuoco, in alcuni casi alimentato ad arte e in altri scaturito accidentalmente, aiutava i demoni a completare la distruzione. Mi riparai all’interno di un tempio sul cui frontone, in terracotta, era raffigurato un vecchio reso con grande naturalismo. Mi soffermo sulla descrizione della sua testa: il capo calvo, una ruga profonda che solca la fronte, i denti radi. Avevo osservato quel volto nei mesi precedenti e avevo notato come riuscisse a trasmettere autorevolezza grazie anche a una mano posta sotto il mento ad accarezzarsi la barba. In quei momenti mi sembrava che emanasse sicurezza e serenità, stati d’animo che stridevano con tutto quello che accadeva intorno.
Sentii di affidarmi a lui. Può sembrare ridicolo – e forse lo è – ma affidai la mia vita a un uomo fatto d’argilla. Non so dire il tempo che trascorsi accovacciato all’interno della cella di quel tempio, mi tirò fuori un soldato romano, nemmeno con particolare brutalità, e mi condusse in una piazza dove erano riunite altre persone: eravamo i superstiti della strage. Ora abbiamo lasciato la rupe, stiamo camminando in fila, scortati, tra i resti di quello che è stato il Fanum Voltumnae, in direzione del lago di Bolsena: non so cosa accadrà in futuro, ma ho la consapevolezza di avere assistito alla fine definitiva dell’indipendenza dell’Etruria.
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Statua sannita di guerriero, forse il Meddix Tuticus, magistrato con funzioni di giudice, comandante militare e sacerdote, a capo della confederazione o lega del popolo. II sec. a.C. Benevento, Museo del Sannio.
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AULO CECINA QUEL CHE RESTA DELL’ETRURIA
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o terminato finalmente il mio libro dedicato al mondo etrusco e, in particolare, all’Etrusca disciplina, la scienza che riesce a far comprendere i messaggi che gli déi decidono d’inviarci e che insegna a comportarci di conseguenza. Mi è costato sacrificio e mi ha distolto dall’attività politica, ma ne è valsa la pena. Non voglio dire di aver scritto un capolavoro, anzi, sono certo che la mia opera presto verrà dimenticata, ma la sua composizione mi ha consentito di riallacciare un dialogo con quello che noi Cecina siamo stati. Ho avuto la possibilità di prendere parte a un banchetto ideale con i miei avi.
Nella pagina accanto particolare del coperchio di un’urna cineraria etrusca in alabastro con la testa del defunto, da Volterra. II-I sec. a.C. Fiesole, Museo Civico Archeologico.
AULO CECINA Devo dirlo subito, sono originario di Velathri (Volterra) e quindi un etrusco: scrivere quest’opera quando l’Etruria è ormai completamente romanizzata e la stessa lingua etrusca inizia a non essere piú parlata dalle nuove generazioni, mi è sembrato un risarcimento verso la storia di quello che è stato il mio popolo.
Non voglio che nascano equivoci: io sono ormai un romano e partecipo con un certo piglio alla vita politica dell’Urbe, ma non ritengo che le radici debbano essere cancellate. La penisola italiana è stata un mosaico di popoli e culture che Roma ha saputo unificare.
Tenere vive quelle singole tessere potrà rinforzare, vivacizzare, dare profondità storica alla nuova realtà, non creargli ostacoli come qualcuno, in maniera superficiale, potrebbe essere indotto a credere. Mi è sembrato, inoltre, che ripercorrere le scelte politiche dei miei avi sia stato un riallacciare un dialogo tra generazioni e comprendere che loro si sono trovati davanti ad assunzioni di responsabilità gravose quanto quelle che ora noi dobbiamo assumere e anzi ancora piú pesanti e dilanianti. Non voglio sfuggire a un argomento centrale per noi Cecina, come per altre grandi famiglie etrusche – per esempio i Cilnii di Arezzo o i Perperna di Perugia –, lasciato per anni sullo sfondo sino a divenire una sorta di rimosso. Un tema di cui in famiglia si parlava poco o niente e che tra gli abitanti della nostra città di origine continuava a circolare in sottofondo. Nessuno diceva niente in maniera aperta per il timore reverenziale che avevano sempre avuto nei riguardi della nostra gens e per gli sviluppi successivi che aveva preso la Storia (proprio quella con la «S» maiuscola), ma riuscivamo a cogliere ancora noi oggi – immagino il peso per le generazioni precedenti – una distanza e una freddezza sottile.
I Cecina erano accusati di non essersi opposti all’avanzata di Roma, anzi di averne cercato l’accordo, e di avere facilitato, in seguito, la romanizzazione dell’area volterrana e quindi di un settore importante dell’Etruria. Altre gentes, altrove (noi eravamo riusciti a imporre la nostra visione politica all’intera città), avevano avuto un atteggiamento diverso e portato la sfida sino alle estreme conseguenze: alcuni loro rampolli erano morti sui campi di battaglia di Sentino e del lago di Vadimone, o nei tanti scontri che costellarono quei decenni.
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Il fatto non può essere negato, i miei antenati – non in maniera isolata, devo ripeterlo – fecero precocemente la scelta di entrare nelle dinamiche politiche e sociali di Roma. Agirono per difendere i loro interessi e quelli della città che dominavano, o si comportarono da opportunisti? La domanda ha agitato la mia giovinezza e proprio lo studio appena concluso mi ha aiutato a trovare una risposta. Ritengo – senza fare sconti ai miei antenati – che non avrebbero potuto comportarsi diversamente. Il tempo degli Etruschi era terminato e che sarebbe dovuto finire lo sapevamo da sempre essendo scritto nei nostri Libri sacri. Doveva avere inizio quello di Roma: i tempi hanno una loro forza alla quale non ci si può opporre.
Prima si sarebbero forse potute fare scelte diverse e in grado di differire la fine, ma ormai era troppo tardi. Quali determinazioni si sarebbero dovute prendere? Mi sono interrogato su questo e qualche risposta ritengo di averla individuata guardando, dall’interno, proprio le dinamiche politiche e sociali di Roma. Dovevamo – come aristocrazia – accettare una divisione dei poteri e rendere cosí le classi sociali inferiori attive nella vita politica delle singole città e quindi piú legate alla loro fortuna. Non abbiamo agevolato la partecipazione ed esse se ne sono tenute fuori, salvo qualche rivolta servile violenta e quasi sempre senza prospettiva che abbiamo dovuto reprimere, come ad Arezzo e a Velzna (Orvieto).
Per la maggior parte della popolazione ubbidire a noi o ai Romani poteva fare una grande differenza? Non credo, dalla nostra avevamo soltanto il vantaggio di una labile unità etnica e linguistica. Avremmo dovuto delegare poteri maggiori alla lega etrusca. Non ritengo che sarebbe stato possibile superare il sistema della città-stato connaturato alla nostra cultura istituzionale sin dai suoi primi passi, ma si sarebbe potuto delegare potere decisionale all’assemblea della lega.
Da lí, da quelle faticose e spesso infruttuose riunioni, sarebbe dovuta e potuta scaturire una politica estera comune. Anche in questo caso, occorre biasimare una visione ristretta degli interessi. Non intuimmo che le dinamiche sociali ed economiche del Mar Mediterraneo erano in piena evoluzione e che sarebbero stati necessari aggiustamenti dei nostri assetti istituzionali tali da offrire una risposta alle mutate condizioni. D’altronde non lo compresero nemmeno gli Ateniesi!
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AULO CECINA Al punto in cui si era giunti, quali scelte avrebbero potuto fare le gentes che sentivano sulle spalle la responsabilità di intere comunità, dato che quasi s’identificavano con esse? Continuare lo scontro con Roma avrebbe portato all’ennesima sconfitta. I danni di una disfatta non si misurano solo, nell’immediato, sul campo di battaglia col conteggio dei morti e dei feriti, ma nei mesi e negli anni successivi con le privazioni, l’impoverimento generale e lo stesso immiserimento degli animi. Scelsero il meglio le classi dirigenti di Roselle che crearono una situazione da cui scaturirono 2000 cittadini uccisi e altrettanti prigionieri? Fecero bene i governanti di Velzna ad andare all’ennesimo scontro e a causare la distruzione della città e la deportazione forzata degli abitanti restati in vita dopo il lungo assedio e il conseguente saccheggio? Mi si potrà obiettare che gli esempi citati rappresentano casi limite, ma costituisce un danno lieve perdere – per confisca – metà del territorio come accadde a Cisra (Cerveteri), a Velch (Vulci) e a Tarchna (Tarquinia)? Sono episodi ormai lontani nel tempo, ma essi hanno continuato ad avere a lungo un peso rilevante: quale è ora la situazione di Velathri? Non esprimiamo una società decisamente piú vitale rispetto a quella degli altri centri menzionati? Oggi Velathri non è una delle città piú belle e ricche presenti nel territorio dell’antica Etruria?
Mentre andavo facendo queste valutazioni, ho riflettuto su cosa significhi onore. Non è stato onorevole avere evitato tragedie e traumi alla città che governavamo? E, aggiungo – non voglio apparire ingenuo o retorico –, al patrimonio della nostra gens? Non è stato piú coraggioso assumersi sulle proprie spalle la responsabilità di una trattativa, che affrontare uno scontro dall’esito scontato? Non è stato meglio difendere le nostre mura, le nostre case, i nostri templi, i nostri campi che metterli a rischio e vederli rasi al suolo e incendiati? Non è stato piú oneroso per i miei antenati, come per gli altri che fecero la stessa scelta, prendersi la responsabilità di traghettare Velathri e l’Etruria nella nuova realtà, piuttosto che cercare una gloria di breve durata? Come va valutato il coraggio di un giorno – che poteva portare certo al sacrificio supremo – al confronto con l’incomprensione e la fatica quotidiana durata anni? Le risposte da dare – per me che appartengo alla gens dei Cecina – appaiono chiare e addirittura univoche, altri potranno soppesare torti e ragioni con una bilancia diversa, ma li invito a prendere in considerazione le riflessioni che ho avanzato. Un’ultima considerazione: l’Etruria ha perduto ormai da tempo la sua
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indipendenza politica, ma quella culturale è durata decisamente piú a lungo. Siamo riusciti a condizionare la cultura romana anche se in una misura minore rispetto a quello che hanno saputo fare i Greci. Considerate l’attenzione notevole per l’Etrusca disciplina che si riscontra ancora oggi: essa non rappresenta il meglio della nostra riflessione teorica? La punta del pensiero scientifico e filosofico che siamo riusciti a elaborare? Come vedete, torniamo al tema del libro di cui ho appena completato la stesura. Urna funeraria etrusca con raffigurato il defunto sul coperchio e, sulla cassa, bassorilievo con il viaggio agli inferi su un carro coperto. II-I sec. a.C. Volterra, Museo Etrusco «Mario Guarnacci».
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UN ETRUSCOLOGO IL QUADRO STORICO
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uelle che fin qui avete letto sono le «testimonianze» di personaggi piú o meno noti della storia etrusca, o di persone immaginate ma coerenti con l’epoca e i luoghi nei quali sono state fatte operare. Nell’insieme, esse costituiscono le tessere di un mosaico che va ricomposto.
Sulle due pagine vedute d’insieme (fronte e retro) e particolare della testa di un bronzetto di Offerente rinvenuto in località Torraccia di Chiusi, a San Gimignano. Prima metà del III sec. a.C.
UN ETRUSCOLOGO LA PARABOLA DELLA CIVILTÀ ETRUSCA HA ATTRAVERSATO UN LUNGO ORIZZONTE CRONOLOGICO, CHE ABBRACCIA QUASI UN INTERO MILLENNIO, DAL IX (O FORSE GIÀ DAL X) AL I SECOLO A.C.
Larth Qui sopra e nelle pagine seguenti sono riprodotte le immagini di apertura di ciascun capitolo, scelte per identificare i «protagonisti» del racconto.
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Nel periodo della loro massima espansione, gli Etruschi controllarono ampie zone della penisola italiana: la cosiddetta «Etruria propria», tradizionalmente compresa tra i fiumi Tevere, a sud, e Arno, a nord, e delimitata, a est, sempre dal corso del Tevere e dai primi contrafforti dell’Appennino, e, a ovest, dal Mar Tirreno. Erano inoltre presenti in gran parte della pianura padana (inclusi territori al di là del Po, come il Mantovano) e nei distretti territoriali di Capua e del Salernitano in Campania. Esercitarono la loro influenza economica e culturale su un’area comunque ben piú vasta e si può dire che ne abbia risentito quasi tutta l’Italia, soprattutto nelle regioni centro-settentrionali. Lo stesso Mar Tirreno trae la sua denominazione da Tyrrhenoi, il termine con il quale i Greci chiamavano gli Etruschi, a indicare un loro primato in un preciso settore del Mediterraneo. I confini indicati variarono nel tempo, seguendo le evoluzioni della storia etrusca, che alternò momenti di espansione e di crisi sino alla sconfitta definitiva avvenuta per mano romana.
Gli albori di una vicenda plurisecolare La civiltà etrusca ha attraversato un lungo arco di tempo dal IX al I secolo a.C., vale a dire il I millennio a.C. quasi per intero (alcuni studiosi, probabilmente a ragione, tendono oggi a retrodatarne gli inizi al X secolo a.C.). Il periodo iniziale viene definito «Villanoviano» e vide gli Etruschi affermarsi nella penisola italiana riuscendo a fondere gli apporti culturali locali con quelli dell’area orientale del Mediterraneo e dell’Europa centro-settentrionale. Nella stessa fase, che si tende a protrarre sino al 730-720 a.C., essi raggiunsero, infatti, i confini già indicati e una forza politica ed economica tale da impedire la fondazione di colonie da parte dei Greci sul territorio sotto il loro controllo diretto. Il contatto con il mondo greco avvenne comunque e gli Etruschi ne furono influenzati in profondità. Luogo d’incontro e scontro privilegiato divenne l’Etruria campana che proprio dall’assolvimento di tale funzione, oltre che dalla fertilità del suolo, traeva importanza. Gli Etruschi presero dai Greci gli assetti istituzionali di fondo, vale a dire la forma della cittàstato (la polis), che dette una veste politica e istituzionale ai già esistenti centri protourbani; l’alfabeto; alcune tecniche artigianali come l’uso, per esempio, del tornio per la lavorazione della ceramica; conoscenze agricole avanzate come segnala il robusto sviluppo della viticoltura. L’immaginario stesso dell’aristocrazia etrusca appare tributario di quello greco, con l’enfasi posta sulla virtus eroica, sul banchetto e sulla caccia. All’epoca villanoviana va riferito anche l’inizio della talassocrazia etrusca sul Mar Tirreno, vale a dire il controllo sui traffici che vi si svolgevano, al cui interno un’importanza particolare era rappresentata dalla rete di scambi incentrata su un minerale prezioso come il ferro, di cui l’Etruria era ricca. Un insediamento legato all’estrazione e alla prima lavorazione del metallo è stato «descritto» da un immaginario Larth sulla scorta delle risultanze dello scavo condotto, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, presso il lago dell’Accesa nel comune di Massa Marittima. La successiva fase orientalizzante (730/720 a.C.-580 a.C.) fu ancora piú prospera e vide la piena affermazione di una ristrettissima aristocrazia – configurata di fatto come un’oligarchia –, in grado di tenere le redini del potere in modo quasi incontrastato sino alla piena romanizzazione. La straordinaria ricchezza accumulata dalle gentes etrusche in questa fase è ben testimoniata dalle tombe, veri monumenti funerari eretti a gloria delle casate, e dai ricchissimi corredi funerari, all’interno dei quali spiccavano oggetti realizzati in metalli preziosi e reperti che mostrano il pieno inserimento dell’aristocrazia etrusca nei traffici mediterranei. Un’ostentazione della ricchezza che voleva avvalorare e dare peso al ruolo politico e sociale raggiunto dalle gentes all’interno della comunità e,
Veneti
Galli (Celti)
Mantova Po
Adria
Po
Spina
Liguri
Bologna
Mar Adriatico Mar Ligure
Arezzo
Volterra
Cortona
Etruschi Populonia
Perugia Chiusi
Vetulonia
Umbri
Orvieto
re
e Tev
Vulci
Corsica
Tarquinia Alalia Cerveteri
Sabini
Veio ROMA
Latini
Sanniti
Mar Tirreno
Sardegna
Capua
L’Etruria «propria» Aree in cui è attestata la diffusione della cultura etrusca Città della dodecapoli Altre città di fondazione o sotto l'influenza etrusca
L’ITALIA DEGLI ETRUSCHI Cartina dell’Italia centro-settentrionale nella quale sono riportate le aree di massima espansione degli Etruschi e la diffusione della loro cultura.
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UN ETRUSCOLOGO
Larth cupures
porsenna
thefarie velianas
in qualche modo, proiettarlo in una dimensione ultraterrena. Un orgoglio di classe che continua a trovarsi all’interno di tombe affrescate di epoca successiva, come nella Golini I (350 a.C. circa), rinvenuta nei pressi di Velzna (Orvieto), dove i Leinie – la gens che aveva commissionato il monumento – fecero raffigurare alcuni illustri esponenti della famiglia a banchetto con Ade e Persefone, le due massime divinità degli Inferi. Nel periodo orientalizzante si ebbe anche il passaggio – nei centri maggiori – dall’insediamento a carattere protourbano alla città vera e propria, e dalla capanna alla casa: altri due fenomeni d’importanza notevole e in grado di segnalare mutamenti profondi e un arricchimento considerevole di settori, seppure ristretti, delle singole comunità. Il quadro che l’Etruria restituisce alla fine dell’Orientalizzante differisce quindi in maniera notevole da quello mostrato durante il Villanoviano anche nella sua fase piú avanzata: un salto qualitativo che indica l’area etrusca come una delle piú dinamiche dell’intero Mediterraneo. Se ne ricava l’immagine di un popolo – ormai pienamente costituito seppure ancora aperto a importanti fenomeni di mobilità a livello individuale o di gruppo – proiettato con forza e consapevolezza negli scenari economici e politici del mondo mediterraneo e con prospettive di crescita ulteriore. Il secolo successivo si segnala per l’affermazione di un ceto intermedio a vocazione prevalentemente artigianale e commerciale (per il quale, con qualche approssimazione, si è fatto riferimento al demos greco), ma legato probabilmente anche allo sfruttamento della terra sulla base di assetti giuridici ancora da riconoscere, o, perlomeno, da comprendere a pieno. Esso arrivò per alcuni decenni a contendere il controllo del potere all’aristocrazia, ma dovette ridimensionare ben presto le proprie aspirazioni in coincidenza con l’entrata in crisi del controllo etrusco sui traffici commerciali che si svolgevano sul Mar Tirreno dopo la sconfitta subíta nella battaglia navale di Cuma (474 a.C.). A questi homines novi, nel nostro racconto, hanno dato voce Larth Cupures , il cui nome è ricordato da un’iscrizione su un celebre cippo a testa di guerriero conservato a Orvieto, il re Porsenna , e Thefarie Velianas , tiranno a Cerveteri tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., ricordato sulle celebri lamine d’oro rinvenute a Pyrgi e conservate nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. La sostanziale contemporaneità del ridimensionamento politico del demos e della contrazione dei mercati controllati dagli Etruschi sembra suggerire che la componente mercantile e artigianale avesse un peso rilevante nella composizione del ceto sociale affermatosi durante il VI secolo a.C.
Le lotte per il dominio dei mari...
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Quest’ultimo secolo viene ricordato anche per due avvenimenti storici di particolare rilievo: la vittoria degli Etruschi, alleati con i Cartaginesi, sui Greci di Focea nella battaglia del Mare Sardo o di Alalía (540 a.C.), con la quale venne riaffermato per qualche decennio il dominio sul Tirreno, e il peso consistente avuto dagli Etruschi nella fase conclusiva del regime monarchico di Roma e negli anni iniziali della Repubblica. Nelle fonti a nostra disposizione Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo sono segnalati infatti come di origine etrusca. La battaglia del Mare Sardo ci è stata «raccontata» da Vel , un testimone immaginario, le cui parole sono ispirate a brani di Erodoto (I, 165-167) e Diodoro Siculo (5, 13, 3-4), mentre sulla talassocrazia etrusca nei decenni finali del VI secolo a.C. ha «riflettuto» Velthur Spurinna , un alto magistrato tarquiniese ricordato negli elogia della sua famiglia, che furono redatti in latino nella prima metà del I secolo d.C. e sono giunti parzialmente sino a noi.
Sugli inizi di un’egemonia tarquiniese ed etrusca su Roma abbiamo raccolto, invece, la vivace «versione» di Tanaquilla , ricavata dalla lettura attenta di alcuni passi dello storico Tito Livio (Storia di Roma, I, 34, 8-9, 11). Gli ultimi decenni del VI secolo a.C. e gli anni iniziali del successivo videro inoltre l’azione di Porsenna, il personaggio della storia etrusca che conosciamo meglio. Di probabile origine umbra, fu re di Chiusi e di Velzna (Orvieto) e tentò – con successi solo provvisori – d’inserirsi nelle contese interne di Roma e di creare un collegamento terrestre tra l’Etruria propria e i fertili territori controllati in Campania, contesi sia dai Greci d’Occidente che dai Sanniti. Saranno poi questi ultimi – un po’ a sorpresa – a cancellare la presenza etrusca, conquistando Capua nel 423 a.C. e, due anni dopo, la greca Cuma. Nel VI secolo a.C., la forza del demos si è voluta riconoscere nella spinta verso la piena urbanizzazione, evidente anche in distretti territoriali nei quali, in precedenza, aveva stentato ad affermarsi, e nella distruzione d’insediamenti ritenuti legati all’aristocrazia, come Murlo, nel Senese, e Acquarossa, nel Viterbese. Proprio della fine di Murlo e del suo palazzo, un’immaginaria Velia ha fornito un «ricordo».
...e la fine della talassocrazia etrusca Nel secolo successivo, un avvenimento significativo è la già ricordata battaglia di Cuma (474 a.C.), in occasione della quale la flotta etrusca venne sbaragliata da quella di Siracusa; da quella sconfitta prese avvio una crisi profonda del mondo etrusco. L’esito negativo dello scontro navale ebbe come conseguenza la fine della loro talassocrazia. Della battaglia ci ha offerto una «ricostruzione» il «marinaio» Arnth, i cui «ricordi» sono ritagliati sulla testimonianza di Pindaro (Pitiche, I, versi 72 e seguenti) e Diodoro Siculo (11, 51). La crisi venne avvertita in maniera piú pesante nelle città-stato costiere dell’Etruria meridionale (prime fra tutte, Cerveteri, Vulci e Tarquinia), poste al centro di quegli interessi, mentre decisamente meno pesanti furono i riflessi delle mutate condizioni socio-politiche ed economiche sulle poleis dell’Etruria interna e settentrionale, che guardavano verso altri mercati quali quello umbro, celtico e sannita, o erano legate piú direttamente all’attività metallurgica (Populonia), o, ancora, nella cui economia l’agricoltura pesava in una misura maggiore rispetto alla media (Chiusi). I diversi strati sociali affermatisi nella vita cittadina non patirono gli stessi svantaggi: l’aristocrazia, la cui base economica era costituita prevalentemente dalla proprietà della terra, ne risentí in misura minore e anzi ne approfittò per recuperare gli spazi d’influenza che aveva dovuto cedere nella fase di massima espansione del demos. Seppur necessari, questi distinguo non devono tuttavia nascondere il progressivo, generale indebolimento dell’Etruria a fronte di potenze nascenti, com’erano quella di Siracusa – in grado, nel giro di qualche decennio, di scontrarsi con Atene – di Roma, dei Sanniti e dei Celti. In tale contesto si può richiamare la fragilità strutturale dell’Etruria basata – come si è visto – sulla presenza di città-stato indipendenti e talvolta rivali tra loro, riunite in una confederazione, ma con forti difficoltà a elaborare una politica estera e una strategia militare comune. Come esempio di questa conflittualità si è utilizzata la «testimonianza» di Lars Tolumnio , re di Veio ricordato in Tito Livio (Storia di Roma, IV, 17-19). Un altro elemento di debolezza è la struttura sociale dell’Etruria: la sua chiusura rese difficoltoso il confronto e il necessario adeguamento alle nuove dinamiche che si erano andate dispiegando nella penisola italiana e nel Mediterraneo. La difesa orgogliosa delle prerogative delle gentes impedí di comprendere la necessità dell’allargamento della base sociale all’interno delle singole poleis. Queste tematiche
velthur spurinna
tanaquilla
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UN ETRUSCOLOGO
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sono state fatte affrontare nel discorso immaginario di Vel Saties , il personaggio vissuto nella seconda metà del IV secolo a.C. a cui si deve la costruzione della tomba François di Vulci, nella quale venne raffigurato. Un fenomeno che deve aver generato forti tensioni sociali sfociate in almeno tre rivolte di cui abbiamo notizia per il IV e il III secolo a.C.: due ad Arezzo, alla metà e alla fine del secolo, una a Velzna negli anni 265264 a.C. (anche se i sommovimenti dovrebbero essere iniziati alcuni anni prima). Va segnalato che, nei casi a noi noti, la repressione venne affidata a corpi di spedizione di Tarquinia, nel primo evento aretino, e di Roma negli altri due.
Una minaccia sottovalutata
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Dopo la discesa dei Sanniti nell’Etruria campana (438 a.C.) e la conquista – sempre da parte sannita – di Capua (423 a.C.), la situazione si fece in pochi decenni ancor piú critica, con la caduta di Veio (396 a.C.) in mano romana: la prima città-stato dell’Etruria propria a farlo. Questo evento epocale ritorna in diversi nostri «ricordi» e soprattutto in quello di un immaginario Aule basato su quanto affermato in Tito Livio (Storia di Roma, V, 16-23). Il pericolo rappresentato da Roma probabilmente non fu compreso a pieno sul momento, o, almeno, ritenuto piú impellente quello costituito dai Celti che avevano iniziato a premere sui confini dell’Etruria padana e che presto in effetti oltrepassarono, dilagando nella pianura padana e alterando – nel giro di pochi decenni – gli equilibri costruiti nei secoli dagli Etruschi. All’inizio del IV secolo a.C., d’altronde, i Celti riuscirono ad arrivare sino a Chiusi, dove li avrebbe incitati a recarsi un etrusco di nome Arrunte , e poi a Roma. Interessante è segnalare che l’etrusco li avrebbe spinti nella Val di Chiana vantando la feracità della terra e la generosità dei suoi frutti. Tra le città-stato etrusche fu probabilmente Tarquinia a comprendere per prima la politica espansionistica portata avanti con decisione da Roma. Occorre osservare che Tarquinia, la polis alla quale fanno riferimento i miti di fondazione del mondo etrusco e che vi ha occupato sempre un posto speciale, durante il IV secolo a.C., aveva recuperato la leadership della regione ed era tornata portatrice – o, almeno, rappresentante – degli interessi dell’intera lega etrusca. Poco prima della metà del secolo, tra il 358 e il 351 a.C., si arrivò a uno scontro bellico, la cosiddetta guerra romano-tarquiniese, costellata, da entrambi le parti, da episodi di particolare atrocità, come l’uccisione rituale dei prigionieri che si pensava superata definitivamente. L’evento è «ricordato» per noi di nuovo da Vel Saties . Trecento prigionieri romani vennero sacrificati nel foro di Tarquinia (lo stesso, in un secondo momento, fecero i Romani) e il ritorno al sacrificio umano in onore delle divinità suggerisce che i Tarquiniesi avevano consapevolezza dell’importanza decisiva dello scontro e, al tempo stesso, che l’aristocrazia locale era propensa a recuperare la tradizione piú vetusta anche in quegli aspetti che l’evoluzione religiosa e culturale dell’Etruria aveva portato a superare. Lo scontro si concluse senza vincitori né vinti, ma con una tregua quarantennale, di cui Roma seppe approfittare al contrario di Tarquinia. A quest’ultima – come si è accennato – intorno alla metà del IV secolo a.C. – toccò la responsabilità di un’azione militare per domare una rivolta servile scoppiata ad Arezzo secondo la testimonianza riportata in un elogio degli Spurinna redatto lontano dall’avvenimento, in età giulio-claudia. La notizia conferma l’impressione che – in quegli anni – Tarquinia fosse tornata a esercitare il suo primato. Dietro l’intervento si vede la preparazione militare, ma soprattutto la capacità di tessere accordi politici con le altre città-stato etrusche i cui territori dovevano essere attraversati dal corpo di spedizione
tarquiniese per raggiungere Arezzo. Solo un lavoro diplomatico preliminare poteva rendere possibile la spedizione. L’accordo fu reso probabilmente piú facile dalla paura di un contagio rivoluzionario diffusa tra le aristocrazie che detenevano il potere nelle altre poleis in cui forse si viveva una situazione d’instabilità, come sembra suggerire il fatto che la repressione non fu attuata da truppe di città-stato prossime geograficamente, ma si delegò l’intervento a Tarquinia e alla sua orgogliosa e antica aristocrazia. Alla scadenza della tregua quarantennale concordata, quando ripresero le ostilità, Roma e Tarquinia non si trovarono piú su un piano di sostanziale parità. Tale consapevolezza maturata nei decenni appena precedenti, oltre a fattori socio-economici e politici che riusciamo solo a intuire, fece passare il primato etrusco nelle mani di città-stato dell’Etruria tiberina come Velzna e Perugia. Le cui classi dirigenti scelsero di allargare la coalizione a Sanniti, Umbri e Celti, cioè a popoli già nemici, ma con i quali le due cittàstato avevano rapporti economici e culturali che risalivano al VI secolo a.C. Nel caso di Perugia, inoltre, la componente etnica umbra avrebbe avuto una funzione importante nello stesso processo di formazione dell’insediamento. L’alleanza fu favorita anche dalla comune necessità di fronteggiare l’avanzata di Roma che creava problemi a tutti i popoli appena ricordati. Nel lavorío diplomatico che portò all’alleanza ebbero un ruolo politico importante le classi dirigenti sannitiche, schierate su posizioni fortemente antiromane. La mossa politica era sicuramente all’altezza della sfida imposta dai tempi e consentí di riunire un esercito che poteva effettivamente confrontarsi con quello romano e non partire già sconfitto. Le stesse economie che dovevano supportare lo sforzo bellico erano all’altezza del compito e sicuramente comparabili – probabilmente ancora superiori nel complesso – a quella romana.
arrunte
Due sconfitte segnano il tramonto Lo scontro decisivo si svolse a Sentino (presso Sassoferrato, nelle Marche) nel 295 a.C.: sul campo sarebbero rimasti 100 000 morti per lo storico greco Duride, 25 000 invece secondo la valutazione di Tito Livio. Si tratta di cifre enormi in sé, soprattutto se riferite alla popolazione dell’epoca. Tali dati consentono di comprendere l’importanza dello scontro, terminato con una sconfitta rovinosa per gli Etruschi e i loro alleati e che rappresentò una svolta nella storia dell’intera penisola italiana facendo pendere la bilancia a favore di Roma. Nel 283 a.C., in prossimità del lago Vadimone, nelle vicinanze di Orte, la supremazia di Roma venne ribadita con la forza delle armi: dopo quest’ultima sconfitta, le diverse città-stato etrusche ancora indipendenti iniziarono a capitolare una dietro l’altra: Tarquinia nel 281, Vulci e Velzna nel 280, Caere nel 273 a.C. Nel nostro racconto, tutte queste vicende sono richiamate nelle «affermazioni» di Aule Velthina , il personaggio menzionato in una delle iscrizioni etrusche piú lunghe giunte sino a noi e incisa sul cosiddetto Cippo di Perugia, conservato attualmente nel Museo Archeologico Nazionale del capoluogo umbro. L’Etruria era conquistata, ma non pacificata. Una rivolta dagli spiccati caratteri sociali si ebbe a Velzna e fu repressa con grande violenza dai soldati di Roma: la città venne assediata e, una volta conquistata nel 264 a.C., saccheggiata e distrutta; gli abitanti superstiti furono trasferiti sulle sponde del lago di Bolsena dove venne fondata una nuova città, Volsinii in lingua latina, situata in una posizione meno difendibile. Vale la pena soffermarsi sull’episodio il cui racconto lo abbiamo essenzialmente da Zonara (VIII, 7), un erudito vissuto alla corte dell’imperatore Alessio I Comneno e morto intorno al 1130. Lo storico dovrebbe avere tratto le sue informazioni da Dione Cassio
aule velthina 101
UN ETRUSCOLOGO L’ETRURIA VENNE ROMANIZZATA CON GRANDE RAPIDITÀ, ANCHE IN VIRTÚ DELL’INTELLIGENTE POLITICA D’INTEGRAZIONE ATTUATA NEI CONFRONTI DELLE CLASSI DIRIGENTI: NE È UN ESEMPIO L’ESPONENTE DEI PERPERNA, UNA IMPORTANTE FAMIGLIA DI PERUGIA, CHE ARRIVÒ A RICOPRIRE LA CARICA DI CONSOLE
un sannita 102
che, a sua volta, dovrebbe essersi rifatto a Tito Livio. La prima capitolazione di Velzna (280 a.C.) sarebbe stata seguita – nel resoconto di Zonara – da forti tensioni sociali, culminate in una presa del potere da parte dei servi, i quali dopo conquiste parziali – tollerate dall’indebolita aristocrazia locale – presero la guida della città allontanando chi l’aveva retta sino a quel momento. La risposta non si fece attendere troppo a lungo e una delegazione degli aristocratici si recò a Roma per chiederne l’aiuto. Il fatto può sorprendere, ma non piú di tanto se si pensa che un intervento romano con le stesse caratteristiche era stato effettuato ad Arezzo nel 302 a.C. al fine di riportare al potere l’aristocrazia aretina (Liv., X, 3,2). Si rammenti che, nel 302 a.C., l’Etruria propria (tranne sostanzialmente Veio, conquistata nel 396 a.C.) era ancora indipendente, ma fu possibile per Roma – nel quadro di un accordo diplomatico che suggerisce legami stretti tra le diverse aristocrazie – inviare un corpo di spedizione verso la lontana città-stato etrusca con la neutralità delle altre di cui doveva attraversare il territorio. I Romani decisero di accogliere l’appello degli aristocratici volsiniesi e un contingente romano raggiunse la città ponendola sotto assedio. Gli abitanti si difesero e l’assedio durò alcuni mesi. In uno scontro morí il console che aveva il comando della spedizione; a questo punto gli eventi precipitarono e i Romani non si limitarono a ristabilire l’ordine, ma distrussero la città e trasferirono in un altro luogo «i cittadini originari della città e i servi che erano rimasti fedeli ai padroni». La conquista di Velzna e il trasferimento forzoso degli abitanti superstiti sono stati narrati qui da un sannita immaginario seguendo in maniera fedele la ricostruzione offerta da Zonara (VIII, 7), che parla espressamente di un uomo del Sannio che avrebbe avvertito i rivoltosi.
Un avvertimento chiaro Nello stesso anno, 264 a.C., iniziò la prima guerra punica e Roma si avviò, attraverso il confronto militare con Cartagine, a controllare il Mediterraneo. La durezza dell’intervento a Velzna si può spiegare, quindi, non solo con la volontà di vendicare la morte del console, ma con l’intenzione d’inviare un messaggio forte, teso a terrorizzare gli Etruschi e a evitare loro rivolte mentre Roma era impegnata in uno scontro decisivo. Ci si è soffermati su quest’ultimo episodio e su quello risalente al 302 a.C. – forse ancor piú indicativo – per indicare come talvolta la solidarietà tra aristocrazie e l’esistenza d’interessi in comune potessero superare le barriere etniche. Nuove sommosse si ebbero in Etruria nel 196 a.C., con una rivolta di schiavi, e nel 186 a.C., in seguito alla repressione di particolari riti domestici a carattere dionisiaco. La romanizzazione avanzò comunque rapidamente, anche grazie a un’intelligente politica d’integrazione delle classi dirigenti: già nel 130 a.C. un esponente dei Perperna, un’importante gens perugina, arrivò a ricoprire la carica di console. Anche in precedenza, durante la spedizione di Annibale in Italia, l’integrazione nel mondo romano sembra avere funzionato, dato che – nonostante i notevoli successi iniziali del condottiero punico – l’Etruria non si rivoltò contro Roma. Città etrusche contribuirono anzi all’organizzazione della spedizione africana di Publio Cornelio Scipione, detto poi l’Africano, fornendo aiuti (Liv., XXVIII, 45, 14-18): in particolare, Caere dette frumento e altri viveri; Populonia, ferro; Tarquinia, tela per le vele delle navi; Volterra, armi e frumento; Arezzo, armi in notevole quantità, attrezzi in ferro e grano; Perugia, Chiusi e Roselle, legno per fabbricare navi e frumento. Vale la pena soffermarsi sulle modalità della romanizzazione: essa passò attraverso l’inserimento di esponenti dell’aristocrazia etrusca nella vita economica e politica di Roma e tramite la deduzione di colonie nei territori etruschi conquistati, che garantivano
una presenza fissa da parte di persone fedeli e grate a Roma (Cosa nel 273 a.C., Castrum Novum nel 264 a.C., Alsium nel 247 a.C., Fregene nel 245 a.C., Pyrgi nel 191 a.C., Saturnia nel 183 a.C., Gravisca nel 181 a.C., ecc.). Fu resa possibile, inoltre, dall’apertura di alcune strade consolari (Aurelia, Cornelia, Clodia, Cassia, Flaminia, Amerina) che facilitavano i commerci e consentivano – in caso di bisogno – lo spostamento rapido di truppe.
Sempre dalla parte sbagliata La parificazione giuridica degli Etruschi e degli Italici successiva alla guerra sociale (9088 a.C.), con la concessione della cittadinanza romana, segnò la fine giuridica dell’autonomia dell’Etruria (quella sostanziale era andata perduta molto prima) e il latino divenne progressivamente la lingua ufficiale. L’Etruria non esisteva piú, ma gli Etruschi si videro coinvolti – come altre popolazioni dell’Italia antica – nel confronto tra Mario e Silla, parteggiando con il primo, che venne sconfitto e, successivamente, in quello tra Ottaviano e Antonio, scegliendo di nuovo la fazione sbagliata. Gli errori di posizionamento politico portarono a un impoverimento dell’area etrusca dovuto a spedizioni punitive portate avanti dai vincitori, a espropri abbastanza estesi e a distruzioni che interessarono Perugia in maniera particolare (41-40 a.C.), dove si era accampato un esercito guidato dal fratello di Antonio con l’assenso dei maggiorenti della città. Nel nostro caso il racconto della romanizzazione è affidato soprattutto alle «parole» di Aulo Cecina , uomo politico e storico, vissuto nel I secolo a.C. e discendente di una delle famiglie piú rilevanti nella storia di Volterra. La storia degli Etruschi può dirsi davvero conclusa anche se la loro cultura e le loro tradizioni continuarono ancora a interessare: l’imperatore Claudio fu autore di un’opera in lingua greca incentrata su di essi e purtroppo non giunta sino a noi, mentre aruspici di origine etrusca sono ricordati in azione ancora nel VI secolo d.C. da Procopio.
PER SAPERNE DI PIÚ • Mauro Cristofani, Gli Etruschi del mare, Longanesi, Milano 1983 • Mauro Cristofani, Saggi di storia etrusca arcaica, Giorgio Bretschneider Editore, Roma 1987 • Mario Torelli, La società etrusca. L’età arcaica e classica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1987 • Bruno D’Agostino, Gli Etruschi, Jaca Book, Milano 2003 • Giuseppe M. Della Fina, Etruschi. La vita quotidiana, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2005 • Giovannangelo Camporeale, Gli Etruschi. Storia e civiltà, UTET, Torino 2015 (4^ ed.) • Mario Torelli, Storia degli Etruschi, Editori Laterza, Roma-Bari 2012 (9^ ed.) • Gilda Bartoloni (a cura di), Introduzione all’Etruscologia, Hoepli, Milano 2012 • Vincenzo Bellelli (a cura di), Le origini degli Etruschi. Storia, archeologia, antropologia, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2012 • Giuseppe Sassatelli-Giuseppe M. Della Fina, Gli Etruschi, Monduzzi Editoriale, Milano 2013 • Laura Bentini, Marinella Marchesi, Laura Minarini, Giuseppe Sassatelli (a cura di), Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna, Electa, Milano 2020
aulo cecina un etruscologo Giuseppe M. Della Fina, autore di questa monografia, è membro del Comitato Scientifico di «Archeo». È nato e vive a Orvieto. Ha la direzione scientifica della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» e ha insegnato etruscologia presso l’Università degli Studi dell’Aquila. Collabora alle pagine culturali de la Repubblica. Dirige la rivista Archaeologiae. Research by Foreign Missions in Italy.
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I TEMPI E I LUOGHI
TARQUINIA
NELLA CITTÀ DI TANAQUILLA
S
econdo la tradizione, Tanaquilla era originaria di Tarquinia. Della regina non ci è pervenuto alcun oggetto, ma sappiamo da un passo di Varrone che, a Roma, nel tempio di Sanco (divinità italica, garante del giuramento, n.d.r.) si conservava la lana attaccata alla sua conocchia e al suo fuso, mentre in quello della dea Fortuna si poteva osservare la toga regia confezionata da lei per Servio Tullio. Per avvicinarci al suo mondo, dobbiamo recarci a Tarquinia, la città alla quale rinviano i miti di fondazione della civiltà etrusca: quelli di Tagete, un fanciullo con la saggezza di un vecchio, che sarebbe apparso all’improvviso, balzando da una zolla di terra, a un contadino intento ad arare, e di Tarconte, fratello o figlio di Tirreno, l’eroe eponimo degli Etruschi, che sarebbe partito da Tarquinia per fondare Cortona, Pisa, Mantova e dare vita alla dodecapoli padana.
Sarcofagi come ritratti La visita può partire dal Museo Archeologico Nazionale ospitato all’interno di Palazzo Vitelleschi. Al pianterreno sono presentati i sarcofagi, i piú prestigiosi dei quali si trovano nelle sale 10 e 11. La prima accoglie quelli della gens Partunu e tra essi vanno osservati, con cura particolare, quelli detti del Sacerdote, del Magnate e dell’Obeso. Nella sala successiva sono esposti i sarcofagi di altre famiglie di rango quali i Camna e i Pulena; vi è ospitato anche quello, assai noto, del Magistrato. Al piano superiore viene seguito il criterio tipologico-cronologico; dai materiali piú antichi ai piú recenti. Il periodo villanoviano (IX-VIII secolo a.C.) appare caratterizzato da una prosperità notevole che spiega il ruolo di guida che la città assunse rispetto al resto dell’Etruria. Seguono i reperti di epoca orientalizzante che suggeriscono un qualche ripiegamento, o meglio la riduzione del gap da parte delle altre poleis. Tarquinia continua comunque a essere una metropoli come suggerisce la tradizione che vi fa trasferire il corinzio Demarato con il suo seguito di artigiani e artisti. Non si dimentichi che
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Demarato viene indicato come il padre di Lucumone, il marito di Tanaquilla e il futuro re di Roma col nome di Tarquinio Prisco.
I cavalli alati In successione sono esposte le antichità di epoca arcaica e classica. Le due fasi vanno distinte, e se il periodo arcaico è ancora un tempo florido, coevo alla stagione qualitativamente piú alta della pittura parietale a carattere funerario, il seguente, soprattutto nei decenni immediatamente successivi al 474 a.C., mostra la rottura di un equilibrio e suggerisce il progressivo ridimensionamento delle mire politiche di Tarquinia. Occorre osservare che la città seppe reagire alla crisi e trovare nel proprio entroterra le spinte per una ripresa che dette vita a un’altra stagione artistica notevole, ben testimoniata dalla celebre coppia di cavalli alati realizzati in terracotta per il tempio urbano dell’Ara della Regina e da sarcofagi di pregio. Lo scontro con Roma, culminato nella guerra romano-tarquiniese (358-351 a.C.), si concluse definitivamente nel 281 a.C.; cento anni piú tardi venne dedotta la colonia romana di Gravisca; la romanizzazione si completò con l’inserimento nella tribú Stellatina e nella trasformazione in municipio. Lasciato il Museo Archeologico Nazionale, si possono visitare la necropoli con le numerose e celebri tombe dipinte e l’antica area urbana nella quale si trovano, tra l’altro, i resti del tempio dell’Ara della Regina. A Tarquinia sono attualmente aperte al pubblico, protette da apposite porte a vetri che garantiscono la stabilità climatica delle camere funerarie, alcune delle tombe dipinte (vedi a p. 118) piú significative. Gli affreschi di altre tombe furono staccati in passato dalle pareti per motivi di conservazione e sono visibili all’interno del Museo Archeologico Nazionale: è il caso delle tombe del Triclinio, delle Olimpiadi, delle Bighe e della Nave.
Nella pagina accanto Tarquinia, Tomba dei Leopardi. Pittura raffigurante un danzatore. 480-470 a.C. In basso l’altorilievo dei cavalli alati, dal tempio dell’Ara della Regina. IV sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.
INFO In questa sezione della Monografia sono segnalati e descritti musei e aree archeologiche gestiti, in larga parte, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, ma anche da enti locali e altre istituzioni. Poiché orari e modalità di visita sono spesso soggetti a variazioni stagionali, suggeriamo di consultare le pagine web ufficiali dei diversi siti. Inoltre su www.beniculturali.it (indirizzo web del MiBACT), si può ususfruire della sezione «I luoghi della cultura», provvista di un motore di ricerca che permette di acquisire le informazioni di contatto di base per tutti i beni archeologici e storico-artistici, anche per quelli non statali.
I MUSEI MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE Tarquinia, piazza Cavour, 2
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I TEMPI E I LUOGHI
ORVIETO
SULLE ORME DI LARTH CUPURES, LO STRANIERO
I
l cippo a testa di guerriero fatto scolpire da Larth Cupures è conservato attualmente a Orvieto nella sezione civica del Museo «Claudio Faina». Da qui può avere inizio la visita alla città di epoca etrusca, i cui fasti non arrivarono subito: la fase villanoviana è infatti modesta e sembra rinviare a un insediamento con un numero di abitanti limitato e non al passo con le aree piú ricche dell’Etruria. Un’impressione confermata per l’età successiva denominata orientalizzante. La situazione iniziò a mutare negli ultimi decenni del VII secolo a.C. e, con piú decisione, durante il secolo successivo. Orvieto (Velzna) recuperò rapidamente il ritardo iniziale e raggiunse pienamente lo status di polis: è logico pensare che alla sua evoluzione abbia contribuito la crescita d’importanza dell’asse fluviale Chiani-Paglia-Tevere, dovuta alla piena affermazione di Chiusi e Roma. Le basi economiche del boom non appaiono scosse nel V secolo a.C., neppure dopo la sconfitta navale patita dagli Etruschi a Cuma e che portò a un ridimensionamento del loro controllo sul Mar Tirreno. Evidentemente gli interessi commerciali volsiniesi guardavano altrove, verso l’interno della penisola e in direzione dell’area d’influenza gallica. Nel frattempo, con ogni probabilità, in prossimità della città, era sorto il Fanum Voltumnae, ovvero il santuario federale degli Etruschi.
Le influenze dell’arte greca I decenni finali del V secolo a.C. e gli anni iniziali del successivo sono segnati da un’intensa attività edilizia che investí diversi santuari urbani: le realizzazioni sono quasi sempre di alto livello qualitativo e si devono a maestranze aggiornate rispetto alle evoluzioni dell’arte greca. Vanno ricordate almeno le decorazioni frontonali del tempio di Belvedere e quelle rinvenute in via San Leonardo. Tuttavia, solo con la fine del IV secolo a.C. e il ridimensionamento del primato di Tarquinia, Velzna acquisí una sorta di primato in Etruria e fu in prima linea nell’opporsi senza successo
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all’espansionismo di Roma. La città, insieme a Vulci, venne conquistata nel 280 a.C. La sconfitta portò a una delegittimazione di chi deteneva il potere e a un conseguente moto rivoluzionario che venne represso con particolare durezza dai Romani chiamati in aiuto da alcune gentes aristocratiche locali: la repressione arrivò a infliggere il trasferimento dei superstiti a ridosso del lago di Bolsena (265-264 a.C.).
Una collezione di prim’ordine Conosciute per sommi capi le vicende storiche del centro, possiamo tornare al Museo «Claudio Faina», posizionato in piazza del Duomo, proprio di fronte alla Cattedrale. Nasce da una collezione privata riunita dai conti Mauro ed Eugenio Faina tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento, mentre il nome che reca corrisponde a quello di chi ha voluto che divenisse pubblica nel 1954. Accoglie reperti provenienti da diverse parti dell’Etruria, ma soprattutto da Chiusi, Perugia e Orvieto. Lungo il percorso espositivo spiccano il monetiere e una raccolta davvero straordinaria di vasi attici a figure nere e rosse (per dare peso all’affermazione si può ricordare la presenza di tre anfore attribuite al celebre ceramografo Exekias, attivo nella seconda metà del VI secolo a.C.). Degne di nota sono anche le raccolte di vasi etruschi figurati, con pezzi pregevoli del «Gruppo Orvieto» e del «Gruppo di Vanth», e di bronzetti votivi etruschi e romani. Al pianterreno di Palazzo Faina è collocata la sezione civica dove spicca il cippo di Larth Cupures, ma vi figurano anche una statua marmorea di fabbricazione greco-orientale, la Venere di Cannicella, venerata come statua di culto nell’area sacra presente nella meno nota delle necropoli suburbane; parti della decorazione frontonale del tempio di Belvedere, tra cui una celebre testa di vecchio;
La Venere di Cannicella, statua in marmo greco raffigurante una divinità nuda, forse Cerere, rinvenuta presso un altare nell’omonima necropoli a Orvieto. Fine del VI sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
provenienti dai templi orvietani, tra le quali spiccano quelle dal Belvedere e da via San Leonardo, e gli affreschi staccati dalle pareti delle tombe dipinte Golini I e II. Particolarmente interessante risulta la visita alla necropoli di Crocifisso del Tufo che s’incontra lungo la strada che da Orvieto Scalo sale a Orvieto. L’area archeologica si articola in due settori: uno corrisponde all’area lasciata in vista già nei decenni finali dell’Ottocento per costituire una «passeggiata archeologica» in anni in cui il turismo muoveva i suoi primi passi; l’altro accoglie le tombe a camera riportate alla luce negli anni Sessanta del Novecento attraverso scavi diretti da Mario Bizzarri. Vanno osservati l’impianto urbanistico regolare della necropoli e l’alto numero di iscrizioni presenti: l’architrave d’ingresso di A sinistra Orvieto. Un settore della necropoli etrusca di Crocifisso del Tufo. Risalente al VI sec. a.C., il sepolcreto presenta piccole tombe in tufo, a camera rettangolare generalmente singola, allineate lungo le vie sepolcrali secondo un preciso schema ortogonale, con inciso sull’architrave il nome del defunto. In basso anfora attica a figure nere con scena di apoteosi di Eracle, dalla necropoli di Crocifisso del Tufo. Opera di Exekias, 550-530 a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
il sarcofago di Torre San Severo decorato con scene tratte dalla mitologia greca. Su un altro lato della stessa piazza del Duomo si trova il Museo Archeologico Nazionale, allestito negli anni Ottanta del Novecento: accoglie reperti provenienti dalle necropoli orvietane di Crocifisso del Tufo e di Cannicella e dal territorio. I suoi punti di forza sono rappresentati da una ricca selezione di terrecotte architettoniche
I MUSEI MUSEO «CLAUDIO FAINA» Orvieto, piazza del Duomo, 29 MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE Orvieto, Palazzo Papale, piazza del Duomo NECROPOLI DI CROCIFISSO DEL TUFO Orvieto, strada della Stazione ferroviaria
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I TEMPI E I LUOGHI
In questa pagina antefissa a testa femminile (a sinistra) e lastra ad altorilievo con testa di Gorgone (in basso) in terracotta dipinta, facenti parte della decorazione frontonale del Tempio del Belvedere. V-IV sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
ogni tomba reca inciso il nome di colui che aveva fatto costruire il monumento. Un’attenzione per la scrittura davvero notevole, che la rende la necropoli etrusca col numero piú alto di iscrizioni: indice di un’attenzione notevole dei Volsiniesi per la scrittura. Si devono notare anche la forma a dado delle tombe, riconosciuta solo in seguito a un recente piano sistematico di restauro, e i numerosi cippi realizzati con il tufo locale
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come gli stessi monumenti funerari. La visita alla necropoli può concludersi (o aprirsi) utilmente entrando nell’Antiquarium situato in prossimità della biglietteria.
Un tempio molto venerato Proseguendo sulla via Umbro-Casentinese, non lontano dal celebre Pozzo di San Patrizio, s’incontrano i resti del tempio di Belvedere, uno degli edifici sacri piú noti della città e che deve la sua notorietà al livello stilistico della decorazione dei due frontoni realizzata in terracotta. Il tempio presentava una scalinata di accesso (quella visibile attualmente è una ricostruzione), un pronao con due file di quattro colonne e tre celle con la centrale piú ampia delle altre. Come di norma, l’altare era collocato all’esterno e il tempio era delimitato da un temenos. Su prenotazione, è possibile visitare l’area archeologica al di sotto della chiesa di S. Andrea e un tratto del possente muro etrusco visibile in via della Cava (per informazioni sulle modalità di visita, rivolgersi al Museo Archeologico Nazionale).
CERVETERI
QUI NACQUE VEL, GRANDE UOMO DI MARE
C
ome ci ha suggerito l’immaginario marinaio Vel, Cerveteri è stata una delle poleis etrusche piú inserite nelle rotte commerciali del Mediterraneo. Presenta oggi una delle aree archeologiche piú suggestive dell’intera Etruria, vale a dire la necropoli della Banditaccia. Ma prima di andare a visitarla, occorre tracciare – seppur brevemente – le vicende storiche del centro, che consentono, tra l’altro, di comprendere a pieno la vocazione mediterranea degli Etruschi. L’occupazione del pianoro scelto per l’insediamento risale al IX secolo a.C., ma il salto qualitativo avvenne piú tardi, durante il VII secolo a.C. C’è da osservare, comunque, che l’abitato aveva dato già segni di vitalità e mostrato la sua vocazione verso il commercio marittimo come testimoniano le precoci importazioni dalla Sardegna e dalla Campania. L’età orientalizzante vide l’estensione dell’insediamento all’intero pianoro e le necropoli della Banditaccia e di Monte Abatone iniziarono a essere utilizzate: indici entrambi di un sensibile aumento demografico. Un boom pienamente confermato, anzi amplificato, nel secolo seguente, quando emerge con grande chiarezza il ruolo di potenza mediterranea raggiunto dalla polis. Un episodio centrale della storia etrusca ne offre conferma: i Ceriti furono
in prima fila nella battaglia del Mare Sardo (o di Alalia), nella quale gli Etruschi, alleati coi Cartaginesi, sconfissero i Focei che avevano fondato sulle coste meridionali della Francia la colonia di Massalia, l’odierna Marsiglia. La vittoria avvenuta intorno al 540 a.C. confermò il primato etrusco e cartaginese e, per alcuni decenni, riuscí a vanificare le mire greche.
Immigrati greci e punici
Una tomba monumentale a tumulo, nella necropoli etrusca della Banditaccia a Cerveteri. Sepolcri come questo sono riferibili alle grandi famiglie aristocratiche.
La centralità di Cerveteri in quei decenni può dedursi facilmente dai rapporti privilegiati intessuti dalla città con il santuario di Apollo a Delfi e dalle testimonianze – anche di carattere epigrafico – che indicano la presenza e l’attività di persone di origine greca e punica. Immediatamente dopo il decennio 490-480 a.C., la polis fu interessata da una profonda ristrutturazione edilizia che sembra dettata non soltanto dalla volontà di un aggiornamento della sua immagine, ma da profondi mutamenti di carattere istituzionale e sociale. A Caere si affermarono probabilmente figure tiranniche che scardinarono i vecchi assetti e che guardarono, piú che all’aristocrazia tradizionale legata alla proprietà della terra e quindi all’attività agricola, a nuovi ceti emergenti piú dinamici. Di uno di questi tiranni, Thefarie Velianas, attivo agli inizi del V secolo a.C.,
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I TEMPI E I LUOGHI
è giunta sino a noi un’importante testimonianza epigrafica, vale a dire le celebri lamine d’oro di Pyrgi. Nell’iscrizione bilingue, redatta in etrusco e in punico, si ricorda una sua offerta alla divinità Uni-Astarte. Una sistemazione diversa delle necropoli era iniziata già in precedenza e aveva previsto la realizzazione di isolati regolari rispettosi di un piano urbanistico emanato da un’autorità centrale: segno anch’esso del superamento delle prerogative dell’aristocrazia – indicate in precedenza dalla costruzione di tumuli monumentali a gloria della casata – e dell’affermarsi di una mentalità piú egualitaria.
La sconfitta di Cuma Se una battaglia navale aveva aperto un periodo d’oro per Cerveteri, un altro scontro avvenuto in mare, di fronte a Cuma, nel 474 a.C., lo chiuse. Gli Etruschi vennero infatti sconfitti dai Greci di Cuma e Siracusa. Il controllo etrusco del Mar Tirreno ne uscí profondamente ridimensionato e Cerveteri ne soffrí piú di altri centri. Il secolo successivo fu pieno di avvenimenti che suggeriscono il permanere del prestigio della polis, ma anche il suo progressivo ridimensionamento politico: i suoi interessi, seppur portati avanti con lungimiranza, sembrano concentrarsi ormai sulle dinamiche dell’Italia centrale tirrenica. Caere accolse le Vestali e gli oggetti sacri del popolo romano durante la temporanea occupazione di Roma da parte dei Galli guidati da Brenno, aprí le porte ai giovani aristocratici romani che vi venivano inviati per studiare, subí l’affronto del saccheggio del santuario di Pyrgi da parte dei Siracusani. Nei decenni iniziali del III secolo a.C. la città abbandonò la neutralità scelta nei confronti dell’espansionismo romano e si schierò a fianco delle altre poleis etrusche. L’esito del confronto con Roma fu negativo e la città perse la propria indipendenza politica nel 273 a.C. La sconfitta portò con sé la confisca della metà del territorio. La romanizzazione fu rapida, agevolata dalle relazioni del passato e
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dall’apertura della via Aurelia: il territorio si popolò di ville rustiche o d’otium appartenute anche a personaggi famosi, come quelle di Pompeo e di Cesare. La crisi della città fu altrettanto veloce: Strabone, storico di età augustea, ricorda che Caere si era ridimensionata al punto da divenire meno popolosa delle Aquae Caeretanae, una stazione termale vicina. Piú tardi, una ripresa avvenne pur senza riuscire ad arrivare neppure lontanamente ai fasti di epoca etrusca: le epigrafi ricordano un teatro, un anfiteatro, una basilica, una curia, alcuni templi.
Tracce di un’antica ricchezza È essenzialmente la documentazione archeologica a consentire la ricostruzione storica che si è proposta e pertanto vale la pena visitare il Museo Archeologico Nazionale Cerite in piazza Santa Maria, che, comunque, offre un’idea appena sufficiente dell’importanza di Caere: una parte molto significativa dei reperti scavati sono stati dispersi dal mercato antiquario tra l’Ottocento e il Novecento e non sono rimasti – come sarebbe dovuto accadere – in loco. Il percorso espositivo è articolato su due piani
In alto l’interno della tomba dei Rilievi nella necropoli della Banditaccia, appartenuta alla potente famiglia Matunas. Seconda metà del IV sec. a.C. Il nome del sepolcro è dovuto ai rilievi in stucco policromo che ornano le pareti e le colonne, raffiguranti armi e oggetti di uso pubblico e privato.
ed è allestito secondo il criterio cronologico. In apertura si trovano i corredi funerari delle tombe a incinerazione della necropoli del Sorbo, mentre in prossimità dell’uscita sono esposti quelli di II secolo a.C., quando Cerveteri era già sotto il controllo di Roma. Nel museo hanno trovato collocazione anche materiali provenienti dall’abitato, dall’area urbana, e tra essi si segnalano antefisse, lastre fittili, ex voto in terracotta in grado di testimoniare il livello qualitativo della coroplastica ceretana. Nel cortile d’ingresso si trovano frammenti architettonici in tufo e testimonianze lapidee di epoca romana che attestano la continuità dell’insediamento e, al contempo, le sue profonde trasformazioni.
Una grandiosa città dei morti In basso, a destra coperchio di urna in terracotta, con figura di giovane semisdraiato sul fianco, dalla necropoli della Banditaccia. Prima metà del V sec. a.C. Cerveteri, Museo Nazionale Cerite.
Si può quindi raggiungere la necropoli della Banditaccia, che da sola vale una visita a Cerveteri. Non a caso ha sempre colpito gli scrittori: David Herbert Lawrence ha scritto su di essa alcune delle pagine piú belle del suo breve capolavoro Etruscan Places, Alberto Savinio ne ha descritto la visita in Dico a te, Clio, Giorgio Bassani vi ha ambientato il prologo del romanzo Il giardino dei Finzi Contini. Va segnalato che l’area archeologica visitabile non racchiude l’intero sepolcreto indagato, ma soltanto una sua parte, seppure quella piú rappresentativa. Nel recinto monumentale si trovano alcuni dei grandi tumuli realizzati dalle famiglie aristocratiche piú in vista di Cerveteri per glorificare la propria casata, tra questi vanno sicuramente segnalati per la loro imponenza quelli denominati Monumentale II, Maroi, Mengarelli e del Colonnello. Accanto a
essi si trovano tumuli di dimensioni piú contenute, come quello detto dei Capitelli, eretti da esponenti di gentes meno illustri o, almeno, con un potenziale economico minore. La varietà della necropoli è comunque sorprendente, e raggiungendo – come se si trattasse di una città vera e propria – le vie denominate dei Monti della Tolfa e dei Monti Ceriti si possono osservare tombe completamente diverse, organizzate per isolati regolari, e appartenute a quei ceti sociali che portarono al potere «uomini nuovi», come il tiranno Thefarie Velianas. Una tipologia architettonica ancora differente è rappresentata dagli ipogei. Tra essi spicca la tomba dei Rilievi, celebre soprattutto per la vivace raffigurazione di utensili della vita quotidiana: osservandola con attenzione si prova la sensazione che gli Etruschi non siano poi cosí lontani da noi nel tempo: piace immaginarli alle prese con attrezzi che ancora noi teniamo in mano.
I MUSEI MUSEO NAZIONALE CERITE Cerveteri, piazza Santa Maria, 1 NECROPOLI ETRUSCA DELLA BANDITACCIA Cerveteri, piazzale Mario Moretti (già della Necropoli)
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I TEMPI E I LUOGHI
DALL’ACCESA A VETULONIA
TERRA DI MINIERE, TEATRO DELLA DURA VITA DI LARTH
L’
olla d’impasto che conteneva una trentina di attingitoi miniaturistici – unica testimonianza del sacro rinvenuta nell’abitato del lago dell’Accesa – è conservata nel Museo Civico Archeologico di Massa Marittima. La struttura museale accoglie reperti rinvenuti tra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ma soprattutto presenta i risultati degli scavi condotti proprio all’Accesa, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, che hanno riportato alla luce un sito con caratteristiche singolari. Si tratta di un abitato di epoca etrusca, legato all’attività mineraria e metallurgica e articolato in quartieri distanti alcune centinaia di metri l’uno dall’altro; ognuno di essi ospitava una decina di abitazioni ed era dotato di una propria necropoli. Si tratta di un modello d’insediamento di tipo protostorico, ma singolarmente presente all’Accesa ancora nel VII-VI secolo a.C. Inoltre, risultano a oggi assenti testimonianze riferibili a strutture pubbliche e a edifici sacri. Secondo gli archeologi, queste anomalie derivano dal carattere manifatturiero dell’insediamento e dal suo carattere di
Nella pagina accanto, in basso, a sinistra affibbiaglio bronzeo per cintura, decorato con cavalli alati e sfingi, dalla tomba 1 dell’area B dell’abitato dell’Accesa. Fine del VII sec. a.C. Massa Marittima, Museo Civico Archeologico. In basso resti di un edificio nel sito etrusco rinvenuto al Lago dell’Accesa, presso Massa Marittima (Grosseto). Frequentato nel VII-VI sec. a.C., l’abitato, a vocazione mineraria e metallurgica, si articolava in quartieri, costituiti da gruppi di abitazioni.
«colonia» di Vetulonia. Le strutture finora riportate alla luce sono oggi comprese nel Parco Archeologico del lago dell’Accesa. Si può quindi raggiungere il centro egemone di Vetulonia e la visita può avere inizio dal paese attuale, dove sono ancora in vista tratti delle mura che cingevano l’arx. Un’altra cinta muraria piú recente di età ellenistica cingeva invece l’intero abitato. Le aree archeologiche di Costa del Lippi e di Costa Murata possono essere raggiunte percorrendo la centrale via Garibaldi: vi si possono osservare i resti di un quartiere con tratti delle mura, una strada lastricata, una domus, un’area sacra. La zona venne abitata dalla tarda età arcaica all’epoca romana. Tornati indietro, a circa mezzo chilometro dal paese sono visibili i resti di un altro quartiere di piena epoca ellenistica con alcune tabernae e una via lastricata dotata di un marciapiede. Non lontano, lungo la cosiddetta via Ripida si può osservare una casa ad atrio in buono stato di conservazione.
Un tumulo colossale La necropoli è piú lontana dal paese attuale, a circa 3 km. Giunti sul luogo, s’incontra dapprima la tomba del Belvedere a camera quadrangolare, preceduta da un corto dromos. Ancora qualche centinaio di metri e ci si trova davanti al celebre tumulo della Pietrera, che ha restituito importanti testimonianze scultoree, tra le quali un busto femminile della fine del VII secolo a.C. Ciò che colpisce immediatamente sono le dimensioni del tumulo che presenta una circonferenza di ben 210 m. C’è da segnalare che la costruzione originaria, databile tra il 650 e il 625 a.C., crollò durante l’edificazione o immediatamente dopo. L’incidente non deve avere impressionato gli architetti che ne ricostruirono un altro delle stesse dimensioni nel volgere di pochi decenni se non di anni. Continuando a percorrere la via dei Sepolcri, si raggiunge la monumentale tomba del Diavolino 2. Vi si accede attraverso un lungo
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MURLO
IL PALAZZO DI VELIA dromos che conduce a una camera quadrangolare rafforzata da un pilastro centrale e con il soffitto realizzato a pseudocupola. La tomba ospitava anche una deposizione della prima metà del V secolo a.C. quindi di un’epoca notevolmente piú recente di quella di costruzione che si può far risalire nella seconda metà del VII secolo a.C. Il dato prova la continuità della gens che aveva voluto il monumento e che la necropoli continuò a essere utilizzata a lungo. I dati archeologici segnalano che, durante il VI secolo a.C., la città era in un periodo di crisi, ma non cosí profonda come si riteneva sino a qualche decennio fa. Una ripresa netta si riesce a cogliere dal IV secolo a.C. e il successivo intervento romano non la fermò, anche se ormai i fasti dell’Orientalizzante erano lontani. Vetulonia possiede un Museo archeologico dedicato alla memoria di Isidoro Falchi: è ben allestito e riesce a offrire la possibilità di una piena comprensione delle vicende storiche del centro. Svolge anche una vivace attività con mostre tematiche e cicli di conferenze.
I MUSEI MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO DI MASSA MARITTIMA Massa Marittima, via Garibaldi, 1 AREA ARCHEOLOGICA DI VETULONIA Castiglione della Pescaia, loc. Vetulonia MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO «ISIDORO FALCHI» Castiglione della Pescaia, loc. Vetulonia, piazza Vetluna, 1
L
a storia dell’immaginaria Velia è stata ambientata nel palazzo di Murlo e i materiali da lei descritti sono visibili ora all’interno del locale Museo Etrusco. L’importanza della zona era stata intuita dall’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) già nel 1926, ma è stata confermata dagli scavi condotti dal 1966 da una missione statunitense. Le sorprese non sono mancate: è stato infatti riportato alla luce il palazzo di un dinasta locale che doveva esercitare una qualche forma di controllo sulla valle dell’Ombrone. Questa ipotesi è stata molto discussa: gli scavatori avevano interpretato inizialmente la struttura come un tempio e, piú di recente, vi è stato chi ha voluto riconoscervi una sorta di santuario federale per una lega minore, costituita da alcuni centri dell’Etruria settentrionale. Quando venne costruito l’edificio? I risultati degli scavi attestano due fasi principali: una, piú antica, cancellata da un incendio avvenuto a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., un’altra, piú recente, risalente agli anni 565-560 a.C., e distrutta anch’essa pochi decenni dopo dal fuoco. Va segnalato che con il 530-525 a.C. l’edificio monumentale venne abbandonato. Nelle tracce del secondo incendio e nell’abbandono si è voluto vedere un intervento armato della polis di Chiusi che non avrebbe piú tollerato presenze aristocratiche nel territorio.
Acroterio di colmo modellato a figura maschile, dal palazzo di Poggio Civitate (Murlo). Prima metà del VI sec. a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate.
Il salvataggio degli antenati Nella drammatica circostanza qualcuno decise di salvare la decorazione architettonica, la smontò quasi religiosamente e la depose in fosse appositamente scavate. Oggi in gran parte è stata recuperata ed è – come si è detto
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I TEMPI E I LUOGHI
– esposta nel locale Museo Etrusco. Lungo il percorso espositivo spiccano le statue, realizzate in terracotta, che, collocate sulla sommità del tetto, erano state interpretate come divinità, ma che, con ogni probabilità, sono invece figure di antenati. Le sorprese continuano a non mancare e di recente gli archeologi hanno riportato alla luce un’officina nella quale lavoravano fianco a fianco maestranze di specializzazione diversa. Aveva una forma rettangolare con il lato lungo di quasi 50 m e quello breve di 6, il tetto era sostenuto da colonne (sono state scoperte le basi di 41) distribuite su tre file parallele. Non
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In basso lastra di rivestimento con scena di banchetto e sua restituzione grafica (in alto), dal palazzo di Poggio Civitate (Murlo). VI sec. a.C. Siena, Museo Archeologico Nazionale.
aveva probabilmente muri perimetrali ed era aperta sui quattro lati cosí da favorire l’illuminazione e la ventilazione. All’interno dell’edificio venivano realizzati coppi e tegole, si scolpiva l’osso, e si lavoravano i metalli. L’officina dovrebbe avere lavorato prevalentemente, se non esclusivamente, per le esigenze del palazzo. Anche questo ritrovamento è illustrato nel Museo Etrusco.
I MUSEI MUSEO ETRUSCO DI POGGIO CIVITATE Murlo, piazza della Cattedrale, 4
CHIUSI
UNA CAPITALE PER PORSENNA
N
egli ultimi anni, la figura di Porsenna è stata ricollegata correttamente con Velzna (Orvieto) sulla base della rilettura di un passo di Plinio il Vecchio, ma resta inscindibile il rapporto privilegiato tra Porsenna e Chiusi, la piú florida città-stato della Valdichiana che governò. Un binomio rafforzato dall’attenzione portata dal mondo antiquario verso la scoperta del sepolcro di Porsenna, a partire sin dal Quattrocento. Un monumento che piú volte si è pensato di riconoscere ora nel labirinto di cunicoli presente al di sotto della città, ora in una qualche tomba monumentale della zona. Ancora oggi il fascino della figura di Porsenna spinge verso Chiusi e non si rimane delusi. Giunti a destinazione, conviene visitare il Museo Archeologico Nazionale, recentemente riallestito. Attraverso le sue sale si ripercorrono le vicende storiche del centro. Gli «anni di Porsenna», ovvero la seconda metà
A destra cippo funerario con una scena di danza. VI-V sec. a.C. hiusi, Museo Archeologico Nazionale. In basso il cunicolo scavato nel sottosuolo di Chiusi, parte del percorso sotterraneo noto come «Labirinto di Porsenna», accessibile presso il Museo della Cattedrale, che si sviluppa lungo la rete di acquedotti di età ellenistica, fino a immettersi in una monumentale cisterna romana.
del VI secolo a.C., videro il compimento del processo di urbanizzazione del centro e una fase di grande espansione politica e culturale. Alla base dei successi vi fu sicuramente un’agricoltura particolarmente fiorente dovuta alla fertilità dei terreni e alla perizia dei contadini chiusini. Una vocazione agricola che la polis conservò a lungo, tanto è vero che, secoli piú tardi, quando l’Etruria aveva già perduto la sua indipendenza politica, nel 205 a.C., Chiusi forní il suo aiuto all’Urbe inviando grano e legname nel momento del massimo sforzo bellico di Roma contro Cartagine.
Una lunga età dell’oro I riflessi del «periodo d’oro» si avvertirono a lungo anche se i progetti espansionistici di Porsenna furono presto ridimensionati, e il V e il IV secolo a.C. mostrano una città al passo con l’Etruria piú ricca. Agli inizi del III secolo a.C., Chiusi entrò nell’orbita di Roma non senza profondi sconvolgimenti sociali che portarono a un insediamento piú diffuso nel territorio. Il I secolo a.C. fu particolarmente difficile, la città si trovò coinvolta pesantemente nello scontro tra Mario e Silla e quest’ultimo, da vincitore, dovrebbe avervi dedotto una colonia, se va spiegata in questo modo la distinzione fra Chiusini «vecchi» e «nuovi» ricordata da Plinio il Vecchio. In epoca imperiale Chiusi continuò a godere di
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I TEMPI E I LUOGHI
un relativo benessere dovuto, ancora una volta, all’agricoltura e alla felice posizione geografica che i Romani avevano valorizzato con l’apertura della via Cassia, già nel II secolo a.C., e della via Traiana Nova. Ormai consideriamoci all’interno del museo e osserviamone i pezzi piú interessanti. Un’attenzione particolare va rivolta ai canopi, cinerari caratteristici del territorio di Chiusi e cosí denominati per la somiglianza formale con particolari vasi funerari egiziani. Si tratta di contenitori per le ceneri del defunto conformati a figura umana con la testa resa senza intenti ritrattistici, ma con grande vivacità. La connotazione aristocratica del personaggio era enfatizzata dalla collocazione del canopo su un trono realizzato in impasto o in bronzo. L’insieme era deposto in genere all’interno di tombe dette «a ziro», costituite da un grande recipiente in terracotta sigillato da una lastra di pietra locale. Altrettanto degni di nota sono i cippi e le urne decorate a bassorilievo che costituiscono l’espressione piú alta dell’artigianato artistico chiusino. La collezione dei buccheri, realizzati localmente nella variante «pesante» dalle pareti particolarmente spesse, è esauriente, mentre la raccolta dei vasi attici a figure nere e rosse, pure ampliata di recente, riesce solo a dare un’idea delle importazioni chiusine.
I defunti a banchetto La documentazione della fase ellenistica è affidata perlopiú alle urne in gesso alabastrino, travertino e terracotta. Sul coperchio compare spesso il defunto a banchetto, mentre sulla fronte della cassa sono presenti miti greci o saghe locali o anche semplici motivi decorativi. L’urna è corredata in genere da un’iscrizione con l’indicazione del nome del defunto o della defunta, piú raramente viene fornita qualche indicazione supplementare come il patronimico o il matronimico. A Chiusi fu vivace la produzione in terracotta, al contrario di Volterra e Perugia, altri centri di produzione di urne durante l’ellenismo.
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La Chiusi romana è rappresentata soprattutto da un bel ritratto marmoreo dell’imperatore Augusto rinvenuto nell’Orto del Vescovo e da un ciclo statuario da riferire al monumento funerario della famiglia Allia (I secolo d.C.). Interessanti sono anche due nuove sezioni dedicate alla storia della ricerca archeologica a Chiusi e all’illustrazione del territorio su base topografica. Il personale del museo, su richiesta e a orari stabiliti, può accompagnare a visitare alcune tombe, tra le quali quella dipinta e ben nota detta della Scimmia. L’offerta museale di Chiusi non si limita al Museo Archeologico Nazionale: nella vicina piazza del Duomo si trova l’ingresso del
I MUSEI MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI CHIUSI Chiusi, via Porsenna, 93
MUSEO CIVICO-LA CITTÀ SOTTERRANEA Chiusi, Palazzo delle Logge, via Ciminia II, 1
MUSEO DELLA CATTEDRALE Chiusi, piazza Carlo Baldini (già del Duomo), 7
Museo della Cattedrale che ospita, al pianterreno, reperti provenienti dalle catacombe chiusine (a Chiusi si sviluppò precocemente un’importante comunità cristiana) e da scavi effettuati nell’area del Duomo. Al piano superiore sono esposti codici miniati benedettini provenienti dall’Abbazia di Monteoliveto Maggiore. Nel giardino sono visibili i resti di poderose strutture murarie relative a fasi diverse delle fortificazioni della città. Di recente è stata aperta al pubblico anche la sezione epigrafica del Museo Civico-La città sotterranea, ambientata nella rete di cunicoli che corre sotto la Chiusi attuale. Vi sono esposti 500 reperti tra urne e tegole, tutte iscritte. Chiusi offre ancora una possibilità per avvicinarsi al suo passato ed è rappresentata dall’«arredo urbano» del centro storico realizzato con materiali archeologici. Ciò che oggi si vede non va ritenuto un sistema
In alto urne funerarie esposte nella sezione epigrafica del Museo Civico-La città sotterranea, allestito nella rete di sotterranei e di cunicoli che si aprono al di sotto di Chiusi. In basso la camera principale della tomba della Scimmia, nella necropoli di Poggio Renzo, dipinta con scene di giochi, danze e gare atletiche. Scoperto nel 1846 da Alessandro François, il sepolcro si data al V sec. a.C.
progettato unitariamente, ma il risultato di una stratificazione avvenuta nel tempo con un incremento considerevole nell’Ottocento, un secolo centrale nella riscoperta delle antichità di Chiusi. I reperti visibili sono di livello modesto e non poteva essere altrimenti dato che sono i residui di un mercato antiquario fiorentissimo, ma coprono un arco cronologico ampio: dall’età etrusco-arcaica sino all’Alto Medioevo attraversando la fase romana. La maggiore concentrazione di antichità si riscontra nei giardini «I Forti» e «Il Prato», oggi spazi pubblici, ma nell’Ottocento di proprietà delle famiglie Casuccini e Paolozzi che annoverarono diversi appassionati di antichità. Vale comunque la pena percorrere le vie del centro storico e guardare con attenzione le facciate dei palazzi e delle abitazioni: capiterà sicuramente di osservare la fronte decorata di alcune urne ellenistiche o di riconoscere qualche elemento architettonico modanato.
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I TEMPI E I LUOGHI
TARQUINIA TOMBE DIPINTE
I COLORI DELLE GESTA DI VELTHUR SPURINNA
N
ei decenni che videro probabilmente operare Velthur Spurinna, Tarquinia viveva una stagione di notevole benessere documentata da numerose tombe dipinte. La visita alla necropoli lascia intuire il livello qualitativo della pittura antica e ci pone di fronte a scene ben conservate, in grado di farci entrare nella vita quotidiana etrusca, o meglio in quella delle sue classi dirigenti. Non si deve infatti dimenticare che – secondo un calcolo attendibile – le tombe dipinte rappresentano soltanto il 2% del totale stando almeno ai dati giunti sino ai giorni nostri. Fra le tombe aperte al pubblico figurano: Baccanti, Caccia e Pesca, Cacciatore, Cardarelli, Caronti, Fior di Loto, Fiorellini, Giocolieri, Gorgoneion, Leonesse, Leopardi, Claudio Bettini (5513), Mario Moretti (5591), Mauro Cristofani (3242), Massimo Pallottino (3713), 5636. Vale la pena di soffermarsi su alcune di esse. La tomba della Caccia e della Pesca, scoperta nel 1873, è celebrata soprattutto per le decorazioni della seconda camera, che raffigurano con grande freschezza scene legate appunto alla caccia e alla pesca; può essere datata intorno al 520-510 a.C. La tomba delle Leonesse fu portata alla luce nel 1874 e le sue pareti sono un inno al banchetto, che occupava un ruolo di primo piano nella mentalità aristocratica. Va segnalata l’enfasi data alla raffigurazione del cratere, che occupa il centro della parete di fondo; fu dipinta verso il 530-520 a.C. da artisti immigrati dalla Grecia orientale.
Il gioco dei banchettanti La tomba Cardarelli è di ritrovamento piú recente, essendo stata scavata nel 1957, e venne dedicata al poeta Vincenzo Cardarelli (1887-1959), originario di Tarquinia. In essa è raffigurato il gioco del kottabos che rallegrava il banchetto aristocratico. Il divertimento consisteva nel lanciare i fondi di vino rimasti nella coppa verso un piattello collocato su un’asta metallica, risultava vincitore chi lo faceva cadere. Le pitture sono databili negli
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anni finali del VI secolo a.C. La tomba dei Giocolieri è stata rinvenuta soltanto nel 1961 e il pittore che la realizzò negli ultimi decenni del VI secolo a.C. scelse di raffigurare i giochi e le danze che si svolgevano in onore del defunto; un ruolo da protagonista appare affidato a una giovane equilibrista che dimostra la sua destrezza al suono del flauto. Prima di lasciare Tarquinia si può raggiungere l’antica area urbana, dove si trovano tra l’altro i resti del tempio dell’Ara della Regina. L’area iniziò a essere frequentata durante il VII secolo a.C. e l’edificio ebbe varie fasi, la piú monumentale delle quali è databile agli inizi del IV secolo a.C. e quindi coeva alla realizzazione della coppia di cavalli alati. Negli ultimi anni il tempio è stato interessato da campagne di scavo e le sorprese non sono mancate: di recente, per esempio, sotto l’altare «Alpha», nell’angolo sud-orientale del tempio, di cui l’altare conserva l’orientamento, è stata scoperta una cassa di sarcofago. Maria Bonghi Jovino, l’archeologa che ha diretto i lavori, ha ipotizzato che quella cassa, inglobata in un altare del tempio poliadico per eccellenza, rappresentasse per i Tarquiniesi il luogo della memoria di Tarconte, l’eroe eponimo della città.
Tarquinia, tomba dei Giocolieri. Pittura parietale raffigurante una danzatrice, un assistente con alcuni dischi in mano e, sulla sinistra, un suonatore di flauto a doppia canna. 510 a.C. circa
I MUSEI NECROPOLI ETRUSCA DEI MONTEROZZI Tarquinia, strada provinciale Monterozzi Marina
VULCI
LA METROPOLI DI ARNTH
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o immaginato che il marinaio Arnth sia nato a Vulci, una delle principali cittàstato dell’Etruria aperta ai contatti con il mondo greco e al centro di un vasto e ricco territorio, nel cui ambito i Romani, sconfitti definitivamente i Vulcenti nel 280 a.C., fondarono la colonia di Cosa. Vediamo piú da vicino le vicende storiche che hanno interessato l’area nell’antichità. Vulci appare come un insediamento d’importanza notevole già ai primordi della civiltà etrusca: durante la fase villanoviana arrivò ad avere un raggio d’influenza ampio, come suggeriscono i ritrovamenti di materiali provenienti da zone geograficamente lontane come la Sardegna. Un salto di qualità ulteriore si ebbe dopo l’arrivo dei primi coloni greci in Occidente e quindi dell’incontro/scontro tra due culture differenti, con l’etrusca molto ricettiva verso l’altra. Proprio a Vulci la ceramica etrusco-geometrica, ispirata palesemente ai modelli greci, trovò un luogo privilegiato di produzione e consumo, dando avvio a un artigianato ceramico di livello che accompagnò l’intera storia della città. Le premesse favorevoli non riuscirono a esprimersi compiutamente sino ai decenni finali del VII secolo a.C.: è con il secolo successivo, infatti, che la polis divenne una potenza di prima grandezza. La presenza sul
territorio appare piú salda, mentre l’agricoltura e i commerci vulcenti decollarono: un esempio calzante è rappresentato dal vino, che riuscí a raggiungere la Francia meridionale.
Un nuovo scalo portuale La polis riuscí a inserirsi nei traffici commerciali che avvenivano nel Mar Tirreno: lo indica la fondazione di un porto, Regae o Regisvilla, in località Murelle, che andò progressivamente a sostituire l’approdo esistente presso la foce del fiume Fiora, l’arteria fluviale che veicolava le merci vulcenti verso l’interno. L’ampliamento dei mercati è testimoniato con altrettanta evidenza dalla stagione felice dei ceramisti attivi a Vulci, dei quali è interessante indagare la provenienza, poiché piú d’uno non era di origine etrusca. I bronzisti non furono da meno e i loro prodotti invasero le aree limitrofe, raggiunsero i mercati dell’Etruria continentale e vennero distribuiti nell’intero bacino del Mediterraneo contribuendo a creare la fama della bronzistica etrusca. Una perizia notevole si riscontra anche nella scultura lapidea locale, il cui livello è illustrato bene da sculture quali il Centauro, il giovane a cavallo di un ippocampo o la Sfinge recentemente scoperta. La sconfitta di Cuma (474 a.C.) e la «crisi» dei decenni successivi si
In basso, a sinistra Vulci. Veduta del Ponte e del Castello dell’Abbadia, sul fiume Fiora. Di impianto etrusco, a tre arcate e sostenuto da due piloni, il ponte venne inglobato in un ampliamento forse del I sec. a.C. e subí ulteriori modifiche in epoca medievale e moderna. La fortezza è oggi sede del Museo Archeologico Nazionale. In basso, a destra sfinge alata in nenfro dalla tomba omonima, sepoltura rinvenuta nel 2011 nella necropoli dell’Osteria di Vulci. VI sec. a.C. Vulci, Museo Archeologico Nazionale.
I TEMPI E I LUOGHI
avvertí in profondità a Vulci e le fasce sociali legate a diverso titolo all’artigianato artistico e ai commerci risultarono le piú colpite, con seri contraccolpi negli stessi assetti politico-istituzionali. La ripresa si ebbe nel secolo successivo, grazie al fatto che – come a Tarquinia – le classi dirigenti, consapevoli della nuova situazione venutasi a creare, scelsero di recuperare posizioni guardando al proprio entroterra e alla sua valorizzazione. La testimonianza monumentale del superamento della crisi è offerta dall’edificazione del cosiddetto «Tempio Grande» all’interno dell’area urbana racchiusa entro mura poderose. Nella stessa temperie vennero costruite tombe gentilizie da parte delle famiglie piú in vista del tempo ovvero i Saties, i Tutes, i Tarnas, i Tetnies. Committenza pubblica e committenza privata tornarono a investire allo scopo, in un caso, di offrire una nuova immagine della polis e, nell’altro, di rinnovare i fasti del passato con qualche venatura nostalgica, come accade per le pitture che decorarono la tomba François appartenuta ai Saties. La stessa produzione ceramica – uno dei fili rossi dell’artigianato artistico vulcente – sembra riprendere vigore e cosí la bronzistica. Vulci era pronta per affrontare la minaccia
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In alto la Cuccumella di Vulci, un tumulo funerario tra i piú grandi d’Etruria. Databile tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C., il monumento era in origine ornato da sculture a tutto tondo. In basso ricostruzione ipotetica del «Tempio Grande» di Vulci, attivo dall’epoca tardo-arcaica all’età romana. Nella pagina accanto, in basso, nel riquadro una sala del Museo Archeologico Nazionale di Vulci nel Castello dell’Abbadia.
rappresentata da Roma alla quale si oppose con coraggio e determinazione, arrivando a capitolare molto tardi, nel 280 a.C. Le conseguenze della sconfitta furono pesanti anche per il fatto che Roma scelse di dedurre la colonia latina di Cosa all’interno del territorio vulcente (273 a.C.). Il ridimensionamento del ruolo della polis è palesato dall’assenza della città dalla lista dei centri che contribuirono all’impresa africana di Scipione (205 a.C.). La stessa area d’insediamento venne ristretta con l’abbandono, per esempio, dell’ampia spianata di Pozzatella inclusa sin dall’inizio nello spazio urbano. Dopo la guerra sociale, Vulci fu trasformata in un municipio, ma il nuovo assetto istituzionale e il successivo tentativo di rivitalizzare l’area etrusca, portato avanti in epoca augustea, non riuscirono a rilanciare la città che continuò comunque a essere abitata durante l’età imperiale.
Nel castello sul Fiora Le modalità per una visita a Vulci sono cambiate di recente: l’area archeologica con i resti della città e delle sue necropoli è stata infatti inserita nel Parco Naturalistico Archeologico. Perno del sistema continua a essere il Museo Archeologico Nazionale, ospitato nel Castello della Badia, eretto durante il Duecento. A ridosso della fortezza si trova il Ponte della Badia che scavalca il fiume Fiora, l’insieme è calato in un paesaggio di grande suggestione, uno dei piú conservati dell’intera Etruria. Il percorso espositivo offre un’idea parziale dell’importanza della Vulci etrusca, poiché sul posto è rimasta solo una parte minima dello
VEIO
NEL REGNO DI LARS TOLUMNIO
L’
straordinario patrimonio restituito dalle necropoli. Si riesce comunque a seguire l’evoluzione delle vicende storiche che si sono tracciate, dalla fase villanoviana sino alla piena romanizzazione. La raccolta delle ceramiche prodotte localmente e di quelle d’importazione rappresenta il motivo d’interesse maggiore. Non mancano le testimonianze dei ritrovamenti avvenuti nell’area urbana, riunite nella sala posta a chiusura del percorso. La visita dell’area archeologica prende avvio ora dal Punto d’incontro, una struttura nella quale trovano posto la biglietteria e il plastico della città antica. I resti si raggiungono attraversando Porta Ovest e, percorrendo una strada basolata romana, si raggiunge dapprima il Tempio Grande, un edificio sacro dalle dimensioni ragguardevoli per il mondo etrusco costruito durante il IV secolo a.C. S’incontra quindi la casa del Criptoportico, un’abitazione privata con ambienti ancora mosaicati. Dell’area urbana sono visibili, fra l’altro, tratti delle mura di cinta, i resti di un’altra villa, un mitreo frequentato tra il III e il IV secolo d.C., due edifici pubblici di epoca romana e alcune tabernae. Uscendo poi dalla Porta Orientale, si possono osservare strutture riferibili a un approdo fluviale.
azione politica di Lars Tolumnio si svolse a Veio, di cui fu re, secondo quanto tramanda Tito Livio (Storia di Roma, IV, 17-19). La visita può partire dal santuario extraurbano di Portonaccio, celebre nell’antichità. Qui offrirono doni votivi personaggi come Avile Vipiennas, sodale di Macstrna – il futuro re di Roma Servio Tullio (personaggi ricordati nella nostra ricostruzione da Vel Saties; vedi alle pp. 71-76) –, Karkuna e Velthur Tulumnes, esponenti di una famiglia che dette vari monarchi a Veio, Avile Acvilnas noto anche nel territorio di Vulci e il falisco Lars Tolonios. Il santuario era dedicato a Menrva (Minerva) nel suo aspetto di divinità salutare e oracolare,
In basso i resti del tempio di Apollo nell’area sacra di Portonaccio, con una struttura moderna che ne ricostruisce il profilo. Il santuario comprendeva anche un sacello dedicato a Minerva, eretto intorno al 540-530 a.C.
I MUSEI MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE Vulci, Castello dell’Abbadia PARCO NATURALISTICO E ARCHEOLOGICO DI VULCI località Vulci (Montalto di Castro, Viterbo)
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I TEMPI E I LUOGHI
una vocazione che lo fece rimanere in attività anche dopo la romanizzazione: ex voto in terracotta raffigurano Enea che porta il padre Anchise sulle spalle. L’importanza dell’area sacra è suggerita soprattutto dalla qualità delle sue decorazioni: da qui, per esempio, proviene il celebre Apollo di Veio, rinvenuto nel 1916 e oggi conservato nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma. Il santuario presentava un tempio collegato a una piscina e rivolto verso uno spazio aperto all’interno del quale si trovavano un altare e il thesauròs. Campagne di scavo riprese negli ultimi anni hanno dimostrato che il santuario era affiancato da un lucus, un boschetto sacro. La piscina (18,25 x 5,43 m), sicuramente a carattere rituale, è ben conservata e risulta costruita in blocchi levigati e ricoperti da uno strato di argilla impermeabile. Il tempio, invece, è stato danneggiato in passato dall’apertura di una cava di pietra e quindi appare problematico offrirne una ricostruzione certa della pianta: dovrebbe essere stato a un’unica cella e a due alae e l’accesso essere consentito da una gradinata delimitata dall’avanzamento delle ante. Trenta metri a est del tempio sono visibili i ruderi dell’altare di forma quadrata realizzato in tufo, con la base modanata a due gradini per accedervi; al suo interno sono stati rinvenuti i resti carbonizzati degli animali sacrificati nelle funzioni religiose. Nei pressi è situato un edificio (9 x 7,50 m) nel quale si è voluto riconoscere il thesauròs e il cui scavo ha restituito materiale votivo di VII-VI secolo a.C. Si può raggiungere quindi la villa situata in località Campetti (I secolo a.C.-I secolo d.C.), che si caratterizza per un ninfeo decorato con lastre marmoree e per avere restituito mosaici in bianco e nero di fattura pregevole.
Gli scavi della città L’area della città è stata indagata sinora in modo solo parziale, ma da alcuni anni sono in corso campagne di scavo promosse da Sapienza Università di Roma. Al suo interno
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s’incontrano i ruderi del santuario di Campetti e di porta Caere; pochi muri superstiti degli edifici della Veio di epoca augustea; una piattaforma in tufo e muri in opera reticolata in prossimità dell’istmo che collega il pianoro con l’altura di Piazza d’Armi, già ritenuta sede dell’acropoli. Quest’ultima invece, almeno a partire dalla fine del VI secolo a.C., alla luce dei nuovi scavi, va ricercata sull’altura di Pian della Comunità dove Giovanni Colonna ha recentemente individuato i resti del tempio di Giunone Regina (da qui – nella testimonianza di Tito Livio – sarebbero usciti i soldati romani che erano riusciti a introdursi in città grazie a un cunicolo scavato appositamente sino al di sotto dell’edificio sacro). Le ricerche dell’Ateneo romano hanno portato anche all’individuazione del Foro di epoca romana, dato che la città continuò a vivere, seppur in tono minore. Nell’area di Piazza d’Armi sono visibili invece le fondazioni di un tempio, i ruderi di un edificio tardo-arcaico, i resti di alcune abitazioni della prima metà del VI secolo a.C. e una cisterna di dimensioni ragguardevoli. Le necropoli si estendevano intorno all’abitato e, prenotando la visita presso i custodi dell’area archeologica, è possibile visitare le tombe delle Anatre (675-650 a.C.) e Campana (fine del VII secolo a.C.). Oggi Veio è compresa all’interno di un Parco Naturale Regionale che ne porta il nome e a Formello è stato istituito il Museo dell’Agro Veientano, di cui si raccomanda la visita.
I MUSEI MUSEO NAZIONALE ETRUSCO Roma, piazzale di Villa Giulia, 9 MUSEO DELL’AGRO VEIENTANO Formello, piazza San Lorenzo, 7
Lebete, dal Tumulo Chigi di Formello. Fine del VII-inizi del VI sec. a.C. Formello, Museo dell’Agro Veientano.
CORTONA
DA AULE ALL’ACCADEMIA
L
a città di nascita e di formazione immaginata per il giovane Aule è Cortona (l’etrusca Curtun), che si eleva su un’altura da cui si domina gran parte della Valdichiana e, nelle giornate piú terse, il lago Trasimeno. La tradizione ne rimanda le origini a un tempo antichissimo: da qui il mitico Dardano sarebbe partito per fondare Troia e sempre qui avrebbe trovato sepoltura, al termine del suo lungo viaggio, il greco Ulisse. Oltre che per la sua antichità e per le numerose testimonianze archeologiche che ha restituito, Cortona è celebre per il fatto che, nel 1727, vi fu fondata la prestigiosa Accademia Etrusca, ancora oggi attiva, che incentivò le ricerche, costituí una prima raccolta di «anticaglie» ed ebbe il merito di tutelare, già allora, il patrimonio locale. La vivace cittadina fu meta di studiosi e appassionati, fra cui Alessandro François, al quale si deve la scoperta nel 1842 del tumulo orientalizzante di Camucia. Proprio i tumuli (chiamati localmente «meloni») sono fra le maggiori testimonianze archeologiche del territorio cortonese. Oltre a quello di Camucia, nei primi del Novecento se ne individuarono altri due in località Sodo, ai piedi della città, presso lo sbocco di percorsi che collegavano la Valdichiana alla Valtiberina. Tutti visitabili e inseriti nel Parco Archeologico di Cortona, i tre tumuli dovevano essere in antico ancora piú maestosi, elevandosi su un piano di campagna 4-5 m piú basso di quello attuale.
scrittorio, uno strumento musicale, resti di un diphros, uno sgabello pieghevole). È stato inoltre messo in luce l’apprestamento monumentale del tumulo, costituito da un tamburo modanato e una scalinata d’accesso alla sommità del melone, dove doveva sorgere un tempietto per il culto degli avi: la gradinata era fiancheggiata da due ante scolpite raffiguranti un uomo e un leone in lotta, possibile allusione al passaggio dalla vita alla morte. I tumuli erano l’espressione della ricchezza e del potere (basati sulla fertilità della
Veduta d’insieme (in alto) e un particolare (raffigurante un uomo e un leone avvinghiati) della monumentale scalinata di accesso alla piattaformaaltare del Melone II del Sodo. Prima metà del VI sec. a.C.
Le scoperte piú recenti Le ricerche degli anni Novanta del Novecento hanno permesso di acquisire nuovi dati, soprattutto per il Melone II del Sodo: oltre alla prima, si è individuata una seconda tomba con una camera piú antica (480-460), con i defunti deposti entro sarcofagi su banchine, e una cella piú recente, d’età ellenistica, con incinerazioni entro urnette di terracotta o di pietra. Nella camera piú antica giacevano materiali di grande valore intrinseco (ori, ambre, avori, cristalli di rocca, paste vitree) e simbolico (uno stilo
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valle, ma anche sul controllo dei traffici commerciali e, forse, delle attività metallurgiche) dei maggiorenti locali. Proprio in prossimità del Tumulo II del Sodo nel luglio 2005, in occasione di lavori per la realizzazione di un nuovo alveo per il rio di Loreto, che separa i due grandi tumuli I e II, sono state riportate in luce due nuove aree archeologiche interessate dalla presenza nell’una delle fondamenta di un vasto edificio, nell’altra di due circoli tombali con sepolture a incinerazione. Le straordinarie manifestazioni della cultura e del gusto orientalizzante furono precedute da un’occupazione del territorio già nel periodo villanoviano. All’età del Bronzo Finale risale un modesto ripostiglio di armi scoperto al Sodo nel 1745, mentre la piccola necropoli di tombe a pozzetto delle Piaggette (tra il Sodo e Cortona) è di epoca villanoviana. L’esistenza di un insediamento nell’attuale centro cittadino è attestata per l’età villanoviana dai resti di strutture capannicole in via Vagnotti e per il periodo successivo (VII-V secolo a.C.) da pesi da telaio e da alcuni frammenti di vasi attici ed etruschi. Piú tardi Cortona si muní di un’imponente cinta muraria, lunga circa 2 km, ancora visibile per ampi tratti. Oltre alle mura si può ammirare la porta Bifora o Ghibellina, realizzata nella prima metà del II secolo a.C. al posto di un piú antico ingresso a un solo fornice.
Qui giace Pitagora... L’età ellenistica è testimoniata dalle due «tanelle», Angori e di Pitagora (cosí chiamata per una tradizione fantasiosa che v’identificava la sepoltura del filosofo), tombe a camera quadrangolare su basamento circolare, situate entrambe alle pendici della collina e visitabili anch’esse. Allo stesso periodo risale uno fra i piú importanti reperti cortonesi, la Tabula Cortonensis, una lamina bronzea contenente sui due lati un’iscrizione di carattere giuridico da annoverare tra i testi etruschi piú lunghi giunti sino a noi. La Tabula è conservata
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I MUSEI MUSEO DELL’ACCADEMIA ETRUSCA E DELLA CITTÀ DI CORTONA Cortona, piazza Luca Signorelli, 9
all’interno del MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona, ospitato in Palazzo Casali. Esso è costituito da due musei collegati in un unico percorso: quello della Città Etrusca e Romana di Cortona, allestito ai piani interrato e seminterrato dell’edificio, e quello dell’Accademia Etrusca. La visita della sezione etrusca del Museo della Città di Cortona ha inizio dalla sala 4 del piano seminterrato: essa è dedicata alla fase arcaica e all’area archeologica del Sodo, con i materiali del Circolo Tombale I da poco scoperti e restaurati, del Melone I (di cui si presenta per la prima volta l’intero corredo) e del Melone II, del cui tempietto funerario sommitale è proposta nella sala 5 la ricostruzione del tetto. Nella sala 6 hanno trovato la loro definitiva sistemazione la celebre lastra delle piangenti e i corredi del tumulo di Camucia, finora esposti al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. La sala 7 è dedicata ai centri con cui Cortona strinse particolari legami, come – nel versante umbro – Trestina e Fabbrecce, e – nel versante chiusino – Foiano della Chiana e Bettolle. La sala 8 presenta i materiali recuperati negli scavi della Porta Bifora e i reperti provenienti dai santuari di Camucia (in località I Vivai e in via
Nella pagina accanto una sala del MAEC, dedicata alla Cortona orientalizzante e arcaica. In basso la Tanella di Pitagora, una tomba a camera di età ellenistica, in un disegno ottocentesco.
Capitini, integrati con gli esiti delle ultime indagini), di Sinalunga e di Brolio. È poi la volta della Tabula Cortonensis, appena ricordata. Si apre quindi lo spazio dedicato alla Cortona romana e alla villa tardo-repubblicana/imperiale della Tufa in località Ossaia. Il percorso prosegue quindi al primo e secondo piano del palazzo con il Museo dell’Accademia Etrusca, di cui si è voluto mantenere inalterato il sapore della raccolta d’epoca. Per prime s’incontrano le urne cinerarie etrusche e le due statue funerarie chiusine di pietra fetida della sala dedicata a Onofrio Baldelli, che con il suo lascito dette inizio al Museo accademico. Vale poi la pena soffermarsi nella Sala del Medagliere, che conserva monete dall’epoca etrusca fino a quella tardo imperiale. Nel grande salone «del Biscione» l’esposizione
esprime appieno lo spirito dell’Accademia settecentesca, aperta a tutti i campi del sapere e della produzione artistica: si trovano infatti armoniosamente associati reperti archeologici e oggetti d’arte. Dal salone del Biscione si accede quindi all’ambiente dedicato al Lampadario etrusco, il pezzo piú celebre della Cortona etrusca, prodotto pregiatissimo dell’artigianato etrusco della metà del IV secolo a.C., un calco del quale è a disposizione dei visitatori non vedenti. Al secondo piano si giunge infine nel cuore dell’Accademia Etrusca: vi sono infatti la sede storica e la Biblioteca settecentesca, ricca di circa 10 000 volumi, oltre a un’importante collezione egizia, con materiali che dalla metà del V millennio a.C. giungono fino all’età copta (dal IV al VII secolo d.C.).
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I TEMPI E I LUOGHI
VULCI TOMBA FRANÇOIS LA LEZIONE DI VEL SATIES
V
el Saties è raffigurato nella tomba François, intitolata all’archeologo Alessandro François che, nel 1857, la scoprí in località Ponte Rotto. Le pitture vennero staccate nel 1863 dalle pareti e sono oggi conservate a Roma, nella collezione archeologica dei Torlonia. La tomba è importante sia per le informazioni su eventi storici legati alla storia dell’Etruria e di Roma, sia per gli sviluppi della pittura antica. In particolare vi è raffigurato l’eroe vulcente Mastarna che – secondo l’imperatore romano Claudio, studioso del mondo etrusco – va identificato con Servio Tullio. La tomba venne fatta costruire e decorare proprio da Vel Saties intorno al 320-310 a.C. Nel Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica (1857), lo scopritore descrisse cosí le impressioni provate nell’entrare all’interno del sepolcro: «Era ricoperto di esimie pitture munite ciascuna figura di ben chiara iscrizione etrusca, senza della quale circostanza si sarebbe creduto che questo sepolcro avesse
appartenuto ad altra epoca, tanta è la bellezza delle medesime pitture da far rammentare i bei tempi del Botticelli e del Perugino». Nella zona visitabile della necropoli vulcente vi sono alcune delle tombe piú interessanti tra quelle scavate: oltre alla François priva – come detto – di gran parte delle sue pitture, quelle delle Iscrizioni, dei Tutes, dei Tori (o dei Tarnas), dei Due Ingressi. Non lontano si trova il monumentale tumulo della Cuccumella, indagato nell’Ottocento.
I MUSEI Per visitare l’interno della tomba François occorre essere accompagnati da una guida. Per informazioni sulle modalità di visita, ci si deve rivolgere al Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci (http://vulci.it).
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In alto assonometria ricostruttiva della tomba François di Vulci. In basso particolare dell’affresco della parete sinistra del tablino con Achille che sacrifica un prigioniero troiano in occasione della cerimonia funebre per la morte di Patroclo. A sinistra di Achille, l’ombra di Patroclo e la dea della morte Vanth; a destra, Charun e Aiace Telamonio. IV sec. a.C. Roma, Villa Albani.
PERUGIA
AULE VELTHINA E QUEL CONTRATTO SCRITTO SULLA PIETRA
I
l cippo con il nome di Aule Velthina – su cui è incisa una delle iscrizioni etrusche piú lunghe giunte sino a noi – è conservato nel Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria a Perugia, la città-stato etrusca piú aperta verso gli Umbri e una di quelle da cui prese avvio la colonizzazione dell’Etruria padana. Nelle fonti letterarie antiche l’origine della città appare controversa, ma la sua etruscità è oggi un dato acquisito. Nella facies orientalizzante – ancora poco testimoniata – si ha l’impressione che la formazione della città non fosse ancora completata e che continuassero a esistere potentati locali nei dintorni immediati. L’urbanizzazione sembra compiersi solo alla fine del VI secolo. Ne sono testimonianza due reperti di eccezionale rilevanza: il sarcofago dello Sperandio e un alfabetario iscritto sul fondo di una coppa in bucchero. La piena affermazione si ebbe comunque solo durante il secolo seguente,
In alto lamina bronzea rappresentante un guerriero, forse facente parte del rivestimento di un carro da parata, da Castel San Mariano (Corciano, Perugia). VI sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria. A sinistra il cippo di Perugia, blocco in travertino sul quale è incisa la trascrizione di un atto giuridico tra le famiglie dei Velthina (di Perugia) e degli Afuna (del territorio di Chiusi), riguardante la ripartizione di una proprietà sulla quale sorgeva la tomba dei Velthina. III-II sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.
poi, nel IV secolo a.C., la polis arrivò ad avere un ruolo di primo piano nella dodecapoli etrusca. Il successivo inserimento nell’orbita di Roma non si accompagnò al declino, anzi le classi dirigenti locali seppero sfruttare a pieno le nuove possibilità. La fedeltà a Roma non venne meno neanche in momenti drammatici: i soldati romani sconfitti da Annibale nella battaglia del Trasimeno poterono riparare all’interno della città, che li accolse con generosità e umanità. Dopo la guerra sociale, Perugia divenne un municipio della tribú Tromentina e fu governata prima da quattuorviri e poi da duoviri. Lo scontro tra Antonio e Ottaviano la coinvolse tragicamente e il futuro Augusto assediò e conquistò la città: trecento suoi cittadini furono uccisi e un incendio ne danneggiò i templi, tranne il santuario di Efesto, i palazzi pubblici e le abitazioni. L’intera fase imperiale romana appare caratterizzata dal benessere e l’imperatore Vibio Treboniano Gallo (251-253 d.C.) le attribuí lo ius coloniae.
Un quadro ricco ed esauriente Torniamo al Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, ospitato all’interno del convento di S. Domenico in piazza Giordano Bruno, dove ci aspetta il cippo che ricorda Aule Velthina. Il percorso espositivo si articola su piú sezioni: preistoria e protostoria; Umbri ed Etruschi; le necropoli etrusche; Perugia dalle origini all’epoca tardo-antica; l’epoca romana. La prima sezione offre inizialmente una sintesi della paleoantropologia e poi un quadro dell’epoca neolitica. Segue quindi l’illustrazione dell’età del Bronzo e della sua attestazione nell’area dell’Umbria attuale. La sezione successiva è incentrata sul I millennio a.C. quando la regione era divisa tra Umbri ed Etruschi con il fiume Tevere a fare da confine. Un confine, comunque, permeabile a influssi reciproci come insegna bene la storia della prima Perugia, ospitata in un ampio salone al primo piano: i materiali umbri occupano il lato
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I TEMPI E I LUOGHI
municipi, le attività produttive e gli scambi commerciali. Nel convento di S. Domenico è presente pure la raccolta etnologica riunita dall’esploratore Orazio Antinori a seguito dei suoi viaggi di studio in Africa.
Una città e i suoi monumenti
sinistro dell’ambiente, mentre i reperti etruschi sono collocati sul lato destro rispettando la posizione dei due popoli rispetto al fiume. Tra i materiali vanno segnalati almeno le lamine bronzee da Castel San Mariano e diversi vetri multicolore provenienti da Todi. La civiltà etrusca è conosciuta soprattutto attraverso i reperti recuperati nelle tombe e quindi si spiega bene la presenza di una sezione sulle necropoli della regione: vi spicca un capolavoro assoluto come il sarcofago dello Sperandio. E la tomba dei Cutu, ricostruita in un’ambientazione ipogea di grande suggestione, merita senz’altro una visita all’uscita dal museo. Un settore è dedicato alle vicende storiche di Perugia dalle origini sino alla tarda romanità. Il quadro articolato della regione trova un suo parziale azzeramento nell’ultima sezione dedicata ai processi di romanizzazione culminati nel superamento – mai completato del tutto – della divisione culturale rappresentata dalla presenza delle culture etrusca e umbra. In evidenza sono posti i temi della viabilità (compresa la navigabilità dei corsi d’acqua), gli aspetti urbanistici dei singoli
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Tra i resti monumentali conservati a Perugia si possono ricordare le mura con le due celebri porte dette Marzia e Arco Etrusco (o di Augusto); il pozzo Sorbello, profondo 35 m; il percorso archeologico sotterraneo che si sviluppa per circa 1 km al di sotto della cattedrale di S. Lorenzo, con resti di epoca etrusca, romana, tardo antica e medievale (vi si accede dal Museo del Capitolo della Cattedrale). Interessante è la visita alla necropoli del Palazzone: per raggiungerla occorre uscire dal centro storico e arrivare alla frazione di Ponte San Giovanni (a circa 7 km). Qui si trova la celebre tomba dei Volumni (III-I secolo a.C.) realizzata ispirandosi alle abitazioni coeve dell’aristocrazia. Nella camera di fondo sono ancora visibili le urne di Arnth Velimna, il committente del monumento, della moglie e di alcuni suoi discendenti.
I MUSEI MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DELL’UMBRIA Perugia, piazza Giordano Bruno, 10 MUSEO DEL CAPITOLO DELLA CATTEDRALE DI S. LORENZO Perugia, chiostro di S. Lorenzo, piazza IV Novembre IPOGEO DEI VOLUMNI E NECROPOLI DEL PALAZZONE Perugia, via Assisana, 53
In alto Perugia, la Porta Marzia. Si tratta di un arco etrusco del IV-III sec. a.C. che si apre nelle antiche mura della città, smontato e ricomposto in un bastione della Rocca Paolina nel XVI sec. In basso il sarcofago dello Sperandio, dall’omonima necropoli perugina. VI-V sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria. La fronte è decorata con una scena di corteo a cui prendono parte uomini armati, prigionieri, donne e animali.
VOLTERRA
L’OMBRA DI AULO CECINA
A
ulo Cecina discendeva da una delle famiglie aristocratiche che avevano fatto la storia di Volterra in epoca etrusca e durante la fase della romanizzazione. Giunti in città, conviene recarsi subito al Museo Etrusco «Mario Guarnacci», che ripercorre le principali vicende storiche del centro sulla base della documentazione archeologica, dalla fase villanoviana sino alla prima età imperiale romana. Un’attenzione particolare è prestata giustamente all’ellenismo, una delle stagioni d’oro per Volterra. Lo testimonia soprattutto una serie di urne in alabastro di fattura notevolissima. Nell’allestimento attuale sono divise tra il pianterreno e il primo piano del palazzo che accoglie il museo. Piú avanti nel percorso, è stata ricostruita l’officina di uno scalpellino e un’attenzione particolare può essere prestata agli strumenti utilizzati per realizzare piccoli capolavori di scultura. Le altre fasi di vita della polis di Volterra sono documentate sempre adeguatamente e, in particolare, la fase villanoviana della quale sono riproposti alcuni corredi funerari. Restano da segnalare alcuni pezzi di particolare pregio: la stele di Avile Tite; un coperchio di urna realizzato in terracotta e noto come l’«Urna degli Sposi»; l’«Ombra della Sera» un bronzetto straordinario raffigurante un devoto, la cui figura allungata spiega bene la denominazione che porta, ideata probabilmente da Gabriele D’Annunzio, lo scrittore che fece visitare il museo volterrano dai protagonisti del romanzo Forse che sí forse che no.
L’acropoli e il teatro Lasciato il museo, si può raggiungere a piedi il Parco «Enrico Fiumi», nel quale si trovano i resti dell’antica acropoli. Tra le strutture rinvenute, si segnalano due templi affiancati, eretti nel II secolo a.C. con l’intento di ridisegnare l’immagine di una
A destra i resti del teatro di Volterra, edificato nei decenni iniziali del I sec. d.C. e ristrutturato alla fine del II sec. d.C.
zona particolarmente significativa della città dal forte valore simbolico. Sempre a piedi ci si può recare in via Lungo le Mura del Mandorlo da dove si ha una visione completa di uno degli edifici antichi meglio conservati di Volterra, vale a dire il teatro. Venne costruito nei decenni iniziali del I secolo d.C. per volontà di A. Cecina Severo e C. Cecina Largo, membri di una famiglia che aveva avuto già un ruolo di primo piano nella storia locale. Del teatro sono ancora visibili la cavea, l’orchestra e il frontescena. I gradini della cavea recano ancora i nomi delle gentes che li occupavano: i Persii, i Laelii, i Petronii. L’edificio, parte integrante del tessuto urbano cittadino, venne ristrutturato al termine del II secolo d.C. e rimase in funzione sino alla fine del successivo, quando venne abbandonato. Osservando dall’alto, si può notare che, alle spalle del teatro, era stato edificato un portico nel quale gli spettatori si potevano recare negli intervalli, o in caso di pioggia. Le colonne di ordine corinzio del portico delimitavano un cortile, entro il quale venne in seguito realizzato un impianto termale, di cui si possono ancora oggi riconoscere lo spogliatoio, il frigidario, il tepidario, il calidario e il laconicum. Degne di nota sono anche le mura di Volterra che arrivarono a inglobare una superficie di 116 ettari. I resti meglio conservati si possono osservare presso le porte denominate Diana e dell’Arco, vicino a S. Chiara, alle Balze e in località Pescaia. La porta dell’Arco era collocata in asse con il cardo ed è decorata da tre protomi in pietra interpretabili come simulacri di divinità poste a protezione di uno degli accessi alla città.
A sinistra il bronzetto etrusco noto come L’Ombra della sera. III sec. a.C. Volterra, Museo Etrusco «Guarnacci».
I MUSEI MUSEO ETRUSCO «MARIO GUARNACCI» Volterra, via don Minzoni, 15
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MONOGRAFIE
n. 36 aprile/maggio 2020 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Marialuisa Rossignoli, Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Illustrazioni e immagini: Foto Scala, Firenze: copertina (e p. 80) e pp. 64, 112; Mary Evans: p. 52 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 7, 38/39, 40, 104, 113 (alto), 115 (alto), 126 (basso), 127 (basso), 128 (basso); su concessione MiBACT: p. 105 – Doc. red.: pp. 8, 14, 18-25, 26 (Studio Inklink, Firenze), 30, 34, 44, 48, 56-63, 69, 70, 74-76, 87, 88, 93-95, 106, 107 (basso), 108-109, 111, 113 (basso), 114, 115 (basso), 118-119, 120 (Studio Inklink, Firenze), 120/121, 121 (sinistra), 122-124, 126 (alto), 127 (alto), 129 (basso) – Marka: Alan Schroeder: p. 107 (alto); Marco Scataglini: pp. 116-117, 121 (destra); Oliviero Olivieri: p. 129 (alto) – Shutterstock: pp. 110/111, 125, 128 (alto) – Cippigraphix: cartina a p. 97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: testa in terracotta policroma di vecchio che si accarezza la barba, dal Tempio del Belvedere di Velzna (Volsinii, Orvieto). Fine del V sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
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