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L’impero del gusto COSTUMI ALIMENTARI NEL MONDO ROMANO TRA ECOLOGIA, PRODUZIONE E STILI DI VITA Livadiotti N°37 Giugno/Luglio 2020 Rivista Bimestrale
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L’IMPERO DEL GUSTO
di Umberto
IN EDICOLA IL 15 GIUGNO 2020
L’impero del gusto COSTUMI ALIMENTARI NEL MONDO ROMANO TRA ECOLOGIA, PRODUZIONE E STILI DI VITA di Umberto
6. Ecologia
Livadiotti
84. Salute
Governare la natura
Caldi, secchi, freschi e umidi...
24. Economia
98. Politica
Antiche filiere 36. Vita
quotidiana
Tutti i modi del mangiare 50. Mentalità
Le regole del gusto 66. Gastronomia
Cucinare alla romana
Pane in cambio di consenso 110. Società
Ma il cibo non era uguale per tutti... 126.
Bibliografia
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Garantire il fabbisogno energetico alla propria gente, siano essi sudditi o liberi cittadini, è preoccupazione e compito principale di ogni entità statuale. Per le società del passato, sfamare la popolazione rappresentava una sfida politica pari a quella del mantenimento della pace, dell’ordine pubblico e della sanità. A Roma, però, il compito di «nutrire l’impero» – come recitava il titolo di una mostra allestita qualche anno fa al Museo dell’Ara Pacis – assunse dimensioni e caratteristiche senza precedenti: le capacità profuse in questo campo dal piú complesso e articolato sistema politico del mondo antico fu tale da travalicare il mero ambito funzionale, per coinvolgere l’intero universo della vita individuale e pubblica, dalla politica alla scienza, dall’ecologia all’architettura, dalla letteratura all’arte. Il risultato fu l’affermarsi di uno straordinario fenomeno «amministrativo», destinato a rivoluzionare la consapevolezza politica e la mentalità generale ben oltre i limiti del territorio natio e dei decenni in cui fu messo in atto per la prima volta. Di questa vera e propria conquista culturale intendono rendere conto gli otto capitoli di questa monografia, dedicati, rispettivamente, ai suoi risvolti ecologici, economici, di vita quotidiana, di mentalità, gastronomici, medici, politici e sociali, e scanditi da un serrato dialogo con le fonti classiche e con le risultanze archeologiche. Il quadro che ne emerge è – tra somiglianze e differenze – sorprendentemente vivo e attuale. E fa venire in mente Rose Bertin, la celebre sarta di Maria Antonietta, quando affermava che «Il n’y a de nouveau que ce qui est oublié» («Non c’è nulla di nuovo tranne ciò che è stato dimenticato»). Buona lettura! Andreas M. Steiner
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Governare la natura LA «MANOMISSIONE» SU LARGA SCALA DEL TERRITORIO, PER ADATTARLO IN MANIERA SEMPRE PIÚ EFFICACE ALLA PRODUZIONE DI BENI ALIMENTARI, RAPPRESENTÒ UN ASPETTO FONDAMENTALE DELLA PARABOLA IMPERIALE. SI TRATTÒ DI VERE E PROPRIE TRASFORMAZIONI DEL PAESAGGIO, LE CUI TRACCE SONO ANCORA OGGI BEN RICONOSCIBILI
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Mosaico con scene campestri, da Caesarea (l’odierna Cherchell in Algeria). I-II sec. d.C. Cherchell, Museo Archeologico.
omo e territorio sono da sempre avvolti in una spirale di condizionamento reciproco. Se è vero, infatti, che il clima, l’altitudine, le risorse idriche, la vegetazione, la fauna, la qualità del suolo, insomma le risorse naturali offerte dall’habitat, vincolano le possibilità di nutrimento, è altrettanto vero che l’uomo, per favorire la diffusione di quei paesaggi da lui stesso sfruttati per la produzione di cibo, finisce a sua volta per rimodellare sistematicamente il territorio. Cosí nell’antichità, se l’ambiente mediterraneo, con i suoi terreni friabili, facili da arare e zappare, e col suo clima segnato da un’alternanza di inverni miti ed estati torride, ha consentito lo sviluppo di un’agricoltura basata sulla coltivazione dei cereali, della vite, dell’olivo, a loro volta i Romani, non solo in Italia, bensí in tutto l’impero, si sono sforzati di destinare alla coltivazione le piú ampie porzioni di territorio possibile. Continue operazioni di dissodamento di terre incolte, lavori di bonifica di aree paludose, disboscamenti, regimentazione delle acque, costruzione di terrazzamenti trasformarono il paesaggio. Si trattava spesso di lavori liberamente intrapresi dai proprietari agricoli, magari
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ECOLOGIA
A sinistra mosaico con scene di varie attività rurali, da Tabarka (Tunisia). IV sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. In basso, sulle due pagine Roma. Un tratto dell’acquedotto Claudio (in latino Aqua Claudia), uno dei piú importanti dell’Urbe. La sua costruzione fu avviata nel 38 d.C. dall’imperatore Caligola e terminata sotto il principato di Claudio nel 52 d.C.
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incentivati dalle autorità: sul finire del II secolo d.C., per esempio, l’imperatore Pertinace, come ci informa un suo contemporaneo, lo storico orientale Erodiano, «aveva disposto che a chiunque ne avesse il desiderio e la possibilità, sia in Italia, sia nelle provincie, fosse lecito insediarsi nelle terre abbandonate e incolte, anche se facessero parte dei beni imperiali: chi prendeva cura di questi terreni, e li metteva a frutto, ne sarebbe divenuto il proprietario; sarebbe stato inoltre immune da tutti i tributi per dieci anni, e i suoi diritti sarebbero stati garantiti per sempre».
Un’impresa colossale Talvolta era la stessa autorità centrale a organizzare i lavori. Alla metà del I secolo d.C., sotto il regno di Claudio, per citare un caso, decine di migliaia di persone lavorarono per anni al completamento del canale di emissione dell’acqua dal lago Fucino, il piú esteso dell’Italia appenninica, per bonificare e rendere coltivabile un’area immensa al centro della Penisola. In Italia e all’interno dell’impero si affiancavano in realtà una grande varietà di paesaggi agricoli,
fra loro anche molto differenti: una multiformità determinata da situazioni ambientali e sociali diverse fra loro. Vi erano, per esempio (soprattutto sulla costa tirrenica dell’Italia, ma anche altrove), le piantagioni arboricole dei grandi proprietari – vigne, uliveti e frutteti –, in cui squadre di schiavi lavoravano agli ordini di personale specializzato alla produzione di beni alimentari destinati a essere venduti lontano, nelle città; in altre aree invece, come generalmente nelle immediate vicinanze dei centri urbani, erano prevalenti i piccoli appezzamenti in cui i contadini, coadiuvati da familiari e qualche servo, coltivavano, in ogni stagione dell’anno, con cura quotidiana, ortaggi e legumi da vendere periodicamente al mercato cittadino; mentre in altre regioni, in particolare in alcune province, capitava che grandi estensioni di terreno venissero lasciate alla coltivazione di cereali, destinati al consumo locale, o alla vendita, oppure da offrire come tributo alle autorità romane. Senza contare che in alcune aree marginali dell’impero sopravvivevano comunque forme tradizionali di sfruttamento del territorio, caratterizzate dalla
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ECOLOGIA
prevalenza dell’allevamento brado, della raccolta, della caccia. L’opera di «manomissione» delle risorse ambientali piú impressionante fu certamente la creazione di acquedotti. Centinaia di chilometri di condutture in piombo, in tutto l’impero, scavalcarono vallate e montagne per trascinare l’acqua dalle sorgenti ai centri urbani, imprimendo cosí al paesaggio l’impronta forse piú duratura e inconfondibile della romanità: uno spettacolo impressionante, una «specifica testimonianza della grandezza dell’impero romano», come la definí Frontino, l’uomo che, nel 97 d.C., mentre ricopriva a Roma l’incarico di curator aquarum (cioè di amministratore degli acquedotti), scrisse il libello da cui ricaviamo la maggior parte delle notizie in nostro possesso sul funzionamento degli acquedotti stessi. Si trattava, quasi sempre, di strutture colossali, che richiedevano una manutenzione continua, soprattutto a causa delle falle nelle tubature (talvolta dolose), da cui è stato calcolato che fuoriuscisse un buon terzo dell’acqua trasportata. Vitale per l’alimentazione (anche per la possibilità di lavare e cuocere gli alimenti e di pulire pentole e stoviglie), il rifornimento d’acqua era però generalmente destinato alle fontane pubbliche, poi anche alle terme e solo ad alcuni esercizi commerciali (per esempio le tintorie) e alle case private piú ricche: la maggioranza delle abitazioni non veniva raggiunta.
La domesticazione I contatti fra popoli e culture avevano determinato, anche nell’antichità, la diffusione di abitudini alimentari da una regione all’altra e (allorché il clima e la natura del suolo lo avessero consentito) l’ambientazione di nuove piante da coltivare, con la conseguenza di continue trasformazioni degli habitat floreali. In Italia gli sconvolgimenti piú forti furono determinati dall’arrivo, a partire dall’VIII secolo a.C., dei coloni greci con le loro piante (la vite, l’olivo, il fico, il cotogno, il melograno, il mirto, lo zafferano). In seguito i Romani introdussero nella Penisola la coltivazione di alcuni degli
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La centuriazione
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a volontà di sfruttare il piú razionalmente e intensamente possibile i terreni disponibili risulta anche dalla procedura nota come «centuriazione». Una pratica (in genere connessa alla fondazione di una colonia) consistente nella suddivisione dei campi in piccole proprietà (le centurie, appunto) secondo un reticolo rigidamente ortogonale, una sorta di quadrettatura del territorio, originariamente segnata da siepi, muretti e steccati, che ha lasciato nel paesaggio agricolo di alcune regioni dell’Italia padana, dell’Istria, del Nord Africa, un’impronta tuttora visibile. Questa suddivisione delle terre favoriva l’intensificazione della produzione agricola, o almeno la sua razionalizzazione.
In basso et utem net laut facient et quam I coloni, che spesso si insediavano nei piccoli fugiae officae ruptatemquiappezzamenti, potevano seguire da vicino, giorno peresgiorno, le proprie coltivazioni. La conseque vite centuriazione comportava inoltre la creazione di sae quis deris rehenis aspiciur una ragnatela di strade, sentieri e ponti disposti sincte sequetutt’attorno con alle piccole fattorie, che consentiva nusam fugit ai et qui coloni un collegamento piú rapido e diretto con bernate laborest, ut cittadino, inducendoli cosí a sfruttare il mondo ut aliquam rentus anche le terre piú lontane dagli abitati, a non magnim ullorepra limitarsi a produrre per il proprio serro dolum fabbisogno e talvolta a sostituire le
colture preesistenti, i cui prodotti non necessariamente interessavano il mercato urbano, con altre e nuove coltivazioni, piú rispondenti ai gusti e ai consumi, in particolare alimentari, della popolazione residente nelle città.
Nella pagina accanto, in alto e qui sopra attrezzi agricoli di epoca romana. Siviglia, Museo Archeologico. A sinistra disegno ricostruttivo dell’assetto ambientale del territorio di Mutina, la Modena dei Romani. Appare evidente la suddivisione delle aree coltivabili in appezzamenti definiti con il sistema della centuriazione.
alberi da frutta che avevano conosciuto in Asia all’indomani della loro espansione: ciliegio, albicocco, pesco, susino, pistacchio. Di provenienza orientale, benché radicati da tempo nella Penisola, erano considerati anche la mandorla e il nocciolo, rispettivamente chiamati «noce greca» e «noce pontica». Dall’Africa arrivò invece il melone. La linea di diffusione di queste piante non è mai facile da ricostruire, anche perché, spesso, le scarse informazioni letterarie non si abbinano bene ai dati offerti dalle analisi paleobotaniche. D’altra parte, la semplice presenza di tracce di pollini o semi non equivale automaticamente ad attestare la coltura di una pianta. A ogni modo la vigna, diffusasi rapidamente in tutta l’Italia antica, ne divenne uno dei paesaggi tipici. Le piantagioni di vite domestica presentavano però un aspetto diversificato, a seconda della zona. Le vigne venivano infatti realizzate secondo due sistemi diversi: nel Mezzogiorno e in Liguria, e fuori dall’Italia nella penisola iberica, era adottato il sistema ad «alberello basso», o a sostegno morto, diffuso dai coloni greci; mentre nella valle padana e in Campania predominava quello a «sostegno vivo» diffuso dagli Etruschi e ripreso dai Celti.
Una fitta rete di esportazioni Anche la domesticazione di alcuni animali e la successiva opera di selezione zootecnica operata dagli allevatori romani nelle fattorie di tutto l’impero, comportò un impatto sull’habitat faunistico. Capitava che esemplari allevati allo stato brado, o scappati dalle recinzioni, riuscissero ad ambientarsi fuori dagli allevamenti o semplicemente si accoppiassero con animali selvaggi. Tanto piú che esisteva un giro di esportazione di capi di bestiame in regioni diverse da quelle originarie. Per quanto prevalentemente vegetariana, infatti l’alimentazione romana non era costituita esclusivamente di nutrimenti d’origine vegetale. Soprattutto a partire dal periodo dell’espansionismo, negli ultimi secoli prima dell’era cristiana, il ricorso all’allevamento di specie animali differenti consentí infatti di
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ECOLOGIA
Allevamenti «biologici»?
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nche nell’antichità la qualità dell’alimentazione del bestiame destinato alla macellazione (o comunque, tramite latte o uova, alla nutrizione umana) era al centro dell’attenzione degli allevatori, poiché da essa dipendeva la buona crescita degli animali e perché dal suo costo discendeva il margine di guadagno degli allevatori stessi. Lo attesta, per esempio, una pagina di Columella, scrittore vissuto nel I secolo d.C. e autore di un’opera, De re rustica, in cui dispensa consigli sull’agricoltura e
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sulla zootecnia: «I mangimi migliori da dare alle galline – scrive – sono l’orzo pestato nel mortaio, la veccia, la cicerchia, il miglio e il panico, ma solo lí dove il modico prezzo che le dette granaglie hanno sul mercato lo permette. Dove invece costano troppo, si possono dare benissimo minuzzoli e stacciature di frumento. Il frumento intero, anche se il suo prezzo fosse bassissimo, non si dà da mangiare ai polli con utilità, perché fa male. Si può invece gettar loro del loglio cotto e anche della crusca ancora abbastanza ricca di farina; perché, se alla crusca non è rimasta attaccata affatto della farina, non è adatta e neppure gustata dalle galline, anche se digiune. Le foglie e i semi di citiso (una leguminosa simile alla ginestra, n.d.r.) sono molto raccomandabili e piacciono molto ai polli (...) I vinaccioli, benché nutrano discretamente, non devono essere dati alle galline se non nei periodi dell’anno in cui non fanno le uova; infatti rendono le uova scarse e piccole». Ai nostri occhi (abituati ai mangimi addizionati con anabolizzanti ed estrogeni, alle farine di pesce e cosí via) l’alimentazione riservata al bestiame nell’antichità risulta «naturale», «biologica»; ed effettivamente non esistevano allora i problemi di tossicità determinati dalle odierne pratiche di contraffazione alimentare: tuttavia, considerando la mancanza quasi assoluta di nozioni scientifiche in loro possesso, gli sforzi degli allevatori romani per ingrossare i loro animali non erano scarsi, né poco «artificiali». È curioso notare, per esempio, che essi già praticavano l’ingrassamento forzato delle oche, castrate e sottoposte a ingozzamento di fichi per ottenerne il rigonfiamento del fegato (che di conseguenza veniva definito ficatum, da cui, per inciso, deriva la parola «fegato», che in latino si indicava invece col vocabolo iecur).
A sinistra particolare dei rilievi che ornano il sepolcro di Caio Cornelio Successo raffigurante un servo che squarta un maiale, da Aquileia. II-III sec. d.C. Verona, Museo Archeologico al Teatro Romano.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Particolare della fronte del sarcofago di Iulius Achilleus, sovrintendente al Ludus Magnus (la grande caserma dei gladiatori), decorata da rilievi che raffigurano scene pastorali, da Roma, via delle Terme di Caracalla, ex vigna Casali. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.
arricchire significativamente la dieta degli abitanti delle città. Era soprattutto il maiale a essere allevato a scopo alimentare: se ne mangiava tutto, dalla testa alla cotenna, alle interiora – di cui si facevano salsicce e salami –, mentre dal lardo si ricavava lo strutto, utilizzato in cucina per friggere. Si conoscevano due specie di suini addomesticati: il maiale rosa (allevato soprattutto in pianura) e quello nero (piú diffuso nelle regioni montane).
Maiali al pascolo brado Normalmente i piccoli proprietari di campagna ne tenevano due o tre esemplari in un recinto in cortile, per l’autoconsumo, nutrendoli perlopiú con rifiuti alimentari; diversa era invece la situazione nei grandi allevamenti. Le mandrie di maiali, costituiti da decine e decine di capi, erano infatti nutrite quasi
esclusivamente all’aperto, lasciate a pascolare liberamente nei campi e soprattutto nei boschi (in particolare querceti). Si trattava di allevamenti specializzati, in grado di rifornire di carne i mercati delle città, e i cui esemplari, benché generalmente di dimensioni inferiori a quelle dei maiali di oggi, raggiungevano talvolta misure ragguardevoli. Il pollame era allevato nei cortili delle fattorie o in pollai areati e puliti; mentre tortore, piccioni e altri volatili, di cui si sfruttavano pure gli escrementi come concime, venivano fatti crescere in apposite costruzioni a forma di torre (i «colombari»). Questo genere di allevamento non era finalizzato solo alla fornitura di carne, ma soprattutto a quella di uova. Anche altri tipi di allevamento erano solo parzialmente destinati all’alimentazione umana. Le numerose mandrie di pecore, che
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ECOLOGIA
percorrevano l’Appennino lungo i sentieri della transumanza, erano infatti destinate principalmente alla produzione di lana. Il bestiame bovino era invece adibito perlopiú alla fornitura di energia, cioè a sostenere i lavori pesanti, come la trazione di aratri o veicoli, e alla produzione di letame. Occasionalmente, se ne mangiava anche la carne; ma di solito solo quando le bestie erano invecchiate e non se ne poteva piú fare altro uso; oppure in occasione di sacrifici rituali, quando tori e vitelli venivano sgozzati sugli altari. Il latte veniva munto
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perlopiú per essere trasformato in formaggio: ma, a questo scopo, si ricorreva generalmente a quello di pecora o a quello di capra. Il latte e il formaggio di mucca erano invece apprezzati quasi esclusivamente nelle regioni dove, prima ancora dell’arrivo dei Romani, i Celti avevano radicato le loro tradizioni alimentari. Rari e occasionali erano gli allevamenti di conigli; ancora inesistenti quelli di bufale, probabilmente importate nell’area mediterranea dalle popolazioni germaniche solo ai tempi delle «invasioni».
Affresco raffigurante una natura morta: una coppa di vetro con melograni e uva e recipienti di terracotta, dai Praedia di Giulia Felice, a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Assai diffuso e incentivato era l’allevamento di api. Importante anche per la produzione della cera, l’apicoltura riforniva il mercato gastronomico del principale dolcificante utilizzato dagli antichi: il miele. Sappiamo che le tecniche di allevamento erano abbastanza raffinate e prevedevano, per la produzione di mieli aromatizzati, l’imposizione alle api di un nutrimento specifico. Dal I secolo a.C. assunse infine particolare importanza anche l’itticoltura, praticata principalmente nelle ville padronali del litorale tirrenico.
Anche nel mondo romano sopravvivevano sistemi di procacciamento del cibo basati sul semplice eppure sistematico «saccheggio» delle risorse messe a disposizione dalla natura: la raccolta di piante selvatiche, come il silfio, o i funghi, o i frutti di bosco; ma soprattutto la cattura di animali bradi, uccelli, lumache, pesci, crostacei. In particolare, soprattutto nelle regioni costiere della parte orientale del Mediterraneo, la pesca ricopriva un ruolo di una certa importanza nella costruzione della dieta. (segue a p. 20)
Cosa mancava sulle tavole dei Romani?
P
er immaginare concretamente il paesaggio dell’Italia antica (e di tutto l’antico bacino mediterraneo), è necessario accantonare alcune delle immagini piú tipiche dell’iconografia agricola moderna, come, per esempio, le risaie del Vercellese, o gli agrumeti siciliani, o le coltivazioni di pomodoro nell’entroterra campano. Solo nel corso dell’ultimo millennio, infatti, prima il contatto con la cucina araba, poi la scoperta degli usi alimentari dei nativi americani, infine i meccanismi della globalizzazione hanno arricchito il nostro menú di innumerevoli opzioni: piante e animali che i Romani non utilizzavano nella loro alimentazione, o perché non le conoscevano o perché ne sottovalutavano le qualità nutritive. Sulla tavola degli antichi mancavano la patata, il pomodoro, le melanzane, i peperoni e i peperoncini, il granoturco, gli spinaci, le zucchine, la soia, le arachidi. Erano inoltre sostanzialmente assenti i frutti provenienti dalle regioni a clima tropicale (non solo quelli che oggi definiremmo esotici, ma anche alcune specie a noi assai piú familiari, come ananas, cocco, banane, fichi d’india) e quasi tutti gli agrumi (pressoché sconosciuti l’arancia, il pompelmo e il mandarino; il limone era
conosciuto ma in pratica ignorato). Non si conoscevano neanche le piante del cacao, del tè, del caffè, né la canna o la barbabietola venivano utilizzate per l’estrazione di zucchero. Il riso, conosciuto dai Romani che lo importavano dall’India, non era ancora coltivato in Italia e in cucina veniva usato solo come legante. Tuttavia, non per questo la cucina romana era piú povera o piú monotona di quella attuale, poiché nella preparazione delle pietanze venivano utilizzate piante che oggi, almeno in Italia, hanno viceversa assunto un ruolo del tutto marginale (quando non sono addirittura scomparse): è il caso, per esempio, del coriandolo o del levistico. Del resto, in seguito ai selezionamenti e agli incroci operati dalle decine di generazioni di agricoltori che ci separano dall’antichità, anche le piante che hanno mantenuto lo stesso nome hanno in genere trasformato la propria struttura, magari variando di dimensioni, o di colore, oppure di valore nutritivo: le carote, per esempio, erano allora ancora prive del colore arancione che le caratterizza oggi; mentre i carciofi, di cui si mangiavano solo gli steli, erano in pratica le inflorescenze del cardo selvatico, con foglie piccole e dure.
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ECOLOGIA
Mosaico policromo raffigurante due pescatori, da una villa marittima in località Silin, presso Leptis Magna (Libia). II sec. d.C. Tripoli, Museo Nazionale. Il giovane sta recuperando il pesce che ha abboccato alla sua esca, mentre il piú anziano prepara una nuova lenza.
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ECOLOGIA
Vasche artificiali per ostriche e murene
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all’inizio del I secolo a.C. si diffuse nelle ville signorili situate sulla costa tirrenica un tipo di allevamento particolare: quello degli animali marini commestibili. In questo periodo, infatti, per la prima volta anche in riva al mare, cominciarono a sorgere, secondo il modello degli impianti in muratura costruiti in riva ai fiumi o ai laghi in alcune fattorie dell’interno, vivai da cui attingere pesce fresco tutto l’anno, anche in inverno: orate, spigole, dentici, triglie, murene, anguille; ma anche occhiate, cefali, sogliole; e soprattutto molluschi, in particolare ostriche, coltivate in cestelli poggiati sul cordame teso fra pali infissi
nel fondale e affioranti a pelo d’acqua. Protetti con moli e muretti dall’eventualità di mareggiate, gli impianti per i pesci erano costituiti da vasche intagliate nella roccia, vere e proprie piscine, dotate di condotte (in materiale deperibile, come le canne, dove era prevista una maggiore e continua circolazione dell’acqua, altrimenti in muratura) attraverso cui l’alternanza delle maree determinava l’afflusso e il deflusso dell’acqua. Talvolta, per separare pesci dalle diverse caratteristiche e magari pericolosi fra loro, venivano isolati compartimenti distinti, in alcuni casi persino caratterizzati dalla ricostruzione di
Sulle due pagine Lapithos (Cipro). Resti di vasche romane per l’allevamento del pesce scavate nel banco roccioso. Nella pagina accanto in alto particolare di un mosaico policromo raffigurante varie specie di pesci. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.
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In basso et utem net laut facient et quam habitat differenti (roccioso, sabbioso o fangoso). fugiae officae ruptatemquiNon sembra comunque che si riuscisse a far riprodurre i pesci in cattività ; l’allevamento conseque vite es quindi doveva consistere soprattutto nel sae quis deris rehenis aspiciur mantenere in vita pesci catturati in mare e sincte sequetrasferiti con nelle vasche. nusam fugit Non et quisi trattava certo di una produzione volta a bernate laborest, ut soddisfare una richiesta di massa; ma non era ut aliquam rentus neppure destinata esclusivamente al consumo magnim ullorepra interno alla cerchia domestica: attorno a serro dolummolluschi e pesci, i generi di lusso per eccellenza
della tavola romana, ruotava infatti un giro di affari tanto elitario quanto redditizio.
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ECOLOGIA
Vini nuovi e vitigni antichi
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egli anni a cavallo fra Otto e Novecento, tutte le piantagioni di vite allora esistenti, tranne rarissime eccezioni, vennero sostituite da vitigni nuovi, risultati dell’innesto della vite selvatica americana (resistente alla filossera, un parassita proveniente da Oltreoceano che andava creando devastazioni senza fine nelle coltivazioni vinicole del Vecchio Continente) sulle radici dei vitigni europei. Nonostante questo stravolgimento, archeobotanica e genetica ci consentono di sostenere che una parte significativa dei vitigni oggi utilizzati per la produzione di vino traggano origini, piú o meno direttamente, da vitigni selezionati e utilizzati già dai Romani. Appoggiandosi anche su analisi eno-etimologiche, è stato addirittura ipotizzato che il vitigno originario da cui discenderebbero ben 78 vitigni oggi piuttosto rinomati (come Chardonnay, Sauvignon e Traminer) corrisponderebbe a quello impiantato nell’area renano-danubiana per ordine dell’imperatore Probo poco dopo la metà del III secolo d.C. Di certo, lo studio del DNA di alcuni
vinaccioli rinvenuti nei pressi della Villa dei Misteri, vicino Pompei, ha consentito di riconoscere la presenza sul posto di alcune varietà di vite campana ancora oggi in uso (fra cui Falanghina e Aglianico), tanto da indurre la Sovrintendenza a promuovere, in accordo con una azienda vinicola privata, l’impianto in loco di una vigna, la cui produzione, ormai estesa a 15 aree per un totale di circa un ettaro e mezzo, viene poi commercializzata. Tuttavia, la distanza fra il vino antico e il nostro resta incolmabile; e ciò perché il vino non rappresenta solo il prodotto della vigna, ma anche quello della cantina. E, da questo punto di vista, le trasformazioni delle pratiche enologiche realizzatesi nel corso dell’ultimo millennio risultano imprescindibili. Del resto, nonostante le numerose pagine dedicate dagli agronomi latini alla viticoltura, noi non comprendiamo chiaramente tutti gli aspetti tecnici della vinificazione antica: e ci sfuggono, in particolare, alcuni dei passaggi chiave legati al processo di fermentazione.
Pompei. Il vigneto impiantato sperimentalmente all’interno dell’area archeologica.
Il pesce veniva catturato in diversi modi: con la lenza montata sulla canna o al «bolentino» (sistema che consiste nel calare in acqua una lenza alla cui estremità è appeso un peso di piombo adeguato alla profondità, prima del quale sono attaccati, a varie altezze, altri tratti di lenza con altrettanti ami, n.d.r.), o con la fiocina, oppure con le nasse; tuttavia, i pescatori di mestiere si servivano perlopiú di reti, spesso
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Nella pagina accanto Mérida (Spagna), Casa dell’Anfiteatro. Mosaico policromo raffigurante la pigiatura dell’uva. Fine del III sec. d.C.
utilizzate «a strascico». Non esistevano grandi pescherecci d’alto mare, si pescava piuttosto da piccole imbarcazioni, sempre sotto costa; e capitava che si uscisse in mare nel buio della notte, alla luce delle lampare. Spesso si trattava di piccole aziende familiari; talvolta un proprietario dava in affitto le sue barche. Alcune iscrizioni ci mostrano il grado di articolazione a cui potevano arrivare le società
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ECOLOGIA
di pescatori: nostromi, vedette, timonieri, addetti alle reti, capi scialuppa, semplici pescatori e naturalmente segretari, tesorieri e presidenti. I pesci venivano venduti freschi sul mercato locale oppure fatti a pezzi e conservati in salamoia dentro grandi barili e cosí trasportati per essere venduti in tutto l’impero. Esistevano centri di produzione su scala quasi industriale, soprattutto nel Mar Nero e in Andalusia. Il pesce conservato, però, aveva un
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prezzo notevolmente inferiore rispetto a quello fresco. Se sardine e polpi, tonni e crostacei già si ammassavano sui banconi dei pescivendoli proprio come oggi, si deve ricordare che dall’orizzonte gastronomico romano erano invece esclusi i pesci tipici dei freddi mari settentrionali (in particolare aringhe e merluzzi atlantici), che tanto avrebbero caratterizzato l’alimentazione ittica in età moderna. Al contrario della pesca, nel mondo romano la
In alto ciotola contenente resti di uova, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Le uova venivano conservate in contenitori ceramici riempiti di argilla finissima, per evitare che potessero rompersi. A sinistra affresco raffigurante pollame e due cestini con formaggio fresco, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
caccia, come fonte di procacciamento di cibo, rimase un fenomeno secondario.
Un passatempo da signori D’altra parte, la sua pratica era fortemente ostacolata dall’assetto giuridico del territorio che, come abbiamo visto, nelle regioni piú densamente abitate era in gran parte diviso in proprietà private, fattorie agricole, stanziamenti colonici, o latifondi, in cui era complicato
introdursi, per esempio, per preparare una trappola. Alla caccia (spesso rivolta agli animali da pelliccia) si dedicavano pertanto soprattutto gli abitanti dei territori marginali, meno adatti alla presenza umana, nelle regioni montane o paludose. In Italia e nelle province piú prospere la caccia rimase invece appannaggio quasi esclusivamente degli ambienti aristocratici. Ma piú che per uccidere animali da mangiare (fagiani, volatili, cervi e cinghiali), i membri dell’élite cacciavano per tenersi in forma fisicamente, per divertirsi, per mostrare il proprio valore. A questo scopo nacquero le riserve: boschi e spazi naturali recintati da alte mura, all’interno di tenute private in cui veniva lasciata crescere la selvaggina, cacciata poi dai proprietari del terreno o dai loro inservienti in grandiose battute. Infine, la raccolta del sale. I Romani lo utilizzavano per insaporire, da solo o miscelato con altri aromi; e lo usavano, perlopiú ridotto in salamoia, anche per conservare gli alimenti. Lo estraevano dalle miniere o lo recuperavano attraverso il prosciugamento dell’acqua marina nelle vasche. Tutte le saline erano di proprietà dello Stato, che ne appaltava lo sfruttamento a società di privati e fissava il prezzo di vendita del sale: un controllo che la dice lunga sull’importanza attribuita a questa risorsa.
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Ricostruzione di una scena di vita quotidiana ambientata nelle strade che costeggiavano il mercato (macellum) della città romana di Viroconium (Wroxeter), uno dei centri piú importanti e popolosi della Britannia.
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Antiche filiere CONTADINI E ALLEVATORI DESTINAVANO MOLTA DELLA PROPRIA PRODUZIONE ALLE CITTÀ, ATTUANDO IL MODELLO, OGGI SEMPRE PIÚ AUSPICATO, DEL «CHILOMETRO ZERO». NON MANCAVANO, TUTTAVIA, PRODOTTI CIRCOLANTI AD AMPIO RAGGIO, COME IL GRANO O IL VINO, SECONDO IL MEDICO GALENO, A ROMA POTEVANO GIUNGERE, ANCORA FRAGRANTI, PERFINO CROSTATE SFORNATE NELLA LONTANA SIRIA!
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istanze abissali separano le tecniche agricole moderne da quelle in uso nell’antichità. In assenza dei fertilizzanti chimici e dei diserbanti, per concimare il terreno si utilizzavano generalmente la cenere delle stoppie appositamente bruciate e soprattutto letame. Per evitare che i terreni coltivati esaurissero le riserve minerali e organiche, bisognava perciò quasi ovunque alternare a un anno di coltivazione un anno di riposo (il cosiddetto maggese), oppure una coltivazione di tipo diverso, per esempio avvicendando quella di cereali con quelle di legumi. Mancavano del resto quei prodotti (patata, mais, soia) che in età moderna hanno consentito lo sfruttamento agricolo di terreni altrimenti improduttivi. Si deve inoltre valutare l’azione devastante dei parassiti e dei funghi, che oggi vengono debellati da pesticidi e anticrittogamici, ma che allora erano combattuti con rimedi piuttosto rudimentali e non particolarmente efficaci. Allo stesso modo si deve tenere presente l’incapacità di selezionare e ibridare le sementi a un livello comparabile con quello raggiunto oggi dalla biogenetica. Tuttavia, la resa delle sementi antiche sembra esser stata discreta: non abbiamo indicazioni precise, né possiamo generalizzare troppo i pochi dati a disposizione, poiché sappiamo che in questo si notavano
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ECONOMIA
differenze anche vistose fra una regione e un’altra; ma si può comunque considerare che nella maggior parte dei casi esso si aggirasse grossomodo attorno all’1:4. Infine, occorre ricordare la sostanziale mancanza di meccanizzazione, che comportava la necessità d’un impiego di manodopera assai numerosa, specialmente in alcuni tipi di operazioni, come per esempio la mietitura, fatta a mano con falci.
Rudimentali, ma efficaci Data la presenza di masse di schiavi e in genere anche di contadini liberi disposti a fare i braccianti, il problema non doveva risultare tuttavia pressante; anche perché la terra, in larga parte del mondo mediterraneo, si lasciava lavorare con discreta facilità anche dalle rudimentali ma funzionali attrezzature dei contadini romani. La situazione si complicava solo lí dove la durezza dei terreni si combinava a una scarsa densità di popolazione. È il caso, per esempio, delle pianure galliche, dove
Ma quanto costava fare la spesa?
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muri di Pompei hanno conservato, graffiti sulle pareti, una decina di «conti della spesa» che ci consentono di avere il polso del costo della vita nella cittadina campana al momento dell’eruzione del 79 d.C. Quello che segue è la prima parte di un elenco di merci, con relativo prezzo, scandito su nove giorni consecutivi (relativi a un mese e a un anno non specificati), graffito su una facciata dell’atrio dell’insula VII della regio IX, probabilmente parte di una taverna, anche se non è escluso che l’ambiente facesse parte di una abitazione. A dire il vero, non sono chiari né la funzione precisa del graffito, evidentemente un promemoria, né a chi vada riferito (un avventore della taverna? I dipendenti? O un conto interno al condominio dell’insula?). Per valutare il valore degli alimenti si può considerare, a termine di paragone, che la paga giornaliera di un manovale si doveva aggirare sui 20 assi. Una tunica ne costava una sessantina; farla lavare 16. Una lampada di terracotta 1 asse. 4 assi valevano un sesterzio; 4 sesterzi un denario.
8° giorno prima delle idi: Formaggio Pane Olio Vino 7° giorno prima delle idi: Pane Oli
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1 asse 8 assi 3 assi 3 assi
8 assi 5 assi
Cipolle Companatico Pane per lo schiavo Vino
5 assi 1 asse 2 assi 2 assi
6° giorno prima delle idi: Pane Pane per lo schiavo Semola
8 assi 4 assi 3 assi
Nella pagina accanto rilievo raffigurante una donna che vende ortaggi e legumi. Prima metà del III sec. d.C. Ostia, Antiquarium. In basso affresco raffigurante vari tipi di pane, dai Praedia di Giulia Felice, a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
significativamente fecero la loro comparsa macchinari innovativi: un aratro piú pesante, ma meno maneggevole, e una sorta di trebbiatrice meccanica, issata su un carro trascinato da buoi. Anche l’industria alimentare, cioè quel complesso di attività che attraverso attrezzature meccaniche trasforma in cibi i prodotti agricoli e di allevamento, beneficiò in maniera solo parziale delle applicazioni tecnologiche che teoricamente si sarebbero potute adottare. Nelle campagne – in particolare nelle villae padronali – torchi, presse e macine non mancavano mai; generalmente questi impianti di macinazione erano affiancati anche da officine in cui si fabbricavano i contenitori per confezionare i prodotti (per esempio le anfore per l’olio o il vino). Particolare importanza aveva il mulino:
nell’antichità non esistevano ancora quelli a vento, che in Occidente si diffonderanno solo a partire dal XII secolo; tuttavia assai numerosi erano quelli ad acqua, e ancor piú quelli a trazione animale o umana, presenti tanto nelle campagne (dove magari un solo mugnaio serviva tutti i contadini della zona), quanto nelle città, all’interno dei panifici. Laboratori e stabilimenti di trasformazione alimentare sorgevano infatti anche in prossimità o addirittura all’interno dei centri urbani: forni, pasticcerie, caseifici, norcinerie.
Prodotti locali Nell’antichità, come del resto nel Medioevo e nell’età moderna sino all’avvento della rivoluzione industriale, la parte preponderante degli alimenti consumati era costituita da
ECONOMIA
prodotti locali, facilmente deperibili e pertanto difficili da conservare o da trasportare a lunga distanza. Era comunque necessario un trasporto all’interno del mercato della città della merce prodotta dai contadini negli appezzamenti fuori porta: si trattava di un pendolarismo dalla cadenza giornaliera o tutt’al piú nundinale (scandito cioè dal mercato che si teneva ogni otto giorni), svolto perlopiú a dorso di somari o in sella a carretti. Tuttavia, lo sviluppo di un efficiente sistema di comunicazione e l’alto grado di sicurezza assicurato dall’amministrazione romana consentirono, per quel tipo di alimenti in grado di sopportare il trasporto senza guastarsi, anche una diffusione a largo raggio, soprattutto in direzione delle città. Capitava cosí che nei grandi centri come Roma, Alessandria, Efeso, Cartagine, si potessero trovare mercanzie provenienti da tutto l’impero e anche oltre, come il pepe importato dall’India.
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In basso Pompei. Il pistrinum (panificio) collegato alla casa di N. Popidius Priscus. Al centro sono le macine in pietra, formate da una parte inferiore fissa (meta) e da una superiore mobile (catillus).
Benché le ragioni biologiche del deterioramento degli alimenti non fossero comprese a fondo, ricorrendo ai tradizionali metodi di conservazione (salatura, affumicatura, disseccamento) si riuscivano a ottenere risultati stupefacenti. Secondo quanto sostenuto da Galeno, nel II secolo d.C. a Roma era possibile mangiare una crostata di mele cotogne prodotta in Siria! La sovrabbondanza di frammenti di ceramica
Una fatica davvero «bestiale»
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irare la macina del mulino era un lavoro massacrante, sia per le bestie che per gli esseri umani (generalmente schiavi), come bene illustra una celebre pagina scritta all’inizio del II secolo d.C. dall’africano Apuleio, autore di un romanzo il cui protagonista, Lucio, si ritrova per magia trasformato in asino. Naturalmente le tinte fosche con cui lo scenario di lavoro è ritratto dallo scrittore vanno comunque considerate una
induce spesso a immaginare che tutto il trasporto delle derrate alimentari avvenisse in recipienti di argilla: orci, anfore, giare. Ma la merce viaggiava anche stipata in contenitori deperibili: cassette di legno, ceste di vimini e sacchi di tela. Anche i sistemi di trasporto dei liquidi erano molteplici, e potevano variare da regione a regione: il vino per esempio, che nell’area mediterranea veniva stivato in anfore di terracotta, nelle province settentrionali era
rielaborazione letteraria, che esaspera quella che doveva essere la normalità: «Mi comperò il mugnaio del vicino villaggio, (...) e poiché aveva acquistato anche del grano, quello súbito mi caricò a dovere e per una strada tutta sassi e sterpi mi spinse fino al suo mulino. Lí c’erano molti animali da tiro che, girando sempre torno torno, muovevano delle macine di varia grandezza. E non soltanto di giorno ma anche di notte, ininterrottamente, facevano girare quegli ordigni e la loro veglia produceva farina. (…) Il giorno dopo, di prima mattina, m’attaccò a una macina che mi parve enorme e, bendatimi gli occhi, mi spinse lungo un solco circolare in modo che io, camminando sempre dentro quel cerchio, fossi obbligato a passare e a ripassare sui miei stessi passi e a rifare continuamente lo stesso giro. (…) Era trascorsa quasi l’intera giornata ed io ero stanco morto quando quelli mi staccarono dalla macchina e mi portarono alla mangiatoia. Ma benché fossi sfinito e affamato (...) mi misi a osservare come funzionava quell’odiosa baracca. Santi numi! Com’erano ridotti lí dentro
In basso illustrazione ottocentesca nella quale si immagina il lavoro di uno schiavo addetto alla macina da grano.
conservato e trasportato in botti di legno. Si utilizzavano anche otri di pelle, mentre l’uso del vetro era riservato alla bottiglieria domestica di qualità; la latta non esisteva. Carovane di muli e somari si muovevano per tutto l’impero; carri e carretti transitavano lungo le arterie stradali fino ai sentieri di campagna; ma la maggior parte del traffico si svolgeva nelle stive delle barche. Durante l’inverno si evitavano rotte che attraversassero il mare
quegli uomini: avevano la pelle tutta a chiazze livide, le spalle piagate e, sopra, soltanto l’ombra di un cencio che non le copriva neppure; anzi taluni avevano un pezzo di straccio soltanto all’inguine; insomma tutti, per quei poveri panni che portavano, era come se fossero nudi. Avevano un marchio inciso sulla fronte, i capelli rasati e anelli ai piedi, erano sfigurati dal pallore e con le palpebre bruciate dal nerofumo e dal denso vapore che li aveva resi quasi ciechi: come i pugili che quando combattono si spargono il corpo di sabbia fine, cosí
quelli erano tutti bianchi e sporchi di polvere di farina. E che dire poi degli animali, dei miei compagni? Che muli decrepiti e che ronzini cadenti! Erano tutti là con il muso affondato nella mangiatoia a masticare montagne di paglia, il collo pieno di piaghe infette, le narici cascanti e fiaccate da incessanti colpi di tosse, il petto ulcerato per il continuo sfregare della corda di sparto, le costole messe a nudo dalle molte bastonate, gli zoccoli larghi e piatti per l’ininterrotto girare, la pelle, infine, rinsecchita e coperta di croste».
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ECONOMIA
Un caseificio maleodorante
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a diffusione di rumori, odori e rifiuti da parte delle officine per la trasformazione alimentare provocava spesso, nei centri urbani, questioni di buon vicinato. Ecco per esempio il caso di una sentenza di Ulpiano, giurisperito vissuto a cavallo fra il II e il III secolo d.C., riportata nel Digesto e relativa a un contenzioso fra Cerellio Vitale,
detentore di un caseificio a un piano terra, e il proprietario del piano superiore dello stabile: «Aristo rispose a Cerellio Vitale che l’immissione di fumo nei piani superiori dal suo caseificio era illegale a meno che non avesse avuto una specifica autorizzazione. E aggiunse che anche dal piano superiore non poteva essere immesso in quello
aperto: si cercava di navigare perlopiú sotto costa, e anche nel caso di traversate piú lunghe (per esempio dai porti del litorale tirrenico all’Africa settentrionale) si facevano tappe intermedie sulle isole. Le navi d’alto mare potevano raggiungere dimensioni notevoli, con una capienza di 2-300 tonnellate. Dopo l’ormeggio in porto, spesso erano necessarie ulteriori operazioni: la merce veniva ricaricata su battelli piú piccoli, in grado di attraccare ai moli, oppure su chiatte da alaggio in grado di risalire i corsi dei fiumi. Schiere di facchini, talvolta aiutati da gru o altri macchinari, si affaccendavano attorno ai carichi. Poi era la volta degli addetti al controllo della merce, che ne calcolavano la consistenza e ne verificavano lo stato. Infine, in alcuni casi, toccava ai
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante la preparazione del formaggio, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. In basso rilievo raffigurante il trasporto di botti di vino a bordo di una chiatta sulla Durance (Francia). Età gallo-romana. Avignone, Musée Calvet.
inferiore né acqua né altro: la legge infatti prevede che ciascuno faccia in modo di non immettere nelle proprietà altrui alcunché, compresi gli scarichi di fumo e acqua: dunque il proprietario dei piani superiori ha la facoltà di reclamare perché quello del piano di sotto si comporta in maniera che non gli è consentita».
funzionari preposti alla riscossione degli eventuali dazi fiscali. Il costo del trasporto veniva naturalmente a incidere sul prezzo dei prodotti: il vino, la salsa di pesce, la frutta esotica, tutti i cibi importati da lontano di solito erano riservati alle tavole delle famiglie piú abbienti, che anzi ne facevano uso anche per sottolineare la propria ricchezza. Negli attrezzatissimi porti romani c’erano sempre magazzini per lo stivaggio delle merci, spesso a piú piani e caratterizzati da porticati. Qui le mercanzie potevano giacere anche per tempi lunghi, in attesa d’essere stoccate e vendute. Una serie di accorgimenti tecnici, come per esempio l’adozione di pavimenti rialzati per proteggere la merce da umidità e parassiti, ne evitava il deterioramento. Quando
Il latte veniva perlopiú trasformato in formaggio, per la cui produzione si prediligevano quelli di pecora o di capra | L’IMPERO DEL GUSTO | 31 |
ECONOMIA
poi venivano acquistate, finivano nei depositi delle botteghe o delle grandi domus, dove liquidi e granaglie erano spesso conservati in giare interrate. Alcuni palazzi signorili e alcune ville di campagna erano dotati, nelle cantine o in gallerie sotterranee, di vani in cui si conservavano cumuli di neve imballata in paglia e lana: questa neve tuttavia non serviva a mantenere congelate altre derrate, ma era utilizzata di tanto in tanto, soprattutto in estate, per refrigerare le bevande.
Vendita e circolazione La distribuzione commerciale si basava sulla vendita al dettaglio, parte della quale era convogliata all’interno di spazi e occasioni specifiche. Nelle cittadine piú grandi sorgevano infatti piazzali appositamente destinati a ospitare i mercati permanenti: fora e macella, talvolta specializzati in tipologie di merci particolari (il pesce, le verdure, la carne). Si trattava spesso di grandi complessi, riccamente monumentalizzati, con edifici in muratura. In alcuni casi le botteghe erano dotate addirittura di banconi in pietra dura, facili
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A sinistra affresco con scena di carico della nave Isis Geminiana, dalla necropoli della via Laurentina. Prima metà del III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto, in basso Pozzuoli, Rione Terra. Uno scorcio delle strutture dell’antica Puteoli, rinvenute sotto la città moderna e comprendenti magazzini per lo stoccaggio delle derrate alimentari, botteghe e tabernae.
da pulire. Questi mercati erano solitamente costruiti e restaurati a spese dei membri delle ricche famiglie dell’aristocrazia locale, che commemoravano su iscrizioni grandiose la propria munificenza. Molte di queste epigrafi sono sopravvissute. Per esempio, a Mursa, nella Pannonia Inferior, un’iscrizione ricordava che «Caio Emilio Homullo, figlio di Caio, della tribú Sergia, decurione della colonia Mursia, in ringraziamento dell’onorificenza del flaminato a proprie spese eresse un doppio porticato con 50 botteghe nel quale svolgere il mercato». Una munificenza simile era quella ricordata a Cagli, in Umbria: «Lucio Fuficio Manilio, figlio di Lucio, quattuorviro […], ha pavimentato la strada e la piazza del mercato provvedendo da solo alle spese dell’operazione e al trasporto del materiale». Invece a Tuficum, nei pressi di Fabriano, un’epigrafe celebrava «Caio Cesio Silvestre figlio di Caio della tribú ufentina, centurione veterano» il quale «a sue spese eresse su suolo privato un edificio per il controllo dei pesi e vi trasportò […] anche la bilancia e i pesi che già in precedenza erano stati comprati dalla comunità, per i quali
Una complessa operazione finanziaria
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lcune delle tavolette cerate che costituiscono il cosiddetto «archivio dei Sulpici», rinvenuto a Pompei sessant’anni fa, ricordano una complessa operazione finanziaria architettata da Caio Novio Euno, un grossista di grano alessandrino, liberto di Novio Cypero, il gestore dei «magazzini Bassiani» di Pozzuoli. Questo Novio Euno ha contratto un debito con Tiberio Giulio Eveno, liberto imperiale: in cambio dei soldi liquidi, gli ha offerto in garanzia il carico di grano appena arrivato da Alessandria e i legumi (probabilmente ceci e lenticchie di produzione campana) ammucchiati nei magazzini del suo patrono. Per avere sotto controllo la merce avuta in garanzia, si decide che i locali in cui essa è ammonticchiata vengano affittati (a una cifra irrisoria, simbolica, giusto per evitare accuse di illegalità) al creditore, cioè Giulio Eveno (che non partecipa all’operazione direttamente, ma tramite uno schiavo): «Sotto il consolato di Caio Cesare Germanico Augusto e Tiberio Claudio Nerone
Germanico, il sesto giorno precedente le none di luglio [2 luglio del 37 d.C.], io Diogneto, schiavo di Caio Novio Cypero, per ordine del mio padrone Cypero ho ratificato che al mio personale cospetto è stato affittato a Hesico, schiavo di Tiberio Giulio Eveno liberto di Augusto, il dodicesimo box dei magazzini pubblici Bassiani di Pozzuoli, al piano di mezzo, in cui è stato riposto il frumento proveniente da Alessandria che proprio oggi è stato accettato in garanzia per un prestito contratto da Caio Novio Euno, e anche lo spazio fra le colonne del portico del livello inferiore dove sono stati riposti i duecento sacchi di legumi presi in garanzia per lo stesso prestito contratto da Euno. A partire dalle calende di luglio l’affitto mensile del box sarà di un sesterzio. [seguono i sigilli con accanto le «firme» dei contraenti]: Caio Novio Cypero; Aulo Mevio Giulio figlio di Aulo della tribú Falerna; Diogneto schiavo di Caio Novio Cypero; Caio Novio liberto di Cypero; Ireneo schiavo di Caio Giulio Senecione; Diogneto schiavo di Caio Novio Cypero».
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ECONOMIA
Contenitori parlanti
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dagiate sul fondale dei nostri mari, soprattutto in prossimità della costa, decine di relitti di navi romane custodiscono una documentazione eccezionale, che ormai, grazie agli sviluppi dell’archeologia subacquea, siamo in grado di analizzare in dettaglio. E le informazioni che se ne ricavano non riguardano solo la tecnologia nautica. Molto spesso infatti, in particolare quando si tratta di navi onerarie, cioè quelle destinate al trasporto di beni commerciali, questi relitti conservano, piú o meno integro, il loro carico di anfore, talvolta persino con parte del contenuto intatto o almeno identificabile. Capita cosí di rinvenire tracce di liquidi o
In alto Ostia. Particolare di un mosaico del Piazzale delle Corporazioni raffigurante il trasbordo del carico da una nave marittima a un’imbarcazione che da Ostia avrebbe risalito il Tevere fino a Roma.
semiliquidi: principalmente vino, olio, garum (salsa a base di pesce, n.d.r.). Ma anche frammenti di cibarie solide, olive, frutta secca, granaglie, conserve, pesce in salamoia. Dalla tipologia delle anfore (classificate proprio in base alla loro forma) deduciamo spesso il loro contenuto. Le olearie, per esempio, erano piú panciute delle vinarie, al contrario delle quali non erano impeciate: tendenzialmente, però, non si riutilizzavano, tanto che, dopo il travaso del contenuto, nei magazzini portuali venivano fatte a pezzi per essere smaltite nelle discariche o riutilizzate nell’edilizia. Resistenti e discretamente maneggevoli, le anfore erano uno dei contenitori privilegiati per il
Silvestre volle pagare l’equivalente del prezzo d’acquisto; e trasportò nello stesso edificio anche le misure di capacità dei liquidi anteriormente erette da Cesio Prisco». La vendita dei prodotti alimentari non era limitata ai mercati stabili; sparse lungo le strade principali delle città c’erano anche botteghe di verdurai, macellai, panettieri e di ogni altro genere di cibarie. Alcuni rilievi ci restituiscono l’aspetto dei banconi su cui i negozianti esponevano la merce e altre rappresentano suggestive scene di vendita e acquisto. Grazie alle epigrafi, poi, siamo in grado di identificare diverse tipologie di commercianti alimentari e, a volte, anche di valutarne il livello sociale. A gestire questi negozi non di rado erano donne, come per esempio una certa «Aurelia Nais
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liberta di Caio, pescivendola dei magazzini di Galba». Si tratta di individui, e a volte di nuclei familiari, di cui ovviamente la grande storia non ha lasciato traccia ma di cui sopravvivono suggestive lapidi funerarie. Come nel caso di «Caio Giulio Epafra, fruttivendolo della zona del Circo Massimo» o di «Marco Aurelio Eureto, venditore di polli, marito amatissimo, padre amatissimo, devotissimo, meritevole, che visse 68 anni e 8 mesi» ricordato dalla moglie Settimia Felicissima e dai tre figli. Ogni otto giorni ricorreva il giorno di mercato vero e proprio, con la massima affluenza di acquirenti e venditori ambulanti. Conosciamo alcune delle sequenze con cui questi mercati si succedevano nel circondario. Sappiamo, per esempio, che nel I secolo d.C. in Campania,
In alto, a sinistra anfore custodite nei depositi dell’Antiquarium di Pompei. Nella pagina accanto, in basso calco di un rilievo raffigurante un plaustrum, un carro a trazione animale per il trasporto agricolo. Roma, Museo della Civiltà Romana.
trasporto navale, se non il preferito. Se ne riuscivano infatti a stivare sul fondo della nave, incastrandole in piú piani sovrapposti, a centinaia e in alcuni casi a migliaia, accatastando le piú voluminose al centro dello scafo e riempiendo gli interstizi con altra merce piú piccola (per esempio ceramica da mensa). Sulla superficie delle anfore, in genere sigillate con argilla o chiuse con tappi di sughero, vi erano molto spesso scritte, pitturate con l’inchiostro o impresse con un marchio. Non sempre il loro significato è chiaro: capiamo però che si trattava di indicazioni relative all’officina di produzione dell’anfora stessa, e talvolta anche al contenuto, spesso proveniente dalla medesima azienda agricola. Non rappresentavano dunque un’«etichetta» destinata al consumatore, ma una sorta di documento di trasporto, a uso dei magazzinieri. «– 85,5 libbre [peso dell’anfora vuota] – [Spedizione a cura] di Lucio Antonio Epafrodita [verosimilmente il mercante d’olio responsabile del trasporto navale] – 195,5 libbre [il peso dell’olio contenuto, cioè una settantina di litri] – Primo ha ricevuto questo prodotto, proprietà di Elia Eliana, proveniente dall’azienda di Cariziano – 57,5 [? non si capisce riguardo a cosa] – Aniceto lo ha pesato: 195,5 libbre» recitano per esempio le scritte affastellate su un’anfora olearia recuperata da uno dei relitti di Saint Gervais, alla foce del Rodano, risalente alla metà del II secolo d.C.
dopo esser stato tenuto a Capua, il mercato si spostava a Pompei, quindi a Nocera; il giorno successivo ad Atella e il seguente a Nola, poi Cuma e Pozzuoli. L’ultima località che chiudeva il ciclo era Roma. Non si deve del resto dimenticare che solo il surplus della produzione era destinato alla commercializzazione: non soltanto i piccoli contadini, ma anche i grandi proprietari (che in alcuni casi dovevano sfamare decine di migliaia di schiavi sparsi nelle varie tenute e in differenti città) destinavano infatti parte della loro produzione al consumo interno, spostando le merci prodotte nelle loro diverse proprietà senza passare per i circuiti commerciali. Infine occorre ricordare che un certo ruolo nella circolazione dei beni alimentari avveniva sotto forma di dono nel quadro dei rapporti clientelari. Soprattutto nelle grandi città, il patrono si preoccupava di fornire ai suoi assistiti una sportula, a volte un vero e proprio panierino di cibarie, in alcuni casi persino quotidiana; e da parte sua, fra i modesti omaggi offertigli dai clienti, poteva ricevere, come immaginato con ironia da Marziale, mezzo moggio di farro e di fave macinate, una salsiccia di Lucania, un’anfora di mosto cotto, una gelatina di fichi, del formaggio o un cestello di olive.
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Tutti i modi del mangiare DAL FRUGALE PASTO DEI POVERI, FATTO DI PANE, VINO E… RAFANO, PASSANDO PER GLI SPUNTINI DI SEMI E GRANAGLIE ABBRUSTOLITE, PER ARRIVARE ALLE CENE SOCIALI E AI FASTOSI CONVITI DEI PIÚ RICCHI: ANCHE I ROMANI, SEBBENE NON DOVETTERO PATIRE LA FAME E SI NUTRISSERO TUTTI I GIORNI, NON LO FACEVANO SEMPRE ALLA STESSA MANIERA… Affresco con scena di banchetto, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. L’uomo, sdraiato sul letto tricliniare beve vino da un corno potorio, mentre accanto a lui siede una donna – probabilmente un’etera, cioè una cortigiana d’alto rango –, che indica, forse al compagno, lo scrigno portato da una serva. Davanti al letto, su un tavolino a tre piedi, è rappresentato il servizio d’argento e vetro destinato alle libagioni, composto da sciphus, cantharus, kalathus, colum e simpulum, cioè da tre tipi diversi di coppa per bere, da un colino per correggere il vino e da un mestolo per versarlo.
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elle città romane, la popolazione era genericamente abituata a consumare tre pasti al giorno. Al mattino, un paio d’ore dopo il risveglio, si faceva una leggera colazione (lo ientaculum) a base di pane, formaggio, o frutta secca; per i bambini erano previsti anche biscotti dolci. Poi, a metà giornata, seguiva un rapido pranzo (prandium), ridotto spesso a uno spuntino in cui, ciascuno per conto suo, magari in piedi e senza neppure apparecchiare la tavola, mangiava perlopiú un cibo freddo, o magari gli avanzi della sera precedente. Chiudeva la cena (cena), il pasto principale, normalmente consumato dopo il bagno, al termine delle attività lavorative, mettendosi a tavola piú o meno tre ore prima del tramonto (bisogna ricordare che si trattava di persone alzatesi all’alba e fino a quel momento quasi digiune). La scuola prevedeva una sosta all’ora del pranzo per consentire ai ragazzi di tornare a casa a mangiare; e, d’estate, chi poteva, faceva in genere seguire al pranzo una «pennichella». Questa era la norma: a cui non tutti ovviamente si attenevano in maniera rigida. A molti capitava infatti di saltare uno dei due primi pasti della giornata. E molti erano semplicemente sregolati nella loro dieta. Era il caso, per esempio, dell’imperatore Augusto, come ci
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rivela il suo biografo Svetonio: «Mangiava anche prima di cena, in ogni momento e in qualsiasi luogo, come esigeva il suo stomaco. (...). Questo appetito capriccioso lo obbligò talvolta a mangiare da solo, sia prima, sia dopo un banchetto, mentre poi durante il pasto regolare non toccava cibo».
Sgranocchiare per rilassarsi A questo proposito, si deve segnalare che anche allora, nonostante l’assenza di patatine, pop-corn, noccioline, liquirizie e la mancanza della asfissiante induzione al consumo da parte
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della pubblicità caratteristica dei nostri tempi, erano diffusi cibi destinati a essere mangiati non tanto per fame quanto per svago, o per scaricare la tensione, in situazioni di inattività: soprattutto semi e granaglie abbrustolite. Il pasto serale comunque non si saltava mai, anche perché costituiva uno dei principali momenti di incontro fra le persone. Era infatti piuttosto frequente che attorno alla mensa si riunissero non solo i familiari, ma anche amici o persino semplici conoscenti del padrone di casa, o addirittura persone che gli erano appena state presentate. Il piacere di
In basso ricostruzione di una scena di vita quotidiana ambientata nella Casa dei Ceii, a Pompei: una donna lavora nella cucina, provvista di fornelli e braciere, mentre un bambino sale al piano superiore della dimora.
La ricostruzione di una tipica cucina romana realizzata nel Museum of London, nella sezione dedicata all’antica Londinium (l’odierna Londra).
conversare si mescolava allora a quello di mangiare. Non sappiamo se la convivialità romana fosse contraddistinta da quella «lentezza» nel proporre e offrire le porzioni, nell’accettarle, nel masticare, che caratterizza l’alimentazione tradizionale del nostro Mezzogiorno: a ogni modo, se ci si attardava a tavola fino al buio era per brindare e chiacchierare, a pasto finito. Le fonti registrano raramente la presenza di donne attorno alla mensa, accanto agli altri ospiti maschi; ma si tratta di un quadro deformato dall’ideologia, soprattutto per quel che riguarda la quotidianità e gli ambienti meno elevati della società. La cena era costituita da un antipasto (gustatio) seguito dai piatti forti e poi dal dessert (secundae mensae); e di solito non corrispondeva affatto a quel banchetto colossale che ci immaginiamo sulla scorta delle raffigurazioni satiriche degli antichi e quelle cinematografiche dei moderni. I meno abbienti si dovevano accontentare di un menú modesto. «La cena del povero: pane, vino, rafano» è l’iscrizione che campeggia su una lucerna trovata ad Aquileia, su cui sono raffigurati un ortaggio, una pagnotta tonda e una brocca di vino dentro una cesta. Tuttavia, nelle occasioni importanti, la cena poteva trasformarsi in vero e proprio banchetto, con portate numerose e ricercate. Per non scadere nel caos e nella volgarità, comunque, il numero degli invitati non doveva diventare esagerato: «Sette convitati, una cena; nove,
una baraonda» recitava un proverbio. Marco Varrone, forse il piú erudito fra i senatori vissuti nella turbolenta età delle guerre civili, aveva teorizzato in un suo scritto che «gli invitati, quando sono pochissimi, devono essere non meno di tre, e, quando sono molti, non piú di nove». In queste circostanze le élite cittadine romane cercavano spesso di riprodurre le atmosfere edonistiche del simposio classico. Perciò chi organizzava queste cene piú impegnative si preoccupava generalmente di allietarle con diverse forme di intrattenimento, alcune di natura piú intellettuale, come letture ad alta voce, esecuzioni musicali, discussioni; altre piú ludiche, come esibizioni di giocolieri e buffoni; o altre ancora di natura assai piú licenziosa. Difficilmente, comunque, si potevano accontentare tutti gli ospiti: per alcuni di loro (tra cui molti degli scrittori che lamentandosene ci hanno descritto queste scene) tali intrattenimenti si traducevano infatti in momenti di noia, imbarazzo, fastidio.
Una vera e propria ritualità Se tutti i giorni bisogna mangiare, non si mangia sempre allo stesso modo. Anche nel mondo romano esistevano infatti occasioni, periodiche o episodiche, in cui il pasto assumeva un aspetto particolare, una vera e propria ritualità. Questi pasti speciali venivano celebrati soprattutto per festeggiare le ricorrenze del calendario: compleanni, feste
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religiose, oppure i grandi eventi della vita privata, come il matrimonio. In molte di queste occasioni si confezionavano anche pietanze caratteristiche, destinate esclusivamente a quella circostanza: era il caso, per esempio, dei «datteri dorati», che, almeno al tempo di Marziale, cioè nella seconda metà del I secolo d.C., la povera gente offriva in dono a Capodanno. Per la verità, nelle città dell’impero per molte persone le cerimonie religiose pubbliche costituivano di per sé una circostanza speciale dal punto di vista alimentare, giacché di solito la carne delle bestie immolate nei sacrifici sugli altari veniva poi, almeno in parte, distribuita fra coloro che avevano assistito alla funzione; ma, a parte questo, esistevano comunque festività tradizionalmente celebrate con mangiate atipiche. Tra le ricorrenze piú di frequente festeggiate con veri e propri banchetti, vi erano poi quelle legate all’associazionismo. Una parte consistente della popolazione urbana
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Rilievo raffigurante una famiglia che consuma un banchetto funerario organizzato per la morte di un proprio congiunto, da Erdek. III-I sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico. Nella pagina accanto affresco pompeiano con scena di banchetto. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
dell’impero era infatti iscritta in associazioni (chiamate collegia o sodalicia) di varia natura. Quale che ne fosse il carattere (professionale, cultuale o altro), le attività principali di queste associazioni, almeno nella prima età imperiale, consistevano in molti casi proprio nell’organizzazione di momenti aggregativi, perlopiú riunioni e pasti collettivi in cui l’aspetto ricreativo si fondeva con quello cultuale.
Cene sociali per le ricorrenze importanti Questi banchetti si celebravano generalmente nelle date delle feste dedicate alle divinità protettrici dei collegia stessi, oppure nei giorni in cui si commemoravano i compleanni o la morte dei patroni delle associazioni medesime. Un’idea della cura con cui questi cenoni ufficiali venivano preparati la fornisce, per esempio, un regolamento associativo risalente al 133 d.C., rinvenuto iscritto su una lastra di marmo nei pressi di Lavinio, non lontano da Roma: vi si stabiliva il calendario delle cene sociali
Vino con pepe e miele, oppure cotto?
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o scenario quotidiano del pasto serale doveva generalmente mantenersi entro toni semplici e modesti, come quelli che emergono dal dialogo riportato in un «manuale di conversazione», risalente al III-IV secolo d.C. e utilizzato dagli scolari che studiavano il latino per memorizzare vocaboli ed espressioni. Proprio la mancanza di dimensione letteraria conferisce a questo documento una freschezza e un’immediatezza uniche: «Portate qui le sedie con braccioli, gli sgabelli, la panca, il sedile a due piazze, i cuscini» dice il padrone di casa alla servitú; e quindi, rivolto al protagonista: «Siediti». Poi continua, rivolto alternativamente a uno schiavo e ai suoi
ospiti: «Perché stai fermo? Lava il calice con l’acqua calda. Riscaldala, che hai tantissima sete. Versa a tutti. Cosa volete? Vino con pepe e miele o vino cotto? A lui versagli quello. Tu che vuoi? Lava il calice. A me versalo caldo, non bollente né tiepido, ma alla giusta temperatura e dammene poco. Metti l’acqua; aggiungi vino puro»; quindi, di nuovo rivolto ai commensali: «Perché stai in piedi? Sedetevi. Se volete, ci sdraiamo a tavola». «Dove desideri?» gli chiede un ospite. «Sdraiati al primo posto» risponde lui. E poi ancora: «Uno di voi spezzi il pane e lo ponga nel canestro. Offrine in giro seguendo l’ordine. Mettetevi sotto i denti le fette. Cenate».
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(8 marzo, 13 e 20 agosto, 27 novembre, 14 dicembre e il 6 di un mese che non si riesce a leggere), l’ordine gerarchico in base a cui assegnare i posti, il menú (un’anfora di vino, pane e sardine), nonché le multe per chi avesse cambiato di posto senza permesso, per chi avesse fatto schiamazzo eccessivo e per il presidente dell’associazione che non avesse adempiuto a questi incarichi. Infine, la vita privata offriva a tutti occasioni di festeggiamento: per i compleanni (e non solo dei bambini) si preparavano feste, invitando amici intimi e parenti. L’indagine archeologica ci ha restituito a riguardo documenti di una freschezza impressionante, come una lettera indirizzata alla sorella dalla moglie di un ufficiale romano di stanza a Vindolanda in Britannia;
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oppure i biglietti di invito ai festeggiamenti conservati nelle sabbie di Ossirinco, in Egitto: «Eudemone ti invita a mangiare nel ginnasio in occasione dell’incoronamento di suo figlio Nilo, il giorno I, a partire dall’ora ottava» recita, per esempio, un piccolo papiro risalente all’inizio del III secolo d.C. Di prassi si mangiava abbondantemente anche in occasione delle feste nuziali, mentre il banchetto che generalmente si celebrava per commemorare la morte era di solito uno spuntino frugale, piú simbolico che altro. Un pasto funebre veniva consumato nei pressi della tomba il giorno stesso del funerale, poi amici e parenti tornavano a mangiare sul sepolcro dopo nove giorni, per chiudere il lutto, e in seguito capitava che vi si recassero nella data del compleanno
del defunto oppure in occasione delle feste dei Parentalia e dei Lemuria, destinate proprio alla commemorazione dei morti. Il pasto funebre si consumava normalmente accanto alla tomba; ma in alcuni casi al fianco della sepoltura venivano appositamente costruiti triclini, cucine e pozzi. Anche se le abitudini variavano ovviamente a seconda delle località e degli ambienti sociali, questo tipo di usanze funebri erano piuttosto diffuse e andarono declinando solo in seguito all’avvento del cristianesimo.
Cucine, dispense e sale da pranzo La cottura degli alimenti nelle cucine romane avveniva in uno scenario radicalmente diverso da quello delle epoche successive: nell’antichità, infatti, non soltanto mancava,
com’è ovvio, la possibilità di alimentare forni e fornelli con il gas, ma era assente anche il camino, che avrebbe fatto la sua comparsa all’interno delle case solo nel corso del Medioevo. Per cucinare, nelle città romane si utilizzavano invece bracieri e focolari, di varia forma. Una tipologia di cucina che conosciamo bene, grazie alla sua larga diffusione a Pompei, Ercolano e in altri centri campani indagati archeologicamente, prevedeva un focolare costituito da un podio in muratura: il piano di cottura, rivestito da piastrelle di terracotta, veniva coperto di brace e cenere, e su di esso venivano poggiati i fornelli (le griglie). La legna per fare la brace era conservata in una nicchia alla base del podio. Al lato (ma solo nelle cucine piú importanti) erano collocati il forno, Particolare dell’affresco della cosiddetta «sala del giardino», dalla Villa di Livia a Prima Porta. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Si riconoscono alberi da frutta e uccelli di varie specie.
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generalmente piuttosto grosso, e il lavandino, foderato di cocciopesto e dotato di tubo di scarico. Assai diffusi erano anche i bollitori per l’acqua calda, da usare anche per miscelare il vino; ne esistevano di molto eleganti. In ogni cucina erano inoltre presenti gli strumenti per attizzare il fuoco e ravvivare la brace. Nelle città piú densamente affollate, dove le abitazioni piú comuni consistevano in grandi edifici condominiali a 5 o 6 piani, la parte piú numerosa dei residenti per la verità viveva in appartamenti piccoli, privi non solo di una «sala da pranzo», ma persino di un vano separato destinato a cucina: le famiglie di inquilini si dovevano eventualmente alternare nell’uso di «angoli-cottura», perlopiú collocati nei sottoscala e nei cortili interni, dove potevano essere anche installati forni condominiali. Chi voleva cucinare direttamente nel proprio appartamento lo faceva ricorrendo di solito a bracieri mobili sistemati vicino alle finestre, o a piccoli fornelli portatili: tuttavia, il ristagno del fumo nell’aria (data l’assenza di cappe e canne fumarie) e, soprattutto, il rischio di provocare incendi in edifici ricchi di travature in legno sconsigliavano tale pratica.
A ciascuno il suo corredo Il vasellame da tavola poteva essere conservato in credenze e cassapanche sistemate in qualsiasi luogo della casa: nel corso degli scavi se ne ritrovano frammenti in ogni ambiente. Naturalmente c’erano differenze di qualità: le famiglie modeste si accontentavano di piatti e bicchieri in legno o terracotta, mentre nelle abitazioni piú ricche facevano sfoggio corredi raffinatissimi, posate d’argento, calici di vetro. Le dispense costituivano un punto chiave delle abitazioni, tanto che a esse (in latino penus) rimontava il culto dei Penati, le «divinità» domestiche. Disposti su mensole o dentro armadi, gli alimenti erano conservati in cestini, sacchi, vasetti, barattoli e scatolette: a Ercolano, nella Casa di Argo, è stata rinvenuta una cassetta di legno, con decorazioni e serratura di ferro,
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piena di farina, e alcuni pezzi di impasto per il pane avvolti ancora in un telo per fermentare. Corone d’aglio venivano appese all’aperto. Le abitazioni piú grandi avevano cantine con carne appesa ai ganci e filari di anfore piene di vino, olio o garum. Talvolta, negli scantinati gli ambienti piú freschi erano riservati alla conservazione della neve, avvolta in paglia. Al lavoro comune di cucina sembra fossero destinate generalmente le donne, anche se il «far da mangiare» non veniva considerata un’attività esclusivamente o classicamente femminile. Come oggi, inoltre, i cuochi di professione erano perlopiú maschi: ma si trattava generalmente di schiavi specializzati e non di liberi professionisti. Alcuni erano famosi e ricercati e i padroni se li potevano «prestare» per occasioni particolari. Nelle cucine piú altolocate circolavano anche assaggiatori.
Letti a tre posti Nelle case signorili, stuoli di servi si dedicavano non solo alla preparazione dei pasti, ma anche al servizio a tavola e alla pulizia delle stoviglie, della cucina e della stanza in cui si mangiava. Nelle domus, al consumo della cena erano riservate delle camere da pranzo, i triclini. Si trattava di ambienti in cui attorno a una tavola centrale, venivano disposti tre lunghi «letti», su ciascuno dei quali potevano adagiarsi tre persone (per un totale di nove). Nelle zone dove il clima consentiva di cenare all’aperto per un periodo consistente dell’anno (come per esempio a Pompei), le domus contenevano triclini all’aperto, in muratura, affiancati da pergolati e fontane e illuminati da grandi lampadari. In alcune ville extraurbane alcuni ricchi si facevano costruire triclini nelle grotte, o su isolotti artificiali in mezzo a un bacino d’acqua. Negli appartamenti in affitto e nei monolocali ci si sdraiava invece attorno a un tavolino (magari mobile), in una stanza che tuttavia, in altri orari, veniva adibita ad altre funzioni (per esempio a camera da letto). Per quanti non disponevano di piani-cottura o bracieri a casa – e in città dovevano essere in molti –, rimaneva la possibilità di acquistare cibi
Nella pagina accanto particolare del grandioso mosaico policromo del Nilo raffigurante un banchetto allestito sotto una pergola, dall’aula absidata del Foro dell’antica Praeneste. L’opera propone una veduta del paesaggio egiziano durante l’inondazione del Nilo e fu realizzata da artisti alessandrini alla fine del II sec. a.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
La scampagnata per Anna Perenna
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n caso emblematico di rinfresco ritualizzato è la scampagnata fuori porta con cui (almeno in età augustea) parte della popolazione di Roma festeggiava il 15 marzo la festa di Anna Perenna, una antica divinità locale, consumando un vero e proprio pic-nic sui prati ai bordi del Tevere (grosso modo nell’area in cui oggi sorge l’Auditorium). Ecco la descrizione che ce ne ha lasciato Ovidio: «Arriva la gente e si sistema qua e là sul verde dell’erba: bevono e si stendono tutti con la propria compagna. Molti stanno all’aperto, qualcuno pianta una tenda, altri si sono fatti una casa di rami e di fronde; altri ancora piantano nel terreno delle canne, quasi fossero solide colonne, e le coprono stendendovi sopra le toghe. Si riscaldano però al sole e con il vino, si augurano di vivere tanti anni quante sono le coppe che bevono, e bevendo li contano. Puoi trovare là uomini che si sono bevuti piú anni di Nestore e donne che per numero di coppe uguagliano l’età della Sibilla. Cantano là ciò che hanno ascoltato a teatro e accompagnano il canto battendo il tempo con le mani. Poi, appoggiati i calici a terra, si lanciano in danze sgraziate e l’amica del cuore balla tutta agghindata con i capelli sciolti. Al ritorno barcollano, dando spettacolo alla gente, e chi se li trova davanti li chiama “felici”».
cotti nelle taverne o dai venditori ambulanti; oppure di andare a cucinare sui fornelli che venivano dati in affitto in alcune locande.
Osterie, bar e locande Nonostante qualche apparente somiglianza con la nostra abitudine di andare a «mangiare fuori», tra gli abitanti delle città antiche, in particolare fra i membri delle élite, una consuetudine di questo genere non si radicò mai. Agli occhi degli individui di un certo rango, quelle che noi definiamo taverne od osterie risultavano infatti locali troppo volgari, sporchi, rumorosi, pieni di fumo (dei fornelli, s’intende!) e di gente poco raccomandabile. Piuttosto, per incontrare gente, per rilassarsi e chiacchierare, oppure parlare di affari o di politica, si preferiva organizzare un banchetto a casa propria. Del resto, per assistere alla diffusione di quei locali che per pulizia, ricercatezza dell’ambiente e raffinatezza dei cibi si possono definire «ristoranti», si dovrà aspettare la fine del Settecento. «Mangiava fuori» soprattutto chi non aveva la
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«Qui si beve per 1 asse»
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volte, fuori dalle taverne, accanto all’insegna, erano raffigurate alcune delle specialità della casa; all’entrata dell’osteria di Pherusa, a Pompei, accanto a vari tipi di frutta e carne, figuravano granchi, dentici, triglie e altri piccoli pesci. Altrimenti potevano esserci vere e proprie vetrine, con esposte le pietanze
Ricostruzione di una scena di vita quotidiana a Pompei, con un’ostessa che versa bevande nei dolia incassati nel bancone del suo thermopolium.
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in offerta; oppure iscrizioni pubblicitarie, come quella che invitava a entrare in una osteria ad Antibes: «Viaggiatore, ascolta. Se ti va, entra: c’è una tabella di bronzo che ti illustra tutti i prezzi». Listini con i costi di pietanze e bevande venivano spesso appesi alle pareti. L’ostessa Hedone ha graffito il suo sul muro: «Qui si beve per 1
asse. Con 2 si beve meglio. Con 4 si beve del Falerno». Come accade ancora oggi ad alcuni pub o ad alcuni bar, queste locande, che conosciamo bene soprattutto dagli scavi di Pompei, rappresentavano il luogo abituale di ritrovo serale, o talvolta notturno, di comitive di giovinastri e «vitelloni». È il caso, per esempio, dei «Tutti-e-
possibilità di fare altrimenti: cioè in primo luogo quei viaggiatori che non potevano contare sull’ospitalità di qualche conoscente. Per costoro esistevano veri e propri alberghetti sia nei centri abitati – raggruppati perlopiú nei pressi delle porte d’accesso alle città –, sia in campagna, lungo le principali arterie stradali: in questi edifici, accanto alle stanzette per l’alloggio, al cortile per il parcheggio dei carri e alle stalle per le bestie, la taverna non mancava mai. Si trattava generalmente di ostelli dalla reputazione un po’ equivoca, in cui quasi sempre si esercitava anche la prostituzione e dove non si era affatto al sicuro da furti.
Descrizioni caricaturali Tuttavia, le raffigurazioni che ce ne offrono le fonti letterarie devono essere considerate almeno in parte esagerate, caricaturali: non saranno certo mancate le pulci nei letti, o le risse tra gli avventori, ma di fatto questi alberghi costituivano le sistemazioni adottate nei loro spostamenti anche da uomini di buona estrazione sociale e culturale, individui del rango di Orazio, o di san Paolo. Gli avventori potevano comunque evitare di scendere a mangiare nella locanda in mezzo agli altri ospiti, ordinando il servizio in camera, oppure facendosi preparare il pasto in stanza da qualcuno della propria servitú. Inoltre esistevano, naturalmente, anche alberghi di qualità, destinati a un pubblico piú facoltoso, soprattutto nelle località «turistiche».
In basso Ostia. Il thermopolium della via della Casa di Diana. II-III sec. d.C. Il locale si compone di due ambienti: uno per il banco di mescita e per uno scaffale, rivestiti in marmo; l’altro era la cucina, dotata di un fornello in muratura. La pittura al centro rappresenta i beni offerti agli avventori, ossia cibo, bevande e musica.
venti» che bisbocciarono nella locanda di Euporo il 16 e il 22 gennaio di un anno sconosciuto. In particolare sappiamo di compagnie costituite dai fan di uomini di spettacolo: quelli dell’istrione Paride, per esempio, si riunivano nell’osteria di Purpurio, mentre quelli del gladiatore Crescente alla taverna di Pherusa.
L’altra categoria di persone che andava a «mangiare fuori» era costituita da quanti vivevano in abitazioni prive di ambienti destinabili a triclini. Per costoro, nel caso in cui fossero sorti la necessità o il desiderio di una cena piú impegnativa del solito, esisteva presso alcune locande la possibilità di affittare delle stanze con triclini (al chiuso o all’aperto, sotto pergolati), generalmente provvisti, a un angolo della stanza, di un cubo in muratura su cui poggiare le caraffe, le bottiglie, i mestoli: insomma tutta la suppellettile necessaria al banchetto. Era il servizio reclamizzato per esempio dall’iscrizione posta sul pilastro tra i due ingressi della locanda di Sittio, a Pompei: «Osteria: affittasi triclinio a tre letti dotato di
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ogni comfort». A volte, accanto al triclinio, vi era anche un piccolo piano-cottura a disposizione dei clienti: in questi casi l’oste poteva anche limitarsi ad affittare lo spazio e vendere il vino. L’affitto dei triclini all’interno delle taverne era praticato anche da quelle corporazioni che dovevano celebrare i loro cenoni, ma che erano sprovviste di locali propri da adibire a questo uso; come avvenne, per esempio, in una locanda della via di Nola, sempre a Pompei, dove i lavandai della città banchettarono sotto la guida di Lucio Quintilio Crescente, il quale, evidentemente mezzo ubriaco, ha poi lasciato graffiti nel portico della taverna stessa saluti all’oste, ai suoi colleghi, ai suoi concittadini e a tanta altra gente. Molte taverne (noi le chiamiamo popinae o thermopolia, ma è una denominazione incerta) somigliavano piuttosto agli odierni «bar»: il bancone per la mescita si affacciava infatti
direttamente sulla strada e c’è da immaginare che buona parte degli avventori consumassero le loro bevande o il loro pasto direttamente in piedi. Si servivano olive, legumi secchi e bicchieri di vino, caldo o freddo, a seconda della stagione. Nel bancone, in muratura o legno, spesso a gomito, erano incassati alcuni dolia (grandi contenitori in terracotta, simili a giare). Dietro, appesi al muro o magari penzolanti da una rastrelliera, salami e formaggi. Sul retro, oltre a un eventuale vano adibito a magazzino, i locali piú grandi avevano una o due salette interne arredate con tavoli, panche e sgabelli (in questi locali infatti si mangiava seduti).
Dall’azienda del padrone Gli osti, che generalmente erano i semplici affittuari del locale, spesso vi smerciavano prodotti (in particolare vino) provenienti da piantagioni di proprietà del padrone
I banchetti carnevaleschi dei Saturnali
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e festività legate per antonomasia alla «mangiata» possono essere considerate i Saturnali. In questa occasione alcune famiglie delle élite urbane organizzavano grandi banchetti, aprendo le porte di casa a convitati di una estrazione sociale assai inferiore alla loro, che certamente in altre circostanze non avrebbero frequentato quella mensa. In un rovesciamento di ruoli un po’ carnevalesco, ricchi e poveri mangiavano gomito a gomito e poteva persino capitare che i padroni servissero a tavola i loro servi. Tuttavia, nella realtà, a questo quadretto oleografico dovevano sovrapporsi spesso situazioni piú ruvide e squallide; situazioni da cui dovette trarre spunto Luciano, un autore satirico che poco dopo la metà del II secolo d.C. scrisse una gustosa operetta in cui immaginava che ricchi e poveri si rivolgessero a Saturno (la divinità cui queste feste erano dedicate) per rinfacciarsi vicendevolmente i
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comportamenti tenuti proprio in occasione dei cenoni consumati durante i Saturnali. I poveri, per esempio, sostenevano di non essere quasi mai invitati e, nel caso in cui lo fossero stati, di essere tenuti al margine e di subire un trattamento di second’ordine: «Come i compagni d’Ulisse – dicevano – i coppieri hanno le orecchie turate con la cera». Accuse alle quali i ricchi opponevano le proprie ragioni: «Non appena gli apriamo le porte, non finiscono di chiedere ora questa ora quella cosa: e se non la ricevono subito e alla prima parola, s’ingrugnano, si sdegnano, dicono un sacco di villanie; ma a tavola invece di pensare a riempirsi la pancia e satollarsi, divenuti brilli graffiavano la mano al coppiere nel restituirgli la tazza, o mettevano le mani sull’amica nostra o nostra moglie: e dopo aver vomitato in mezzo alla sala, il giorno appresso si lamentavano di noi, dicendo che erano morti di sete e di fame».
In basso, sulle due pagine Una festa romana, olio su tela di Roberto Bompiani (1821-1908). Fine del XIX sec. Los Angeles, J. Paul Getty Museum.
dell’immobile. Quasi tutte le locande si sviluppavano inoltre su un piano superiore, a cui si accedeva da una scaletta interna al locale. Qui generalmente dormivano i gestori del locale. Altrimenti, nelle stanzette interne o al piano superiore si praticava la prostituzione. In molti casi, infatti, questi locali offrivano una atmosfera per cosí dire a «luci rosse», a partire dai nomi stessi con cui si intitolavano, a seguire poi dalle raffigurazioni affrescate sulle mura o dalla forma delle lucerne e delle altre
suppellettili esposte sui banconi e alle pareti. A prostituirsi, per arrotondare il proprio guadagno, erano spesso le stesse donne che servivano ai tavoli. Su queste cameriere sono sopravvissuti a Pompei parecchi graffiti: alcune non dovevano accondiscendere facilmente alle pressioni dei clienti, altre costituivano la vera attrattiva del locale. Inoltre, in barba alle leggi che sostanzialmente lo vietavano, nelle locande si giocava d’azzardo e ciò costituiva senz’altro un motivo di richiamo non secondario.
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Le regole del gusto PERCHÉ ALCUNI CIBI ERANO PREFERITI AD ALTRI? COME ACCADE PER TUTTE LE SOCIETÀ UMANE, ANCHE I ROMANI OTTEMPERAVANO A «CODICI ALIMENTARI» DETTATI DA ISTANZE SIMBOLICHE. SENZA DARE TROPPO CREDITO, PERÒ, ALLE PROIBIZIONI DI TIPO RELIGIOSO, LE QUALI, SPECIE SE ALTRUI, VENIVANO APERTAMENTE «SBEFFEGGIATE»… Particolare di un mosaico policromo che ornava il pavimento di un triclinio in una villa sull’Aventino, a Roma. Età adrianea. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano. Il tema decorativo è quello dell’asarotos oikos, «pavimento non spazzato», sul quale sono disseminati resti di cibo, cosí come doveva accadere alla fine di un lussuoso banchetto: si riconoscono frutti, lische di pesci, ossa di pollo, molluschi, conchiglie.
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dispetto della definizione che lo vuole «onnivoro», la quantità di potenziali alimenti che ogni gruppo umano finisce per «snobbare» risulta davvero impressionante. Queste omissioni possono talvolta essere dettate da pura e semplice inesperienza: si potrebbe sostenere, per esempio, che i Romani tendenzialmente non si cibassero delle alghe commestibili in quanto ne ignoravano le potenzialità nutritive. Molto spesso, però, ci si trova dinnanzi a interdizioni di carattere squisitamente culturale: divieti e inibizioni che riflettono l’organizzazione economica, i valori, l’universo simbolico del mondo che li ha generati, ma tuttavia talmente radicati nella mentalità di chi li pratica da apparire «naturali». Allo stesso modo, i tabú che hanno resistito dall’antichità sino a oggi sembrano «ovvi» e «naturali» anche a noi, mentre, al contrario, quelli che sono stati infranti ci appaiono in tutta la loro arbitrarietà e «stranezza». Si potrebbero persino rovesciare i termini del problema e domandarsi in base a quali fattori venga di volta in volta accettata, ed eventualmente esaltata, dal singolo e dal gruppo, la commestibilità di un alimento. Gli elementi che concorrono a determinare la bontà e il successo di un cibo, infatti, sono fattori solo apparentemente oggettivi, sono invece accompagnati in larga misura da condizionamenti di tipo culturale e sociale. L’aspetto, la consistenza, il colore, e persino la modalità di cottura di un alimento possono risultare decisivi nel renderlo meno
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appetitoso: ma in tutti questi casi si tratta di un problema di percezione, quindi, in ultima analisi, di un problema culturale. Del resto, la stessa capacità di assaporare e definire un gusto, pur derivando dalla percezione del proprio olfatto e delle proprie papille gustative, in definitiva deriva, in larga parte, dalla tradizione gastronomica in cui si è cresciuti e in base alla quale ci si è abituati a riconoscere e giudicare i sapori. Un vino che al nostro palato risulterebbe «secco», per esempio, agli occhi di un antico romano sarebbe potuto apparire come «amaro». E il gusto, nei secoli, si trasforma. La dice lunga proprio il fatto che mentre per i singoli alimenti (per esempio farina di frumento, vino, olio d’oliva, carne di maiale, formaggi di pecora) si può riconoscere, almeno nella nostra Penisola, un successo senza soluzione di continuità dall’età romana ai giorni nostri, viceversa il modo di insaporire questi cibi rappresenta uno degli aspetti di piú marcata lontananza fra la nostra cucina e quella degli antichi.
Una storia difficile da ricostruire L’assenza di criteri universalmente accettati per valutare la gradevolezza di un alimento imbarazza gravemente e rende arduo ogni tentativo di ricostruzione della storia del gusto: infatti non risulta mai facile capire se siano stati gli alimenti percepiti come «buoni» a imporsi nella dieta, oppure se sia stata la convenienza «economica» del ricorso a uno specifico alimento a determinarne la «bontà» e, di conseguenza, il successo anche a livello simbolico e culturale. Di certo, ogni mutamento di gusto si accompagna (perché lo determina o perché ne è determinato) a evoluzioni piú generali di un sistema alimentare, con ripercussioni anche in altri campi della società e dell’economia. Cosí, per esempio, osservando l’evoluzione che fra il II e il I secolo a.C. ha indotto gli abitanti della città di Roma a diminuire drasticamente il consumo di farro (la cui farina risulta difficilmente panificabile) e a trasformarsi, nell’arco di due o tre generazioni,
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da «mangiatori di polenta» a «mangiatori di pane», si può tracciare un collegamento con altri punti di trasformazione della società: l’immissione sul mercato cittadino romano di grandi quantitativi di frumento provenienti come tributo dalla Sicilia, l’insediamento di decine di migliaia di persone di recentissimo inurbamento in unità abitative prive di cucina, la comparsa nel tessuto urbano di centinaia di panetterie (con annessa attrezzatura per la molitura del frumento). Una circolarità di relazioni difficili da ridurre a semplici e lineari rapporti di causa ed effetto.
In basso Pompei. Altare marmoreo nel cosiddetto «Tempio di Vespasiano», sul quale è scolpita la scena del sacrificio di un toro. I sec. d.C.
Affresco con i resti di un animale sacrificato, dalla Casa dei Cervi di Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
L’atteggiamento sospettoso che generalmente gli individui provano nei confronti degli alimenti sconosciuti, diversi da quelli consuetudinari, è stato definito il «paradosso dell’onnivoro». Una delle sue conseguenze è che i gruppi si identificano spesso nelle cose che mangiano e nel modo in cui le mangiano. Il fatto di cuocere gli alimenti, e di non mangiarli crudi,
costituisce, per esempio, uno degli elementi su cui tradizionalmente si costruisce la propria immagine di popoli civili in contrapposizione a quelli ritenuti selvatici. Questo accadeva anche nell’antichità; e infatti non è difficile rintracciare in alcuni autori la tendenza ad assegnare ai «barbari» (talvolta anche inventandole) abitudini alimentari «selvagge», contrapposte alle
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«Perché non mangiate la carne di maiale?»
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el 40 d.C. una piccola ambasceria di Ebrei di Alessandria d’Egitto viene ricevuta a Roma da Caligola. Si tratta di una questione delicata. L’imperatore deve esprimersi in merito ai linciaggi e ai saccheggi subíti dagli Ebrei due anni prima ad Alessandria, in un vero e proprio pogrom suscitato dalla componente greca della città. Infastidito dalla fermezza con cui, nel frattempo, a Gerusalemme i Giudei stanno ostacolando il suo progetto di deificazione, Caligola sta maturando, in cuor suo, un orientamento ostile agli Ebrei e non presta quindi grande attenzione alla loro delegazione. Cosí, nel corso dell’udienza, decide di recarsi col suo sèguito a visitare gli horti e le ville dell’Esquilino. Lo accompagnano, oltre ai molti egiziani ammessi nella sua corte (tendenzialmente giudeofobi), anche i membri della legazione greca di Alessandria, venuta a perorare i propri interessi e a screditare i conterranei ebraici, e per l’appunto l’ambasceria degli Ebrei alessandrini, il cui leader, Filone, avrebbe scritto anni dopo un resoconto della vicenda: «Mentre parlava cosí [Caligola] continuava a fare il sopralluogo alle ville, esaminando gli appartamenti degli uomini e delle donne, i
pianterreni, i piani superiori, tutto quanto, e criticava alcuni accessori trovandoli inadeguati, mentre per altri dava suggerimenti e disposizioni sul modo di rifinirli con maggiore lusso. Noi, intanto, trascinati dalla corrente, lo seguivamo su e giú, mentre i nostri avversari ci coprivano di beffe e di insulti proprio come nelle farse a teatro (…). Quando ebbe dato alcune disposizioni riguardo agli edifici, ci rivolse una domanda importantissima e solenne: “Perché non mangiate la carne di maiale?”. La domanda provocò un nuovo e violento scoppio di risa da parte dei nostri avversari, un po’ perché la cosa li divertiva davvero, un po’ perché da buoni adulatori seguivano la vecchia abitudine di sottolineare che la sua battuta era sottile e spiritosa. La risata fu cosí sonora che uno dei servi del seguito si sdegnò dello scarso rispetto dimostrato all’imperatore, alla cui presenza era pericoloso anche un sommesso sorriso per chi non gli fosse intimo amico. Noi rispondemmo: “Ognuno ha le proprie consuetudini e a noi è proibito l’uso di certe cose come ai nostri avversari è vietato quello di certe altre”. E qualcuno aggiunse: “Molti per esempio non mangiano la carne d’agnello, che è un tipo di carne assai comune”. Al che Caio [Caligola]
proprie. Pomponio Mela, uno studioso dell’età giulio-claudia, nel suo trattato di geografia, disegnò, per esempio, un quadro delle abitudini alimentari dei Germani veramente bestiale: «Nell’alimentazione – scriveva – i Germani sono cosí rozzi e incivili da cibarsi anche di carne cruda, o fresca, oppure, nel caso in cui
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ridendo disse: “E fanno bene, perché non è buona”. Canzonati e insultati in questa maniera, non sapevamo piú che fare». Pur carica di sarcasmo e venata di xenofobia, questa battuta denota la sostanziale indifferenza nei confronti delle pratiche alimentari dei sudditi dell’impero. Oltre al tabú della carne di maiale, diffuso non solo fra gli Ebrei, ma anche fra le altre genti semitiche, esistevano, del resto, tante altre interdizioni, magari non codificate formalmente, ma solo seguite nella prassi. I Romani stessi, per esempio, si astenevano dal mangiare la carne di cavallo.
essa si sia indurita ancora attaccata al corpo del bestiame o della selvaggina, dopo averla sfregata con mani e piedi per ammorbidirla». Anche la varietà della dieta era considerata sintomo di umanità. L’alimentazione concentrata su un solo alimento veniva stigmatizzata negativamente. Era il caso di
A sinistra particolare di un rilievo funerario raffigurante un macellaio al lavoro. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen. In basso rilievo con scena di sacrificio. Seconda metà del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.
quelle popolazioni che la fantasia etnografica antica, soprattutto greca, collocava ai confini del mondo: per esempio gli «ittiofagi», i mangiatori di pesce che si immaginavano stanziati lungo le coste del Golfo Persico.
I magnifici tre A identificare uno stile alimentare civile agli occhi d’un Romano di estrazione urbana, dall’età tardo-repubblicana fino a tutta l’età imperiale, concorreva invece la presenza di
alcuni particolari elementi, assunti dalla cultura gastronomica greca: il pane di frumento, l’olio d’oliva, il vino. Una triade la cui potenza simbolica permeava l’immaginario degli antichi. D’altronde, il paesaggio agricolo ben modellato, contrassegnato da uliveti, vigne e campi seminati ben delimitati, era percepito come l’espressione dell’ultimo stadio di una serie di tappe evolutive, scandite dal passaggio dalla semplice raccolta di frutti selvatici all’allevamento e poi dall’allevamento all’agricoltura. Al paradosso dell’onnivoro rimanda in certa misura anche l’elaborazione del modello della «frugalità» del buon tempo antico. Nella letteratura riscontriamo infatti un continuo, nostalgico richiamo a una perduta (e in buona parte immaginaria) età della sobrietà alimentare. Questo modello veniva proiettato nel passato della antica Roma repubblicana o su alcune popolazioni «barbariche», in particolare quelle germaniche, la cui alimentazione frugale a base di formaggio, latte e carne veniva esaltata come naturale. Ma si tratta di un modello artificiale, letterario. Si deve del resto ricordare che questa esaltazione di un’alimentazione austera non
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particolare ostriche, molluschi e pesci di grandi dimensioni (il caviale, nonostante la presenza nel Po dello storione, non era ancora diventato un alimento apprezzato) e naturalmente il vino di annate ricercate. Anche le spezie orientali, in primo luogo il pepe, e poi lo zenzero e la cannella, esercitavano un fascino notevole. Tutti cibi costosissimi che rappresentavano dunque un vero status symbol per chi se ne poteva permettere (e ostentare) il consumo.
La carne per gli dèi (e per gli uomini)
veniva quasi mai accompagnata da una condotta di vita coerente, ma rimaneva perlopiú una provocazione letteraria destinata alla fascia superiore della società, quella che poteva per l’appunto permettersi una cucina piú ricercata e lussuosa; non abbiamo viceversa elementi per immaginare quanto fascino potessero esercitare questi richiami alla frugalità sulla fantasia degli strati piú popolari delle città. Né è facile immaginare quali fossero i sogni alimentari piú diffusi, le pietanze cioè che rappresentavano la quintessenza della ghiottoneria. Possiamo comunque intuire che nella Roma imperiale suscitavano un appeal particolare le vivande provenienti dagli allevamenti marini, in
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Anfore e vasellame d’uso quotidiano di età romana. Tarragona, Museo Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto Conimbriga (Portogallo), Casa delle Fontane. Particolare di un mosaico pavimentale policromo raffigurante un cacciatore con una preda. I sec. d.C.
Il successo di alcuni alimenti si riflette anche nell’acquisizione di un valore simbolico. Non a caso, la triade mediterranea esaltata dalla romanità – pane, vino e olio – ha acquisito un ruolo cosí centrale nella ritualità cristiana. D’altra parte, la religione spesso contribuisce a tabuizzare alcuni alimenti. A Roma, però, salvo alcune interdizioni riservate a particolari categorie sacerdotali, la religiosità pagana pubblica influiva solo blandamente sull’alimentazione: non c’erano tempi di digiuno, o cibi dichiarati impuri. Tendenzialmente, soprattutto nell’età piú antica, si evitava di macellare il bestiame bovino direttamente a scopo alimentare: ma non era un divieto morale. Per la carne, in verità, uomini e dèi erano in sottile competizione. A parte l’olocausto, un tipo speciale di sacrificio in cui la vittima veniva bruciata completamente, quando un animale veniva immolato solo una parte (di solito le frattaglie) era infatti riservata agli dèi e arsa sugli altari. Il resto finiva in mano, o per meglio dire in bocca, agli uomini che officiavano il rito, tanto nelle funzioni domestiche, quanto nelle cerimonie pubbliche. Nei grandi complessi santuariali, accanto al sacello, sorgevano spesso cucine e impianti tricliniari destinati a celebrare banchetti a carattere sacro. I sacrifici procuravano carne a quintali, in largo eccesso rispetto all’appetito dei ministranti. La maggior parte della carne, in genere, dopo esser stata fatta a pezzi e magari anche cotta
L’alimentazione del buon selvaggio
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ella sua opera geografica, risalente all’età di Augusto, lo studioso greco Strabone descrive con dovizia di particolari le realtà provinciali di tutto l’impero, sia le città, sia le popolazioni rurali, descrivendone tra l’altro attività economiche e abitudini alimentari. Trattando della penisola iberica, dopo aver illustrato la ricchezza agricola e mineraria della Spagna meridionale, Strabone passa a descrivere alcune popolazioni della Lusitania, appena sottomesse, e che rifiutano di romanizzarsi. Si tratta di gente che pratica sacrifici umani, che dorme per terra, che si fa crescere i capelli lunghi. Nella loro alimentazione non ci sono grano, né vite, né ulivo, anzi non c’è proprio agricoltura: «I montanari si cibano perlopiú di carne caprina. (…) Vivono per due terzi dell’anno mangiando ghiande: dopo averle seccate e frantumate, le macinano per impastarle in pani, perché si conservino nel tempo. Bevono anche birra, scarseggiando il vino:
quel poco che fanno lo consumano tutto in banchetti tra consanguinei; invece dell’olio usano il burro. Mangiano seduti e per questo hanno sedili costruiti tutt’attorno alle pareti, sui quali si dispongono secondo l’età e il rango: il cibo viene passato tutto in cerchio». Tuttavia, secondo una schizofrenia tipica delle rappresentazioni etnografiche antiche, a questa loro bestialità si intreccia una sobrietà naturale che li rende ammirevoli: sono uomini che «vivono alla spartana», bevendo principalmente acqua e senza ingozzarsi. Nelle descrizioni etnografiche lasciate dagli scrittori antichi non è mai facile capire quanto derivi da informazioni dirette, quanto da pregiudizi, quanto da stereotipi letterari. Per questo, simili rappresentazioni ci restituiscono spesso piú informazioni su chi le offre che sulla realtà descritta. In particolare, la maniera ambivalente con cui vengono raffigurate le popolazioni barbariche, cioè sobrie ma selvagge, rispecchia il disagio con cui Greci e Romani percepivano la propria condizione di genti «civili».
dai macellatori dei santuari, veniva venduta alle macellerie private o ai singoli cittadini, o alle volte direttamente distribuita alla comunità per essere mangiata. Questo legame fra consumo di carne e sacrificio era in ogni caso profondamente radicato, soprattutto nell’area orientale dell’impero, dove la macellazione avveniva comunque secondo procedure di tipo rituale, sacrificale: piccoli pezzi, magari addirittura qualche pelo, dovevano infatti essere offerti alla divinità. Ma se le divinità pagane tradizionali si accontentavano in genere d’essere ben nutrite, ricevendo in offerta qualche prelibatezza (frutta, verdura e carne condite con salse, aromi e vino), altri
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culti, a cui pure aderivano masse d’individui d’ogni sesso e classe sociale, richiedevano talvolta l’osservanza di precise regole nutrizionali, come per esempio l’astinenza dal consumo di fave, o di carne. In alcuni casi precetti e divieti regolavano anche la preparazione e l’assunzione del cibo, come nel caso della cucina kosher, le cui rigide procedure erano state codificate già in età romana. Frammenti di anfore ci testimoniano il rifornimento di comunità ebraiche in Italia con «garum puro», cioè prodotto solo dalla macerazione di pesci squamati e quindi senza il ricorso ad anguille, murene, molluschi. Inoltre, in alcuni dei culti orientali diffusisi
ovunque in età imperiale il mangiare costituiva uno dei momenti rituali piú importanti della liturgia: per esempio in quella mitraica o in quella delle comunità cristiane primitive, che si riunivano per consumare assieme un pasto in comune, la cosiddetta agape. Come spesso accade, la diversità veniva talvolta deformata dal pregiudizio altrui. Dei
Fra nostalgia e sarcasmo
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ell’undicesimo libro delle satire, il poeta Giovenale, vissuto a cavallo fra I e II secolo d.C. confronta con sarcasmo lo sfarzo alimentare dell’ambiente aristocratico dei suoi tempi con quello del «buon tempo antico», in cui anche i senatori si accontentavano di poco. Curio Dentato, il vincitore dei Sanniti vissuto quasi mezzo millennio prima di Giovenale, all’inizio del III secolo a.C., era spesso tirato in ballo come modello dell’antico stile di vita austero. Come si può vedere, la polemica è indirizzata soprattutto contro l’abuso del consumo di carne, che un tempo (secondo Giovenale) veniva mangiata fresca solo in occasione delle distribuzioni seguite ai sacrifici rituali: «Questa, una volta, era la cena lussuosa dei nostri senatori: Curio poneva a cuocere con le sue mani, nel modesto focolare, le erbette raccolte nel piccolo orto, erbette che oggi farebbero schifo al piú miserabile degli zappatori, legato ai suoi ceppi di schiavo ma memore del sapore della vulva di scrofa, assaggiata in qualche calda osteria. Un tempo si usava conservare per i giorni di festa la schiena seccata d’un porco, pendente
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dal graticcio mezzo vuoto, e mettere davanti ai parenti, nel giorno del compleanno, un pezzo di lardo con al piú una fetta di carne fresca, se c’era qualche vittima a darla. Qualcuno di questi parenti vantava l’onore di tre consolati, di comandante sul campo e di dittatore; eppure se ne veniva al pranzo piú presto del solito, portando sulle spalle la zappa, giú dal monte da lui stesso rassodato. (...) Ma ora nelle case ricche si va a cena senza nessuna voglia; il rombo non sa di nulla, di nulla sa il daino, e le rose e i profumi sembrano puzzare, se a sostenere le smisurate tavole rotonde non è un gigantesco, magnifico leopardo d’avorio con la bocca spalancata».
In alto affresco raffigurante una forma di pane e due fichi, da Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto particolare di una natura morta raffigurante alcune mele e una caraffa in vetro, dalla Casa dei Cervi di Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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Le ragioni dei vegetariani
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on si sbaglierebbe di molto sostenendo che la fame di carne sia un tratto comune a quasi tutte le società storiche; al punto da attribuire proprio a questo alimento (nella fattispecie alla carne grassa) il piú elevato valore simbolico, soprattutto nei casi in cui il suo reperimento risultasse problematico. Effettivamente, sebbene privi di fibre, gli alimenti di origine animale (carne, pollame, pesce, ma anche latticini), oltre a rappresentare un’ottima fonte di vitamine, possiedono in genere una maggior quantità e una miglior qualità di contenuto proteico rispetto ai cibi di origine vegetale. Ciononostante, altrettanto universale e radicata appare l’esistenza di atteggiamenti ostili all’alimentazione carnivora. Cosí, sebbene in età romana fossero in parecchi a concordare con l’erudito Cornelio Celso nel sostenere che, dal punto di vista nutrizionale, la carne era certamente l’alimento migliore, anche nell’antichità erano diffuse diverse forme di vegetarianesimo, legate a credenze religiose o semplici espressioni di una sensibilità contraria all’uccisione di altri esseri viventi. Ce ne offre uno spaccato questa pagina di Plutarco: «Tu chiedi in base a quale ragionamento Pitagora si sia astenuto dal mangiare carne: io invece domando, pieno di meraviglia, con quale disposizione, animo o pensiero il primo uomo abbia toccato con la bocca il sangue e sfiorato con le labbra la carne di un animale ucciso, imbandendo le tavole con cadaveri e simulacri senza vita; e abbia altresí chiamato “cibi prelibati” quelle membra che solo poco prima muggivano, gridavano e si muovevano e vedevano. Come poté la vista sopportare l’uccisione di esseri che venivano sgozzati, scorticati e fatti a pezzi, come l’olfatto resse il fetore? Come una tale contaminazione non ripugnò al gusto, nel toccare le piaghe di altri esseri viventi e nel bere gli umori e il sangue di ferite letali? (...) Forse qualcuno potrebbe dire che per quei primi uomini che si dettero alla sarcofagia la causa fu proprio la mancanza di risorse; e in effetti essi non giunsero a queste pratiche eccedendo in quanto a piaceri anomali, contro natura, né mentre indulgevano a desideri illegittimi o godevano di una certa abbondanza di cose necessarie. Ma se costoro oggi riacquistassero la voce e potessero esprimere
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il loro sentire direbbero: “O beati e cari agli dèi voi che vivete ora, quale età della vita vi è dato in sorte di godere e quale abbondanza inesauribile di beni vi è concessa! Quante cose nascono per voi, quante ne vengono vendemmiate; quanti beni sono nei campi, quante cose piacevoli a disposizione per essere spiccate dalle piante. Vi è consentito anche di vivere nel lusso senza contaminarvi. Noi, invece, ci accolse la piú nefasta e temibile età (...) la fame non dava tregua e la semina degli uomini di allora non aspettava le stagioni dell’anno. Che c’è da meravigliarsi dunque se, agendo contro natura, abbiamo fatto uso della carne degli animali? (...) Invece quale rabbia, e in che modo, e quale furore spinge oggi voi a stragi scellerate, voi cui tanto avanza di cose necessarie?”».
Affresco raffigurante due addetti alla cucina che eviscerano un animale, forse un cerbiatto. 50-75 d.C. Malibu, The Getty Villa.
cristiani, per esempio, come sappiamo dai primi apologisti, si malignava che nelle loro cene comunitarie si cibassero di carne umana e in particolare che mangiassero bambini.
Le regole del buon commensale Alcuni comportamenti a tavola erano regolati da pratiche tradizionali, talvolta cariche di valenze magiche: rovesciare sulla mensa sale, olio o miele, per esempio, era considerato presagio di sfortuna. In occasione delle cene importanti, era previsto il rispetto di un galateo piuttosto rigido e articolato. Una sorta di «regolamento del banchetto» è stato rinvenuto a Pompei, dipinto sulle pareti del triclinio al piano superiore della casa di Epidio
Imeneo, andato quasi completamente in frantumi in seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. «Lo schiavo lavi con l’acqua i piedi [degli invitati] e, dopo averli bagnati, li asciughi e badi a coprire il cuscino con un nostro tovagliolo di lino» vi si dice. Poi, rivolto ai commensali: «Rinuncia agli atteggiamenti lascivi e alle languide occhiate alla moglie di un altro; il pudore sia sulle tue labbra. Fa’ uso d’amabili parole, rimanda gli odiosi litigi se puoi, oppure ritornatene a casa tua». L’etichetta prevedeva posti differenziati a seconda del rango dei convitati. La disposizione aveva una certa importanza, poiché si restava sdraiati sul letto tricliniare per buona parte della serata a conversare coi
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Affresco raffigurante coppie di banchettanti, una delle quali si scambia effusioni amorose, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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Consigli di bon ton
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e nostre fonti letterarie, tutte di marca maschile, mostrano un’attenzione particolare verso il comportamento delle donne in occasione dei banchetti: se da un lato capita di registrare un certo apprezzamento per le gran dame capaci di condurre conversazioni simposiali con garbo, sapienza e ironia, dall’altro è sempre pronta l’accusa di civetteria e sconcezza per atteggiamenti considerati sopra le righe. Ecco i consigli forniti in proposito da Ovidio, nell’Ars Amatoria: «In ritardo giungerai piú gradita: è gran ruffiana l’arte di farsi attendere. Sei brutta? Han già bevuto: sembrerai piú bella. Il buio darà un velo ai tuoi difetti. Prendi in punta di dito le vivande; un’arte pure questa che vuol garbo. Non ungerti la faccia con le mani, e non aver prima cenato, a casa. Smetti però quando ti senti sazia: mangia meno di quanto non potresti. Se Paride vedesse Elena intenta a ingozzarsi di cibo, l’odierebbe; si chiederebbe: “E perché l’ho rapita?”. In quanto al bere, credo che alla donna s’addica molto e piú che non all’uomo. Ti trovi bene, Bacco, con Amore! Ma pure in questo non passare il segno: bevi soltanto fin che lo sopporti. Reggano la tua mente e le tue gambe: che tu non veda due al posto d’uno! È orribile veder donna giacere sozza di vino: non meriterebbe che d’essere preda al primo sconosciuto. E non crollare mai addormentata sopra la mensa: non è mai sicuro. Ti possono accadere, mentre dormi, càpita spesso, vergognosi guai».
vicini. A seconda del tipo di cerimoniale previsto dall’occasione, brindisi ripetuti potevano accompagnare l’apertura e la chiusura del pasto. Per alcuni tipi di pietanze era previsto l’uso di cucchiaini; ma si mangiava perlopiú con le dita, senza fare uso di posate e piatti personali, sciacquandosi le mani di tanto in tanto. Dalla fine del I secolo
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d.C. si diffuse l’abitudine di coprire la tavola con una tovaglia, mentre prima si puliva passando una spugna sulla mensa fra una portata e l’altra.
Gli avanzi sparsi per terra
In basso chicchi di farro, il cereale piú diffuso e utilizzato a Roma, prima dell’avvento del frumento.
Gli avanzi finivano direttamente a terra, dando vita a quello scenario tante volte riprodotto in
Quando il farro era sacro
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e esigenze del rito spesso portano alla creazione, o alla conservazione, di cibi particolari, utilizzati solo nelle funzioni religiose, come per esempio la mola salsa, l’impasto di sale e farina di farro tostato con cui nelle città romane i sacerdoti pagani aspergevano le vittime prima dei sacrifici (e da cui prende significato il verbo «immolare»). Questa salsa veniva confezionata dalle vestali, le quali ricavavano la farina pestando le spighe di farro che venivano loro consegnate solennemente all’inizio di maggio, nel corso di una sorta di rito propiziatorio destinato a tutelare le messi nel momento della loro fioritura. Il farro (in latino far, da cui «farina») era il cereale piú utilizzato nella Roma arcaica e per questo sopravviveva nei rituali di molte feste religiose, radicate nel calendario sin dalla remota antichità, anche se ai tempi dell’espansione romana e poi dell’impero molte di queste ricorrenze avevano in realtà cambiato fisionomia: al punto che le Vestalia, cioè i giorni di festa in cui originariamente si propiziava il raccolto, erano divenute la ricorrenza dei fornai, che, per celebrarla, inghirlandavano i mulini e caricavano gli asini di pagnotte e corone.
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pitture e mosaici pavimentali e noto come asaratos oikos, «la casa non spazzata», il cui prototipo rimontava a Sosos di Pergamo, un artista attivo nel II secolo a.C. Lische di pesce, bucce, semi di frutta, ossa di pollo, gusci di noce e ogni altro tipo di avanzo sparsi a terra in attesa di essere spazzati, al mattino seguente, dagli inservienti. La pulizia degli
Roma, Foro Romano. La replica di una delle statue di Vestale Massima che ornavano la Casa delle sacerdotesse (l’Atrium Vestae).
arredi e degli ambienti era infatti un dovere che non si poteva eludere: «Che sarà mai la spesa per comprare comunissime scope, stracci, segatura? Trascurare queste cose è davvero una vergogna» scrive Orazio. «Muove nausea allo stomaco che un servo tocchi il calice con le mani unte dopo aver preso e leccato qualche cosa di nascosto, o che sia rimasto incrostato un fondo melmoso in un cratere antico». Agli invitati era inoltre consentito portar via alcuni avanzi, facendosi una sporta col tovagliolo usato per non imbrattare il «letto» su cui si era stesi: una opportunità da sfruttare però con moderazione, per non incorrere nel biasimo e nel sarcasmo degli altri ospiti.
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Frammento di mosaico pavimentale policromo raffigurante i preparativi per un banchetto, dai dintorni di Cartagine. 180-190 d.C. Parigi, Museo del Louvre.
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Cucinare alla romana LA GASTRONOMIA DELL’ANTICA ROMA SI BASAVA SU ALCUNI PRECETTI ESSENZIALI, FRA CUI, PER ESEMPIO, L’AMPIO USO DELLE SPEZIE E LA PREDILEZIONE PER IL GUSTO AGRODOLCE. PRINCIPI AI QUALI SI UNIVA, PER I PIÚ RICCHI, LA PASSIONE PER PIATTI SPETTACOLARI, CON CUI DESTARE LO STUPORE DEI PROPRI OSPITI
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uando i Romani cominciarono a mangiare pane di frumento al posto della polenta di farro, la raffinata cucina magno-greca era già celebre in tutto il Mediterraneo. Non sorprende, dunque, che la cucina romana sia per molti aspetti debitrice di quella ellenica. Sia per il rilievo riconosciuto ad alcuni alimenti – come il pane, il pesce, il vino –, che per le modalità di preparazione delle pietanze. Ciò non toglie che la gastronomia romana abbia poi sviluppato caratteristiche peculiari. Una delle piú evidenti sembra essere stata la tendenza a evitare le pietanze dure e croccanti: le carni, in particolare, venivano perlopiú bollite e tritate; i fritti erano ammorbiditi da salse; e in genere il cibo arrivava a tavola già tagliuzzato in bocconi e risultava di facile masticazione. Un altro connotato della cucina romana era la tendenza a miscelare gusti contrastanti: carni arrostite accompagnate da miele o aceto; oppure dolci speziati con pepe. D’altronde, il carico di salse e spezie era davvero notevole, in ogni pietanza. L’alta cucina poi si caratterizzava per l’inclinazione a camuffare le pietanze, presentate sempre con grande eleganza, e per l’attenzione agli aspetti decorativi. All’effetto scenico della composizione, che possiamo in qualche modo ricostruire dalla descrizione fornita dalle fonti letterarie, doveva aggiungersi inoltre la dimensione aromatica, che possiamo solo immaginare. Le cene erano l’unico pasto strutturato, con un menú articolato in tre o quattro portate, che nei casi di banchetti importanti potevano moltiplicarsi.
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GASTRONOMIA
Dopo un’eventuale coppa di vino aromatizzato o mielato, che poteva fare da aperitivo, si cominciava con un antipasto (gustatio), perlopiú a base di uova, olive, verdure; seguivano una o due portate (prima e altera cena), composte dai piatti forti: polente, sformati di verdure e le pietanze a base di carne o pesce. Dolci e frutta – fresca e secca – costituivano la portata conclusiva (secundae mensae). Dopodiché non restava che bere (commisatio).
Utensili «moderni» L’arredo di attrezzi utilizzati in cucina per preparare il cibo e cucinarlo somigliava in sostanza a quello ancora in uso: mortai e pestelli; coltelli e taglieri; trincetti e mezzelune; mestoli, colini, cucchiai e forchettoni; grattugie e schiaccianoci; e poi pentole – di terracotta o metallo –, con o senza coperchio, casseruole, terrine, tegami e padelle per la frittura con lungo manico. Conosciamo anche padelle particolari, con bordi o fondi lavorati in maniera
da consentire cotture speciali, di cui però nulla sappiamo. A Pompei sono state rinvenute anche pentole a vapore. Non si cuoceva direttamente sulla fiamma. Le pentole e le padelle venivano generalmente poggiate su griglie, a tre o quattro piedi, sistemate sulla brace ardente che ricopriva il piano cottura: a seconda dell’intensità di calore che si voleva raggiungere, si aumentava o diminuiva lo strato di cenere sulla brace, aiutandosi con attizzatoi di ferro. Piú raramente si ricorreva a spiedi e graticole. Per friggere si usava l’olio di oliva; in alternativa, lo strutto
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Qui sopra vassoio e vasellame in argento, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In alto servizio da tavola in argento, forse proveniente da Tivoli. Metà del I sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
oppure bisognava rosolare direttamente in sughi e salse a base di vino e garum. Il burro era usato solo nelle regioni settentrionali. C’erano poi teglie e stampi per dolciumi e impasti vari da cuocere al forno. Dell’arredo della cucina spesso facevano parte anche le patere necessarie alle offerte rituali destinate ai Penati, conservati generalmente in nicchie attigue alla cucina e alla dispensa. Non sappiamo se e quanto le pietanze offerte nelle taverne differissero da quelle preparate nelle mura domestiche. Sappiamo però che gli avventori vi mangiavano seduti e usavano il coltello. In casa invece le pietanze erano messe in tavola in modo che i commensali potessero portarle alla bocca senza bisogno di tagliarle o inforcarle, servendosi solo delle mani. Le case piú attrezzate erano dotate poi di scaldavivande, a volte delle dimensioni di vere e proprie stufe. Per trasportare il cibo si usavano vassoi e piatti da portata d’ogni forma. Il vasellame da tavola comune, di produzione seriale, era privo di particolari decorazioni, ma esistevano naturalmente differenze di qualità
nella ceramica, per spessore, grana, resistenza. Si trattava perlopiú di piatti piani o scodelle per zuppe e minestre. In alcuni contesti si poteva usare la focaccia come base d’appoggio su cui sistemare le pietanze. I piú ricchi avevano servizi in metallo: pezzi unici d’artigianato artistico dal valore inestimabile. I recipienti per bere erano di varie tipologie e differente pregio: boccali di legno, bicchieri di metallo, calici di vetro, tazze e coppe in ceramica, con e senza manici; spesso erano di forma svasata, per facilitare il deposito del fondo. Anche i contenitori di liquidi erano di forma e materiale vario: brocche, bottiglie, ampolline, in ceramica, metallo o vetro. Inoltre, per attingere il vino dai grandi crateri in cui veniva miscelato, si usavano mestoli metallici. A disposizione dei commensali c’erano infine, generalmente, stuzzicadenti, saliere e ampolline per olio e aceto.
Una presenza costante Uno degli assi portanti dell’alimentazione romana era costituito dai legumi: fave, lenticchie, lupini e un certo tipo di piselli e di fagioli (che però avevano poco a che vedere con quelli che consumiamo noi, discendenti da quelli americani). Si utilizzavano per condire le polente, oppure ridotti a farinata, o arrostiti. Se ne facevano anche minestre: residui di zuppe di fave, ancora nelle scodelle, sono stati rinvenuti a Pompei. Grande importanza avevano poi le verdure: anzitutto aglio, cipolla e
Il ricettario di Apicio
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l De re coquinaria è un testo molto particolare, contenente quasi mezzo migliaio di ricette e indirizzato probabilmente a cuochi di professione. Sarebbe opera di un certo Apicio, vissuto nella prima metà del I secolo d.C.; ma vi sono confluite sicuramente aggiunte posteriori. È lecito immaginare che i monaci che vollero tramandarlo non si limitarono a trascriverlo, ma lo dovettero consultare piú volte. Le ricette presentano le modalità di cottura e le liste degli ingredienti (non sempre identificabili con sicurezza), senza però indicare le dosi. Eccone un paio di esempi, relativi a pietanze molto semplici: «Piselli o fave alla vitelliana: cuoci piselli o fave. Quando avrai tolto la schiuma, mettici del porro, del coriandolo e dei fiori di malva. Mentre cuociono trita del pepe, del ligustico, dell’origano, del seme di finocchio; bagna con salsa e vino. Metti nel tegame, aggiungi olio: quando bollirà gira. Mettici sopra olio verde e porta in tavola. (…) La crema d’orzo si fa cosí: trita, lavandolo, dell’orzo messo a bagno il giorno prima. Metti sul fuoco. Quando bollirà, metti olio in buona quantità e un mazzetto di aneto, una cipolla secca, della santoreggia e uno zampetto di maiale e falli cuocere fino ad avere una crema. Aggiungici del coriandolo verde e del sale tritati insieme e fai bollire. Quando avranno bollito, togli il mazzetto (di aneto) e trasferisci la crema in un’altra pentola, controllando che non attacchi e non bruci. Rendi liscia e senza grumi la crema e versala in una casseruola sullo zampetto di maiale. Trita del pepe, del levistico, un po’ di puleggio secco, del cumino e del tordilio fritto, bagna con miele, aceto, mosto cotto e garum e rimetti il tutto nella pentola, in modo che lo zampetto sia coperto. Fa’ bollire a fuoco moderato».
Pompei. La cucina della Casa dei Vettii, con il bancone sul quale sono state ritrovate varie pentole per la cottura delle vivande.
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GASTRONOMIA
porri (utilizzatissimi in particolare nell’alimentazione della popolazione di piú modesta estrazione) e poi rape, carote e ravanelli, asparagi, cavoli, cetrioli, cicoria, carciofi; infine le insalate, in particolare la lattuga. Queste verdure venivano lessate e condite perlopiú con olio e aceto; o ridotte a purè e insaporite poi con aromi, oppure anche arrostite o fritte. Fungevano da contorno o da ripieno per «piatti unici» elaborati. Quanto ai funghi, purtroppo, non è sempre facile capire a quali tipi si riferiscano le fonti che
Una scena del Fellini Satyricon, film che il grande regista riminese girò nel 1969, basandosi sull’omonimo romanzo dello scrittore latino Petronio (I sec. d.C.), uno dei cui momenti clou è il banchetto allestito dal ricco Trimalcione.
ne parlano. Sicuramente si mangiavano i porcini e i prataioli. In genere venivano serviti per antipasto, crudi o cotti (in salsa, bolliti o alla griglia). Anche i tartufi erano apprezzati. Le olive erano spiluccate principalmente negli antipasti, oppure a pranzo: venivano conservate in aceto e olio o in salamoia. La frutta veniva invece servita generalmente a chiusura di pasto. Alle decine di qualità di mele, pere, prugne, melegrane, sorbe, uve da tavola (bianche e nere), da secoli coltivate in Italia, si aggiunsero col tempo ciliege, pesche e
Lo stratagemma di un cuoco «smemorato»
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aper mascherare il reale contenuto delle pietanze era uno dei requisiti richiesti ai cuochi professionisti (generalmente di condizione servile). Lo evidenzia bene questa messinscena narrata nel Satyricon, il romanzo scritto da Petronio, probabilmente in età neroniana. Chi parla è uno dei giovani protagonisti, Encolpio, ospite
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alla cena del ricco Trimalcione assieme al suo maestro di retorica, Agamennone: «Ci fu portato, benché fossimo ancora all’antipasto, un vassoio con dentro un cesto nel quale stava accovacciata una gallina di legno con le ali aperte, come quelle che covano le uova. Subito si avvicinarono due schiavi e tra il frastuono della musica
cominciarono a frugare nella paglia, cavandone fuori uova di pavone che distribuirono ai convitati. Girando la testa verso il tavolo, Trimalcione vide la scena e disse: “Amici, uova di pavone ho fatto mettere sotto questa gallina. Ma, per Ercole, ho paura che ci sia già dentro il pulcino. Vediamo se si possono ancora bere”. Con cucchiai che pesavano almeno mezza libbra, rompemmo le uova, che erano di pastafrolla. Stavo per gettare via il mio che sembrava avesse già dentro il pulcino, quando sentii un ospite abituale che diceva: “Dev’esserci dentro qualcosa di buono”. Infatti, rotto il guscio, vi trovai un grasso beccafico immerso nel tuorlo, ben pepato e lardellato. (...) Fu portato sopra un vassoio un porco gigantesco che occupò tutta la tavola. Eravamo meravigliati per la rapidità del cuoco. Neppure un gallo si sarebbe potuto cuocere piú in fretta. E si trattava di un porco piú grosso del cinghiale di poco prima. Trimalcione, guardandolo ben bene disse: “Come, come? Questo porco non è stato sventrato? Proprio no, per Ercole! Chiamate il cuoco”. Arrivò il cuoco pieno di timore e si scusò della dimenticanza. “Come,
nespole, forse anche le albicocche. Spesso sulla tavola comparivano anche i datteri, importati dall’Oriente. Elevato era il consumo di fichi, spesso usati come companatico, perlopiú mangiati secchi. Molta di questa frutta si cuoceva con il miele e veniva in parte utilizzata anche per preparare confetture, usate poi come condimento, specialmente con la carne. Grande diffusione avevano anche quelle che i Romani chiamavano generalmente nuces: noci, pinoli, castagne, mandorle e pistacchi. Le nocciole venivano conservate e vendute
dimenticato?” esclamò Trimalcione. “Vuoi vedere che costui non ci ha messo né pepe né comino. Spogliatelo!”. Il cuoco, subito spogliato [per essere fustigato], se ne stette tutto ammosciato fra due guardie. Ma da ogni parte si incominciò a intercedere in suo favore dicendo: “Capita a tutti. Ti preghiamo, Trimalcione, perdonagli. Se lo farà un’altra volta nessuno di noi muoverà piú di un dito per lui”. Spinto dalla mia severità, non potei trattenermi, e chinandomi all’orecchio di Agamennone gli dissi: “Costui è il peggiore degli schiavi. Come si può dimenticare di sventrare un porco? Non lo perdonerei, per Ercole, neppure se trascurasse di pulire un pesce”. Ma Trimalcione, spianando il volto in un sorriso, disse: “Avanti, uomo di poca memoria, sventralo in nostra presenza”. Ripresa la tunica, il cuoco afferrò il coltello e con gran cautela tagliò qua e là il ventre del porco. Dai tagli, che si allargavano sotto la spinta del peso, si riversarono fuori mortadelle e salsicce».
Riproduzione di un affresco pompeiano raffigurante una natura morta, acquerello realizzato da Geremia Discanno per l’opera di Emil Presuhn Pompeji, die neuesten Ausgrabungen von 1874 bis 1881, pubblicata a Lipsia nel 1882.
solo dopo essere state sgusciate. Dal I secolo d.C. si diffuse anche il consumo di angurie e meloni, di dimensioni assai ridotte e meno zuccherini dei nostri: erano considerati una verdura (in particolare come un tipo di cetrioli) e mangiati generalmente con pepe, aceto e garum. Ridotta a sciroppi o a pezzi, capitava infine che la frutta venisse miscelata al ghiaccio o alla neve, gelosamente conservata nelle cantine delle dimore signorili. Si trattava di una sorta di granita, riservata agli abitanti delle case piú ricche e attrezzate, servita solitamente come dessert a chiusura della cena, ma anche come autonomo spuntino rinfrescante.
Uova, formaggi, carne e pesce Le uova (soprattutto di gallina, ma anche di oca, piccione, anatra) erano servite spesso come antipasto, cucinate alla coque, sode oppure strapazzate. Il formaggio veniva invece consumato soprattutto fuori dai pasti principali. Discreta era la varietà: sull’arco alpino e a nord di esso si producevano soprattutto formaggi di vacca; nell’Italia appenninica di pecora. Ne conosciamo di diverse tipologie: freschi; a pasta filata; a pasta molle; semidura; dura. Sappiamo anche di formaggi erborinati e di altri affumicati. Alcuni presentavano un aspetto particolare, come un tipo umbro che aveva sagoma piramidale; altri erano prodotti in forme gigantesche. La carne piú diffusa era quella di maiale e assai sviluppata era la salumeria, con prosciutti e insaccati d’ogni sorta, fra cui particolare rinomanza godevano la salsiccia
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GASTRONOMIA
lunga (la lucanica) e i prodotti provenienti dalla Pianura Padana e dalla Gallia. Generalmente la carne, sia quella fresca che quella essiccata, affumicata o salata, veniva bollita, per consentirne una piú facile masticazione e una piú lunga conservazione. Solo raramente era cotta alla griglia o allo spiedo: ma anche in questo caso, spesso veniva prima lessata. Per la cacciagione si adottavano di solito sistemi di cottura e preparazione molto raffinati. Il pollame era viceversa considerato cibo da povera gente e non era molto apprezzato sulle mense piú raffinate. Gli allevamenti di galli e galline, del resto, erano finalizzati soprattutto alla produzione di uova e le bestie non dovevano essere molto ricche di carne. A ogni modo, come le altre carni, anche quella di pollo era cucinata soprattutto bollita. Il pesce non era percepito come un’alternativa alla carne, ma piuttosto come un tipo di carne particolarmente pregiata. Triglie, spigole, sgombri, sogliole, seppie, rombi, dentici e murene costituivano i piatti piú frequenti. Si poteva mangiare fresco oppure conservato in salamoia, come succedeva soprattutto col tonno. Generalmente era cotto alla griglia o bollito; quasi mai fritto. Molto apprezzati erano anche i crostacei (in particolare granchi e gamberetti), i molluschi (specialmente polpi e calamari) e i frutti di mare (ricci, cozze,
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vongole e soprattutto le amatissime ostriche), mangiati cotti oppure crudi, conditi con semplice garum o altre salse.
L’avvento del pane I Romani utilizzavano diversi tipi di cereali, anche se non tutti con la stessa frequenza e favore. L’avena rimase perlopiú riservata agli animali; l’orzo ai poveri. Il farro, che anticamente, cotto in farinate e polente, aveva costituito il fulcro dell’alimentazione, col tempo venne invece abbandonato, a favore del frumento, in particolare del grano tenero, piú facilmente riducibile in farina. L’affermazione del frumento come cereale egemone, nel corso del II secolo a.C., si accompagnò infatti a un vero mutamento epocale nella gastronomia romana: l’avvento del pane. Conosciamo i nomi di una gran quantità di tipi di pani diversi, distinti per modalità di preparazione e cottura: il «pane bianco», fatto con la farina ripulita dalla crusca, era il piú costoso e generalmente finiva solo nelle tavole dei piú ricchi. Esistevano del resto panetterie raffinate con pani al latte, all’olio, al miele. L’abitudine di farlo lievitare si affermò soprattutto in età imperiale: a ogni modo non doveva essere molto soffice e leggero, poiché ancora non si usava il lievito di birra, ma la pasta madre naturale. Esistevano pagnotte di
Sulle due pagine affreschi raffiguranti nature morte, dai Praedia di Giulia Felice a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
I legumi erano degli assi portanti dell’alimentazione romana e non minore importanza avevano poi le verdure, a cominciare da aglio, cipolla e porri, pressochÊ onnipresenti Bottiglie e altri vasi in vetro di epoca romana. Collezione privata.
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forma allungata e di forma tonda (con quattro o piú incisioni a raggiera che consentivano facilmente di spezzarlo in porzioni uguali). Sull’esterno venivano spesso verniciate con uovo per potervi applicare semi di cumino, sedano, finocchio o altre piante aromatiche. A livello domestico, sappiamo che con acqua e farina venivano anche impastate e tirate col mattarello sfoglie di pasta fresca. Queste sfoglie venivano generalmente sovrapposte, a piú piani, alternandole con i condimenti, dando cosí forma a una sorta di lasagne; oppure venivano ripiegate in modo da racchiudere i ripieni (tipo ravioli o calzoni).
...e la pasta? In alcuni casi sembra che tali sfoglie venissero poi tagliate a strisce, sempre abbastanza larghe, però, senza assumere l’aspetto filiforme dei nostri spaghetti; ma non sappiamo bene come si cucinassero (in brodo, o al forno, oppure bollite o fritte). Non esisteva invece la produzione della pasta secca. La farina era utilizzata poi per preparare focacce e schiacciate di vario tipo, diverse comunque dalle nostre pizze, e per tutta una serie di prodotti, perlopiú da forno, che potremmo definire di pasticceria. Crostate, biscotti, crespelle, frittelle aromatizzate si potevano facilmente trovare per strada dai venditori ambulanti, ma si potevano cucinare anche a casa, per chi ne avesse avuto l’attrezzatura. Di vari dolci conosciamo quasi solo il nome: è probabile che molti si differenziassero fra loro solo per la forma. Una categoria speciale era quella dei liba, le focaccette usate per i sacrifici, anche quelli domestici, che proprio da loro presero il nome di «libagioni». In assenza di zucchero, per dolcificare si ricorreva massicciamente al miele. Dato il suo alto costo, nella loro produzione casalinga i piú poveri spesso lo sostituivano con sciroppi di frutta (uva, fichi, mele). Assieme alla farina, molto utilizzato per gli impasti era il formaggio (cacio ridotto in polvere); anche uova e latte erano usati. Scarso era invece il ricorso al lievito.
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Nella pagina accanto affresco da Pompei, raffigurante la bottega di un fornaio. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso ciotola da Pompei contenente olive carbonizzate, ancora conservate dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Oltre che per la produzione di olio, le olive venivano consumate anche come cibo da tavola, sia come antipasto che alla fine del pranzo.
Per aromatizzare era molto adoperato il mosto. Stampi per torte e sformati di vario tipo, rinvenuti in buon numero, ci restituiscono il grado di raffinatezza di questa pasticceria; anche se spesso abbiamo difficoltà a capire se si trattasse di cibi «dolci» o «salati», una distinzione che i Romani non consideravano cosí radicale come noi. Una commistione di sapori che si rifletteva anche nei dessert per la chiusura della cena, sfornati nelle cucine piú ricche e raffinate. Conosciamo la ricetta di molte portate di questo tipo, che in età imperiale si fecero sempre piú sofisticate: torte, budini, omelette, frittelle ricoperte di miele e pepe, soufflé di frutta (in particolare mele cotogne, pesche, pere) cotti al forno con olio.
Gli aromi e le salse Per insaporire le portate si ricorreva a un gran numero di erbe e ortaggi, pestate a mano nel mortaio. Le piú usate erano basilico, origano, finocchio, senape, rosmarino, sedano, sesamo, menta, prezzemolo, capperi, cumino e zafferano. Oltre, naturalmente, ad aglio e cipolle. Costose, ma molto rinomate, erano le spezie d’importazione: su tutte, il pepe (bianco e nero), (segue a p. 78)
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GASTRONOMIA
L’impenetrabile garum
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i origine orientale e conosciuto dai Romani probabilmente attraverso la gastronomia cartaginese, il garum è senz’altro uno degli elementi della cucina romana piú noti. Non lo conosciamo solo dalle fonti letterarie, ma anche dai ritrovamenti archeologici. Il garum costituiva infatti il carico principale di molti dei relitti recuperati (o semplicemente individuati) in fondo al Mediterraneo, come nel caso della nave di Alassio o di alcune di quelle di Cala Reale (Asinara). Inoltre a Pompei, come del resto anche in altri siti, si sono ritrovati non solo i contenitori in cui era commercializzato, ma persino le officine in cui si ultimava la lavorazione del prodotto, Rotomagus
generalmente importato dalla Spagna. Tuttavia, a dispetto dell’importanza ricoperta nella gastronomia romana, soprattutto in quella d’età imperiale, il garum resta per noi ancora una sostanza piuttosto misteriosa. Non solo rispetto al sapore, che siamo costretti a indovinare ricorrendo ad analogie col nuocmam vietnamita o con la colatura di alici; ma anche rispetto alla sua stessa essenza. Le fonti – che spesso si riferiscono a questa salsa col vocabolo latino liquamen – infatti ci forniscono informazioni contrastanti; tanto che in alcuni casi, per esempio in riferimento all’hallec, non risulta chiaro se si riferiscano a un particolare tipo di garum o a una vera e propria salsa distinta. Del procedimento di
Durocortorum
Augusta Trevirorum
Lutetia
Augusta Vindelicorum Carnuntum
Portus Namnetus Caesarodunum
Oceano Atlantico
Porolissum
Lugdunum
Aquileia
Mediolanum
Sarmizegetusa Servitium
Burdigala Tolosa
Brigantium Asturica
Narbo Martius
Arelate Massilia Nemausus
Caesaraugusta
Bracara Augusta
Florentia
Roma
Narona Mare Adriatico
Naissus
Dyrrhachium
Mar Nero
Thessalonica
Brundisium
Mar Tirreno
Mare Ionio
Carthago Nova Hispalis
Banasa
Sirmium
Ariminum
Tarraco
Emerita Augusta
Gades
Aquincum
Augustodunum
Hippo Regius Cesarea Lambaesis Theveste
Carthago
Nicomedia Nicopolis
a r
Ancyra
Pergamum
Athenae
Mar Egeo
Siracusae
M
Sinope
Byzantium
Smyrna Ephesus
Apamea Attalia
M e d i t e r r a n e o
Tarsus Antiochia
Damascus
Cyrene Alexandria
Le rotte del garum
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Gaza Heliopolis Petra
Resti di un impianto per la salagione del pesce e la produzione del garum a Baelo Claudia, città romana situata presso l’odierna Bolonia (Cadice, Spagna). Nella pagina accanto, al centro cartina con i principali centri di produzione del garum. Nella pagina accanto mosaico raffigurante un contenitore per il garum, dalla Casa di Umbricio Scauro, a Pompei, imprenditore che si arricchí proprio grazie alla produzione e alla vendita della salsa a base di pesce. Nella pagina accanto resti di garum rinvenuti in un impianto per la produzione della salsa di pesce scoperto in località La Picola, presso Santa Pola (Catalogna, Spagna).
preparazione abbiamo piú di una descrizione letteraria, fra loro non del tutto compatibili. Quella che segue è la ricetta risalente a Gargilio Marziale, autore nel III secolo d.C. di un testo agronomico di cui ci sono pervenuti solo alcuni stralci: «Si prendono pesci grassi: salmoni, anguille, alose, sardine, aringhe e con questi pesci, erbe aromatiche seccate e sale si fa la seguente preparazione: si
prende un vaso solido e integro della capacità di 3 o quattro moggi [=26-35 litri] e in fondo al vaso si fa uno strato di erbe secche, molto aromatiche, coltivate o selvatiche: aneto, coriandolo, finocchio, sedano, santoreggia, sclarea, ruta, menta, mentuccia, levistico, puleggio, serpolino, origano, betonica, argemone. Poi si fa uno strato di pesce, intero se di pesce piccolo, altrimenti tagliato
a dadi. Sopra si stende uno strato di sale spesso due dita. Si riempie il vaso fino alla sommità alternando questi tre strati: erbe, pesce e sale. Si chiude con un coperchio stretto lasciandolo cosí per sette giorni. In seguito per venti giorni consecutivi si mescola questa mistura, girando sino al fondo. Trascorso questo tempo, fin quando tutto diviene poltiglia liquida, se ne raccoglie il liquore che ne scola».
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adoperato in grani o macinato, e la cannella. Molto usato era il laser, un’erba aromatica della Cirenaica, che non riusciamo a identificare con alcuna pianta ancora in circolazione. Un condimento classico era poi l’olio d’oliva, che doveva avere un sapore piú acido del nostro. Assai pregiati erano quello istriano e quello di Venafro; ma in età imperiale se ne importava soprattutto dall’Iberia e poi dall’Africa Settentrionale. Molto usato era anche l’aceto di vino. La salsa per definizione era però una poltiglia, dal sapore salato-acidulo, prodotta dalla macerazione del pesce: il garum (vedi box alle pp. 76-77). Ne esistevano una infinita gamma di qualità e tipologie. Con il termine liquamen, generalmente se ne intendeva la parte migliore, ottenuta filtrandolo attraverso un panno di lino; hallec era invece la denominazione data al fondo, al rimasuglio. Era utilizzato un po’ in tutti i piatti, ma in particolare per condire uova, carne e pesce.
Vino e altre bevande Non sappiamo bene che tipo di aromi e sapori avessero i vini romani. È presumibile, però, che il loro gusto fosse radicalmente diverso da quello della bevanda che intendiamo noi oggi come vino. Tutto il processo di vinificazione, protezione e trasporto sottoponeva infatti il mosto a procedure che noi oggi sconsiglieremmo: l’impeciatura delle giare in
Sulle due pagine Oplontis. Particolari di alcuni degli affreschi che ornano la Villa di Poppea. I sec. d.C. Qui sopra, un cesto di frutta coperto da un velo; nella pagina accanto, una torta sul vassoio, nota anche come «cassata di Oplontis».
Il dolce è servito
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iportiamo qui alcune ricette relative alla preparazione di dolci. Le prime due provengono dal De agri cultura di Catone, il quale riservò una parte consistente del suo manuale a istruzioni di cucina casalinga. Segue una ricetta insolitamente semplice di Apicio, autore del piú noto ricettario dell’antichità. Chiude un testo riportato da Ateneo, erudito greco che nel II
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secolo d.C. compose un’opera, I sofisti a banchetto, ricchissima di informazioni relative alla storia della letteratura gastronomica antica: «Preparerai cosí i globi: mescolerai in parti uguali formaggio e farina di farro. Con questo impasto farai tutti i globi che vuoi. Verserai dello strutto in una padella calda. Ne friggerai uno o due per volta, e li rigirerai
con due palette: quando saranno fritti li toglierai, li spalmerai di miele, ci gratterai sopra del papavero. Li servirai cosí». «Preparerai il savillum in questo modo: mescolerai insieme mezza libbra di farina [1,5 hg], 2 libbre e mezzo [7,5 hg] di formaggio, come per il libum, poi un quarto di libbra [70 g] di miele e un uovo. Ungerai di olio un catino di coccio. Quando avrai bene
impastato tutti gli ingredienti, verserai nel catino l’impasto. Lo coprirai con un coppo. Vedrai di far cuocere bene il dolce nel centro, dove si gonfia di piú. Quando sarà cotto, toglierai il catino dal fuoco, spalmerai di miele il savillum, vi grattugerai sopra del papavero, lo rimetterai per un po’ sotto il coppo, poi lo sfornerai. Lo servirai cosí, nel catino, con un cucchiaino».
«Dolci casalinghi: prendi palmule o datteri. Togli il nocciolo e riempili con un trito di noci o di pinoli o di pepe. Salali all’esterno, friggili nel miele cotto e porta in tavola». «Prendete delle noci di Taso del Ponto, delle mandorle e semi di papavero, che farete tostare con attenzione. Pestate tutto in un mortaio pulito, mescolate insieme questi tre frutti,
triturateli, aggiungete del miele schiumato, e pepe. Amalgamate bene il tutto. Il pepe darà all’amalgama un colore nero. Schiacciate questa pasta cosí ottenuta, pestate poi del sesamo bianco, mescolatelo con la farina e miele schiumato, per farne delle focacce all’interno delle quali, metterete la pasta nera precedentemente preparata curando di porla bene al centro».
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cui veniva posto a fermentare, per esempio, o la fumigatura, o i lunghissimi tempi di macerazione. Il mosto, inoltre, veniva quasi sempre cotto e aromatizzato con essenze di fiori, radici, semi o spezie: dal sedano, all’anice, al pepe. Per favorire stabilizzazione e conservazione, era inoltre addizionato di ulteriori sostanze, per esempio resina, o acqua di mare. La densità stessa del vino doveva differire da quello di oggi. Si può immaginare che avesse generalmente una consistenza piuttosto liquorosa. Alla maggiore corposità doveva corrispondere una gradazione molto alta: anche per questo non si beveva mai puro, ma si annacquava pesantemente, sfruttando la miscelazione per riscaldarlo o refrigerarlo. Per creare la combinazione desiderata, nell’imminenza del consumo, anfore di vino e brocche d’acqua venivano svuotate in contenitori appositi, chiamati crateri, con attenzione alle proporzioni richieste. Dai crateri si attingeva con mestoli: il vino veniva generalmente filtrato e poi bevuto in coppe molto larghe, per consentire al fondo di depositarsi. Ma esisteva una gamma sterminata di bicchieri diversi, adatti non solo a circostanze, ma anche a vini differenti.
Per tutte le tasche Le tipologie e le qualità di vino prodotti del resto coprivano un ventaglio veramente ampio. C’erano i «bianchi», i «rosati» e i «rossi» (anzi, i «neri», atra, come li chiamavano i Romani). Alcuni erano associati a modalità di consumo precise: il vino mielato, detto mulsum, rappresentava per esempio il classico aperitivo da bere in apertura di cena, in attesa della gustatio. Anche i prezzi variavano considerevolmente. Si andava dal semplice vinello da strada, alla portata di qualsiasi borsellino, o dal modesto vino destinato all’autoconsumo, in campagna, ai prestigiosi vitigni greci e campani: il vino di Chio, per esempio, o il Cecubo, o il Falerno, prodotti che mantennero per secoli una fama indiscussa. Alcune annate erano particolarmente rinomate, come quella del consolato di Opimio (il 121
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Una dettagliata carta dei vini
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enatore dagli interessi enciclopedici e autore di una monumentale Storia Naturale, in cui ampio spazio viene riservato all’enumerazione dei prodotti agricoli e alla loro mercificazione, Plinio il Vecchio ci ha lasciato una pagina di grande suggestione, con un lungo e articolato elenco dei vini piú apprezzati dai suoi contemporanei, dunque all’inizio della seconda metà del I secolo d.C. Le indicazioni di Plinio non sono necessariamente fededegne, né sempre accurate; presentano, tuttavia, un panorama articolato delle nozioni
circolanti nell’alta società romana imperiale del tempo in relazione alla produzione vinicola: «In antico grandissima risonanza per la sua qualità aveva il vino del Cecubo, proveniente dai pioppeti palustri nel golfo di Amicle e ormai scomparso per l’incuria dei produttori e la ristrettezza del podere, ma forse piú ancora a causa del canale navigabile che dal lago di Baia arriva fino a Ostia, fatto
iniziare da Nerone. Veniva al secondo posto, come rinomanza, il territorio di Falerno e all’interno di esso soprattutto il Faustiniano: questo risultato era stato conseguito grazie a una coltivazione scrupolosa; ma anch’essa è in fase di regresso da quando è in mano a gente che bada piú alla quantità che alla qualità. Il territorio di Falerno comincia dal Ponte Campano sulla sinistra in
Particolare di un mosaico policromo raffigurante vari servitori addetti al rifornimento di vino destinato al banchetto, da Dougga (Tunisia) . II sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo.
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Ercolano. L’insegna della bottega Ad Cucumas, con quattro brocche (cucumae) di colore diverso e il prezzo delle varie qualità di vino in esse contenute.
direzione di Urbana, colonia fondata da Silla e recentemente annessa a Capua; il podere Faustiniano si trova a circa 4 miglia da Cedicio, villaggio a 6 miglia da Sinuessa. Nessun vino ha oggi maggior prestigio: è l’unico infiammabile. Ne esistono tre varietà: forte, dolce e leggero. Alcuni distinguono cosí: sulla sommità delle colline si produce il Caucino, a mezza costa il Faustiniano, in basso il Falerno. Non bisogna dimenticare però che nessuna delle uve che dànno vini cosí celebrati ha un sapore gradevole. Il terzo posto hanno raggiunto a vario livello i vini Albani, prodotti vicino Roma, molto dolci e raramente forti, come pure quelli di Sorrento, prodotti esclusivamente nei vigneti, indicatissimi nelle convalescenze per la loro leggerezza e le loro
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proprietà benefiche. Tiberio Cesare sosteneva che i medici si erano messi d’accordo per conferire celebrità al vino di Sorrento, che di per sé era solo un aceto di qualità: Caio Cesare [Caligola], che gli succedette, definiva quel vino uno “svanito” illustre. Sono in rivalità i vini del Massico e quelli prodotti dai vigneti che sul monte Gauro sono prospicienti a Pozzuoli e Baia. Infatti i vini dello Statano, confinanti col Falerno, hanno raggiunto un indiscutibile primo posto, dimostrando anche con evidenza che ogni terreno ha il suo momento propizio, la sua ascesa e il suo declino. Gli si anteponeva di solito il vino di Cales, prodotto in terreni contigui, quello di Fondi proveniente da vigne arbustive e non, e altri vini delle parti di Roma, cioè quello di Velletri e di Priverno.
Quanto poi al vino prodotto a Segni, per la sua asprezza eccessiva, che è utile ad astringere l’intestino, si può annoverare tra le medicine. I vini Mamertini, prodotti intorno a Messina, in Sicilia, hanno conseguito il quarto posto, durante pubblici banchetti, a giudizio del divino Giulio [Cesare], che infatti fu il primo a dar loro rinomanza, come si evince dal suo epistolario; tra essi la maggior rinomanza va al Potulano, cosí chiamato dal nome del suo creatore, la cui zona di produzione è la piú vicina al continente. Ancora in Sicilia apprezzati sono i vini di Taormina le cui bottiglie sono sovente spacciate per Mamertino. Per quanto riguarda le altre qualità si possono citare, sul mare Adriatico, il Pretuziano, il vino prodotto nella zona di Ancona e quelli che la nascita casuale di una palma nel podere ha fatto denominare “vini della palma”; nell’entroterra poi i vini di Cesena e i Mecenaziani, nel Veronese ancora i Retici, che Virgilio ha posposto al solo Falerno, quindi nella parte piú interna del mare Adriatico i vini d’Atri; sulla costa del Tirreno invece i vini dell’agro Latino, quelli di Gravisca e quelli di Statonia. Tra i vini d’Etruria la palma va a quello di Luni, tra quelli della Liguria a quello di Genova, nella zona tra le Alpi e i Pirenei al vino di Marsiglia, che presenta due varietà delle quali la piú corposa, detta anche “sugosa”, serve a tagliare gli altri vini. La rinomanza dei vini di Bézier rimane entro i confini delle Gallie. Sugli altri vini della Narbonese non si può dire nulla, poiché è stata allestita una fabbrica per colorarli affumicandoli e volesse il cielo non anche con erbe e ingredienti nocivi! Infatti i commercianti usano perfino l’aloe per alterarne il gusto e il colore. Invero però anche i vini delle regioni d’Italia dalla parte del mare Ausonio non mancano di fama: cosí i vini di Taranto, di Servizia e ancora quelli prodotti a Cosenza, a Tempsa, quelli della Calabria [l’odierno Salento], nonché i vini lucani, primi fra tutti quelli di Turii. Ma i piú famosi di tutti questi, per aver guarito Messalla Potito, sono quelli di Lagaria, non lontano da Grumento. La Campania ha da poco fatto salire il pregio di vini dal nome nuovo, non si sa se grazie a una corretta coltivazione o al semplice caso: il Trebellico a quattro miglia da Napoli, il Caulino vicino a Capua e il Trebulano nell’agro omonimo; del resto, per quanto concerne i vini comuni, questa regione non ha mai cessato di andar famosa per i Trifolini».
a.C.) e venivano gelosamente conservate in cantine che nelle domus piú ricche potevano assumere dimensioni ragguardevoli: si diceva che quella di Ortensio, alla sua morte, contenesse 10 000 anfore! L’onnipresenza del vino nella vita romana si spiega anche considerando che il suo consumo corrispondeva alle funzioni oggi assolte dall’assunzione di altri tipi di bevande, alcoliche o meno (per esempio il tè o il caffè). Benché alcuni scienziati antichi avessero affinato macchinari per la distillazione dell’acqua e forse ad Alessandria circolassero veri e propri alambicchi, la distillazione non fu mai applicata a liquidi fermentati: pertanto non circolavano liquori, né grappe, né acquaviti.
Un mondo in fermento Erano invece diffusi, soprattutto fuori dall’Italia, vari tipi di birra, bevande ottenute grazie alla fermentazione in acqua di cereali, con aggiunta di sostanze aromatiche. L’area in cui se ne faceva l’uso piú massiccio, anche in contesti cittadini, era l’Egitto. Ma questa birra, di cui conosciamo abbastanza bene il processo di fabbricazione (diverso dal nostro), era completamente differente da quella che beviamo noi: poco spumeggiante, torbida e poco «chiara», dal sapore frizzante. Altrettanto si può dire per le birre prodotte nelle campagne delle province europee: nei Balcani, in Gallia, in Iberia. Nelle città mediterranee spesso queste bevande erano percepite come «vini d’orzo» o «di grano», quindi semplicemente come bevande analoghe al vino ma di livello inferiore all’originale; come accadeva per i «vini di frutta», derivanti dalla fermentazione di pere, cotogne, melograni e datteri. Un ruolo importante nella nutrizione era ricoperto poi dalle bevande «povere», ottenute dalla spremitura di vinacce, o dalla miscela di acqua e aceto: dissetanti e corroboranti, anche se non particolarmente saporite, da bere nelle pause di lavoro e non durante i pasti. Frequente era anche il ricorso alle miscele di acqua e miele, non sempre fermentate. Nelle campagne infine era diffuso l’uso di bere il latte (di pecora).
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Caldi, secchi, freschi e umidi... TRA I ROMANI ESISTEVANO LA BULIMIA, L’OBESITÀ O L’ALCOLISMO? E COME SI VALUTAVANO LE PROPRIETÀ CURATIVE DI ALCUNI ALIMENTI RISPETTO AD ALTRI? NONOSTANTE L’OVVIA ASSENZA DI CONOSCENZE CHIMICHE E BIOLOGICHE, I MEDICI ANTICHI GIÀ RACCOMANDAVANO UNA DIETA EQUILIBRATA. BASATA, PERÒ, SU CRITERI MOLTO DIVERSI DAI NOSTRI…
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La bottega del vinaio, olio su tavola di Lawrence Alma-Tadema. 1869-1874. Londra, Guildhall Art Gallery.
er individuare le caratteristiche e le carenze dell’alimentazione romana, e in particolare di quella degli ambienti poveri, l’archeologia si avvale sempre piú spesso dei paleopatologi, esperti che studiano i reperti umani e che riescono a ricavare informazioni sulla dieta dei nostri antenati basandosi, per esempio, sull’altezza degli scheletri, o sullo stato della loro dentatura, oppure sulla composizione chimica delle ossa. Alcune necropoli sono state analizzate a fondo in questa prospettiva, ma si tratta comunque di campioni da cui non si possono arguire facili generalizzazioni. Il quadro fornito da queste analisi, confrontato con le testimonianze letterarie, suggerisce in ogni caso che il comportamento alimentare diffuso nelle aree urbane dell’impero, o quanto meno in Italia, doveva essere caratterizzato da un consumo relativamente alto di frutta e verdura (e dunque da un’assunzione discreta di vitamine e fibre). Il fabbisogno proteico era assicurato dalla notevole presenza dei legumi; piú modesto il peso della carne e dei derivati dal latte. L’apporto calorico doveva essere fornito soprattutto dai cereali. I grassi erano pochi: quasi sempre si trattava d’olio d’oliva. La tendenza a sovralimentarsi, cosí tipica della nostra epoca, non sembra riguardasse la
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massa della popolazione, forse agevolata anche dall’assenza di quel bombardamento pubblicitario che oggi induce al consumo di cibi altamente calorici. Del resto, a Roma, l’obesità era stigmatizzata negativamente, soprattutto per il suo risvolto morale, come spia dell’incapacità di autodisciplina alimentare. Questa avversione al grasso, benché a noi risulti quasi ovvia, non è un atteggiamento scontato: in alcuni ambienti aristocratici etruschi, per esempio, s’era radicata al contrario la tendenza a mostrare con orgoglio la propria pinguedine, sintomo di ricchezza e successo. D’altra parte, non siamo sufficientemente informati sulla diffusione di fenomeni come l’anoressia nervosa, o la bulimia; cosí come mancano indicazioni sull’alcolismo come malattia sociale. Già allora, infatti, l’assunzione di vino (e, fuori dall’Italia, di birra) era collegata a fattori psicologici oltre che nutrizionali: il suo potere inebriante e tonificante (cioè la capacità di alterare i processi psicologici del pensiero e di restituire energia alle persone stanche o depresse) ne stimolavano l’uso e l’abuso nelle piú varie situazioni, dalle feste private ai cerimoniali religiosi. La riprovazione sociale era ambigua: in caso di reato, lo stato di ebrezza era considerato un’attenuante e non un’aggravante. Tuttavia, benché la letteratura antica ci abbia lasciato un numeroso resoconto di solenni ubriacature, dalle testimonianze in nostro possesso non si riesce a quantificare la consistenza degli alcolizzati cronici.
I consigli dei dietologi Erudito d’età tiberiana, Aulo Cornelio Celso fu l’autore di una sorta di enciclopedia di cui ci sono rimasti i volumi relativi alla medicina. L’importanza che la dietologia, accanto alla chirurgia e alla farmacia, riveste in queste pagine è illuminante. Benché i medici antichi non sapessero determinare il valore nutritivo degli alimenti dal punto di vista chimico e biologico, né conoscessero correttamente il meccanismo della digestione, tuttavia
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A differenza degli Etruschi, i Romani consideravano negativamente l’obesità, soprattutto perché vista come spia dell’incapacità di autodisciplina alimentare Brocca e bicchiere in vetro di epoca romana. Tel Aviv, Eretz Museum, The Eretz Israel Glass Pavilion. Nella pagina accanto statua di vecchia ebbra, da Roma, via NomentanaS. Agnese. Copia romana di un originale greco di epoca ellenistica. Roma, Musei Capitolini.
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percepivano empiricamente i vantaggi che un buon regime alimentare apporta alla salute delle persone e perciò lo prescrivevano incessantemente come sistema per prevenire ogni sorta di malessere fisico e psicofisico. Come i nostri dietologi, anche i medici antichi insistevano sulla necessità di una dieta equilibrata: ma mentre noi pensiamo a un corretto proporzionamento fra le proprietà nutritive (proteine, carboidrati, grassi, vitamine, sali, acqua), per loro, portatori di una concezione umorale del corpo, si trattava di bilanciare la presenza delle qualità (calore, secchezza, freddo, umidità) connesse ai quattro fluidi corporei (bile gialla, bile nera, flemma e sangue). Cibi e bevande erano classificate in caldi, freschi, secchi, umidi; ma il trattamento culinario poteva alterarne la natura: per esempio gli alimenti umidi se tostati si trasformavano in secchi. Alle persone «umide» venivano prescritti cibi secchi, ai «caldi» cibi freschi; e cosí via.
L’importanza delle stagioni Naturalmente le caratteristiche degli alimenti venivano dedotte empiricamente, senza alcun tipo di ricorso ad analisi chimiche. Le diete venivano personalizzate in base al sesso, all’età (per esempio il medico Galeno sconsigliava agli anziani il consumo di farro, formaggi, uova sode, lenticchie, carne di maiale), alla professione. Inoltre si teneva sempre conto della stagione. Celso suggeriva per esempio di mangiare preferibilmente carne arrostita in inverno e lessata in estate: «È necessario valutare le stagioni dell’anno. D’inverno conviene mangiare abbondantemente, bere di meno, ma piú puro, fare uso di molto pane, della carne, preferibilmente arrostita, moderatamente delle verdure (...) In primavera si deve togliere un po’ al cibo e aggiungerlo alle bevande, si deve mangiare piú carne e piú verdure, ma passare a poco a poco dalla
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carne arrostita a quella lessata (...) Nell’estate il corpo ha bisogno di assumere cibo e bevande con piú frequenza, quindi è opportuno fare anche colazione. Sono adatte a questa stagione la carne, le verdure, le bevande molto diluite, in modo che tolgano la sete e non brucino il corpo; in sostanza lavarsi con acqua fredda, usare carne lessa e cibi freschi o che rinfreschino (...) Durante l’autunno, a causa della variabilità del clima, il pericolo è massimo (...) conviene mangiare un po’ piú abbondantemente e bere piú puro». In linea generale, si può affermare che venivano consigliate una certa varietà e moderazione e che si tendeva a suggerire l’assunzione di cibi cotti.
Disturbi e rimedi Nell’antichità classica la scienza medica non raggiunse un grado particolarmente sofisticato di conoscenze teoriche. Sebbene davanti a ferite, o fratture di ossa, i medici fossero in grado di effettuare interventi chirurgici di sorprendente qualità, in genere non erano altrettanto abili nel prescrivere cure e terapie. In ogni caso, anche di fronte a disturbi gastro-intestinali, o in presenza di affezioni risultanti da carenze alimentari, i malati, piuttosto che farsi visitare, tendevano a ricorrere a farmaci, a pratiche dietetiche o a medicamenti consigliati loro dai familiari. A tutti i livelli sociali, infatti, era diffuso e radicato un sapere farmacologico tradizionale, di origine contadina, trasmesso di padre in figlio (sulla cui validità è lecito esprimere qualche dubbio). In questo sapere farmacologico un ruolo preponderante era riservato agli alimenti, che spesso fungevano da vere e proprie medicine. È noto, per esempio, che Catone considerava il cavolo un ottimo antidoto contro il mal di testa, il mal d’occhi, l’insonnia, l’indigestione e un gran numero di altri disturbi e ne consigliava di (segue a p. 92)
Rilievo funerario raffigurante l’ostessa Sentia Amarantis che spilla vino da una botte. II-III sec. d.C. Mérida, Museo Nacional de Arte Romano. L’introduzione di botti di legno si deve alle popolazioni celtiche.
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La dieta della nutrice
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ell’antichità, nei casi in cui le cui madri non avessero potuto (per questioni di salute) o, piú semplicemente, non avessero voluto sostenere l’allattamento dei propri bambini, era diffusa, soprattutto nelle famiglie piú abbienti, la consuetudine di affidare i neonati a donne che li allattassero direttamente al proprio seno al posto delle mamme. I medici sapevano infatti che la salubrità e le proprietà nutritive del latte umano sono indiscutibilmente superiori a quelle del latte animale e pertanto consigliavano in questi casi di ricorrere a una nutrice. Tuttavia, poiché la digeribilità, il sapore e, in sostanza, la ricchezza nutritiva del latte dipendono direttamente dal tipo di alimentazione sostenuta, essi suggerivano di riporre il massimo dell’attenzione nell’imporre alla nutrice una dieta speciale. Sorano di Efeso, un medico vissuto nel II secolo d.C., esperto di ginecologia e ostetricia, i cui libri continuarono a essere studiati fino al Rinascimento,
suggeriva a questo proposito di obbligare la nutrice a seguire una dieta ricca di alimenti ben conditi e facilmente assimilabili e di evitare invece porri, cipolle, aglio e ogni tipo di alimento conservato sotto sale, per non inacidire il latte: «L’alimentazione della nutrice dovrà essere regolamentata da un piano prestabilito. I primi sette giorni – al massimo i primi dieci – mangerà piatti semplici e digestivi, come pappe liquide, purè di legumi, pochi grassi, uova, pane, bevendo acqua. Se possibile, questa alimentazione dovrebbe cominciare già un giorno prima dell’inizio dell’allattamento, in modo che il latte divenga piú leggero e assimilabile. Questo è il tipo di latte di cui abbisogna il neonato, ancora delicato e con l’apparato digerente serrato. Una volta passata la prima settimana, la nutrice prenderà un po’ di pesce tenero contemporaneamente a quei piatti che ho descritto, oppure carne di maialetto o cervella, e questo fino al termine della seconda o terza
settimana. In questa maniera il latte si arricchirà di proprietà nutritive. Alla fine di questo periodo, cioè quando il bambino si irrobustisce e può ricevere alimenti già piú sostanziosi, la nutrice potrà prendere anche uccelli di media misura. Piú tardi, mano a mano che il bambino aumenta di forza e di peso, uccelli di misura maggiore. Successivamente carne di lepre, capriolo, capretto e, piú tardi, porco, poiché il latte generato da sostanze piú nutrienti è – ovviamente – piú nutriente. Dopo questo periodo, si alimenterà in maniera varia, in modo da abituare anche il bambino a proprietà nutritive varie. Di fatto, le caratteristiche degli alimenti assorbiti si ritrovano nel latte. (...) La nutrice dovrà bere acqua per almeno i primi quaranta giorni, poi per due o tre giorni una certa quantità di acqua miscelata con miele. Una volta che il bambino si sia irrobustito e che un regime alimentare gli abbia fornito un buon colorito, la nutrice potrà bere un po’ di vino chiaro».
Divertenti giocattoli o killer silenziosi?
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ur in assenza di dati statistici, dalle testimonianze in nostro possesso ricaviamo l’impressione che la società romana era colpita a tutti livelli da una alta mortalità infantile. È plausibile che le malattie diarroiche o della nutrizione incidessero percentualmente in maniera significativa sul numero di vittime. Sull’ampiezza di questo fenomeno dovevano tuttavia incidere altri fattori socio-sanitari, come l’incapacità di protezione dal freddo o da
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altri agenti atmosferici pericolosi; la mancanza di igiene; l’addensamento abitativo con conseguente facilità di trasmissione delle infezioni; la disattenta sorveglianza dovuta a una difficile organizzazione della vita familiare. Sappiamo comunque che gestire l’allattamento e in genere l’alimentazione dei neonati comportava diverse difficoltà. A questo proposito è interessante sottolineare la diffusione di un particolare tipo
di oggetti, che noi classifichiamo come gutti tintinnabula e che ritroviamo generalmente deposti come corredo funerario all’interno di tombe di neonati. Si tratta di piccoli recipienti di terracotta dalla sagoma affusolata e con un piccolo manico, dalla doppia funzione di poppatoio e di sonaglio. Avevano generalmente la forma di animali: soprattutto maialini o cagnolini, ma anche topini, o cavalli, con occhi e orecchie pronunciati; ed erano colorati in
A sinistra affresco raffigurante una madre mentre allatta il figlio, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso poppatoio in vetro d’epoca tardo-romana, da Nidda (Germania). 500 d.C. circa. Omaha, University of Nebraska Medical Center, The Alberts Collection.
maniera sgargiante. Attraverso un minuscolo foro di uscita posto al vertice della punta, il neonato poteva succhiarne il contenuto, latte o acqua, versato nel «biberon» da un foro piú grande, che doveva poi essere tappato con sughero o altro. All’interno del poppatoio si trovavano una o piú palline di terracotta. Quando il contenitore veniva svuotato e agitato, sbattendo sulle pareti, esse provocavano un simpatico tintinnío. Dal punto di vista
igienico, si tratta però di manufatti che oggi susciterebbero qualche perplessità, poiché non si poteva certo sterilizzarne il beccuccio, e che dovevano anche risultare difficili da sciacquare; ma del resto anche i primi biberon moderni in bottiglia di vetro e tettarella di caucciú, nell’Ottocento, non sarebbero stati in linea con le nostre attuali normative sanitarie.
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A sinistra amuleto in steatite con il dio Chnoubis su un lato e, sull’altro, in greco, una formula contro le malattie dello stomaco, dall’Egitto. Ann Arbor, University of Michigan, Kelsey Museum of Archaeology. A destra lo scheletro di una giovane che le analisi paleopatologiche suggeriscono soffrisse di celiachia, da Cosa. II sec. d.C. Nella pagina accanto tubo in piombo con valvola di epoca romana. Nîmes, Musée des Beaux-Arts.
conseguenza l’impiego continuo. Non poche inoltre erano le persone disposte ad affidarsi a quei personaggi, un po’ guaritori un po’ stregoni, che giravano suggerendo ai malati le piú strambe strategie terapeutiche, dai digiuni all’assunzione di piatti a base di interiora di animali domestici. Il piú diffuso sistema di protezione contro ogni tipo di malore fisico, compresi dunque quelli originati da una cattiva
o scorretta alimentazione, consisteva comunque nel ricorso alle potenze soprannaturali, evocate tramite scongiuri, preghiere, formulari magici o sacrifici rituali. Molti, per sentirsi sicuri, si servivano di talismani e amuleti, vale a dire di oggetti (in genere pietre preziose) che, secondo le persone che credevano nella loro efficacia, sarebbero stati in grado di proteggere da
L’avvelenamento da piombo: un sospetto antico
«L’
acqua che passa per le tubazioni di argilla è piú sana di quella immessa in tubature di piombo, poiché sembra che il piombo sia pericoloso a causa della biacca che ne deriva. Si dice infatti che questa sia dannosa al fisico umano. E se è dunque dannoso il derivato, non può indubbiamente far bene alla salute nemmeno la sostanza in sé. Un esempio è fornito da quelli che lavorano il piombo, i quali hanno un colorito pallido della pelle. (...) Per questo se vogliamo avere dell’acqua che sia benefica alla salute, appare del tutto poco opportuno incanalarla attraverso
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tubature di piombo». Come testimonia questa pagina dell’architetto Vitruvio, attivo nel I secolo a.C., già in età romana esistevano forti sospetti sulla tossicità del piombo, che per il basso costo e la facile malleabilità era un metallo usatissimo, non solo per fabbricare recipienti, giocattoli, statuette votive, gettoni, proiettili e altri oggetti, ma anche per le tubature degli acquedotti e per le pareti delle cisterne. Generalmente, per la verità, il piombo delle condutture non si scioglie meccanicamente a contatto con l’acqua e dunque non risulta cosí pericoloso: è però possibile che, in presenza
La prima celiaca della storia?
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el marzo 1998, nei pressi di Cosa (Ansedonia), vicino Orbetello, è stato casualmente rinvenuto, all’interno di una tomba risalente al I-II secolo d.C, lo scheletro ben conservato di una ragazza di 18-19 anni, corredato di monili in oro e bronzo. La ricchezza dei gioielli ha subito indotto a supporre che si trattasse di una giovane di famiglia agiata, senza problemi di sussistenza. Tuttavia, l’analisi dello scheletro ha rivelato un quadro di forte deperimento fisico della giovane. Questo è quanto suggeriscono non solo la bassa statura (neanche un metro e mezzo) e la gracile costituzione, ma anche la presenza di una serie di indicatori di stress nutrizionale: in particolare alcune caratteristiche porosità delle ossa e l’ipoplasia dello smalto dentario. Questi elementi hanno fatto supporre che la ragazza fosse affetta da celiachia. La plausibilità dell’ipotesi è stata confermata e anzi valorizzata dai genetisti del Centro di Antropologia Molecolare per gli studi sul DNA antico dell’Università di Tor Vergata, che sotto la guida di Antonio Gasbarrini (direttore della UOC di Medicina Interna e Gastroenterologia del
Policlinico A. Gemelli di Roma) nel 2012 hanno analizzato il DNA estratto da un frammento di ossa della ragazza, riuscendovi a individuare la presenza del gene DQ2.5, una delle tre varianti del gene HLA di classe II considerate responsabili della predisposizione genetica alla malattia. Successive analisi condotte sulla composizione isotopica dell’azoto e del carbonio in alcuni frammenti ossei hanno suggerito, grazie al confronto con indagini svolte su altri scheletri della zona, di ipotizzare che la ragazza fosse sottoposta a una dieta particolare, forse nel tentativo di alleviare i sintomi della malattia. La sintomatologia della celiachia (pallore, diarrea, dolore addominale) venne descritta da Areteo di Cappadocia, medico greco attivo in età imperiale. Areteo tuttavia non immaginò che ci fosse un collegamento fra la malattia e l’assunzione di grano (pensava piuttosto che ci fosse un legame con un eccessivo consumo di acqua fredda…). Del resto, il rapporto fra intolleranza al glutine e celiachia è stato dimostrato scientificamente solo da una settantina d’anni.
specifiche malattie chi li avesse tenuti con sé, magari legati al collo. Fra questi «portafortuna sanitari», rinvenuti in gran numero negli scavi archeologici, una quota particolarmente consistente è risultata quella destinata a combattere i disturbi digestivi, come una piccola ematite conservata oggi al British Museum, sulla quale erano incise da un lato l’immagine di un demone con testa mostruosa
e, dall’altro, l’iscrizione «Stomaco, digerisci!». Accanto alla farmacologia domestica, fatta di tisane, zuppe e scongiuri, esisteva nelle città romane anche una pratica farmaceutica di erboristi e bottegai, che lavoravano soprattutto sulle piante medicinali, producendo in serie pozioni e pietanze medicamentose, che poi vendevano a (segue a p. 97)
di acque molto acide, con una scarsa velocità di scorrimento e una temperatura non bassa, il piombo si lasciasse erodere facilmente, liberando sostanze nocive e determinando di conseguenza, fra i bevitori piú accaniti, alcuni casi di saturnismo (una malattia talvolta mortale, caratterizzata da coliche, pallore, disturbi renali, in alcuni casi sterilità). La portata del fenomeno, che in passato è stata a volte ingigantita fino a essere considerata una delle cause del crollo dell’impero romano, va comunque ridimensionata.
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Un mal di pancia imbarazzante
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tando alle testimonianze letterarie in nostro possesso, sembra proprio che la dissenteria costituisse uno dei disturbi di cui la popolazione romana soffriva piú frequentemente. I suoi attacchi colpivano senza pietà, e senza rispetto per le gerarchie sociali. Particolarmente significativo e divertente, a questo riguardo, risulta un imbarazzato resoconto epistolare di Cicerone (che del resto, secondo il suo biografo Plutarco, «era esile, magro e debole di stomaco»): di ritorno da un banchetto organizzato secondo tutti i crismi
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imposti dalle leggi suntuarie (che imponevano limiti al consumo di carne e pesce) dal collegio sacerdotale degli àuguri in casa di Lentulo, l’oratore venne infatti colto da un malore cosí intenso da tenerlo bloccato diversi giorni nella sua villa di Frascati, maledicendo quel ricercato menú vegetariano cui lui, uomo dai gusti alimentari piuttosto semplici, s’era adeguato con eccessivo entusiasmo: «Mi sono rifugiato da dieci giorni nel Tuscolano, perché da dieci giorni soffro di violente coliche (...), son dovuto restare a casa, rispettando
Particolare del coperchio del sarcofago etrusco «dell’Obeso», da Chiusi. II sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Il pingue proprietario del sarcofago è immaginato mentre partecipa a un banchetto.
un digiuno cosí rigoroso da inibirmi anche un goccio d’acqua (...). Non chiederti poi meravigliato donde mi sia piovuto questo malanno o in che modo me lo sia procurato: la colpa è tutta della legge suntuaria che dovrebbe averci spinti alla frugalità. Codesti nostri buongustai per rimettere in onore i frutti della terra, che non cadono sotto la legge, hanno trovato la maniera di insaporire i funghi, i legumi, le erbette in modo da renderli gustosissimi. Caduto su codeste raffinatezze in una cena augurale in casa di Lentulo, mi sono buscato
una diarrea violenta che oggi soltanto mi pare stia per cessare. E cosí io, che rinunzio senza fatica alle ostriche e alle murene, mi son lasciato ingannare dalla bietola e dalla malva. Sarò piú cauto in avvenire. Ma tu, tu che hai saputo da Anicio le mie condizioni di salute – egli infatti mi ha veduto sotto l’effetto del... mal di mare –, avresti ben potuto, mi pare, mandar a chiedere mie notizie o venirmi a trovare. Io faccio conto di fermarmi qui finché mi sarò ripreso, perché ho perduto le forze e sono tutto ossa».
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Quella polverina sospetta...
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abrata, Africa settentrionale, anno 158 o 159 d.C.: il conferenziere di successo Lucio Apuleio è sottoposto a processo, con l’accusa d’essere un mago, autore di sortilegi e fatture. In tribunale, fra gli altri capi d’accusa, viene introdotto un biglietto scritto dallo stesso Apuleio, dal quale si dedurrebbe la sua implicazione in un traffico di polverine bianche, dalla provenienza sospetta, da impiegare in strane attività: ma si tratta, ribatte l’imputato, nientemeno che di polvere per sbiancare i denti! «Hanno letto, tra le mie poesie
scherzose, una lettera che ho mandato in versi, a proposito di un dentifricio, a un certo Calpurniano, il quale, quando esibí per danneggiarmi quella mia lettera, non capí certamente, tutto preso com’era dal desiderio di nuocermi, che se in qualcosa potevo essere incriminato per quei versi, altrettanto si poteva fare con lui. Infatti questi versi dichiarano che proprio lui mi aveva domandato qualcosa per pulirsi i denti: “Ti saluto, Calpurniano, con versi veloci. / Ti mando, come mi hai richiesto, la pulizia dei tuoi denti, / lo
splendore della bocca che ti procurano le messi d’Arabia, / una sottile, candeggiante, nobile polverina, / che spiana il gonfiore della gengiva tenerella, / che spazza le reliquie di ieri, / perché non si veda qualche bruttura di sporco, / caso mai tu rida con le dolci labbra dischiuse”». Nell’antichità infatti l’igiene orale (per chi la praticava) si esauriva in una sommaria pulizia della dentatura tramite sfregamento e nell’uso di polveri sbiancanti e di pastiglie profumate per combattere l’alito cattivo.
Ex voto in terracotta in forma di bocca con i denti. Londra, Wellcome Collection.
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A destra e in basso particolari del mosaico detto «di Leda» raffiguranti due servitori che portano vassoi di vivande. 350-400 d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum Trier.
chiunque si affacciasse al loro negozio, senza alcun controllo da parte delle autorità e senza alcun bisogno di prescrizioni da parte di medici. I composti farmaceutici circolavano poi liberamente, chiusi nei loro barattoli. Di alcuni di questi vasetti, rinvenuti nel corso
degli scavi di un accampamento fortificato nei pressi di Essen, in Germania, e risalenti all’inizio del I secolo d.C., si sono salvati i coperchi, in piombo, sui quali era stato inciso il nome della sostanza contenuta (uno, per esempio, racchiudeva «estratto di radice britannica», vale a dire un farmaco derivato da una pianta che noi oggi non siamo in grado di identificare ma che veniva utilizzato, come sappiamo da altre fonti, per combattere lo scorbuto). Dal canto loro, i medici erano in grado di prescrivere ricette particolari per ogni tipo di disturbo, come questa destinata a lenire il mal di stomaco, tramandataci dal «libro di medicina», un testo in demotico del II secolo d.C.: «Ricetta per cuocere della carne adatta a guarire dalla indisposizione di stomaco. Giaggiolo, carne di piccione nel mezzo, che sia cotta con oca, finocchio, una misura di fave, acqua calda, polvere assorbente, infuso di grano, due palle di cicoria; triturare finemente, filtrare, bere».
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Il Sarcofago dell’Annona, da una camera sepolcrale posta nel tratto iniziale della via Latina, non lontano dalla porta omonima. 270 d.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. La seconda figura da sinistra è stata appunto identificata con la dea Annona e lo strumento impugnato dalla divinità nella mano destra sarebbe una tessera frumentaria, il documento che dava diritto ad accedere al grano pubblico.
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Pane in cambio di consenso MALNUTRIZIONE E CARESTIA NON ERANO FENOMENI RADICATI NELLA SOCIETÀ ROMANA, SOPRATTUTTO GRAZIE A UN EFFICIENTE SISTEMA DI CONTROLLO DEGLI APPROVVIGIONAMENTI ALIMENTARI. L’ECCEZIONE ERA RAPPRESENTATA DA MOMENTI DI INSTABILITÀ POLITICA E MILITARE…
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Roma come ovunque, la convivialità rappresentava anche un momento di comunicazione politica. Esibire le proprie ricchezze, in termini di capacità di spesa e di lusso degli arredi, rientrava in una strategia di propaganda personale attraverso la quale i membri delle famiglie piú ricche cercavano di rimarcare il proprio successo e consolidare il proprio prestigio. Soprattutto chi coltivava Moneta in bronzo con l’Annona e la dea Cerere, opera di Giovanni da Calvino (1500-1570), artista che, fra l’altro, si specializzò nella riproduzione di medaglie ispirate a pezzi antichi. Washington, National Gallery of Art.
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POLITICA
ambizioni politiche, anche a livello locale, tendeva perciò a organizzare cene aperte a un elevato numero di invitati. Sappiamo, per l’età tardo-repubblicana, di veri e propri banchetti politici, di propaganda elettorale, in cui circolava vasellame sul quale erano incisi il nome del candidato e l’esortazione ad andarlo a votare. Anche la celebrazione dei funerali di un
Iscrizione per un prefetto dell’annona fatta collocare dalla corporazione dei mercanti di frumento e olio africano (afrari). Roma, Museo Nazionale Romano.
Un’apposita prefettura, l’annona, vigilava sul buon funzionamento dell’approvvigionamento della città
membro importante della propria famiglia poteva dare l’occasione per offrire ai concittadini un pasto comune. Del resto, in alcune circostanze, i magistrati stessi erano moralmente obbligati a organizzare, a proprie spese, banchetti pubblici (epula): per esempio per celebrare la propria entrata in carica, o in occasioni di festività religiose. Questa pratica non riguardava la sola città di Roma, ma era diffusa in tutte le comunità d’Italia e anche nelle province, ovunque vi fossero magistrati locali. Ne abbiamo un numero infinito di testimonianze epigrafiche; come per esempio quella relativa a Caio Veianio Rufo, commemorato per aver frequentemente offerto banchetti pubblici a Camerino, verso la fine del II secolo d.C.; oppure quella di Caio Titio Valentino, di Pesaro, che lasciò in testamento una somma precisa con cui organizzare ogni anno un banchetto pubblico in occasione del compleanno del figlio.Perlopiú celebrati all’aperto, nella bella stagione, questi banchetti comunitari erano di solito aperti alla intera cittadinanza adulta maschile; talvolta erano invitate anche le donne e magari i piú illustri forestieri residenti in città. In accordo con la logica politica radicata nel mondo antico, per cui oneri e onori venivano assegnati in base alla ricchezza, vi si effettuava generalmente una sorta di discriminazione sociale a vantaggio degli appartenenti ai ranghi superiori della comunità, ai quali era riservato un menú piú raffinato e abbondante. Anche nelle viscerationes, cioè nelle distribuzione alla folla delle carni ricavate dal macello degli animali sacrificati, le parti migliori venivano assegnate ai sacerdoti impegnati nel banchetto rituale.
La fame e l’abbondanza Per le fasce di popolazione piú povera questi banchetti, soprattutto per quanto riguardava il consumo di carne, rappresentavano un momento importante di integrazione e arricchimento della dieta. Ciò non vuol dire, però, che si debba immaginare, come suggerito da qualche studioso, un quadro di malnutrizione diffusa e radicata.
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Non possediamo, in realtà, dati quantitativi che ci assicurino che le campagne del mondo romano fossero in grado di produrre la quantità di frumento, ortaggi, frutta, insomma dei beni alimentari necessari a sfamarne tutta la popolazione, compresa quella, assai numerosa, addensata nei grandi centri urbani. Ma la documentazione generale induce a orientarsi in senso affermativo. È tuttavia possibile che, periodicamente, per motivi legati al cattivo tempo, oppure all’instabilità politica o
Resti organici di focacce di pane, da Ercolano. Ercolano, Depositi.
militare, la produzione o il trasporto delle merci potessero subire una forte contrazione: allora lo spettro della carestia si materializzava con tutta la sua devastante intensità, soprattutto a danno dei piú deboli. Spesso, poi, la carestia si trasformava in tumulto popolare. Di conseguenza, per evitare la nascita di disordini e sorvegliare su fenomeni di speculazione, il compito di vigilare sul flusso dei rifornimenti era affidato a specifiche cariche politiche. Nella Roma imperiale, un’apposita
Un tumulto per il pane e le sue conseguenze
I
primissimi giorni del settembre del 57 a.C., mentre Cesare portava a compimento la conquista della Gallia e le legioni romane erano ormai padrone di tutto il Mediterraneo eccetto l’Egitto, un improvviso e vertiginoso rialzo del prezzo del grano, evidente sintomo di una carestia in arrivo, si abbatté sulla città di Roma, provocando la reazione furibonda della plebe. Riversatasi nelle strade, la folla occupò la piazza davanti alla quale si sarebbero dovuti celebrare i ludi Romani. Poi, pietre alla mano, si diresse alle pendici del Campidoglio, dove minacciò i membri dell’aristocrazia senatoria, riuniti in consiglio nel Tempio della Concordia, di dar fuoco alle loro abitazioni se non avessero risolto immediatamente la questione. Il giorno successivo i senatori proposero di affidare un incarico quinquennale con poteri straordinari a Pompeo. Il tribuno della plebe Clodio, che si era messo a capo
del tumulto, li accusò allora di aver provocato ad arte la carestia per giustificare un simile provvedimento. Cicerone, che era appena rientrato dall’esilio, si schierò a favore dell’incarico straordinario. La legge passò e Pompeo divenne curator annonae, con venti collaboratori di rango senatorio e poteri eccezionali. «Porti, mercati, assegnazioni di prodotti – scrive Plutarco – in una parola tutto ciò che concerneva la navigazione e l’agricoltura passarono sotto il suo controllo». Pompeo si dimostrò efficace come sempre. L’afflusso di grano tornò velocemente alla normalità. I poteri eccezionali furono dismessi. Ma esperienze come queste contribuirono a radicare la tendenza a risolvere le difficoltà di gestione dei problemi politici attraverso l’attribuzione a un singolo di poteri straordinari. La via al principato era aperta.
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POLITICA
La giusta misura
A
nche nel mondo romano i carichi di merci viaggiavano accompagnati dalla loro documentazione. L’anforetta, rinvenuta a Pompei e qui raffigurata, è uno di questi documenti e serviva a certificare genere, quantità, proprietà e trasportatore di un carico di 15 200 moggi (circa 106 tonnellate) di grano. Ma non solo, perché serviva anche a certificare, contro possibili frodi, la qualità del carico spedito. L’anforetta conteneva infatti un campione del grano trasportato, che doveva risultare conforme a quello consegnato. Sulla spalla dell’anforetta si legge:
(«Campione dei 15 200 modii del grano trasportato sulla nostra navicella da carico di proprietà di Publio Pompilio Saturo con l’insegna della Vittoria sotto la protezione di Giove e di Giunone. Comandante della nave Marco Lartidio Vitale, originario di Clupea»). Nella parte bassa del contenitore viene invece precisato il compenso spettante al trasportatore, pari a circa l’1,3% del carico:
Ante (missum) exemplar tr(itici) m(odiorum) XVCC in n(ostra) cumba AMPRI de tutela Iovis et Iuno(nis) parasemi Victoria P(ubli) Pompili Saturi. Mag(ister) M(arcus) Lartidius Vitalis domo Clupeis.
Vect(ores)estis rec(epturi) sol (ven)di (causa ?) gratis m(odios) CC. («Voi trasportatori riceverete duecento modii di grano a titolo di compenso»). Nella stessa zona, poco sotto, viene anche indicata la data in cui avvennero la consegna della merce e il pagamento pattuito: S(olutio) f(acta) pr(idie) idusOctobr(es). («Consegna avvenuta il 14 ottobre»).
prefettura, quella dell’annona, in collaborazione con gli uffici del questore distaccato a Ostia e del sovrintendente alla navigazione sul Tevere, sorvegliava il buon funzionamento dell’approvvigionamento della città, vigilando in particolare sull’arrivo di alcuni tipi di alimenti: il frumento, poi l’olio, il vino, la carne. Le dimensioni del traffico erano sbalorditive e non potevano essere lasciate al caso: è stato calcolato che, ogni anno, giungessero nell’Urbe circa 300 000 ettolitri di olio, 1 500 000 di vino, almeno 10 000 tonnellate di carne e 250 000 di cereali. Una parte di questo approvvigionamento era costituito da tributi imposti alle province, riscossi direttamente in
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Le iscrizioni dipinte su un’anforetta utilizzata come campione per il grano, da Pompei. I sec. d.C. Pompei, Depositi.
Al servizio dell’annona
F
in dalla prima età imperiale, gli armatori e i trasportatori che lavoravano per l’annona godettero di agevolazioni per indurli a non sottrarsi a questa attività. L’imperatore Claudio, per esempio, stipulò contratti che assicuravano ai proprietari di navi da carico la copertura per eventuali perdite dovute a tempeste, purché garantissero il trasporto della merce verso
natura oppure acquistati a prezzi politici imposti dall’amministrazione romana. Siamo molto bene informati sul sistema in funzione nella provincia di Egitto, dove tutti i proprietari dei terreni lavorati a cereali erano tenuti a pagare una imposta fondiaria in natura.
Navi speciali per i carichi di grano Sotto la vigilanza di esattori addetti specificamente a questa mansione, il grano veniva raccolto in magazzini pubblici, e di lí convogliato ad Alessandria, dove veniva caricato su speciali navi da trasporto che lo conducevano a Roma. I papiri ci hanno conservato una gran quantità di documenti dettagliati, spesso redatti in duplice o triplice copia, relativi a tutti i passaggi di questa operazione: dalle ricevute di pagamento dell’imposta rilasciate ai
Roma. Sulla stessa linea si pone un provvedimento ricordato nel suo libro sulle Regole da Cervidio Scevola, un giurista dell’età antonina, e riportato nel Digesto: «A coloro che abbiano provveduto alla costruzione di navi da mare della capacità non inferiore a 50 000 modii [350 tonnellate circa] o a piú navi della singola capacità di almeno 10 000 modii [70 tonnellate circa]
Ostia, necropoli di Porto. Particolare del mosaico antistante la tomba 43, in cui due navi a vele spiegate si dirigono verso un faro a quattro piani, identificabile con quello della stessa Porto.
contribuenti, agli attestati di consegna ai trasportatori che curavano la spedizione dei cereali, ai certificati di qualità redatti (in base ad analisi a campione) dai commissari di bordo che ne sovrintendevano il trasporto. Quanto al flusso commerciale privato, esistevano invece agevolazioni e obblighi concordati fra amministrazione imperiale e specifiche categorie di produttori e commercianti allo scopo di garantire l’adempimento del servizio. L’approvvigionamento di altri alimenti, come per esempio i legumi, restò invece sempre svincolato dall’annona. L’attenzione ai rifornimenti non era una prerogativa della città di Roma. In tutte le grandi città esistevano uffici appositi. Nei casi di penuria imprevista o carestia, si doveva riuscire a intercettare i quantitativi di
e le abbiano messe a disposizione dell’annona del popolo romano, sia riconosciuta l’esenzione dalle prestazioni obbligatorie a favore della comunità, per tutto il periodo in cui tali navi o altre in loro sostituzione svolgano il loro servizio». Le associazioni di mercanti navali si fregiavano del loro rapporto particolare con le autorità politiche: i loro
uffici, sparsi in tutti i porti del Mediterraneo, dovevano esporre targhe e iscrizioni come quella rinvenuta presso Beirut, in Libano, in cui si legge che il prefetto dell’annona, Claudio Giuliano, era intervenuto contro alcuni addetti dell’ufficio annonario per far rispettare le ragioni dei «membri delle cinque associazioni dei mercanti navali di Arles».
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POLITICA
Le leggi suntuarie
N
el II e nel I secolo a.C. furono varati, col sostegno del Senato, una decina di provvedimenti, le cosiddette «leggi suntuarie» (da sumptus, costo), rivolti a controllare lo sfarzo alimentare. Queste disposizioni imponevano tetti massimi alla spese per l’acquisto di vivande destinate ai banchetti (in particolare per la carne) e al numero dei convitati; e spesso limitavano l’uso di posate e vasellame d’oro e d’argento. Generalmente si consentiva una spesa superiore in occasione delle festività: spesa il cui valore venne via via aggiornato in concomitanza con l’effettivo
merci alimentari necessari a superare la crisi e rimediare le risorse utili ad acquistarli. In simili circostanze si ricorreva generalmente all’aiuto di ricchi evergeti, che anticipavano o addirittura donavano le somme occorrenti. In tutta Italia e nel territorio dell’impero iscrizioni celebrative ricordano gli interventi di questo A destra particolare di una stele funeraria ornata da un rilievo policromo raffigurante un banchetto funebre. II-III sec. d.C. Nella pagina accanto calco del rilievo con il busto del macellaio T. Iulius Vitalis. Ultimo quarto del II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà. Alla sinistra del ritratto, si vede lo stesso personaggio impegnato nella sua attività.
aumento del costo della vita. In questo modo si cercava probabilmente di depotenziare un canale di affiliazione politica difforme da quelli tradizionali, legati alle manifestazioni di capacità di comando piú che alla semplice ricchezza. Al tempo stesso si voleva forse impedire che una rovinosa spirale di competitività inducesse le famiglie aristocratiche a dilapidare i loro patrimoni, determinando un’instabilità sociale e politica incontrollabile. Come evidenza la loro stessa continua reiterazione, queste leggi si rivelarono tuttavia fallimentari.
tipo effettuati da magistrati e ricchi privati, come per esempio una piccola base marmorea ora a Perugia, risalente al 223 d.C., in cui si ricorda «Tito Elufrio Eliano, poiché nell’anno del suo quattuorvirato a proprie spese assicurò l’approvvigionamento alimentare necessario alla comunità».
Le frumentationes Garantire l’afflusso delle merci poteva però rivelarsi insufficiente. In alcune grandi città esisteva, regolare o sporadico, addirittura un sistema di fornitura gratuita degli alimenti basilari. A Roma, sin dall’età graccana si cominciarono a organizzare sistematicamente distribuzioni di grano (frumentationes) a prezzi politici. Non era un provvedimento assistenzialista e non era riservato ai poveri: la plebe lo percepiva come un diritto politico.
Nel 58 a.C. le distribuzioni divennero per la prima volta gratuite. Nel caos della tarda repubblica, però, l’amministrazione faticava a tenere aggiornati e sotto controllo gli elenchi dei beneficiari, tanto che, al termine della guerra civile fra Cesare e Pompeo, vi risultavano iscritte circa 320 000 persone. Riorganizzate da Augusto, queste distribuzioni continuarono per tutta l’età imperiale, ampliando via via il paniere di alimenti elargiti (segue a p. 108)
Un banchetto mal riuscito
L’
organizzazione di un banchetto pubblico non sempre sortiva effetti positivi. Critiche e insinuazioni potevano colpire chiunque. Si poteva essere accusati di aver ecceduto in sfarzo, o piú spesso, al contrario, d’essersi dimostrati taccagni, o di aver offerto un menú sciatto, privo di gusto e inappropriato alla ricorrenza. Per esempio, la modestia con cui, nel 129 a.C., i nipoti organizzarono il banchetto funebre per la morte dello zio, Scipione Emiliano, all’epoca il personaggio piú in vista della città, fu accolta
molto male. Uno di loro, Q. Tuberone, era il candidato superfavorito alle imminenti elezioni per la pretura. Era un uomo di spiriti stoici, forse non amava il lusso. Ma aver fatto coprire i letti tricliniari con semplici pelli di capra e non aver fatto utilizzare vasellame d’argento sembrò un atto di spilorceria e grossolanità. «Il popolo romano detesta lo sfarzo privato, ma ama la magnificenza in pubblico» sosteneva Cicerone. Anche per questo, probabilmente, contro ogni aspettativa alle successive votazioni Tuberone non riuscí eletto.
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POLITICA
Contro la prepotenza degli esattori
L
a documentazione papiracea conservata dalle sabbie del Fayyum è incredibilmente ricca e spesso ci consente di ricostruire, al di là dei semplici meccanismi burocratici che regolavano la vita della provincia egiziana, anche vivaci scenari di vita quotidiana. Quella che segue è la ricevuta della denuncia sporta da un contadino contro quello che a suo avviso si sarebbe configurato come abuso da parte dei funzionari addetti alla raccolta del grano destinato come tributo alle casse imperiali. La contestazione in questo caso fu indirizzata al centurione che, in qualità di responsabile dell’ordine pubblico, esercitava la giurisdizione nei singoli villaggi. Lo scriba che stilò il verbale dovette attestare l’identità del querelante, che era analfabeta. L’artaba era l’unità di misura di capacità per aridi utilizzata in Egitto, equivalente grossomodo a una quarantina di litri. Il papiro, rovinato in alcuni punti, risale ai primi di giugno del 193 d.C.: «Ad Ammonio Paterno, centurione, reclamo sporto da Syrus figlio di Syrion,
soprannominato Petekas, della metropoli [Arsinoe]. Io e mio fratello abbiamo consegnato nel mese di Pauni tutte le quote di cereale pubblico [cioè quello dovuto gratuitamente per tributo] che dovevamo, e allo stesso modo per quanto riguarda i contributi impostici nel villaggio di Karanis abbiamo consegnato nove artabe su dieci. Ora, a causa di quell’unica artaba mancante, gli esattori di cereale pubblico Peteesis figlio di Tkelo e Sarapion figlio di Maron e il loro scrivano Tolemeo, insieme con il loro assistente Ammonio, sono piombati a casa mia mentre ero nei campi e hanno strappato un mantello dalla schiena di mia madre e l’hanno spinta (...) Perciò, poiché in conseguenza di questo fatto lei si trova costretta a letto (...) ed è impossibilitata a (...) richiedo che essi ti vengano portati davanti, in modo che attraverso di te io possa ottenere giustizia. Saluti. Descrizione dell’aspetto – giacché dice di essere analfabeta: 47 anni di età, cicatrice sul ginocchio destro. Anno 33 del sovrano Aurelio Commodo Cesare, giorno 8 del mese Pauni».
In questa pagina Karanis (Fayyum, Egitto). I resti del tempio in onore del dio coccodrillo Sobek, costruito al tempo di Tolomeo II. III sec. a.C. Nella pagina accanto cartine che mostrano i principali centri di produzione del vino e dell’olio e le rotte che ne garantivano il trasporto fino a Roma.
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Rotomagus
Durocortorum
Vino
Augusta Trevirorum
Lutetia
Augusta Vindelicorum Carnuntum
Portus Namnetus Caesarodunum
Oceano Atlantico
Porolissum Aquileia
Mediolanum
Lugdunum
Sarmizegetusa Servitium
Burdigala Arelate Massilia Nemausus
Tolosa
Brigantium Asturica
Narbo Martius
Mare Adriatico
Narona
Caesaraugusta
Naissus
Dyrrhachium
Roma
Tarraco
Sirmium
Ariminum
Florentia
Bracara Augusta
Mar Nero
Thessalonica
Mar Tirreno
Hispalis
Hippo Regius
Gades
Nicomedia Nicopolis
Mare Ionio
Panormus
Carthago Nova
Ancyra
Pergamum Smyrna Ephesus
Athenae
Mar Egeo
Carthago
Cesarea
Sinope
Byzantium
Brundisium
Emerita Augusta Olisipo
Aquincum
Augustodunum
Apamea Attalia
Tarsus Antiochia
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Banasa
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M e d i t e r r a n e o Damascus
Cyrene Alexandria
Gaza Heliopolis Petra
Rotomagus
Durocortorum
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Augusta Trevirorum
Lutetia
Augusta Vindelicorum Carnuntum
Portus Namnetus Caesarodunum
Oceano Atlantico
Lugdunum
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Mediolanum
Sarmizegetusa Servitium
Burdigala Tolosa
Brigantium
Narbo Martius
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Arelate Massilia Nemausus
Caesaraugusta
Roma
Cesarea Lambaesis
Banasa
Dyrrhachium
Mare Ionio
Panormus Hippo Regius
M
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Mar Nero
Thessalonica
Sinope
Byzantium Nicomedia
Nicopolis
Ancyra
Pergamum Smyrna
Athenae
Mar Egeo
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Carthago
Theveste
Naissus
Brundisium
Mar Tirreno
Carthago Nova
Gades
Narona Mare Adriatico Puteoli Pompei
Tarraco
Emerita Augusta
Sirmium
Ariminum
Florentia
Bracara Augusta
Olisipo Hispalis
Aquincum
Augustodunum
Ephesus
Apamea Attalia
Tarsus Antiochia
M e d i t e r r a n e o Damascus Cyrene Alexandria
Gaza Heliopolis Petra
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POLITICA
Il calmiere di Diocleziano
F
ra il 20 novembre e il 9 dicembre 301 d.C., per cercare di porre un freno all’inflazione galoppante, le autorità imperiali emisero un calmiere con lunghi e dettagliatissimi elenchi di merci accompagnati dall’indicazione del prezzo massimo consentito per la vendita. Si tratta dell’Edictum de pretiis, un documento di eccezionale importanza. Ce ne sono pervenuti piú di un centinaio di frammenti, sia in latino che in greco, che ne consentono la ricostruzione quasi totale. Il provvedimento si apriva con la solenne dichiarazione da parte dei due imperatori (Diocleziano e
Massimiano), i quali, appellandosi agli dèi e al senso di giustizia specificavano di non voler intervenire a danno del libero commercio, ma solo a tutela della popolazione esposta alle manovre degli speculatori: «Ritenemmo di dover fissare non già i prezzi delle merci – non sembra infatti che ciò si possa fare in modo giusto (…) – bensí di stabilire un limite massimo, affinché, qualora si manifestasse qualche forte rincaro dei prezzi (gli dèi allontanino questa disgrazia) l’avidità fosse vincolata nei limiti della nostra norma e nei termini della legge moderatrice». Il calmiere risultò inadeguato e l’operazione fallí:
assieme al frumento, a cui a un certo punto subentrò direttamente il pane. Non sappiamo con precisione come venissero selezionati i beneficiari, cittadini residenti a Roma tendenzialmente maschi adulti, né come si svolgessero le operazioni, che in età imperiale avevano luogo nei Portici di Minucio, in Campo
Marzio. I beneficiari si alternavano secondo un calendario prefissato, presentandosi a sportelli preordinati. Una tavoletta di marmo ritrovata a Roma e raffigurante un giovane, ci restituisce la quotidianità di questa operazione: vi è iscritto infatti «Agli Dèi Mani. Caio Vibio Celere, figlio di Caio, visse 4 anni e 11 mesi. Riceveva la sua
Contro carestia e speculazione
N
ei casi in cui le autorità locali non riuscivano a dominare i problemi causati dalla carestia potevano intervenire quelle imperiali, come avvenne per esempio ad Antiochia di Pisidia (nella provincia di GalaziaCappadocia) all’inizio in un anno imprecisato, fra l’88 e il 93 d.C. Ecco il testo dell’iscrizione che riportava il provvedimento preso dal governatore: «Lucio Antistio Rustico, inviato con i poteri di governatore dall’imperatore Cesare
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tuttavia le somme indicate ci offrono un’indicazione attendibile del valore delle singole merci, sia in termini assoluti che relativi. Il prezzo massimo del vino oscillava, a seconda della qualità, dagli 8 ai 30 denari per sestario italico (circa mezzo litro); l’olio invece da 24 ai 40 denari a sestario. Il prosciutto della miglior qualità poteva arrivare a 20 denari a libbra italica (330 gr circa), la carne di cinghiale a 16, quella di maiale, di agnello e di capra a 12 (ma il maiale salato fino a 14), le salsicce di carne bovina a 10. I ricci di mare potevano essere venduti fino a 100 denari a libbra se salati e fino a 50 se spurgati.
Domiziano Augusto Germanico, decreta: poiché i duoviri e i decurioni di Antiochia, splendidissima colonia, mi hanno scritto che a causa della durezza dell’inverno il prezzo del grano è salito alle stelle e mi hanno chiesto di fare in modo che la plebe abbia la possibilità di acquistarne, tutti gli abitanti di Antiochia, tanto i coloni quanto i semplici residenti privi di cittadinanza, entro il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione di questo mio editto
In basso un moggio (modius) in bronzo, da Carvoran, uno dei forti situati lungo il vallo di Adriano. I sec. d.C. Cholleford, Chesters Roman Fort and Museum.
1 moggio italico (misura di capacità per aridi, equivalente a quasi 9 litri) di aglio non poteva costare piú di 60 denari; 1 moggio di cipolle secche, 50. Fino a 6 denari si poteva vendere un mazzo di 50 carote di seconda qualità, o un mazzo di 25 carote di grandezza massima. 50 noci fresche o 100 secche non potevano costare piú di 4 denari. A termine di paragone, si consideri che, nel medesimo tariffario, il limite massimo di compenso giornaliero per un muratore era fissato a 50 denari; il tetto per un paio di stivali comuni di buona qualità a 120; per un asino da soma a 7000; per uno schiavo maschio fra i 16 e i 40 anni a 30 000.
In alto un frammento dell’Edictum de pretiis, il calmiere dei prezzi emanato nel 301 d.C. per iniziativa dell’imperatore Diocleziano.
dichiarino dinanzi ai duoviri della colonia di Antiochia ciascuno quanto frumento abbia e in che luogo lo tenga e quanto pensi di trattenerne per destinarlo alla semina o all’alimentazione della propria famiglia per il prossimo anno, e tutto il frumento rimanente lo metta in vendita ai commercianti di grano della colonia di Antiochia. Inoltre stabilisco che il giorno in cui queste vendite dovranno avvenire sia il primo agosto prossimo. Chi non avrà obbedito
sappia che, qualsiasi cosa si sia rifiutato di fare contro il mio editto, punirò il misfatto, dando in premio ai delatori l’ottava parte dei beni confiscati. Inoltre, poiché mi viene riferito che prima di questo inverno cosí lungo e duro il prezzo di un moggio di frumento nella colonia era di sette o otto assi e sarebbe veramente ingiusto che qualcuno approfittasse della fame dei suoi concittadini per arricchirsi, vieto che il prezzo del frumento possa superare 1 denario [=16 assi] per moggio».
razione di frumento il giorno settimo al portone 15». Altri reperti molto suggestivi sono i gettoni di piombo con impresse raffigurazioni attinenti alle distribuzioni, perlopiú moggi di grano o spighe (altrimenti animali o piante, come l’elefante africano o la palma, tipiche delle regioni produttrici di frumento). Piú che delle tessere frumentarie vere e proprie, cioè del documento attestante il diritto vitalizio alla distribuzione, si tratta probabilmente di contrassegni utili in qualche modo a partecipare a qualche elargizione, magari a quelle eccezionali. Piú tardi, dal III secolo, sono attestate a Roma distribuzioni gratuite anche di olio, poi di carne e persino di vino. Per quanto riguarda gli altri generi alimentari, cosí come per tutte le altre merci, la tendenza delle autorità rimase invece sempre quella di limitarsi a vigilare sui prezzi per evitare gli eccessi speculativi, in un panorama segnato da una svalutazione della moneta corrente continua e a tratti, soprattutto dalla fine del II secolo d.C., davvero galoppante.
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Ma il cibo non era uguale per tutti... ANCHE A ROMA L’ALIMENTAZIONE RIFLETTEVA LE DISUGUAGLIANZE SOCIALI. COSÍ, SULLE MENSE DEI SIGNORI, SI CONSUMAVANO PIETANZE INARRIVABILI PER I COMUNI MORTALI. UNA SPEREQUAZIONE QUALITATIVA, OLTRECHÉ QUANTITATIVA, CHE AVREBBE INVESTITO ANCHE ALCUNE, IMPORTANTI, CATEGORIE PROFESSIONALI…
L
o status giuridico, il rango sociale, la condizione professionale, persino il sesso e l’età condizionavano la quantità, la qualità e la modalità di consumo di cibo. Influiva innanzitutto il semplice dislivello nelle capacità di acquisto. La cucina delle case ricche (cui pure attingeva un ampio arco di ospiti, clienti e servitú) si distingueva da quella dei meno abbienti soprattutto per l’elevato consumo di carne e per i condimenti costosi, come pepe, garum, miele. Molto piú vegetariana doveva essere invece l’alimentazione tipica dei lavoratori manuali: fave, bieta, zuppe a base di aglio e cipolla. Vino e pane bianco per l’uomo di fatica restavano un miraggio: il solo sognarli, secondo Artemidoro, portava sfortuna! Meno incisiva, dal punto di vista alimentare, sembra esser stata la subalternità che caratterizzava i rapporti familiari. Non abbiamo molte informazioni, ma non sembra esistesse una gastronomia specificamente orientata all’infanzia. Sappiamo solo di alcuni biscottini particolarmente amati dai bambini. L’educazione alimentare era il riflesso di un atteggiamento moralistico: l’opinione corrente, o almeno quella riflessa nei testi di Catone, Varrone, Aulo Gellio, era che le porzioni dei ragazzi dovessero essere contenute, per
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Ricostruzione di come poteva essere apparecchiata una tavola in epoca gallo-romana (II sec. d.C.) realizzata con stoviglie e vasellame di varia provenienza. Saint-Germain-enLaye, MusÊe d’ArchÊologie nationale.
SOCIETÀ
evitare infiacchimenti. Per quanto riguarda invece la subordinazione femminile, essa emerge chiaramente dallo sbilanciamento con cui si assegnava ai maschi un quantitativo di cibo superiore a quello riservato alle femmine: uno squilibrio talmente scontato che non andava neppure giustificato. All’inizio del II secolo d.C., quando l’imperatore Traiano decise di stabilire un fondo da destinare ai giovani bisognosi (le cosiddette institutiones alimentariae), per esempio, le quote riservate ai singoli ragazzi vennero distinte per sesso: ai maschi finivano 16 sesterzi al mese; alle femmine 12. Lo stesso avveniva anche nella fondazione privata finanziata da una matrona di Terracina, Celia Macrina: in questo caso andavano 20 sesterzi al mese ai ragazzi e 16 alle ragazze. La differenziazione sessuale non si rifletteva invece nella scelta degli alimenti. Unica eccezione: il bere. Secondo alcune fonti letterarie, infatti, fino all’età repubblicana avanzata la morale convenzionale avrebbe inibito alle donne l’accesso alle bevande alcoliche. Ma è possibile che si tratti di una ricostruzione moralistica, intesa a squalificare il presente, inventando un «buon tempo antico» da rimpiangere. Non sappiamo se e in che misura il pasto riuscisse a diventare punto di aggregazione sociale anche per le donne.
Banchetti per sole donne È difficile immaginare l’esistenza di banchetti esclusivamente femminili. Abbiamo notizia per la verità di una cena ufficiale (un epulum), a spese di un evergete locale, riservato alle appartenenti a una misteriosa «curia di donne», a Lanuvio, in età imperiale. Ma è probabile che si trattasse di una forma di «associazionismo» legato ad aspetti cultuali. E nella sfera religiosa i banchetti femminili non erano una rarità. Per esempio, sappiamo che, in occasione della cena che celebrò l’ingresso di Lentulo Nigro nel collegio sacerdotale dei flamini di Marte, tenuta il 22 agosto di un anno tra il 70 e il 64 a.C., venne organizzato un triclinio riservato a sole donne: le quattro vestali piú la moglie e la suocera di Lentulo.
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Per quanto riguarda il vitto degli schiavi, la questione è piuttosto complessa. Nelle campagne, soprattutto nelle villae padronali, è probabile che l’alimentazione seguisse regole precise, indicate dal proprietario assenteista e applicate dal vilicus, il suo servo amministratore rurale. Allo schiavo, come se si trattasse di carburante per una macchina, andava assicurata solo la dose di cibo sufficiente a mantenerlo in grado di fornire le prestazioni previste. Se possibile, poi, il fondo doveva rendersi autonomo, sfruttando per la nutrizione dei suoi residenti anche gli avanzi commestibili delle lavorazioni dei prodotti agricoli. Dalla descrizione degli ambienti architettonici fatta da Columella, si può inoltre immaginare che esistessero dei refettori in cui la servitú si riuniva a mangiare. In alcuni casi le indagini archeologiche hanno confermato che le famiglie padronali, quando presenti, mangiavano carne di qualità assai migliore di quella consumata nei quartieri servili.
Nella pagina accanto mosaico con scene di vita campestre, dalla Casa di Icaro a Uthina (Tunisia). III sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo.
La pizza rustica del contadino
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a tradizione manoscritta ci ha conservato un poemetto di 122 versi, erroneamente attribuito a Virgilio, dal carattere del tutto particolare: si tratta della descrizione, densa di letterarietà, ma anche di un vivacissimo realismo, della preparazione di una focaccia da parte di un contadino. Un agricoltore modesto, costretto ogni otto giorni a scendere in città per vendere i suoi ortaggi, ma comunque con una schiava al suo servizio. Intitolata Moretum, cioè «pizza rustica», l’operetta si apre con il risveglio del protagonista, che, dopo aver ravvivato la fiamma nel focolare, prende un misurino di frumento, 16 libbre per la precisione, e lo macina canticchiando. Dopo aver setacciato la farina, la mescola con acqua, spiana l’impasto e lo mette sul fuoco. Mentre la pizza cuoce, il contadino cerca qualcosa con cui preparare il condimento. Non ha carne nella capanna, ma solo formaggio. Allora esce nell’orto, dove sradica quattro teste d’aglio, un po’ di sedano e della ruta: «Dopo aver raccolto queste erbe si siede vicino al focolare: chiama la serva ad alta voce e le chiede
Naturalmente anche in città, soprattutto per gli schiavi al servizio delle grandi famiglie (compresa quella imperiale) – dove il lavoro era scandito da una organizzazione disciplinare precisa –, i padroni lasciavano indicazioni standardizzate sul vitto da assegnare ai loro
schiavi. Da un passo di Seneca, per esempio, deduciamo che i suoi servi, almeno quelli specializzati, ricevevano una razione di 5 moggi di frumento al mese (proprio quanto ricevevano i cittadini nelle frumentationes). La differenza (segue a p. 117)
Frase colorata maximai onsectiors ectiorsecti orsectioremorsectioremqui quaerspit omnisqui quaerspit omuoditae.
un mortaio. Stacca allora dalla dura membrana le singole teste d’aglio e le libera dalla pellicola esterna; con mossa svogliata getta via le scorze qua e là per terra, immerge nell’acqua i bulbi con le loro fibre e poi li sistema nella cavità circolare del mortaio. Sopra vi sparge granelli di sale; vi aggiunge il cacio stagionato dal sale e le suddette erbe (…) schiaccia l’aglio odoroso e trita le erbe, del cui succo ogni cosa è intrisa. La mano rotea nel mortaio: lentamente ogni erba perde il suo aspetto; da tanti colori uno solo diventa predominante, ma né il verde, perché le parti di formaggio lo impediscono, né il bianco fulgido, perché si perde
tra il verde vario delle erbe. Spesso zaffate aspre colpiscono le narici dell’uomo, che impreca col naso arricciato contro il suo pranzo; spesso col dorso della mano si asciuga gli occhi lacrimanti e insulta con parole rabbiose il fumo incolpevole. E continuava il lavoro: il pestello non si muoveva piú a scatti, come prima, ma con maggior pesantezza, in giri lenti. Quindi ci versa qualche goccia di olio sacro a Pallade e ci spruzza sopra un filo d’aceto mordente; e poi di nuovo mescola, e rimaneggia la mistura. Alla fine con due dita pulisce tutt’attorno le pareti del mortaio, raccoglie la pasta sparsa e le dà una forma rotonda».
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La razione dello schiavo di campagna
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a manodopera servile impiegata nelle piantagioni delle villae era sottoposta a ritmi di lavoro duri e a una disciplina spietata, ma non era malnutrita, anche perché lo schiavo malandato, e di conseguenza improduttivo, rappresentava per i padroni un fastidio insopportabile. Le razioni previste da Catone per i maschi adulti impegnati nel lavoro di fattoria, per esempio, non sono inferiori a quelle destinate ai soldati impegnati nelle legioni. È vero che non si
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tratta di un rendiconto reale, ma di un semplice elenco programmatico; tuttavia è indicativo: «Cibo per la servitú. Per chi lavora i campi: in inverno 4 moggi di frumento [34,5 kg], in estate 4 moggi e mezzo [39 kg]; per il massaio, la massaia, il guardiano, il pecoraro: 3 moggi [26 kg]; per gli schiavi legati: in inverno 4 libbre [1,2 kg] di pane; quando cominceranno a lavorare alla vigna, 5 libbre [1,5 kg] di pane, finché non cominceranno a mangiare fichi: allora tornerai a 4 libbre».
Rilievo funerario del liberto T. Paconius Caledus, produttore e mercante di miele e cera, raffigurante il titolare del monumento che sorveglia il lavoro dei suoi schiavi, da Porta Capena (Roma). 40-30 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino.
A questo andava aggiunto il companatico: «Metterai da parte le olive cadute a terra, quante piú puoi, e anche le olive mature da cui sarebbe potuto venire poco olio. Usane con parsimonia, perché durino il piú possibile. Una volta consumate le olive, darai agli schiavi salsa di pesce e aceto. Di olio, ne darai a ciascuno un sestario [0,5 l] al mese; di sale, all’anno, è sufficiente un moggio [8,6 kg] a testa». Questa dieta, certo un po’ monotona, era arricchita anche dal vino.
Catone suggerisce di dare agli schiavi, durante la vendemmia, la lora, una bevanda ottenuta dalla spremitura di vinacce imbevute d’acqua, e poi un vino particolare, destinato esclusivamente alla manodopera servile, una miscela di mosto, aceto, acqua dolce e salata, di cui lo stesso Catone ci descrive la preparazione. In occasione dei Saturnali e dei Compitalia, festività invernali particolarmente sentite negli ambienti servili, era prevista una razione supplementare.
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Affresco raffigurante una villa rustica, da Augusta Treverorum (Treviri). III sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum Trier. A destra coppetta contenente noci carbonizzate dall’eruzione del 79 d.C., da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Una povera mensa ospitale
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arra una delle piú belle e note favole di Ovidio che Giove e Mercurio, scesi in terra con sembianze umane, avrebbero faticato molto a trovare ospitalità. «A mille case bussarono, chiedendo un posto in cui riposare: a mille case fu sprangata la porta». Fino all’arrivo alla casupola di Filemone e Bauci, due vecchi e poveri contadini, i quali, senza riconoscere le divinità, le ospitano senza esitazioni. Una scena che ha molto di letterario e convenzionale, ma che affresca un quadro realistico del mondo rurale. «Quando i due dèi entrarono nella casetta e attraversarono la soglia, chinando il capo, il vecchio li fece accomodare sopra una panca, sulla quale Bauci premurosamente distese un panno ruvido. Poi smosse sul focolare la cenere tiepida, ravvivò il fuoco del giorno prima, alimentandolo con foglie e corteccia secca, e col suo vecchio soffio fece levare le fiamme; prendendo dal ripostiglio ciocchi spezzati e rami aridi, li spezzettò e li mise sotto una piccola pentola. Tolse le foglie agli ortaggi raccolti nell’orto irriguo dal marito. Lui stacca una spalla di porco affumicata da una trave nera con un forchettone a due punte, e da quella spalla, a lungo conservata, taglia una piccola parte e la mette a bollire nell’acqua calda». Mentre la pentola si riscalda, Bauci rassetta il letto per far posto agli ospiti. «La vecchia, tremando nella veste succinta,
era che per i servi urbani era piú facile integrare e arricchire questo vitto. Molti di loro, del resto, avevano a disposizione piccole somme di denaro da poter spendere autonomamente (gli schiavi di Seneca, per esempio, prendevano 5 denari al mese). Alcuni ricoprivano ruoli importanti nella conduzione degli affari di famiglia e il loro stile di vita non differiva da quello degli uomini di condizione libera. Molti lavoravano proprio nella filiera alimentare:
apparecchia la mensa, ma un piede è zoppo; lo pareggia con un coccio che, messo sotto, elimina il dislivello, poi la puliscono con un ciuffo di verde menta. Vengono messe in tavola olive di due colori, sacre alla schietta Minerva, e corniole autunnali in salsa liquida, indivia, ravanelli, una forma di latte cagliato, uova girate sulla cenere tiepida – il tutto in vasi di coccio, poi un cratere dello stesso valore e bicchieri di legno di faggio, stuccati al loro interno con bionda cera. Passa appena un attimo, e dal focolare è pronto il mangiare caldo, e di nuovo si porta il vino (non molto invecchiato!) che poi, messo da parte, lascia il posto al dessert. Noci, fichi secchi, datteri grinzosi, prugne, mele profumate in larghi canestri, uva raccolta da tralci purpurei. In mezzo, un candido favo».
fornai e panettieri, addetti al pollame, cuochi e sguatteri, camerieri e responsabili del ricevimento, dispensieri e magazzinieri, nella familia imperiale sappiamo addirittura di un «addetto al vettovagliamento delle guardie imperiali nell’edificio dei pretoriani». Per i piú sfortunati, o i meno capaci, non restava invece che trasgredire le regole e attingere di nascosto alla dispensa padronale. (segue a p. 121)
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Frugalità e mollezza nell’esercito repubblicano
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n età repubblicana, quando l’esercito era composto ancora da cittadini coscritti a forza, i leader aristocratici che avevano il comando delle operazioni militari tendevano a scaricare la colpa degli occasionali insuccessi sui soldati, accusati di essere poco combattivi, debosciati e corrotti. Ai legionari, in quei casi, si contestava di infiacchire la loro tempra nelle mollezze. Non a caso, i provvedimenti punitivi presi nei riguardi delle unità che si fossero macchiate di comportamenti giudicati infamanti riguardavano spesso la sfera alimentare: per esempio, al posto della razione di frumento si poteva ricevere orzo. La situazione si fece particolarmente critica verso la fine del II secolo a.C. quando ormai a Roma, o comunque nelle cittadine italiche da cui proveniva una buona percentuale delle reclute, si erano diffuse abitudini gastronomiche piú raffinate, per esempio quella di mangiare il pane di frumento al posto della polenta di farro. Negli accampamenti si aggirava perciò un gran numero di venditori ambulanti con vino, companatico e vivande cotte capaci di arricchire il sobrio rancio dei soldati. Molti legionari, oltretutto, portavano con sé anche fornelli e stoviglie e avevano al seguito schiavi e inservienti che si occupavano del loro vitto. Gli accampamenti, soprattutto quelli stabili in cui si trascorreva l’inverno, oppure quelli organizzati in casi di assedi di lunga durata, perdevano quindi la loro aria marziale. La descrizione offerta da Sallustio di quel che succedeva in Africa settentrionale durante la campagna contro Giugurta, nel 109 a.C., è illuminante: soldati sparsi nelle campagne a saccheggiare fattorie, depredare bestiame, catturare schiavi da barattare poi con i mercanti per avere vino importato e cibarie varie; addirittura la vendita delle razioni di frumento per acquistare col ricavato direttamente pane fresco, giorno per giorno. Ma in questo caso, come era successo venticinque anni prima al tempo del lunghissimo assedio di Numanzia, la repressione disciplinare, durissima e rivolta soprattutto contro i soldati semplici, non si fece attendere: si assistette cosí all’espulsione dagli accampamenti di tutte le persone estranee all’esercito, a un’applicazione rigorosa del divieto di assunzione di cibi cotti e a una rigida regolamentazione del vasellame da tavola consentito nelle tende.
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Un momento della guerra giugurtina in una tavola realizzata per la Cassell’s Illustrated Universal History di Edmund Ollier. 1890.
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La figura dello schiavo ingordo e arraffone, che all’insaputa del proprietario sgraffigna cibarie dalla cucina, non doveva essere solo finzione letteraria. Certo, per essere considerati «voraci» e «famelici» dai propri padroni sarà bastato poco. Ma è anche vero che la preoccupazione di trovare le risorse necessarie a sfamare tutta la propria servitú non era l’ultimo dei pensieri che assillavano i piccoli e grandi proprietari di schiavi. Come ricorda Cicerone, «se in tempo di gran carestia l’uomo per bene debba preoccuparsi di dar da mangiare alla sua servitú» rappresentava uno dei classici dilemmi dibattuti in sede di filosofia morale.
Il rancio del legionario
Soldati romani impegnati nella mietitura, particolare del calco dei bassorilievi della Colonna Traiana (II sec. d.C.). Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania.
Esistevano poi categorie professionali la cui dieta seguiva caratteristiche particolari. Per esempio, gli atleti professionisti (in particolare pugili, lottatori e pancraziasti), sottoposti dai loro allenatori a un regime alimentare finalizzato all’aumento di peso e perciò caratterizzato da un consumo di carne che agli osservatori estranei appariva smodato. Oppure i soldati. Sin dall’età repubblicana, il vitto nell’esercito era parzialmente standardizzato, poiché i militari ricevevano un rancio minimo uniforme, il cui costo veniva poi scalato dalla paga. Da Polibio sappiamo che, alla metà del II secolo a.C., sia i legionari romani che gli alleati inquadrati nel loro esercito prendevano all’incirca 9 etti di frumento al giorno. Una razione che poteva assicurare intorno alle 2000 calorie, mentre si può immaginare che, almeno in determinate circostanze, dati gli sforzi a cui erano sottoposti, i soldati finissero per consumarne 3000 o 4000 al giorno. Pertanto ogni soldato era indotto a integrare la sua dieta, acquistando cibo dai tanti mercanti che si aggiravano nei paraggi e a volte anche dentro gli accampamenti. Al grano, assunto sotto forma di pane o galletta, si affiancavano perciò formaggio, carne, legumi e frutta, fresca e secca. Naturalmente nel corso delle spedizioni militari capitava che non si riuscisse ad assicurare
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Nel forte di Vindolanda
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el 1973, scavando negli acquitrini vicino al forte romano di Vindolanda, non lontano dal Vallo di Adriano, gli archeologi si imbatterono in strani reperti in legno, inizialmente interpretati come scarti di lavorazione, ma che, a un’analisi piú attenta, si rivelarono una sorta di taccuini, contenenti al loro interno testi scritti in inchiostro. La loro decifrazione ha consentito, fra le altre cose, anche una ricostruzione piú precisa del vitto somministrato alla guarnigione stanziata nel forte, anche se molti dei documenti provengono dall’archivio della famiglia del prefetto, la cui dieta potrebbe non essere rappresentativa di quella dell’intero presidio militare. Nelle tavolette si enumerano acquisti di frumento,
sempre tutto l’approvvigionamento previsto, soprattutto quando ci si addentrava in territorio straniero. Allora ci si arrangiava con le risorse che si riuscivano a requisire e depredare sul posto. A ogni modo frumento, vino, aceto e acqua potabile erano considerati indispensabili e pertanto erano conservati e stoccati con cura. Per il trasporto delle cibarie, che costituivano però solo una parte dei numerosi bagagli che l’esercito si trascinava dietro a ogni suo spostamento, si poteva contare su asini, carriaggi e anche un gran numero di schiavi al seguito dei soldati. Invece pentolino, gavetta e spiedo facevano parte del carico personale che ogni legionario doveva caricarsi sulle spalle. In età imperiale, quando l’esercito divenne professionale e sedentario, il suo approvvigionamento rappresentò per le casse imperiali una delle voci piú importanti del bilancio: la cosiddetta annona militare. Senza contare i cavalli e gli altri animali, si calcola che le persone da sfamare (fra legionari, ausiliari e marinai) oscillassero fra le 300 000 e le 400 000, per un consumo di 100/150 000 tonnellate circa di frumento l’anno. Se possibile, la tendenza generale era quella di organizzare l’approvvigionamento a livello locale, in parte con tributi, in parte con acquisti e in parte anche con requisizioni. Del resto gli
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orzo, fave, garum, vino e poi aceto, olio, lardo, prosciutto, uova, pollo, sale, pepe e spezie varie. Si fa riferimento anche ad acquisti di birra, il cui consumo doveva essere abituale soprattutto fra i soldati reclutati nelle province celtiche, e persino di ostriche. Nelle tavolette si cita anche vasellame da tavola. Una, in particolare, enumera quello che sembra un vero e proprio servizio: piatti di vario genere, contenitori per l’aceto, portauova, tazze e ciotole. In una tavoletta, all’interno di una lista di tuniche e mantelli, compare persino un vestito riservato alle cene di gala. È probabile che la tavoletta contenente l’elenco riportato qui di seguito sia da annoverare alla contabilità domestica di Flavio Ceriale, il
comandante della guarnigione, piuttosto che all’amministrazione militare. L’assenza di prezzi suggerisce inoltre che si possa trattare di un promemoria informale di materiale utilizzato, piuttosto che di una lista di acquisti. Privato, l’individuo citato nel documento, doveva essere un servo di Ceriale: «23 giugno: 5 modii e ½ di orzo; 1 modio e 14 sestarii di vino; 3 modii di birra celtica. 24 giugno: 6 modii di orzo; 3 modii e (...) sestarii di birra celtica; 1 modio e 12 sestarii di vino; 2 sestarii di vino acido; tramite Privato, 1 sestario e ½ di salsa di pesce; tramite Privato, in prestito, 10 sestarii di grasso di maiale; al padrone per donazioni di beneficenza, tramite Privato, 1 moggio di vino per la celebrazione della dea (?)».
In alto disegno ricostruttivo del granaio di cui era provvisto il forte romano di Vercovicium, in Britannia, oggi noto come Housesteads. A sinistra resti del forte romano di Vindolanda (Northumberland, Inghilterra), il cui scavo ha restituito una notevole quantità di tavolette iscritte, alcune delle quali contengono notizie sui beni consumati dai legionari che vi erano stanziati.
eserciti, acquartierati in insediamenti permanenti, cercavano di rendersi autosufficienti, producendo in proprio tutto il possibile. Per esempio il vasellame, il pentolame e i contenitori in cui conservare il cibo venivano spesso fabbricati dai soldati stessi. Esistevano poi anche terreni agricoli il cui sfruttamento era direttamente collegato agli accampamenti. In alcuni casi si allevava bestiame, da macellare in occasione delle celebrazioni religiose. Ma certamente una parte importante degli approvvigionamenti alimentari doveva arrivare da fuori, a volte anche da molto lontano. Una rete di collegamenti venne predisposta sfruttando soprattutto le vie fluviali.
Pacchi di provviste Da frammenti di papiri e ostraka sappiamo che tantissimi soldati si facevano spedire da casa pacchi con le cibarie piú varie. Oggi per ricostruire la loro dieta possiamo ricorrere, oltre alle scarse indicazioni delle fonti letterarie, ai risultati delle analisi dei rifiuti alimentari degli accampamenti delle frontiere settentrionali (la Britannia e il confine renanodanubiano), che mostrano un consumo di carne, prevalentemente bovina, piuttosto consistente, superiore senz’altro a quello dei
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civili, e poi l’assunzione di frutta e verdura, fagioli, miele, garum, spezie; persino di pesci e frutti di mare, anche negli accampamenti piú lontani dalla costa. Oltre al mangiare, ogni soldato riceveva un po’ d’olio (da destinare in parte a usi non alimentari), un po’ di vino e un po’ di aceto, che veniva bevuto allungato con acqua, in quella bevanda dissetante tipicamente militare chiamata posca. Quando gli eserciti, o i singoli reparti, erano in trasferimento da una zona all’altra dell’impero
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ricorrevano, se necessario, anche alle requisizioni di beni alimentari, sia nelle campagne che nelle città. Per sollevare da una eccessiva pressione le comunità soggette al transito dei soldati, in queste circostanze poteva capitare che intervenisse un evergeta privato, come avvenne per esempio quando Giulio Teofrasto, un ginnasiarca spartano, in occasione del passaggio dell’imperatore Adriano e del suo esercito in Grecia «garantí all’annona militare,
Rilievo raffigurante due servitori impegnati in cucina: uno pesta spezie nel mortaio e l’altro affetta la carne, dalla tomba dei Secundi a Igl, presso Treviri. II-III sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum Trier.
culinarie, di ritualità conviviali condivise, una parte notevole della popolazione dell’impero romano viveva lontana dai centri urbani, nelle tante e diverse campagne che costituivano, dapprima nella sola Italia poi in tutto il mondo mediterraneo ed europeo, il territorio dell’impero. È vero che nei piccoli paesi, cosí come all’interno delle grandi ville padronali, si tendeva a imitare le abitudini cittadine.
Le «sfortune» dei Pannonici
a un prezzo molto inferiore a quello normale, 400 medimni di frumento, 100 di orzo e 60 di fagioli, oltre a 100 metrete di vino». Ma a iscrizioni come questa fanno purtroppo riscontro tante altre epigrafi di protesta, o supplica, che esprimono, al contrario, le lagnanze dei civili costretti a sostenere le spese del vitto dei militari di passaggio. Se lo stile di vita cittadino in tutto il mondo romano presentava una sostanziale omogeneità, fatta di gusti, di tradizioni
Ma soprattutto lí dove i contadini vivevano isolati in fattorie indipendenti, in poderi autonomi disseminati sul territorio, le consuetudini alimentari avevano mantenuto connotazioni diverse. Riusciamo a farcene solo un’idea vaga e sommaria, soprattutto attraverso alcune descrizioni dovute a scrittori di estrazione urbana nelle quali è tuttavia difficile capire se prevalga la riproduzione realistica o la rappresentazione di genere stereotipata. Non mancano, per fortuna, testimonianze piú dirette, come, per esempio, i resoconti del medico Galeno, che nel II secolo d.C. attraversò le campagne dell’Asia Minore sconvolte da carestia e pestilenza osservando con attenzione scientifica le abitudini alimentari della popolazione. In campagna naturalmente l’alimentazione manteneva una piú diretta relazione con quanto offerto dal territorio: capitava insomma che i contadini si nutrissero di radici, bacche e piante locali che in città non avevano mercato; e anche il loro pane spesso era fatto con farine che altrove sarebbero state scartate. D’altra parte in alcune province la romanizzazione o l’ellenizzazione avevano lambito solo esteriormente i sistemi di vita: e lí dove non si parlava né greco né latino, sopravvivevano anche tradizioni alimentari radicalmente diverse da quelle tipiche del mondo classico. «Non producono olio – diceva con sconforto degli abitanti della Pannonia un raffinato senatore orientale di età severiana – e poco vino e pessimo. Usano l’orzo e il miglio come cibo e come bevanda [la birra]». E chiosava: «Sono poco fortunati».
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PER SAPERNE DI PIÚ Fonti letterarie Per chiunque voglia approfondire il tema dell’alimentazione nella Roma antica restano fondamentali le letture dei testi antichi. Ne segnalo in particolare quattro gruppi. Anzitutto gli autori che si occupano di agricoltura, allevamento e industria alimentare, reperibili in traduzioni italiane, alcune piuttosto impegnative economicamente ma rintracciabili in biblioteca: Catone, L’agricoltura, Mondadori; Varrone, Opere, UTET; Plinio il Vecchio, Storia naturale, Einaudi; Columella, L’arte dell’agricoltura, Einaudi. Di facile reperimento è anche la traduzione in italiano delle Georgiche di Virgilio. Poi i «ricettari»: il De re coquinaria di Apicio, tradotto in italiano in decine di edizioni coi titoli piú diversi; e i Deipnosofisti. I dotti a banchetto di Ateneo di Naucrati, tradotto in italiano integralmente solo in una edizione di lusso inavvicinabile ma reperibile in biblioteca. In alto aureo di Traiano che commemora la distribuzione di cibo ai bambini poveri disposta dall’imperatore. 107 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano. Nella pagina accanto mosaico raffigurante diverse specie di pesce, da Hadrumetum (oggi Sousse). II sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. In basso simpulum (mestolo per attingere e travasare liquidi) in vetro, da Ercolano. I sec. d.C. Ercolano, Depositi.
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Interessante, oltre che divertente, la celeberrima cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio (tradotto da numerose case editrici). Fondamentali, ovviamente, gli autori le cui opere rappresentano la base per ogni ricostruzione della vita quotidiana della Roma imperiale: in particolare le Satire di Orazio e Giovenale e gli Epigrammi di Marziale, anch’essi tradotti in italiano da molti editori diversi. Infine ci sarebbero i testi di medicina, ricchissimi di notazioni importanti, la maggior parte dei quali però non sono tradotti in italiano. Di Galeno, esistono in italiano una traduzione de La dieta dimagrante (Flaccovio, 1989) e le traduzioni (indirette) di altri sei testi concernenti l’alimentazione in Mark Grant, La dieta di Galeno. L’alimentazione degli antichi romani (Edizioni Mediterranee, 2005), non piú in commercio, ma consultabili in biblioteca. Una buona silloge aggiornata della documentazione letteraria è in John F. Donahue, Food and Drink in Antiquity: A Sourcebook: Readings from the Graeco-Roman World, 2015.
Da vedere Per approfondire il tema della centuriazione e il suo impatto con la produzione agricola, si può visitare il Museo della Centuriazione Romana a Borgoricco (provincia di Padova). Per osservare le strutture produttive delle aziende rurali padronali si possono invece visitare alcuni dei numerosi siti presenti sul territorio: per esempio la villa rustica «Le Muracche» a Tortoreto, in Abruzzo, con i locali destinati alla torchiatura; oppure la villa romana del Varignano (Portovenere), con gli impianti per la lavorazione delle olive. Locali destinati alla lavorazione del vino sono visitabili anche nella Villa dei Misteri, a Pompei. Ma per farsi un’idea della viticoltura romana, il sito piú suggestivo da visitare è il complesso di Villa Regina a Boscoreale, col vigneto ricostruito e la collezione di attrezzi agricoli esposti nell’Antiquarium. La complessità degli impianti destinati all’itticoltura marina può essere valutata visitandone i resti, per esempio a Sperlonga, nella Villa di Tiberio, oppure nelle grotte di Ponza e Ventotene. Molto istruttivi per chi voglia capire le modalità di svolgimento del commercio alimentare marittimo risultano in genere i piccoli e grandi musei costruiti in occasione del rinvenimento di relitti importanti. Segnalo, fra i tanti, il Museo delle antiche navi di Pisa, il Museo Delta Antico di Comacchio, il Museo del Mare e della Navigazione Antica di Pyrgi-Santa Severa, il Museo Navale romano di Albenga, il Museo archeologico Baglio Anselmi di Marsala, il Museo Archeologico Navale «Lamboglia» de La Maddalena, in attesa della riapertura al pubblico del Museo nazionale di archeologia subacquea di Grado e di quello delle Navi romane di Fiumicino.
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BIBLIOGRAFIA Una panoramica abbastanza esauriente sulla situazione attuale degli studi sull’alimentazione nel mondo romano è offerta in due volumi collettanei usciti negli ultimi tempi: A Companion to Food in the Ancient World, a cura di John Wilkins e Robin Nadeau (2015) e The Routledge Handbook of Diet and Nutrition in the Roman World, a cura di Paul Erdkamp e Claire Holleran (2019). La bibliografia in italiano sull’argomento è straripante, ma di qualità non sempre soddisfacente. Mi limito a segnalare i classici sull’argomento, forse non in tutto aggiornati, ma sempre validissimi e facili da ritrovare in biblioteca: Eugenia Salza Prina Ricotti, L’arte del convito nella Roma antica («L’Erma» di Bretschneider, Roma 1983); i tre volumetti della collana «Vita e costumi dei romani antichi» A tavola con i romani antichi di Antonietta Dosi e François Schnell: 1. Le abitudini alimentari, 2. Pasti e vasellame, 3. L’arte
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In alto rilievo raffigurante una pollivendola. Prima metà del III sec. d.C. Ostia, Antiquarium. Nella pagina accanto Oplontis, Villa di Poppea. Affresco raffigurante un cestino di fichi. Da segnalare la nuova tendenza a organizzare direttamente percorsi di visita subacquea, come nel caso del sito archeologico sommerso di Cala Reale (Asinara). Per ricostruire con l’immaginazione il mondo della produzione e circolazione delle merci alimentari i siti piú adatti sono naturalmente Ostia, Pompei ed Ercolano, ricchi di magazzini (horrea), mercati monumentali (macella), panetterie (pistrina), «bar» e locande (thermopolia e cauponae) e negozi d’ogni sorta. Un altro macellum straordinariamente suggestivo è quello di Pozzuoli (il cosiddetto Tempio di Serapide). A Roma i rilievi del monumento funebre del fornaio Eurisace, davanti a Porta Maggiore, illustrano tutte le fasi della lavorazione del pane; la via Biberatica (presso i cosiddetti Mercati Traianei), anche se probabilmente non destinata a mercato delle spezie, trasmette ancora l’atmosfera concitata dei rioni commerciali. Rende invece bene il respiro interprovinciale dei traffici, a Ostia, il cosiddetto Piazzale delle Corporazioni. In molte domus di Pompei ed Ercolano si possono ammirare triclini in ottimo stato di conservazione.
Altrimenti si possono visionare le ricostruzioni museali: per esempio a Ravenna, nella chiesa di S. Nicolò, sono riprodotti gli ambienti della Domus del Triclinio; mentre a Sarsina, nel Museo Archeologico Nazionale, si può vedere la ricostruzione del triclinium della Domus di via Finamore. Nei siti dei palazzi imperiali e delle ville residenziali si possono visitare triclinia piú fastosi, spesso all’aperto, corredati da ninfei, come per esempio quello della Villa dei Venulei a Massaciuccoli (Massarosa), o nel Canopo di Villa Adriana. Nella Villa dei Quintili, a Roma, si può osservare un ambiente particolarissimo, una specie di sala di degustazione con fontane stillanti vino. In quasi tutti i musei archeologici è facile incappare in teche con esposizione di ceramica da mensa e utensileria da cucina. Nell’Antiquarium di Ostia sono presenti straordinari rilievi raffiguranti scene di bottega. Le suppellettili, reperti organici e le stupefacenti testimonianze iconografiche (pitture, mosaici, statuette) provenienti dall’area vesuviana e relative all’alimentazione si trovano perlopiú nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
culinaria (Edizioni Quasar, Roma 1986); Jacques André, L’alimentazione e la cucina nell’antica Roma (LEG, Gorizia 2015; l’originale francese risale al 1981). A questi testi possono essere affiancati i cataloghi di alcune mostre: Cibi e sapori a Pompei e dintorni, (Flavius, 2005) e Alle origini del gusto. Il cibo a Pompei e nell’Italia antica (Marsilio 2015). Fra le ultime novità: Panem et circenses. Cibo, cultura e società nella Roma antica di Alberto Jori (Nova IPSA); I piaceri della tavola in Roma antica. Tra alimentazione e diritto di Iole Fargnooli (Giappichelli); e Storia di vini e di vigne intorno al Vesuvio. Il vino nella Campania antica dall’epoca pompeiana alla fine dell’Impero Romano di Flavio Castaldo (Intra Moenia), tutti editi nel 2016.
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MONOGRAFIE
n. 37 giugno/luglio 2020 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore: Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 55; Electa/Andrea Jemolo: copertina (e pp. 36/37); CM Dixon/Heritage Images: pp. 8, 54/55, 80/81, 97; Album/Prisma: pp. 10 (alto e p. 11 alto), 31, 34, 87, 100; Erich Lessing/Album: pp. 12/13, 22/23, 40, 68 (basso), 69, 104/105, 117, 124/125; Archivio dell’Arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: pp. 14/15, 72/73; AKG Images: pp. 16/17, 19, 20, 29, 30, 50/51, 53, 62/63, 71, 73, 82/83, 86, 93, 99, 113; Historic Images/Heritage Images: pp. 24/25; Museum of London/ Heritage Images: p. 39; Album/Florilegius: p. 46; Electa/Luigi Spina: p. 59; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: pp. 66/67; Album/Quintlox: p. 68 (alto); Collection Christophel/Produzioni Europee Associate: p. 70; Age: p. 77; Guildhall Art Gallery (City of London): pp. 84/85; Electa/Antonio Quattrone: pp. 98/99; Werner Forman Archive/ Heritage Images: p. 103; Album/ASF: p. 106: Album/Oronoz: pp. 114/115; The Print Collector/Heritage Images: pp. 118/119 – Bridgeman Images: pp. 6/7, 12, 21, 32/33, 45, 56-57, 91 (alto), 108-109, 116, 120/121; Historic England/Heritage Images: p. 123 – Shutterstock: pp. 8/9, 28, 64-65, 78, 122/123 – Doc. red.: pp. 10/11, 18/19, 23, 26-27, 32 (basso), 34/35, 35, 38/39, 41, 42/43, 47, 48/49, 52/53, 58, 60/61, 74-75, 76 (alto e basso), 79, 88/89, 91 (basso), 92, 94/95, 96, 101, 102, 105 (alto), 126-129 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée d’Archéologie nationale)/Gérard Blot: pp. 110/111 – Cippigraphix: cartine alle pp. 76, 107. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: affresco con scena di banchetto, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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