VALLE D’AOSTA
IL TERRITORIO • LA STORIA • L’ARCHEOLOGIA
VALLE D’AOSTA
Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
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ARCHEO MONOGRAFIE
MONOGRAFIE
€ 7,90
N°39 Ottobre/Novembre 2020 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA L’ 8 OTTOBRE 2020
VALLE D’AOSTA IL TERRITORIO • LA STORIA • L’ARCHEOLOGIA testi di Alessandra Armirotti, Margherita Bert, Stella Vittoria Bertarione, Maria Cristina Fazari, Luca Raiteri, Gabriele Sartorio, Massimo Venegoni e Gianfranco Zidda con un reportage fotografico di Enrico Romanzi
6. Presentazione
Valle d’Aosta. Dove la Montagna stessa è cultura 10. Il
territorio
18. La
preistoria
Una regione e il suo territorio I primi valligiani 40. L’età
romana
Nel nome di Augusto 76. L’età
tardo-antica e il
Medioevo
Una nuova era
88. Storia delle ricerche
Dalla passione al metodo 104. I musei archeologici in Valle d’Aosta
Il Museo Archeologico Regionale L’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans 122. Gli
itinerari
Un patrimonio da scoprire
Valle d’Aosta. Una terra da conquistare
È
curioso notare come questa piccola – e per alcuni remota – regione d’Italia sia l’unica a conservare, nel nome stesso, una memoria imperiale. Qui, nella valle della Dora Baltea, tra le montagne piú alte del continente europeo, nel 25 a.C. le legioni di Roma sconfissero i Galli Salassi e fondarono una città fortificata, costruita sul modello del tipico accampamento romano. In onore di Ottaviano Augusto, la chiamarono Augusta Prætoria Salassorum. La conquista romana della Valle d’Aosta è, certamente, argomento centrale di questa Monografia. Nelle pagine che seguono, però, realizzate grazie alla collaborazione dei principali studiosi della materia, i lettori scopriranno l’esistenza di altre conquiste, non meno affascinanti: quella archeologica, per esempio, iniziata nel Cinquecento proprio per l’emergere della curiosità intorno alle monumentali vestigia imperiali, e che, in seguito, vedrà come protagonisti i piú grandi nomi dell’archeologia italiana. Una conquista che, a partire dalla straordinaria scoperta avvenuta alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso a Saint-Martin-de-Corléans, aprirà lo sguardo su un fenomeno rimasto, fino ad allora, in ombra: quello della preistoria e protostoria della Valle. Poi ci sono le montagne, il territorio, i luoghi. In Valle d’Aosta «la montagna stessa è cultura», scrive Cristina De La Pierre nell’introduzione. E alla «conquista» – intellettuale, emozionale – di questa magnifica regione desideriamo contribuire con questo numero monografico di «Archeo». Buona lettura, dunque, e... buona conquista. Andreas M. Steiner
VALLE D’AOSTA DOVE LA MONTAGNA STESSA È CULTURA
V
alle d’Aosta: una regione piccola ma densa di storia, cultura e natura. Qui la Montagna stessa è cultura per quella sua inscindibile commistione tra sistema naturale e antropico. Una piccola regione nel cuore delle Alpi dove sin dalla notte dei tempi le culture si sono incontrate e sovrapposte contribuendo alla formazione di un passato complesso e stratificato la cui comprensione, fruizione e narrazione si rivelano essere presupposti fondamentali di conoscenza e promozione del territorio. Negli anni la Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Valle d’Aosta, istituita sin dal 1956 come «Soprintendenza unica», operando in sinergia con le altre Strutture dell’Amministrazione Regionale e con gli enti territoriali, si è costantemente impegnata nella conoscenza, salvaguardia, valorizzazione e promozione del patrimonio culturale con l’obiettivo di favorire la condivisione allargata dei beni culturali e tendere a una loro gestione economicamente sostenibile.
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I Casolari del Money, situati a oltre 2000 m di quota a 3 km circa da Cogne, in una posizione estremamente panoramica della Valnontey. Da lí si gode di una magnifica vista sull’intero circo montuoso del Gran Paradiso.
Nell’era dell’informazione on line, ci siamo resi conto di come la promozione dei beni culturali non possa prescindere dall’elaborazione di un vero e proprio progetto di comunicazione integrato, che consideri l’intera gamma di possibilità divulgative presenti oggi sul mercato e tutti gli elementi e le variabili del contesto sociale economico e culturale in cui si opera, venendo a costituire lo strumento principe per avvicinare la comunità locale, promuovere la condivisione pubblica dei beni culturali e in definitiva far conoscere al grande pubblico il patrimonio culturale. Con soddisfazione abbiamo riscontrato un crescente interesse e un notevole successo di pubblico per appuntamenti ormai fissi e attesi, tra cui citiamo le piú recenti «Nuits de Culture» o la rassegna denominata «Plaisirs de Culture» che declina su scala regionale le Giornate Europee del Patrimonio e propone visite guidate, laboratori, conferenze, escursioni, aperture straordinarie di siti e manifestazioni di carattere culturale.
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Tutto questo è comunque possibile grazie alla notevole attività di ricerca e studio da parte di specialisti di diverse discipline, quale insostituibile presupposto per la tutela, e all’impegno costante dedicato alla divulgazione delle conoscenze acquisite per far comprendere e apprezzare il patrimonio e incoraggiare la partecipazione attiva della collettività per la sua salvaguardia e trasmissione alle generazioni future. Come è noto, la Soprintendenza è composta da diversi settori idonei a dare supporto scientifico, tecnico e amministrativo allo svolgimento delle varie attività istituzionali, in una logica di sistema globale, tenendo sempre presente la sequenza canonica – ricerca,
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La chiesa parrocchiale di Saint-Nicolas. Sullo sfondo, le cime del Grand Nomenon (sulla sinistra) e della Grivola, nel massiccio del Gran Paradiso.
restauro, valorizzazione, fruizione, comunicazione e gestione – propria degli organismi preposti alla tutela e conservazione. Gli sforzi vanno nella direzione di sviluppare dei progetti finalizzati a migliorare la nostra offerta culturale grazie alla messa in atto di una valorizzazione piú aggiornata, di una comunicazione dei beni piú completa e strategica, di un sempre piú diversificato e accattivante calendario di attività e proposte rivolte al grande pubblico, nonché di un sistema di accoglienza piú curato e attento. Nello stesso tempo non va dimenticato il dovere di proseguire le attività di ricerca e conservazione, all’insegna della continuità del lavoro sinora svolto, con la consapevolezza che queste rappresentano le fasi propedeutiche per una adeguata valorizzazione, fruizione e comunicazione, quali elementi indispensabili per promuovere un auspicato processo di democratizzazione della cultura e in definitiva una efficace azione di tutela attiva. Tale forte motivazione ci ha dunque portati, in questi anni, a investire notevolmente nel settore culturale, certi che i risultati avrebbero condotto a un virtuoso «effetto domino» per la nostra comunità, il nostro territorio e l’appeal turistico della nostra Regione assecondando e favorendo i flussi di chi decide di spostarsi alla ricerca dell’arte, della storia, in poche parole, della bellezza. Inoltre l’attività didattica elaborata e intrapresa con il settore dell’Istruzione, è particolarmente importante ed è interpretata come una vera e propria missione orientata verso la scuola, università compresa, con l’intento di promuovere un progressivo processo di fidelizzazione della popolazione scolastica sulle tematiche dei beni culturali. Lo straordinario patrimonio di beni culturali presente in Valle d’Aosta, che parte dal Mesolitico e percorre le Età del Rame del Bronzo e del Ferro, la Romanità e il Medioevo e giunge ai nostri giorni, rappresenta un sicuro arricchimento sociale e un valido contributo di immagine e di qualità dell’offerta turistica culturale complessiva. Non sono da sottovalutare le ricadute positive dell’indotto ingenerato da tale settore, soprattutto se opportunamente favorite da politiche di messa a sistema dei beni e di integrazione con gli altri settori del turismo regionale. Anche nella nostra Regione, come peraltro in quasi tutte le regioni italiane, il successo di investimenti nel settore dei beni culturali non può basarsi solo su logiche di immediato ritorno economico, ma per ragioni di particolarità e complessità del settore, deve essere valutato su programmi di medio/lungo periodo, al fine di creare le condizioni per una corretta fruizione e condivisione pubblica e un’adeguata coscienza/conoscenza. In definitiva i beni culturali sono oggi una concreta risorsa, (in un momento connotato da pandemie e incipienti crisi economiche), su cui è necessario investire al fine di inserire gradualmente questo settore negli attuali meccanismi di sviluppo economico, con l’attenzione dovuta per questa particolare tipologia di beni unici e non riproducibili. Cristina De La Pierre Soprintendente per i beni e le attività culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta Gaetano De Gattis già dirigente Struttura Patrimonio archeologico
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IL TERRITORIO
UNA REGIONE E IL SUO TERRITORIO UNA TERRA A SÉ, EPPURE CROCEVIA TRA FRANCIA, ITALIA E SVIZZERA, CIRCONDATA DALLE MONTAGNE PIÚ MAESTOSE D’EUROPA: I PAESAGGI DELLA VALLE D’AOSTA RIVELANO UNA STORIA GEOLOGICA ANTICA CENTINAIA DI MILIONI DI ANNI di Luca Raiteri e Stella Vittoria Bertarione
«N
é cismontani né oltremontani, ma intramontani»: cosí, nei secoli passati, la coscienza identitaria valdostana rivendicava orgogliosamente l’equidistanza della valle dai due versanti alpini. E, in effetti, non solo per la sua posizione geografica, ma anche per la sua storia e la sua cultura, la Valle d’Aosta è sempre stata «intermedia» fra la Francia, l’Italia e la Svizzera. Incastonata fra le Alpi Graie e le Alpi Pennine, la piú piccola regione d’Italia è circondata dalle montagne piú alte d’Europa, culminanti nei massicci del Monte Bianco (4810 m), del Monte Rosa (4634 m) e del Gran Paradiso (4061 m), nonché nell’inconfondibile Cervino (4478 m), icona alpina per eccellenza, definito da John Ruskin «il piú nobile scoglio d’Europa». Il paesaggio è inoltre connotato da altre isolate piramidi rocciose molto elevate, come il Mont Emilius (3559 m), che domina Aosta, la punta Tersiva (3513 m), che chiude la testata del selvaggio vallone del Grauson nella Valle di Cogne, e, nel gruppo del Gran Paradiso, la Grivola (3969 m), o meglio «l’ardua Grivola bella» come la definí Giosué
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La valle del Lys, o di Gressoney, con il massiccio del Monte Rosa sullo sfondo.
Carducci, la cui imponente parete nord incombe sul fondovalle all’altezza dei comuni di Saint-Pierre e Aymavilles. L’intera regione è attraversata dalla Dora Baltea, il cui solco si origina in corrispondenza della confluenza delle valli Veny e Ferret, nel gruppo del Monte Bianco, e costituisce l’asse centrale
delle comunicazioni e degli insediamenti; in essa confluiscono, a pettine, le valli laterali, che sono, in destra orografica, la valle di La Thuile, la Valgrisenche, la val di Rhêmes, la Valsavarenche, la valle di Cogne e quella di Champorcher; a sinistra la valle del Gran San (segue a p. 14)
IL TERRITORIO
Le presenze archeologiche 1. Saint-Pierre, sito di Mont Fallère 2. Saint-Nicolas, necropoli di Chiséraz 3. Villeneuve, necropoli di Champrotard 4. Sarre, necropoli di Saint-Maurice 5. Aosta, area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans 6. Quart, insediamento e necropoli di Vollein 7. Verrayes, insediamento di Rapy 8. Montjovet, necropoli di Fiusey 9. Pré-Saint-Didier, castelliere e sito di Bois de Montagnoulaz 10. Saint-Pierre, insediamento di Châtelet/Ordines 11. Nus, castelliere di Lignan 12. Châtillon, insediamento del casello autostradale 13. Challand-Saint-Anselme, insediamento di Châtillonet 14. La Thuile, Alpis Graia, Colle
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del Piccolo San Bernardo 15. Saint-Rhémy-en-Bosses, Alpis Pœnina, Colle del Gran San Bernardo 16. Aymavilles, ponteacquedotto di Pont d’Ael 17. Augusta Prætoria 18. Nus, insediamento di Messigné 19. Saint-Vincent, mansio e chiesa di San Vincenzo 20. Donnas, via delle Gallie 21. Pont-Saint-Martin, ponte romano 22. Morgex, chiesa di Santa Maria 23. Villeneuve, Châtel-Argent e complesso paleocristiano 24. Aymavilles, chiesa di Saint-Léger 25. Quart, chiesa di Sant’Eusebio 26. Brusson, castello di Graines 27. Verrès, castello 28. Hône, chiesa di San Giorgio 29. Bard, Augustanæ Clausuræ
La conca di Arvier. Sullo sfondo, le cime della Becca di Nona (in primo piano) e del Mont Emilius.
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INQUADRAMENTO GEOLOGICO
D
al punto di vista geologico, il solco principale della Valle d’Aosta rappresenta, nel suo sviluppo da NW a SE, uno spaccato naturale attraverso l’edificio strutturale della catena alpina di cui sono ampiamente esposti i principali elementi che ne costituiscono l’ossatura e cioè i resti, appilati uno sull’altro, dei due antichi margini continentali europeo e africano, con interposte le porzioni residue del fondo del braccio oceanico che li divideva. Il basamento dell’antico margine europeo emerge in corrispondenza dei massicci cristallini, rappresentati all’esterno dal Monte Bianco, in posizione mediana e interna dalla fascia Gran San Bernardo-Ruitor, dal Monte Rosa e dal Gran Paradiso. I resti dell’antico braccio oceanico Piemontese, cioè l’odierna Zona Piemontese dei Calcescisti con Pietre Verdi, affiorano nel tratto mediano della Valle, accavallati sul margine interno dei massicci cristallini e a loro volta ricoperti nel tratto basso della Valle dalle unità che costituiscono il Dominio Austro-alpino. La maggior parte delle rocce appartenenti a tali falde geologiche risultano trasformate dal metamorfismo (processo di mutazione delle rocce dovuto a pressione e temperature elevate). Per tale caratteristica litologica, gli studi sull’approvvigionamento della materia prima da parte dei gruppi umani indicano come in Valle d’Aosta non sia possibile reperire la selce, mentre il cristallo di rocca (quarzo ialino),
Bernardo, la Valpelline (in cui confluisce il vallone di Ollomont), la piccola valle di SaintBarthélemy, la Valtournenche, la val d’Ayas e la valle di Gressoney. L’altitudine media risulta di ben 2100 m, quota che supera quella di ogni altra regione italiana, cosí come il limite degli insediamenti umani permanenti, che qui raggiunge il suo massimo.
Due tipi climatici In Valle d’Aosta, malgrado la limitata estensione, è possibile distinguere due differenti tipi climatici. La maggior parte del territorio presenta il caratteristico clima alpino, con inverni freddi, estati fresche e ventilate, neve abbondante d’inverno (ma in diminuzione, cosa che ha reso necessario l’innevamento artificiale di molte piste da sci). La conca di Aosta, e in
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presente per esempio nelle morene glaciali del massiccio del Monte Bianco, risulta il materiale piú utilizzato dall’uomo preistorico per la fabbricazione di armi e strumenti. Lo studio dei depositi di origine glaciale dimostra che in Valle d’Aosta non si sono conservati depositi morenici anteriori all’ultima glaciazione (sino a qualche anno fa definita Würm). Si ritiene, dunque, che il modellamento dell’asse vallivo sia dovuto unicamente all’ultima importante pulsazione, risalente a 23 000 anni fa circa e al successivo ritiro dei ghiacci, avvenuto nel Tardiglaciale (19-12 000 anni fa circa). In merito, la ricostruzione dell’evoluzione del ghiacciaio Balteo würmiano riferisce una natura di tipo polisintetica, rappresentata da tre lingue principali provenienti rispettivamente dalle Alpi Graie, dalla Valdigne e dalle Alpi Pennine, che si univano all’altezza di Aosta, dando origine a una colata unica spessa 1000 m circa. In seguito al ritiro del ghiacciaio Balteo, alle alluvioni fluvio-glaciali e ai depositi lacustri riguardanti il fondovalle, si aggiungevano, incastrandosi lateralmente, materiali assai piú grossolani provenienti dalle alte vallate tributarie, dalle frane di collasso postglaciale, nonché da detriti di falda in genere. Traeva cosí origine per gradi la vasta piana nella quale la Dora dilagava, continuando a depositare materiale sabbiosoghiaioso sino a epoche recenti. Luca Raiteri
genere tutta la valle centrale a est del capoluogo, protetta da tutti i lati da alte montagne, ha invece un clima continentale, con estati calde e afose e scarsissime precipitazioni, anche sotto i 500 mm, ai livelli cioè delle zone piú aride della Sicilia e della Puglia: per fortuna, l’acqua sempre abbondante dei torrenti, derivata da secoli con un ingegnoso sistema di canali di irrigazione (chiamati nel patois locale «rus»), supplisce alla carenza di piogge. Dal punto di vista geologico, il solco principale della Valle d’Aosta, lungo circa 100 km nel suo sviluppo da NW a SE, rappresenta un emblematico spaccato naturale attraverso le diverse componenti strutturali della catena alpina: sono infatti presenti i principali elementi che ne costituiscono l’ossatura, ossia i resti dei due antichi margini continentali europeo e
Nella pagina accanto mappa geologica della Valle d’Aosta.
confini regionali confini nazionali ghiacciai attuali del bacino della Dora Baltea
Copertura quaternaria depositi fluviali
Crosta continentale europea 6
Anfiteatro Morenico di Ivrea (a); sua piana fluvioglaciale (b) Crosta continentale europea SISTEMA ELVETICO metagraniti e micascisti
SISTEMA ULTRAELVETICO scisti carbonatici, scisti neri, metarioliti
Crosta continentale africana 4
SISTEMA PENNIDICO INTERNO ortogneiss occhiadini, micascisti, metagraniti
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LINEAMENTO PENNIDICO Crosta oceanica 5
SISTEMA PENNIDICO MEDIO ED ESTERNO gneiss, micascisti, metabasiti, metaconglomerati
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ZONA PIEMONTESE calcescisti, marmi, prasiniti, metagabbri e serpentiniti
SISTEMA AUSTROALPINO micascisti eclogitici, eclogiti, glaucofaniti, gneiss, rocce granitoidi LINEA INSUBRICA
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SISTEMA SUDALPINO granuliti dioriti, graniti, rioliti, diaspri e calcari
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IL TERRITORIO
africano, con porzioni residuali del fondale oceanico che li divideva. Oltre 250 milioni di anni fa, infatti, queste alte vette dormivano ancora in remote profondità oceaniche di cui possiamo, però, ritrovare il ricordo: le candide e umide sabbie di antiche lagune ora formano le Cime Bianche, accanto e sotto alle piste di sci di Cervinia. E quando le Alpi iniziarono a muoversi e innalzarsi, chissà quali creature si
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muovevano intorno a quell’alta isola appuntita oggi chiamata Cervino, ma che per i Valdostani è e resterà sempre la «Gran Becca». L’attuale profilo geo-morfologico deriva, dunque, dall’ampio sollevamento tettonico di rocce cristalline che, nell’era terziaria (da 65 a 1,8 milioni di anni fa), ha dato origine alle Alpi, e dal conseguente accumulo dei depositi e delle coltri magmatiche nella depressione valliva
Il villaggio di Petosan, dal quale si gode di una splendida vista sul massiccio del Monte Bianco.
centrale (vedi anche il box alle pp. 14-15). Soprattutto su quest’ultima agirono, successivamente, le glaciazioni quaternarie (da 1,8 milioni di anni fa fino ai giorni nostri), che, spingendo tali masse fino nell’aperta pianura canavesana, la modellò come un ampio corridoio di lieve pendenza che si interna nella massa montuosa. Nei punti di confluenza delle valli laterali si sono cosí originati dislivelli
considerevoli, sicché esse risultano tutte «pensili» e tali da costituire veri e propri terrazzi alpini di alta quota, circondati da innumerevoli vette e creste dentate. Questo modellamento naturale, caratterizzato da forti contrasti, consente di suddividere la regione in due ambiti geografici distinti che, nella cultura locale, vengono significativamente definiti sotto i nomi di Plaine e Montagne.
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LA PREISTORIA
I PRIMI VALLIGIANI LA FREQUENTAZIONE DELLA VALLE D’AOSTA DA PARTE DELL’UOMO EBBE INIZIO CIRCA 9000 ANNI FA, INAUGURANDO UNA «PREISTORIA» NARRATA DA SCOPERTE DI STRAORDINARIO FASCINO: DALLE AREE CERIMONIALI SEGNATE DA IMPONENTI STRUTTURE MEGALITICHE ALLE MISTERIOSE INCISIONI RUPESTRI, DALLE TRACCE DEI SALASSI – I SIGNORI DELLE CIME – ALLE TOMBE DI GUERRIERI VENUTI D’OLTRALPE…
di Luca Raiteri e Alessandra Armirotti
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Aosta, Parco Archeologico e Museo dell’area megalitica di SaintMartin-de-Corléans. Un particolare dell’allestimento della sezione dedicata alle stele. III mill. a.C.
Il Mesolitico (dal 10 000 a.C. al 6800-5500 a.C.) Gli aspetti di carattere geomorfologico legati al glacialismo ci permettono di ipotizzare che non sia possibile rinvenire segni del passaggio dell’uomo in un momento precedente all’ultima glaciazione. Rimane da dimostrare, al contrario, se gruppi umani, riferibili a una fase finale del Paleolitico Superiore, abbiano lasciato tracce sul territorio valdostano, magari in corrispondenza dei ripari sotto roccia del fondovalle. Al momento, le piú antiche attestazioni della presenza umana in Valle d’Aosta sono rappresentate da manufatti in cristallo di rocca (quarzo ialino), provenienti dal comprensorio del Mont Fallère (Saint-Pierre) e riferibili a gruppi di cacciatori-raccoglitori mesolitici. Nel Mesolitico l’habitat assume caratteristiche climatiche e ambientali simili a quelle odierne. L’uomo continua a praticare la caccia, ora rivolta ad animali di taglia piú piccola: cervi, caprioli e cinghiali in ambiente cespugliato e di sottobosco di media quota; camosci, stambecchi e marmotte nei pianori ad alta quota; pesci, molluschi e tartarughe d’acqua in ambiente lacustre e palustre. A questo cambiamento corrisponde l’evoluzione delle industrie litiche, evidente nella fabbricazione di strumenti di piccole dimensioni (microliti), che venivano fissati su supporti di legno o corno/osso. Basti pensare alle frecce, testimonianza indiretta dell’uso ormai generalizzato dell’arco. Emerge che i gruppi mesolitici piú avanzati, ben adattati ai nuovi biotipi e inseriti in nicchie ecologiche estremamente produttive, tendono a elaborare complesse strategie insediative e a occupare il territorio secondo modalità di «spostamento logistico». I cosiddetti «campi base» (siti di fondovalle), quindi, assumono un carattere sempre piú permanente, restando abitati per gran parte dell’anno e, talvolta, mostrando una continuità di
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LA PREISTORIA
insediamento notevole, anche per secoli. A questi insediamenti, che rappresentano il luogo nel quale si svolge la vita di gruppo con le principali occupazioni, si affiancano una serie di siti stagionali di breve durata (siti montani), destinati ad attività specifiche di caccia, ai quali fanno riferimento i manufatti individuati nel territorio valdostano. L’insediamento individuato alle pendici del Mont Fallère (d’ora in poi MF1), a cui si riferisce la frequentazione mesolitica, rinvenuto occasionalmente nel 1998 e localizzato su una dorsale caratterizzata da un orientamento N-S, si affaccia verso est direttamente sull’incisione del ramo orientale del torrente Verrogne. I materiali archeologici provenienti dalle raccolte di superficie (1998 e 2005) risultavano distribuiti sulla parte sommitale della dorsale, per circa 1000 mq. Lo scavo archeologico – condotto dalla Soprintendenza regionale della Valle d’Aosta e dall’Università di Ferrara, tra gli anni 2009 e 2012 – e lo studio sedimentologico, condotto contestualmente, hanno consentito di fare luce sulla genesi del deposito dal quale tali manufatti provengono e di recuperare testimonianze utili alla comprensione delle dinamiche insediative dell’area. Depositi colluviali direttamente sottostanti il manto erboso coprivano livelli riferibili alla sistemazione dell’area da parte dell’uomo a scopo abitativo. L’analisi stratigrafica prova che gran parte dei manufatti litici, prevalentemente su cristallo di rocca e tipologicamente riferibili al Mesolitico Antico (Sauveterriano) e rinvenuti negli strati colluviali superficiali, è da considerarsi in giacitura secondaria, ovvero in una posizione diversa rispetto al luogo dove i gruppi mesolitici li aveva abbandonati. Le caratteristiche principali dell’industria litica del sito MF1, ossia dei manufatti ricavati dalle operazioni di scheggiatura del cristallo di rocca, trovano riscontro in quelle di altri siti sauveterriani d’alta quota di ambito alpino. In particolare, può essere ricondotta al Sauveterriano la seconda fase del Mesolitico Antico svizzero (cosiddetto Mesolitico Antico II/ III o Mesolitico Medio), rappresentata da
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diversi siti nella Svizzera sud-occidentale (Baume d’Ogens nel Plateau Suisse, Vionnaz nelle Prealpi svizzere occidentali e MollendruzAbri Freymond nel Jura sud-occidentale). Nelle relative industrie litiche dominano i triangoli scaleni, accompagnati da diverse punte di Sauveterre. In Francia, nei massicci prealpini della Chartreuse e del Vercors, dalla seconda metà del Boreale, è attestato un Mesolitico Medio che raggiunge le regioni piú interne. Per quanto riguarda il territorio italiano, l’unico sito del settore alpino nord-occidentale, confrontabile con il sito MF1 e riferibile a una fase antica del Mesolitico, è quello di Cianciàvero nella conca di Alpe Veglia (alta Val d’Ossola), i cui materiali sono per la maggior parte in quarzo ialino e risultano tipologicamente affini a quelli del sito valdostano.
Il Neolitico (dal 6800-5500 a.C. al 3500 a.C.) Coniato nella seconda metà del XIX secolo per definire la cosiddetta «nuova età della pietra» e caratterizzato da industrie in pietra levigata, il termine «Neolitico» ha certamente assunto con il passare del tempo un’importanza straordinaria sotto tutti i punti di vista. Si può tranquillamente affermare che il Neolitico rappresenta uno dei momenti determinanti per l’umanità: l’uomo diviene produttore del proprio cibo. Il processo, che prende avvio nella regione siro-palestinese, è basato sulla selezione di quelle piante che mantengono i chicchi ben serrati anche dopo la maturazione. Sostanzialmente l’uomo abbandona la vita nomade, basata su un’economia di caccia e raccolta, e inizia a praticare l’agricoltura e l’allevamento. Il passaggio alla produzione delle risorse alimentari favorisce la nascita dei primi insediamenti stabili, peraltro poco noti nel territorio valdostano, a cui si accompagna l’introduzione della ceramica, che permette di fabbricare contenitori adatti alla conservazione, alla cottura e al consumo di cibi. Nel Neolitico, il settore nord-occidentale della catena alpina si caratterizza per la marcata
Ricostruzione di una scena di caccia al Mont Fallère nel Mesolitico.
eterogeneità delle informazioni archeologiche disponibili. La neolitizzazione delle Prealpi francesi, dell’Italia del Nord e dell’alto bacino del Rodano (Vallese) esprime di fatto il complesso culturale della Ceramica impressa mentre, al contrario, i massicci e le valli interne delle Alpi francesi e italiane risultano prevalentemente sconosciute dal punto di vista del popolamento. Successivamente, nel Neolitico Medio/Recente, considerato come il «pieno» o il «vero» Neolitico, le relazioni tra i due versanti delle Alpi sono ben documentate. In particolare, nel Neolitico
Medio (NM I francese e svizzero), le influenze liguri e padane si manifestano, seppur in quantità moderata, nel bacino del Rodano e in Provenza; al contrario, nel Neolitico Recente (NM II francese e svizzero), si osservano un’inversione di tendenza e una certa complessità «culturale»: nell’ultimo quarto del V millennio a.C., in Liguria e in Piemonte si assiste a una presenza chasseana (cultura neolitica proveniente dalla Francia) che tende lentamente a estendersi verso l’Italia settentrionale. Le piú antiche manifestazioni del Neolitico (segue a p. 28)
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LE INCISIONI RUPESTRI
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n fenomeno particolarmente importante per lo studio del popolamento preistorico della Valle d’Aosta è l’arte rupestre. Lo studio delle incisioni su roccia permette di comprendere le vicende legate all’uomo, da un punto di vista diverso rispetto alle indagini archeologiche tradizionali. Tali studi consentono, da un lato, di far luce sulle credenze, sulle ideologie e sui pensieri dei gruppi umani del passato, dall’altro di approfondire e confermare gli aspetti di carattere crono-culturale derivanti dalle indagini stratigrafiche dei depositi archeologici. Ma perché è importante l’arte rupestre? Perché rappresenta una finestra su un mondo perduto, che dà la possibilità all’archeologo di poter ricostruire i modi di vita delle popolazioni antiche. Per comprendere la grandiosità,
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nonché il livello artistico raggiunto dall’uomo nella preistoria è sufficiente citare le parole pronunciate da Pablo Picasso, quando visitò la grotta spagnola di Altamira: «Da Altamira in poi, tutto è decadenza. Nessuno di noi è in grado di dipingere cosí bene». Nel settore nord-occidentale delle Alpi – area che comprende la Valle d’Aosta – l’arte rupestre presenta, a livello quantitativo, una concentrazione nettamente In basso il riparo di Chenal, presso Montjovet. A destra e nella pagina accanto rilievo e foto delle incisioni del riparo di Chenal, con grandi figure di occhi senza pupilla contornati dalle arcate sopracciliari.
minore rispetto alle «capitali alpine» (ossia al complesso camuno-tellino e di Monte Bego). Tale situazione potrebbe essere legata alla diversa tessitura dei supporti petrografici. Uno scenario ben diverso emerge a livello qualitativo: le vallate del settore nord-occidentale presentano elementi di sicuro interesse, in grado di coprire un arco cronotematico riferibile alla preistoria recente, nonché alla protostoria.
In quest’area, si possono sintetizzare sei ambiti iconografici principali: topografico (Neolitico); del megalitismo e dei pugnali (Rame e Bronzo Antico); meandrospiralico (Bronzo Recente e Finale); degli antropomorfi
schematici (Bronzo Recente e Finale); dei guerrieri e delle armi (Età del Ferro e periodo romano); delle rocce a coppelle (periodo indeterminato appartenente indicativamente alla pre-protostoria e persino al periodo romano).
In Valle d’Aosta sono presenti rocce con incisioni nonfigurative, cioè con coppelle e canaletti, e rocce con incisioni figurative, come per esempio esseri umani, animali e manufatti. È doveroso segnalare che la gran parte delle superfici
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Montjovet. Foto e restituzione grafica delle incisioni raffiguranti «teste» quadrangolari con volti schematici e con capelli formati da archi e semicerchi nella parte sommitale del riparo di Chenal.
incise presenti sul territorio valdostano sono state segnalate alla Soprintendenza regionale dai membri della Société Valdôtaine de Préhistoire e d’Archéologie, ente presieduto dal professor Damien Daudry, ispettore onorario della stessa
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Soprintendenza dal 2017. Al momento non è possibile indicare figure attribuibili al Mesolitico nelle Alpi occidentali, mentre sono noti tre siti della Valle d’Aosta databili al Neolitico Medio (V millennio a.C.). Il primo si riferisce al
riparo La Barma di Valtournenche, che presenta una parete verticale incisa a picchiettatura in due aree distinte: nella prima zona è incisa una figura simile a una maschera databile al Neolitico; nella seconda zona si trova un gruppo di armi (una serie di asce e un pugnale) databili a una fase piú recente tra il Bronzo Antico e Medio (2200-1500 a.C. circa). Il secondo è il riparo inciso di Chenal di Montjovet, nel quale si osservano diverse fasi artistiche che presentano figure mascheriformi, a occhio con ciglia, figure a barca o a uccello e serpentiformi, simili a figure nell’arte megalitica dell’Europa occidentale, databili a varie fasi tra il 4500 a.C. e il 3000 a.C. Il terzo è rappresentato da
In questa pagina rilievo e foto dell’incisione di una figura di orante appartenente a una tipologia rinvenuta a Chenal per la prima volta in Valle d’Aosta.
alcune rocce in località Montdes-Fourches a Saint-Vincent, sulle quali sono presenti figure di animali, segni a solco continuo (polissoir) con sezione a V, forse utilizzati come affilatoi di strumenti di lavoro o di armi, figure a frange e segni a «U» rovescia. In merito alle figure di animali lo studio realizzato dall’équipe di Angelo Eugenio Fossati (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) riferisce la presenza di nove stambecchi: sei con grandi corna, in visione frontale e in visione laterale e tre con corna in sola visione laterale. In merito, le Alpi occidentali rappresentano l’area dove queste figure sono maggiormente rappresentate, anche in epoche successive e
dove questi animali hanno sempre vissuto. L’arte rupestre dell’Età del Rame in Valle d’Aosta è ben rappresentata sia da incisioni su rocce all’aperto, sia dalle stele antropomorfe scoperte a Aosta in corso Saint-Martin-de-Corléans. Queste ultime sono caratterizzate dalla presenza di armi (pugnale, ascia e arco con frecce) e di elementi facenti parte del vestiario tra i quali è possibile evidenziare: pendagli, collane e cinture. La datazione all’Età del Rame è confermata dalla presenza dei pugnali di tipo Remedello, cosí chiamati perché ne sono stati trovati tanti nella necropoli di Remedello Sotto in provincia di Brescia. Per quanto riguarda le incisioni su rocce all’aperto del periodo in questione, è doveroso fare riferimento a quella di Le CrouChamprotard nel comune di Introd dove, oltre ai pugnali remedelliani, compare anche la raffigurazione di un’alabarda del Bronzo antico e alla roccia superiore di Chenal a Montjovet, la cui forma generale ricorda innegabilmente quella della parte superiore di una stele e sulla quale sono incise una serie di pendagli a doppia spirale. Mentre all’Età del Bronzo è possibile attribuire una serie di figure umane schematiche (oranti e armati) relative al riparo di Chenal e alle rocce del Mont des Fourches, oltre alle armi (asce, pugnali, alabarde) del riparo La Barma di Valtournenche di cui si è fatto cenno in precedenza, sono poche le incisioni rupestri riconducibili con certezza all’Età del Ferro: la piú rappresentativa si riferisce certamente a una barca incisa sulle rocce di Bard, simile alle
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figure di barche con teste di animali della Scandinavia e con teste di uccello della Valcamonica e della Valtellina. In conclusione è importante trattare il fenomeno delle coppelle e dei canaletti, le cui incisioni si contano numerose sul territorio valdostano. Mentre le coppelle sono realizzate il piú delle volte incidendo e abradendo la roccia, i canaletti sono stati prodotti dalla levigatura o dalla percussione della stessa. Le rocce incise in questo modo si contano a centinaia e si trovano spesso in località con nomi piuttosto evocativi. I casi di leggende, riti e addirittura santuari di epoca cristiana legati ai massi coppellati sono numerosissimi. Quanto all’interpretazione e all’inquadramento cronologico delle coppelle, gli studiosi hanno proposto numerose ipotesi, non sempre condivisibili. Secondo Angelo Eugenio Fossati, quando le coppelle sono incise su rocce con superfici piane, come per esempio nel caso del Plan des Sorcières, la funzione delle coppelle come contenitore appare evidente e innegabile. In questo caso, molto probabilmente gli antichi vi versavano liquidi (acqua, vino, latte, sangue?) per funzioni rituali o magiche.
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Nella pagina accanto Bard. Il motivo della barca solare. A destra Montjovet. Incisioni sulla roccia 1 di Chenal riferiti a motivi circolari e pendagli a doppia spirale. In basso, sulle due pagine Montjovet. La roccia 1 di Chenal.
Quando invece esse sono situate su rocce con superfici oblique o verticali, come nel caso di La Barma o di Chenal, allora si può pensare ad altre funzioni, quali per esempio l’idea di incidere le coppelle per ricavare e raccogliere delle polveri considerate terapeutiche o magiche, come è noto da confronti etnografici, per esempio tra i nativi americani. Sono da escludere per il momento, invece, altre ipotesi, come per esempio quelle che vedono in questi segni rappresentazioni stellari, di villaggi o altre fantasiose idee. In merito alla cronologia tale tipologia di incisione potrebbe riferirsi all’Età del Rame, come per esempio la stele 12 di SaintMartin-de-Corléans, caratterizzata da un centinaio di coppelle e riutilizzata come copertura della tomba I nella fase recente dell’Età del Rame e nel prima parte del Bronzo antico, ovvero alle successive Età del Bronzo, del Ferro arrivando sino al periodo medievale. Segni antichissimi, pregni di storia e significato, da preservare, interpretare e valorizzare, perché non cadano nell’oblio tracce preziose di idee, usi, credenze e pensieri, incisi nella roccia affinché fossero immortali. Luca Raiteri
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LA PREISTORIA
finora note in Valle d’Aosta si riferiscono alla seconda metà del V millennio a.C., momento in cui, presso l’area cultuale di Saint-Martin-deCorléans, viene tracciata nel terreno una serie di solchi rituali. Ad Aosta, tali tracce, riconducibili a una probabile aratura e corrispondenti al primo intervento umano documentato nell’area megalitica, precedono un’altra importante fase, attribuibile al Neolitico medio/recente: lo scavo e l’utilizzo di 15 pozzi. Queste fosse, interpretate dagli studiosi come rituali e caratterizzate da una forma cilindrica o sub-cilindrica, risultavano colmate da un riempimento a piú livelli e conservavano al loro interno pochi reperti, ma particolarmente significativi: semi, soprattutto di cereali, resti di frutti, macine per il trattamento dei cereali e associazioni cultuali di scaglie litiche e ciottoli. Coeve alle prime due fasi dell’area megalitica di Aosta risultano le sepolture a cista litica, rinvenute nel territorio valdostano a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Si tratta di una caratteristica tipologia di tomba – singola o plurima, in cista o cassetta litica rettangolare formata da quattro lastre infisse di coltello nel terreno oltre a una quinta lastra di copertura – denominata Chamblandes, dal sito eponimo di Pully-Chamblandes nel Cantone di Vaud, in Svizzera. Tale rituale funerario si estende nelle aree del lago di Ginevra, del Vallese e dell’altopiano svizzero, in Tarentaise, nell’alto Rodano francese e in Valle d’Aosta tra il V e l’inizio del IV millennio a.C. Come detto, i primi rinvenimenti in Valle d’Aosta di simili sepolture risalgono alla seconda metà del XIX secolo: nel 1869, a SaintNicolas, nel corso di lavori agricoli, fu messa in luce una tomba a cista, contenente al suo interno un bracciale ricavato da una valva di Glycymeris sp., ovvero una conchiglia marina proveniente dal Mar Mediterraneo; nel 1885, sempre a Saint-Nicolas, venne alla luce una seconda tomba di tipologia analoga, anch’essa accompagnata da un bracciale in conchiglia; qualche anno piú tardi, nel Comune di Sarre, furono individuate tre tombe realizzate con lastre di pietra accompagnate da un corredo
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formato da due conchiglie lavorate. Inoltre, risalgono ai primi decenni del Novecento il rinvenimento di cinque tombe a cista litica al di sotto di sepolture medievali in Località Fiusey (1909), nel Comune di Montjovet, e la scoperta di una necropoli nei pressi dell’abitato di Villeneuve (1917), su un terrazzo affacciato sulla Dora Baltea. Le indagini archeologiche, condotte da Piero Barocelli in località Champrotard, misero in evidenza 25 tombe a cista litica, con i defunti in posizione rannicchiata sul fianco sinistro, il cranio rivolto a ovest e alcuni oggetti riferibili al corredo. Successivamente l’area fu di nuovo indagata nel 1987 da Franco Mezzena con la scoperta di 8 nuove tombe. Nel Comune di Quart, su un dosso roccioso dominante la plaine, venne alla luce nel 1968 il piú importante sepolcreto valdostano con tombe di tipo Chamblandes. Si tratta della necropoli di Vollein, scoperta dagli abitanti della frazione e segnalata alla Soprintendenza competente da Damien Daudry, Presidente della Société de Recherches et d’Etudes préhistoriques alpines d’Aoste. Le indagini archeologiche, condotte da Franco Mezzena nel 1968, con un primo intervento, e successivamente dal 1983, con ricerche sistematiche, misero in luce 66 tombe a cista litica, fra cui due tombe bisome – caratterizzate cioè da una doppia sepoltura all’interno della cista litica – e consentirono il rinvenimento nelle tombe 17, 21 e 30 di bracciali, ricavati da grandi valve forate di Glycymeris sp. Come a Villeneuve, gli scheletri furono deposti in posizione rannicchiata sul fianco sinistro e con il capo orientato a S-SW. I frammenti ceramici provenienti dall’area, che risultava rimaneggiata sino agli strati basali, sono riferibili a due distinti orizzonti cronologici: il primo a un Neolitico Medio; il secondo, piú recente, alla media età del Bronzo. Peraltro, tale attribuzione culturale è stata confermata da due datazioni, effettuate con il metodo al radiocarbonio su frammenti di carbone provenienti dagli strati pertinenti agli orizzonti di cui sopra.
Saint-Martin-deCorléans. Un tratto dell’aratura rituale, che, grazie a particolari circostanze geologiche, si è conservata in condizioni eccellenti. Secondo le analisi radiocarboniche fu eseguita fra il 4100 e il 3900 a.C.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
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L’Età del Rame (dal 3500 a.C. al 2200 a.C.) Intorno alla metà del IV millennio a.C. si assiste alla nascita di una nuova epoca: l’Età del Rame. Tale periodo si contraddistingue per una cultura materiale che riflette l’esistenza di movimenti culturali e scambi di vasta portata. Importanti innovazioni agiscono nella vita di tutti i giorni, comportando considerevoli cambiamenti in termini economici e di sussistenza: si assiste allo sviluppo delle tecniche agricole, favorito, in particolare, dall’utilizzo dell’aratro e dalla presenza del carro su ruote; cresce l’importanza dell’allevamento, con lo sfruttamento dei prodotti secondari a esso legati e con lo sviluppo della pastorizia di altura. Accanto alla lavorazione della pietra scheggiata e levigata si afferma nel territorio italiano, con un ritardo di quasi due millenni rispetto all’Europa sud-orientale, la pratica della metallurgia. La produzione di oggetti in rame sembra essere limitata alle armi (pugnali, alabarde e asce), mentre gli ornamenti e gli utensili in genere sono molto piú rari. È probabile che il possesso di armi in rame fosse una prerogativa delle classi agiate, ovvero dei guerrieri di alto rango. Nuovi riti e costumi favoriscono la riorganizzazione della società, con complicazioni e sfide per l’intero sistema di idee, valori e simboli. Si assiste a una crescente attenzione nei confronti degli aspetti cultuali, come dimostra l’aumento dei monumenti funerari e dei centri cerimoniali.
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Proprio questi ultimi potrebbero aver rappresentato le sedi ideali, nelle quali le comunità si riunivano periodicamente, celebrando il mondo degli antenati e rafforzando la coesione tra i vivi. Risulta evidente che durante l’Età del Rame (Neolitico finale francese e svizzero), le Alpi non costituiscono una barriera ai movimenti dell’uomo. In merito, su di un piano strettamente ideologico, le manifestazioni di culto e i riti funerari testimoniano la presenza di idee comuni – al di là delle differenze puramente regionali – e attestano, attraverso l’innalzamento delle stele antropomorfe e l’edificazione di sepolture collettive, una rinnovata concezione rivolta al mondo dei vivi. La distinzione tra gli individui (uomini) riscontrata nella presenza delle armi (nei corredi o raffigurate) costituisce un ulteriore tratto comune tra i due versanti alpini: le rappresentazioni delle armi incise sulle stele e, in genere, presenti nelle raffigurazioni su massi e ripari; un cospicuo numero di pugnali derivati o imitati nei siti d’abitato sulle rive dei laghi transalpini e nelle sepolture collettive del bacino del Rodano. Inoltre, si riconosce un’evidente affinità tra le regioni in virtú di particolari analogie riscontrate sul piano architetturale e iconografico, evidenziata peraltro dalla straordinaria somiglianza tra l’Area megalitica di Aosta e il sito di Petit-Chasseur a Sion nel Vallese, nonché dal corredo di tre sepolture messe in luce a Fontaine-le-Puits in Tarentaise, dove è dimostrata una puntuale influenza di Remedello (sito eneolitico scoperto
Veduta dal Monte Cervino (4478 m), sulla destra, dei massicci monutosi circostanti.
nel Bresciano, da cui prende nome una delle piú importanti culture dell’Età del Rame, n.d.r.) sino ai territori riferiti alle Alpi savoiarde. In Valle d’Aosta l’Età del Rame è finora rappresentata dall’importante sito archeologico situato ad Aosta in via Saint-Martin-deCorléans, individuato da Rosanna Mollo e Franco Mezzena nel giugno del 1969 in occasione di sterri edilizi. Il grande complesso cerimoniale, inizialmente frequentato per esclusive finalità di culto, solo in un secondo momento fu utilizzato anche come area funeraria. Lo studio dell’area megalitica indica vari episodi di trasformazione, alcuni dei quali riconducibili all’Età del Rame: l’innalzamento di 24 pali lignei orientati NE-SW; gli allineamenti di stele antropomorfe e menhir; la costruzione di strutture tombali megalitiche che conservano la memoria cultuale delle fasi precedenti. Gli importanti ritrovamenti di Saint-Martin-deCorléans, risalenti al III millennio a.C., consentono di ipotizzare la presenza di insediamenti stabili in Valle d’Aosta; tale eventualità, per il momento non suffragata da alcun ritrovamento di un certo rilievo, potrebbe essere confermata, almeno in parte, da una serie di testimonianze relative a tracce di frequentazione provenienti da Saint-Pierre, in Località Verdjouan, alle pendici del Mont Fallère nonché a Verrayes, in Località Rapy. Il già menzionato sito MF1 (Mont Fallère 1), oltre a indicare la presenza di gruppi di cacciatori raccoglitori nel Mesolitico, ha restituito evidenze archeologiche relative anche all’Età del Rame: uno strato con evidenti tracce
di frequentazione e di uso da parte dell’uomo, sul quale si imposta un focolare, che conserva una quantità consistente di carboni di legno. Tali tracce risultano associate a una struttura situata nella porzione meridionale dello scavo e costituita da elementi lapidei. Le date radiocarboniche, riferite a carboni di legno presenti nella cuvette del focolare e negli strati d’uso, oltre al rinvenimento di un’ascia in pietra verde levigata, attribuibile all’Età del Rame, confermano l’attribuzione culturale al periodo in argomento. Risulta, inoltre, verosimile che la frequentazione del sito d’altura MF1 possa testimoniare le prime forme di transumanza verticale cosí come avvalorato da recenti studi paleoecologici condotti dal CNR di Milano in una torbiera localizzata a poche centinaia di metri dal sito. Per quanto riguarda il sito di Rapy, nel novembre 1985, gli scavi eseguiti per la posa di un acquedotto nel pianoro a oriente di Verrayes hanno permesso di individuare, a una profondità di oltre 2 m dal piano di calpestio, alcune tracce di un probabile villaggio preistorico. L’esplorazione archeologica, limitata alla trincea scavata per la posa delle tubazioni, ha consentito di raccogliere un numero esiguo di reperti piuttosto significativi. Tra questi, risulta di particolare importanza il rinvenimento di un frammento di ceramica, decorato a pettine e tacche e riconducibile al «vaso campaniforme». Tale recipiente a forma di campana caratterizzato da decorazioni a impressioni con fasce riempite da motivi geometrici, che intorno alla seconda metà del
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LA PREISTORIA
III millennio appare diffuso su una vasta area dell’Europa, risulta presente anche a SaintMartin-de-Corléans durante la frequentazione delle tombe megalitiche. L. R.
Le Età del Bronzo e del Ferro Dalla fine della preistoria (III millennio a.C.) all’età romana (fine I secolo a.C.), la Valle d’Aosta ha vissuto in pieno le dinamiche sociali e culturali che hanno interessato tutta l’Europa durante quelle che convenzionalmente si chiamano Età del Bronzo (II millennio a.C.) ed Età del Ferro (I millennio a.C.), in riferimento all’utilizzo dei metalli da parte dell’uomo per le proprie attività quotidiane. La diffusione della metallurgia, infatti, che ha portato a un artigianato stabile e specializzato, unitamente all’evolversi delle tecniche di produzione agricola, ha consentito all’uomo di controllare intensamente il territorio, sia per lo sfruttamento di preziose materie prime sia per gli scambi e i commerci. La ricerca archeologica ha permesso, fino a oggi, di avere un quadro piuttosto ampio, anche se non sempre omogeneo, soprattutto per quanto concerne le pratiche funerarie, dei processi insediativi in Valle d’Aosta tra II e I millennio a.C. I gruppi umani stanziati nel nostro territorio sono la conseguenza di una forte permeabilità, agevolata dalla presenza dei colli alpini, ai molteplici influssi culturali che circolano in Europa in questo periodo, e che mescolano origini centro-europee e mediterranee al sostrato indigeno. Caratterizzata da una particolare cultura materiale di tradizione celtica, questa popolazione sarà contraddistinta da un nome, «Salassi», solamente a partire dalla seconda Età del Ferro, quando entra in contatto con il mondo romano cui verrà gradualmente assimilata. La menzione piú antica dei Salassi, stanziati tra i territori di Ivrea, Biella e Aosta, risale alla metà del II secolo a.C. nelle Origines di Catone che li dice di «stirpe taurina» («Tauriscæ gentis») assieme ai Leponzi, stanziati nell’Ossola e nel Canton
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Ticino, e ai Taurini del Torinese. Polibio (riportato da Strabone) enumera, tra i 4 valichi alpini, il passaggio «attraverso la terra dei Salassi». L’indicazione di Tito Livio «per Salassos montanos» rientra nelle discussioni sul passo attraverso cui sarebbe transitato Annibale; è interessante notare come, nell’economia del testo, l’uso del moto per luogo possa evidenziare come questa popolazione occupasse in maniera capillare i valichi alpini e le alte quote. Ed è sempre Livio, scrivendo nel I secolo a.C. avanzato, a definirli non a caso «gente alpina». Dione Cassio, che a quanto pare attinge proprio a quest’ultimo passo liviano, definisce i Salassi «una tribú gallica» (framm. 74 L. XXII), e cosí pure Orosio, che li definisce «Galli Salassi» (V, 7,4). L’etnonimo, tuttavia, non ha ancora trovato un’interpretazione definitiva, prestandosi a diverse ipotesi di lettura. È possibile che nell’etnico Salassi vi sia la radice indoeuropea *sala (canale, corso d’acqua), collegabile non solo alla notevole ricchezza d’acqua dei territori, ma anche alle complesse opere idrauliche per il lavaggio delle sabbie aurifere. Altra ipotesi vi vede un rimando, peraltro assai probabile, al «sale» in considerazione delle miniere di «oro bianco» presenti nell’arco alpino e nel cui commercio i Salassi avrebbero potuto essere coinvolti. Un’altra importante voce dell’economia salassa, come già accennato, era costituita dalle miniere d’oro presenti lungo l’intera valle della Dora Baltea. Valichi, commerci e miniere si collocano, dunque, con buona probabilità alla base dello scontro coi Romani interessati al controllo di questi ricchi e strategici territori cosí come allo sfruttamento di tali risorse. Nel 143 a.C., sotto il consolato di Appio Claudio, l’esercito romano si scontrò con le schiere salasse in una sanguinosa battaglia che contò molte perdite da entrambe le parti. L’esito fu tuttavia favorevole ai Romani che ottennero il controllo del Canavese; i Salassi dovettero arretrare mantenendo, però, il controllo di quella che oggi è la Valle d’Aosta.
Una vetrina del Museo Archeologico Regionale di Aosta nella quale sono riuniti oggetti in metallo e vasellame databili fra l’Età del Ferro e gli inizi della fase romana.
Per oltre un secolo riuscirono ad avere con Roma rapporti indipendenti, sebbene tesi, finché la capillare campagna di «pacificazione» delle popolazioni alpine condotta da un giovane Ottaviano Augusto portò alla definitiva sconfitta del popolo salasso. Nel Tropæum Augusti di La Turbie, eretto tra il 7 e il 5 a.C. sul promontorio che sovrasta Montecarlo, tra le 46 tribú alpine citate figurano anche i Salassi. Questo fiero popolo alpino, tuttavia, non venne radicalmente annullato o ridotto in schiavitú, ma incorporato nella nuova entità coloniale come attestano diverse iscrizioni tra cui l’epigrafe menzionante i «Salassi incolæ» ritrovata nel 1894 nei pressi della Porta Principalis Dextera di Augusta Prætoria.
Una leggenda, sostenuta nel XVIII secolo dallo scrittore e uomo politico valdostano JeanBaptiste de Tillier (1678-1744), affermava che i Salassi discendessero dal mitico Ercole, il «Graius numen» eponimo dell’Alpis Graia, il colle del Piccolo San Bernardo. E al seguito di Ercole vi sarebbe stato Statielo il cui figlio, Cordelo, decise di fermarsi in questa valle. Costui si sarebbe messo a capo dei Salassi e si sarebbe stanziato nella parte centrale della Valle d’Aosta dove avrebbe fondato la mitica città di Cordela, immaginaria antesignana di Aosta. I miti si intrecciano in queste origini leggendarie di Aosta, alla cui base però si rileva come fosse comunque nota una presenza antica, misteriosa, difficilmente
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LA PREISTORIA
descrivibile altrimenti. Probabilmente si sapeva che in questa zona i millenni avevano lasciato testimonianze particolari, le cui origini e le cui motivazioni affondavano in un’epoca «perduta», troppo lontana nel tempo perché si riuscisse a meglio contestualizzarla. In seguito, grazie prima a ritrovamenti fortuiti e, poi, a mirate ricerche archeologiche, si è avuta la possibilità di conoscere meglio questo popolo, soprattutto attraverso il rinvenimento di oggetti appartenenti a corredi funerari e di uso quotidiano, testimoni di una cultura materiale di indubbia matrice celtica, assai affine a quella del confinante popolo dei Veragri, stanziati oltre il Gran San Bernardo nell’attuale Vallese elvetico: collari a torquis, armille e anelli da caviglia in bronzo massiccio, fibule ad arco e a navicella, armille in vetro blu cobalto e a spirale in bronzo dorato con perle in pasta vitrea; vasi ovoidali e a «trottola» con fasce bianche sovradipinte. Veri «signori delle cime» che dai monti stessi hanno saputo ricavare rifugio e ricchezze, la cui reale arma, anche contro le potenti legioni romane, fu la profonda e straordinaria conoscenza di un territorio aspro e severo.
Insediamenti d’altura A partire dall’Età del Bronzo si assiste alla fondazione di insediamenti d’altura strategici per il controllo del territorio e delle vie di transito (Mont Fallère e vallone di La Thuile) e, a quote piú basse, alla rioccupazione di aree frequentate nell’Eneolitico, come è il caso, per esempio, di Saint-Martin-de-Corléans (Aosta) e Vollein (Quart). Con l’avanzare del tempo, si assiste in molti casi a un incremento di insediamenti dediti principalmente ad attività agro-pastorali, costituiti da capanne in muratura a secco con focolari (è il caso del sito sotto la chiesa di S. Maria a Villeneuve o di quello a Ville-sur-Sarre). A partire dalla fine del II millennio a.C. la crescita demografica e lo sviluppo economico delle comunità insediate in valle completano il processo di occupazione dell’intero territorio. Cresce infatti il numero degli abitati ubicati in
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luoghi sopraelevati naturalmente difesi, in posizioni strategiche per il controllo delle vie di transito, che recano nello stesso toponimo (Châtelet a Saint-Pierre o Châtillonet a Challant-Saint-Anselme) traccia del carattere difensivo del loro apprestamento. Dalla conca di Aosta, in particolar modo dai due siti piú importanti – quali l’area di
La tomba di guerriero compresa nel tumulo scoperto ad Aosta durante i lavori per l’ampliamento dell’ospedale regionale. Metà dell’VIII sec. a.C.
ampliamento dell’Ospedale regionale e il sito di Saint-Martin-de-Corléans –, frutto di recentissimi scavi e studi, provengono inoltre significative tracce dello sfruttamento agricolo dell’area, come solchi di arature e sistemi di canalizzazioni, in adiacenza a resti piú chiaramente insediativi, quali focolari e buche di palo, relativi ad abitati di strutture lignee. Tra la fine dell’Età del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro continua il processo di arroccamento degli insediamenti a quote elevate, alcuni dei quali collegati ad attività minerarie: sembra questo il caso dell’abitato di Lignan, nell’alto vallone di Saint-Barthélemy (Nus), a circa 1550 m di quota, dove l’indagine archeologica ha messo in luce una serie di ambienti quadrangolari in muratura disposti intorno a un’area verosimilmente scoperta. Il controllo delle vie di transito sembra essere la caratteristica principale anche degli insediamenti pienamente databili all’Età del Ferro, che, a partire dal I millennio a.C., sorgono in tutta la Valle d’Aosta: non solamente sulla sommità di promontori o dossi naturali (quali l’areale del castello di Cly a Saint-Denis o il castelliere di Bois de Montagnoulaz a Pré-Saint-Didier), ma anche in pianura, nella conca di Aosta. Qui, per ragioni culturali, socio-economiche e geografiche ancora non del tutto chiare, non si sviluppa il modello insediativo protourbano, l’oppidum, ben attestato invece sia al di là delle Alpi sia in ambito nord-italico. L’abitato si sviluppa invece in piccoli nuclei sparsi di insediamenti, posti lungo la fascia collinare a nord, di cui sono recentemente state scoperte importanti tracce. I dati piú rilevanti provengono infatti dal cantiere per l’ampliamento dell’ospedale regionale, in un’area pianeggiante all’incrocio tra le vie per il colle del Gran San Bernardo e quella verso il passo del Piccolo San Bernardo. Qui sono infatti stati identificati un monumentale circolo di pietre del diametro di ben 135 m, databile alla metà dell’VIII secolo a.C., e un tumulo funerario, di poco successivo, riservato a un guerriero deposto con la propria spada in ferro, all’interno di una
cassa lignea. Le analisi condotte sullo scheletro e lo studio del corredo permettono di datare alla metà del VII secolo a.C. la sepoltura e di ipotizzare la provenienza del guerriero dalle regioni d’oltralpe dello Jura francese. La pratica dei tumuli funerari, tipica delle regioni transalpine e dell’Italia nordoccidentale, sembra trovare ampia diffusione in Valle d’Aosta: sono infatti noti altri due tumuli, pressocché coevi, anche se piú piccoli come dimensioni. Il primo si trova a poca distanza da quello dell’Ospedale e l’altro è noto già da tempo nel sito di Saint-Martin-de-Corléans. Durante la seconda Età del Ferro alcuni insediamenti continuarono a essere occupati (come il sito di Bois de Montagnoulaz o quello di Messigné, nel comune di Nus), mentre altri, a quote piú basse, furono costruiti ex novo, quali quello nei pressi del casello autostradale di Châtillon o quello di Saint-Martin-deCorléans. Per quanto riguarda i rituali funerari si conferma in questo periodo la prevalenza dell’inumazione in semplice fossa: le sepolture possono essere singole o raggruppate in piccoli nuclei, come è il caso, per esempio, della piccola necropoli di Ordines, nel comune di Saint-Pierre. L’Età del Ferro termina con la fondazione, nel 25 a.C., della colonia di Augusta Prætoria, al termine di un processo lungo e a volte difficile, di conquista territoriale che i Romani iniziano nel II secolo a.C. verso le regioni del Nord, finalizzato principalmente al controllo delle vie di comunicazione e allo sfruttamento delle risorse locali. In questo programma sembrano vadano inquadrati i numerosi siti ubicati a quote notevoli (oltre i 2300/2500 m), in prevalenza ancora inesplorati, caratterizzati dalla presenza di strutture murarie di tipo difensivo e abitativo: le tracce materiali finora individuate sembrano infatti ricondurre a postazioni militari di piena epoca romana, leggermente precedente la fondazione della colonia, momento in cui sui passi alpini l’avanzata dell’esercito di Roma necessitava di presídi difesi e controllati. A. A.
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LA PIETRA, RICCHEZZA DELLA MONTAGNA
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uello tra l’uomo e la pietra è un legame strettissimo, che affonda le sue radici in epoche assai remote, quando ancora non si può nemmeno parlare di Homo sapiens, ma di Ominidi. Dai primissimi grezzi ma intuitivi utensili, come i choppers, fino alle costruzioni megalitiche; dai semplici ripari in caverna o sotto roccia, fino alle monumentali architetture romane e medievali. Dalla volontà insita e spontanea di voler comunicare le proprie idee, paure o speranze incise sulle rocce, fino ai piú raffinati capolavori di statuaria. Nei millenni pietre e uomini hanno sempre dialogato in un’intensa e osmotica convivenza, fatta sicuramente di necessità e funzionalità, ma per questo non priva di una certa costante ricerca di equilibrio e resa estetica. Vediamo, dunque, come tale rapporto si è manifestato attraverso le diverse epoche in un territorio dominato dalla roccia quale è, appunto, la Valle d’Aosta. Preistoria. Il cristallo di rocca, una peculiarità valdostana Il cristallo di rocca ha rappresentato una risorsa fondamentale per l’uomo preistorico in Valle d’Aosta. Tale materia prima, ovvero il quarzo ialino, appartiene alla famiglia del quarzo, si presenta incolore ed è caratterizzato da un’estrema lucentezza e trasparenza. I minerali del quarzo sono di origine primaria e la loro formazione avviene a partire dal raffreddamento di un magma acido all’interno della crosta terrestre a determinate condizioni di temperatura, pressione e profondità. Nella regione valdostana affiorano prevalentemente rocce
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cristalline e la risorsa litica esclusivamente rappresentata è perciò il quarzo, soprattutto ialino, appunto, che si trova frequentemente in giacitura primaria nelle vene e fessure delle metamorfiti e in giacitura secondaria nei depositi morenici glaciali. In Valle d’Aosta tale Nella pagina accanto la stele 30 di Saint-Martin-de-Corléans. Metà del III mill. a.C. Aosta, Parco Archeologico e Museo dell’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans. In basso Saint-Pierre, Mont Fallère. Manufatti mesolitici in cristallo di rocca provenienti dal sito MF1.
minerale è stato sfruttato sin dall’antichità. I gruppi di cacciatori raccoglitori che frequentavano la Valle nel Mesolitico andavano alla ricerca del cristallo di rocca presso il comprensorio del Monte Bianco cosí come in cima alla Valle del Gran San Bernardo. Basti pensare, a titolo esemplificativo, al sito del Mont Fallère (in comune di SaintPierre) dove l’industria in quarzo arriva a proporzioni del 98% e dove gli studi relativi all’approvvigionamento della materia prima dimostrano che l’uomo ha percorso diversi chilometri per giungere al ghiacciaio del Miage e raccogliere il prezioso minerale. La motivazione principale della presenza quasi assoluta del cristallo di rocca nell’industrie litiche preistoriche locali è dovuta all’assenza in Valle d’Aosta della selce, considerata la materia prima maggiormente utilizzata per strumenti e armature durante la Preistoria. Sappiamo che l’uomo presitorico non fu il solo a utilizzare il cristallo di rocca per fabbricare manufatti, basti pensare a Plinio il Vecchio che, nel I secolo d.C., cosí descriveva la ricerca di questo prezioso ed enigmatico minerale: «Il cristallo di quarzo nasce su rocce delle Alpi cosí impervie, che lo debbono ricavare appesi a delle funi. Agli esperti sono noti dei segni e degli indizi particolari esistenti nelle rocce che indicano la presenza di quel che van cercando» (Naturalis Historia XXXVII, 27). Va sottolineato, inoltre, come la ricerca dei cristalli non sia di fatto mai terminata, arrivando
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fino ai nostri giorni attraverso figure come i «cristalliers», ossia i «cercatori di cristalli», esperti e fini conoscitori della montagna e delle sue «pieghe» piú segrete. Capaci di esplorare le zone piú isolate e, per questo, di straordinario valore naturalistico, per individuare quei doni del ventre montano che sono i cristalli, vere e proprie gocce di un’ancestrale memoria concretizzatasi nelle viscere della terra, in quell’ambiente cosí apparentemente immobile,
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ma di fatto cosí incredibilmente mutevole che è la montagna. I megaliti dell’Età del Rame Nella ricerca di materiali rispondenti a esigenze di durata, solidità e resistenza, le popolazioni abitatrici dell’arco alpino occidentale nell’Eneolitico, periodo inquadrabile tra la fine del IV e la seconda metà del III millennio a.C. (3400-2200 a.C. circa) privilegiarono le rocce locali per la realizzazione di manufatti
megalitici di forte impatto. Le stele antropomorfe, vero tesoro scultoreo rinvenuto negli scavi di Saint-Martin-de-Corléans, sono create a partire da lastre, lavorate con grande maestria e conoscenze tecniche, selezionate tra le pietre ritenute migliori presenti nel territorio, estratte da cave o ricavate da massi erratici. Si reputa che, per provarne le caratteristiche, le pietre fossero sottoposte a un esame sonoro, ossia leggermente percosse in punti
Il ponte-acquedotto romano di Pont d’Aël, costruito a cavallo del torrente Grand-Eyvia. 3 a.C.
focali di risonanza con un oggetto ligneo, per sentirne il suono «tecnico» positivo o negativo, rivelatore di compattezza o di fratture, o di vere e proprie lesioni interne della lastra. Le ragioni qualitative non sono mai disgiunte da un ricercato gusto estetico: è evidente la passione per le superfici caratterizzate da
una piacevole colorazione naturale. Le preferenze sono assai variabili, si prediligono i toni dall’ocra al rosato di scisti e calcescisti, dall’aranciato al bruno rugginoso degli gneiss e delle prasiniti, dal grigio azzurrato a inclusi nerastri del marmo bardiglio al beige biancastro del travertino. I risultati delle lavorazioni sono differenti a seconda delle rocce impiegate, giocano spesso sul differente aspetto delle superfici patinate naturali in opposizione alle zone scalpellate, alla ricerca di effetti di contrasto o armonia. La consuetudine tecnica, funzionale e ornamentale di utilizzo delle rocce di cui ci si serviva già dalla Preistoria recente, si manterrà sino a epoche piú avanzate, com’è per esempio testimoniato dai rivestimenti murari degli edifici piú importanti di Augusta Prætoria. Età romana. Ingegneri del marmo e del travertino A partire dall’età tardo-augustea la strutturazione della città di Aosta e la monumentalizzazione architettonica avevano richiesto uno sfruttamento intensivo delle risorse locali, con l’avvio dell’estrazione sistematica delle rocce reperibili in Valle e, tra queste, soprattutto la puddinga, il travertino e il marmo bardiglio. Formazioni di puddinga, un conglomerato di origine fluviale, si trovano in prossimità della Dora fra Gressan e Charvensod. Nel 1991, a Clérod (Gressan), lungo la sponda destra della Dora Baltea, in prossimità dei resti di un ponte e della strada romana, è stato scoperto il fronte di una cava di puddinga. La cava, a cielo aperto, era coltivata a gradoni fin da epoca romana: il
sistema di estrazione a blocchi squadrati di forma parallelepipeda e di varie dimensioni è rilevabile dalle tracce dei solchi lasciati dagli attrezzi di ferro. In epoca romana furono sfruttate anche le rocce calcaree. Il travertino, presente a nord di Aosta in località Bibian e a Gressan, era adoperato nelle varie destinazioni monumentali sia in blocchi che in blocchetti squadrati e in tessere tipiche dell’opus reticulatum, un particolare tipo di tessitura muraria a «rete», di cui si conservano ancora evidenti tracce nella villa romana in regione Consolata. Infine il marmo bardiglio, di colore grigio-azzurro con striature scure, proveniente dai bacini estrattivi del tratto della Dora compreso tra i comuni di Charvensod e Villeneuve, veniva estratto in maniera intensiva e impiegato per edifici di un certo impegno, oltre che per i lastricati stradali cittadini e per basi, are, stele, lastre, fregi, sarcofagi ed elementi di pregio artistico. Una delle cave di bardiglio a oggi ancora note si trova a monte del castello di Aymavilles, in località Pesse; per il suo sfruttamento è stato costruito l’imponente ponte-acquedotto di Pont d’Aël, un’opera di altissima ingegneria idraulica che, nel 3 a.C., Caius Avillius Caimus costruí per sé, al fine di convogliare direttamente alla cava l’acqua necessaria alla lavorazione dei blocchi e al funzionamento delle macchine da taglio e trasporto. Luca Raiteri, Gianfranco Zidda, Alessandra Armirotti, Gabriele Sartorio e Stella Vittoria Bertarione
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Veduta di Aosta nella quale sono riconoscibili, sulla sinistra, la Tour Fromage, la Torre dei Signori di Quart e i resti del Teatro romano. L’area sulla destra era invece quella occupata dall’Anfiteatro, il riuso delle cui strutture ha determinato l’andamento curvilineo delle costruzioni moderne.
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NEL NOME DI AUGUSTO
RIORGANIZZAZIONE DEL TERRITORIO CON LA COSTRUZIONE DI STRADE CARREGGIABILI E LA FONDAZIONE, IN TEMPI RAPIDI, DI UNA NUOVA CITTÀ: LA VITTORIA SUI SALASSI, NEL 25 A.C., SEGNA L’AVVENTO DELLA ROMANIZZAZIONE IN VALLE D’AOSTA
di Stella Vittoria Bertarione
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el 25 a.C. Cesare Augusto invia contro i Salassi il console Aulo Terenzio Varrone Murena, a capo di una forte spedizione militare. La conquista romana segna un momento decisivo nella storia della Valle. Da un sistema di modeste aggregazioni di villaggi fortificati di altura si passa, infatti, a una riorganizzazione globale del territorio che prevede la fondazione di una città, con l’insediamento di una popolazione nuova e la costruzione della strada carreggiabile. La città di Augusta Prætoria venne costruita in breve tempo sul modello dell’accampamento militare romano, all’incrocio delle vie del Grande e del Piccolo San Bernardo e presso la confluenza dei fiumi Dora e Buthier.
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Il tracciato regolare delle strade, che si intersecavano perpendicolarmente, suddivideva lo spazio interno in insulæ, isolati rettangolari. All’interno delle mura, a ridosso dell’intersezione delle due principali direttrici del traffico urbano, sorgevano i quartieri residenziali e i principali monumenti pubblici: il Teatro, di cui si conservano resti notevoli, l’Anfiteatro, inglobato nell’architettura medievale del monastero di S. Caterina, le terme, di cui si conoscono due impianti, e il foro, centro della vita politica e religiosa. Quest’ultimo si sviluppava su un’area con una naturale pendenza del terreno da nord verso sud. Per risolvere il problema del dislivello, venne adottata una soluzione a terrazza, realizzando uno spazio superiore e uno
Pianta della città romana di Augusta Prætoria, con l’indicazione dei monumenti e delle strutture piú importanti.
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LA CITTÀ ROMANA
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1. Teatro 2. Anfiteatro 3. Terme del foro 4. Foro 5. Criptoportico forense 6. Arco di Augusto 7. Villa romana della Consolata 8. Porta Prætoria 9. Porta Decumana 10. Porta Principalis Sinistra 11. Porta Principalis Dextera 12. Necropoli 13. Area megalitica Saint-Martin-de-Corléans 14. Domus ecclesiæ / cattedrale 15. Chiesa di San Lorenzo 16. Chiesa dei Santi Pietro e Orso 17. Chiesa di Santo Stefano 18. Area funeraria fuori Porta Decumana
inferiore: quello sopraelevato definiva l’area sacra, nella quale si ergevano due templi gemelli affiancati circondati da un criptoportico; quello piú basso dava accesso all’area dedicata alle funzioni pubbliche dove, intorno alla piazza (platea), si affacciavano le botteghe (tabernæ) e gli uffici amministrativi. A sud si estendevano i quartieri popolari, divisi secondo il classico modello a scacchiera. All’esterno delle mura sorgevano le villefattorie dei grandi proprietari terrieri, di cui è visitabile solo quella detta «della Consolata». Per diversi secoli Aosta mantenne grosso modo le dimensioni della città romana e le sue opere idrauliche, proprio come i tracciati stradali, sono state utilizzate fin quasi all’età moderna. Indagini archeologiche condotte nel 2012 in corrispondenza della torre nordorientale, nota come Torre dei Balivi, hanno
aggiunto un ulteriore dato di notevole importanza per completare le conoscenze relative alla fondazione della colonia.
Guardare la volta celeste Si potrebbe sintetizzare dicendo che «in origine fu la pietra» che condusse «a riveder le stelle». «Rivedere» col significato di guardare di nuovo (e meglio) la volta celeste. Un po’ come avveniva in antico, quando l’osservazione delle stelle era usuale, diffusa, e fondamentale per determinare i tempi di semina e di raccolta; ma anche i tempi delle feste, che poi, quasi sempre, derivavano da celebrazioni di momenti agricoli importanti. Natura, agricoltura, usanze… tutto seguiva il calendario celeste del sorgere e del tramontare di determinate stelle o costellazioni. E già solo questa considerazione ci porta a riflettere sull’importante e stretto legame che univa le stelle e il potere. E particolari contingenze hanno voluto che si riuscisse a ritrovare il cielo… partendo dal sottosuolo! Scavi archeologici preliminari alla posa di una cabina elettrica interrata, infatti, hanno inaspettatamente portato a un ritrovamento eccezionale. Le operazioni di scavo hanno restituito un blocco lapideo ancora in situ nella tessitura muraria augustea caratterizzato dalla presenza, su entrambe le facce a vista, di decori ad altorilievo di emblematico significato: elementi fallici, un aratro e una figura zoomorfa identificata come Capricorno (vedi anche il box alle pp. 62-65). Lo studio e l’interpretazione di queste raffigurazioni, unitamente a un’analisi dell’impianto urbano romano e dell’orientamento topografico della città, ha portato all’individuazione dell’orientamento astronomico di Augusta Prætoria, che Ottaviano Augusto nel 25 a.C. volle disegnata in base a un ricercato legame col solstizio d’inverno e, di conseguenza, con la costellazione del Capricorno che all’epoca corrispondeva a tale momento astronomico ed era altresí, non a caso, il simbolo celeste identificativo del princeps.
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L’ETÀ ROMANA PORTA PRÆTORIA
«P
er terre ignote vanno le nostre legioni a fondare colonie a immagine di Roma»: sulle note di Delenda Carthago di Franco Battiato, ci avviciniamo alla monumentale Porta Prætoria di Aosta. Ingresso principale all’antica colonia augustea, si apre nel tratto orientale della magnifica cinta muraria incastonata tra due possenti torri quadrate e, cosa non cosí frequente, dotata di cavædium, cioè di un cortile d’armi centrale. La Via romana delle Gallie faceva il suo ingresso in città arrivando da est: questo dunque il lato piú importante, la vera «vetrina» della città. Ecco perché la Porta Prætoria si erge proprio qui. Dopo aver attraversato una densa area funeraria, probabilmente la piú ricca ed elegante delle quattro necropoli cittadine, la strada superava il torrente Buthier (l’antico Bauthegius) passando sul massiccio ponte a schiena d’asino in grossi blocchi di arenaria da dove, in lontananza, si poteva scorgere la mole dell’arco onorario dedicato a Ottaviano Augusto. Si era cosí dato vita a una studiata infilata prospettica, che conduceva fino alla porta d’accesso principale della colonia: sin da lontano, essa trionfava all’orizzonte con i suoi tre passaggi ad arco e l’alta facciata a galleria inquadrata dalle due torri laterali. All’epoca lo sguardo poteva spaziare libero e abbracciare d’un sol colpo tutta la piana, l’intero lato orientale della splendida cortina muraria brillante di travertino e disegnata dai chiaroscuri di ben venti torri: due ai lati di ogni porta, quattro angolari e altre due per lato. Probabilmente una funzione anche decorativa e non solo meramente difensiva. La Porta Prætoria rappresenta un grandioso esempio di architettura romana che evidenzia il principale varco urbano definendo le modalità di transito: pedoni sui lati, carri al centro in doppio senso di marcia. Una porta decisamente imponente, in grossi blocchi di puddinga, realizzata in un’opera quadrata che ne accentua ulteriormente la volumetria, l’ingombro, facendola apparire, se possibile, ancora piú massiccia.
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Il cortile d’armi centrale (cavædium) della Porta Prætoria, l’ingresso principale alla colonia augustea.
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L’ETÀ ROMANA
Arrivando al suo cospetto, oggi notiamo le eleganti lastre di marmo bardiglio grigio-azzurro e di candido marmo lunense che la impreziosiscono. Questo rivestimento, tuttavia, non appartiene all’età augustea, bensí all’epoca dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.) con il quale la città acquisí ancora maggior importanza in funzione del potenziamento della rete viaria diretta Oltralpe (in particolare il ramo stradale del Summus Pœninus, il Gran San Bernardo, che consentí non a caso la fondazione di Forum Claudii Vallensium, l’attuale Martigny). In età augustea la struttura chiaramente era la stessa; solo la cornice al di sopra del triplice accesso cambiava. Niente marmi, ma come all’Arco, una lavorazione dell’arenaria stessa. In occasione di un restauro della Porta condotto sul finire degli anni Novanta, fu visto un breve, ma significativo segmento della cornice decorativa precedente l’attuale: di gusto dorico, nel solco del piú ortodosso classicismo, una rigorosa sequenza di metope e triglifi appena al di sotto della fila di finestrelle. Oggi, però, questo elemento non è a vista. Claudio, abbiamo detto, decide di dare maggior risalto a questa colonia. Siamo negli anni Quaranta del I secolo d.C.; possiamo immaginare che Augusta Prætoria sia già una realtà urbana consolidata dalla doppia identità: militare, quale importante presidio all’imbocco delle vie dirette ai valichi (il cui controllo era in effetti uno dei principali obiettivi di Augusto anche per completare quanto già avviato da Giulio Cesare in Gallia); economica, in virtú del suo essere una sorta di emporio alpino al centro di continui passaggi, scambi commerciali, per non parlare delle esigenze legate all’ospitalità dei viandanti e al rifornimento delle truppe. E la Porta Prætoria doveva esprimere con efficace immediatezza l’importanza e la ricchezza di questa colonia alpina. Le arcate vennero sottolineate da blocchi di bel marmo venato locale, di colore grigio-azzurro e dall’effetto quasi madreperlaceo (probabilmente il bardiglio che veniva cavato tra Aymavilles e Villeneuve). Lo stesso materiale,
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ma lavorato in lastre, è stato utilizzato per rivestire l’intera facciata coprendo la rustica arenaria. Non ancora soddisfatti, si è proceduto ad agganciare sull’arco centrale delle raffinate modanature in lastre di marmo lunense. Ma non bastava ancora. Al di sotto delle finestre della galleria di ronda (oggi scomparsa, sebbene in parte rievocata dai restauri del Ventennio) venne realizzata un’elegante cornice marmorea capace, oltre che di ingentilire il tutto, anche di riecheggiare una certa aria di Grecia, sospesa tra classicismo ed ellenismo. Elementi floreali, dentelli, ovuli, perle, ricce foglie di acanto si intrecciano in un prezioso ricamo marmoreo utile a rendere questa ruvida porta urbica piú gentile e simile ai nobili edifici delle piú importanti città dell’impero.
Un marchio di cava? Attraversando i fornici e sollevando lo sguardo, si noterà che la volta degli archi presenta un solco centrale: lí scorrevano le cataractæ, ossia le inferriate con cui le porte venivano chiuse e protette. Inoltre, affacciandosi dalla passerella centrale sulla destra, in corrispondenza del livello stradale romano, è possibile riconoscere ancora alcuni basoli bardiglio: uno di questi riporta una «V» incisa. Stando alle prime ipotesi potrebbe trattarsi di un marchio di cava; questi marchi potevano indicare o la cava di provenienza o la partita di merce che andava contrassegnata a seconda della destinazione o del numero d’ordine. Gli scavi piú recenti, finalizzati a rimettere in luce il piano stradale originario e, quindi, l’intera volumetria della torre a partire da quello che si indica come «piano di spiccato» antico, purtroppo non hanno trovato una situazione semplice. La strada non si è conservata, se non in minime porzioni e a «macchia di leopardo», in quanto nei secoli sempre modificata, rifatta, spoliata e rattoppata. Inoltre, all’interno del cortile centrale, sempre lungo i secoli, si sono avvicendate numerose costruzioni con funzioni di volta in volta residenziali e artigianali, che hanno
Una delle facciate della Porta Prætoria. Il rivestimento, in lastre di marmo lunense e marmo bardiglio, si data all’età di Claudio, intorno al 40 d.C.
radicalmente compromesso l’identità romana originaria dell’insieme e che ora è assai arduo valorizzare e far comprendere. Ma prima di lasciare questo monumento, può risultare interessante soffermarsi sulla viabilità odierna. La Porta si trova a cavallo tra le vie Sant’Anselmo (proveniente da est, con l’Arco sullo sfondo) e Porta Prætoria (che prosegue verso ovest, fino a piazza Chanoux). Queste due vie sono una parte dell’antico Decumanus
Maximus, che continua fino alla Porta Decumana (i cui resti sono nel piano interrato della Biblioteca Regionale). Bene, se all’epoca romana l’intera ampiezza della Porta Prætoria coincideva con quella del Decumano, adesso si può notare come l’asse pedonale sia in linea solo col passaggio che sta sul lato corrispondente al fornice nord. Gli altri due archi, infatti, quello grande centrale e l’altro minore a sud, è come se fossero stati
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L’ETÀ ROMANA
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Un’altra veduta dell’interno della Porta Prætoria.
«chiusi» dalla progressiva occupazione del sedime stradale da parte degli edifici medievali e moderni. Questo indizio ci fa capire innanzitutto che, a partire da un certo periodo, si passava esclusivamente su quel lato e come questa porta, nei secoli, sia sempre stata oggetto di manomissioni, modifiche, chiusure, riaperture a seconda
dei suoi proprietari, delle esigenze sociali, del particolare momento storico. Nella Porta Prætoria è insomma condensata la storia bimillenaria di Aosta, una città che ha continuato a vivere sempre nel medesimo posto, palinsesto di se stessa e che offre preziose «finestre» sul suo glorioso, lungo e travagliato passato.
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L’ETÀ ROMANA
L’ARCO ONORARIO DI AUGUSTO
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ppena passato il ponte sul torrente Buthier, lungo la strada che portava alla monumentale Porta Prætoria, principale via di accesso alla città romana, fu innalzato l’arco onorario dedicato all’imperatore Ottaviano Augusto, eponimo fondatore della città. Si trattava di un
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segno eloquente della presenza e della potenza di Roma che nel 25 a.C. aveva definitivamente sconfitto il popolo dei Salassi e fondato la nuova colonia. L’arco si caratterizza per la sua severa imponenza, tipica dell’architettura tardo-repubblicana, e presenta un unico fornice
L’arco onorario innalzato in onore dell’imperatore Ottaviano Augusto, fondatore della colonia di Augusta Prætoria.
a tutto sesto: è alto 17 m, largo 28 piedi romani – corrispondenti a 8,29 m –, esattamente come la strada che lo attraversava. Le sue forme massicce e sobrie si inseriscono in un’epoca in cui le tradizioni stilistiche repubblicane stavano progressivamente lasciando il posto al classicismo di impronta augustea.
Costruito interamente in grossi blocchi di puddinga locale, a guardarlo con piú attenzione si possono notare dei dettagli capaci di conferirgli comunque eleganza, raffinatezza e, per certi versi, una sottile leggiadria. L’arco troneggia in tutta la sua severa imponenza e, grazie alla recente
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L’ETÀ ROMANA
pedonalizzazione dell’area, è possibile avvicinarvisi per apprezzarne le particolarità meno evidenti. Una struttura poderosa, certo, tuttavia ingentilita da semicolonne di ordine corinzio con le loro ricce foglie di acanto, i viticci elicoidali, i petali e le volute sporgenti. Le stesse modanature che profilano la cornice dell’arcata presentano decorazioni «a perle» minute e graziose. All’interno del fornice, su entrambi i lati, piccoli pilastri sporgenti con capitelli sempre di tipo corinzio (sebbene piú
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sobri) delimitano dei pannelli al cui interno potremmo immaginarci la presenza di scene a rilievo o ulteriori iscrizioni su tavole di marmo o di bronzo. Al livello superiore poggia sulle semicolonne un essenziale fregio di ordine dorico scandito in triglifi con sottostante decorazione a gocce e metope lisce. Quasi fosse un antico tempio classico, qui l’arco si veste di un’arcana sacralità. E già queste due prime considerazioni ci portano a riflettere sulla miscellanea di stili presenti su questo insigne
Un particolare dell’elegante decorazione architettonica dell’arco di Augusto.
monumento. Respiri di Grecia, di quella grande cultura ellenica che cosí profondamente aveva imbevuto l’intero mare nostrum e che si riproponeva di volta in volta rivisitata e metabolizzata a seconda dei differenti filtri socio-culturali. Ai lati del fornice, entrambe le facciate presentano due nicchie oggi vuote, ma che in origine dovevano ospitare statue. Si pensa a possibili trofei (accumuli di armi nemiche raffigurati o in pietra o in bronzo), oppure a statue di Augusto e Cesare, oppure ancora a gruppi statuari raffiguranti i Salassi sconfitti. Osservando con attenzione l’aggetto del cornicione, seppure in gran parte restaurato, si notano ancora brani di grande poesia e interesse. File parallele di piccole gocce circolari si alternano a losanghe allungate con rosetta centrale. In corrispondenza dell’angolo nord-ovest, si può inoltre rilevare una ricercata decorazione a palmetta (o anthemion). Un chiaro tributo a quell’arte ellenistica che riuscí a valicare gli stretti confini della pòlis per diventare il codice figurativo di una piú vasta comunità socioculturale capace di riconoscersi in un linguaggio globale cui Augusto voleva esplicitamente riferirsi. Con lui Roma sarebbe diventata il centro di una nuova koiné. L’architettura romana avrebbe dunque ripreso il meglio di quanto l’aveva preceduta, l’avrebbe fuso e ne avrebbe ricavato qualcosa di innovativo ma riconoscibile, in grado di parlare la lingua del potere.
Gli anni dell’abbandono Ma la storia dell’arco è ancora molto lunga. Dalle scorribande barbariche in poi, l’arco sopravvisse a secoli di rovina e distruzioni. L’apparato decorativo fu razziato e distrutto. Nel Medioevo divenne una sorta di residenza fortificata, ospitò una postazione di balestrieri per poi diventare simbolo della devozione popolare dove recarsi a pregare il Santo Volto per scongiurare le terribili e frequenti esondazioni dell’indomabile torrente Buthier. Il suo fornice venne «cristianizzato» con l’inserimento a piú riprese di immagini sacre e
crocifissi lignei. L’attuale è una copia di quello lí posizionato nel 1449 dopo una delle tante devastanti alluvioni. Con il Seicento le pessime condizioni in cui l’arco versava spinsero il Conseil des Commis (l’organo locale di governo nato nel 1536) a riflettere circa l’eventualità di costruire un tetto sopra le nude creste di muro dell’arco, vittime delle intemperie, della vegetazione e delle infiltrazioni. Ma si dovette attendere il 1716 per porvi mano concretamente. In pochi mesi l’arco era stato restaurato e consolidato, sebbene in una maniera che oggi condanneremmo senz’altro! Nel 1804 si pensò persino di erigere al di sopra dell’arco un trofeo dedicato al passaggio di Napoleone. Col tempo il monumento si trovò nuovamente in una deplorevole situazione di abbandono e trascuratezza. Negli anni ai suoi piedi erano andate accumulandosi macerie su macerie. Fu lo scrittore francese Stendhal (al secolo Marie-Henry Beyle) a lasciarne parole di vivo entusiasmo: «J’étais si heureux en contemplant ces beaux paysages et l’arc de triomphe d’Aoste, que je n’avais qu’un vœu à former, c’était que cette vie durât toujours». Nonostante i reboanti e lusinghieri versi del poeta Giosuè Carducci nella sua ode Piemonte del 1890 – «La vecchia Aosta di cesaree mura ammantellata, che nel varco alpino eleva sopra i barbari manieri l’arco di Augusto» – solo nel 1912, sotto la direzione di Ernesto Schiaparelli, allora Sovraintendente alle Antichità di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, nonché esimio egittologo, l’arco venne finalmente sottoposto a un intervento di pulitura, consolidamento e rifacimento del tetto i cui risultati sono apprezzabili tuttora. Al cantiere, durato appena due anni, giunse in visita persino la regina Margherita nel 1913. L’arco di Augusto: simbolo di Aosta, ma non solo. Potremmo definirlo simbolo di una regione, da sempre terra di transiti e passaggi, strategica cerniera alpina tra il Nord Europa e il Mediterraneo. Un volto che guarda alle terre d’Oltralpe e un altro girato al mondo padano e italico.
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L’ETÀ ROMANA IL TEATRO E L’ANFITEATRO
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opo essere entrati in città superando la Porta Prætoria, si svolta a destra, in direzione dell’antico quartiere degli spettacoli. Fatti pochi passi, si rimane letteralmente abbagliati davanti a un’imponente facciata, alta 22 m, magari quando la luce radente del mattino gioca tra le finestre e i contrafforti, insinuandosi nelle rugosità dei blocchi di arenaria ed esaltandone le particolari tonalità dorate. Ci troviamo al cospetto del Teatro romano, un sito dove «lo spettacolo è garantito»! Si resta sorpresi da queste vestigia, incastonate in un panorama del tutto inaspettato disegnato da vette alpine. All’orizzonte, verso nord, si erge la mole del Grand Combin, un «4000» già in terra elvetica ma che occhieggia curioso sulla nostra Valle. A destra, l’infilata delle mura romane, con le antiche torri rimaneggiate dalle potenti famiglie medievali; a sinistra, questo poderoso e insolito edificio che, visto da vicino, sembra quasi fatto di sabbia, di infiniti granelli fossili, nonostante la sua innegabile solidità. La facciata principale del Teatro era lunga, in origine, piú di 60 m. Costruita in poderosa opera quadrata di blocchi di puddinga, un’arenaria locale, risulta alleggerita da quattro ordini di aperture e scandita da dieci contrafforti presenti anche sui restanti tre lati. L’edificio è costituito da una cavea semicircolare destinata al pubblico, qui singolarmente inscritta all’interno del perimetro, probabilmente sia per armonizzarla con la regolarità degli isolati adiacenti, sia per proteggerla dal forte vento che di norma spira sulla città da nord, nonché per agevolare la sistemazione di idonei sistemi di copertura delle gradinate. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che il Teatro fosse interamente coperto da un tetto, identificandosi dunque in un theatrum tectum a tutti gli effetti. Tuttavia, in considerazione della notevole portata delle travature lignee necessarie, pari a ben 37 m, per la cui messa in opera non si possiedono informazioni precise e dimostrabili, è piú probabile supporre il ricorso
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a coperture parziali quali tettoie e velaria per il proscænium e parte della cavea. Si potrebbe presumere, per esempio, la presenza di una tettoia sporgente proprio al di sopra del palcoscenico la cui funzione, oltre a quella di copertura tout court, era anche di tipo acustico andando ad amplificare le voci degli attori. Le arcate laterali davano accesso a corridoi di ingresso attraverso cui si poteva entrare e prendere posto sui gradoni.
«Marmi rari e di vari colori» Oggi il percorso di visita consente di transitare su una passerella situata tra il palcoscenico e l’orchestra, in una posizione che ricalca quella dell’antico aditus maximus. Il palcoscenico (proscænium) si affacciava sull’orchestra e verso il pubblico con il pulpitum: una sequenza alternata di nicchie quadrangolari e semicircolari, anticamente impreziosite da colonnine e bassorilievi (oggi – ahimè – perduti) e nascondeva, al suo interno, i meccanismi utili all’alzata dal basso del sipario (aulæum). A dispetto dell’odierno aspetto grigio e uniforme, l’orchestra si presentava in origine pavimentata da lastre di ben tre marmi diversi: il giallo di Numidia, il porfido d’Egitto e il cipollino di Grecia. Oggi non ci è dato di vedere nulla dell’antico tripudio cromatico, ma ne siamo a conoscenza grazie ai diari lasciati da Giorgio Rosi, l’archeologo che seguí gli scavi tra il 1933 e il 1937. Scrive infatti Rosi: «L’orchestra era pavimentata di marmi rari e di vari colori, connessi secondo un regolare scomparto geometrico». E aggiunge: «Anche la bassa parete del pulpitum doveva essere interamente rivestita di marmi di vario colore: le superfici di cipollino bianco venato di verdastro, le modanature di africano rosso venato di bianco». La composizione geometrica delle crustæ marmoree dell’orchestra si sviluppava in un’ordinata tessitura a scacchiera, composta da lastre quadrate alternate ad altre suddivise in quattro triangoli, il cui disegno era esaltato dall’uso di marmi differenti. La decorazione architettonica doveva inoltre trovare
I resti della facciata monumentale del Teatro romano in una suggestiva veduta invernale.
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L’ETÀ ROMANA
completamento in gruppi statuari bronzei, come ci indica la bella porzione di volto maschile in bronzo dorato e di dimensioni maggiori del vero che si può oggi ammirare nel Museo Archeologico Regionale di Aosta. Immaginate dunque un esterno dai toni della sabbia, che, a seconda della luce solare, sfumavano dal grigio perla a piú calde tonalità dorate; un interno risplendente di colori, frutto di una committenza possidente e munifica, capace di far arrivare ai piedi delle Alpi tutta la ricercata preziosità di marmi lontani, colorati ed esotici. E, a ben pensarci, Aosta è forse ancora oggi un po’ cosí: un’apparenza severa, sobria, magari addirittura grigia, che però nasconde un’anima calda e colorata, ben visibile lungo le
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vie del centro storico, nelle vivaci facciate in tinte pastello e nelle vezzose decorazioni in stile liberty di alcuni palazzi.
Quel «palazzo rotondo» Il Teatro, tuttavia, è solo una delle componenti di un vero e proprio quartiere degli spettacoli, costituito anche da un Anfiteatro situato poco piú a nord, in adiacenza all’angolo nord-orientale della città, entrambi facilmente raggiungibili dalla Porta Prætoria. «Palatium rotundum», «magnum palatium»: cosí viene indicato l’Anfiteatro nei documenti medievali locali, in epoche che ormai avevano dimenticato quale fosse la reale identità di quell’imponente edificio dal perimetro ellittico
Un’altra immagine del Teatro romano, a sinistra della cui facciata si riconosce la Torre dei Balivi.
e che, probabilmente, solo in parte si lasciava intuire tra gli orti, i frutteti e le casupole che gli si erano gradualmente addossate sfruttandone le possenti murature. Tuttavia, vi era una componente degli antichi edifici romani che, invece, era ben conosciuta e ben sfruttata: la zona nord-orientale della città, infatti, era nota con la denominazione di super crottas o crotes, cioè «al di sopra delle grotte», o direttamente «grotte». Gli abitanti del quartiere erano chiaramente consapevoli dello sviluppo sotterraneo di tutta una serie di ambienti e concamerazioni di cui ignoravano l’origine, ma che risultavano decisamente utili alle loro esigenze quotidiane come pratiche cantine. Diversa è la situazione nel XVIII secolo, quando
un nobile erudito locale come Jean-Baptiste De Tillier lo nomina «colizée» (o anche «cirque ou soit amphiteatre»), dimostrando una solida consapevolezza storica e un notevole bagaglio culturale umanistico. La denominazione specifica del grande Anfiteatro Flavio di Roma rappresentava ormai la definizione piú adatta a indicare anche l’esemplare aostano, ubicato nell’angolo nord-est della città murata e inserito cosí all’interno di una determinata tipologia architettonica di edifici per pubblici spettacoli. La data di costruzione, da sempre fissata all’epoca della fondazione della colonia (25 a.C.), tuttavia non parrebbe basarsi tanto su considerazioni legate alle particolari caratteristiche costruttive, architettoniche, dimensionali o decorative, quanto piuttosto sulla localizzazione intramuranea di questo importante edificio. Una datazione che va rivista e spostata in avanti, alla piena età giulio-claudia (come per il vicino Teatro), anche in seguito alla scoperta dei resti dell’insula 8, un isolato residenziale precedente l’edificio ludico. La collocazione dentro le mura è sempre stata attribuita al fatto che la città sia stata in qualche modo progettata sin da subito come perfettamente dotata di una sua unitarietà e omogeneità d’impianto in cui tutti i quadranti urbani possedevano già a priori una loro specifica destinazione d’uso completata dagli appositi edifici. La singolarità deriva dal fatto che la maggior parte degli anfiteatri a oggi noti risultano costruiti fuori città, lungo le piú frequentate arterie viarie, in modo da evitare che la folla richiamata dai grandi spettacoli gladiatorii si costipasse all’interno delle mura col rischio di provocare pericolosi disordini e turbamenti dell’ordine pubblico. Ora, invece, possiamo affermare che la posizione è frutto di una precisa volontà indipendente dal progetto di fondazione della colonia. Il caso aostano, tuttavia, non rappresenta certamente un unicum, dal momento che altri sono gli anfiteatri situati all’interno della cortina muraria; a titolo esemplificativo potremmo solo citare alcuni casi italici tra cui Aquinum (Aquino, nel Lazio meridionale),
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A sinistra e in basso, sulle due pagine immagini che documentano il riuso delle strutture dell’Anfiteatro romano nella costruzione del convento medievale di Santa Caterina, risalente al XII sec.
Interamna Nahars (Terni, in Umbria) e Ferentium (Ferento, in provincia di Viterbo), soffermandoci maggiormente sui piú noti anfiteatri di Pompei, Paestum e Carsulæ (attuale Carsoli, in Umbria). In quest’ultimo caso notiamo come l’Anfiteatro vada a inserirsi all’interno del centro monumentale dove, congiuntamente al vicino Teatro, contribuisce a creare un vero e proprio settore specializzato a poca distanza dal Foro e dai suoi abituali annessi religiosi. Ad Aosta la porzione di terreno prescelta per la realizzazione dell’Anfiteatro si presentava relativamente pianeggiante, ma con una leggera pendenza da nord verso sud, che trovava il suo punto piú elevato nella torre angolare di nord-est (Torre dei Balivi). Si dovette, pertanto, procedere allo scavo dell’arena centrale in modo da collocarla a una maggior profondità, e alla conseguente realizzazione di idonee sostruzioni cave per i muri anulari e quelli radiali; la testata di questi ultimi formava una semplice corona in cui si inserivano i muri perimetrali del prospetto esterno, che cosí risultava privo della galleria
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periferica d’accesso. È questa una particolarità degli anfiteatri costruiti prima dell’età flavia, quindi prima degli anni 70/80 del I secolo d.C.; proprio tale assenza faceva sí che le facciate degli anfiteatri presentassero un paramento murario di spiccata monumentalità come, per esempio, l’opus quadratum a grosse bugne. Un’osservazione valida senz’altro per il caso di Aosta dove anche il vicino Teatro presenta un analogo apparecchio murario che ancor di piú sottolinea quella certa «aria di famiglia» tra i due edifici per pubblici spettacoli che, sebbene non appartenenti al medesimo cantiere (gli assi maggiori dei due edifici non sono perfettamente allineati e i materiali utilizzati non sono gli stessi), risultano comunque interpretabili come due tappe distinte, forse neanche troppo distanti nel tempo una dall’altra, di un progetto urbanistico comunque unitario seppure riferibile a due committenze diverse.
Oggi l’Anfiteatro non rientra nel canonico giro di visita di Aosta romana, in quanto inserito all’interno del convento medievale di Santa Caterina (risalente al XII secolo) e ancora abitato dalle suore di San Giuseppe. Transitando, tuttavia, lungo la stradina che ne delimita il perimetro, è possibile riconoscere alcuni scorci significativi dell’antico edificio. Su richiesta, però, è possibile accedervi e vederne i resti: una sequenza di 9 arcate risulta inglobata nel primigenio corpo di fabbrica conventuale dal singolare quanto indicativo andamento sub-ellittico, mentre porzioni di corridoi a galleria bucano qua e là il vasto frutteto, occhieggiando tra gli alberi di melo, ospitando altari votivi o piú ruspanti volatili da cortile. Entrare in questo luogo può dare l’impressione e l’emozione di ritrovarsi improvvisamente protagonisti di una stampa di Roger Newdigate in un segreto «giardino con rovine» nel cuore di Aosta!
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IL CRIPTOPORTICO FORENSE
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iazza Giovanni XXIII, meglio nota come «piazza della Cattedrale», rappresentava in epoca romana la zona sacra del foro cittadino, costituita da una terrazza sopraelevata occupata da due templi gemelli affiancati e aperti verso sud, di cui sono ancora in parte visibili i resti di quello orientale. Volendo iniziare l’esplorazione
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dell’area con le vestigia di epoca romana, sorge spontanea la curiosità di cominciare dal Criptoportico, monumento singolare e affascinante, che poche città del mondo romano possono vantare. Per accedervi, è sufficiente scendere i pochi scalini che conducono al giardino situato allo stesso livello del piano di frequentazione
Uno scorcio del Criptoportico forense, sorto con funzioni di sostruzione, ma poi utilizzato, probabilmente, come magazzino e granaio militare.
dell’antica terrazza templare. Sulla destra sarà facile e immediato notare un’apertura (praticata in epoca medievale o moderna) ricavata in breccia nelle mura perimetrali del Criptoportico: da qui si entra nelle gallerie seminterrate. Una volta all’interno, dopo aver abituato gli occhi alla penombra e alla soffusa luce dorata che permea l’ambiente, si noterà un agevole corridoio a doppia navata segnato, al centro, da una poderosa sequenza di arcate ribassate realizzate in blocchi di travertino locale. Si consiglia di procedere verso sinistra, dirigendosi là dove la galleria piega ad angolo retto verso ovest. Giunti su questo angolo, resterete senza parole. Davanti a voi vedrete allungarsi un sistema di corridoi voltati il cui aspetto li lascia credere persino piú estesi di quanto siano in realtà. Questo è il Criptoportico forense di Augusta Prætoria, forse il meglio conservato e il meglio fruibile tra quelli documentati nelle province occidentali dell’impero romano. Sviluppato in una forma a U rovesciata, presenta un braccio maggiore nord lungo 87,10 m e due bracci laterali di 71,80 m. L’ampiezza interna della galleria raggiunge i 7,85 m, per un’altezza di 4. Giunti all’estremità occidentale del sito, vi accorgerete che la galleria risulta bloccata da un muro moderno: qui, almeno per il momento, termina la parte visitabile del Criptoportico. Il resto è ancora di proprietà privata. In origine il Criptoportico venne realizzato con prioritaria funzione sostruttiva, cioè per creare una sopraelevazione e un contestuale contenimento del terreno utile alla costruzione della terrazza sacra. Oltre a questa sicura funzione strutturale, è stata nel tempo avanzata l’ipotesi che la parte seminterrata potesse servire da magazzino e da granaio militare (horreum), ma in seguito agli ultimi studi ci si sente di escludere radicalmente tale destinazione d’uso, sia per l’aspetto strutturale del monumento, sia per la sua particolare ubicazione, sia in seguito al confronto con altri esemplari analoghi. Il triplice colonnato marmoreo (porticus triplex) che lo sovrastava (ormai distrutto e del quale
non rimangono evidenze archeologiche in situ) fungeva invece da scenografica cornice alla coppia di templi gemelli dedicati, pare, ad Augusto e Roma. Per immaginare quale potesse essere il loro aspetto, è sufficiente pensare agli esempi francesi del tempio di Augusto e Livia a Vienne (dipartimento dell’Isère), o della cosiddetta Maison Carrée di Nîmes. Due esempi luminosi di templi con 6 splendide colonne corinzie sulla fronte e poderosa scalinata d’accesso. Le gallerie del Criptoportico sono illuminate da una serie di finestrelle strombate che assicurano anche un idoneo ricambio d’aria; nel corso dell’anno la temperatura all’interno del Criptoportico si mantiene costante. Il sistema d’ingresso originale prevedeva due accessi monumentali situati alle estremità dei bracci laterali e aperti sulla scalinata che divideva la terrazza sacra dalla platea forense posta poco piú in basso e occupata dalle botteghe (tabernæ) e da altri edifici pubblici.
Una struttura di prestigio? Confrontato con tutti quei casi, vecchi e nuovi, italici e provinciali, che la letteratura archeologica indica come esempi di criptoportico pubblico, in particolar modo forense, anche l’esemplare aostano potrebbe essere interpretabile come una struttura di prestigio legata tanto al culto imperiale, quanto all’autocelebrazione dei notabili locali, cosí come delle corporazioni religiose o professionali cittadine. È pertanto legittimo supporre che questo genere di criptoportici possano essere letti come ambienti dotati di una funzione politico-liturgica particolare: una sorta di luogo «cerniera» tra il sacro (l’area sacra e i relativi edifici templari) e il profano (cioè la vera e propria «pubblica piazza»). Come sembrano testimoniare alcuni documenti medievali, le strutture del Criptoportico continuarono a essere utilizzate anche nei secoli successivi alla caduta dell’impero, quando vennero trasformate in cantine e denominate, per consuetudine popolare, «Marché des Romains».
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AUGUSTA PRÆTORIA. UNA CITTÀ DISEGNATA DAL SOLSTIZIO D’INVERNO
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a Torre dei Balivi occupa l’angolo nord-est della cinta muraria romana di Augusta Prætoria e si trova nel punto piú elevato della città romana (vedi foto a p. 56). Deve il suo nome ai Balivi, appunto, ossia ai rappresentanti del Duca di Savoia in Valle d’Aosta incaricati della riscossione delle tasse e dell’amministrazione della giustizia. La Torre è stata sede delle prigioni regionali fino al 1984; in seguito, dopo un primo periodo di abbandono, a partire dal 2000 è stata oggetto di un lungo e complesso cantiere di studio, recupero, restauro e valorizzazione approdato, infine, alla rifunzionalizzazione del complesso, adibito ora a sede del Conservatorio musicale regionale. A partire dall’originario piano di spiccato della torre (cioè l’antico livello del suolo da cui la torre emergeva fuori terra) fino al quinto corso di blocchi in travertino che ne compongono il paramento, si tratta dell’opera muraria originaria pertinente all’epoca del primo intervento costruttivo: l’età augustea. Dal quinto corso in su, invece, si sviluppa la torre medievale, frutto dei rimaneggiamenti e della sopraelevazione operata dalla nobile famiglia dei De Palatio nel corso del XII secolo. I livelli augustei, fino a questo scavo, erano sempre stati sotto terra almeno a partire dall’età tardo-antica, quando frequenti e poderose alluvioni portarono all’esondazione dei due rus (canali) che si incrociavano proprio in prossimità dell’angolo nord-est della cerchia muraria. Lo scavo si approfondisce fino a mettere in luce lo spigolo sud-est della suddetta torre.
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La faccia a vista presenta alcune anomalie, strane protuberanze arrotondate; risultava dunque un blocco angolare, le cui forma e superficie si differenziavano dal restante paramento. Dopo aver liberato il blocco dai depositi alluvionali che lo occludevano, ecco comparire le due facce a vista. Entrambe decorate da simboli ad altorilievo suddivisi su due o (nel caso della faccia che guarda a sud) tre registri. In entrambi i casi, il registro piú basso è occupato da un evidente elemento fallico. I due falli indicano lo spigolo della torre, quasi a voler accentuare la protezione di un punto potenzialmente «pericoloso» e a voler suggerire una direzione specifica: un punto all’orizzonte posto a sud dell’Est. La presenza di simboli fallici su mura di epoca romana non deve stupire. Sono, infatti, relativamente comuni e molto diffusi (se ne vedono, per esempio, sulle mura di antiche città laziali come Anagni o Alatri, ma si ritrovano anche sul Vallo di Adriano). Sono di solito collocati in punti-chiave come angoli sporgenti, torri e porte. Il ruolo del fallo era apotropaico (doveva, cioè, tenere lontano il male), e contemporaneamente richiamava l’idea della buona sorte e della fertilità. Le mura erano considerate sacre ed inviolabili, in quanto riflettevano il complesso rito di fondazione delle città stesse. Tale rito, replica ideale della mitica fondazione di Roma, aveva il suo culmine nel tracciamento del perimetro della nuova colonia tramite un aratro tirato da una coppia di buoi bianchi (un bue e una giovenca)
La luce del solstizio d’inverno inonda via Croce di Città, il cui tracciato ricalca il cardine massimo della colonia romana.
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guidati da sacerdoti deputati anche all’osservazione celeste. Solo dopo aver capito quale fosse l’orientamento astronomico piú favorevole alla nascita della nuova città, si procedeva a disegnarne a terra il perimetro. La città doveva essere il riflesso del cielo in Terra. Anche il ritrovamento di Aosta si inserisce quindi in una tradizione ben consolidata. Su questo blocco ritroviamo l’unione di falli e aratro; o meglio, aratro e fallo si richiamano come fossero un oggetto solo. La faccia orientale presenta, dal basso, un fallo orientato Nord-Sud, sormontato da un elemento frecciforme interpretato verosimilmente come la punta del vomere di un aratro. La faccia meridionale presenta un fallo orientato Ovest-Est, sormontato da uno strumento a forma di «Y» che, grazie a significativi confronti con raffigurazioni di arature sacre, è stato identificato col manubrio di un aratro, seguito da un elemento falliforme di minori dimensioni. Infine, piú in alto, si distingue una protome zoomorfa, probabilmente cornuta, in posizione rampante. Immediata l’ipotesi che potesse trattarsi di un bovide che però, di norma, nelle scene di aratura viene raffigurato davanti all’aratro, nell’atto di tirarlo. Qui, invece, l’animale si trova al di sopra dell’aratro, in posizione rampante; inoltre non pare esservi alcuno spazio per le zampe posteriori. È stata quindi avanzata l’ipotesi che potesse trattarsi di un Capricorno, la costellazione scelta dall’imperatore Augusto quale suo segno identificativo. Un’ipotesi poi convalidata da
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molteplici confronti. Tali simboli, messi in relazione tra loro, rimandano a un messaggio importante: che questa nuova città, nata sotto l’auspicio di Ottaviano Augusto, possa rivelarsi forte, ricca e ben difesa. A partire dal posizionamento dei due principali elementi fallici che parevano indicare un punto dell’orizzonte che, inizialmente, si riteneva fosse «a est» e che, invece, si rivelerà «a sud dell’est». Sorse cosí il dubbio che in quel particolare risiedesse un voluto intento astronomico. Si diede quindi avvio ad ulteriori studi e verifiche condotti sotto la direzione di Giulio Magli, ordinario di matematica e archeoastronomia al Politecnico di Milano, e supportati dai ricercatori dell’Osservatorio astronomico regionale (OAVdA). Aosta sorge a 580 m slm, nel cuore della regione, al centro di un’ampia porzione di pianura (la Plaine), circondata da alte montagne che dominano l’orizzonte. In particolare, le vette che si stagliano a sud della città si trovano a poca distanza in linea d’aria con quest’ultima: il Mont Emilius (3559 m), per esempio, si colloca a soli 9 km dal centro della città. Gli assi cittadini sono stati rilevati con un teodolite. Il Decumanus (cioè l’asse cittadino piú vicino alla direzione est-ovest) presenta un azimuth di 68° 02’, mentre il Cardo di 158° 06’, formando al loro incrocio un angolo pari a 90° 04’, cosa che dimostra la notevolissima precisione degli antichi gromatici. Il profilo in altezza dell’orizzonte, nell’intervallo fra i valori di azimuth di 40° e 170° circa è stato rilevato
direttamente con il teodolite, ad intervalli di ½°, e ricontrollato con dati di database satellitari (Google Earth), ottenendo risultati in accordo. In particolare, all’azimuth di 158° (del Cardo) corrisponde un’altezza dell’orizzonte di 17°. Ovviamente la posizione del sorgere del Sole in un certo giorno dell’anno, si sposta via via ad azimuth superiori quanto maggiore è l’altezza dell’orizzonte. Quindi malgrado l’azimuth del sorgere del sole alla latitudine di Aosta non raggiunga mai, con un orizzonte piatto, un azimuth cosí elevato, la presenza dell’imponente rilievo montuoso fa sí che il sole al solstizio d’inverno sorga in allineamento con il Cardo. Le differenze fra oggi e il 25 a.C., dovute alla leggera variazione dell’obliquità dell’eclittica, sono di meno di ½°, e infatti il fenomeno è tuttora perfettamente visibile (vedi foto alle pp. 62/63). Un risultato eccezionale, reso noto attraverso numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo, in particolare, quella apparsa sul Cambridge Archaeological Journal nel marzo 2015: Augustus’ power from the stars and the foundation of Augusta Prætoria Salassorum. Augusta Prætoria venne volutamente ed emblematicamente orientata al solstizio d’inverno, da sempre momento astronomico pregno di attese e significato, che in età augustea si verificava, non a caso, sub signo Capricorni. Particolare della stratigrafia messa in luce nello scavo dello spigolo sud-est della Torre dei Balivi: sono ben visibili i blocchi decorati ad altorilievo da elementi fallici.
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L’ETÀ ROMANA VILLA DELLA CONSOLATA
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osta romana aveva anche una sua «Beverly Hills». La prima collina, infatti, doveva essere punteggiata di ville eleganti e raffinate. Solo una, però, è arrivata fino a noi. Si tratta di una sontuosa villa urbano-rustica, cioè in parte residenziale e in parte agricola, splendidamente esposta a sud sulla prima collina di Augusta Prætoria. È la villa detta «della Consolata», dalla
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denominazione della zona, a sua volta derivante dall’oratorio intitolato a Notre-Dame de la Consolation, situata a 400 m a nord-est dalla cinta muraria settentrionale, quindi collocata nell’immediata zona suburbana. Provate a immaginare l’antico panorama: prati, orti, frutteti e vigneti; una villa terrazzata aperta verso sud, un trionfo di cortili, porticati, giardini e giochi d’acqua. Una dimora elegante,
I resti della Villa della Consolata, un’elegante abitazione romana, situata all’esterno della cinta muraria di Augusta Prætoria.
raffinata, ariosa, invasa dal sole… Il posto doveva essere meraviglioso, e ben collegato alla rete viaria, dato che, appena a monte della villa, correva una strada, già preromana, che si allacciava al percorso diretto al colle del Gran San Bernardo. Accanto a una piccola area verde circondata da condomini, si trovano i resti imponenti di questa dimora tardo-repubblicana, edificata
verso l’ultimo quarto del I secolo a.C., in coincidenza o poco prima della nascita della colonia. Un complesso urbano-rustico grandioso, oltretutto dotato di una imponente struttura di rappresentanza, concepita secondo i piú autentici modelli delle ville ad atrio centroitaliche. Un rimando geografico-culturale che ritorna e si accentua osservando specifiche caratteristiche tipologiche, funzionali e architettonico-strutturali, quali la posizione rispetto alle mura urbiche e alla via di transito transalpina, l’opus quasi reticulatum di alcuni muri (tecnica introdotta e fiorita nelle residenze romano-campane fra l’ultimo quarto del II secolo a.C. e la metà di quello successivo), i tipi di decoro pavimentale a opus sectile, il disegno dei mosaici e l’impianto termale coevo alla prima organizzazione dell’edificio. La villa della Consolata, sebbene scavata soltanto in minima parte, raggiunge già i 1700 mq: dunque dimensioni molto importanti e assolutamente eccezionali in rapporto al panorama residenziale della regione.
Dotata di ogni comfort La parte dell’edificio a destinazione privata vede, a nord, una culina (cucina), seguita da vani di deposito e servizio; a est spiccano i balnea, piccole ma lussuose terme private composte da uno spogliatoio, un calidarium (collegato alla cucina tramite la bocca del forno attraverso cui passava l’aria calda nelle suspensuræ), un tepidarium e infine, seppure quasi del tutto scomparso, un frigidarium. Tali ambienti, insieme ad altri distribuiti sul lato occidentale, tra cui un triclinium (sala da pranzo), orbitavano attorno a un atrium, o meglio, uno dei (probabili) due atria che davano luce e aria alle varie stanze della villa. Verso sud, infine, si aprivano sulla strada un ampio peristilio e un grande tablinum di circa 180 mq: una lussuosa aula quadrangolare con marcata connotazione di rappresentanza. Si evidenzia il ricorso a dettagli raffinati come pavimenti musivi e intonaci bicolori. Nel triclinium, per esempio, la collocazione dei tre letti è intuibile dai relativi posti disegnati sul
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L’ETÀ ROMANA
pavimento da file di tessere rosa unitamente a un tappeto centrale composto da delicate tessere chiare con una decorazione a fiorellini sparsi. Si differenzia solo il corridoio di collegamento con le stanze vicine. Una stanza di passaggio, un disimpegno e, piú in là, verso la base della copertura, la «zona notte». Qui sono riconoscibili due camere da letto, una doppia a due letti e una singola, contraddistinti da pavimenti in tessere scure con disegni in tessere bianche. La camera doppia presenta un grande motivo a rosetta centrale circondato da fasce a
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Nella pagina accanto, in basso resti del tablinum della villa, che si presume rivestisse funzioni di rappresentanza e di sala di ricevimento.
A sinistra i resti del calidarium (vasca per i bagni in acqua calda) facente parte dell’impianto termale di cui la villa era dotata. Si conservano molti pilastrini in laterizio delle suspensuræ che permettevano la circolazione dell’aria calda.
In alto una delle camere da letto della Villa della Consolata, che conserva il pavimento musivo originale, giocato sull’uso di tessere nere e bianche, che compongono un motivo a rosetta centrale circondato da fasce a meandro.
meandro; la singola è vivacizzata da motivi a squame, meandri e rombi. Si ritiene, inoltre, che questa villa, rispondendo in maniera significativa alle prescrizioni vitruviane per le residenze private di coloro che rivestivano cariche pubbliche – che dovevano pertanto rivelarsi idonee anche allo svolgimento di funzioni pubbliche –, possa verosimilmente essere appartenuta a un esponente dell’élite centroitalica trasferita in valle per sovrintendere, presumibilmente, ai lavori dell’erigenda colonia. Di fronte a una pars fructuaria decisamente modesta, infatti, che denuncia una destinazione rurale essenzialmente «familiare», emerge una
pars publica oltremodo ampia, articolata e raffinata tale da tradire una vocazione pubblica che tale dimora mantenne almeno fino al I secolo d.C. inoltrato. Successivamente, allorché le funzioni pubbliche con le relative strutture trovarono stabile collocazione intramuranea, la villa assunse una destinazione sempre piú marcatamente rurale che, col passare dei secoli, portò a una progressiva involuzione con diminuzione delle superfici, impoverimento e spoliazioni. Immaginando l’arioso ed elegante contesto d’origine, emerge come questa villa rappresenti un sito notevole e importante, unico in Valle d’Aosta. Voluptas, luxuria et amoenitas sulla collina «VIP» di Aosta romana.
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L’ETÀ ROMANA IL PONTE-ACQUEDOTTO DI PONT D’AËL
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dominio di un’impervia gola all’imbocco della Valle di Cogne, in comune di Aymavilles, nelle vicinanze del grazioso villaggio rurale di Pont d’Aël (o Pondel), sorge uno dei monumenti romani piú belli della Valle d’Aosta, che lascia ancora oggi meravigliati per lo straordinario stato di conservazione e il notevole impatto paesaggistico. Si tratta dell’imponente ponte-acquedotto costruito a cavallo del torrente Grand-Eyvia, grazie a un’ardita progettazione ingegneristica concepita per risolvere il difficile salto sulle impressionanti gole del corso d’acqua, profonde piú di cento metri. Un’unica arcata, poderosa e tenace, ampia quasi 15 m, scavalca la forra a un’altezza di 56 m dal corso d’acqua sottostante. Tutt’intorno irte e strapiombanti pareti rocciose ricoperte di fitte edere e boschi, latifoglie e conifere, quasi a perdita d’orizzonte. È il Pont d’Aël. Il Pons Avilli, qui realizzato da un intraprendente e ricco
padovano attivo nel settore dell’edilizia ormai piú di 2000 anni fa, in piena epoca augustea. Una grandiosa opera idraulica. Un ardito ponteacquedotto suddiviso su due livelli: un percorso scoperto superiore, oggi percorribile a piedi, ma che in origine costituiva il canale idrico (specus) nel quale scorreva l’acqua; un altro sottostante, coperto, utile al transito di uomini e animali. Un’infrastruttura privata, come recita a lettere cubitali l’epigrafe ancora in posto al centro della facciata che guarda verso valle, probabilmente voluta per incanalare l’acqua verso le cave di marmo di Aymavilles. Immediatamente sopra la chiave di volta dell’arco, infatti, venne posta la seguente iscrizione incisa su tre lastre di pietra «IMP CAESARE AUGUSTO XIII COS DESIG C AVILLIUS C F CAIMUS PATAVINUS PRIVATUM». Essa consente di datare con esattezza il ponte all’anno 3 a.C. e ne ricorda il promotore e proprietario, Caius Avillius Caimus originario di Patavium (Padova),
Sulle due pagine una veduta d’insieme e un particolare dello spettacolare ponte-acquedotto di Pont d’Aël. L’iscrizione consente di datare l’opera all’anno 3 a.C. e
ne ricorda il promotore e proprietario, Caius Avillius Caimus, originario di Patavium (Padova). La struttura, ad arcata unica, scavalca il torrente Grand-Eyvia.
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esponente di una facoltosa famiglia di origine veneta legata al settore dell’industria edile e al trattamento delle materie prime, soprattutto dei materiali lapidei e dei metalli. Il compito dell’infrastruttura, infatti, era quello
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di addurre l’acqua necessaria agli interessi specifici di questo imprenditore, lavorare il materiale lapideo locale, visto che nella zona di Aymavilles e Villeneuve sono presenti importanti cave di marmo bardiglio, materiale
Una suggestiva veduta invernale del Pont d’Aël.
di pregio largamente impiegato nella costruzione di Augusta Prætoria. La ragione, dunque, che portò a realizzare una tanto ardita costruzione sarebbe da ricercare nel coinvolgimento degli Avilii nella
monumentalizzazione di Aosta, un investimento da cui trarre guadagno e visibilità nel settore dell’edilizia, strategicamente in linea con gli interessi del princeps Augusto.
Una visita emozionante Il tracciato completo, in parte ancora esistente, in parte obbligatoriamente ricostruito a tavolino, vede un’opera di presa situata a 2,5 km piú a monte rispetto al ponte, lunghi tratti, ancora percorribili, ritagliati nel banco roccioso e sapientemente adattati al profilo morfologico della montagna e, il punto sicuramente piú spettacolare, Pont d’Aël, dove l’acqua cambia versante. Un percorso di visita ad anello realmente emozionante. Si comincia passando all’interno dell’antico condotto idrico, risalendo a ritroso rispetto all’originario senso di scorrimento dell’acqua. Giunti in sinistra orografica, si scendono alcuni scalini per raggiungere uno dei due ingressi originali del camminamento coperto pedonale. Una vista che mozza il fiato; un cambio di prospettiva che fa sembrare questo monumento ancora piú imponente, cosí aggrappato sulle rocce, umide e lucide per la risalita del vapore acqueo. Una volta entrati, la sorpresa! Sotto i piedi c’è il vetro, illuminato dal basso, che rende visibile una successione di ambienti profondi ben 3 metri, corrispondente alla struttura interna del ponte-acquedotto. Un’inaspettata sequenza di spazi cavi e tramezzi in muratura: una struttura, quindi, organizzata «a camerette», in modo da essere leggera ed elastica, senza però rinunciare alla necessaria stabilità. Un sorprendente glass floor per percorrere in trasparenza i 50 m di lunghezza del ponte e si ritorna in destra orografica; si supera l’altro accesso originario, rimasto per lunghi secoli chiuso e inutilizzato, e si esce nuovamente … sul vuoto! Sí, perché là dove un tempo i Romani passavano su un ampio sentiero ritagliato nel banco roccioso e poi franato nel torrente, oggi c’è una panoramica passerella in acciaio che consente di ripercorrere il loro stesso tragitto! Una cosa che da secoli non si poteva piú fare!
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1 In questa pagina 1. il Ponte di Pietra di Aosta, eretto alla fine del I sec. a.C. sopra l’antico letto del torrente Buthier; 2. il Museo del Ponte romano a Pont-Saint-Martin; 3. il ponte romano di Pont-Saint-Martin, che scavalca il torrente Lys. Nella pagina accanto 4. Châtillon. Il ponte romano gettato sul torrente Marmore, che aveva un unico arco a tutto sesto di 15 m circa di luce.
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L’ETÀ TARDO-ANTICA E IL MEDIOEVO
UNA NUOVA ERA
IN VALLE D’AOSTA, COME NEL RESTO D’EUROPA, IL CROLLO DELL’IMPERO ROMANO, LUNGI DAL RAPPRESENTARE UN EVENTO DI SOLA DECADENZA E DISTRUZIONE, PREFIGURA SCENARI INEDITI. IN ETÀ TARDO-ANTICA LA STESSA CITTÀ AUGUSTEA SI TRASFORMA, APRENDOSI AI SECOLI CENTRALI DEL MEDIOEVO… di Gabriele Sartorio
«A
près moi le déluge!» («Dopo di me il diluvio!») avrebbe detto Luigi XV alla marchesa di Pompadour a fronte delle continue insistenze di questa a occuparsi degli affari di Stato, cosí invisi al sovrano francese. La frase si adatta bene a rappresentare il diffuso concetto secondo il quale, a fronte della monumentalità e organizzazione delle città di epoca romana, il successivo periodo tardo-antico e altomedievale rappresenterebbe un lento ma inesorabile declino urbanistico, economico e sociale.
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Là dove Roma è sinonimo di unità ed efficienza, si categorizza con termini immediatamente negativi tutto ciò che viene dopo il 456 d.C.: suddivisioni etniche, crisi, carestie, epidemie, per non fare che alcuni esempi. La tempesta, insomma, evocata da Luigi XV: un’età dell’oro radiosa, seguita da un’epoca di dissolvimento e decadenza. Eppure, nel caso di Aosta, ma a ben guardare non solo, questa visione della realtà medievale, che ci è connaturata in pratica dall’illuminismo settecentesco, è del tutto distorta e per piú motivi. Anzitutto, anche accettando l’idea di un inesorabile declino rispetto alla tradizione romana, Augusta Prætoria non è certo stata «distrutta» in un giorno solo: se un cambiamento c’è, ed è evidente, tra la tradizione urbanistica e architettonica romana e quella successiva, lo stesso si forgia nel corso di un lungo periodo e affonda le radici non già nel V secolo, ma almeno nell’età tardo-imperiale, ossia a partire dal pieno III secolo d.C. In secondo In alto ambone marmoreo della prima cattedrale di Aosta, decorato a rilievo con motivi geometrici e zoomorfi. VI sec. Nella pagina accanto, in basso Aosta, cattedrale. Sistemazione degli scavi nel sottosuolo. Nella pagina accanto, in alto, nel riquadro ricostruzione in 3D dell’impianto della cattedrale aostana nel V sec. A destra planimetria delle fasi di I-VI sec. della domus ecclesiæ e della cattedrale.
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luogo, ben piú importante, non è possibile comprendere davvero cosa succeda ad Augusta Prætoria o sul territorio valdostano a partire dalla tarda romanità se ci si ostina a cercare di interpretare le novità secondo uno sguardo «romanocentrico»: le modifiche alla viabilità, alle infrastrutture, i nuovi modi di costruire e di abitare, le esigenze di sicurezza e le riconversioni di ampi settori urbani in orti cittadini sono anzitutto scelte, magari condizionate da una situazione di generale insicurezza o da fattori esterni, ma non per forza da leggersi come qualcosa di unicamente negativo. Fra la Tarda Antichità e l’Alto Medioevo,
Nella pagina accanto, in alto Aosta, Porta Prætoria. Tracce combuste di edificio altomedievale. In basso Aosta, Porta Prætoria. Planimetria con vista ortogonale del modello 3D multitemporale: a) nel settore orientale della città romana; b) nel contesto urbano attuale.
insomma, la città e il contado sono «altro» rispetto ai secoli che li hanno preceduti, senza alcuna ambizione di confronto con questi: qualcosa di nuovo, di incredibilmente vivo, un calderone di opportunità e modifiche che prepareranno l’avvento dei secoli centrali di un Medioevo che ad Aosta sarà particolarmente ricco e vivace. Ma quali indizi archeologici possediamo per cercare di interpretare questo periodo? Da dove cominciare? Senza dubbio dal fulcro della città romana, ossia dal foro di Augusta Prætoria. È qui, o meglio ai margini di quest’area, che si consuma un evento nodale per il successivo sviluppo urbanistico e sociale della città: la nascita della prima cattedrale.
Da casa a chiesa Ma andiamo con ordine. Gli scavi condotti all’interno dell’edificio ecclesiastico nel corso degli anni Ottanta del secolo appena trascorso hanno portato in luce le tracce di un edificio di civile abitazione, costruito nel corso del I secolo d.C. e rinnovato integralmente tra III e IV secolo d.C., immediatamente a ridosso dell’ala orientale del Criptoportico forense. Si tratta di una domus di grande qualità formale, con pavimenti a opus sectile, che doveva appartenere a una famiglia certamente influente nel panorama politico e civile della città. Sebbene si tratti di un complesso senza ombra di dubbio con caratteristiche pienamente romane, le modifiche subite in seconda fase edilizia (III secolo) costituiscono già un punto di rottura con la tradizione precedente, dal momento che la sua espansione verso est avviene a discapito di un cardo minore. La vera novità, tuttavia, risiede nella funzione che l’edificio assume a partire dal tardo IV secolo, quando diventa sede del primo luogo di culto cristiano della città, testimoniato dalla realizzazione di un fonte battesimale all’interno dello stesso criptoportico, che nell’occasione viene «violato» e connesso all’abitazione. Dalla domus ecclesiæ alla prima cattedrale il passo è breve: la trasformazione del vecchio edificio residenziale deve considerarsi
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connessa alla presenza delle prime autorità vescovili, che per Aosta sono attestate almeno dal 451 d.C., anno in cui, al sinodo di Milano, il prete e futuro vescovo Grato, oggi patrono della città, firma in vece del suo predecessore, Eustasio.
Un edificio maestoso La prima cattedrale è un edificio maestoso, sorto in adiacenza al volume del Criptoportico e con esso strettamente dialogante. L’interno è a navata unica, con piccoli ambienti ai lati a funzione liturgica direttamente comunicanti con questa. Il presbiterio, concluso da un’abside semicircolare, si prolunga nel centro della navata tramite una stretta solea, chiusa ermeticamente da balaustre, a indicare con una chiara separazione l’area riservata al clero. La navata è ulteriormente suddivisa da una parete trasversale in due settori, uno piú prossimo al coro e l’altro retrostante, accessibile tramite un grande arco centrale e due piccoli passaggi laterali. I tre ambienti sono virtualmente separati anche a mezzo
Qui sopra tremisse aureo di Zenone rinvenuto nel corso degli scavi della Porta Principalis Sinistra di Aosta. Zecca di Milano, 480-491 d.C.
della pavimentazione, che nell’area presso il presbiterio è interamente in piastrelle di marmo bianco e nero, nella porzione mediana in cocciopesto con inclusi geometrici nel medesimo materiale e, in quella piú distante dall’officiante, in semplice battuto di malta. Si tratta, con ogni probabilità, di tre settori specificamente riservati al clero, ai fedeli battezzati e ai catecumeni. Infine, ancora piú a ovest, separato da un’altra parete divisoria con tre accessi, il fonte battesimale, esagonale e pavimentato anch’esso in piastrelle marmoree bicolori. Nei secoli successivi, la nuova cattedrale venne ulteriormente modificata e abbellita (basti citare lo splendido ambone marmoreo, riccamente decorato con riproduzioni di motivi geometrici e zoomorfi, attribuibile al VI secolo d.C.), pur mantenendo di fatto le proporzioni e le dimensioni iniziali. Tra le variazioni di maggior significato si annovera la costruzione, in uno degli ambienti laterali verso nord, di una seconda vasca, di dimensioni inferiori alla
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principale, che studi recenti associano al rito della lavanda dei piedi. All’esterno della cattedrale, l’area sacra del foro e la platea forense a meridione di questa registrano, a partire almeno dal IV-V secolo, se non prima, i primi segnali di forti cambiamenti nell’articolazione e gestione degli spazi. Nei pressi dei templi e del settore monumentale, ora gravitante verso la novella cattedrale, si assiste alla nascita di murature disposte secondo allineamenti non consoni
rispetto alla rigida articolazione classica: strutture diagonali che identificano percorsi rivolti verso il nuovo fulcro politico e cultuale, realizzate con una tecnica che nulla piú ha a che vedere con la tradizione precedente, ma che fa largo uso di materiali di spoliazione, tra cui anche rocchi di colonne, evidentemente strappati ai contermini monumenti romani. A livello della platea settori prima aperti e privi di costruzioni vengono invasi da edifici di scarsa qualità formale, spesso seminterrati e a loro volta associati a suoli fortemente organici, indizio di uno sviluppo ortivo. Gli elementi ora ricordati, crescita dei suoli agricoli, sviluppo di una nuova maglia urbanistica, riutilizzo di materiali edilizi frutto dello spoglio dei
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Qui sotto l’abside ovest della chiesa paleocristiana di San Lorenzo in corso di scavo. In basso planimetria delle chiese paleocristiane del complesso di San Lorenzo e dei Santi Pietro e Orso.
monumenti antichi, possono essere considerati il fil rouge che aiuta a tratteggiare l’evoluzione dell’intero comparto cittadino.
Lo spostamento del decumano Volgendo l’attenzione dal foro alle porte di accesso alla città, dove recenti scavi permettono di seguire l’evoluzione di questi settori nodali dell’infrastrutturazione urbana, l’impressione è quella di una vera e propria rivoluzione copernicana. Presso la Porta Prætoria, l’accesso principale alla città nonché quello di maggior effetto monumentale, è del resto ancora oggi evidente lo spostamento dell’asse stradale del decumanus maximus dal fornice centrale a quello settentrionale, che si attua proprio nel corso dei secoli altomedievali. Di fatto compaiono edifici in tecnica mista che invadono la carrareccia e sfruttano le murature della porta come appoggio, spesso sfondando i piani stradali cosí occupati, al fine di ricavarne ambienti seminterrati. La nuova viabilità ne risulta fortemente condizionata, senza considerare che presso il fornice centrale si sono rinvenute le tracce di vere e proprie murature di sbarramento, che, unitamente alla presenza di un fossato esterno alla porta medesima, concorrono a creare l’idea di un piccolo castrum, separato dal resto del tessuto
cittadino. Uno di questi edifici è giunto a noi in condizioni di conservazione particolarmente fortunate a causa di un incendio che ne ha combusto sia i piani interni lignei che le pareti, realizzate mediante una tecnica mista con fondazione in ciottoli e muratura e un alzato in argilla cruda e intelaiatura lignea (vedi foto a p. 79). La datazione, ottenuta mediante dendrocronologia, ne colloca la costruzione a cavallo tra X e XI secolo, al limite dunque di un’epoca di grande rinnovamento urbanistico, che nel settore ora in oggetto porterà alla ricostruzione della torre settentrionale della porta romana nelle forme dell’attuale Torre dei Signori de Porta Sancti Ursi (vedi foto a p. 78). Una situazione similare è confermata presso la Porta Decumana, all’estremità occidentale della città verso il colle del Piccolo San Bernardo, ma soprattutto presso la Porta Principalis Sinistra, rivolta a settentrione, ossia in direzione del colle del Gran San Bernardo.
Ricostruzione 3D della fase del V sec. delle chiese di San Lorenzo (a sinistra) e dei Santi Pietro e Orso. In basso la zona presbiteriale della chiesa paleocristiana di San Lorenzo.
Qui le indagini hanno mostrato come nel tardo impero e nella successiva età tardo-antica si produca una cesura piuttosto netta nella conformazione urbanistica di eredità precedente, sostanzialmente riassumibile in due differenti accadimenti. Da un lato si assiste alla progressiva riduzione del nastro stradale, a causa della nascita di edifici che occupano le crepidini e si addossano alle fauces. Dall’altro si verifica un rialzamento delle quote del piano viario, evento strettamente connesso con l’occlusione dei condotti fognari e del fossato esterno alla città, fenomeno che non viene rallentato neppure dalla realizzazione, nel corso del V secolo, di una nuova similare struttura, piú prossima alle mura e con probabili finalità difensive e militari. La successiva sequenza di apporti limosi ripetuti nel tempo, ben testimoniata non solo in questo settore cittadino, a cui seguono continui faticosi ripristini della viabilità primaria, già spogliata della sua originaria pavimentazione in lastre, certifica l’annullamento anche del fossato tardo-antico e conduce a un nuovo assetto. Un assetto marcato dalla restrizione degli assi stradali e dalla crescita costante dei depositi, che non può essere ridotto al semplice esito della disgregazione della precedente sistemazione, ma è qualcosa di diverso, un equilibrio di nuove dinamiche, che di fatto cancellano l’infrastrutturazione classica, proponendo un nuovo impianto urbano in costante divenire, fatto di aree a forte concentrazione di attività insediativa accanto ad altre per le quali prevale l’abbandono. Colpisce, anche in questo caso, il frequente ricorso a materiali costruttivi frutto del
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saccheggio degli edifici e della pavimentazione stradale antichi, cosí come l’evidenza dell’installazione di botteghe artigianali in porzioni di piú ampi complessi edili in stato di abbandono. Alcune monete rinvenute nel corso degli scavi archeologici recentemente condotti, in particolare un aureo dell’imperatore Zenone (480-491 d.C), permettono di situare cronologicamente l’avvenuto cambio di orizzonte (vedi foto a p. 79): l’Augusta Prætoria del V secolo è ormai una città profondamente mutata, per certi versi irriconoscibile rispetto a quella di soli tre secoli prima. Eppure non è vero che all’ordine si è
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Villeneuve. Veduta della chiesa di Santa Maria e del castello di ChatelArgent. Nella pagina accanto, in alto planimetria del complesso paleocristiano battesimale (in rosso) e della chiesa romanica (in azzurro) di Santa Maria a Villeneuve.
semplicemente sostituito il caos. Se all’interno delle mura il cuore pulsante della città è pur sempre rimasto al suo posto, nel foro, è all’esterno della cerchia difensiva che si assiste alla nascita di qualcosa di assolutamente nuovo, che determina una vera rottura con la tradizione precedente. Le necropoli di epoca classica, collocate all’uscita dalla città, a partire dal III-IV secolo si dimostrano via via insufficienti ai bisogni della popolazione, e complice una modifica nei riti, che vogliono i defunti sempre piú spesso inumati e non cremati, si espandono, avvicinandosi ai limiti della città e talvolta
Lorenzo, destinato, fin nelle premesse, a fungere da collettore delle sepolture di quelle medesime autorità ecclesiastiche responsabili della costruzione della cattedrale nel centro urbano (vedi foto alle pp. 80/81).
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
invadendola. La cristianizzazione delle necropoli è un avvenimento graduale, ma che si porta dietro una serie di conseguenze anche a livello urbanistico. Le indagini condotte presso il sito della collegiata dei Santi Pietro e Orso hanno infatti dimostrato come il complesso religioso, una delle meraviglie architettoniche e artistiche della città medievale, prenda le mosse dalla realizzazione di un mausoleo funerario, come tanti dovevano essercene in periodo tardoantico ad avere invaso il pomerio, fino a poco prima inedificabile. A breve distanza da questo, nel V secolo, verrà posta la prima pietra di un edificio religioso cristiano, intitolato a san
Per le spoglie dei vescovi
Qui sopra Villeneuve, Châtel-Argent: il complesso paleocristiano (1), l’insediamento altomedievale ai piedi del castello (2) e la chiesa di Santa Maria, X-XI sec. (3).
La basilica paleocristiana di San Lorenzo è un piccolo gioiello archeologico. A pianta cruciforme latina sul modello delle milanesi Basilica Apostolorum (San Nazzaro) e Basilica Virginum (San Simpliciano), con due absidi semicircolari all’interno e poligonali all’esterno a chiudere la navata, e due absidi semicircolari con contrafforti esterni a delimitare il transetto, è il luogo deputato, a partire dal V secolo, alla venerazione delle spoglie mortali dei vescovi aostani, ospitate nei settori piú importanti dell’edificio. Grandi tombe in muratura, dette formæ, affollavano le absidi, la solea, il coro, e accanto a esse vennero a coagularsi, nel corso del tempo, sepolture privilegiate, spinte dalla volontà di avvicinarsi quanto piú possibile alle urne dei vescovi. Allo stesso modo, all’esterno della basilica, le inumazioni delle persone comuni vennero attirate dal nuovo polo cimiteriale, formando nel corso del tempo un vero e proprio spazio cimiteriale consacrato. Il fenomeno delle sepolture ad sanctos o ad ecclesiam o sub stillicidium, quando l’obiettivo era quello di porsi al di sotto della linea di grondaia del tetto, non è certo proprio solo di Aosta, ma presso la chiesa di San Lorenzo è particolarmente evidente questa ricerca di prossimità, che evidenzia in maniera esplicita la formazione di una rigida gerarchia sociale applicata anche post mortem. Lo stesso capita per la chiesa di San Pietro, che solo dal pieno Alto Medioevo, per effetto di una ricostruzione globale dell’intero comparto religioso a seguito di un violento incendio, assumerà la doppia intitolazione con sant’Orso. Sepolture vescovili sono associate al primo edificio funerario, che ingloba al proprio margine quel mausoleo da cui si era originato il polo cultuale. Ad aula unica con un porticato a ferro di cavallo esteso su tre lati, la chiesa di
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San Pietro non può essere disgiunta, né spazialmente, né ritualmente, dalla basilica laurenziana: la posizione degli accessi e la commistione della pratica funeraria che associa i due edifici concorre a proporre l’idea di un unico centro di culto, la cui importanza crescente quale polo di attrazione non solo religiosa sarà la causa della nascita, a partire dal VI secolo, di un vero e proprio borgo extraurbano, incardinato sugli edifici ecclesiastici e destinato a divenire alternativo a quello piú propriamente cittadino.
A sinistra Morgex, chiesa di Santa Maria. Lo scavo archeologico condotto nell’edificio. Nella pagina accanto, in alto Hône, chiesa di San Giorgio. Veduta generale del cantiere a scavo ultimato. Nella pagina accanto, in basso Hône, chiesa di San Giorgio. Pianta cumulativa delle fasi individuate dall’indagine archeologica.
Oltre la città L’importanza della cristianizzazione come fattore culturale innovatore si estende anche al di fuori del contesto urbano. Una rapida occhiata al suburbio e all’intero territorio regionale mette infatti immediatamente in evidenza come la nascita di luoghi di culto di matrice cristiana sia la prima traccia della creazione di una rete di controllo del contado che fa capo, seppure con ampi margini di insicurezza, alle autorità ecclesiastiche. Santa Maria di Morgex, nel cuore della Valdigne; Santa Maria di Villeneuve, presso le chiuse di Châtel-Argent, straordinario caso di un complesso tripartito con doppia aula di culto e spazio battesimale autonomo; Saint-Léger di Aymavilles, con la sua splendida cripta romanica; Sant’Eusebio di Quart, al quarto miglio della via romana verso Eporedia (Ivrea); Saint-Vincent, importante centro di culto nelle immediate vicinanze della stretta naturale di Montjovet; San Giorgio di Hône, alle pendici delle Augustanæ Clausuræ, l’odierno Forte di Bard, vera porta della Valle d’Aosta. Sono questi i siti, oggetto di scavi archeologici piú o meno recenti, che raccontano la transizione del comparto rurale dai secoli tardo-romani a quelli pienamente medievali. La scelta della localizzazione dei nuovi complessi religiosi, spesso aventi funzioni plebane, appare rispettare alcuni dettami fondamentali, primo fra tutti l’adiacenza alla viabilità pubblica di tradizione classica. Sebbene non sia possibile attribuire valenza battesimale
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al polo liturgico sorto presso la chiesa di SaintLéger di Aymavilles tra il V e il VI secolo, e seppure manchino informazioni riguardo quello di Sant’Eusebio di Quart, colpisce l’analogia tra questi contesti e i casi di Santa Maria di Villeneuve (vedi foto alle pp. 82/83), di Santa Maria di Morgex e di Saint-Vincent, tutti strettamente correlati alla presenza della strada romana o a elementi di natura viabilistica quali ponti (Villeneuve, Aymavilles), stationes o mansiones (Saint-Vincent, Quart, Morgex), sia assodate che solamente ipotizzate. Un ulteriore aspetto di forte analogia per alcuni siti risiede nella scelta di posizioni al riparo da rischi naturali o comunque nei pressi di terreni di buona valenza agricola (Aymavilles, Quart, Morgex, Saint-Vincent, piú tardi la stessa chiesa di San Giorgio di Hône), permettendo l’ipotesi di centri devozionali nati in continuità con siti legati in epoca precedente anche allo sfruttamento rurale del territorio. In alcuni di questi siti (Aymavilles, Quart, Saint-Vincent, Villeneuve) si osserva inoltre un’importante operazione preliminare legata alla realizzazione di imponenti terrazzamenti, utili tanto all’impostazione degli edifici quanto allo sfruttamento agricolo. Ma la lettura del fenomeno insediativo sul
territorio sarebbe parziale se non si allargasse a comprendere anche gli aspetti legati alla comparsa di una spiccata ricerca di sicurezza da parte delle popolazioni rurali, che si traduce nella nascita di insediamenti fortificati in posizioni preminenti e di facile difendibilità. Nel contado si assiste, a partire dal pieno V secolo, al progressivo abbandono di alcuni centri e di alcune villæ rurali, talvolta anche di lunga tradizione, a favore di nuovi siti che, pur privilegiando settori della Valle centrale e delle valli laterali di piú facile difesa e maggior valore strategico, non possono tuttavia ridursi sotto la qualifica di semplice «spostamento in altura». La chiave di lettura per la comprensione del fenomeno risiede nella volontà di mantenimento di un controllo dei transiti diretti oltralpe, e riflette la necessità, a fronte
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La pietra ollare, un «errore» di grande successo
L
a stone research sulle materie prime peculiari di questo spazio alpino, iniziata dall’industria litica preistorica, continuata con le stele megalitiche in scisto e marmo bardiglio, giunta in periodo romano ai piú classici materiali di cava per la monumentalizzazione di Augusta Prætoria (travertino, puddinga, bardiglio), arriva a termine con il periodo tardo-antico e altomedievale a mezzo di una pietra che, già nel nome, denuncia un evidente cambio di passo: la «pietra ollare». Non solo dopo i fasti edilizi della città romana si torna nella vita quotidiana, con oggetti di dimensioni contenute e utilizzo routinario, ma, per la prima volta, si erge a «fossile guida» di un periodo un materiale che già nel nome contiene un’imprecisione. Infatti la «pietra ollare» tecnicamente non esiste, o meglio, non è una categoria litologica, bensí merceologica, che identifica contenitori che hanno per funzione quella di servire da «olle», ossia da pentole. Per correggere il tiro dovremmo infatti parlare, almeno per la Valle d’Aosta, genericamente di cloritoscisti, o, meglio ancora, di un gruppo di rocce metamorfiche accomunate da alcuni tratti sostanziali: scarsa durezza, bassissima porosità, facile lavorabilità, refrattarietà e inerzia termica. Proprio queste caratteristiche, tra età tardo-antica e altomedievale, portarono alla produzione e commercializzazione di una ingente
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quantità di vasi da fuoco, utili sia in cucina che per le attività artigiane. Di fatto, a partire dal pieno IV secolo d.C., in un momento che l’archeologia, sulla base dei dati di scavo, ci consegna come via via sempre piú a-ceramico, gli oggetti in pietra ollare colonizzano i depositi di scavo, segnando un chiaro confine non solo nella produzione e diffusione di questo materiale, ma anche nella stessa concezione dei contenitori, sempre meno associabili ai servizi da mensa e sempre piú a quelli da cucina. La Valle d’Aosta, insieme al Piemonte, alla Lombardia e al Canton Ticino, è uno dei siti di produzione ed esportazione di manufatti in pietra ollare di maggiore importanza a livello europeo. Località come Saint-Jacques in Val d’Ayas, Valmérianaz di Pontey o Petit-Rosier di Champorcher conservano ricche tracce dell’attività legata alla manifattura di questi contenitori, che concorrono a ricostruire un dinamismo economico di ampia portata, frutto di un artigianato specializzato. Se dunque parlare di pietra ollare può essere un errore in termini rigidamente litologici, è altrettanto vero che questa categoria di manufatti si candida a essere un punto di riferimento imprescindibile nello studio non solo dei contesti abitativi urbani e territoriali, ma anche di quelli produttivi di epoca post-romana. Gabriele Sartorio
di un evidente calo demografico, di assicurare una difesa del territorio che faccia perno sul presidio tattico di pochi punti strategici, identificati con le chiuse fortificate di tradizione già romana e tardoantica (principalmente Bard, Châtel-Argent di Villeneuve, Montjovet). I siti che hanno restituito tracce materiali di un’occupazione con caratteristiche stanziali sono infatti quasi sempre caratterizzati da una ricerca di settori naturalmente difesi, in posizione dominante e al riparo da pericoli potenziali, sia antropici che non, ma al contempo in diretta connessione visiva e di controllo della rete viaria primaria e secondaria. I casi ancora una volta di Châtel-Argent, del castello di Verrès, del castello di Graines a Brusson in Val d’Ayas, guarda caso conosciuto come castrum Sancti Martini, e, soprattutto, delle Augustanæ Clausuræ di Bard costituiscono, di fatto, la rassegna piú rappresentativa di siti regionali dove siano state
Il castello di Verrès, una delle testimonianze piú significative dell’occupazione del territorio in età altomedievale. Nella pagina accanto vasi in pietra ollare utilizzati come corredo funerario, provenienti da differenti contesti di scavo.
rinvenute tracce esplicite di occupazione di periodo altomedievale, e non può essere considerato un caso la comune caratteristica dell’arroccamento di tutti questi contesti. Accanto a una persistenza nell’occupazione di siti strategici a livello militare, che mantengono inalterata e anzi vedono accresciuta la propria valenza tattica nel passaggio all’epoca tardoantica e altomedievale, si nota dunque la comparsa di nuove forme di occupazione che privilegiano contesti posti in altura. Molto piú, dunque, che non una semplice età di transizione. Molto piú che non un’epoca di decadenza e dissoluzione. La fine della romanità, o meglio l’inizio del Medioevo, è un quadro a tinte forti, certo, ma come tutti i periodi rivoluzionari porta in germe i semi di un grande rinnovamento, anzitutto di pensiero, semi che fioriranno compiutamente quasi cinque secoli piú tardi, in quell’Aosta che ospiterà i grandi cantieri romanici dei vescovi Anselmo e Burcardo.
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STORIA DELLE RICERCHE
DALLA PASSIONE AL METODO LE PRIME SCOPERTE ARCHEOLOGICHE IN VALLE D’AOSTA, A PARTIRE DAL CINQUECENTO, HANNO PER PROTAGONISTI ERUDITI, APPASSIONATI E COLLEZIONISTI DI ANTICHITÀ. DALL’OTTOCENTO IN POI, A QUESTI SI SOSTITUIRANNO GLI ARCHEOLOGI CHE, SULLA BASE DI RICERCHE SISTEMATICHE, INQUADRANO LE TAPPE SALIENTI DEL POPOLAMENTO DELLA REGIONE IN UN PIÚ ORGANICO CONTESTO CRONOLOGICO E CULTURALE di Maria Cristina Fazari
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I
Ernesto Schiaparelli sulla sommità dell’Arco d’Augusto durante il restauro del 1912-1913. Il celebre archeologo ed egittologo diresse, dal marzo 1908, la neonata Soprintendenza sugli scavi, musei e oggetti d’antichità per il Piemonte e la Liguria, che aveva competenza anche sul territorio valdostano.
n Valle d’Aosta l’interesse per la storia antica locale e per i monumenti romani inizia con gli eruditi dei secoli XVI e XVII, che accennano agli autori classici e si cimentano nella trascrizione di antiche iscrizioni. Nelle loro pagine si mescolano confusamente le leggende che si narrano sui Salassi, sulla fondazione e le vicende di Aosta, sul Grande e Piccolo San Bernardo. Non può passare inosservato il taglio della roccia di Donnas per il transito della via delle Gallie, come non si può dimenticare la mitica traversata delle Alpi da parte di Annibale. La figura dell’imperatore Augusto giganteggia, tanto che Roland Viot (1580 circa-1644), prevosto dell’Ospizio del Gran San Bernardo, umanista e profondo conoscitore della cultura classica e della storiografia antica, dedica un intero capitolo di una sua opera al Trophée des Alpes en la cité d’Aoste, ovvero all’Arco onorario d’Augusto. Risale alla metà del XVII secolo il Porfil historial et diagraphique de la très antique cité d’Aouste di Jean-Claude Mochet († 1660) che, nonostante lo stile aulico e le lunghe disquisizioni storiche, contiene una serie epigrafica di una certa importanza perché alcune iscrizioni sono poi andate perdute. Il manoscritto è corredato da un gran numero di disegni (dovuti alla mano di Mochet stesso o di suo figlio) che rappresentano personaggi, monete, stemmi e monumenti romani come la facciata del Teatro e l’Arco d’Augusto. L’autore è un notaio di formazione umanistica, nutrito di mitografia classica e di fantasticherie di tradizione erudita e, nonostante l’intento di superare la semplice cronachistica, i suoi sforzi non sono coronati da successo. Solo nella prima metà del Settecento, con Jean-Baptiste de Tillier (1678-1744), esponente della nobiltà valdostana e segretario degli Stati Generali e del Conseil des Commis, ci troviamo di fronte al primo vero storico locale. La sua ricostruzione delle vicende valdostane prende il titolo di Recueil contenant dissertation historique et géographique sur la Vallée et Duché d’Aoste, meglio noto come Historique de la Vallée d’Aoste, scritto tra il 1719 e il 1740.
Pur accogliendo qualche tradizione leggendaria e nonostante alcune lacune e congetture erronee, De Tillier conosce e maneggia con disinvoltura le fonti classiche, raccoglie e trascrive documenti antichi e sui monumenti riferisce ciò che vede di persona. Molte sue descrizioni sono utili ancora oggi, anche perché spesso fornisce dati precisi sullo stato di conservazione, il materiale costruttivo e le tecniche di lavorazione dei vari manufatti. Una naturale propensione al disegno gli permette di raffigurare le imponenti rovine di età romana che emergono dal contesto urbano, come la facciata del Teatro, chiamato palais de l’empereur des romains, perché all’epoca non si è ancora compresa la sua funzione specifica. Questo prospetto riveste una notevole importanza dal punto di vista documentario, perché testimonia lo stato del rudere nei primi decenni del XVIII secolo e quali parti siano cadute in seguito. Particolarmente interessanti sono le segnalazioni dei ritrovamenti avvenuti in città.
Cercando la mitica Cordela Nel 1728, in occasione del cantiere di rifacimento della chiesa di Santo Stefano, viene alla luce un sepolcreto romano e De Tillier, che è presente come acuto osservatore, nel seguire i lavori, trascrive con cura le iscrizioni delle lapidi e illustra graficamente alcuni ritrovamenti. Quello della necropoli settentrionale può dunque, a giusto titolo, essere considerato il primo scavo archeologico di Aosta, anche se già nel 1709 si sono eseguiti alcuni sterri a Saint-Martin-de-Corléans alla ricerca della mitica Cordela, la capitale dei Salassi. Al Plan de Jupiter, come viene chiamato l’insellamento del colle del Gran San Bernardo, vi è un terreno infinite volte rivoltato e rimosso alla ricerca di antichi reperti. Chi può dire cosa sia stato rinvenuto nei secoli passati e poi andato disperso e perduto per la scienza? I primi scavi archeologici di cui si ha notizia si svolgono tra il 1760 e il 1764 per opera del priore Jean-Isidore Darbelley e dei canonici Jean-Joseph Ballet e Laurent-Joseph Murith.
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STORIA DELLE RICERCHE
Vengono rinvenute monete galliche e romane e vari oggetti, fra cui tavolette votive, statuette, armi, piccole anfore e lucerne che vanno a costituire la prima raccolta del Museo dell’Ospizio. Seguono, nel 1837, i saggi della contessa piemontese Calleri di Sala che restituiscono anch’essi tavolette votive e varie monete, ma si tratta di sondaggi condotti per recuperare cimeli antichi piuttosto che per «conoscere» la storia del luogo. Nell’agosto del 1838 si svolgono le ricerche di Carlo Promis che scava per otto giorni con una squadra di dodici uomini. Si può dire che l’archeologia valdostana nasca ufficialmente in questo momento, perché le indagini sono eseguite per ordine dell’autorità reale e sono condotte in maniera scientifica.
Il padre dell’archeologia valdostana Carlo Promis (1808-1873) è un architetto e professore di architettura civile, membro dell’Accademia delle Scienze di Torino e Berlino e socio corrispondente dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Trascorre alcuni anni nella Città Eterna, dove si dedica allo studio dell’arte classica, dell’archeologia e delle tecniche di scavo sotto la guida di illustri studiosi. In quegli anni è solito compiere lunghe escursioni nella campagna romana alla ricerca di vestigia antiche e di iscrizioni da disegnare e trascrivere. Le sue prime esperienze sul campo si svolgono nel 1830 a Pompei, con Luigi Canina. Rientrato a Torino dirige diversi scavi in località piemontesi e nel 1837 viene nominato Ispettore dei monumenti dei Regni Sardi e poi Regio archeologo nel 1839. In questa veste il re Carlo Alberto lo incarica di svolgere uno studio approfondito dei monumenti antichi di Aosta e cosí, a partire dal 1838, iniziano ricognizioni e scavi condotti in città e sul territorio. Il Teatro romano, fra i primi, viene indagato e rilevato con cura. Promis non si limita, come i suoi predecessori, a una semplice osservazione esterna di quanto rimane dell’edificio, ma effettua delle analisi all’interno delle costruzioni addossate e dei saggi in alcuni punti considerati strategici per la
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comprensione del monumento. Nonostante tutti gli sforzi tesi a una ricostruzione corretta, la probabile mancanza di dati strutturali determina, però, un errore inerente all’esatto orientamento della cavea. Nella restituzione planimetrica, infatti, quest’ultima risulta rivolta a est invece che a nord, come apparirà evidente in tempi successivi. Questa e le altre indagini che riguardano l’Anfiteatro, la Porta Prætoria, il Foro, l’Arco di Augusto, le mura, il sistema fognario, nonché tutto il percorso della strada delle Gallie attraverso la Valle, portano alla pubblicazione, nel 1862, del prestigioso volume Le antichità di Aosta. Si tratta del primo studio rigorosamente scientifico dei resti romani della piccola regione alpina. Il testo, ricco di particolareggiate descrizioni e di misure, è corredato da una serie di quattordici tavole caratterizzate da una sobria linearità neoclassica, quasi ingegneristica, che saranno un punto di riferimento anche per gli studi successivi.
A sinistra l’Arco di Augusto in un disegno di Jean-Claude Mochet. Metà del XVII sec. Nella pagina accanto ancora l’Arco di Augusto, questa volta in un disegno di Jean-Baptiste de Tillier. 1719-1740.
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bellezze artistiche valdostane, è scritta e illustrata da Édouard Aubert (1814-1888), critico d’arte, pittore e antiquario, cognato del medico aostano Laurent Cerise, che soggiorna nel capoluogo a partire del 1851. Ricerche approfondite sul campo e la preziosa collaborazione dei canonici di Sant’Orso JeanAntoine Gal e Georges Carrel, portano Aubert a realizzare una sintesi della storia locale unita al profilo dei vari comuni con cenni sui monumenti antichi piú interessanti. Tutto è corredato da una serie di incisioni, improntate al pittoresco, ma sicuramente dotate di valore documentario. La veduta del Teatro romano, per esempio, se confrontata col disegno di De Tillier, mostra il degrado subito dal monumento nel corso di circa un secolo, mentre il Ponte romano di Saint-Vincent viene raffigurato prima e dopo il crollo avvenuto nel 1839. L’attenzione è rivolta anche agli oggetti da museo, come il dittico e il cammeo della cattedrale, e al materiale archeologico come vasi, bronzetti e bolli laterizi. Per quanto riguarda le epigrafi, non si presenta solo il testo ma, superando la semplice trascrizione, anche l’aspetto delle singole lapidi con le loro peculiarità.
Un ospite d’eccezione
Sempre in tema di restituzioni grafiche, all’architetto e archeologo Luigi Canina (1795-1856) va il merito di aver inserito le vestigia di Aosta nel contesto piú ampio dell’archeologia romana antica (L’archeologia romana descritta e dimostrata coi monumenti, Roma 1830-1840). Nel caso della ricostruzione della Porta Prætoria e dell’Arco di Augusto, però, lo studioso pecca per eccesso di teorizzazione, tanto da alterare l’aspetto dei monumenti per adattarli alle prescrizioni vitruviane e alle sue personali convinzioni. Di poco anteriore alla monografia di Promis è il volume La Vallée d’Aoste, pubblicato a Parigi nel 1860. L’opera, che piú di ogni altra ha contribuito a far conoscere all’estero le
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La facciata del Teatro romano in un’incisione di Édouard Aubert. 1860.
Proprio attorno agli anni Sessanta dell’Ottocento l’Aosta romana entra nel circolo ufficiale dell’antichistica europea. È il momento in cui i sopralluoghi di Theodor Mommsen, il piú grande classicista del XIX secolo, accompagnato da Promis e da Gal, rendono la Valle una terra di transito non solo turistico e commerciale, ma culturale. La passione per l’illustre passato e il gusto per la «scoperta» contagiano presto l’ambiente ecclesiastico valdostano, da sempre caratterizzato da una peculiare vitalità e apertura. Dal vescovo al semplice curato di montagna, in molti s’improvvisano archeologi, e a loro dobbiamo una serie di ricerche dilettantistiche condotte ancora una volta al colle del Gran San Bernardo e nella zona del Piccolo San Bernardo. Tra i precursori di piú rigorose metodologie, la figura di maggior rilevanza è senz’altro quella
l’Académie Saint’Anselme, una società scientifica legata all’ambiente colto ecclesiastico e che vede la partecipazione anche di studiosi laici. Dalla passione di Gal per l’archeologia scaturisce Coup d’œil sur les antiquités du Duché d’Aoste, pubblicato nel 1862. Il piccolo volume, che presenta un
del già ricordato Jean-Antoine Gal (1795-1867), legato a importanti personalità della cultura del tempo. Corrispondente e poi membro della Regia Deputazione di Storia Patria è anche componente di numerose sociétés savantes francesi e corrispondente di enti culturali di vari Paesi europei, fra cui la Germania. Collabora, infatti, col Mommsen nella raccolta di iscrizioni valdostane per il Corpus inscriptionum latinarum. Grazie alla sua straordinaria cultura e al carattere semplice e affabile è mentore di tutti gli studiosi che giungono in Valle per ricerche d’archivio o per visitarne i monumenti. Per sostenere e incoraggiare lo studio della storia locale e diffondere la conoscenza del patrimonio culturale valdostano, nel 1855 fonda
In alto la cortina orientale della Porta Prætoria dopo il restauro Bérard del 1880-1881. In alto, a destra e qui accanto disegni di lapidi sepolcrali eseguiti da Édouard Aubert. 1860.
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quadro sinottico della materia, si configura come la prima carta archeologica della Valle d’Aosta, antesignana di quella realizzata molto tempo dopo da Pietro Barocelli. Altra poliedrica figura di sacerdote-archeologo è il canonico Édouard Bérard (1825-1889), membro della Giunta provinciale d’antichità di Aosta, della regia Deputazione di Storia Patria e corrispondente della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino. Al suo attivo si annoverano diversi scritti di carattere archeologico, ma la sua opera principale rimane Antiquités romaines et du Moyen Âge dans la Vallée d’Aoste, apparsa nel 1881 e seguita da un’appendice pubblicata nel 1888. Si tratta del frutto dell’esperienza maturata sul campo, dopo la nomina a Ispettore reale dei monumenti antichi del circondario di Aosta, nel 1875. Bérard si cala a fondo nel suo ruolo e investe molte energie in quella che considera una vera «missione». Soprattutto, in virtú del suo incarico, cerca di combattere strenuamente i vandali che non rispettano i monumenti antichi. Fra gli episodi piú emblematici al riguardo, vi è quello legato alla salvaguardia delle mura romane nel 1885, quando la Giunta comunale decide di abbatterne ventiquattro metri per costruire la strada di accesso dalla stazione ferroviaria alla piazza centrale. Bérard si presenta sul posto accompagnato da un delegato della pubblica sicurezza e cerca, senza riuscirci, di scongiurare lo svolgimento dell’operazione.
Un restauro improvvido Il suo nome è legato anche alla tormentata vicenda del restauro della Porta Prætoria del 1880-1881, che cala come un’ombra sugli ultimi anni della sua carriera. Feroci critiche al suo operato fanno interrompere i lavori senza attendere la fine del cantiere, soprattutto a causa del forte impatto visivo delle misure conservative messe in atto. Di questo sventurato intervento non rimane oggi alcuna traccia se non nelle fotografie dell’epoca. Se negli ultimi decenni dell’Ottocento la strada della tutela e della valorizzazione del patrimonio
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A sinistra l’ardito sistema di ponteggi a sbalzo realizzato per l’intervento di restauro del ponte romano di Pont-Saint-Martin nel 1890. Nella pagina accanto veduta da ovest dell’Arco romano di Donnas in un disegno di Alfredo D’Andrade del 1889.
archeologico valdostano è ormai tracciata, occorre però procedere con gli scavi e con il restauro di tanti monumenti. In quegli anni opera la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, mentre a livello provinciale sussistono le varie Commissioni conservatrici, ma è ormai ineludibile l’esigenza di uffici tecnici e territoriali che si occupino direttamente della materia. Nel 1884 vengono perciò istituite le diverse delegazioni regionali, fra cui la Regia Delegazione per la conservazione dei monumenti del Piemonte (compresa la Valle d’Aosta) e della Liguria. Il titolare del nuovo ufficio sarà Alfredo D’Andrade (1839-1915), portoghese naturalizzato italiano e poliedrica figura di pittore, architetto, restauratore e archeologo. Appassionato cultore del Medioevo, profondo conoscitore dell’antico e membro delle commissioni piú prestigiose per la tutela monumentale, D’Andrade dirige
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restauri di chiese e castelli, tra cui quello della Sacra di San Michele, ed è l’ideatore del Borgo Medioevale di Torino per l’Esposizione Nazionale del 1884. Nel capoluogo piemontese svolge anche un’intensa attività nel campo archeologico, con gli interventi a Palazzo Madama, alla Porta Palatina e al Teatro romano. Rispetto al dibattito europeo sul restauro di
antichi edifici, molto vivace in quel periodo, la sua è una posizione moderata, indirizzata soprattutto all’indagine filologica e analitica. D’Andrade non teorizza, la sua è un’intelligenza pratica piú che speculativa, e non si perde nei labirinti delle ideologie precostituite. Il rispetto religioso per l’antichità e l’amore per la ricerca determinano in lui un atteggiamento di grande A sinistra abitazioni addossate alla facciata del Teatro romano di Aosta in un’immagine dei primi anni del Novecento. Nella pagina accanto il restauro della Porta Prætoria condotto negli anni Venti del secolo scorso da Ernesto Schiaparelli.
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rigore scientifico, e ogni intervento di restauro è sempre preceduto da scrupolose indagini archivistiche, bibliografiche e materiali. Tutto viene poi accompagnato da una copiosa documentazione grafica fatta di schizzi e disegni, spesso completati da didascalie e precisazioni, e da fotografie che illustrano lo svolgimento dei lavori. L’attività svolta in Valle d’Aosta è di portata molto ampia, tanto che negli archivi si trova la testimonianza dell’operato di D’Andrade in oltre cinquanta località e per un numero ancora piú grande di monumenti. Per quanto concerne i complessi medievali, i lavori riguardano, tra gli altri, i castelli di Fénis, Verrès, Graines e il
Priorato di Sant’Orso. Per l’epoca romana si hanno interventi di restauro al Ponte romano di Pont-Saint-Martin, all’Arco romano di Donnas, alle torri del Pailleron, del Lebbroso e dei Balivi, alla Porta Prætoria, all’Arco di Augusto e alle mura di cinta di Aosta. Sempre nel capoluogo, nel 1898 vengono scavati i resti delle Terme del Foro, venuti alla luce durante i lavori per la realizzazione di un complesso scolastico a nord del Municipio. Tra la fine del 1893 e il 1894 si scoprono la Porta Principalis Dextera e la Porta Principalis Sinistra, ignorate da Carlo Promis che ne aveva negato pure l’esistenza. Proprio durante uno di questi interventi, fra il materiale romano reimpiegato nel Medioevo per chiudere la parte inferiore della Porta Principalis Dextera, si rinviene la celebre base in arenaria di una statua di Augusto con dedica da parte dei Salassi incolæ, risalente agli anni fra il 23 e il 21 a.C.
Nuovi assetti per la tutela Quando, nel 1891, le Regie Delegazioni vengono trasformate in Uffici regionali, D’Andrade mantiene il suo ruolo di direttore e sarà poi nominato soprintendente ai monumenti nel 1907. Dopo una fase quasi pioneristica si è ormai formata attorno a lui una fidata équipe di architetti, ingegneri, disegnatori e assistenti che operano ai vari livelli, coadiuvati dagli ispettori locali. Gli interventi di salvaguardia e restauro sono condotti in maniera sistematica ed efficace, e si sono poste le basi per tutte le attività di conservazione e ricerca successive. Durante la sua lunga carriera D’Andrade non pubblica molto, perlopiú le relazioni destinate a Notizie degli Scavi di antichità, che invia all’Accademia Reale dei Lincei. Particolare importanza riveste invece la Relazione dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti del Piemonte e della Liguria, data alle stampe nel 1899, dove viene descritta l’opera di tutela del patrimonio architettonico, archeologico e storico-artistico svolta sino al 1891. Di grande interesse è pure la fittissima corrispondenza, conservata in vari
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archivi, che D’Andrade intrattiene con il Ministero dell’Istruzione Pubblica, gli ispettori locali delle antichità e i vari collaboratori. Gli scritti e gli appunti gettano luce sulle vicende dei vari interventi e permettono di ricostruire meglio l’ambiente scientifico e socioculturale in cui si trova ad agire e le modalità del suo operare. Nel 1907 viene istituito il sistema delle soprintendenze territoriali, articolate in varie ripartizioni (archeologia, monumenti, gallerie e oggetti d’arte) e dipendenti dal Ministero. Per il territorio della Valle d’Aosta diventa operativa la nuova Soprintendenza sugli scavi, musei e oggetti d’antichità per il Piemonte e la Liguria diretta, a partire dal marzo del 1908, da Ernesto Schiaparelli. Senatore del Regno d’Italia, socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dell’Accademia delle Scienze di Torino, Ernesto Schiaparelli (1856-1928) è un celebre
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archeologo ed egittologo, direttore del Museo Egizio di Torino dal 1894 sino alla sua morte. Dai suoi primi sopralluoghi in Valle emergono molte criticità, ma gli interventi sono difficili da attuare a causa delle scarse disponibilità economiche. Nel 1912, però, viene varato un disegno di legge per il finanziamento di un fondo straordinario a favore dei monumenti delle varie regioni italiane, e una somma piuttosto cospicua viene destinata anche alla Valle d’Aosta. A beneficiarne saranno molti lavori, come quelli all’Arco d’Augusto e al Criptoportico forense. Il consolidamento delle mura romane rappresenta, comunque, il piú urgente di tutti gli interventi, e cosí lunghi tratti della cortina vengono messi in evidenza e rinforzati. In particolare, si cerca di fermare la caduta dei blocchi di rivestimento superstiti, provvedendo a sostenerli con dei pilastrini in muratura. Caratteristico di questo, come di tutti
La sala del lapidario del Regio Museo d’Antichità di Aosta, istituito per iniziativa di Pietro Barocelli e inaugurato alla fine del 1929.
L’area del Teatro romano durante gli scavi e i restauri degli anni Trenta del Novecento.
i restauri di Schiaparelli, è l’apparecchio murario costituito da grossi ciottoli di fiume annegati nel cemento, come si può osservare anche al Criptoportico e alla Porta Prætoria.
Il restauro dell’Arco di Augusto Agli anni 1912-1913 risale il restauro all’Arco di Augusto, reso necessario dalla presenza di larghi vuoti all’interno della struttura che vengono riempiti con cemento liquido. Si provvede anche alla pulitura del monumento, alla rimozione di vecchi restauri e al rifacimento del tetto, sostituito con uno simile ma piú leggero e solido. I lavori al Criptoportico vengono condotti a piú riprese fra il 1910 e il 1917 e portano alla messa in luce del piano antico, di gran parte del corpo perimetrale voltato e del podio dei templi gemelli che si trovavano al centro dell’area sacra del Foro. L’intervento alla Porta Prætoria, concluso nel
1926, determina una modifica piuttosto radicale dell’aspetto dell’intero monumento, con la rimozione dei resti della cappella medievale che sovrasta la cortina orientale, la liberazione del fornice meridionale e il risarcimento della muratura antica con il caratteristico restauro in ciottoli spaccati. Altri importanti lavori di salvaguardia interessano le sostruzioni della strada romana, principalmente nei comuni di Villeneuve e di Arvier. Gli scavi condotti in Valle riguardano anche la Preistoria, come nel caso della scoperta fortuita, nel 1909, di una necropoli a Fiusey di Montjovet, che restituisce cinque tombe a cista litica, dettagliatamente descritte dall’archeologo Giulio Emanuele Rizzo. Alla morte di Schiaparelli gli succede Pietro (o Piero) Barocelli (1887-1981), suo allievo, che già lo affianca e sostituisce durante i periodi che trascorre nelle missioni archeologiche all’estero.
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Barocelli inizia la sua attività all’interno della Soprintendenza piemontese nel 1912, col ruolo di ispettore, ed è subito in Valle d’Aosta, al colle del Piccolo San Bernardo, dove si mettono in luce e si restaurano i resti delle mansioni romane. Nel 1917 è a Champrotard di Villeneuve, per dirigere lo scavo di una necropoli di tombe a cista venuta alla luce durante i lavori per la costruzione di una centrale idroelettrica. Pioniere dell’archeologia rupestre e personaggio di grande spessore scientifico, Barocelli diventa Soprintendente in un’epoca in cui il regime fascista è impegnato a promuovere il mito della romanità attraverso la valorizzazione dei monumenti antichi. Nel 1931, sotto la sua direzione, iniziano degli imponenti lavori sulla facciata del Teatro, che viene liberata dalle casupole addossate e poi consolidata e ripristinata in alcune sue parti. L’anno successivo si interviene con ulteriori restauri anche alla Porta Prætoria, dove si abbatte un piccolo oratorio moderno che impedisce la piena visibilità del monumento.
Il Regio Museo di Antichità Al nome di Barocelli è legata anche la nascita del Regio Museo di Antichità di Aosta, inaugurato alla fine del 1929 dopo un lungo e travagliato percorso fatto di tante aspettative e progetti falliti. La necessità di un museo è già stata ribadita con forza dai canonici Bérard e Frutaz, ispettori dei monumenti, e da D’Andrade, che al castello di Bramafam allestisce un deposito di reperti, una sorta di piccolo antiquarium fruibile, su richiesta, a visitatori esterni. L’idea è ripresa da Schiaparelli ma viene portata a compimento solo dal suo successore, con la collaborazione del canonico Justin Boson, assiriologo, filologo e ispettore onorario dei monumenti, che diventa il primo direttore della nuova istituzione. Il museo viene allestito in tre sale presso l’ex canonicato di San Luca nel complesso di Sant’Orso, con un percorso che inizia con i ritrovamenti preromani, per poi proseguire con quelli di età romana e con un lapidario. Numerosi frammenti architettonici, cornici, basi e rocchi
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Nella pagina accanto Il canonico Justin Boson nel cortile del Regio Museo d’Antichità di Aosta assieme a due funzionari della Soprintendenza di Torino nel 1930.
In alto lavori di sistemazione del lato meridionale esterno della cinta romana di Aosta. 1953. Gli interventi sulle mura si sono protratti fino ai giorni nostri.
di colonne, occupano infine, tutto l’angusto cortiletto d’ingresso. Barocelli ha cura di ordinare la raccolta in modo da dare al visitatore un’idea adeguata dell’archeologia valdostana. I diversi oggetti sono commentati da grafici, disegni e fotografie, mentre una carta generale segna il percorso della Via delle Gallie con i vari ritrovamenti. Nel tempo il museo si arricchisce di qualche nuovo reperto, ma la sua configurazione rimane pressoché immutata, tanto che si comincia a parlare della necessità di una struttura piú consona a ospitarlo. Negli anni Settanta del Novecento queste considerazioni si sommano alle precarie condizioni statiche dell’edificio e ne decretano la chiusura al pubblico. Spetta ai successori di Barocelli, che nel 1933 ottiene un nuovo incarico, il compito di portare avanti gli impegnativi lavori al Teatro romano. Infatti, in previsione delle celebrazioni per il Bimillenario augusteo del 1937, il Governo opera su vasta scala e promuove scavi e restauri in tutta la Penisola. A Gioacchino Mancini, rimasto in carica sino al 1936,
succede Giorgio Rosi che interviene in un momento di grande disponibilità finanziaria. Dopo il completamento dello scavo con lo sterro completo dell’area, inizia la fase del restauro che conduce, in alcuni casi, a delle vere e proprie ricostruzioni, in parte realizzate col materiale antico recuperato. L’integrazione è finalizzata a restituire visibilità all’assetto architettonico complessivo e a offrire una migliore lettura dei resti archeologici, anche se a scapito del loro valore storico-documentario. Carlo Carducci (1909-1987), soprintendente dal 1939, opera in Valle d’Aosta già da tempo. Nel 1936 dirige i lavori che conducono alla completa liberazione della Porta Principalis Dextera, al suo restauro e alla sistemazione di tutta la zona adiacente (area del Castello di Bramafam). Nel 1938-1939, segue lo scavo di una necropoli tarda, venuta alla luce durante gli scavi per le fondamenta del Palazzo assistenziale Cogne, che consente la scoperta di una piccola chiesa funeraria paleocristiana con abside a ferro di cavallo. Poco tempo dopo, tra il 1941 e il 1945, porta avanti il ripristino di
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tutto il lato meridionale della Porta Prætoria, all’interno del cortile d’armi. Particolarmente attento ai problemi che riguardano le mura romane, Carducci riprende l’opera di Schiaparelli, facendo demolire numerose piccole costruzioni che ostacolano la vista della cinta a meridione, sul lato esterno. Negli anni 1939-1940 interviene nell’area del Teatro dove, per un tratto di una sessantina di metri a nord della Porta Prætoria, vengono demolite le case che si addossano al lato interno della cortina. Ripresi attivamente nel dopoguerra, i lavori di sistemazione e restauro delle mura, sono continuati sino ai giorni nostri. Agli inizi degli anni Cinquanta il soprintendente invia ad Aosta una sua allieva, neolaureata. È Silvana Finocchi che, pur con mezzi esigui, riesce a garantire un’efficace azione di tutela negli anni difficili della ricostruzione. Nei suoi scritti, la studiosa tratta, a piú riprese, dell’urbanistica e della topografia di Augusta Prætoria.
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A destra due capitelli della cripta della Cattedrale di Aosta. In basso lo scavo dei resti della platea forense condotto da Rosanna Mollo negli anni Ottanta del secolo scorso.
Nel 1946 si attua il trasferimento delle competenze in materia di antichità e beni artistici dallo Stato alla Regione Valle d’Aosta e si crea una Soprintendenza autonoma, staccata da quella di Torino. A Carlo Carducci ne viene affidata la reggenza sino al 1964, quando entra in carica l’architetto Domenico Prola. Sempre a metà degli anni Sessanta giunge in Valle l’archeologa Rosanna Mollo (1937-2013), con l’incarico di svolgere una serie di ricerche sul territorio e nella città di Aosta, allora interessata da notevoli interventi in campo urbanistico. Le scoperte e le grandi potenzialità che si rivelano portano alla costituzione, nel 1968, di un apposito Ufficio archeologico regionale. Si apre cosí una nuova stagione fatta di sopralluoghi, scavi e operazioni di vero e proprio salvataggio di reperti. Pur occupandosi di diversi periodi storici, l’interesse prevalente di Rosanna Mollo è per l’archeologia romana, con lo studio della forma urbis di Augusta Prætoria, del complesso forense, degli edifici per i pubblici spettacoli, delle porte cittadine, del suburbio con la relativa centuriazione, dell’acquedotto, delle necropoli fuori le mura e della villa in regione Consolata. Da non dimenticare è l’organizzazione della mostra «Archeologia in Valle d’Aosta», inaugurata nel 1981 presso il castello Sarriod de la Tour e prolungata sino al 1991 con un continuo afflusso di visitatori. In ambito preistorico, nel 1969, durante lo svolgimento di lavori edili, viene individuato il complesso deposito stratificato dell’area megalitica di
Saint-Martin-de-Corléans, alla periferia occidentale di Aosta. Il sito, eccezionale per estensione (circa un ettaro) e ricchezza, viene scavato per oltre vent’anni, a piú riprese, sotto la direzione di Franco Mezzena. Le ricerche proseguono nel corso del tempo, in parallelo con la costruzione degli edifici destinati alla conservazione e musealizzazione dell’area.
Le piú antiche presenze umane Sempre a Mezzena si deve una vasta serie di indagini archeologiche che riguardano le tracce piú remote della presenza umana in Valle d’Aosta, condotte attraverso lo scavo di necropoli come quella di Vollein a Quart, o di abitati stagionali d’alta quota come sul Mont Tantané a La Magdeleine. Le ricerche piú attuali stanno ampliando questi orizzonti e hanno portato alla scoperta, nel comprensorio del Mont Fallère, dei resti piú antichi della regione, riferibili al Mesolitico, nonché di insediamenti militari di epoca romana, strategici per il controllo del territorio. Ancora in tema di archeologia classica, non può mancare la menzione delle figure di Antonina Maria Cavallaro (1950-2006) e di Patrizia Framarin (1957-2015), entrambe precocemente scomparse. Le loro ricerche sul campo e i loro studi hanno portato importanti contributi per la ricostruzione della città romana, la conoscenza del territorio e la valorizzazione dei siti monumentali. Per quanto riguarda l’archeologia cristiana, sono gli anni Settanta del secolo scorso a segnare una svolta. La Soprintendenza, infatti, definisce un programma di ricerche allo scopo di preparare il restauro di alcuni edifici sacri, in collaborazione con i responsabili scientifici di una vasta area del massiccio alpino. Il professor Charles Bonnet di Ginevra e l’architetto Renato Perinetti conducono una serie di scavi che permettono di ricostruire la storia della cristianizzazione della regione. Nel 1972 iniziano i lavori nell’area della Chiesa di San Lorenzo ad Aosta, che portano alla scoperta di un edificio funerario cruciforme del V secolo e della tomba, con relativo epitaffio,
L’archeologa Rosanna Mollo (1937-2013), che ha operato ad Aosta e nella regione a partire dalla metà degli anni Sessanta del Novecento.
del vescovo Agnello, morto nel 528. Una serie di scavi sistematici comincia nel 1976 anche in Cattedrale, a partire dalla cripta, rivelando una chiesa paleocristiana costruita sopra un edificio del III secolo d.C. Vengono indagati anche il chiostro, il sottotetto e le aree esterne, tanto che gli ultimi sondaggi risalgono alla prima decade degli anni Duemila. Altri importanti scavi si svolgono presso la collegiata dei Santi Pietro e Orso e la chiesa di Santo Stefano, che rivelano anch’esse un’origine paleocristiana, mentre sul territorio le scoperte piú rilevanti riguardano la chiesa di Santa Maria Assunta a Villeneuve e la parrocchiale di Morgex. L’importanza dei risultati conseguiti con lo studio degli edifici religiosi porta a intraprendere, dalla fine degli anni Ottanta, una serie di approfondimenti anche all’interno dei siti fortificati, con lo scavo e il restauro di diversi castelli. Attualmente la massima attenzione viene rivolta, oltre naturalmente all’archeologia urbana e d’urgenza, anche alle ricerche in quota con l’obiettivo di individuare tracce di frequentazioni d’altura dettate, nelle diverse epoche, o da approvvigionamento di materie prime, o da esigenze di controllo delle vie alternative di transito e scambio.
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I MUSEI ARCHEOLOGICI IN VALLE D’AOSTA
La sala del Museo Archeologico Regionale in cui è esposto il plastico ricostruttivo in scala 1:200 di Augusta Prætoria.
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I MUSEI ARCHEOLOGICI
COMPLEMENTO NATURALE ALLA VISITA DEI SITI E DEI MONUMENTI È IL MAR, LE CUI COLLEZIONI RACCONTANO, IN UN FELICE CONNUBIO TRA RIGORE SCIENTIFICO E DIVULGAZIONE, LA STORIA PLURIMILLENARIA DI AOSTA E DELLA VALLE, A PARTIRE DAL GRANDE PLASTICO DELLA CITTÀ ROMANA RICOSTRUITO IN SCALA 1:200. DA QUI, A MENO DI MEZZ’ORA DI PASSEGGIATA, SI RAGGIUNGE IL NUOVO PARCO ARCHEOLOGICO E MUSEO DI SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. ANCORA IN VIA DI COMPLETAMENTO, IL SUO AFFASCINANTE ALLESTIMENTO, IMPRONTATO A CRITERI MUSEOGRAFICI D’AVANGUARDIA, È GIÀ IN MASSIMA PARTE VISITABILE…
di Alessandra Armirotti, Margherita Bert, Massimo Venegoni e Gianfranco Zidda
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I MUSEI ARCHEOLOGICI IN VALLE D’AOSTA
IL MUSEO ARCHEOLOGICO REGIONALE di Alessandra Armirotti
I
l MAR (Museo Archeologico Regionale) ha sede in un palazzo storico nel centro della città, sorto sulle strutture romane della Porta Principalis Sinistra. Inaugurato nel 2004, e rinnovato nel 2010 con il suo allestimento attuale, esso costituisce un punto di riferimento fondamentale per l’archeologia romana, essendo quasi interamente dedicato all’esposizione di reperti provenienti dall’antica Augusta Prætoria. Appena oltrepassata una piccola sala dedicata al collezionismo e al primo direttore del Regio Museo nel 1929, il canonico Justin Boson, il
In alto l’edificio del centro storico di Aosta nel quale ha sede il Museo Archeologico Regionale. Qui sopra la sala dedicata all’epoca cristianomedievale nella quale sono esposti l’ambone in marmo
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del VII-VIII sec., proveniente dagli scavi della Cattedrale e, nella vetrina, il bicchiere con teoria di Santi da Saint-Martin-de-Corléans e la spada di cavaliere con speroni dalla chiesa di Sant’Orso.
In basso un particolare dell’allestimento della sezione romana, nella quale, a scopo didattico, è stata anche proposta la ricostruzione di un thermopolium, un locale pubblico dove si servivano cibi e bevande.
percorso di visita permette al pubblico di apprezzare una parte del patrimonio archeologico regionale, seguendo uno sviluppo tematico-cronologico: esso si snoda, infatti, a partire dal Mesolitico (7000-6000 a.C.) fino ai corredi funerari del XIII-XIV secolo d.C. provenienti dalla chiesa parrocchiale di Courmayeur. Dalle due stele antropomorfe, di cui si espongono le copie, trovandosi gli originali nel sito megalitico di Saint-Martin-deCorléans (vedi alle pp. 112-121), e dai corredi dell’Età del Bronzo e del Ferro, che occupano la prima sala del Museo, la linea del tempo si sviluppa attraverso 18 sale al pian terreno e un percorso sotterraneo recentemente rinnovato.
La romanizzazione Il lungo allestimento consacrato alla romanizzazione inizia con il plastico didattico di Augusta Prætoria (in scala 1:200), che
permette di cogliere lo sviluppo urbanistico della colonia, con la sua organizzazione spaziale ben definita, scandita dai monumenti pubblici e privati. In questa sala trovano posto anche l’iscrizione lapidea che attesta l’avvenuta inclusione dei Salassi nella colonia e un miliario di epoca costantiniana, rinvenuto lungo la via delle Gallie. Seguono le due sale dedicate ai rituali funerari, nelle quali vengono presentati i corredi rinvenuti all’interno delle sepolture; spiccano, tra queste, la tomba 1 di SaintMartin-de-Corléans e la ricostruzione del letto in osso lavorato proveniente dalla necropoli orientale. Gli spazi dedicati all’epigrafia funeraria e ai culti della regione espongono alcuni dei pezzi piú pregiati dell’intera collezione: il balteo, cioè un pettorale da cavallo in bronzo con scene di battaglia tra Romani e Barbari, e il busto in argento di
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Giove Graio, rinvenuto sul colle del Piccolo San Bernardo, associato a un ricchissimo corredo rituale. Segue la sala dedicata alla statuaria, di cui purtroppo rare sono le attestazioni in Valle, ma che consente di ricreare un ambiente suggestivo grazie anche ai sapienti giochi di luce dell’allestimento: lo sguardo cade immediatamente su una piccola applique in bronzo, raffigurante il volto dell’imperatore Augusto. L’edilizia pubblica è rappresentata sia da una raccolta di stampe con i principali monumenti aostani, sia da frammenti scultorei e porzioni di affreschi, mentre la vita quotidiana è presentata attraverso le suppellettili da tavola e da cucina, allestite intorno alla ricostruzione di un thermopolium, un locale pubblico dove si
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servivano cibi e bevande. L’esposizione sulla romanità si conclude con la vetrina degli oggetti legati all’ornamento personale e al benessere della persona. L’epoca cristiano-medievale trova espressione nella piccola sala che ricostruisce la navatella di una chiesa,
In basso, sulle due pagine uno dei reperti piú pregiati fra quelli appartenenti alle collezioni del MAR: il balteo, cioè un pettorale da cavallo, in bronzo, con scene di battaglia tra Romani e Barbari.
In alto l’allestimento della sezione dedicata all’epigrafia funeraria e ai culti, nella quale è esposto il balteo.
dove troneggia l’ambone in marmo del VII-VIII secolo, proveniente dagli scavi della Cattedrale. Ai lati della sala sono esposti inoltre alcuni corredi funerari databili dal IV al XIV secolo, tra cui il bicchiere con teoria di Santi rinvenuto a Saint-Martin-de-Corléans e la spada di cavaliere con speroni proveniente dalla chiesa di Sant’Orso. Il sottosuolo del Museo presenta inoltre un percorso emozionante, tra i resti monumentali delle mura di cinta e della Porta Principalis Sinistra di epoca romana, del Convento delle Visitandine del XVII secolo e della Caserma Challant del XIX secolo, edifici che, nel corso dei secoli, si sono impostati sulle strutture precedenti; qui trovano posto anche alcuni reperti provenienti soprattutto dagli scavi urbani piú recenti. L’esposizione museale propone, inoltre, suggestive scenografie didattiche, testi in braille per ipovedenti e cassetti con copie dei reperti per le esperienze tattili, nonché un’importante raccolta numismatica, costituita da ben 720 monete antiche di varia origine storico-geografica,
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proveniente dalla donazione Pautasso. Le 21 vetrine ospitano 84 monete celtiche della Gallia e dell’Est europeo, 292 monete preromane del nord Italia, coniate dal III al I secolo a.C., 27 monete greche, 24 italiche fuse, 89 romane imperiali, 42 bizantine, 80 medievali per finire con 82 monete sabaude acquisite successivamente. Tra i pezzi esposti, che ripercorrono un periodo storico di 2400 anni, spiccano lo statere d’oro degli Ambiani, gli stateri e i tetradrammi d’argento del Norico, lo statere d’oro di Alessandro Magno coniato
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in Macedonia tra il 336 e il 323 a.C. e la serie librale fusa della Repubblica romana coniata tra il 335 e il 286 a.C. La visita si completa, infine, con un’insospettabile sezione «Egitto e Mesopotamia» realizzata grazie alla donazione Carugo. Un piccolo «cameo» per gli amanti del Vicino Oriente allestito come fosse uno studiolo, in base al concept della «casa-museo». Il MAR offre inoltre attività didattiche molto varie, adatte a ogni target di utenza (scolastica, grande pubblico e famiglie con bambini).
Sulle due pagine i resti delle mura di cinta e della Porta Principalis Sinistra visibili nel sottosuolo del MAR. Nella pagina accanto, in basso un particolare dell’esposizione realizzata nel sottosuolo del Museo.
DOVE E QUANDO MAR-MUSEO ARCHEOLOGICO REGIONALE Piazza Roncas 12 11100 Aosta Per informazioni: e-mail: mar@regione.vda.it Segreteria (orario d’ufficio): tel. 0165 275903 - fax: 0165 275948 Biglietteria del Museo: tel: 0165 275902 Sito internet: www.regione.vda.it Attività didattiche: tel. 348 8998866; e-mail: museiaosta@gmail.com
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L’ AREA MEGALITICA DI SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS di Massimo Venegoni, Margherita Bert, Gianfranco Zidda e Alessandra Armirotti
L’
impegnativo progetto conservativo e di allestimento del Parco archeologico e Museo di Saint-Martin-de-Corléans, cominciato dagli anni Novanta del XX
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secolo, ha conseguito l’obiettivo di presentare al pubblico nel 2016 un primo lotto di lavori. In esso sono illustrate le fasi piú antiche di frequentazione dell’importantissimo sito, lungo un
Una veduta d’insieme del sito, con, al centro, la Tomba II. È la struttura sepolcrale piú grande fra quelle riportate alla luce ed è databile nella seconda metà del III mill. a.C. La foto permette di apprezzare la grande piattaforma triangolare su cui il monumento venne eretto.
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percorso che, dai momenti finali del Neolitico, prosegue per tutta la durata dell’Eneolitico, sino all’Antica Età del Bronzo. Il secondo lotto di lavori del Parco archeologico e Museo di Saint-Martin-de-Corléans è iniziato nel novembre del 2019 e se ne prevede la durata per circa tre anni. Il progetto concerne l’ampliamento delle sezioni espositive all’interno dell’edificio, costruito nel primo decennio del XXI secolo, con l’adeguamento alle nuove funzionalità museali e alle disposizioni normative piú recenti, che regolano tanto gli aspetti di sicurezza e accessibilità per il pubblico, quanto gli standard museali scientifici e gestionali. Si tratta quindi di un programma ampio e articolato che implica, oltre all’allestimento del museo, la relazione tra l’edificio e la città, i servizi di accoglienza al pubblico e le forme adeguate di fruizione globale. Nel complesso i punti caratterizzanti il progetto sono: 1. il miglioramento dell’accoglienza, 2. l’organizzazione dei flussi interni,
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3. la risoluzione del difficile rapporto tra edificio contenitore e contenuto, inteso come insieme di area con reperti e reperti stessi, 4. la narrazione che intorno a questi si intende proporre ai visitatori. Il secondo lotto dei lavori riguarda dunque l’atrio di accoglienza, il completamento della «Rampa del tempo», la sala immersiva, la sala e il «tesoro» delle stele, la sezione dedicata alle Età del Bronzo e del Ferro, gli ambienti per la didattica, la zona di affaccio e relax, la zona per mostre temporanee, quindi le sezioni romane (insediamento e necropoli) e medievali.
Un totem per il logo del museo Il percorso che porta dall’ingresso al cuore del sito archeologico comincia dal nuovo atrio del Parco Archeologico, posto all’angolo tra via Mus e via Saint-Martin-de-Corléans, realizzato chiudendo l’attuale pensilina con pareti curve vetrate; sarà connotato da un elemento di comunicazione di forte impatto: un totem di grande altezza, su cui è riportato il logo del
Un’altra immagine della Tomba II, che evidenzia, sulla destra, una delle riutilizzazioni del monumento, nel quale, in varie epoche, furono realizzate nuove deposizioni.
museo. Il collegamento tra lo spazio di ingresso e l’area espositiva è dato da una passerella chiusa, che sfocia in uno spazio di accoglienza nel quale si trovano il guardaroba, attrezzato anche con i cesti per gli zaini delle scolaresche, il bookshop e i servizi igienici per il pubblico. Da qui si procede verso la rampa che scende verso il sito. Ideata per raccontare il palinsesto che il visitatore si trova di fronte quando entra nel grande ambiente principale, la sala immersiva è uno spazio cilindrico sulle cui pareti sono proiettate immagini in successione e riprese ravvicinate delle strutture rinvenute nell’area, corredate da brevissime didascalie richiamanti le fasi e le datazioni. Al termine della sezione dedicata alle prime fasi dell’area megalitica, si arriva al vasto spazio dedicato al «tesoro» del sito: le stele antropomorfe. Elementi fondanti della grande statuaria preistorica, i monoliti sono volutamente esposti quali preziose opere d’arte, con un’illuminazione generale bassa e
fonti di luce radente alle superfici, funzionali per enfatizzare i rilievi delle decorazioni, incise a leggero bassorilievo e raffiguranti complesse iconografie. Le stele nella grande sala sono riproposte secondo il loro ordine in due degli allineamenti rinvenuti nello scavo (NE-SO e N-S), posizionate su basi sagomate di rame che recano l’apparato didascalico, ma svolgono anche il ruolo di dissuasori. Uno «scrigno» di contenute dimensioni, separato dalla grande sala, racchiude i frammenti di sculture, non riconducibili al riposizionamento in fosse originali, che tuttavia, per la loro eccezionale qualità stilistica e tecnica, sono esposti in posizione privilegiata, sotto una luce che ne enfatizza la bellezza.
La sezione protostorica Il passaggio epocale culturale, economico e sociale dalla fine dell’Età del Bronzo alla fase piú recente dell’Età del Ferro, è raccontato nell’arioso ambiente posto a chiusura del percorso sul megalitismo, attraverso immagini
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Sulle due pagine la ricostruzione di uno dei pozzi rinvenuti nel corso dello scavo e anch’essi allineati (vedi foto alla pagina accanto). È stato ipotizzato che alloggiassero grossi pali lignei interpretabili come prima versione delle stele antropomorfe poi scolpite nella pietra. Che anche queste strutture avessero un significato rituale è suggerito anche dal ritrovamento, sul fondo (come si vede nella foto a sinistra) di macine, macinelli e semi, anche di cereali.
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della trasformazione del sito da luogo cerimoniale e rituale a territorio funzionale agricolo. Ispirati alle denominazioni delle due diverse epoche, i materiali scelti per i rivestimenti delle pareti nello spazio illuminato da grandi vetrate, sono lastre metalliche di bronzo e ferro. Le vetrine contenenti i limitati ritrovamenti sono bilanciate dall’apparato didattico ed esplicativo, dotato di un importante impianto iconografico, realizzato con pannelli retroilluminati e schermi. Per quanto riguarda l’Età del Bronzo, momento in cui il sito è caratterizzato in prevalenza da campi agricoli, anziché da sepolture che trovano invece posto in areali diversi, ma contigui, vengono esposti i corredi di due tombe a inumazione. La vocazione funeraria dell’area torna preponderante durante il I millennio a.C., con pratiche rituali diverse: si trovano infatti sepolture a inumazione, con ricchi corredi, ma anche tombe monumentali. Nella parte dedicata all’Età del Ferro, infatti, viene esposto un corredo composto da elementi in bronzo (torques, bracciale e fibula), relativi a una sepoltura databile a un periodo compreso tra il 325 e il 250 a.C. circa. Dalla tribuna lignea che ripartisce la sala in spazi distinguibili cronologicamente, si accede alla vista del tumulo della prima Età del Ferro, rinnovando cosí l’impostazione museologica e museografica di dialogo diretto tra museo e vestigia in situ.
Gli ambienti per la didattica Nel progetto museografico si è tenuto conto della necessità di disporre di spazi autonomi destinati a laboratori didattici, prevedendo un ampio ambiente illuminato principalmente dalla luce naturale. Il locale, dotato di impianti, anche idraulici, per usi funzionali alle attività laboratoriali e di un vano richiudibile per riporre le attrezzature, è accessibile indipendentemente dal circuito del percorso museale e non interferisce con la presenza di altri visitatori. Salendo al piano superiore lungo la rampa che attraversa l’area del tumulo a nord-ovest, si
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giunge a un bivio: da una parte l’esposizione (che sale lungo una scala diretta all’ultimo piano), dall’altra una sala dove il museo è «sospeso» e lascia il posto al riposo e alla riflessione, l’area relax. Siamo in una «scatola» rivestita interamente di legno, che prosegue a sbalzo sul sito come un cannocchiale. Sul soffitto, una miriade di luci calde illumina lo spazio. Poltrone, distributori di bevande e libri invitano a riposare leggendo oppure a discorrere davanti a un caffè. È uno spazio caldo e accogliente, che può essere trasformato in un ambiente adatto a organizzare rinfreschi, in occasione di inaugurazioni o altri eventi. Uscendo dall’area relax si arriva alla sala destinata all’allestimento di mostre temporanee, nella parte finale della grande balconata affacciata sulle strutture megalitiche. Di questa si può sinteticamente dire che, per mantenere libertà e agilità d’uso, è attrezzata con binari elettrificati a soffitto, pannelli fonoassorbenti lungo i pilastri e panche verso la balconata.
La sezione romana Salendo all’ultimo piano il visitatore entra nella sezione dedicata all’epoca romana per la quale il sito di Saint-Martin-de-Corléans ha restituito numerosi reperti di eccezionale importanza. Il percorso narrativo inizia con il processo di romanizzazione del territorio, che ha avuto come strumento fondamentale la costruzione della Strada delle Gallie, che il visitatore può idealmente percorrere, perché riprodotta a terra in scala ridotta, sia «al tratto» con serigrafie di disegni, sia con modelli tridimensionali incassati tra i moduli della pavimentazione in ferro nero. Il primo di questi è il ponte di Pont-Saint-Martin, una delle tante testimonianze di opere architettoniche ardite, gettate sui torrenti impetuosi della Valle; piú avanti, collegata al ponte attraverso la serigrafia a pavimento della strada, c’è la riproduzione della colonia di Augusta Prætoria. Superata la città, si arriva all’insediamento di Saint-Martin-de-Corléans cosí come si
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La sala che accoglie parte delle oltre 40 stele antropomorfe rinvenute nel corso degli scavi.
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presentava in epoca augustea, composto da un edificio rustico intorno a cui gravitavano diversi nuclei di sepolture. Qui inizia la prima parte del nuovo allestimento, che comprende due sezioni diverse, per contenuti e forme, quella della quotidianità e quella dei rituali funerari.
L’insediamento I reperti che raccontano la vita quotidiana degli antichi Romani che abitavano a SaintMartin-de-Corléans vengono esposti nella prima sala: uno spazio rivolto a nord caratterizzato da una lunga vetrata affacciata sull’area dove sono affiorate le strutture murarie dell’edificio. La sala è stata destinata
al racconto della vita quotidiana proprio perché inondata di luce naturale; altra cosa è il racconto nello spazio successivo (quello relativo alle sepolture), dove l’atmosfera chiaroscurale è controllata da luce artificiale. Continuando la pratica, già felicemente sperimentata nel Museo, di utilizzare la superficie del pavimento come piano significante, si riproducono a terra i limiti delle strutture murarie, che rendono facilmente leggibile la planimetria dell’edificio. Vetrine basse raccolgono poi l’esposizione dei numerosi frammenti di materiali rinvenuti: tavoli tematici (composti da vetrina, cassonetto retroilluminato e monitor), La Stele 3 sud, uno dei monoliti aostani piú spettacolari. La testa è del tipo detto «a cappello di gendarme» e presenta soltanto sopracciglia e naso, mentre sono assenti gli occhi e la bocca. Dalle spalle scende una decorazione a semicerchio che mostra nella parte superiore una collana a piú fili, con un ornamento a «V» al centro, e, nella parte inferiore, fasce di triangoli. Ancora al di sotto si riconoscono le braccia, che si piegano ad angolo retto sul ventre, e le mani, dalle dita sottilissime. Vi sono poi una cintura, chiusa al centro da quella che sembra essere una placca decorata e una nuova successione di fasce campite da triangoli uguali.
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La sezione introduttiva del museo, con la galleria del tempo articolata in immagini e oggetti tipici dei diversi periodi.
illustrano la vita quotidiana attraverso le tecniche, gli oggetti e il loro uso nella vita di tutti i giorni. Grande importanza rivestono poi gli accumuli di frammenti di anfore, usati come drenaggio di porzioni di terreno acquitrinoso nei pressi dell’edificio.
La necropoli Lasciata la sezione dedicata all’insediamento, si entra in quella che ospita alcuni tra i piú bei corredi funerari di epoca romana rinvenuti ad Aosta e le ricostruzione dei diversi rituali funerari, attraverso un passaggio stretto che raffigura graficamente un corteo funebre; si percorre un cammino obbligato delimitato ai lati dalle sepolture, riproducendo cosí uno scorcio di strada, lungo la quale i Romani erano soliti costruire le tombe. Qui regna la penombra in contrapposizione alla luce solare dello spazio precedente. Seguendo un filo logico legato ai diversi rituali funerari tipici del mondo romano (la cremazione indiretta, la cremazione diretta e l’inumazione) vengono esposti i corredi di oltre 15 tombe, tra le piú ricche di Saint-Martin-deCorléans, caratterizzate da pratiche deposizionali particolari e oggetti rari e preziosi.
La sezione medievale Chiude l’allestimento del nuovo Museo di SaintMartin-de-Corléans la sezione dedicata all’epoca medievale, quando l’area, caratterizzata da campi coltivati, gravitava intorno alla chiesetta di San Martino, citata in una bolla papale già nel 1176. Fra gli oggetti, spiccano i reperti in pietra ollare, numerosi e particolari, utilizzati per la conservazione e la consumazione di cibi e bevande. Una parete dedicata all’esposizione delle monete rinvenute sul sito permette di immergersi nella storia plurimillenaria di Saint-Martin-de-Corléans, e di ricostruirla attraverso le diverse tappe e i momenti cronologici che ne hanno modificato aspetto, funzione e importanza. Al termine della sezione medievale, il visitatore viene quasi accompagnato verso l’uscita da un bellissimo scorcio sul campanile della chiesetta.
DOVE E QUANDO AREA MEGALITICA Aosta, corso Saint-Martin-de-Corléans 258 Info tel. 0165 552420; e-mail: beniculturali@regione.vda.it; www.lovevda.it
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GLI ITINERARI
UN PATRIMONIO DA SCOPRIRE LA VALLE D’AOSTA OFFRE UN VENTAGLIO DI ATTRAZIONI CULTURALI E PAESAGGISTICHE AMPLISSIMO. MOLTE DELLE QUALI POSSONO ESSERE APPREZZATE SFRUTTANDO I NUMEROSI ITINERARI ATTREZZATI PER IL TREKKING di Stella Vittoria Bertarione
V
alle d’Aosta: una regione non solo da scoprire, ma da «riscoprire»; una regione dove le bellezze naturalistiche, paesaggistiche e culturali si fondono in una suggestiva alchimia con l’uomo e la sua storia. Una regione di certo famosa per i suoi «4 Quattromila» e per le note località turistiche estive e invernali, cosí come per le sue strepitose Alte Vie. Ma Valle d’Aosta non significa solo «Alte Vie» o percorsi impegnativi riservati a sportivi allenati e agonisti di lungo corso. Il territorio, infatti, possiede una fitta rete di sentieri e percorsi capillarmente distribuiti tra la piana di fondovalle e i primi dolci rilievi della media montagna che ben si prestano allo slow trekking adatto a tutti: famiglie con bambini, senior, camminatori saltuari e non solo. Si tratta di percorsi dalle origini diversificate, alcuni dei quali storicamente attestati sin dall’antichità, quali la leggendaria Strada dei Salassi, creata dal popolo di origine celtica qui insediato sin da epoche protostoriche, la poderosa strada romana delle Gallie, che ha visto il successivo impostarsi del Cammino di San Martino di Tours e della piú nota Via Francigena. Nella Valle d’Aosta preromana esisteva una rete viaria primitiva, costituita da sentieri che,
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fin dalla Preistoria, permettevano i commerci e le relazioni culturali attraverso i valichi alpini. Ancora oggi sussiste, sulla collina che da Aosta si allunga fino a monte di Avise, un tracciato denominato Strada dei Salassi, che si snoda a una quota piú elevata di quella del successivo itinerario romano. Una strada decisamente articolata e impegnativa che sfida i dislivelli e i pendii con un susseguirsi di curve e tornanti alternati a sorprendenti allunghi affacciati su balconate mozzafiato circondati da boschi, rocce e vette innevate. Un tracciato amato in particolare dai bikers che la reputano una tra le piú spettacolari e panoramiche «strade da moto» delle Alpi. In numerosi punti di questo percorso ben si comprende quale fosse una delle capacità piú
La Via romana delle Gallie a Donnas. La strada, tagliata nella roccia a mezza costa, fu realizzata nel I sec. a.C..
spiccate dei Salassi, la loro vera «arma» con cui per quasi un secolo hanno saputo tener testa e dare filo da torcere ai Romani: la profonda conoscenza della montagna e l’abilità di muoversi agilmente anche in zone apparentemente inaccessibili, da dove potevano disporre di una vista straordinaria sul territorio circostante e sul fondovalle, senza però che altri riuscissero a scorgerli.
Grandi costruttori di strade A partire dalla metà del I secolo a.C. la progressiva romanizzazione delle terre cisalpine e l’espansione a nord della catena alpina favorirono l’interesse per i valichi. La Valle d’Aosta si presentava come una terra aspra e difficile, contraddistinta da montagne in
apparenza invalicabili. Una vera e propria sfida; ma se si voleva aprire definitivamente una via di collegamento rapida ed efficace verso le vicine terre galliche e germaniche, questa regione si rivelava senz’altro strategica. Oggi, a distanza di oltre 2000 anni, la Via romana delle Gallie è ancora in buona parte esistente: dallo spettacolare tratto di Donnas, fino ai ponti di Saint-Vincent, Châtillon e Aosta; dalle possenti sostruzioni ancora visibili a Introd, Arvier e Avise fino agli incredibili tagli nella roccia e alle mansiones oltre i 2000 m di quota. Un nastro di roccia che corre nel fondovalle centrale per poi biforcarsi in corrispondenza del capoluogo e dirigersi verso i valichi del Grande e del Piccolo San Bernardo, sfruttando e potenziando linee di transito di
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GLI ITINERARI
origine protostorica. Sul piano della circolazione internazionale, la valle della Dora si inseriva nei percorsi della rete delle vie imperiali, integrando l’asse nord-occidentale, in direzione di Lugdunum (Lione) e della Gallia centrale (attraverso, appunto, l’Alpis Graia) già attivo in età augustea, con la direttrice settentrionale del Gran San Bernardo (l’Alpis Pœnina) sistemata nel 47 d.C. per iniziativa dell’imperatore Claudio, collegamento verso l’insediamento di Octodurus, poi denominato Forum Claudii Vallensium (Martigny, in Svizzera), da dove
proseguiva per Aventicum (Avenches), capitale degli Elvezi, e la valle del Reno, alla volta di Mogontiacum (Magonza), in Germania. È il Gran San Bernardo un valico che collega, sin da epoche protostoriche, Valle d’Aosta e Vallese svizzero. Qui, in uno scenario di vette aguzze degne di una scenografia «fantasy», il padre degli dèi ci accoglie, non a caso, al Plan de Jupiter: il pianoro roccioso a 2437 m di quota, dove la Via delle Gallie attraversa l’estremo lembo d’Italia. La strada, faticosamente incisa nella roccia viva,
In basso mappa della regione valdostana con i percorsi descritti nel testo.
COLLE GRAN SAN BERNARDO
AOSTA
COLLE PICCOLO SAN BERNARDO
STRADA DEI SALASSI VIA DELLE GALLIE VIA SANCTI MARTINI VIA FRANCIGENA CAMMINO BALTEO
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A destra un tratto della Via Francigena presso Montjovet.
raggiunge una conca lambita da un lago, un tempo assai piú esteso di oggi, e dominata dalla statua di San Bernardo d’Aosta, protettore degli alpinisti. Proprio ai piedi della statua, se si osserva con molta attenzione, si noterà che la roccia presenta dei tagli geometrici e regolari: si tratta dell’impronta lasciata dalle fondamenta dell’antico tempio dedicato a Giove Pennino: in questo luogo, infatti, la principale divinità capitolina ha sposato un dio celtico, autoctono, figlio di queste cime, il dio Penn.
Una «terra di mezzo»
PONT SAINT-MARTIN
È questo un sito assai particolare: a quasi 2500 m di quota, un’archeologia fatta di minimi indizi e fragili testimonianze materiali in strenua lotta con una natura severa e col costante dilavamento, prova a suggerire, nei tagli e nel singolare colore rosato del terreno, l’antica presenza di due mansiones e un tempio eretto tra le cime innevate, in una «terra di mezzo» dove, ancora oggi, nonostante tutto, il mondo degli dèi e quello degli uomini possono ancora incontrarsi. Verso ovest, invece, la strada raggiunge il Piccolo San Bernardo, lí dove Italia e Francia si guardano, si toccano e si parlano. In antico veniva indicato come Alpis Graia, in omaggio al
Graium numen, al (semi)dio greco, Ercole che, secondo molti miti e credenze, da qui passò. Interessante ricordare un passo del Satyricon di Petronio che, stando a molti, si riferirebbe proprio a questo colle: «Alpibus aeriis, ubi Graio numine pulsae descendunt rupes et se patiuntur adiri, est locus Herculeis aris sacer: hunc niue dura claudit hiemps canoque ad sidera uertice tollit. Caelum illinc cecidisse putes: non solis adulti mansuescit radiis, non uerni temporis aura, sed glacie concreta rigent hiemisque pruinis: totum ferre potest umeris minitantibus orbem» (Petr., Satyricon, 122). È bello tradurre questi versi per assaporarne l’intensa, palpabile, poesia: «Là, sulle Alpi vicine al cielo dove, spinte da una divinità greca, le rocce si abbassano tollerando di lasciarsi avvicinare, si trova un luogo sacro agli altari di Ercole: qui l’inverno chiude i luoghi con una dura coltre di neve e solleva il capo candido verso le stelle. Potresti pensare che il cielo sia attaccato a quelle cime: né il sole, nel pieno delle sue forze, né le brezze di primavera possono addolcire questo clima rigido, ma ogni cosa è indurita dal ghiaccio e dai rigori invernali: (sembra che) l’intera volta celeste possa essere sorretta sulle spalle di queste vette minacciose».
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GLI ITINERARI
È quel limes, ossia quell’invisibile ma presidiata linea di confine voluta dalle legioni romane che qui, a 2188 m di quota, dal I secolo a.C. si sono insediate costruendo due mansiones e un fanum, ossia un tempio a pianta centrale con corridoio perimetrale. Ospitalità e sacralità: caratteristiche da sempre abbinate nei valichi lungo percorsi di particolare risalto. La presenza della direttrice stradale delle Gallie influí sull’assetto insediativo del territorio valdostano, che risulta prevalentemente organizzato lungo questo asse viario; sull’antico tracciato, infatti, si trovavano i principali centri di fondovalle e le infrastrutture deputate a specifiche funzioni itinerarie: le mutationes – stazioni per il cambio delle bestie da soma – e le mansiones, edifici attrezzati per la sosta prolungata e il ricovero di uomini e animali. In alcuni punti della strada, particolarmente difficili da percorrere a causa della morfologia territoriale della valle, emerge la notevole perizia costruttiva da parte dei tecnici romani che, tenendo opportunamente conto delle caratteristiche geo-ambientali, ha consentito la sopravvivenza e l’utilizzo del tracciato stradale fino al XVIII-XIX secolo.
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Erede della Via delle Gallie, la Via Francigena descritta dall’Itinerario di Sigerico, ovvero il diario delle 79 tappe del viaggio intrapreso nel 990-994 dall’arcivescovo di Canterbury, trova la sua porta d’ingresso in Italia sul colle del Gran San Bernardo, a 2475 m. Passando tra pascoli e villaggi per poi scendere nel fondovalle sfiorando torri e castelli fino ai vigneti di confine col Canavese, la Francigena si snoda in un suggestivo paesaggio alpino denso di storia e sacralità.
Sulle orme dei pellegrini In epoca medievale un’importante via, utilizzata dai mercanti diretti alle principali città commerciali della Pianura Padana e ai centri mercantili d’Oltralpe, nonché dai pellegrini diretti a Roma e in Terra Santa, prese il nome di Via Francigena, cioè via di collegamento tra il Mediterraneo e il paese dei «Franchi». La Francigena attraversava, quindi, la Valle d’Aosta scendendo lungo il torrente Artanavaz e poi lungo il fondovalle della Dora Baltea. I vincoli orografici di questa regione sono cosí forti che tutta la viabilità storica (dalla strada romana delle Gallie, al tracciato medievale,
Un tratto della strada romana che corre sul Colle del Gran San Bernardo.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
alle varianti del Settecento e dell’Ottocento) è stata per la massima parte ricalcata dalla Strada Statale n. 26 che tuttora percorre il fondovalle valdostano.
L’«Apostolo delle Gallie» La Valle d’Aosta, strategico crocevia tra mondo nordico e Mediterraneo, è altresí attraversata da un altro importante Itinerario culturale d’Europa: il Cammino di San Martino di Tours, il primo a unire l’Europa dell’Est all’Europa dell’Ovest, da Szombathely in Ungheria (dove l’«Apostolo delle Gallie» nacque nel 316 d.C.) a Candes-Saint-Martin in Touraine (dove morí nel 397), attraverso Ungheria, Croazia, Slovenia, Italia e Francia. Questo lungo percorso sulle tracce di San Martino, indicato come «Santo della condivisione» in virtú del noto taglio del mantello, ben rappresenta i valori del dialogo interculturale. Il tratto valdostano della Via Sancti Martini attraversa l’intera regione dall’antico ponte romano di Pont-Saint-Martin fino al valico del Piccolo San Bernardo, passando per la strategica colonia di Augusta Prætoria, nel solco della Via delle Gallie. A Pont-Saint-Martin la strada romana e il culto di San Martino di Tours si fondono in una località ricca di significato. Qui ancora oggi la figura di San Martino è assolutamente viva nei cuori della gente dato che ogni anno viene ricordata durante il Carnevale con la rievocazione del fatidico scontro tra il santo e il diavolo. La leggenda narra, infatti, che il poderoso ponte in pietra di Pont-Saint-Martin fosse appena stato ultimato quando il suo artefice, Satana, pretese di essere ricompensato. Fino a quel momento solo una traballante passerella in legno univa le due sponde dell’impetuoso torrente Lys, il cui transito si rivelava sempre pericoloso, ancor di piú quando il corso d’acqua era gonfio per le troppe piogge o per lo scioglimento delle nevi. Ma la popolazione aveva bisogno di passare. Mercanti, contadini, pellegrini, soldati; in tanti dovevano superare l’imprevedibile Lys, e quella instabile passerella spesso mieteva vittime innocenti. Approfittando di questo bisogno, il
Maligno si insinuò nella comunità e accontentò la popolazione costruendo, nell’arco di una notte, un ponte meraviglioso: alto, solido, possente. Un ponte che sicuramente avrebbe saputo contrastare le onde di piena del Lys. Ma in cambio chiese una ricompensa importante: un’anima. Almeno una. E sarà di colui che per primo passerà sul «suo» bellissimo ponte. Il Maligno, protagonista del Carnevale di Pont-SaintMartin, minacciava, ricattava e teneva in scacco la popolazione atterrita. Tuttavia, non aveva fatto i conti con San Martino, del quale conosciamo vita e opere soprattutto grazie alla sua biografia redatta da Sulpicio Severo: la Vita Martini, scritta negli anni finali del IV secolo d.C. L’aiuto di Martino si rivelò fondamentale. Fu lui a far passare, per primo, sul ponte, un cagnolino; e quindi fu l’anima della bestiola a essere «sacrificata» per salvare la gente del posto. Insomma: storia, fede e leggenda si mescolano perfettamente nel Carnevale di Pont-Saint-Martin, dove la Via Sancti Martini si fonde con la Via delle Gallie e con quella che diventerà la Via Francigena.
Il passaggio per Aosta Dal capoluogo regionale il Cammino di San Martino prosegue innestandosi sulla «bretella» di Via delle Gallie diretta al colle del Piccolo San Bernardo. Di conseguenza, una volta entrati in città dopo aver superato il ponte romano noto come «Ponte di Pietra», l’Arco onorario dedicato a Ottaviano Augusto e l’imponente Porta Prætoria, si prosegue in linea retta sull’antico Decumanus Maximus fino a uscire dalle mura lí dove un tempo sorgeva la Porta Decumana, i cui resti oggi sono visibili nel seminterrato della Biblioteca Regionale di Aosta. Da qui raggiunge l’attuale quartiere di Saint-Martin-de-Corléans, dove sorge l’omonima parrocchia e dove si incontra l’affascinante Area megalitica, unico e prezioso scrigno di testimonianze archeologiche risalenti fino all’epoca neolitica (per la precisione fino alla fine del V millennio a.C.). Lasciata Aosta, il pellegrino viene invitato a
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GLI ITINERARI
spostarsi in destra orografica, al fine di poter camminare in un contesto paesaggistico piú integro, al riparo dall’intenso traffico veicolare, dove probabilmente si sviluppava già una viabilità romana secondaria, ma funzionale agli insediamenti rurali e alle diverse attività produttive della zona. Un cammino di fede dalla storia bimillenaria che conduce alla scoperta delle tante tracce, piú o meno evidenti, e delle interessanti sfaccettature del culto martiniano in questa piccola ma cruciale terra alpina di confine. Una trama di itinerari, dunque, che, messi a sistema tra loro, consentono di scoprire zone ancora poco note sebbene profondamente caratteristiche della storia, della quotidianità oltre che delle piú autentiche e secolari tradizioni locali. Ed è stato per valorizzarli che, nel 2019, è stato inaugurato il Cammino Balteo, un grande itinerario nato per dare concretezza a un «camminare lento» non solo attento al territorio e al suo ricco e diversificato patrimonio, ma importante
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perché rivolto a un ampio target di utenti e, per questo motivo, realmente capace di «aprire» la montagna a tutti, a chiunque abbia voglia di scoprirla a partire dal proprio personale approccio in termini di spirito, di gusti e di preparazione fisica.
A ciascuno il suo percorso Un anello di mezza costa che percorre l’intero fondovalle centrale con alcune «incursioni» nelle vallate laterali per un totale di 350 km suddivisi in 23 tappe, ognuna delle quali «personalizzabile» in base alla lunghezza, al dislivello, alle attrattive dislocate lungo il tracciato in modo da soddisfare le esigenze e le preferenze di ogni camminatore. Percorrere il Cammino Balteo significa apprezzare la fascia di media quota, fatta di soleggiati terrazzi affacciati sul fondovalle, di arditi vigneti arrampicati sulle rocce, di villaggi dalla lunga storia e dalle solide tradizioni; è la regione dei castelli, delle caseforti, delle torri,
In basso, a sinistra «pellegrini» moderni percorrono la Via Francigena nei pressi di Montjovet. Sulle due pagine il ponte che dà nome al villaggio di Pont-Saint-Martin e che, secondo la leggenda, sarebbe divenuto percorribile grazie al miracoloso intervento di San Martino di Tours ai danni di Satana.
delle cappelle. E, scendendo progressivamente di quota fino al fondovalle principale, i sentieri e le mulattiere arriveranno a intrecciarsi con i tracciati millenari della strada romana delle Gallie e della Via Francigena. Si tratta in buona sostanza di un approccio piú consapevole al territorio che abbina la classica camminata a una spiccata voglia di conoscenza, di approfondimento; un «camminare curiosando» tra le pieghe meno appariscenti della nostra regione. Castelli, caseforti, torri isolate. Siti archeologici, musei, chiese, cappelle affrescate. Villaggi, antichi fontanili, forni comunitari e latterie turnarie. Riserve naturalistiche, aree protette, luoghi di una natura tanto affascinante e insolita, quanto delicata e fragile. Luoghi dove
passare quasi «in punta di piedi» ma che sapranno suscitare emozioni e lasciare ricordi indelebili. Questo è il «Cammino Balteo». Un anello che permetterà di percorrere tutto il fondovalle da Pont-Saint-Martin fino a Morgex, sia sull’adret che all’envers e che, contemporaneamente, consentirà di «saggiare» le diverse vallate laterali. Un nuovo itinerario, dunque, che consente di mantenersi in media quota, immersi in un paesaggio in cui l’aspetto prettamente naturalistico si fonde con le tracce e le testimonianze lasciate dall’uomo nel corso dei secoli: siti archeologici, beni architettonici, storico-artistici ed etno-antropologici accompagneranno la progressiva scoperta dei luoghi «meno comuni» della Valle d’Aosta.
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MONOGRAFIE
n. 39 ottobre/novembre 2020 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Alessandra Armirotti, archeologa, è istruttore tecnico della Soprintendenza per i beni e le attività culturali. Margherita Bert è architetto museografo. Stella Vittoria Bertarione, archeologa, è istruttore tecnico della Soprintendenza per i beni e le attività culturali. Maria Cristina Fazari, storica, è rilevatore archeologico della Soprintendenza per i beni e le attività culturali. Luca Raiteri, archeologo, è tecnico della Soprintendenza per i beni e le attività culturali. Gabriele Sartorio, archeologo, è istruttore tecnico della Soprintendenza per i beni e le attività culturali. Massimo Venegoni è architetto museografo. Gianfranco Zidda, archeologo, è istruttore tecnico della Soprintendenza per i beni e le attività culturali. Illustrazioni e immagini: Enrico Romanzi: copertina e pp. 6-11, 12/13, 18/19, 28-33, 37, 38-41, 44-51, 54-63, 70-75, 106 (basso), 108/109, 110-123, 128/129 – Franco Gianotti: p. 15 – Marco Gabbin: pp. 16/17 – M. Cutrona: disegno alle pp. 20/21 – Cooperativa Archeologica Le Orme dell’Uomo: rilievi alle pp. 22, 24, 25 – P. Gabriele: pp. 22 (basso), 36 – A. Arcà: pp. 22/23, 24, 25 – D. Marquet: p. 26 – Cortesia Luca Raiteri: pp. 26/27, 27 – Archivi beni archeologici Regione Autonoma Valle d’Aosta: pp. 34, 52/53, 65, 88/89, 93 (alto, a sinistra), 94-101, 102 (basso), 103 – Assessorato istruzione e cultura Regione Autonoma Valle d’Aosta: pp. 66-69 – Archivi Regione Autonoma Valle d’Aosta: pp. 79 (basso), 80 (alto), 81 (basso), 106 (alto); Gabriele Sartorio: pp. 76, 82; P. Gabriele: pp. 77 (alto), 104/105, 106/107, 109; elaborazione G. Abrardi: pp. 77 (basso), 83 (alto); elaborazione ad Hoc 3D Solutions S.r.l.: pp. 78, 85 (basso); S.E. Zanelli: pp. 79 (alto), 84; elaborazione G. Abrardi, M.C. Fazari, S.P. Pinacoli: p. 80 (basso); elaborazione M. Cortelazzo: p. 83 (basso); Studio Arsenale: p. 85 (alto); M. Cortelazzo: p. 86; D. Cesare: p. 87 – da: Cadran Solaire: Archivi RAVA e INVA S.p.a.: pp. 76 (riquadro), 81 (alto) – da: Mochet, Porfil [sec. XVII], Aoste 1968: p. 90 – da: De Tillier, Historique [1737], ed. 1966 a cura di A. Zanotto: p. 91 – da: É. Aubert, La Vallée d’Aoste, Paris 1860: pp. 92, 93 (centro e basso) – Maria Cristina Fazari: p. 102 (alto) – Palmira Orsières: pp. 125, 126/127, 128 – Laura Caserta: cartine alle pp. 12/13, 42/43, 124/125. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: i resti del teatro romano di Aosta, che conserva parte della facciata monumentale.
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