Archeo Monografie n. 41, Febbraio/Marzo 2021

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LA BELLEZZA nel mondo antico di Eugenio De Carlo e Massimo Vidale, con un contributo di Sergio Pernigotti

6. Introduzione

Arbitrio, bellezza e cultura 16. Preistoria

Comunicare col volto 30. Egitto

Colori nell’oscurità 62. Nefertiti

Colei che viene nella bellezza 78. Vicino Oriente

«Ginocchia succose come mele» 102. Grecia

e

Roma

Quell’ossessione subdola e magnifica


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ECOLOGIA

ARBITRIO, BELLEZZA E CULTURA

«L

a sete di bellezza è condivisa da ogni popolo. È un fenomeno universale, che si ritrova in ogni luogo e in ogni tempo. Per la civiltà occidentale, gli aspetti della bellezza, come si materializzarono nel mondo dell’antica Grecia, rappresentano conquiste estetiche con le quali l’umanità si è confrontata nel corso dei secoli, fino a oggi. Dall’età preistorica, dai mondi cicladici, minoici e micenei all’espressione dell’ideale classico, ma anche con i suoi riflessi sull’arte e il senso del bello che a Occidente emersero per la prima volta nel pensiero di Platone e Aristotele, l’antichità greca crea forme ideali, modelli e regole di eccellenza estetica nelle arti visuali, nell’architettura e nella letteratura...». Stiamo citando le parole di un viceministro che cosí ha introdotto, nel 2018, una importante mostra organizzata al Museo Archeologico Nazionale di Atene, intitolata «Gli infiniti aspetti della bellezza». Attenzione, però: possono sembrare parole gratificanti e, a prima vista, non contestabili; ma se ci fermiamo a riflettere, dubbi e domande non mancheranno. In primis, non sarà per caso, questa, una visione un po’ etnocentrica? L’esperienza estetica dell’arte classica si è evoluta in modo cosí lineare, e ha avuto davvero un valore tanto universale? Nel viaggio che stiamo per intraprendere, cominceremo col discostarci dai dettami dell’estetica del mondo classico (e, se vogliamo, dai preconcetti che tali dettami hanno instillato nella cultura occidentale)

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Nascita di Venere, tempera su tela di lino di Sandro Botticelli. 1484-1485. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il dipinto è considerato il riassunto e la massima espressione dei canoni di bellezza femminile del Rinascimento, a loro volta fortemente influenzati dall’arte classica.

La centuriazione

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ECOLOGIA

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Nella pagina accanto ritratto della Regina Elisabetta I, olio su tavola di Nicholas Hilliard. 1575 circa. Liverpool, Walker Art Gallery. Pittore e orafo di corte, Hilliard trasfigura l’idea di bellezza nella barocca preziosità di vesti e gioielli, e nell’astrazione di un volto reso impassibile dalla cosmesi. In basso ritratto di donna nei panni di Venere, piú noto come Fornarina, olio su tavola di Raffaello. 1519-1520. Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, Barberini.

per fare un salutare bagno di relativismo. Tratteremo a lungo delle forme del corpo umano (femminile) nella preistoria, nell’antico Egitto (ambito in cui un’affascinante documentazione iconografica e testuale è davvero sovrabbondante) e in Mesopotamia. Tra bellezza «naturale», e bellezza «costruita», parleremo a lungo della piú antica industria dei cosmetici, citando recenti ricerche che ci porteranno alle radici del mondo iranico, per poi tornare verso le sponde del Mediterraneo, da dove guarderemo

La centuriazione

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all’esperienza estetica del mondo greco-romano con occhi nuovi. E – altre domande, altrettanto importanti – i canoni della bellezza vigenti in un gruppo umano sono oggettivi o soggettivi? Lo stesso concetto o, se vogliamo, archetipo di bellezza è almeno in parte istintivo e congenito nella nostra specie, o dipende piuttosto da effimeri e in apparenza irrazionali dettami culturali? Rispetto all’ultima domanda, qualsiasi studioso o studiosa di archeologia e antropologia, maschio

«La bellezza piú emozionante è quella piú effimera... La meno “edificante” bellezza del viso e del corpo rimane il luogo piú comunemente visitato del meraviglioso» o femmina, qualsiasi storico del costume non avranno alcuna esitazione nel puntare l’indice sulla seconda versione. Iniziamo con un ABC: Arbitrio, Bellezza e Cultura. Da quando Botticelli e soprattutto Raffaello, sullo sfondo del recupero dei canoni dell’arte classica, promossero nei loro dipinti l’idealizzazione assoluta della bellezza femminile (tratti soffici e arrotondati, volti pallidi con guance debolmente arrossate, labbra sottili ma ben distinte, sopracciglia regolari, a volte quasi invisibili), la rappresentazione femminile sembra

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ECOLOGIA

aver evitato con cura ogni tratto di realismo, per esprimere da un lato le fantasie maschili dei pittori, dall’altro la virtuosistica abilità e le potenzialità dell’artista. Persino la celebre Fornarina, olio su tavola dipinto intorno al 1520, al centro di mille dibattiti e leggende, secondo molti non sarebbe il ritratto di una vera modella, bensí l’immagine di una carnale Venere terrena, saldamente ancorata a dimensioni di sensualità che non potevano pienamente trasparire nei soggetti sacri che arricchivano il famoso pittore. Da allora, l’ideale di bellezza femminile ha subito piú trasformazioni, e vere e proprie drammatiche giravolte, del turbinio dei sistemi filosofici. All’Inghilterra di Elisabetta I Tudor (1533 -1603) appartiene la creazione quasi inumana di un make up plumbeo, bianco e statuario, perfettamente adattato alle esigenze della ragion di Stato che la regina interpretò. Nelle iconografie di Elisabetta, piú nulla restava del corpo femminile, interamente paludato nelle geometrie di vesti rigide e rigonfie, trapunte di perline. Nel secolo successivo, il make up bianco totalmente coprente, che oggi indossano solo i pagliacci, rimase un’esclusiva distinzione aristocratica, mentre il corpo della donna veniva stretto in vita per schiacciare il seno verso l’alto, con generose scollature, a partire da gonne ancora rigonfie e trapuntate in modo davvero abnorme. A «eroina» o donna simbolo di questa fase, se vogliamo, possiamo prendere Maria Antonietta D’Asburgo-Lorena (1755-1793). Le stesse casate aristocratiche decoravano i propri ambienti con

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«Che la bellezza si applichi ad alcune cose, e non ad altre, che essa fosse un principio di discriminazione, una volta era la sua forza, come il suo fascino. La bellezza apparteneva alla famiglia delle nozioni che stabilivano ordini di rango, e ben si accordava con un impudente ordine sociale, attraverso lo status, la classe, la gerarchia e il diritto di escludere gli altri»


«La teoria migliore della bellezza è la sua storia. Ripensare la storia della bellezza significa concentrarsi La centuriazione sulla sua t volupta quundis velestiatem andi sam, con re dislocazione dollupiti rem comnihic tem andame soluptame maniperuptibus, di dipsam nelle nessim inimusa qui diaerum faccum eicias et explistium solorum faccusd specifiche andempe raeceris susciis ex et lab inctenis cusape eum sitasit comunità» errovit ommod quid molore voluptium,

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que aut verum simped quias es aut lanti con conet aliquas estrum ercimus rest, sim asperci alignimagnis ea volorias que natum nos dolorep In alto Maria Antonietta in abiti Solupidebis pitture di volore spazi illimitati – vedute eriatemperci numqui occabo. di corte, olio su tela disuntcampestri e allegorie nebulose – coratio officia volore vendae ex esed quunto il Élisabeth-Louise Vigée Le Brun. imust ad enihil maionseque doloritem hitamdavolore popolate donne nude, i cui corpi 1178. Innsbruck, Castello ea nim enturer rovitis vitiam,disuntur? amplificavano i dettami del Ambras. La regina è acconciata To dolupta platemp orepratis voluptae dolo excerfe in modo quasi «architettonico». classicismo (pelle chiara, capelli risqui dolorro rporaeperem quam quam, tet es que A questa famosa pittrice, bruno-dorati, grandi occhi bruni, qui sed qui delit dolestore cullitiumet quunt quos fervente monarchica, è fossette, labbra carnose e petto et erspereptat etusandes re maio. Nemquis suntint attribuita la frase: «Allora abbondante). Ma maturavano tempi ad quae remolor simus, sus resti inime preius regnavano le donne. La ben venda diversi: con la Rivoluzione iderorerchil ipiti cullores et aut vera rivoluzione le ha detronizzate». Francese, il trucco facciale e le vesti corerias qui ipsanihit que vendes aligenis dolupta Nella pagina accanto La regina volupicVittoria, itendi alia quaest, volenim cus dis barocche decaddero (come la testa olio su tela della essumquis exeratu riosandae re sequas doluptas cerchia di Franz Xaver della regina...), in quanto simboli volecabWinterhalter. ipsum aboris id ut perovit auda andanti esistenziale e della 1843 circa. dell’artificialità nctur? Washington, National Art Gallery.

disuguaglianza del vecchio regime. Nel trionfo borghese dell’era

vittoriana (1830-1900 circa), abolite le inquietanti nudità, alla donna fu prescritta l’assoluta modestia dei vestiti, e, nella vita strettamente domestica a lei riservata, la bellezza ideale della donna per bene virò in bianco e nero: pelle pallida, schiarita con agenti pericolosi come piombo, arsenico, mercurio, e visi esangui; mentre, al contrario, la cosmesi piú colorata identificava tout court le prostitute. Dagli inizi del XX secolo in poi, iniziarono a farla da padroni i nuovi mezzi di comunicazione di massa (stampa, litografia e

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ECOLOGIA

fotografia), che fornirono alle case di moda strategie perfette per insinuare, casa per casa, nuovi, mutevoli dettami estetici alle donne. La necessità del pallore fu nuovamente prorogata. I capelli andavano raccolti in cima alla testa in abbondanti acconciature mentre il seno doveva tornare a spingersi e mostrarsi verso l’alto. Strisciando nell’immaginario collettivo, si stava già affermando l’ossessione per il peso corporeo, di cui siamo tuttora vittime. Tra gli anni Venti e Trenta, la donna dovette conformarsi a un modello androgino, con seno piccolo, gambe sottili da agitare freneticamente al ballo e corte capigliature a caschetto. Ma durò poco: con la crisi del 1929, e con i tempi di fame, di ristrettezze e, soprattutto, con i brutali razionamenti degli anni del secondo conflitto mondiale, la magrezza conobbe temporanee eclissi. L’idea della bella donna tornò a orientarsi verso le curve di corpi «a clessidra», magari magri, ma con seno esuberante, e volti nuovamente «laccati» da pesanti preparazioni cosmetiche e dall’estrazione dolorosa delle sopracciglia. Tutto ciò portò, dopo la guerra, alla bellezza di Marylin Monroe (1926-1962), che oggi, forse, non sarebbe piú tanto apprezzata. E da essa ci separano sessant’anni di nuove trasformazioni: passando per la nuova androginia di Lesley Hornby (piú nota al mondo come Twiggy, ossia «ramoscello»), le sue minigonne, e la bambola Barbie a lei ispirata; per le donne naturiste, ribelli e orientaleggianti, prive di trucco del movimento hippie; per le modelle tall, tan and thin (alte, abbronzate, filiformi) degli anni Ottanta, e quelle

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La centuriazione

«Si assume spesso che la bellezza sia, quasi tautologicamente, una categoria “estetica”, il che la pone, secondo molti, in rotta di collisione con l’etico. Ma la bellezza, anche quella in modalità amorale, non è mai nuda. E l’attribuzione della bellezza è sempre, almeno in parte, contaminata da valori morali»

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Hearts are Trumps (I cuori vincono), olio su tela di John Everett Millais. 1872. Londra, Tate Britain. Il dipinto venne commissionato all’artista dallo scrittore e collezionista Walter Armstrong e ne mostra le figlie, Elizabeth, Diana e Mary, intente a giocare a carte. Al di là dell’apparente banalità del soggetto, è sospeso un mistero esistenziale: le ragazze si contendono, infatti, l’ordine con cui si sposeranno.

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ECOLOGIA

«La bellezza può illustrare un ideale; una perfezione. Oppure, a causa della sua identificazione con le donne (piú precisamente, con la Donna), da essa può scaturire la consueta ambiguità che proviene dall’atavico deprezzamento del femminile. Gran parte della denigrazione della bellezza deve essere compresa come risultato delle classificazioni di genere» degli anni Novanta, che trapassarono ampiamente i drammatici confini dell’anoressia. Proviamo a ripassare tutto ciò, come in un nastro riavvolto e fatto velocemente trascorrere. Vedremo la donna gonfiarsi, restringersi, alzarsi e abbassarsi, i fianchi e i seni esplodere e comprimersi a piú riprese, in un parossismo di mutazioni davvero

imbarazzante per la libertà e gli ideali di rispetto della persona. Ciò avvenne in misura molto meno sensibile per tutto quanto riguardava la figura e la bellezza maschile. Evidentemente queste ultime erano intimamente legate alle sfere dell’autorità e del potere, la cui essenza, almeno dall’antica età del Bronzo, non sembra aver subito trasformazioni altrettanto radicali. Oggi, nella dilagante paura della globalizzazione, persino l’elitario mondo dell’alta moda sembra sforzarsi di accentuare, nella corporeità e nella bellezza femminile, le differenze etniche e le particolarità culturali, e – nell’affannosa ricerca di nuove fette di mercato – presta, per la prima volta, attenzione anche a modelli corporei ben lontani dalle millenarie preferenze sessuali e sessiste del passato. Ma quanto dureranno questi «buoni propositi»? Le citazioni riportate in queste pagine sono tratte dal saggio di Susan Sontag An argument about beauty, pubblicato in Dædalus. Journal of the American Academy of Arts & Sciences, autunno 2002.

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A sinistra Marylin Monroe (1926-1962) nel film La tua Bocca Brucia (Don’t bother to knock) diretto da Roy Ward Baker e distribuito nel 1952. Nella pagina accanto modelle dell’era del charleston, tra gli anni Venti e Trenta; a quel tempo un ideale femminile essenzialmente androgino e adolescenziale si combinava con la moda di uno dei balli piú scatenati dell’epoca moderna.


La centuriazione

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PREISTORIA

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COMUNICARE COL VOLTO SE È IL VISO AD ESPRIMERE ATTRAZIONE, GRAZIE A POTENZIALITÀ ANATOMICHE ARCHETIPALI E UNIVERSALI, COME INTERPRETARE LA «BELLEZZA SENZA VOLTO» DELLE CENTINAIA DI STATUETTE FEMMINILI PRE E PROTOSTORICHE?

N

ella costruzione dei modelli di attrattività e bellezza del passato, non possiamo trascurare il possibile impatto di alcuni fattori fondamentalmente biologici. Partendo da lontano, i biologi e paleoantropologi evoluzionisti hanno insistito sulla correlazione tra la posizione eretta, lo sviluppo della manualità nella preparazione del cibo, gli albori del linguaggio, la visione tri-cromatica e la comunicazione facciale. Creare e decodificare, in termini di segnali standard, gli sguardi e le espressioni facciali, le relazioni tra queste, i segnali vocali, e altri segni di emozioni particolari, come il pallore e il rossore, deve aver avuto per la nostra specie un ruolo importante nel creare e gestire varie forme di intelligenza

Sulle due pagine tavole dall’opera Mécanisme de la Physionomie del neurologo francese GuillaumeBenjamin-Amant Duchenne. 1862. Washington, National Gallery of Art. Da sinistra, un’espressione di terrore e dolore; aggressività e malvagità; pensieri lascivi e desideri indotti dall’attenzione concentrata su un oggetto.

sociale e quindi, se vogliamo, persino delle prime forme di «moralità». L’imparare a trasmettere e a leggere negli altri messaggi di simpatia, solidarietà, attrazione – a partire dal semplice sorriso – dev’essere stato alla base dei piú antichi «lessici della bellezza», come, al contrario, espressioni aggressive e ripugnanti hanno sempre manifestato il contrario. Gli antropologi, per esempio, hanno isolato sei espressioni fondamentali (rispettivamente, disgusto, paura, gioia, sorpresa, tristezza e rabbia) che sembrano valere, ed essere state valide, per ogni cultura umana. Se la moralità consiste nel praticare e promuovere quanto è piú conveniente e giusto per la maggioranza degli individui e la riduzione dei conflitti, è

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PREISTORIA

Lespugue

26-24 000 anni fa circa. La Venere proveniente dal sito francese di Lespugue. Avorio, alt. 14,7 cm. Parigi, Muséum national d’Histoire naturelle.

Balzi Rossi

25 000 anni fa circa. Una delle Veneri gravettiane recuperate nella grotta ligure dei Balzi Rossi (Ventimiglia). Steatite, alt. 4,7 cm. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale.

facile dedurre che espressioni di accoglienza, gioia, serenità e protezione possano essere annoverate sul lato della lavagna intitolato alla «bellezza». Ma se queste e altre espressioni facciali possono esprimere altrettanti significati, che cosa possiamo dire per il significante, ossia per i processi che animano il volto umano? Qui iniziano serie difficoltà, perché i muscoli facciali, responsabili, appunto, delle espressioni, formano strutture molto complesse, le quali, interagendo tra loro in modo automatico, oppure volontariamente attivate, possono variare notevolmente nei

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due sessi, tra diverse popolazioni e anche da persona a persona. Altri fattori in gioco sono il ruolo specifico, nel contesto, del sistema nervoso, la lateralizzazione (lo sviluppo preferenziale della motilità nella parte sinistra o destra del volto), il ruolo della simmetria e della durata dei segnali muscolari in fase di produzione e decodificazione dei messaggi visuali. Ciò che noi percepiamo come «bello» in un volto umano – al di là dei modelli culturali


Tursac

25 000 anni fa circa. Attribuibile al Gravettiano, questa Venere proviene dal sito di Tursac (Dordogna, Francia). Calcite, alt. 8,1 cm. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale.

Brassempouy

26-24 000 anni fa circa. Fu rinvenuta nel 1894 a Brassempouy da Édouard Piette. Avorio, alt. 3,65 cm. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale.

Kostenki

29-22 000 anni fa circa. Un esemplare di Venere dall’area eurasiatica, trovato a Kostenki (Russia). Pietra calcarea, alt. 11 cm. San Pietroburgo, Museo di Antropologia e di Etnografia.

piú transitori – è la complicata risultante di queste potenzialità anatomiche e di una serie di caratteristiche che potrebbero anche essere «archetipali» nella percezione facciale. In primo luogo, siccome la salute è prerequisito della fertilità e della procreazione, donne e uomini sono istintivamente e universalmente attratti dalla giovinezza, dall’omogeneità e dalla lucentezza della pelle. Poiché sembra scientificamente dimostrato che il colore della pelle maschile tende a sfumature lievemente bruno-verdastre, mentre quello femminile al rosa, e che i maschi hanno spesso palpebre e labbra piú chiare di quelle femminili, percepiamo come belli gli individui che piú si avvicinano a queste norme e che cosí (almeno per la maggioranza della popolazione) meglio esprimono il dimorfismo sessuale. Tale attitudine rientra nella piú generale tendenza a considerare bello ciò che si avvicina alla norma, e a essere invece disturbati da divergenze e anomalie fisiche. In questo stesso quadro, la simmetria bilaterale del viso sembra essere un altro fattore di grande attrazione.

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PREISTORIA

Una fondamentale tendenza della cosmesi del volto sembra essere stata, da un lato, quella di accentuare queste latenti peculiarità anatomiche – in poche parole, armonizzare il viso, femminilizzare tramite pigmenti «forti» e ben contrastanti i caratteri femminili, mascolinizzando quelli del sesso opposto – e, dall’altro, di combinare in modo del tutto indipendente la stessa tecnologia e lo stesso sistema semantico con l’esigenza di esprimere particolari ruoli e posizioni sociali delle persone truccate. Non stupisca, in questa frase, l’uso della parola «tecnologia»: con l’atteggiamento diminutivo che costantemente accompagna tutte le «frivole» sfere di attività umana che riguardano in prevalenza le donne, sino a ora archeologi e storici hanno sistematicamente sottovalutato il fatto che proprio nella tecnologia cosmetica si nascondono alcune delle piú importanti radici della chimica e della metallurgia antica.

La statuetta in pietra calcarea nota come «Venere di Willendorf». Periodo epigravettiano, 23 000 a.C. circa Vienna, Naturhistorisches Museum. Recenti ricerche sperimentali indicherebbero che l’appeal di queste figure preistoriche non risiederebbe negli attribuiti sessuali, quanto nell’idea di abbondante nutrizione insita nelle forme corporee.

L’esplosione degli ornamenti Si sa, siamo tutti un po’ razzisti e nemmeno gli scienziati sfuggono del tutto a questi condizionamenti. Da quando il biologo e

Provocanti o venerabili?

I

n una ricerca insolita, due studiosi neozelandesi della Victoria University di Wellington hanno mostrato varie immagini di Veneri paleolitiche a 200 individui eterosessuali, maschi e femmine, di età compresa tra i 18 e 44 anni, registrandone commenti, giudizi e persino controllando, come indice di attrattività, come e quanto i loro occhi si soffermavano sui dettagli delle statuette paleolitiche. Le Veneri furono giudicate sessualmente attraenti in ragione del rapporto tra la misura della vita rispetto a quella dei fianchi; le figure in cui la prima superava la seconda non lo erano. Ai partecipanti fu anche chiesto di stabilire a quale stadio del ciclo vitale dovessero essere attribuite le sculture ed esse furono in prevalenza interpretate come immagini di giovani donne adulte o di mezza età; per la maggioranza, non si trattava di ritratti di puerpere (il che potrebbe confutare l’ipotesi dei «simboli di fertilità»),

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archeogenetista svedese Svante Pääbo ha rivelato al mondo che noi – uomini e donne anatomicamente moderni – abbiamo un certo grado di comunità genetica con le popolazioni neandertaliane europee, i Neandertal, da «brutti» e inetti, come erano stati considerati da piú di un secolo, si sono presto trasformati in «belli», arguti e ben decorati.


Naturalmente, in questo caso «bello» significa morfologicamente simile a noi. E poiché in qualche caso il patrimonio genetico ricostruito dal DNA neandertaliano sembra indicare capelli rossi e occhi verdi, le pagine di molte riviste hanno cominciato a presentarci vere e proprie top model paleolitiche, dall’aspetto vagamente irlandese, abbellite da vezzose piume, collanine e tatuaggi. Tuttavia, se la prima ornamentazione umana, oltre a segnalare differenze di status tra i membri delle bande di raccoglitori-cacciatori, perseguiva arcaiche pulsioni di fascino, bellezza e ammirazione, il primato della moda non spetta alle popolazioni europee, bensí a quelle africane, presso le quali ornamenti da indossare sul corpo comparvero tra i 120 000 e i 70 000 anni fa. Come hanno scritto l’archeologo Francesco D’Errico e i suoi colleghi, «recenti ricerche sull’origine del simbolismo indicano che ornamenti personali in forma di conchiglie perforate erano in uso nel Vicino Oriente, in Africa Settentrionale e in quella Sub-sahariana almeno 35 000 anni prima di quanto avvenne in Europa. Con esempi dell’uso di pigmenti, incisioni e strumenti

A destra ricostruzione di una nostra antenata preistorica. Mettmann, Neanderthal Museum. Sino a tempi recenti, simili ricostruzioni erano esclusivamente riservate alle popolazioni del Paleolitico Superiore; recenti sviluppi della ricerca suffragano invece l’idea che complicati ornamenti dello stesso genere fossero anche prodotti e usati dai Neandertaliani del Paleolitico Medio.

Un’antichissima collana quanto piuttosto di donne obese, dal seno sovrabbondante, negli anni della matura età riproduttiva. Di solito, persone in questa fase di vita non sono considerate le piú interessanti dal punto di vista sessuale. In conclusione, non si tratterebbe di «Veneri» dall’arcaico appeal erotico, quanto di figure che simboleggiavano, nella sovrabbondanza del corpo, l’aspirazione della comunità a una buona nutrizione, garanzia di longevità e del successo riproduttivo dell’intero gruppo, piuttosto che dell’individuo: qualcosa di simile a quanto accadde, come abbiamo già accennato, nella seconda guerra mondiale, quando la penuria di cibo rese desiderabili le donne di corporatura abbondante. Insomma: prima ben nutrite, poi voluttuose. Tuttavia, in simili giudizi, la sensibilità degli studenti neozelandesi e i confronti con la modernità possono davvero valere per le quinte, a fatica sondabili, della mente paleolitica?

Conchiglie perforate e coperte di ocra, dalla Grotta dei Piccioni, presso Taforalt (Marocco). 82 000 anni fa circa. Sono un esempio delle capacità simboliche dell’uomo del Paleolitico Medio: si tratta, infatti, di elementi destinati a comporre un oggetto estetico, simile a una collana, e non riconducibili perciò a una dimensione utilitaristica.

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PREISTORIA

Fronte e retro della statuetta in terracotta detta «Venere di Dolni Vestonice» in Moravia. Brno, Museo della Moravia. Le forme, modellate in argilla poi cotta in una fornace, riproducono quelle degli esemplari in pietra meglio noti in Europa occidentale.

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formali in osso, gli ornamenti personali segnano la prima comparsa dei comportamenti moderni in Africa». Fu questa l’età della cosiddetta «Eva nera», presunta nostra progenitrice, alla quale molti riconducono le origini e il successo di Homo sapiens sapiens. Ma, a dimostrare la complessità e l’incostanza di questi fenomeni, sta il fatto che, nell’intervallo tra 70 000 e 40 000 anni fa, gli stessi ornamenti, per ragioni ancora sconosciute, sembrano eclissarsi. In Europa, sarà dalla soglia dei 40 000 anni fa, nel problematico periodo di transizione tra i Neandertal e l’uomo anatomicamente moderno, che il simbolismo, la grafica, la produzione intensiva di elaborati ornamenti inizieranno ad accompagnare e a sottolineare l’attrattività e il prestigio della persona. Ma c’era certamente di piú. Come tutti i cacciatori-raccoglitori, i nostri antenati d’Africa e d’Europa avevano una conoscenza approfondita delle proprietà di centinaia di specie vegetali e dei loro estratti, da cui ottenere olii e cere, estratti profumati e principi medicamentosi, anche se a noi non ne sono ancora giunte tracce certe. Altrettanto bene essi sapevano cosa fare di grassi e fibre d’origine animale, mentre una crescente dimestichezza col fuoco e pigmenti di origine metallica (soprattutto per i gialli, rossi e neri: basti pensare ai lunghi millenni e agli animali in corsa dell’arte parietale) confluiva nelle prime preparazioni per la pittura del corpo che possiamo considerare in qualche modo «cosmetiche». Le ricerche di D’Errico e di altri archeologi mostrano come l’avvento dell’agricoltura nel Vicino Oriente, tra i 12 000 e i 10 000 anni fa, e la sua diffusione in grandi ondate (probabilmente anche tramite migrazioni)


Bambole, immagini e conflitti

E

siste, nel mondo attuale, qualcosa che somigli al modello delle misteriose Veneri paleolitiche, che abbia cioè anatomia e forme ricorrenti, pose replicabili e replicate, volto poco individualizzato, e diffusione universale? Barbara Millicent Roberts è nata nel 1959 a Willow, nel Wisconsin, USA, presso la famiglia Mattel. Per sua plastica natura, non è mai invecchiata. Si tratta della fashion doll Barbie, che rappresenta la ragazza ideale del mondo statunitense: benestante e non sposata, ma dotata di un fidanzato, Ken. Grazie a una martellante pubblicità televisiva e canora, le bambole Barbie, con il loro apparato situazionista di accessori di ogni genere, sono state vendute in piú di un miliardo di copie in 150 diverse nazioni. Secondo i produttori Mattel, ancora oggi su questo pianeta si vendono tre Barbie al secondo. In pratica, esiste una Barbie per un quarto delle donne della Terra. Tutto ciò non è avvenuto e non avviene senza forti controversie. Nel 2003, il «Comitato per la Propagazione della Virtú e la Prevenzione dal Vizio» dell’Arabia Saudita ha messo fuori legge la vendita della bambola, ritenuta provocante simbolo della decadenza occidentale. All’ovest, Barbie ha anche attirato le critiche di quanti hanno ravvisato nel suo corpo una chiara propaganda dell’anoressia, grave minaccia incombente nello sviluppo psico-fisico delle bambine e delle adolescenti; per questo, nel 1997 i costruttori hanno dovuto allargarle il bacino. Nel 2005, l’articolo di una studiosa dell’università di Bath, in Inghilterra, sostenne che le adolescenti inglesi attraversano una fase di odio per Barbie, che viene spesso mutilata, decapitata e cremata nel forno a microonde, nel rifiuto, quasi sacrificale, della corporeità da essa trasmessa. Nell’interpretare il passato, noi diamo sistematicamente per scontato che un modello culturale potente, come quello delle «bambole» paleolitiche, fosse assunto dalle proprie società come omogeneo, statico e indiscusso. Probabilmente ciò è molto lontano dal vero: i tempi della preistoria sono immensi, i luoghi sconfinati, e i modelli delle Veneri diversi abbastanza da convincerci che i loro usi e significati possono aver conosciuto, nel tempo e nello spazio, importanti elaborazioni e trasformazioni.

verso ovest, siano state accompagnate dall’invenzione di nuovi tipi di ornamenti. A est, l’idea del seme dei cereali e della germinazione può aver ispirato una profusione di piccole perle in steatite o altre pietre di colore verde, forse considerate simbolicamente rilevanti e di buon augurio, mentre nell’entroterra europeo i gruppi dei cacciatori indigeni continuavano ad abbellire se stessi con ornamenti derivati direttamente dalle creature predate: gusci di molluschi, denti e ossa di mammiferi, artigli di rapaci. La persistenza delle scelte stilistiche dei cacciatori-raccoglitori europei in materia di ornamenti – quindi della propria immagine – sono considerate da D’Errico come una vera e propria forma di resistenza culturale contro l’inarrestabile avanzata e le «fatali» implicazioni di un mondo estraneo e completamente nuovo.

Quale bellezza nel Paleolitico? Fertilità, sessualità, pornografia, giochi di società maschili, canoni proporzionali, sacralità del corpo femminile e divinità della Grande Madre, bambole, obesità come simbolo di benessere materiale. Queste definizioni, semplici e ottimistiche, sbucano di colpo, come farfalle da un vaso stappato, non appena ci poniamo davanti alle celeberrime «Veneri» delle fasi centrali e tarde del Paleolitico Superiore europeo. Che però, altrettanto velocemente, sembrano disperdersi nel vuoto. Quanto alla «farfalla» della bellezza, lo stesso nome dato agli inizi del Novecento a queste Veneri le collega in modo ormai irrevocabile alla dea della bellezza del mondo classico. Ma è un’idea razionalmente sostenibile? Si noti che gran parte di queste interpretazioni, tra l’altro, rimane inesorabilmente di parte «maschile». Sono una legione di piú di 200 piccole figure, scolpite in materiali relativamente teneri (steatite, calcare, osso e avorio), oppure modellate nell’argilla. Ogni anno, negli scavi, ne emergono di nuove. In esse esplodono le curve degli attributi sessuali secondari femminili (seni, cosce, grembo), stranamente

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Dea Madre nell’atto di partorire tra due leopardi, da Çatal Höyük. Inizi del VI mill. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.


contenute in un elementare schema a losanga: nei casi in cui la testa è presente, il volto sembra scomparire, come avviene nella parte inferiore delle gambe e nel caso dei piedi. Nella maggior parte dei casi, dunque, le due estremità dei corpi femminili si trasformano in appendici affusolate, come quelle di fusi sospesi nel vuoto. Si tratta di una stilizzazione estrema, che nulla ha a che vedere con il dilagante naturalismo dei grandi animali colorati in corsa dell’arte parietale delle grotte, ma che invece si riverbera nelle piú rare e piú grandi immagini di corpi di donna, che a volte compaiono all’improvviso, nelle stesse cavità, tra ombre, stalattiti e aggetti rocciosi. La verità è che sappiamo ancora molto poco o nulla dei modi di vita e delle idee dei cacciatori-raccoglitori che, di continente in continente, ci hanno preceduto. L’intera cultura occidentale degli ultimi duemila anni è intimamente pervasa dall’idea che arte e bellezza siano intimamente legate da un biunivoco rapporto di causa ed effetto (l’arte crea bellezza, ispirata da quest’ultima), che l’arte abbia sempre puntato alla verosimiglianza delle immagini e che, per secoli, abbia avuto come tema portante l’estetica del corpo umano; ma non possiamo naturalmente provare che nel mondo ancora «vergine» di 30 000-20 000 anni fa circolassero gli stessi legami semantici. Anche per via di questo sfondo ideologico, tendiamo a ricercare la bellezza nei volti di chi incontriamo: proprio ciò che manca nelle Veneri paleolitiche, alle quali l’assenza degli arti inferiori dona una straordinaria immotilità. La posizione piú comune, quella con le mani, anch’esse spesso quasi invisibili, reclinate sul ventre, sembra quasi fetale, un’impressione

A destra statuetta in terracotta raffigurante una donna assopita e nota come Sleeping Lady («Signora dormiente»), dall’ipogeo di Hal Saflieni (Malta). IV o prima metà del III mill. a.C. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia. In basso la «Venere di Malta», dal tempio megalitico di Hagar Qim. 3400-3000 a.C. circa. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia.

paradossale, se trasmessa da corpi di donna le cui forme risultano a tal punto cariche da essere considerate, almeno da alcuni studiosi, in stato di gravidanza. Se, come molti e molte sostengono, si tratta di espressioni materiali e simboliche da parte della componente maschile delle società preistoriche europee, dovremmo pensare che in esse fossero compendiate sia una dimensione di esplicita attrattività sessuale, sia la cognizione dei suoi effetti, cioè la gravidanza e il parto. Forse troppo, per figurine minute dalla forma tanto specifica. Ed è un nodo semantico tanto complesso e misterioso che ci ostiniamo a cercare l’alba della bellezza umana? Sí e no: sí, perché al fascino di queste immagini è impossibile sottrarsi, e il fascino (con tutte le implicazioni magiche e seduttive della parola) è una componente cruciale della bellezza; forse no, perché la bellezza umana, al di là del volto e della nudità, si alimenta di mille dettagli artificialmente costruiti, come capigliature, colori, tatuaggi e ornamenti. Solo parte delle Veneri paleolitiche, infatti, ha la testa ben isolata, e in genere in modo sproporzionato; mentre una parte ancora minore sembra alludere alle complicate acconciature di trecce e

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perline di conchiglia ritrovate nelle sepolture di alto rango contemporanee. Le piccole Veneri e le donne di rango superiore degli ultimi cacciatori della fine del Pleistocene, da questo punto vista, avevano ben poco in comune. Per le proprie società queste immagini comunque collettive rappresentarono due sfere di vita e di significato ben distinte. Saranno altre «Veneri», nei millenni successivi, a combinare per la prima volta sul proprio corpo forme sempre piú astratte e stilizzate con una profusione di segni incisi – grovigli di linee, tacche, file di punti – dei quali ognuno di noi è libero di cercare le spiegazioni che preferisce: la preistoria è ancora fatta cosí. Tuttavia, non può essere un caso che anche queste immagini femminili rimangano ancora «donne senza volto».

A sinistra due ritratti fotografici di indios Chamacoco, eseguiti da Guido Boggiani, che nel 1897 aveva incontrato schiavi di questa etnia assoggettati da un gruppo Caduveo, in seguito resi famosi dagli studi sulle pitture corporee di Claude Lévi-Strauss. In basso una donna Caduveo ritratta nel 1892, dalla collezione dello stesso Boggiani.

La visione degli agricoltori Contraddittorie sono anche le immagini femminili che ci giungono dai tempi della «Rivoluzione Neolitica». La definizione, coniata dal grande paletnologo inglese Vere Gordon Childe (1892-1957), è stata spesso messa in discussione, soprattutto alla luce di semplici considerazioni cronologiche: le rivoluzioni sono improvvise e momentanee, mentre la transizione ai modi di produzione agricola fu tanto prolungata quanto graduale, anche se i tempi in questione non sono certo paragonabili a quelli del Paleolitico. Tuttavia, anche nel Neolitico ci si perde facilmente. È opinione comune che le statuette femminili neolitiche, in genere fatte di argilla cruda o terracotta, mantenendo una forte enfasi sugli attributi sessuali secondari e, in genere, continuando a prestare poca attenzione al volto, riflettano un interesse ampiamente condiviso per la fertilità e la generazione, fondamentale in un mondo in cui piú figli, e piú braccia, significavano piú terra disboscata e dissodata, e quindi piú farina per tutti. Nel Vicino Oriente e ancora piú a est, cosí come le statuette potevano alludere alla sfera femminile della sessualità, si registra la rapida diffusione di

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In basso documentazione di tatuaggi trovati sul corpo di criminali, prova, secondo Cesare Lombroso, della derivazione atavica e primitivistica della devianza umana, Tavola LXVII dell’Atlante dell’opera piú importante dell’antropologo italiano L’uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie. 1876.

statuette di bovini, solitamente di sesso maschile, che sembrano rappresentare l’altra metà della storia. Sappiamo anche che le figurine fenmminili, a differenza di quanto avveniva nelle età paleolitiche, a volte accompagnavano i morti nelle tombe e nell’aldilà. Nelle interpretazioni dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas (1921-1994) e dei suoi seguaci, le statuette sarebbero anche gli oggetti di culto di una grande Dea della fertilità, che avrebbe accomunato il mondo delle comunità neolitiche, dipinto spesso dai proponenti con toni forse troppo idilliaci. Tuttavia, guardando alla moltitudine di immagini femminili (dato che esse sono di gran lunga piú numerose di quelle maschili) create dai primi agricoltori «solo» 10 000 anni fa, le perplessità, invece di ridursi, si moltiplicano. Alcune statuette trovate nel corso dei piú recenti scavi a Çatal Höyük (Turchia), databili a fasi medio-tarde del Neolitico (VII millennio a.C.), come le piú tarde sculture, anche di grandi dimensioni, dei complessi megalitici di Malta, continuano a mostrare donne nude dalle masse corporee sovrabbondanti. In esse, la pesantezza delle membra e le pieghe

del grasso, come nella scultura paleolitica, sono quanto mai letterali, mentre nell’intera immagine il realismo cede il passo a indecifrabili e manieristiche convenzioni formali: le «dee» di Malta somigliano davvero, nei corpi, ai ritratti del pittore colombiano Fernando Botero. Una volta di piú, è possibile che queste immagini parlassero della bellezza femminile a chi le creava e le utilizzava? Oppure, ancora: è possibile che le donne si rispecchiassero con favore in simili ideali estetici? Una recente interpretazione in chiave femminista vuole che, nel variare delle immagini femminili di Çatal Höyük, le donne vedessero diversi stadi del proprio ciclo vitale, dall’adolescenza alla maternità, e che l’abbondanza delle forme fosse espressione o auspicio di soddisfacenti condizioni di vita materiale. Se fosse vero, il «bello» coinciderebbe, in questo caso, con palesi dimensioni di successo e affermazione sociale. In altri villaggi neolitici dell’Eurasia, piú antichi ma anche posteriori, circolarono invece statuette di estrema stilizzazione, in genere senza volto, ma dai piú marcati e lineari

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contorni, e spesso interamente coperte di intricati tratti geometrici: una opzione del tutto alternativa alla prima, ma sempre... sulla pelle delle donne. Pensare a vesti dalle fitte ornamentazioni intessute o a tatuaggi, guardando per esempio alle statuette delle culture tardo-neolitiche di Tripolye e di Cucuteni (Romania), è quasi obbligatorio; tanto piú che i disegni quasi ossessivi che coprono le figure corrispondono alle geometrie e ai meandri delle cosiddette pintaderas, stampi o sigilli che potevano essere usati per stampare vistosi disegni su tessuti, o direttamente sul corpo. A volte, come nelle ceramiche del sito tardoneolitico di Hacilar, sempre in Turchia, le statuette di donne o «dee» coperte da spirali e reticoli di segni geometrici si confondono con vasi a corpo femminile che sembrano enfatizzare ancora di piú l’idea di una donnacontenitore-utero strettamente condizionata dal ruolo di riproduttrice assegnatole dalla propria comunità. La donna corporea florida, quindi, affiancata dalla donna astratta e quasi immateriale sotto le abbondanti pitture corporee; quali fossero le sovrapposizioni, le emozioni e le associazioni che legavano o opponevano queste due «ontologie» (vale a

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dire, con parole meno dotte, le due sfere di pensiero) rimane ancora piuttosto oscuro.

Segni sul corpo: due storie esemplari Poche cose come la pittura, la scarnificazione e il tatuaggio del viso e – modificazione piú materiale, ma transitoria – la maschera, appaiono come deviazioni radicali da quegli ideali di bellezza della sensibilità occidentale definiti dal viceministro greco e che abbiamo scelto per introdurre questo lavoro (vedi, nell’introduzione, a p. 6). Due storie differenti, e le figure di diversi studiosi possono riassumere e ben illustrare i modi totalmente opposti in cui l’antropologia ha interpretato fenomeni di questo tipo. Nel 1863, il dottor Cesare Lombroso (18351909), futuro luminare e grande accademico dell’antropologia Italiana, aveva 28 anni ed era un giovane ufficiale medico. Visitando gli artiglieri, si rese conto del fatto che una buona percentuale di loro avevano il corpo tatuato con immagini e scritte di vario genere e che, in grande maggioranza, si trattava di appartenenti a ceti sociali disagiati. Fu forse uno di quei lampi di genio – il momento dell’intuizione – dei quali lo studioso ci ha lasciato memoria nei suoi

Tavola che illustra una danza degli indigeni, col corpo coperto di vivaci colori, dal Voyage pittoresque et historique au Brésil di Jean-Baptiste Debret. 1834-1839. Pittore e allievo di Jacques-Louis David, Debret aveva un conoscenza intima del Brasile, dove visse per ben sedici anni.


Due fotografie scattate da Claude Lévi-Strauss in un villaggio Caduveo. Il grande antropologo francese, che era un ottimo fotografo, rimase profondamente affascinato, come altri esploratori, dalla complessità e raffinatezza delle pitture facciali Caduveo, alle quali attribuiva una sottile valenza erotica.

scritti. Quando, nel 1876, uscí la sua opera principale, L’ uomo delinquente, per Lombroso non vi erano piú dubbi: riscontrato in migliaia di «criminali, prostitute e soldati delinquenti» il tatuaggio era la testimonianza materiale, visibile e misurabile, della cosiddetta ipergrafia, ossia della presunta tendenza infantile dell’uomo primitivo a produrre inarrestabili e caotici disegni, senza nemmeno rispettare il suo stesso corpo. L’ipergrafia, quindi, confermava per Lombroso l’atavismo, vale a dire la teoria per la quale i criminali del suo tempo altro non erano che l’infelice sopravvivenza di individui geneticamente tarati, simili a uomini primitivi, dimenticati per strada dall’evoluzione umana, e che come tali si comportavano. I tatuaggi, quindi, erano visti con il disprezzo e l’orrore riservati ai rifiuti umani. Solo vent’anni piú tardi, nel 1897, l’artista e

antropologo italiano Guido Boggiani (1861-1902), amico personale di Gabriele D’Annunzio, mentre risaliva in barca i pigri meandri del fiume Nacaleque, nella foresta pluviale tra Paraguay e Brasile, incontrò una ragazza di etnia Chamacoco. La ragazza, che era stata fatta schiava da un gruppo dell’etnia dominante Caduveo, portava sul volto una pittura facciale talmente delicata e complessa che l’artista decise di riprodurla, e di ri-disegnare i volti dipinti di centinaia di indigeni (sia Chamacoco sia Caduveo). Da allora, grazie anche all’opera di documentazione di Boggiani (che avrebbe pagato con la vita – fu ucciso e sepolto ritualmente dai nativi con la sua macchina fotografica – il suo amore per le culture amazzoniche) queste pitture facciali, straordinarie per finezza e per i complessi giochi di simmetria che si incentravano sulla bocca, sono rimaste un caso cruciale dell’etnologia. La loro ambigua bellezza, mezzo secolo dopo, avrebbe catturato l’attenzione di Claude Lévi-Strauss (1908-2009), il quale, non a caso, era figlio di un ritrattista. Per i Caduveo, la decorazione del volto, eseguita dalle donne, era un atto indispensabile per conferire dignità e individualità alla persona. L’antropologo francese scorse invece nelle contorte opposizioni geometriche dei motivi la riflessione dell’incapacità della società Caduveo di combinare le sue strutture sociali fortemente stratificate con le istanze egualitarie che la permeavano. Lévi-Strauss rimase anche affascinato da come i grovigli grafici Caduveo sovvertivano e «rovinavano» la simmetria del volto femminile, ricavandone l’impressione di una sottile pulsione erotica di tipo sadico. Il volto umano, come forma di riflessione bilaterale che sprigiona direttamente dalla natura, è principio e fonte di simmetria: un tipo di ordine «naturalizzante», quindi, che possiamo descrivere con parametri geometrici e matematici, ma anche sovvertire giocando visualmente con gli stessi schemi; e proprio in questo, probabilmente, risiede la sua metaforica potenza.

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LA TRADIZIONE BIBLICA EGITTO

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COLORI NELL’OSCURITÀ ABITI, ACCONCIATURE E PARRUCCHE, PROFUMI E COSMESI: L’IDEALE ESTETICO, QUALE TRASPARE DALLE PITTURE, DAI RILIEVI E DALLA STATUARIA DELL’ANTICO EGITTO, SI AVVALEVA DI OGNI MEZZO PER COMBATTERE I NEMICI DELLA BELLEZZA. E IL TRUCCO FEMMINILE ERA PRATICA QUOTIDIANA E COMUNE A TUTTE LE CLASSI SOCIALI

«S

Elaborazione fotografica del busto di Nefertiti oggi conservato a Berlino e del rilievo raffigurante la regina insieme ad Akhenaton custodito al Museo Egizio del Cairo (per entrambi gli originali, si vedano le descrizioni nel capitolo successivo, alle pp. 62-79).

í, cose meravigliose» (in inglese, «Yes, wonderful things»): questa breve frase è, forse, la piú famosa mai detta da un archeologo. Secondo i diari dello stesso scopritore, la pronunciò Howard Carter il 26 novembre 1922 intravedendo oltre una luce fioca («Guardammo dentro con una torcia elettrica, e con l’aiuto di una candela») il bagliore dei primi oggetti accatastati nella tomba di Tutankhamon. E non aveva ancora visto nulla, rispetto ai tesori che lo attendevano all’interno. Per la cultura e la religione egizia, la casa e il tempo dell’aldilà erano piú importanti della vita terrena: la tomba, custode di parte delle sue anime (perché molteplice era la natura dello spirito individuale dell’uomo e della donna egizia), veniva arredata con iscrizioni e rappresentazioni figurative, corredi funerari e oggetti della vita quotidiana, a perenne sostegno della complessa, pericolosa e ultima spedizione dell’anima in viaggio verso la vita eterna. Quello che piú colpisce degli ambienti sepolcrali egizi è il contrasto abbagliante, quasi doloroso, tra la luce sfolgorante dei margini del deserto, dove le necropoli sorgevano senza sprecare un metro di terra coltivabile, e il buio dei corridoi, dei passaggi e delle camere scavate nella roccia per i morti. Quando si trattava delle tombe di uomini o donne potenti o di elevato

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rango sociale, si viene poi travolti dalla ricca policromia delle raffigurazioni parietali; e possiamo ben immaginare lo sfarzo originario degli arredi, ricordando la straordinaria vitalità che questi oggetti ancora emanano dalle remote vetrine dei musei. Condividiamo il senso di morte terrena evocato da ambienti sotterranei tanto freddi e oscuri, e i bagliori vitali di un’arte ispirata da una profonda gioia di vivere.

Eterna bellezza, eterna gioventú L’arte egizia ci consegna un’immagine di bellezza cristallizzata. Essa è intrisa di una colorata luminosità che dal mondo esterno si rifletteva sul corpo di uomini e donne, e ancora rende visibile un’intima convinzione della sacralità del corpo umano, dalle sue vicende terrene a quelle ultraterrene. Nel corso dei secoli, artisti e intellettuali hanno trovato proprio nelle forme e nei colori dell’arte egizia una sorgente inesauribile di meraviglia, ispirazioni e suggestioni scientifiche e filosofiche. Come osserva l’egittologa Marilina Betrò, «la produzione artistica non sembra avere un valore fine a se stesso, determinato dal puro piacere estetico di ammirare o anche, dal punto di vista dell’artista, di creare (...) Rappresentare, nell’antico Egitto, era un atto performativo, che equivaleva, in un certo senso, a creare». E come osservava un altro grande egittologo Sergio Donadoni (1914-2015), in Egitto «una figurazione, sia in disegno che in rilievo, non tende tanto a mostrare cosa sia il mondo figurativo del suo autore, quanto a creare un sostituto del mondo sensibile. È, in certo modo, magia disegnativa». Una magia, questa, basata in

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Statuetta in terracotta di divinità femminile con testa ornitomorfa con le braccia levate in un gesto di significato ignoto. Età predinastica, prima metà del IV mill. a.C. Londra, British Museum.

larga misura sul colore. Il sogno di gioventú e bellezza permanenti degli antichi Egizi coincideva con l’aspirazione alla vita eterna: pitture, maschere funerarie, sarcofagi, statuette funerarie esprimono in tutto il loro fascino e nella loro forza trascendente l’amore per la bellezza, che nell’Egitto antico riusciva a superare la morte stessa. La lingua egizia impiegava due locuzioni per esprimere il concetto di bellezza: il termine nefer si


riferiva al bello inteso come armonioso, equilibrato e buono, come se si volesse fondere l’ideale estetico con un principio etico. È significativo che nefer sia incorporato in molti nomi propri di persona: primo tra tutti, per celebrità, quello della regina Nefertiti (della cui vicenda si parla

«Le tre musiciste di Amun», dalla tomba di Nakht a Tebe. Fine del regno di Tuthmosi IV (13971387 a.C.)-inizi del regno di Amenofi III (1387-1348 a.C.).

piú diffusamente nel capitolo successivo, alle pp. 62-77), «Colei che viene nella bellezza». Il mondo ideale dell’antico Egitto aspirava a un cosmo dove tutto era in equilibrio, alla totale bellezza e armonia, sia dell’aspetto fisico che di quello ben piú vasto dell’ordine sociale.

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La seconda espressione, an, significava bello nel senso di «adornato» e, non a caso, si scriveva proprio con il geroglifico dell’occhio contornato dal kohl, il trucco che ingrandiva lo sguardo e aveva il significato simbolico di aumentare la forza e la profondità espressiva del volto umano. Nei papiri l’usanza di contornare l’occhio con il kohl è indicata col termine msmdt, che vuol dire letteralmente «che fa parlare gli occhi». Dunque la bellezza ottenuta attraverso la cura di se stessi era un valore fondante della comunità e la dea egizia della bellezza, la bovina Hathor, era insieme dea dell’amore, della gioia e della maternità, protettrice della vita familiare.

Una rigida differenziazione sessuale

Statuette in legno dipinto raffiguranti ancelle che portano cibi per il defunto, da una tomba di Assiut. XIX dinastia, 1950 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. L’iconografia dell’antico Egitto prova come l’uso di un pesante trucco sugli occhi fosse esteso anche alle donne delle classi inferiori.

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È curioso come nella totale stranezza e peculiarità dell’evoluzione sociale dell’antico Egitto l’invenzione e la gestione della figura e della bellezza femminile sembri assolutamente conforme a quanto avvenne in altre civiltà contemporanee. Infatti, «Il posto della donna in questo disegno complessivo è quello fissato per lei dall’uomo: madre, moglie, oggetto di desiderio. L’idea di bellezza fisica, cosí quale traspare da sculture, bassorilievi, pitture e testi, concepiti, eseguiti o composti da uomini, presenta sin dalle origini una rigida differenziazione sessuale: nelle figurine predinastiche della seconda metà del IV millennio a.C., l’immagine femminile ha vita stretta, seni pieni, fianchi larghi e torniti, con triangolo pubico evidenziato, mentre quella maschile è quasi sempre astratta rappresentazione del potere, con lunga barba appuntita, tratti facciali modellati ma corpo solo schematicamente indicato, celato da una lunga tunica o mantello (...) l’ideale di bellezza femminile è fortemente sessualizzato, erotico, connesso a un modello biologico di fertilità e atto a suscitare il desiderio maschile; viceversa l’immagine che l’uomo ha di sé e vuole trasmettere irradia potere e capacità magnetica di soggiogare» (Marilina Betrò). Il valore ornamentale della bellezza era cosí un universale segno di status, ma solo se rifletteva


In basso et utemdei net colori Il codice

laut facient et quam fugiae officae enominato iwen, il colore era per gli Egizi un elemento ruptatemqui simbolico comunicativo, denso di significati conseque vite es precisamente sae quis deris codificati, quanto l’immagine stessa. L’uso dei colori determinato soprattutto da principi di natura rehenisera aspiciur magico-religiosa. sincte seque con Il blu simboleggiava il cielo e l’acqua, la fecondità nusam fugitdelle et quiesondazioni del Nilo, la trascendenza, le divinità, il regno bernate laborest, utceleste, la notte, e metteva gli uomini che lo indossavano sotto la tutela delle proprie divinità. Il dio Amon ut aliquam rentus era rappresentato magnim ullorepra con la pelle blu. Il verde, comunemente associato serro dolumnella nostra cultura alla pelle dei mostri, degli

D

zombie e, in generale, al volto dei malati e dei morti, in Egitto era invece il colore della crescita, della vita, e della resurrezione. Verde era la cute di Osiride, dio della morte, ma anche della rinascita, della fertilità e della vegetazione.

Il colore esprimeva il suo simbolismo principalmente negli oggetti di culto e nei corredi tombali: gli amuleti e gli ushabti che accompagnavano le mummie, spesso in faïence di tonalità verde e blu, manifestavano apertamente il loro potere evocativo positivo e apotropaico. Non a caso, i primi pigmenti cosmetici a comparire nelle sepolture predinastiche egiziane sono a base di polveri dal vivo colore verde della malachite (idrossido carbonato di rame, Cu2CO3(OH)2), minerale che da allora in poi sarebbe rimasto alla base dello sviluppo della metallurgia della terra del Nilo. Le polveri verdi potevano essere state usate nella cosmesi funeraria dei defunti, ma avrebbero anche accompagnato questi ultimi nella vita ultraterrena.

In alto un blocco di malachite, la principale risorsa di rame metallico, ma anche di pigmenti verdi, della civiltà egiziana. In basso ushabti di colore verde, lo stesso del corpo di Osiride, il dio dei morti. Il Cairo, Museo Egizio.

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e bilanciava il potere maschile. Se nella vita privata e nel focolare domestico la donna egizia esercitava il suo fascino e gusto cromatico in un raffinato gioco di abiti, acconciature e parrucche, profumi e cosmesi, gli stessi accorgimenti e prodotti avevano ruoli di crescente importanza nelle carriere femminili possibili tra le attività di corte e del clero. L’educazione femminile non era sempre inferiore a quella dei maschi, e le donne-scriba, dopo un periodo di apprendistato, potevano aspirare alla carriera amministrativa o religiosa. Sappiamo di donne che gestivano personalmente ingenti possedimenti delegando la vendita dei prodotti a propri agenti commerciali, anche all’estero. Le regine, o «divine» donne dei faraoni,

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incorporavano poi un legame diretto tra sacro e umano: soprattutto nel Nuovo Regno (15431069 a.C.) ebbero un ruolo primario e dominante, da sole o a fianco dei mariti. Avendo possedimenti, servi e guardie a propria disposizione, una regina poteva godere non solo di indipendenza economica, ma anche dei servigi di uno stuolo di uomini ed eserciti a lei fedeli: come Hatshepsut (1479-1457 a.C.), che governò da sola per diciassette anni; Nefertiti, regina della riforma monoteistica a fianco di Akhenaton; Nefertari (1300-1260 a.C. circa), sposa regale di Ramesse II; Tausert, morta intorno al 1190 a.C., che regnò da sola al termine della XIX dinastia. E, naturalmente, la celebre Cleopatra VII (70 circa-30 a.C.): a esse, la storia, tramite i filtri dell’immaginario, ha

Cofanetto ligneo per cosmetici, dalla tomba dell’architetto Kha e della moglie Merit, scoperta da Ernesto Schiaparelli a Deir el-Medina, nel 1906. XVIII dinastia, 1539-1292 a.C. Torino, Museo Egizio. Il cofanetto, destinato a contenere oggetti di uso personale, mostra una scena di vita familiare della coppia signorile.


collegato ideali ritratti di una bellezza – sia naturale, sia arricchita da cosmesi e acconciature – tanto piú immortale, quanto assolutamente non verificabile. Anzi: quando la verifica è stata possibile, come nel caso di Hatshepsut – lo si vedrà tra poco – le delusioni non sono mancate. Il fascino di queste famosissime principesse e regine rimane tuttavia la conferma piú eloquente di come, nei secoli, il desiderio e il compiacimento di creare intorno a sé eleganza, attrattività e ammirazione siano stati componenti essenziali della costruzione della complessa società egiziana. «Se la bellezza ti sarà compagna, sarai sempre felice»: cosí è scritto su una tavoletta anonima risalente all’epoca della regina Nefertiti. L’ideale estetico del corpo umano traspare dalle pitture, dai rilievi e dalla statuaria egizia realizzata dagli artisti delle élite del Nuovo Regno, che hanno immortalato uomini e donne dall’aspetto snello, atletico e giovanile; donne con membra minute, dai fianchi ampi e seni rotondi e piccoli; con volti belli, adolescenziali, ma ricchi di femminilità, seduttivi e sensuali. La donna giovane e bella era un’altra espressione della maat: l’ideale supremo di ordine, legge, paradisiaca armonia e giustizia personificato dalla dea omonima, figlia di Ra, facilmente identificabile nelle pitture funerarie egiziane per l’elegante piuma con cui pesava le anime dei defunti per giudicarne il comportamento in vita. La piuma era fissata al capo di Maat con un semplice cerchiello, alla stregua del vezzoso ornamento di una semplice ragazzina, malgrado il suo grave significato escatologico.

Cosmetici contro il tempo Lo scorrere degli anni implacabilmente scandito dalle piene del Nilo, l’invecchiamento, dovevano essere problemi pressanti per la psiche e la percezione del ciclo vitale degli antichi Egizi. Sono veramente poche le rappresentazioni di individui anziani giunte sino a noi, e – guarda caso – sono perlopiú associate alla raffigurazione di individui di classi inferiori. Le élite del Nilo cercavano di combattere la

vecchiaia con ogni mezzo, mantenendo il fisico in forma e in buona salute. Nel clima torrido e assolato dell’Egitto ci si ungeva la pelle per evitare rughe, screpolature e scottature. Né queste pratiche erano limitate alle sole classi agiate: sotto Ramesse III (1185-1153 a.C.) vi fu uno sciopero degli operai addetti alla necropoli di Tebe, perché non venivano consegnate, oltre alle derrate alimentari, e all’indispensabile birra... le scorte di olio solare. Le sostanze cosmetiche e aromatiche, e in generale tutto ciò che serviva ad abbellire la persona, erano talmente importanti che, per chi lavorava all’interno del palazzo reale, erano perfino previste responsabilità ufficiali e cariche onorifiche come quella di «soprintendente e distributore di unguenti». L’abbellimento doveva essere la premessa per l’invenzione di un corpo perfetto e incorruttibile, e la cosmesi era spesso associata alla medicina e alla magia, per cui non meraviglia che gli ingredienti per queste pratiche fossero spesso i medesimi. Un filo sottile, ma molto netto, collegava la cosmesi dei vivi alle pratiche di trattamento dei cadaveri e imbalsamazione dei morti: la cura delle mummie e dei loro involucri assicurava agli strati superiori della società, con costosi prodotti e ricette similmente elaborati, un’ideale sopravvivenza ultraterrena, che a sua volta consolidava agli occhi di tutti il predominio sociale di chi sopravviveva. Poiché la chimica organica è straordinariamente piú complessa di quella inorganica, questo filo sottile, malgrado i continui progressi scientifici, è ancora in larga misura da esplorare. Gli Egizi padroneggiavano la produzione e l’uso di una vasta gamma di pigmenti, che utilizzavano largamente nella decorazione di oggetti e nelle pitture parietali, come pure nel confezionamento dei cosmetici che tanto spiccano nelle rappresentazioni umane, e i cui resti sono presenti, come si è detto, già nei corredi tombali piú antichi. Il trucco era un’abitudine e un obbligo sociale comune alle donne e agli uomini: il contorno degli occhi veniva sottolineato in grigio-nero o con varie gradazioni di verde. Dipinti murali datati al 1420

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qualità piú scadente, a testimoniare come la produzione e il commercio dei cosmetici di diverso costo fosse alla portata di ceti piú o meno ricchi. Il recente rinvenimento di un dipinto risalente al 2000 a.C. circa che mostra una semplice portatrice d’acqua egizia con un elaborato make up nero sul volto, che nulla ha da invidiare alle piú note decorazioni di regnanti e dignitari, conferma – se la raffigurazione va intesa in senso realistico – che il trucco femminile, a vari livelli di costo e prestigio, era una pratica quotidiana e comune a tutte le classi sociali. Del resto, altrettanto avviene ancora oggi in tutti Paesi medio-orientali. L’importanza del make up emerge direttamente anche dal pregio dei materiali e delle decorazioni dei contenitori, che si possono ammirare in innumerevoli esempi nelle collezioni egizie del Cairo, di Torino o del Louvre. Infatti la produzione di cosmetici, a sua volta, promuoveva anche quella di un’ampia classe di utensili e strumenti utilizzati per cure estetiche e make up: oltre a speciali contenitori e alle palettes, vi erano i cucchiaini da cosmetici, ciotole e piatti di materiale semiprezioso, gli applicatori, gli specchi, le pinzette e i rasoi. a.C. mostrano volti femminili con decorazioni dei contorni oculari in cui la palpebra superiore è dipinta di grigio scuro-nero, con un uso analogo a quello del cosmetico chiamato oggi kohl o kajal in tutto il bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente, e la palpebra inferiore dipinta di verde con un prodotto probabilmente a base di malachite. L’uso dei cosmetici è testimoniato anche da numerosi documenti scritti, fra i quali, in particolare, il Papiro Ebers (1550 a.C. circa). I testi riportano l’esistenza di veri e propri professionisti della bellezza: custodi delle matite cosmetiche, truccatori dei re, vari fornitori di sostanze pregiate. E persino il «ceto medio» si affidava, per la propria apparenza, ad artigiani specializzati, che sembra operassero in botteghe private. Al Museo del Louvre è conservato un contenitore di canna con una iscrizione in geroglifico che descrive il contenuto come un make up nero «originale di alta qualità». Evidentemente, ve n’erano di

In alto frammento di bassorilievo dipinto con l’immagine della dea Maat, personificazione del concetto omonimo, dalla tomba del faraone Sethi I a Tebe nella Valle dei Re. 1290-1279 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto rilievo in calcare con il profilo di una regina (o di una dea) forse identificabile con Cleopatra VII Filopatore, da Edfu. Età tolemaica. Parigi, Museo del Louvre.

Le materie prime I due principali minerali dai quali si ottenevano i colori applicati sul volto erano la galena e la malachite, combinati in varie proporzioni. Entrambi sono stati rinvenuti nelle sepolture sotto varie forme, cioè come frammenti di materiale grezzo aderente a tavolozze cosmetiche con ricettacolo centrale dette palettes, spesso scolpite in forme elaborate con immagini di esplicita propaganda reale; o altrimenti in forma di impasto, in origine malleabile e contenente il minerale polverizzato. L’uso della malachite nella cosmetica è noto in Egitto a partire dal Badariano (5500-4000 a.C.) e dall’epoca predinastica (4000-3000 a.C.) e continuò fino ai tempi della XIX dinastia (1292-1186 a.C.) e probabilmente oltre. La galena, benché usata anche nel Badariano, divenne ancor piú comune in tempi successivi, permanendo fino

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Una bellezza ambigua

L’

iconografia della regina Hatshepsut ci svela la confluenza della sua rappresentazione femminile in quella «normalizzata» dei faraoni maschi, con tanto di barba posticcia e urei sul copricapo (i tradizionali attributi regali) nel moltiplicarsi delle sue statue in forma divina, in atteggiamento devozionale e come sfinge. In questa congiuntura, tuttavia, nell’arte egiziana «fa l’ingresso un ideale di bellezza

completamente nuovo, improntato a un modello di adolescenziale giovinezza in cui i tratti di genere sono ridotti al minimo, ispirati a una bellezza acerba, androgina; la carica sensuale è qui legata all’eleganza delle forme: ovunque si ritrovano, per uomini e donne, dèi e dee, corpi flessuosi e longilinei, vita stretta, muscolatura delicata, tratti fini» (Marilina Betrò). Si ritiene che quest’onda di sottile e ambigua trasformazione di genere, che

al periodo Copto (300-650 d.C. circa). Malachite e galena erano entrambe di origine locale: la prima abbondava nel Sinai ed era reperibile nel deserto orientale, mentre la galena era importata da sud (Assuan) e dalla costa del Mar Rosso. Nelle tombe, i blocchetti grezzi di malachite e galena si trovano conservati e deposti all’interno di sacchetti di lino o cuoio, ed è probabile che fossero commerciati in contenitori dello stesso genere. A differenza di altri minerali cristallini, che, una volta macinati, perdono il colore che hanno allo stato solido, malachite e galena producono polveri che, pur schiarendo un po’, mantengono i rispettivi colori di origine. Le materie prime venivano polverizzate mediante pestelli all’interno di mortai, poi mescolate su apposite tavolozze con una o piú sostanze leganti. Non è ancora noto con cosa esattamente fossero mescolate le polveri coloranti. Le analisi indicano talvolta residui di materiale grasso; ed è probabile che venissero impiegate anche acqua o resine. Non si può escludere, tuttavia, che il prodotto base venisse impastato con il legante solo al momento dell’estrazione e dell’applicazione al viso. L’impasto pronto per l’uso era posto all’interno di conchiglie o di cavi segmenti di giunco, avvolto in foglie oppure contenuto in piccoli

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attenuava nella reinvenzione dei canoni formali dell’adolescenza le differenze tra maschi e femmine, potrebbe essere stata una reazione voluta e programmatica alla precedente costrizione della bellezza femminile entro i canoni dell’estetica e della forma del potere maschile, da parte di una donna potente e autorevole abbastanza da sfidare uno degli aspetti piú visibili e cardinali dell’ideologia del potere della nazione.

A sinistra statua in granito di Hatshepsut come regina, in vesti femminili, il cui volto è molto aderente ai suoi veri lineamenti, da Deir el-Bahari. 1473-1458 a.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. Nella pagina accanto Statua di Hatshepsut con gli attributi faraonici (la barba posticcia, l’ureo) e il copricapo khat. Berlino, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Neues Museum.

vasi di varia foggia, materiali e dimensioni. A volte, vasetti in faïence riproducevano la stessa forma dei piú umili segmenti di canna (per inciso, la parola italiana canna deriva dal greco kanna, che a sua volta sembra derivare dall’accadico qanû, giunco: a riprova


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

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dell’universalità di questo elementare contenitore standardizzato del mondo antico). Quando il kohl, nelle tombe, si trova sotto forma di massa solida, esso conserva l’impronta interna cilindrica del suo contenitore, anche quando il giunco è scomparso (confermando che si trattava di un impasto morbido in seguito essiccato). Oltre alla galena e alla malachite anche altre materie impiegati per il trucco degli occhi e del volto sono di origine locale (carbonati e ossicloruri di piombo, ossido di rame, ocra, magnetite, ossido di manganese, crisocolla). Tuttavia, molti prodotti potevano essere ottenuti da regioni lontane, dove erano ampiamente disponibili. Per esempio, sappiamo che, a partire dal II millennio a.C., l’antimonio proveniva dall’Asia Minore, dall’Iran e dall’Arabia. Le fonti scritte parlano di coloranti per gli occhi provenienti dall’Asia, da Nhrn (la regione del regno di Mitanni, nell’Anatolia nord-orientale), dalla Siria settentrionale e dall’esotica terra di Punt (l’attuale Corno d’Africa).

Sulle tracce dei medici e chimici Gli antichi Egizi attribuivano ai cosmetici anche un ruolo chiaramente magico: pensavano che chi li utilizzava avrebbe ricevuto protezione divina contro malattie e pericoli, sia naturali, sia soprannaturali. Galena e malachite hanno ben note proprietà antibatteriche, e ciò suggerisce che tale protezione «magica» potesse in realtà derivare dall’osservazione di effettive proprietà curative. Papiri di argomento medico suggeriscono che il trucco fosse pensato come

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una sorta di «lozione» salutare per la pelle, e in particolare per la cura delle malattie oculari. Contemporaneamente, esso poteva avere funzione di protezione da altre forze negative, in primo luogo dal malocchio; i due presunti effetti protettivi si combinavano in un’arcaica funzione medica. Il malocchio è una credenza molto radicata nella nostra specie, giunta fino a oggi da epoche molto antiche. Essa riguarda il potere dello sguardo altrui di produrre sulle vittime effetti negativi, fra i quali le malattie, a volte con esiti letali. Altre forze negative agivano per volere delle divinità a punire, in modo talvolta oscuro e impenetrabile, i comportamenti umani devianti. Nella civiltà egizia è presente una precoce tradizione medica oftalmologica, tramandata nella medicina del periodo greco-romano. Il già citato papiro Ebers descrive ricette per colliri, impacchi e cosmetici utili a curare varie malattie tra cui infiammazioni o infezioni congiuntivali. Un altro papiro medico egiziano raccoglie un centinaio di ricette per trattare problemi di palpebre, iride e cornea, cosí come congiuntiviti e tracoma. Alcuni ingredienti sarebbero malachite e derivati del piombo. Iscrizioni geroglifiche trovate su tre contenitori in canna vegetale della XIII dinastia (1797-1650 a.C.), contenuti in una stessa scatola, permettono di distinguere il primo come kohl, nella lingua egizia, come si è detto, msmdt, mentre gli altri due sono appellati come «lozioni da mettere sugli occhi, buone per la vista». Il primo conteneva galena, gli altri due un misto di cloruri e carbonati di piombo, principalmente cerussite (carbonato di piombo,

In alto «cucchiaio» portatrucco in legno e avorio in forma di una giovane nuotatrice che tiene un’anatra. 1950 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto cofanetto ligneo dipinto con contenitori di varia foggia per cosmetici, dalla tomba dell’architetto Kha e della moglie Merit, scoperta da Ernesto Schiaparelli a Deir el-Medina, nel 1906. XVIII dinastia, 1539-1292 a.C. Torino, Museo Egizio.


PbCO3), laurionite (ossicloruro di piombo, Pb(OH)Cl) e fosgenite (clorocarbonato di piombo, Pb2Cl2CO3). Questi tre ingredienti minerali di colore bianco ricorrono con notevole frequenza in molte preparazioni cosmetiche (probabilmente, fondotinta chiari) sinora

analizzate con metodi moderni, almeno a partire dagli inizi del II millennio a.C. La cerussite, a noi ben nota anche con il nome di biacca, utilizzata e prodotta artificialmente fino a oggi, si trova in natura associata alla galena, in particolare, per quanto riguarda l’Egitto, in depositi presso il Mar Rosso. Al contrario, laurionite e fosgenite sono molto rare in natura, e tutto suggerisce che non potrebbero essere estratte in quantità sufficiente per l’uso esteso che si evince dai reperti archeologici. È stata valutata la possibilità che i due minerali siano dovuti alla trasformazione dei minerali di piombo contenuti nei cosmetici, per azione di acque salate infiltrate nelle tombe, ma questa ipotesi è contraddetta, oltre che dal clima

Sulle ali del nibbio

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e ricette cosmetiche, parzialmente giunte fino a noi grazie ai cosiddetti «papiri medici» venivano elaborate salmodiando formule scaramantiche per propiziare l’aiuto degli dèi agli artigiani, purificare le preparazioni e allontanare gli spiriti maligni. E ciò avveniva con apparati materiali e risorse tecnologiche piuttosto diversi da quelli odierni: una fantasiosa ricetta per prevenire i capelli bianchi suggerisce di spalmarsi «con un unguento fatto con la vertebra di un uccello mescolata a puro laudano, poi stendere la mano sul dorso di un nibbio vivo e appoggiare la testa su una rondine viva». Il significato simbolico che gli Egizi attribuivano al nibbio, un rapace migratore che in un momento dell’anno spariva alla volta di luoghi misteriosi, e puntualmente ricompariva l’anno seguente, era legato all’idea che portasse via con sé il male e la negatività. Si

intravede a questo proposito la credenza ancora attuale, giunta sino a noi tramite l’omeopatia, per la quale il simile cura il simile: una

ricetta per scurire le chiome schiarite dall’età, infatti, prescrive la mescolanza di preparati ricavati da animali rigorosamente neri.

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generalmente secco del Paese, dall’eccellente stato di conservazione dei contenitori e dalle iscrizioni geroglifiche in inchiostro nero ancora perfettamente leggibili, quindi non dilavate, all’esterno di alcuni flaconi. Possiamo quindi concludere che laurionite e fosgenite erano sintetizzate e artificialmente prodotte da chimici professionisti? Come vedremo (e dovremo approfondire la questione), sembra di sí. In realtà, alla domanda se nel mondo egizio lavorassero chimici esperti nella produzione di pigmenti artificiali potremmo già rispondere affermativamente: basti pensare alla produzione dell’artificiale blu egizio (o cuprorivaite), che dalla metà del III millennio in poi richiedeva un trattamento molto protratto ad alta temperatura e in ambiente ossidante di carbonato di calcio, rame e silice secondo precise proporzioni quantitative. E, come

A destra specchio in bronzo levigato e lucidato, da Tebe. XVIII dinastia, 1543-1292 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. Nella pagina accanto particolare del Papiro dei Re con scene di prostituzione, da Deir el-Medina. XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Torino, Museo Egizio. In basso pettine, da una casa d’epoca meroitica nella fortezza di Qasr Ibrim, in Nubia. 300 a.C.-350 d.C.

Il primo rossetto

L’

iconografia egizia ci mostra, nel cosiddetto «papiro erotico» di Torino (XII secolo a.C.), la rara immagine di una donna nell’atto di colorarsi le labbra, apparentemente con uno spazzolino. È la piú antica raffigurazione al mondo dell’applicazione di un rossetto. Potrebbe trattarsi di ocra rossa o di polvere di ematite (ossido di ferro), che potevano essere mescolate con una base oleosa o con cere. Un rilievo del Medio Regno conservato al British Museum mostra una donna, specchio alla mano, che applica sul volto con un tampone un prodotto che potrebbe essere un fondotinta chiaro, o un belletto tendente

al rosso. Questo spiegherebbe la presenza, in sepolture egizie, di pigmenti rossi essiccati e ancora aderenti alle palettes cosmetiche. Generalmente si tratta di resti di preparati fatti in prevalenza di ossido di ferro (ematite, Fe2O3). Il materiale contenuto in un vasetto per cosmetici del Medio Regno conteneva notevoli quantità dello stesso materiale, mescolato con materiale vegetale, forse a sego, e a parti di gomma o resina. Il prodotto finale era di tonalità rossa. Prodotti analoghi trovati a Helvan (presso Menfi, I Dinastia, 3100-2890 a.C.) erano formati da ossido di ferro e carbonato di calcio, mescolati a materiali grassi di origine organica.

vedremo, per quanto ora sappiamo, la chimica a umido dei cosmetici aveva radici ben piú antiche, e ancora piú orientali. I progressi della chimica e della cristallografia hanno aperto nuove prospettive di studio dei materiali e delle preparazioni chimiche dell’antichità, portando alla nascita di un ambito di studio interdisciplinare definito da Georges Tsoucaris e Janusz Lipkowski «archeologia molecolare e strutturale». Questo approccio,

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che combina archeologia, storia antica e scienze fisiche, aiuta a ricostruire lo scenario della produzione e della successiva trasformazione nel seppellimento dei materiali antichi, contribuendo al passaggio da interpretazioni storiche avanzate a priori, che talvolta si rivelano prive di fondamento, a ricostruzioni storiche piú obiettive. Il microscopio elettronico a scansione, la diffrazione ai raggi X, la gas-cromatografia e la spettrometria di massa si sono rivelate illuminanti per tentare di comprendere origini, metodi di produzione e obiettivi dell’industria

cosmetica nell’antichità. Lo studio dei cosmetici egizi del Louvre (II millennio a.C.), condotto da Philippe Walter, Pauline Martinetto e dai loro collaboratori, ha identificato in tre quarti dei campioni vari composti del piombo: la galena, come sappiamo di colore scuro, e tre i materiali bianchi di cerussite, fosgenite e laurionite. L’esistenza di ben tre minerali a colorazione bianca, anche simultaneamente nello stesso cosmetico, fa sospettare che essi in realtà dessero origine a un colore diverso da un semplice bianco-grigio, forse per la presenza di impurità colorate.

Formule e prescrizioni A proposito della laurionite, sappiamo che se si fanno reagire in laboratorio ossido di piombo e polvere di salgemma in acqua povera di carbonati si forma un precipitato che corrisponde appunto a questa sostanza. La formula, per chi ricorda la chimica del liceo, è la seguente: PbO + NaCl + H2O → Pb(OH)Cl + NaOH. Al progredire della reazione si forma idrossido di sodio (NaOH), una base forte, e il conseguente incremento del pH (misura di acidità) porta alla formazione di prodotti diversi dalla laurionite. Come poteva essere rimosso l’eccesso di basi facendo progredire la reazione? La soluzione a questo problema, insieme alla descrizione dell’intero processo, si trova nei testi di Dioscoride (I secolo d.C.): bisognava «porre a riposare la mistura, poi rimuovere l’eccesso di acqua alcalina e aggiungere acqua salata fresca, ripetere l’operazione tre volte al giorno per trenta giorni, fino a quando la soluzione perde l’alcalinità». Se la stessa reazione viene effettuata con natron (Na2CO3), un carbonato di sodio naturale di origine evaporitica, abbondante in Egitto nella zona del Wadi El Natrun e molto usato nella mummificazione, come nell’industria del vetro, si viene a formare la fosgenite. Va precisato che noi non abbiamo una descrizione originale egizia di procedure analoghe a quella condotta sperimentalmente in laboratorio. Tuttavia, la notevole frequenza

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A sinistra, in alto contenitore per kohl in forma di un fascio di canne, su cui corre un’iscrizione che cita Hatshepsut come consorte del dio. 1479-1457 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra, in basso contenitore per kohl con il suo bastoncino, dalla tomba di Hatnefer e Ramose a Tebe. 1479-1457 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.


Tebe. Il delicato profilo di due giovani donne nel particolare di uno dei rilievi della tomba di Menna, scriba contabile del faraone Thutmosi IV. 1397-1387 a.C.

nei cosmetici di questi materiali cosí scarsi in natura, e le descrizioni dei testi greco-romani, forse tramandate proprio dagli Egizi, rendono credibile una loro produzione artificiale in epoche remote. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) e Dioscoride riportano infatti l’esistenza di ricette per la produzione di derivati del piombo, e ne propongono l’uso per la cura di alcune malattie oculari. Per Dioscoride «sembrano essere una buona medicina da mettere negli occhi, sulle cicatrici inestetiche e sui visi con molte rughe e foruncoli». Sia Plinio il Vecchio, sia Vitruvio (attivo in età augustea) descrivono accuratamente il procedimento per produrre la cerussite, detta anche cerussa e in seguito biacca, basato sulla carbonatazione in ambienti ricchi di anidride carbonica di lastre di piombo. L’ipotesi che le ricette riportate da Plinio e

Dioscoride riflettano l’eredità di una tradizione molto piú remota, risalente all’area egizia e vicino-orientale, è sostenuta anche dalla recente scoperta di tecniche di produzione artificiale di cerussite in Iran, di tremila anni piú antiche delle informazioni degli autori classici. I procedimenti descritti nelle fonti del periodo romano-ellenistico deriverebbero quindi da conoscenze radicate in millenni di sperimentazioni e conoscenze precedenti.

Le creme di Hatshepsut Figlia di Thutmosi I (1497-1483 a.C.), il sovrano che per primo estese i confini del regno fino alle sponde dell’Eufrate, Hatshepsut sposò il fratellastro Thutmosi II (1483-1480 a.C.) e, sebbene fosse stata designata dal padre come erede, dovette limitarsi al ruolo di «grande

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sposa reale». Quando Thutmosi II morí, non ancora trentenne, e il trono finí nelle mani di uno dei suoi due figli, Thutmosi III (14791424 a.C.), Hatshepsut lo affiancò in qualità di reggente; ma subito rivendicò la designazione regale fatta da suo padre e cominciò a occuparsi dello Stato. La regina ristabilí il controllo sui Paesi usciti dalla sfera di influenza egizia negli anni degli Hyksos e organizzò l’imponente, celebre spedizione commerciale verso la misteriosa terra di Punt. Al suo attivo sono anche campagne militari punitive contro le tribú siro-palestinesi e nubiane, nonché l’abbellimento del complesso templare di Karnak e la costruzione e decorazione del tempio di Deir el-Bahari, all’ingresso della valle di Re, progettato da Senenmut, suo architetto personale. Oltre a queste grandi imprese, della regina ci sono giunte... le creme di bellezza.

Michael Höveler-Müller e Helmut Wiedenfeld, dell’Università di Bonn, in collaborazione con gli archeologi egiziani, hanno analizzato il contenuto di alcune piccole ampolle alte 15 cm circa, recanti il sigillo di Hatshepsut e che si riteneva contenessero il suo profumo. Nei flaconi fu invece trovata una crema per la pelle, che

A sinistra cristalli di galena, un solfuro di piombo che, in polvere e mescolato ad altri ingredienti, si utilizza, nonostante l’elevata tossicità, per fabbricare il kohl, con il quale, ancora oggi, vengono truccati gli occhi in molte regioni del globo. In basso contenitori per kohl in forma del dio Bes, dalla tomba di Isi a Edfu. Antico Regno, 2700-2195 a.C. Parigi, Museo del Louvre.


forse Hatshepsut usava per curare inestetici eczemi che la affliggevano. Va detto che Thutmosi II soffriva di una malattia cutanea eczematosa, probabilmente psoriasi, che risulta molto comune tra consanguinei. Hatshepsut avrebbe potuto quindi presentare la stessa malattia del fratellastro. La crema di bellezza di Hatshepsut era a base di olio di palma e olio di noce moscata, ma conteneva anche sostanze che oggi sappiamo essere molto cancerogene, fra le quali il catrame e in particolare il benzopirene.

combaciante con il molare trovato in precedenza all’interno di uno scrigno canopico proveniente da Deir el-Bahari. La parte di radice mancante dal dente era nella mascella della mummia, il che ha fugato gli ultimi dubbi sul suo riconoscimento. Gli studi sulla mummia mettevano in evidenza che Hatshepsut era Port Sudan

Mar Rosso Eritrea Asmara

Ras Cascian

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Nel 2007 la mummia di Hatshepsut è stata riconosciuta nei resti di una donna di mezz’età, obesa, dalla pessima dentatura, dai capelli ramati ma quasi calva, alta poco meno di 160 cm (vedi foto a p. 57). Indossava smalto nero e rosso, aveva ancora tracce di profumi. Alla mummia mancava un dente perfettamente

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Nil

La conferma in un dente mancante

Rub al-Khali

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Golfo di Aden

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Gibuti andab Gibuti Altopiano

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Cartine nelle quali, con il triangolo di colore rosso, sono indicati i principali siti in cui si estraevano la galena e la malachite, minerali utilizzati dall’industria cosmetica egizia.

Dori Wilusa Grecia

Hatti

Arzawa

Mitanni Cipro

Basso Egitto Tribú libiche

Sciti

Colchide Iberia

Assuwa

Creta

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Medi Assur

Aramei Retenu (Canaan) Amorrei Sinai

Tribú iraniche Mesopotamia (Babilonia) Elamiti

Culture nordarabiche

Dilmun Alto Egitto

Magan

Tribú arabe

Tribú ciadiche N NO

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Kush (Nubia)

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Tribú etiopiche

Culture sudarabiche

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EGITTO

obesa, forse diabetica: evidentemente sarebbe meglio che la bellezza di regine e principesse, come vari tipi di fede, non fosse indagata scientificamente. Hatshepsut soffriva inoltre di un tumore a localizzazione ossea. Quest’ultima scoperta ha suggerito ad alcuni che il tumore sia stato indotto proprio dall’uso intensivo sul corpo di questo tipo di creme. Basti pensare che ancora oggi la psoriasi può essere curata con trattamenti

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topici naturali (creme e pomate) contenenti sostanze che contrastano l’iper-proliferazione dei cheratinociti (il tipo di cellule piú comune nella pelle), alla base della lesione causata dalla psoriasi. Fra i piú usati sono il catrame minerale (da carbon fossile), l’ittiolo solfonato e lo zolfo. Il catrame minerale ha una azione inibente sulla sintesi del DNA dei cheratinociti e il suo modo d’agire è molto simile a quello dei raggi ultravioletti.


Ostrakon in calcare con la figura di una danzatrice impegnata in un esercizio acrobatico, da Deir el-Medina. Nuovo Regno, 1543-1069 a.C. Torino, Museo Egizio.

I benzopireni sono contenuti nel catrame di carbone fossile e sono stati fra i primi cancerogeni riconosciuti nella storia della medicina: sono tra i prodotti di combustione del fumo di sigaretta, del legname, di molti idrocarburi, della cottura alla griglia dei cibi. Gran parte della patologia tumorale studiata su reperti preistorici e storici suggerisce un ruolo delle combustioni in ambienti confinati e delle cotture alla fiamma nello sviluppo tumorale. Si potrebbe quindi pensare che gli Egizi avessero individuato un trattamento utile per le lesioni cutanee indotte dalla psoriasi, e per di piú con farmaci di impiego attuale. Grandi medici, dunque. Continuiamo tuttavia a chiederci se si trattava dell’effetto secondario e indesiderato di un farmaco, come purtroppo se ne registrano ancora oggi, oppure delle gravi conseguenze dell’ossessione reale per la bellezza.

Malattia o estetica del grasso? La sequenza di pannelli a bassorilievo scolpiti nel tempio di Hatshepsut illustra la spedizione che la regina inviò lungo il Mar Rosso fino a Punt, intorno al 1482 a.C. Il capo di Punt, Parehu, sua moglie Ity e la scorta, con un bell’asino, portano doni alla regina egiziana. L’intera famiglia ha una carnagione rosso mattone e capelli neri, gli stessi colori usati per i membri della spedizione, e gli abitanti di Punt sembrano di etnia simile a quella egizia. L’iscrizione in caratteri geroglifici vicina al re lo definisce «il Grande di Punt, Parihu», mentre al di sopra delle orecchie dell’asino si legge «il grande asino che porta sua moglie». La rappresentazione della regina di Punt è un notorio, pubblico quanto misterioso trionfo dell’obesità. Oltre a quattro pieghe di grasso sul ventre e i grossi seni flaccidi, questa donna, di statura normale, è deformata da enormi cuscinetti alle braccia, alle cosce e alle ginocchia, risparmiando relativamente le estremità, proprio come

alcune delle immagini preistoriche che abbiamo passato in rassegna in precedenza. Un’ipotesi avanzata in passato voleva che la regina di Punt fosse di affinità Khoi-san (ottentotta), cioè di un’etnia indigena dell’Africa sud-orientale. Infatti le donne ottentotte, di bassa statura, presentavano spesso un’importante massa glutea, che nel linguaggio medico viene chiamata steatopigía. Nel XIX secolo e in epoca coloniale, alcune donne ottentotte erano state rapite e portate in giro per l’Europa, messe in mostra come fenomeni da baraccone, come esempi viventi dell’arretratezza delle popolazioni africane «primitive», mentre, ai nostri occhi, l’arretratezza mentale era solo dalla parte degli spettatori. Sciocchezze e preconcetti razzisti a parte, Punt, identificata quasi universalmente con la costa eritrea e somala, è però troppo lontana dal Capo di Buona Speranza. Agli occhi della medicina contemporanea, la regina doveva invece soffrire inoltre di una grave iperlordosi con bacino sbilanciato all’indietro. Altra ipotesi medicale è quella di un ipotiroidismo con grave mixedema, o ancora un’acondroplasia malformativa o malattia di Dercum, cioè una neurolipomatosi che associa obesità, masse adipose dolorose principalmente sull’addome e nella parte prossimale degli arti. La regina indossa il suo apparato di seduzione – un vestito giallo, bracciali, cavigliere, una collana e una catenina – e i capelli sono legati con una fascia sulla fronte. Nel contesto del rilievo di Hatshepsut, lo stile complessivo delle immagini e il tono delle sue iscrizioni non sembrano voler ridicolizzare la famiglia reale di Punt, come a noi, dato l’aspetto grottesco del ritratto, verrebbe spontaneo pensare; ma piuttosto a rispettarne l’identità con una documentazione quasi «fotografica», anche se in un contesto di chiara subordinazione all’intraprendenza e (segue a p. 54)

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EGITTO

Ritratto di Elisabetta I Tudor (1533-1603). Londra, National Gallery. La regina era solita stendere sul viso una pasta cosmetica derivata dal piombo, la biacca, che le donava la caratteristica carnagione spettrale. Nella pagina accanto parte superiore della mummia di una donna egizia. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Anche in questo caso, nella caratterizzazione del ritratto, spicca il biancore del volto.

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Piombo sul viso: buono o cattivo?

P

uò sorprendere l’uso, già dalla preistoria, di cosmetici formati in larga misura da piombo e da suoi composti. Un comune sentire, ampiamente divulgato dalla cultura allarmista del web, continua a sottolineare gli effetti tossici del metallo, e, con impliciti toni moralisti, a stigmatizzare come le donne, da sempre, sembrino essere state disposte ad avvelenarsi pur di apparire belle. Naturalmente, non vi sono dubbi sul fatto che il piombo ingerito in quantità significative sia tossico. Tuttavia, questa non è tutta la verità. Il chimico Francese Christian Amatore ha studiato sperimentalmente l’effetto del piombo contenuto nei cosmetici del passato sulle cellule cutanee, dimostrando un incremento del livello di stress ossidativo cellulare, in sostanza, un aumento delle difese immunitarie locali. Queste osservazioni suggeriscono che, con l’applicazione del make up a base di piombo attorno alle palpebre, gli occhi degli Egizi fossero piú resistenti alle contaminazioni batteriche che, in un clima tropicale umido e paludoso, e soprattutto nei periodi di piena del Nilo, dovevano essere frequenti, come ci informano anche le cronache di viaggio di Giovanni Battista Belzoni (1778-1823). Peraltro, lo studio dell’interazione fra piombo e cute indica che il metallo, anche se addizionato con materiali oleosi, si fissa in realtà nel primo strato dell’epidermide, lo strato corneo, senza penetrare in profondità. Queste recenti osservazioni possono forse spiegare perché oggi composti di kohl a base di galena continuano ad essere abbondantemente usati nel Medio Oriente, a quanto pare con limitata incidenza di avvelenamento.

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EGITTO

Bianco e friabile

M

olti sono i nomi con i quali si indica un prodotto che ha avuto per secoli impieghi in ambito cosmetico, artistico, alimentare e medico. Nella produzione tradizionale della cerussite, che si è tramandata fino al XX secolo, il piombo metallico veniva ridotto a strisce ed esposto per 1-3 mesi in recipienti di terracotta che avevano due compartimenti separati, quello inferiore per contenere una soluzione diluita di aceto, il superiore per posizionare le strisce di piombo avvolte a spirale e sospese al di sopra dell’aceto. I recipienti venivano accatastati e ricoperti di letame fresco di cavallo o cortecce di quercia, che, fermentando,

producevano calore e anidride carbonica. L’azione combinata dei vapori di aceto, dell’acido carbonico e del calore prodotto dalla fermentazione trasformavano la superficie del piombo in carbonato basico di piombo. Questo prodotto bianco e friabile veniva periodicamente grattato via e i frammenti di piombo metallico venivano rimessi nei recipienti per proseguire la reazione chimica. Gli studi piú recenti stanno rivelando che la cerussite artificiale formava la base per un’ampia serie di fondotinta, belletti e ombretti di diverso colore, ampiamente usati da donne e probabilmente anche da uomini, nel III millennio a.C. , dalla Mesopotamia all’India.

alla potenza degli Egizi e del loro sovrano. Si è detto che l’aspetto della regina poteva essere stato inteso dai viaggiatori egizi come un particolare tipo di bellezza: il tipo di donna piú ammirato dalla cultura locale. Si è pensato anche che ciò fosse in accordo con il gusto estetico dei nativi di alcune zone dell’Africa osservato anche in età moderna, come, per esempio, riportava l’esploratore britannico John Hanning Speke (1827-1864), il primo europeo a raggiungere il lago Vittoria, nel descrivere le fattezze della moglie favorita del fratello del re di Karagoue (nell’attuale Repubblica Centrafricana). In molte regioni tradizionali africane, dalla Tunisia al Sud Africa, inoltre, sopravvive la pratica del leblouh, la nutrizione forzata delle bambine – spesso accompagnata da maltrattamenti –, allo scopo di indurre l’obesità, considerata dalle madri come attributo di grande bellezza e unica garanzia per il futuro matrimoniale delle figlie. Del resto, l’apprezzamento dell’obesità femminile distingueva anche altri contesti socio-culturali, tra i quali la piú «civile» dinastia

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In alto cristalli di cerussite, carbonato di piombo dal quale si ricavava la «biacca» o «cerussa». Nella pagina accanto frammento di calcare dipinto raffigurante il profilo di Ramesse VI. Nuovo Regno, XX dinastia (1143-1136 a.C.). A sinistra un bambino indiano con il contorno degli occhi delineato con il kohl.


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EGITTO

persiana Qajar (1789-1825); le fotografie di corte e del tempo indugiano su donne a volte monumentali, sui massicci volti delle quali spiccano, piú del trucco, folte sopracciglia nere unite alla radice del naso.

I coni del mistero All’inizio del Nuovo Regno compare nell’iconografia egizia un sorprendente oggetto a forma di cono bianco o colorato posto sul capo. Lo stesso enigmatico cono continua a comparire fino al periodo tolemaico nelle raffigurazioni di tombe d’élite, stele, papiri e sarcofagi. L’oggetto, che pare in precario equilibrio, sembra indossato da uomini e donne ospiti di banchetti, oppure dai proprietari di tombe partecipanti a rituali funerari, mentre vengono ricompensati dal re o adorano divinità, in contesti di pesca e caccia nell’aldilà, di danza, musica, e scene legate al parto. I coni erano rimasti fino a ora un mistero: non si sapeva se fossero reali oggetti tridimensionali, destinati ad abbellire, oppure raffigurazioni simboliche riferite a rituali di unzione, o a concetti ancora piú astratti. Alcune scene mostrano i coni durante la loro fabbricazione o il posizionamento sul capo, cosa che sembrava escludere interpretazioni puramente simboliche. L’ipotesi ricorrente era che fossero blocchi di unguento a base di grasso o cera e mirra che sciogliendosi per il calore (i lati della testa sono la parte piú calda del corpo umano) profumavano e purificano i capelli dei portatori. L’idea nasceva in parte da raffigurazioni parietali di rituali di unzione, eseguiti con oli e profumi, che comprendevano anche i coni indossati; e in parte dalle osservazioni di alcuni gruppi africani contemporanei, che applicano allo stesso scopo grasso animale profumato alla propria capigliatura. I coni, che spesso figurano su donne nude, apparivano in relazione specifica con la sensualità, la sessualità e contesti di invocazione alla dea della fertilità Hathor. Nel mondo egizio gli unguenti purificavano il portatore, elevando il suo stato al cospetto della divinità o dopo la morte; cosí, nelle scene

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tombali, i coni sembravano contribuire alla rinascita del proprietario della tomba, alla sua contentezza, al suo raggiunto status di spirito perfetto: forse, si pensò, nell’aldilà i coni potevano rappresentare il ba, la manifestazione energetica che sopravviveva e poteva spostarsi dalla tomba interagendo con i vivi. Amarna, un tempo Akhetaten, era stata creata dal faraone monoteista Akhenaton come casa di culto per il dio sole Aton e fu occupata tra il 1347 e il 1332 a.C. Negli apparati decorativi delle tombe scavate nella roccia, appartenenti ai funzionari, i morti sembrano non unirsi piú a Osiride e agli dèi degli inferi, ma rimanere invece nel mondo dei vivi, risvegliandosi a ogni alba sotto la forma di un ba per adorare il dio

Il tempio di Hatshepsut a Luxor.


del sole del nuovo culto nazionale ed essere da lui eternamente nutriti. I cimiteri della gente comune sono stati al centro di indagini archeologiche dal 2005, con circa 700 tombe scavate in quattro necropoli. Lo studio dei pochi sarcofagi e stele qui rinvenuti suggerisce invece che la gente comune avesse una gamma piú ampia di risposte alla morte, che attingevano sia al nuovo culto solare, sia agli elementi piú tradizionali del culto di Osiride. Il cono sul capo è presente nel vocabolario artistico di Amarna in varie forme. Nelle tombe d’élite, viene di solito indossato dal proprietario della tomba, raffigurato nell’atto di lodare Aton e di essere ricompensato da Akhenaton. Nei cimiteri non elitari, le persone che indossano i coni partecipano a riti funerari che offrono e preparano la sepoltura, servono e probabilmente partecipano a banchetti, suonano, compiono riti funerari compreso il ricevimento delle offerte, ricevono ricompense reali. Solo da poco, esemplari di questi coni sono stati rinvenuti nel corso di scavi qui condotti da ricercatori di Cambridge, e pubblicati nel 2019. Il primo dei coni di Amarna proviene dalla tomba di una donna di 20-29 anni. Il cono è stato ritrovato, come dicono gli archeologi, in situ, sulla sommità della testa della defunta, sopra capelli ancora ben conservati. La forma complessiva sembra quella di una piccola A destra la mummia di una donna identificata con la regina Hatshepsut. Il Cairo, Museo Egizio.


EGITTO

cupola, alta in origine 8 cm, e larga 10. È di color crema, fragile, a forma di guscio vuoto, forse sostenuto, a giudicare dalle impronte da un supporto tessile. Quelli di Amarna erano quindi coni tridimensionali, dei quali ci resta l’esterno. Erano forse modellati attorno a un batuffolo di tessuto, o con un rivestimento interno in tessuto che conferiva all’oggetto resistenza strutturale. Le pareti hanno spessore irregolare, e sono attraversate da piccole gallerie scavate da insetti. Un secondo cono proviene dalla tomba violata di un individuo di 15-20 anni, di sesso imprecisato, con tronco disarticolato. Sotto il cranio, il cono

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Nella pagina accanto, in alto un ritratto femminile dipinto dalla pittrice persiana Mirza Baba (1795-1830). In basso particolare di uno dei rilievi del tempio di Hatshepsut nel quale è ritratta la regina Ity, moglie del re di Punt.

si presentava in tre pezzi, all’interno di una massa di capelli. La parola è stata quindi data alle analisi archeometriche.

Il responso delle analisi Per riconoscere la composizione dei coni sono stati impiegati metodi di analisi chimico-fisica che permettono di identificare elementi e gruppi molecolari caratteristici di composti organici e inorganici. Gli spettri rilevati dall’interno di entrambi i coni mostrano picchi caratteristici delle cere. Picchi aggiuntivi si riferiscono nel primo cono a complessi di calcio e acidi grassi (tipici prodotti di decadimento


delle cere), mentre il secondo mostrava tracce di carbonato di calcio. Poiché la cera d’api è l’unica cera biologica attualmente nota per essere stata utilizzata dagli antichi Egizi, si può pensare che essa fosse la materia prima dei coni. La cera doveva essere stata mescolata a sostanze profumate. «I coni si scioglievano lentamente nel corso degli eventi sociali, colando lentamente sulla faccia e sul corpo. Chi li indossava finiva per avere la faccia lustra e la pelle profumata, e presumibilmente parrucca e vestiti che, il giorno dopo, necessitavano di una buona lavata. Per fortuna sono passati di moda!» (Shauna Roberts).

A sinistra una «donna di razza boscimana» in una tavola basata sulle osservazioni compiute su Saartjie «Sarah» Baartman, una giovane di etnia khoi-khoi che, ribattezzata Venere Ottentotta, fu portata in Europa ed esibita come fenomeno da baraccone.

È ragionevole supporre che qualsiasi profumo, nei secoli, sia ampiamente evaporato e quindi, se anche la cera fosse stata impregnata di profumo, quest’ultimo potrebbe essere stato al di sotto della sensibilità di rilevamento delle tecniche di analisi impiegate. Non sappiamo, comunque, come e quanto i coni si sciogliessero, o per quanto tempo essi emanassero profumo, né se fossero in dotazione a individui speciali. Certo non si trattava di gente particolarmente ricca: i due corpi erano avvolti in tessuto, arrotolati in una stuoia di materiale vegetale e sepolti in una fossa scavata nella sabbia, né ci sono tracce evidenti di mummificazione artificiale.

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EGITTO

Foto e rilievo di una sepoltura femminile scavata ad Amarna, in cui la defunta conservava i resti di un cono di cera sopra la testa.

L’individuo del cono 1 ha un’acconciatura a trecce lunghe, estensioni e riccioli finali non insolita per gli occupanti della necropoli; ha segni di artrosi alla spalla sinistra e ai gomiti, una frattura spondilolitica della quinta vertebra lombare, non ben riparata, per stress biomeccanico. Anche l’altro individuo ha subito fratture, una delle quali al primo metacarpale destro, guarita con scarso allineamento, cosa che forse ridusse la funzionalità della mano destra. Entrambi hanno ipoplasia lineare dello smalto dentale, indicativa di intensi periodi di sopravvivenza a forti stress durante l’infanzia: tutte caratteristiche comuni alla popolazione egizia di ceto medio-basso della stessa epoca.

Farsi belli per l’aldilà Come altri oggetti trovati nelle tombe di Amarna (specchi, pinzette, pettini, set per il trucco degli occhi, principalmente nelle sepolture femminili), ciondoli e altri gioielli, i coni profumati potevano essere parte degli apparati di una bellezza destinata all’oltretomba, e aumentare cosí la carica simbolica o rituale di queste sepolture. Che i coni siano stati identificati per la prima volta ad Amarna, potrebbe dipendere dall’accuratezza

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In basso particolare di una pittura murale di Deir el-Medina nella quale si vede una teoria di donne con il cono di cera sul capo.

degli scavi, condotti con moderne metodologie, piuttosto che alle nuove tendenze religiose. È un fatto notevole che i coni non siano mai stati trovati nelle molte mummie «ricche» dell’antico Egitto. Sebbene sia presumibile che molti altri coni, data la loro fragilità e lo scarso valore materiale, possano essere stati persi nei saccheggi e a causa del degrado, è chiaro che queste offerte non erano molto frequenti nelle numerose tombe di Amarna. Questa, forse, è la chiave per comprendere il loro ruolo in sepolture non elitarie. L’uso potrebbe essere stato dettato da circostanze strettamente individuali, come segno di una particolare età, genere o etnia, o della specifica occupazione del defunto. Almeno uno dei due portatori di coni era una donna adulta, e i coni sembrano presenti soprattutto in contesti associati alla sensualità, alla nascita e alla fertilità femminile.

Quest’ultima associazione è sostenuta anche da scene della Tomba Reale di Amarna, costruita per Akhenaton, Meketaten, probabilmente per la regina Tiy, e forse per la stessa Nefertiti. In una scena, una donna della famiglia reale, si pensa la principessa Meketaten, muore durante il parto. In una scena la defunta, che indossa il cono, si trova in un pergolato coperto di simboli floreali di fertilità e rinascita, mentre una seconda scena la ritrae mentre indossa un cono e giace su un letto o entro una bara. Nelle aree di insediamento ad Amarna sono state trovate anche statuine in ceramica di donne nude che indossavano coni sul capo, probabilmente utilizzate nei rituali di parto, fertilità e guarigione. Una stele mostra una donna che indossa un cono e adora Taweret, dea della vita domestica e del parto.

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NEFERTITI

COLEI CHE VIENE NELLA BELLEZZA

IL CELEBRE RITRATTO DI NEFERTITI, SPOSA DEL FARAONE ERETICO AKHENATON, È UN’ICONA DEL FASCINO FEMMINILE. MAGNIFICO ED ENIGMATICO, IL SUO VOLTO SEMBRA NASCONDERE I MISTERI CHE NE HANNO ACCOMPAGNATO LA SCOPERTA...

di Sergio Pernigotti

N

ella storia dell’antico Egitto pochi personaggi possono vantare una fama paragonabile a quella della regina Nefertiti, sposa del faraone Amenhotep IV/ Akhenaton, che regnò per diciassette anni, dal 1351 al 1334 a.C. circa, e del quale condivise il destino in un periodo particolarmente tempestoso per il Paese. Per gli appassionati della civiltà egiziana e, in particolare, della sua storia dell’arte, Nefertiti si identifica quasi esclusivamente con la regina raffigurata nel magnifico busto conservato al Museo di Berlino e in alcune teste incompiute, in granito rosso, che si trovano al Museo Egizio del Cairo e sono la testimonianza di uno dei momenti piú importanti della scultura egiziana. Opere che appaiono improvvisamente, senza precedenti, e che non avranno alcun seguito apprezzabile: capolavori irripetibili, che si devono a uno scultore del quale eccezionalmente conosciamo il nome, Thutmosi (le opere d’arte egiziane sono perlopiú anonime), meteore che si sono salvate dal disastro generale e che l’archeologia ci ha restituito. Per gli storici la situazione è ben diversa, almeno in apparenza, perché i documenti che riguardano la regina sono numerosi, ma, paradossalmente, la sua figura rimane sfuggente e ben poche sono le certezze sui fatti che la riguardano. Cerchiamo dunque di mettere ordine in ciò che sappiamo.

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Sulle due pagine il busto di Nefertiti, in pietra calcarea e stucco dipinto, rinvenuto nel 1912 nell’atelier dello scultore Thutmosi, a Tell el-Amarna. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Berlino, Neues Museum.



NEFERTITI

Nel 1351 a.C. salí sul trono d’Egitto il figlio del faraone Amenhotep III, che aveva regnato per 38 anni su un Paese ricco e felice, prendendo lo stesso nome del padre Amenhotep, e IV nell’ordine di successione della XVIII dinastia. Per i primi quattro anni non accadde nulla, almeno in apparenza; poi, nel quinto anno, avvenne un fatto rivoluzionario: il sovrano abbandonò Tebe, sede della corte e quindi capitale del Paese, e si recò in Medio Egitto dove, nella località che oggi si chiama Tell el-Amarna, su un terreno vergine, sulla riva destra del fiume, fondò una nuova città, che divenne la sua residenza e nella quale si trasferí con la corte e tutti i suoi funzionari piú importanti. Come se non bastasse, cambiò nome, da Amenhotep IV («Amon è soddisfatto») ad Akhenaton («Colui che è utile all’Aton»), e fondò una nuova religione centrata appunto sull’Aton, il dio sole come appare nel punto piú alto e luminoso del suo percorso celeste: era la rivoluzione, opera del sovrano stesso, la prima e forse l’unica che possiamo documentare nella storia dell’antico Egitto.

Novità sconvolgenti Negli anni che seguirono fu un succedersi di novità spesso sconvolgenti che riguardarono l’arte, la letteratura e tutti gli altri aspetti della civiltà egiziana, fino a quando, dodici anni dopo il suo traferimento ad Amarna e quindi nel diciassettesimo anno di regno, il faraone morí, lasciando una situazione successoria ancora piú intricata, dalla quale emerse, infine, Tutankhamon, ancora fanciullo, al quale toccò in sorte di restaurare l’ordine precedente in tutti quei campi che il suo predecessore, e quasi certamente padre, aveva cosí fortemente innovato. L’età di Amarna, secondo la definizione degli egittologi, ha avuto una durata brevissima: poco piú di diciassette anni, quasi come il battere di una palpebra nella storia plurimillenaria dell’antico

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Gruppo in calcare dipinto raffigurante Akhenaton e Nefertiti. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Parigi, Museo del Louvre.


La famiglia reale Dal 1391 al 1353 39 anni di regno

Tiyi

Amenhotep III

Dal 1353 al 1338 16 anni di regno

Kiya

Young Lady

Nefertiti

Amenhotep IV Akhenaton Dal 1338 al 1335 4 anni di regno

Dal 1335 al 1327

Smenkhara

9 anni di regno

Tutankhamon

Meritaton

Anchesenpaaton

Testa incompiuta in quarzite bruna di Nefertiti, da Tell el-Amarna. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Il Cairo, Museo Egizio.

Egitto; essa non ha avuto precedenti chiaramente percettibili ed è stata cancellata, dopo la morte di Akhenaton, dai suoi successori senza lasciare tracce visibili: una parentesi chiusa rapidamente. Eppure, il regno di Akhenaton è stato uno dei piú studiati di tutta la storia egiziana, forse il piú studiato: e nella soluzione dei numerosi problemi che esso presenta, gran parte degli studiosi sono nel disaccordo piú completo. È stato detto che la ricostruzione di questo periodo

storico è come un gigantesco puzzle di cui abbiamo quasi tutti i pezzi: si tratterebbe solo di mettere ciascuno di essi al proprio posto. Ma cosí non è: non solo non abbiamo tutti i pezzi, ma l’interpretazione e la collocazione di ciascuno di essi pone una serie di problemi assai delicati, che vanno dalla pura e semplice lettura delle iscrizioni, spesso mal conservate, fino a complesse questioni di carattere ideologico, prima fra tutte quella se Akhenaton sia stato o no

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NEFERTITI

La «grande sposa regale» In questo quadro cosí complesso – e del quale fanno parte anche molti altri personaggi quasi sempre di assai dubbia collocazione nell’albero genealogico della famiglia regale – si colloca ovviamente Nefertiti. Il suo ruolo, almeno per i primi dodici anni di regno di Akhenaton, è molto chiaro. Essa era la «grande sposa regale», titolo che in Egitto veniva conferito dal sovrano stesso alla regina «principale», colei che costituiva la componente femminile della coppia regale e i cui figli in primo luogo avevano diritto alla successione al trono: almeno questo è del tutto chiaro e ben documentato. In realtà Akhenaton, cosí innovatore in tanti campi della civiltà egiziana, in questo rientrava in pieno nella tradizione: oltre a Nefertiti aveva certamente altre spose secondarie, forse

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Mar Mediterraneo Salum

Marsha Matruh

El Alamein

ISRAELE

Port Said

Alessandria

Cairo

Siwa

Suez

Nilo

Giza

Bawiti Al Minya

LIBIA

il fondatore di una religione monoteistica, quella dell’Aton, e quindi, in definitiva, una specie di precursore dell’ebraismo e, di conseguenza, del cristianesimo: per altri, su posizioni opposte, si è trattato del «falso profeta» dell’Egitto antico. Una personalità cosí complessa e affascinante come quella di Akhenaton è ancora piú difficile da afferrare perché, accanto alla difficoltà di interpretare le fonti e di rispondere ai molti problemi che essa pone, si colloca l’attività, certo comprensibile e giustificabile, di quelle che potremmo definire le «anime belle», di coloro, cioè, che vedono nel faraone la proiezione dei loro ideali, spesso molto elevati, e lo considerano come una sorta di santo o profeta. Cosa del tutto legittima se si prescindesse dai documenti di cui possiamo disporre e che spesso, per non dire sempre, vanno in tutt’altra direzione: a ciò si aggiunge l’opera degli scrittori di romanzi e bisogna riconoscere che l’età di Amarna si presta come poche altre a costruire vicende del tutto immaginarie. La fantasia si sostituisce a ciò che la storia non può dare.

ARABIA S A U D I TA

S.Paolo Hurgada

Asyut

Farafra

Tell el-Amarna

Qena

Dakhla El Kharga

EGIT TO Gilf el Kebir

Tebe

Sharm el Sheik Port Safaga Quesir

Esna Edfu

Kom Ombo Assuan Abu Simbel

Marsa Alam Berenice

Mar Rosso

Lago Nasser

SUDAN

L’«Orizzonte di Aton»

Carta dell’Egitto con l’ubicazione del sito di Tell el-Amarna, l’antica Akhetaton («Orizzonte di Aton») fondata da Akhenaton sulla riva orientale del Nilo, a nord di Luxor. I primi studiosi europei che visitarono il sito furono l’inglese Gardner Wilkinson nel 1824 e l’egittologo tedesco Richard Lepsius che, nel 1844-45, tracciò una delle prime planimetrie dell’antica capitale del regno di Akhenaton. Nel 1887 avvenne la celebre scoperta di circa 400 tavolette incise in caratteri cuneiformi, parte della corrispondenza diplomatica scambiata tra faraoni e sovrani asiatici vassalli. Dall’ultimo decennio dell’Ottocento si moltiplicarono le missioni archeologiche, da quelle di Flinders Petrie, nel 1891, presso il tempio di Aton e il palazzo reale, alle campagne di scavo dirette da Ludwig Borchardt, che nel 1912 scoprì l’atelier di Thutmosi, scultore di corte, e autore del busto della regina Nefertiti, oggi conservato a Berlino. I lavori di scavo, interrotti a causa della prima guerra mondiale, ripresero nel 1921 sotto la direzione di Leonard Woolley e John Pendelbury, della Egypt Exploration Society, che scavarono a Tell el-Amarna fino al 1936. Dal 1977 l’area è in concessione all’Università di Cambridge, sotto la direzione di Barry Kemp.

anche straniere, ma Nefertiti era la sola ad avere un ruolo di preminenza assoluta rispetto a tutte le altre e, proprio per questo, è la sola donna della corte di cui ci sia rimasta un’immagine cosí vivida, per essere stata raffigurata innumerevoli volte accanto al proprio sposo in tutto il suo splendore di


Akhenaton e Nefertiti. Rilievo realizzato da un maestro artigiano come modello per altri artisti. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). New York, Brooklyn Museum.

regina d’Egitto. E, tuttavia, essa non sfugge al destino comune a tutti gli altri componenti della dinastia: di lei sappiamo in realtà pochissimo. La donna porta un nome «parlante»: in egiziano Nefertiti significa «La bella è venuta» (o «Colei che viene nella bellezza»), il che ha spesso indotto a pensare che si trattasse di una principessa straniera; ma non è cosí, perché il nome corrisponde a uno schema onomastico ben noto in Egitto, e significa semplicemente «La bella (dea) è giunta», in cui la «bella dea» non è altro che Hathor, divinità con cui le regine egiziane normalmente venivano identificate.

Tuttavia non sappiamo quale fosse la sua famiglia d’origine: è possibile, ma non sicuro, che la principessa Mutnedjemet, che sposò poi Horemheb e a sua volta divenne regina d’Egitto, fosse sua sorella: ma, a parte ciò, null’altro possiamo dire dell’ambiente da cui essa proveniva. Sappiamo solo che ha sposato il sovrano non appena egli salí sul trono e forse anche un po’ prima: non va dimenticato, infatti, che Amenhotep IV/ Akhenaton non era destinato al trono, che sarebbe toccato a suo fratello maggiore, di nome Thutmosi, morto precocemente. Possiamo ritenere che Nefertiti avesse piú o meno la stessa età del suo illustre sposo, ma

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noi, in realtà, non sappiamo a quale età Akhenaton sia diventato faraone; le opinioni sono discordi in proposito: egli era certo molto giovane, almeno secondo i nostri parametri, ma è difficile dire quanto. Se lo scheletro trovato nella tomba KV 55 è il suo, non dovrebbe essere difficile stabilire la data dell’avvento al trono. Ma l’età dello scheletro è da sempre oggetto di discussione. Una coppia statuaria in calcare dipinto conservata al Museo del Louvre raffigura Akhenaton e Nefertiti con le insegne della regalità: è una rappresentazione impressionante, perché lo scultore ha raffigurato la coppia regale probabilmente come l’ha vista; cioè con le sembianze di due bambini e per di piú piuttosto piccoli. La cosa di per sé non deve sorprendere: di vari

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sovrani egiziani sappiamo che, per varie vicende ereditarie, sono saliti sul trono ancora bambini; basterà ricordare che il padre stesso di Akhenaton, Amenhotep III, era salito al trono all’età di otto anni, e la stessa cosa accadde anche a Tutankhamon. Ciò è confermato indirettamente dal fatto che Nefertiti ha avuto la prima figlia solo nel corso del secondo anno di regno del suo sposo, prova evidente che al momento del matrimonio non era ancora fertile.

Solo figlie femmine Nei primi dodici anni di matrimonio Nefertiti ha avuto sei figlie, ma nessun figlio maschio, circostanza che doveva inevitabilmente complicare il problema della successione al trono di Akhenaton,

Ancora due immagini del busto di Nefertiti oggi conservato a Berlino.


E se fosse falso?

I

l busto di Nefertiti, capolavoro e icona della bellezza femminile dell’antico Egitto, è il protagonista del Museo Egizio di Berlino, dal 2009 allestito nel Neues Museum sull’Isola dei Musei nella capitale tedesca. Nel box alle pagine 70-71 ripercorriamo la lunga storia della testa, dal suo ritrovamento, nel 1912 a Tell el-Amarna, fino alla collocazione attuale. Il manufatto, attribuito allo scultore amarniano Thutmosi, è stato piú volte al centro di polemiche e rivendicazioni. Mentre l’Egitto ne reclama ormai ufficialmente la restituzione, lo scrittore e storico dell’arte ginevrino Henri Stierlin con il libro Le buste de Néfertiti: une imposture de l’égyptologie (Infolio, Gollion 2009), ha rilanciato l’ipotesi che il capolavoro sia in realtà un falso clamoroso. L’autore dell’opera sarebbe, secondo Stierlin, lo scultore tedesco Gerhard Marcks, che l’avrebbe realizzata su richiesta dell’archeologo Ludwig Borchardt, al quale serviva un busto a cui far indossare una collana da poco rinvenuta negli scavi di Amarna. Perché poi il falso sarebbe arrivato in Germania? Stierlin racconta che Borchardt lo avrebbe donato a Johann Georg, un duca sassone in visita agli scavi che avrebbe «perso la testa» per la bella Nefertiti e al quale il Borchardt non ritenne opportuno rivelare che fosse, in verità, un‘opera «contemporanea». Cosí sarebbe andata secondo Stierlin, ma non certo per i Berlinesi, che rivendicano l’autenticità di uno dei capolavori dei loro musei, visitato ogni anno da oltre 700 000 persone. E neppure per gli Egiziani che, falso o vero che sia, lo rivogliono a casa. (red.)

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La travagliata (seconda) vita del busto

È

il 6 dicembre del 1912 quando a Tell el-Amarna viene recuperato il busto della regina Nefertiti. Nella foto qui sopra vediamo l’egittologo Hermann Ranke (a sinistra) che sorregge la testa appena rinvenuta. Nel 1913 il busto, con altri reperti provenienti da Tell el-Amarna, arriva in Germania per essere esposto in una mostra sugli scavi. Nel 1943, in pieno conflitto bellico, il busto viene messo in salvo, prima nella cassaforte della Reichsbank, poi (foto nella pagina accanto, in alto) nel bunker dello Zoo di Berlino e, infine, in una cava di sale in Turingia. Alla fine della guerra, gli Americani allestiscono in varie città tedesche depositi di raccolta delle opere d’arte – CCP (Central

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Art Collecting Point) – in gran parte trafugate dai nazisti nei Paesi occupati o messe in salvo dai bombardamenti, per procedere a un’opera di catalogazione, documentazione e restituzione ai legittimi proprietari. Il busto di Nefertiti resta in Germania grazie all’intervento di Walter Farmer (foto nella pagina accanto, in basso), direttore del CCP di Wiesbaden, che ne impedisce il trasferimento a Washington. Fino al 1956 la scultura rimarrà al Museo di Wiesbaden, per poi tornare a Berlino, prima al Museo Dahlem, dal quale passerà all’Egizio nel 2005, all’Altes Museum, e, infine, nel 2009, al Neues Museum sull’Isola dei Musei. (red.)


benché nell’antico Egitto anche le donne potessero accedere a pieno titolo alla regalità. Conosciamo molto bene le figlie della coppia regale: si sono conservati tutti i loro nomi e sono spesso raffigurate insieme ai loro genitori in scene di quotidianità domestica. È questo uno degli aspetti piú difficili da decifrare dell’età di Amarna: il faraone e la sua sposa sono colti spesso in atteggiamenti affettuosi a cui non di rado si aggiungono le figlie della coppia. Prima di allora, nella già lunga storia dell’antico Egitto, non era mai successo che le porte del palazzo regale si aprissero per mostrare la vita familiare del re, della regina e dei loro figli, sia nei momenti lieti che in quelli dolorosi. In una scena della tomba di Akhenaton ad Amarna, il faraone e la regina sono raffigurati mentre piangono una delle loro figlie, morta precocemente e deposta sul letto funebre. Mai si erano visti, e mai piú si vedranno, un sovrano e una regina egiziani in lacrime, sia pure per un lutto che li coinvolgeva cosí da vicino. Questa apertura del palazzo verso l’esterno in modo tale che la vita della coppia regale e delle figlie fosse a tutti visibile, pone naturalmente piú di un problema. Certo non si può interpretarla altro che come una delle sconvolgenti novità tipiche dell’età di Amarna, ma è ben difficile darne una spiegazione piú precisa: escludendo che potesse trattarsi di un’apertura verso il «popolo» o, se si vuole, di una rivoluzionaria forma di «democrazia», non si può pensare altro che a un’esaltazione, oltre la figura del sovrano, della famiglia, o meglio della dinastia. Akhenaton è figlio dell’Aton e quindi dio egli stesso, come divina è la regalità egiziana di cui egli è l’espressione: ma tale carattere, che del resto risaliva alle concezioni dell’antico Regno, non coinvolgeva solo il faraone, ma tutti i componenti della sua famiglia. Per questo solo essi e nessun funzionario o sacerdote erano illuminati dall’Aton e

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ricevevano la vita dalle manine con cui terminavano i raggi del sole. Fino all’anno dodici non sappiamo altro di Nefertiti: unico elemento nuovo è dato dal nome che viene elaborato per lei e che affianca quello di nascita: Nefer-Neferu-Aton, «Bella è la bellezza dell’Aton». Tale nome la colloca definitivamente all’interno della «riforma» religiosa elaborata dal suo sposo. Se non vi sono altri fatti nuovi, abbiamo però numerose sue raffigurazioni: nessuna di esse però ci conserva l’immagine della donna affascinante che vediamo nel busto di Berlino.

Arte «sperimentale» Essa viene raffigurata secondo i canoni stilistici dell’arte amarniana del primo periodo, quando lo scultore Bek, dietro precise indicazioni dello stesso sovrano, aveva elaborato un linguaggio figurativo completamente nuovo rispetto alla tradizione artistica egiziana, che potremmo definire «sperimentale», perché intanto si configurava in negativo rispetto al passato, diretto cioè a non fare piú come fino ad allora si era fatto. Di qui le sconvolgenti immagini della statuaria di Akhenaton, nelle quali la figura

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In alto rilievo raffigurante Nefertiti che bacia una figlia, forse Meritaton, sotto i raggi del dio sole Aton. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). New York, Brooklyn Museum. Nella pagina accanto Meritaton, la figlia maggiore di Akhenaton e Nefertiti, sotto i raggi del dio sole Aton, particolare di un rilievo da un tempio di Tell el-Amarna. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Collezione privata.

umana viene scomposta e poi ricomposta secondo moduli non naturalistici: un po’ come è accaduto nell’arte contemporanea durante il periodo cubista di Picasso. Nefertiti e le principesse non sfuggono a questa regola: i loro crani sono allungati fino a essere deformi, i loro ventri sono prominenti, le gambe esili e i lineamenti alterati. Come conciliare queste raffigurazioni con il busto di Berlino e con le teste del Museo del Cairo? Questa volta la risposta non è difficile, pur ricordando che si tratta di scelte stilistiche degli artisti e non, almeno nel primo caso, di uno spietato realismo. Ad Amarna è stato trovato l’atelier dello scultore regale che ha preso il posto di Bek, dopo che questi ha cessato la sua attività o è morto, e che si chiamava Thutmosi. Questi, pur non rinnegando del tutto il linguaggio figurativo del suo predecessore, ha di molto addolcito quanto esso aveva di piú estremistico, riconducendolo all’interno della tradizione: ma il cranio della Nefertiti del Cairo non è meno allungato di quello dei molti rilievi di Bek! Nell’anno dodici del regno di Akhenaton, Nefertiti scompare dai documenti e, a partire dal quel momento, non abbiamo piú alcuna


notizia della regina, la cui figura aveva in qualche modo dominato la scena. Che cosa è successo? Questo è davvero uno degli aspetti piú misteriosi delle già intricate vicende di questo periodo storico. Scartando le piú romanzesche, le ipotesi avanzate, nessuna delle quali, va detto, è realmente dimostrabile, sono le piú diverse. La piú semplice e anche la piú realistica è che Nefertiti sia scomparsa dalla scena perché morí di morte naturale. Ma tale soluzione non soddisfa neppure gli studiosi, perché non abbiamo la sua tomba e perché ben poco ci è giunto del suo corredo (segue a p. 76)

Una prole numerosa

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khenaton e Nefertiti ebbero sei figlie, che vediamo spesso raffigurate nei rilievi in compagnia dei genitori: Meritaton, la maggiore, nata prima dell’ascesa al trono del padre; Maketaton, che morí a soli 10-12 anni e venne sepolta nella tomba reale di Amarna, nella quale un rilievo mostra i genitori che ne piangono

la scomparsa; Anchensenpaaton, nata dopo il trasferimento della corte reale di Tebe ad Amarna, che sposò poi Tutankhamon, divenendo regina d’Egitto con il nome di Anchesenamun; delle tre figlie piú piccole rimangono soltanto poche raffigurazioni nei rilievi di alcune tombe private della stessa Amarna.

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Di spartizioni, falsificazioni e altre storie

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na decina d’anni fa, il busto di Nefertiti si è ritrovato al centro dell’ennesima clamorosa «rivelazione». A scatenare la polemica era stato un conoscitore tra i piú autorevoli, a livello mondiale, del periodo amarniano, l’egittologo tedesco Rolf Krauss. Il quale, in una comunicazione pubblicata dalla rivista KMT propose una tesi per certi versi ancora piú sconcertante di quella di Henri Stierlin: il busto di Nefertiti sarebbe giunto in Germania grazie a un raggiro, messo in atto dal suo scopritore, Ludwig Borchardt. Il quale, per rispondere alla legge dell’Egitto di allora che prevedeva la spartizione «à moitié exacte» dei reperti emersi dai nuovi scavi, avrebbe offerto all’ispettore delle antichità egizie Gustave Lefébvre (un francese al servizio dell’autorità coloniale britannica) un reperto anche’esso appena emerso dagli scavi: il rilievo raffigurante Akhenaton,

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Nefertiti e le figlie sotto i raggi di Aton, oggi al Museo Egizio del Cairo (vedi foto nella pagina accanto). Peccato che, secondo quanto sostiene Krauss, quel pezzo tanto famoso è niente piú che un miserabile falso, commissionato da Borchardt a uno dei tanti artigiani-falsari attivi al Cairo. A sostegno della sua tesi, Krauss ha analizzato in profondità il rilievo in oggetto, mettendolo a confronto con un’altra stele, altrettanto famosa, ma conservata al Museo Egizio di Berlino sin dal 1898 (foto in basso). Quest’ultima avrebbe fatto da modello al rilievo del Cairo che, però, mostrerebbe tali e tante incongruenze stilistiche da rendere insostenibile la sua autenticità: a partire dalla raffigurazione di una delle figlie di Nefertiti, quella seduta in grembo alla regina, assai poco consona ai dettami dell’arte amarniana. (red.)


Rilievi a confronto

Il rilievo raffigurante Akhenaton e Nefertiti conservato al Museo Nazionale Egizio del Cairo e, nella foto della pagina accanto, lo stesso soggetto rappresentato sulla stele conservata al Museo Egizio di Berlino. Mentre datazione e provenienza di quest’ultimo sono accertati (proviene da Tell el-Amarna ed è un prodotto del periodo amarniano, XVIII dinastia, 1352-1334 a.C.), per l’egittologo Rolf Krauss il rilievo del Cairo è un falso.

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funerario: per una regina cosí importante ci saremmo aspettati molto di piú in fatto di sepoltura e di onoranze funerarie. Secondo un’altra teoria, che ha avuto e ha un certo credito, benché appaia a prima vista alquanto fantasiosa, nell’anno dodici Nefertiti sarebbe caduta in disgrazia e sarebbe stata confinata nella parte settentrionale della capitale; secondo altri fu lei stessa ad abbandonare la corte, perché non condivideva piú le idee di Akhenaton, che giudicava troppo estremistiche. In tutte queste ipotesi vi è solo un dato sicuro: la regina scompare dai documenti che si sono conservati.

Un periodo complesso Occorre tuttavia aggiungere che la fase finale dell’età di Amarna è quanto di piú intricato si possa immaginare, con personaggi che compaiono e scompaiono, e altri che

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ricompaiono sotto altre spoglie. In questa confusione vi è un caso molto interessante: quello di Tutankhamon che, salito sul trono ancora bambino e morto diciottenne, fu artefice della restaurazione politica e culturale dopo la caduta di Akhenaton. Egli era sicuramente un componente della famiglia regale, nessuna delle numerose iscrizioni che lo menzionano specifica chi ne fosse il padre o la madre; l’opinione prevalente è che il padre fosse lo stesso Akhenaton: ora si sta facendo strada l’ipotesi – accettata da quasi tutti gli studiosi – che la madre sia la stessa Nefertiti: e Tutankhamon sarebbe il figlio maschio tanto atteso dopo sei figlie. Se cosí fosse, la regina non sarebbe morta nell’anno dodici e non sarebbe neppure caduta in disgrazia: al contrario, secondo alcuni, avrebbe non solo mantenute tutte le sue prerogative di «grande sposa regale», ma

Rilievo raffigurante Akhenaton e Nefertiti sotto i raggi del dio sole Aten. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Il Cairo, Museo Egizio.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

avrebbe ella stessa assunto il ruolo e le insegne della regalità diventando faraone. Tale ulteriore ipotesi attualmente non ha piú molto credito: è sicuro che una donna è stata il successore di Akhenaton, ma quasi sicuramente non si è trattato di Nefertiti, bensí di una delle figlie della coppia regale. Non sappiamo altro della regina, inghiottita dalle vicende del periodo finale dell’età di Amarna, che dovettero essere particolarmente difficili per i componenti della famiglia regale. La morte di Akhenaton non solo pose fine alla sua rivoluzione, ma scatenò la reazione forse anche violenta dei suoi oppositori. Akhenaton e Nefertiti non furono sepolti nella tomba che per loro era stata predisposta nella necropoli di Amarna. Il corpo del sovrano venne portato a Tebe e forse sepolto in una tomba improvvisata (KV 55) della necropoli tebana: è il misero scheletro che molti ritengono sia appartenuto al grande faraone.

Quella ciocca di capelli... E Nefertiti? Nulla sappiamo di quello che è stato del suo corpo. Ogni tanto viene annunciato il ritrovamento della sua mummia (o quello che resta del suo corpo): ma fino a oggi manca la prova certa della sua identificazione, che non può aversi se non da un’iscrizione che ne dichiari l’identità. Neppure nella tomba del suo possibile figlio, Tutankhamon, vi è traccia della regina. Nel suo corredo funerario, tra le molte «stranezze», è stata ritrovata un ciocca di capelli, che però non appartiene alla madre del giovane re, ma alla regina Ty, moglie di Amenhotep III e madre di Akhenaton, e quindi sua nonna: un altro dei misteri di questo periodo storico cosí tormentato. Questo arido elenco di dati storici e archeologici porta ben poca luce su una delle piú note regine dell’antico Egitto e contrasta in maniera visibile con la fama di cui essa gode nel mondo moderno: nell’antichità nessuno la conosceva, a parte l’entourage del sovrano durante il suo breve regno. È lecito domandarsi le ragioni di una tale popolarità. Un primo motivo può ricercarsi nel ruolo che

essa può aver svolto nella rivoluzione amarniana. Nel valutare la complessa opera di rinnovamento della società egiziana compiuta da Akhenaton, per molti, studiosi e no, non è neppure pensabile che la regina che sedeva al suo fianco non sia stata in qualche modo partecipe della sua opera: non vi è alcuna prova che essa abbia collaborato in tale impresa gigantesca, ma la sua presenza costante a fianco del sovrano nelle raffigurazioni dimostra che proprio questo egli abbia tenuto a mostrare ai suoi sudditi, almeno fino all’anno dodici. Nessuna delle altre spose o concubine di Akhenaton ha goduto di tale onore, neppure Kiya che fu regina secondaria e che cadde in disgrazia e scomparve dalla corte; eppure anche questa dama ha avuto una posizione importante; tanto che, secondo alcuni, potrebbe essere stata la madre di Tutankhamon. Non sappiamo se e fino a che punto Nefertiti appoggiasse il suo augusto sposo nelle sue sconvolgenti novità, né se sia vero che a un certo punto (il fatale anno dodici!) essa abbia compiuto una clamorosa secessione: ma, fino a prova contraria, dobbiamo credere a ciò che Akhenaton ci fa vedere. La luce che circonda la figura del grande faraone ha illuminato anche questa figura femminile, che sembra avere avuto il solo merito di averlo seguito nella predicazione della sua dottrina. Un secondo motivo va ricercato nel fatto che nella fase finale della sua vita è stata oggetto dell’arte del già citato Thutmosi: le sue raffigurazioni della regina sono tra le maggiori creazioni della scultura egiziana. Non si dimentichi che il busto di Berlino (della cui autenticità si è dubitato senza alcun fondamento) era semplicemente un modello di scultura che veniva presentato agli altri scultori dell’atelier perché lo «copiassero». Ma le altre sculture, quelle vere – non i modelli –, incompiute, che raffigurano la regina e le principesse, sono altrettanti capolavori a cui, bisogna confessarlo, si aggiunge il fascino dell’incompiuto. È l’arte di Thutmosi che ha reso immortale Nefertiti.

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Rilievo in pietra con l’immagine di una dea sumera dalla fluente capigliatura, da Lagash, Mesopotamia. Metà del III mill. a.C. Berlino, Vorderasiatisches Museum.

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«GINOCCHIA

SUCCOSE COME MELE» NASI FORTI CHE SFIDANO LO SPAZIO, OCCHI SBARRATI E L’ONNIPRESENTE KOHL, MA ANCHE UN REALISMO SESSUALE ESPLICITO E PRIVO DI OGNI «ROMANTICISMO»: LA RICERCA DELLA VANITÀ NELL’UNIVERSO VICINO E MEDIO-ORIENTALE RIVELA RADICI ANTICHISSIME E… SORPRENDENTI

L

a «Dama di Warka», o «Signora di Uruk» (le due denominazioni sono riferite al toponimo antico e a quello moderno del sito) viene unanimemente considerata il ritratto femminile che meglio impersona l’ideale di bellezza dell’antica Mesopotamia. Si tratta della testa in marmo bianco di una statua polimaterica, probabilmente fatta in origine, oltre che di questa pietra, di legno, bitume e appliques metalliche, e forse anche, come altre sculture del IV e III millennio a.C., di conchiglia e lapislazzuli (vedi foto a p. 81) Dato che il retro della figura è piatto, in quanto andava fissato su un’altra parte della statua, la testa viene spesso, ma erroneamente, chiamata «maschera». Datata alla fine del IV millennio a.C., la testa era stata rinvenuta il 22 febbraio 1939 dalla missione dell’Istituto Archeologico Germanico nell’antica città di Uruk (nell’attuale Iraq meridionale), diretta da Arnold Nöldeke (1875-1964), nel corso degli scavi dell’Eanna, il grande santuario urbano dedicato al culto della dea Inanna e forse la scultura rappresenta proprio la divinità titolare del complesso. La critica storico-artistica riconosce alla testa un carattere di unicità, ed è unanime nel lodare la delicatezza della resa dei volumi delle guance, di bocca e mento e il forte contrasto visuale con i profondi incassi che ospitavano occhi e sopracciglia, fatti quasi certamente di bitume, lapislazzuli e altri materiali fortemente colorati. E in che modo giudicheremmo il famoso capolavoro

se, come è probabile, le labbra le fossero state dipinte di rosso vivo? Non ci nasconderemo, inoltre, che parte del fascino dell’opera deriva direttamente dalla sua conservazione parziale. Al volto infatti è stato troncato il naso, che, come in altre sculture sumeriche, prorompeva con forza e spregiudicata vitalità in avanti; mentre, una volta ricomposta la capigliatura-parrucca alla sfaccettata superficie del capo, e ricollocata la testa sul resto dell’immagine, è chiaro che la forza della massa corporea, forse delle vesti, e la policromia avrebbero avuto il sopravvento sull’apparente delicatezza dell’incarnato della faccia. Insomma: la marmorea «Signora di Uruk» affascina in quanto, come testa mutila, ha assunto un che di greco classico... Al di là di simili fraintendimenti, come dobbiamo allora immaginare lo charme e il sex appeal – l’attrattività fisica (hili in sumerico, kuzbu in akkadico) – delle donne della Mesopotamia di 5000 anni fa, e, piú in generale, i canoni della bellezza? Se torniamo a guardare le sculture del periodo detto Dinastico Antico (2900-2300 a.C. circa) siamo lontanissimi dagli ideali estetici a noi piú familiari: la bellezza delle statue, sia maschili sia femminili, sta nella loro prorompente vitalità: nei forti nasi che sfidano lo spazio, nelle geometriche stilizzazioni delle acconciature, come negli occhi sbarrati di lapislazzuli, nelle labbra per sempre immobilizzate in sorrisi enigmatici, e nei rigidi, massicci equilibri geometrici dei corpi. Ricerche recenti stanno pienamente

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confermando che anche le statue mesopotamiche, sinora viste e immaginate in bianco e nero, anche nelle sculture in pietre dure e piú finemente levigate erano coperte di vivaci colori: la pelle esposta e le labbra in rosso, i capelli, le barbe, gli occhi in nero, bianco per le vesti, rosso e giallo per corone e gioielli, probabilmente blu e nero per gli occhi (ricerche di Astrid Nunn, Barbara Jändl e Rupert Gebhard). Il tutto, con una forza visiva tale da travalicare il linguaggio codificato delle attitudini devozionali e dei costumi che imponevano la supplica alle divinità, e altre occasioni cerimoniali. Se l’Egitto ha tramandato un gran numero di sculture e immagini, per l’antica Mesopotamia sono le fonti scritte ad abbondare. I testi letterari cuneiformi ci aiutano a mettere meglio a fuoco come la bellezza femminile fosse sapientemente costruita da ogni donna. Marten Stol cosí descrive la sequenza con la quale la dea Inanna-Ishtar si agghindava, nel ciclo poetico che narra del suo amore per Dumuzi, il re-pastore: «La dea si lavava, si

A destra statuetta femminile in calcare, da Nippur, Mesopotamia. Dinastico Antico IIIa, 2600-2500 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso una collana in lapislazzuli, cornalina e lamina d’oro rinvenuta in una sepoltura del Cimitero Reale di Ur. Baghdad, Museo Archeologico. Per alcuni, le foglie auree riprodurrebbero quelle dell’albero del pipal, una specie indiana.

sfregava il corpo col sapone, si copriva di olii profumati, indossava la sua acconciatura reale, applicava il mascara alle palpebre, si accomodava i capelli legandoli in alto, si metteva un anello d’oro, e allacciava una collana di lapislazzuli attorno al collo». Il kohl o mascara sui contorni degli occhi, in Mesopotamia, era considerato tanto importante e seducente che la stessa dea dell’amore Inanna portava un’acconciatura fatta di kohl e gioielli che, nei testi cuneiformi, è chiamata, molto

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esplicitamente «Uomo, vieni, vieni». La parola sumerica shembi (o shimbi) sembra essere stata un termine generico per «cosmetico»; l’equivalente accadico era egû o eqû. Il termine shembizida denota piú specificamente un cosmetico per gli occhi, probabilmente il kohl delle realtà moderne. Nei testi sumerici, quando gli uomini cantavano il fascino delle donne, si ispiravano singolarmente all’orticultura, evocando le mele, la lattuga, l’erba, quest’ultima, forse, secondo alcuni, associata simbolicamente al pube femminile. La cosa non deve sorprenderci.

Le misure dell’amore Se in Mesopotamia la bellezza femminile è comunque rappresentata nell’iconografia delle élite e nei testi letterari, poco spazio era riservato alla sfera che noi conosciamo come amore romantico: se è vero che re e regine, divinità maschili e dee si incontravano in splendidi giardini pieni di fiori, basti pensare che il verbo «amare» in sumerico si scriveva con due segni che indicavano «la terra misurabile» (cosa che per alcuni potrebbero riferirsi alle proprietà terriere da ricevere in dote matrimoniale), e che i testi, nell’elogiare il corpo femminile, ne menzionano quasi esclusivamente i genitali (hurdatu: termine che secondo un commentario babilonese all’epica di Gilgamesh significherebbe «il buco per l’amato»). Nei templi della bellissima Inanna, le formule del culto erano altrettanto esplicite: «Dono a te il triangolo pubico di lapislazzuli, la stella d’oro, gli attributi della tua divinità». L’offerta votiva di modelli di triangoli pubici, chiamati probabilmente tésh e in akkadico bashtu, era evidentemente un costume diffuso, non sappiamo se da parte di uomini o donne. Negli inni sumerici, la vagina della dea è paragonata alla falce della luna nuova, piena di hili, cioè, come si è detto, di sex

La testa in calcare nota come «Dama di Warka», da Uruk. Tardo IV mill. a.C. Baghdad, Museo Archeologico.

appeal. Piú lusinghieri, almeno ai nostri occhi, erano certamente gli accostamenti metaforici della donna a pietre semipreziose, un altro topos ricorrente in questo genere di testi. Nel componimento poetico in lingua akkadica Nabu e Tashmetu, il dio Nabu paragona il corpo della paredra a una tavola di lapislazzuli, le cosce a quelle di una gazzella, le sue ginocchia a succose mele, e le sue caviglie a ossidiana. Una canzone in lingua sumerica, con cui una donna cerca di attrarre a sé nientemeno


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che il re Shu-Sin (penultimo sovrano della terza dinastia di Ur, dal 2037 al 2029 a.C.) mostra quanto essenziale fosse l’avere una chioma abbondante e fluente. La donna canta la propria nei termini (per noi un po’ inusuali) che seguono: «I miei capelli sono lattuga ben nutrita dall’acqua (...) i miei riccioli sono intrecciati insieme. La serva li ha [acconciati] in alto, mi ha fatto i capelli come una gazzella». Come le Egiziane, le donne della Mesopotamia amavano anche la distinzione delle parrucche, come dimostrano le capigliature smontabili in pietra semipreziosa che in origine facevano parte delle statue polimateriche, a volte offerte alle immagini dai donatori. Ancora oggi, nel Medio Oriente e nel Levante lunghe chiome nere, scintillanti di olii e profumi e animate da ricci sono considerate l’ideale estetico dominante. Il profumo doveva rientrare anche nella toilette maschile. Nella tradizione mesopotamica della discesa di Ishtar agli Inferi, Ereshkigal, regina del regno dei morti, ordina di preparare lo sposo Tammuz (Dumuzi) con acqua chiara, quindi di frizionarlo con il profumo, prima di vestirlo con un abito splendente. Quindi si augura «che batta la bacchetta blu e che delle donnine allegre lo rincuorino!». I testi degli archivi di Mari documentano che il re consumava non meno di un litro di olio profumato al giorno. Piú organica e completa è l’immagine che abbiamo dell’ideale bellezza femminile che troviamo 1500 anni piú tardi nei bassorilievi delle grandi corti neo-assire (anch’essi, in origine, dipinti a colori piú che vivaci), figure che, pur essendo molto piú tarde, sembrano mantenere una significativa continuità col passato. Mentre nei famosi bassorilievi le immagini di donne, in genere piú piccole degli uomini, sono piuttosto rare, vi sono centinaia di figurine e rilievi in avorio di produzione levantina – in genere, manici per utensili – che ne integrano il repertorio iconografico. Le donne hanno il volto pieno, dai tratti fortemente arrotondati, piú delle loro controparti maschili, e naso carnoso; le guance sono leggermente gonfie, e a volte un accenno

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di doppio mento spunta dal collo. Gli occhi scuri, come nella famosa «Monna Lisa di Nimrud», appaiono dilatati e piú grandi del reale, leggermente sproporzionati nel catturare magneticamente l’attenzione dello spettatore. Nell’insieme, questi tratti sembrano quasi ricordare i volti di donna rotondi e ampi, «a luna piena» (Amy Rebecca Gansell), che affiorano nella successiva letteratura islamica della regione. Gli occhi delle figurine in avorio sono completamente circondati dal kohl. Le acconciature sono elaborate e spesse, scure e rigonfie; il corpo, pur coperto da costose vesti decorate e ricamate in ogni modo, dalla testa ai piedi, e abbellito da abbondanti ornamenti preziosi, alludeva, nella sua solidità, alla fertilità, quindi indirettamente alla discendenza regale (nella consueta retorica dell’abbondanza e del potere assoluto del regno). Tuttavia, le stesse iconografie neo-assire non mancano di spiegarci in dettaglio quale fosse la concezione ideale del corpo femminile, per mezzo di statue e statuette in cui sono dee procaci a figurare nude, con seni rotondi e abbondanti, e cosce forti. A volte, le statuette in avorio indulgono nel rappresentare realisticamente dettagli corporei di chiara valenza erotica. Questa attenzione è riflessa in una vasta documentazione relativa all’interpretazione dei presagi: tavolette cuneiformi che pronosticano la fertilità della donna sulla base della forma di ombelichi e capezzoli. La bellezza maschile è invece piú sinteticamente sottolineata dalla posizione eretta, rigida e muscolare dei protagonisti, da curatissime barbe e capelli arricciati, dallo stesso kohl e da vesti e ornamenti altrettanto ricchi.

Nelle tombe reali di Ur Dobbiamo sempre tenere presente che il culto storico e archeologico dell’antica Mesopotamia che permea la nostra cultura, ci porta a importanti distorsioni percettive. Per via del predominio nelle accademie umanistiche dei filologi, e per la pervasiva influenza della tradizione biblica, che continua a presumere e a raccontare che Abramo fosse

La placca in avorio di produzione fenicia meglio nota come «Monna Lisa di Nimrud»: ritrae un volto femminile, forse identificabile con un’effigie della dea Ishtar, dal palazzo assiro di Nimrud. Ultimo terzo dell’VIII sec. a.C. Baghdad, Museo Archeologico.


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un Sumero, a scuola e all’università impariamo che la Mesopotamia fu la «culla della civiltà», la patria degli inventori della scrittura, della matematica, dell’ingegneria e delle altre arti sulle quali è costruito il mondo civile contemporaneo. Accade cosí che alcuni aspetti, ancora piuttosto oscuri, dell’evoluzione sociale in Mesopotamia siano ignorati, o fortemente minimizzati, nel nome di questa venerazione, forse comprensibile, ma del tutto acritica. Perché questa osservazione? Parlando della donna, della bellezza e della cosmesi è impossibile non ritornare alle drammatiche testimonianze archeologiche rinvenute tra il 1922 e il 1934 da Leonard (1880-1960) e Katharine Woolley (1888-1945) nel Cimitero Reale di Ur, nell’Iraq meridionale (2600-2300 a.C. circa). Oggi, nelle vetrine di tre diversi musei (Philadelphia e Boston negli Stati Uniti e il British Museum a Londra), sfolgorano le affascinanti parures di gioielli in oro, argento, cornalina e lapislazzuli trovati nelle tombe, e che illustrano i piú bei libri fotografici sull’antica Mesopotamia. Certo, immagini di bellezza: ma come dimenticare che nelle stesse tombe regali erano stati deposti i corpi di piú di 300 persone, in gran parte giovani donne, crudelmente uccise per celebrare la grandezza dei sovrani e delle regine defunte? Se stacchiamo l’attenzione dallo sfarzo e dai colori sfolgoranti dei gioielli, dei vasi, delle grandi arpe a protome animale nelle nuove condizioni in cui tutto ciò appare, la bellezza in gioco fu quella distrutta con eccidi di massa eseguiti lungo i bordi delle grandi fosse di Ur. Il solo «Grande Pozzo della Morte» (come lo chiamò Leonard Woolley) PG 1237 conteneva i corpi allineati e riccamente addobbati di 68 giovani donne e sei guardie armate, collocate presso l’accesso della rampa che conduceva alla grande fossa. L’interpretazione di Katharine, inizialmente condivisa dal marito, fu che tutte le persone

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che persero la vita nel corso della macabra cerimonia si fossero volontariamente avvelenate, per seguire «dolcemente» il proprio signore o signora nella vita ultraterrena (la tomba regale alla quale la sepoltura di massa era collegata non fu mai trovata). Negli anni Trenta, infatti, il suicidio «romantico» mediante veleno era una fola letteraria, figlia della sensibilità neo-romantica del tempo, e tale ricostruzione non contrastava troppo con il «culto dei Sumeri» in pieno sviluppo, soprattutto con le clamorose scoperte di Ur. La realtà svelata da recenti ricerche è ben diversa. Nei pochi crani che allora furono conservati entro gli originari blocchi di terra, le tomografie rivelano i fori lasciati da acuminate asce-picconi, e la sovrapposizione stratigrafica degli scheletri, puntualmente registrata dagli eccellenti disegni di Katharine, mostra come i cadaveri siano stati disposti in file a gruppi, uno dopo l’altro, dopo essere stati completamente rivestiti e coperti di vistosi gioielli. Nella sequenza delle deposizioni, i primi furono i corpi di due ragazzine di 15 o 16 anni, che recavano lire abbellite in fronte dai famosissimi «capridi sul cespuglio», oggi vanto del British Museum e del Penn Museum di Philadelphia. Sembra chiaro che le donne uccise facessero parte di un intero corteo di musiciste e cantanti, destinate a ripetere le proprie rappresentazioni anche dopo la morte. È cosí che i tesori, e le tanto celebrate acconciature sono giunte sino a noi. È anche probabile che i corpi degli armati posti a simbolica protezione degli ingressi siano i carnefici delle donne, a loro volta uccisi prima di seguirle nella sepoltura. Non è certo un caso che i testi cuneiformi non parlino di questo genere di cerimonie. Anche nella nostra cultura

Nella pagina accanto manico di ventaglio (o scacciamosche) neoassiro in forma di quattro figure femminili, da Nimrud. VIII-VII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Placchetta in avorio neoassira con figura femminile a rilievo, da Nimrud. IX-VIII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

sussistono aspetti che piú o meno consciamente riteniamo negativi ma inevitabili, e non ne facciamo volentieri menzione.

La bellezza nelle conchiglie Se il costume funerario sumerico, in questo caso, effettivamente rifletteva quello in vita, sia le regine defunte, sia le donne di accompagnamento usavano coprirsi il volto di colorati make up. I contenitori per cosmetici che esse hanno portato con sé sotto terra sono valve delle conchiglie dei generi Cardium e Anadara, oppure, per le dame delle case reali, le loro repliche in oro. Le strategie di branding del commercio internazionale del tempo, con ogni probabilità, facevano già coincidere la forma standardizzata di flaconi e vasetti con paste dal colore e dalla composizione ben precisa. Negli scavi del contemporaneo sito di Ras al-Jinz, sull’estrema punta orientale della penisola omanita, è emerso che gli artigiani polverizzavano noduli di pirolusite (biossido di manganese, MnO2), dal colore nero-violaceo, e ne confezionavano le polveri entro valve degli stessi gusci che localmente abbondavano, per poi commerciarle lungo le rotte occidentali. Polveri e preparati cosmetici come questi, provenienti da regioni, anche lontane, particolarmente ricche in mineralizzazioni metallifere, giungevano regolarmente in Mesopotamia portate da carovane e navigli. Nelle parole spesso citate a questo proposito di Leonard Woolley, «Le tombe di ogni donna del cimitero antico contenevano cosmetici; erano una parte invariabile del corredo tombale. Il contenitore piú comune era la valva di una conchiglia, o piuttosto una coppia di valve una delle quali era il contenitore vero e proprio, la seconda il coperchio (...) In ogni caso le conchiglie contenevano i resti materiali dei cosmetici usati, pigmenti o polveri ormai

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trasformati in paste indurite: i colori sono il bianco, rosso, giallo, blu, verde e nero, tra i quali il verde e il nero sono i piú comuni». Bisogna dire che quanto sappiamo dei cosmetici e dei pigmenti colorati in genere dell’antica Mesopotamia è piú immediatamente compreso sulla base dell’archeologia, della mineralogia e della chimica che non dai testi cuneiformi. Il tentativo di riconoscere pigmenti e colori nelle tavolette, infatti, si trasforma in una complicata immersione cognitiva in categorie di pensiero e associazioni completamente diverse dalle nostre. Per esempio, «poiché i colori in akkadico tendono a focalizzarsi su definizioni basate sulla brillantezza e sulla saturazione, essi possono avere coordinate cromatiche molto vaghe. Per cui, arqu sta sia per giallo sia per verde, e samu sia per rosso, sia per arancione» (Shiyanthi Thavapalan, Il significato dei colori nell’Antica Mesopotamia). Recenti analisi effettuate dall’archeo-metallurgo Andreas Hauptmann del Deutsches BergbauMuseum di Bochum (il piú importante museo di archeologia mineraria al mondo) hanno stabilito la composizione di una cinquantina dei preparati di Ur, ricorrendo ad aggiornate tecniche analitiche, che hanno incluso la determinazione della provenienza delle polveri metalliche mediante l’attribuzione geografica degli isotopi del piombo contenuti, in origine, nei minerali di rame. I cosmetici verdi risultano prodotti a partire da minerali secondari di rame (ossidi e carbonati), mescolati, per schiarirli in varie sfumature, con l’idrossiapatite (fosfato di calcio idrato, Ca10(PO4)6(OH)2), la principale componente delle ossa. Ai preparati verdi, infatti, si univa la candida polvere che si poteva facilmente ricavare dalla macinazione delle ossa animali combuste; in qualche caso sono stati identificati acetati di rame e acido formico, che viravano le tinte del cosmetico verso le sfumature bluastre del verderame. L’acetato di rame, come riportato nelle ricette tecniche di Plinio il Vecchio, si poteva ottenere abbastanza facilmente facendo corrodere il metallo in

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Il sontuoso ed elaborato copricapo in oro della regina Pu’abum, rinvenuto nella sua fossa sepolcrale nel Cimitero Reale di Ur. 2250 a.C. circa. Philadelphia, University Museum of Archaeology and Anthropology.

aceto, sale e miele; piú problematica è la presenza dell’acido formico, un composto con proprietà antibatteriche e conservative. Hauptmann pensa che fosse un involontario prodotto del decadimento, nelle tombe, delle bare lignee; tuttavia questo non spiega perché questo composto sia stato trovato solo nei preparati verdi. Se l’acido formico non viene dal degrado del legno, esso poteva essere estratto dalle formiche... ma va aggiunto, particolare interessante, che per quanto se ne sa oggi l’estrazione dell’acido dagli imenotteri fu applicata soltanto nel 1671 dal naturalista inglese John Ray (1627-1705). I cosmetici di colore nero, come quelli preparati sulle coste omanite, erano a base di manganese. Quelli bianchi, come in Egitto, erano a base di composti di piombo alterato,


come la cerussite, e forse contenevano a volte gesso. Le scarse tracce di laurionite – interpretata nei piú tardi cosmetici egiziani come artificialmente prodotta – sono attribuite ad alterazione casuale della cerussite, mentre la fosgenite – altro composto ricorrente nelle paste egiziane – risulta totalmente assente. Il rosso, come di consueto, si otteneva dall’ematite (ossido di ferro, Fe2O3). La maggioranza delle paste contenute nelle conchiglie conteneva tracce delle cere e degli olii che le rendevano morbidi e spalmabili. Le analisi chimiche e isotopiche, infine, indicano che le polveri minerali venivano da regioni diverse: Anatolia, Oman, altopiano iranico. Complessivamente, le ricette cosmetiche di Ur, con la possibile eccezione di

Frammento di un cofanetto in avorio sul quale è incisa una scena nella quale si riconoscono un guerriero e alcune figure femminili, da Nimrud. Produzione neoassira, IX-VIII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

acetato di rame e acido formico (ancora del tutto da verificare) sembrerebbero essere molto meno artificiali di quelle egiziane. Resta da capire se tale scelta tecnica fosse stata dettata dalla cronologia (i cosmetici di Ur sono piú antichi di quelli egiziani) oppure da una consapevole scelta tecnica. Per scoprirlo, dovremo fare una breve incursione nei piú antichi reperti cosmetici dell’altopiano iranico.

Chimici dell’antico Iran L’altopiano iranico ha visto il fiorire di civiltà antichissime e per molti aspetti ancora misteriose (le popolazioni della prima età del Bronzo, Elamiti, Gutei, Cassiti, Mannei, Cimmeri), che per secoli si sono confrontate con le aree circostanti e, in particolare, con le

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città e i regni della Mesopotamia e della Mezzaluna Fertile. Dal VI secolo a.C. vi si costituí l’impero dei Medi, che dall’altopiano si estendeva all’attuale Azerbaigian e all’Asia Centrale, grande rivale di Babilonia e del regno di Lidia. Successivamente, l’impero achemenide (550-330 a.C.), fondato da Ciro il Grande, si estese ai Balcani, al Nord Africa e alle piane dell’Indo, comprendendo nel 480 a.C. oltre il 40%

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Statuetta femminile in calcare dipinto in rosso e nero e con occhi intarsiati, in atteggiamento adorante, da Ur. Inizi del II mill. a.C. Londra, British Museum.

della popolazione mondiale nota. Per Erodoto, vi erano molti re e molti capi, ma solo uno era il Megalos Basileus, ossia il Gran Re: il Re di Persia. Dopo il collasso dell’impero a seguito dell’incursione di Alessandro Magno (356-323 a.C.), si avvicendarono i Seleucidi (312-63 a.C.), la dinastia arsacide (i Parti, 247 a.C.-224 d.C.) e l’impero sasanide (224-651 d.C.). I tre imperi successivi (achemenide, partico, sasanide) governarono questi vastissimi territori per 1000 anni, avendo come rivali storici l’impero romano e in seguito l’impero bizantino. Colpiscono, di questa terra, la sconfinata varietà dei paesaggi e dei climi, dell’idro-orografia e la ricchezza delle risorse minerarie. I re persiani, come «Re dei Re», dominavano le terre piú ospitali e ricche come le perle di un’immensa ma fragile collana, tenuta insieme dai fili delle carovaniere, dell’esercito e di precarie alleanze politiche. Esteso dalla Mesopotamia alla valle dell’Indo, e corrispondente all’attuale Iran e a parte dell’Afghanistan, l’altopiano iranico è dominato da catene montuose inframmezzate da deserti, brevi pianure fertili e aridi bacini interni. Nelle regioni nord-occidentali e occidentali si incontrano le catene del Caucaso e dei monti Zagros, mentre a nord si susseguono da ovest a est le catena dei monti Alborz e Kopet Dag. Mentre la parte settentrionale, lungo le sponde del Caucaso, è occupata da dense e piovose foreste, la parte centrale e meridionale è ricoperta da steppe e sconfinate regioni aride. Nella parte centro-orientale si trovano due deserti, il Dasht-e Kavir e il Dasht-e Lut, tra i luoghi piú torridi e inospitali del mondo, a causa delle catene montuose circostanti che, sbarrando la strada al vapore atmosferico, impediscono precipitazioni sufficienti. Sistemi endoreici sono il Mar Caspio, il lago di Urmia, il bacino del Sistan


alimentato dal fiume Helmand proveniente dall’Afghanistan, il lago endoreico dell’Hamun-e Jazmurian, formato dal fiume Halil che scorre per circa 390 km nella regione di Kerman. Il versante esterno degli Zagros scarica le acque nel Golfo Persico con i due fiumi Karun e Mond. Numerose falde acquifere vengono sfruttate mediante i qanat, una fitta rete di canali sotterranei estesa, nell’altopiano, per una lunghezza totale di 300/350 000 km. Geologicamente parlando, l’Iran è paragonabile a un mazzo di carte caduto di lato: una continua caduta di possenti strati vecchi di centinaia di milioni di anni, rovesciati dalla spinta della massa continentale indiana. Nelle linee di faglia, ancora soggette a disastrosi terremoti, si insinuano preziose falde di acqua fossile, mentre vulcani piú recenti attraversano il tutto, creando fumarole nelle quali ribollono strane misture di elementi chimici. Grazie a questa contorta natura geologica, il Paese è ricco di metalli (rame, piombo, zinco, argento e ferro) e minerali rari, il che ha favorito da sempre audaci sperimentazioni. Come la penisola omanita, l’Iran è infatti terra venata dal verde e dall’azzurro dei minerali di rame. E non è certo un caso che gli studi analitici di Andreas Hauptmann abbiano dimostrato che molti cosmetici rinvenuti in Mesopotamia erano polveri e composti costituiti da metalli e minerali provenienti in larga misura dall’altopiano iranico.

Nomadi, allevatori, metallurghi L’allevamento di capre e pecore e l’agricoltura avevano mosso i primi passi in Iran al volgere dell’VIII millennio a.C., ma fu durante il IV millennio che si diffusero nell’altopiano culture indigene territoriali in rapida espansione. Si formarono cosí i primi nuclei di tipo urbano, che vennero in contatto, verso ovest e nordovest, con la cultura mesopotamica di Uruk – in particolare a Susa, in altri centri del Khuzistan e a Tall-i Malyan, l’antica Anshan – e quella transcaucasica detta del Kura-Araxes. Al III millennio, con l’intensificarsi degli scambi commerciali, risale lo sviluppo dei primi centri

Sopra, una coppa aurea e conchiglie contenenti cosmetici di colore nero (kohl), azzurro e rosso.

grandi urbani: oltre a Susa, sempre piú attratta nell’orbita politica mesopotamica, i centri di Konar Sandal e Shahdad nelle regioni di sud-est (Kerman) e Shahr-i-Sokhta nel Sistan; oltre le catene settentrionali, lungo il corso dell’AmuDarya e nel delta interno del Murghab si sviluppavano le potenti cittadelle palatine dei khanati protostorici di Battriana e Margiana. La crescita delle città era favorita dalla disponibilità di acque per l’agricoltura irrigua e l’allevamento animale. Tale crescita comportò una crescente stratificazione della società, lo sviluppo delle attività amministrative, e la partecipazione al commercio a lunga distanza con il contributo attivo di gruppi nomadici e pastorali. Questi gruppi mobili avrebbero svolto un ruolo essenziale nella diffusione per via di terra non solo di oggetti finiti e materie prime (minerali e pietre semipreziose, quindi metalli), ma anche di idee e informazioni strategiche. Parallelamente all’espansione delle carovaniere, continuava a intensificarsi la navigazione lungo le coste del Golfo Persico e della penisola arabica, che univa le coste omanite a quelle indiane. Da allora, l’importanza dell’altopiano iranico è entrata nell’immaginario archeologico come prototipo

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di territorio fornitore di materie prime minerarie. Come lo era, del resto, agli occhi degli scribi mesopotamici, per i quali nelle montagne dell’Est si annidavano l’oscuro Kur, paese straniero e periglioso, ma anche la mitica Aratta, gemella di Uruk, una specie di Eldorado alieno, destinato, volente o nolente, a soddisfare la continua richiesta occidentale di preziose materie prime. Piccoli manufatti in questo metallo, fabbricati martellando a freddo noduli di rame nativo (naturalmente allo stato metallico), sono stati scoperti in siti e strati che oggi sappiamo risalire al pieno VIII millennio a.C. Ma già dal 5500 a.C. in poi i metallurghi dell’antico Iran avevano scoperto non solo efficienti tecniche di raffinazione di minerali metalliferi completamente diversi, ma anche il principio della fusione di piccoli oggetti a cera perduta. Tra il IV e il III millennio a.C. i metallurghi dell’altopiano sapevano fondere oggetti in bronzo arsenicale, intarsiati di conchiglie, grandi piú di un metro, alternando la fusione

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di bitumi e cere a quelle di rame e piombo; e pochi secoli dopo, padroneggiavano la fusione di massicce statue in bronzo a cera perduta di divinità e regine di grandezza vicino al vero. Un’evoluzione tecnica e industriale di rapidità davvero fenomenale! Naturalmente, tutto ciò ci interessa per la semplice ragione che, come abbiamo visto, la cosmetica preistorica è allo stesso tempo radice arcaica e branca rigogliosa proprio della piú antica metallurgia. Si tratta di tradizioni certamente molto antiche, se è vero che nel cuore dei monti Zagros, in grotte frequentate quindicimila anni fa dai raccoglitori e cacciatori, sono stati rinvenuti frammenti di ematite. Dall’ossido di ferro si otteneva un pigmento rosso che, in assenza di pitture rupestri o altre immagini, veniva usato probabilmente per decorare il corpo. Poche informazioni abbiamo a proposito dei millenni successivi, soprattutto perché spesso i ritrovamenti di pigmenti colorati non hanno attirato l’attenzione degli scavatori.

Nella pagina accanto cartina della Mesopotamia. In basso un tipico paesaggio del Dasht-e-Lut, il grande deserto che si estende fra le province del Kerman, del Sistan e il Balucistan.


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Un profumo scomparso Il cosmetico iraniano piú antico e meglio conservato, al momento, è stato trovato in un flacone cilindrico in clorite a Shahdad, (l’antica Xhabis, al margine nord-occidentale del deserto del Lut, nella regione di Kerman). Il contenitore fu trovato in mezzo a frammenti ceramici databili fra il 3600 e il 2900 a.C. Ha la forma di una moderna provetta lunga 15 cm circa; al momento della scoperta, conteneva ancora un materiale soffice e scuro a superficie inclinata verso l’imboccatura. Per circa il 70% del totale, la pasta cosmetica era fatta di cerussite. Grazie a raffinate analisi, sappiamo che essa veniva artificialmente prodotta con una ricetta simile tramandata 3000 anni piú tardi dalle fonti letterarie greco-romane. Tutto ciò sostiene l’ipotesi che i chimici dell’antico Iran avessero, già allora, inventato un processo di sintesi chimica intenzionale. E

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non è tutto: nel fondo della pasta, la parte piú protetta da 5000 anni di alterazione, l’analisi gascromatografica ha rilevato traccia di una sostanza nota come 8-metilcumarina – piú prosaicamente, la stessa responsabile dell’odore dolciastro che tutti sentiamo quando passiamo vicino a un prato di trifoglio falciato di fresco – forse una sostanza odorosa vegetale mescolata al carbonato di piombo. Sempre a Shahdad, le tombe di una vasta necropoli della metà del III millennio a.C. custodivano numerosi piccoli flaconi di clorite verde contenenti simili polveri bianche a base di piombo – i fondotinta a base di cerussite che abbiamo già incontrato in Mesopotamia –, mentre altri piccoli contenitori contenevano pigmenti rossi. Nelle stesse tombe, straordinarie statue in argilla cruda, che sembrano essere veri e propri ritratti dei defunti, suggeriscono

Shahdad, Kerman, Iran. La superficie del sito archeologico dell’antica età del Bronzo (Missione Archeologica Italiana nell’Iran Sud-Orientale). A terra, dispersioni di manufatti litici esposti dall’erosione.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

indirettamente l’uso continuo di un make up scuro o kohl utilizzato per accentuare l’arcata sopraciliare e il contorno degli occhi, come, mille anni dopo, si può osservare nelle teste delle statue reali di Haft Tepe (1500-1250 a.C.) nel Khuzistan. Ma è per il III millennio a.C. che continuano a giungere informazioni nuove e sorprendenti: non solo da Shahdad, ma anche da Shahr-i Sokhta nel Sistan, e dal complesso dei siti di Konar Sandal presso Jiroft, nel bacino dell’Halil Rud. Nelle tombe, negli immondezzai e nelle rovine delle case di Shahr-i Sokhta (3000-2350 a.C. circa) si trovano strani manufatti conici in marmo, travertino zonato (detto piú comunemente «alabastro») o altre pietre dalle attraenti venature. Sull’estremità piú ampia, quella superiore, si apre una cavità conica, un ricettacolo spesso trapanato in modo grossolano, colmo di residui di un materiale

nerastro, debolmente oleoso al tatto. Nelle tombe, questi contenitori sono sempre collocati presso il capo del defunto, dove sono coperti da uno spesso disco con foro centrale biconico, appoggiato all’estremità superiore a mo’ di coperchio. Nel foro del coperchio si vedono sempre tracce scure lasciate dalla stessa sostanza grassa visibile nel contenitore. Curiosamente, i coni non si reggevano in piedi da soli, ma, per essere usati, dovevano essere tenuti in mano; e il coperchio non è mai fissato al cono da incassi o un altro tipo di fermo. A rendere piú misterioso l’oggetto, in alcuni casi dal coperchio fuoriusciva una specie di bastoncino fatto di fibre organiche, difficili da riconoscere a occhio nudo. Di fronte a questa evidenza, gli archeologi sovietici, che avevano trovato esattamente lo stesso oggetto in tombe contemporanee del Turkmenistan meridionale, non avevano avuto dubbi: videro il

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bastoncino come stoppino, la sostanza scura come combustibile, e accendendo la fibra, interpretarono il tutto come «lampade portatili«; mentre per altri ancora si sarebbe trattato di impugnature per trapani. Le prime risposte scientifiche vennero dalle analisi, e confutarono immediatamente sia le lampade, sia i trapani. All’interno vi erano miscele di pigmenti a base di composti di piombo, sia naturali che potenzialmente prodotti per sintesi chimica (laurionite, paralaurionite, fosgenite – le stesse sostanze sintetiche trovate nei cosmetici egiziani, di un millennio piú recenti – e cerussite) oltre a minerali piú comuni come gesso, polvere d’ossa (idrossiapatite) e quarzo. I pigmenti piú pregiati erano prelevati in piccole quantità dai flaconi e mescolati con materiali sbiancanti meno pregiati, soprattutto farina d’ossa. Sono stati rinvenuti anche pigmenti verdebluastri, riferibili a minerali quali atacamite (cloruro basico di rame, Cu2Cl(OH)3), paratacamite, un minerale dello stesso tipo, (Cu,Zn)2(OH)3Cl), nantokite (cloruro di rame, CuCl), spangolite (cloro-solfato basico idrato di rame e alluminio, Cu6Al(SO4)Cl(OH)12 · 3H2O) e pseudoboleite, cloruro idrossido idrato di rame e piombo, Pb5Cu4Cl10(OH)8 · 2(H2O); anche per quest’ultimo minerale, molto raro in natura, è stata ipotizzata la sintesi chimica, ottenuta con prolungate bolliture in soluzioni saline e carbonatiche. Non manca poi la galena, di colore grigio-nero, e solfuri di rame come digenite (Cu9S5) e bornite (Cu5FeS4); e tenorite, un ossido di rame. Vi erano quindi una grande varietà di minerali e composti chimici, una gamma cromatica estesa dal bianco al verde e al blu indaco, tutti indizi di grande esperienza chimica e, in senso lato, metallurgica. Si suppone che il cosmetico scuro, verdastro o bluastro, venisse estratto dalla cavità del flacone e messo all’interno di ciotole di alabastro di forma tronco-conica aperta. In esse era mescolato con paste e pigmenti bianchi (gesso o farina d’ossa), occasionalmente scurito con galena, e solo in

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un secondo momento tornava all’interno del retro del «coperchio», vale a dire il disco con il foro biconico. A questo punto, si faceva passare attraverso il foro del disco, carico della pasta cosmetica, una penna d’uccello (probabilmente di folaga, la specie piú comune sulle sponde del vicino lago); caricandosi di colore attraverso il foro, proprio come in una straordinaria anticipazione delle odierne boccette di mascara, la penna poteva essere usata come applicatore di un ombretto per gli occhi o, appunto, di mascara per le sopracciglia. Un aspetto sorprendente è il mancato uso della polvere di lapislazzuli per il blu, ottenuto invece, a quanto sembra, al costo di complicati procedimenti artificiali di bollitura di soluzioni di cloruri e carbonati di rame e

Shahdad, Kerman, Iran. In basso, flacone per cosmetici in clorite trovato sulla superficie di un nucleo abitativo del tardo IV mill. a.C. L’oggetto conteneva ancora i resti di un fondotinta bianco, a base di carbonato di piombo ottenuto artificialmente (cerussite o biacca).


A destra lo scavo micro-stratigrafico dell’interno del flacone per cosmetici rivelò cinque strati, il piú protetto dei quali, nel fondo della fiala (strato 5) risultava contenere tracce di aromi e sostanze vegetali. In basso a destra il flacone, come era stato rinvenuto sulla superficie del sito.

piombo. In effetti, la polvere di lapislazzuli macinato vira verso il bianco, mentre la laboriosa estrazione dalla pietra del celebre colore ultramarino, tanto amato dai successivi artisti europei sembra essere nota in Asia solamente a partire dall’età storica.

I ritrovamenti dell’Halil Rud Un rinnovato interesse per la storia e l’archeologia dell’Iran è coinciso con la scoperta, negli ultimi vent’anni, di una grande civiltà dai contorni ancora in corso di definizione, denominata civiltà di Jiroft o dell’Halil Rud (fiume Halil). Sorta in una valle interna che si estende per 80 x 400 km circa nella provincia di Kerman, lungo il corso del fiume Halil, questa civiltà, contemporanea alla grande fioritura del mondo mesopotamico, è nota per le migliaia di oggetti e vasi scolpiti nella clorite ottenuti con scavi clandestini, e

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VICINO ORIENTE

Shahr-i Sokhta, Sistan, Iran. Le rovine del Palazzo Bruciato, distrutto intorno alla metà del III mill. a.C.

Simile a una collana

Coperchio-applicatore in calcite zonata, da Shahr-i Sokhta, Sistan, Iran. Prima metà del III mill. a.C. All’interno si trova ancora una pasticca di cosmetico di colore grigio-verdastro, probabilmente usato come ombretto. Il cosmetico si estraeva facendo passare una penna di uccello attraverso il foro.

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dispersi sul mercato illegale antiquario. Gli oggetti in clorite recano scene mitologiche, paesaggi montani, animali in lotta (zebú, felini, scorpioni, rapaci), e motivi ornamentali, spesso con inserti in madreperla, turchese, pietre rosse e lapislazzuli. Produzioni simili erano già note da ritrovamenti in Mesopotamia, Siria, Golfo Persico, Asia Centrale e persino in India, ed erano state precedentemente definite «stile interculturale»: si pensava che comunità di abili artigiani dell’altopiano iranico, per integrare un’economia carente, avessero inventato uno stile universalistico, capace di


A sinistra contenitore conico per cosmetici in calcite zonata, da Shahr-i Sokhta. Roma, Museo delle Civiltà. Il coperchio circolare perforato è in realtà un applicatore per cosmetici come quello illustrato nella pagina precedente.

soddisfare un po’ tutti. Ci si accorse invece che la valle dell’Halil, incredibilmente trascurata sino ad allora, era sede di dozzine di necropoli e di centinaia di tepe, colline artificiali create dalla sovrapposizione secolare di case e delle loro rovine in mattone crudo. Purtroppo la scoperta comportò un anno di disastrosi saccheggi a cielo aperto di migliaia di tombe, contenenti, tra l’altro, centinaia di vasetti in pietra e bronzo colmi di preparati cosmetici. In seguito, scavi sistematici diretti dall’archeologo iraniano Youssef Madjidzadeh portarono alla luce i complessi e la cittadella fortificata di Konar Sandal, probabile sede regale, la necropoli di Mahtoutabad, e di centinaia di altri siti non ancora indagati. Come è stato possibile che di una civiltà cosí sofisticata non vi fosse alcun indizio storico-

letterario? La potenza orientale piú citata nelle tavolette cuneiformi, già a partire dal periodo protodinastico, era chiamata Marhashi, terra e popolo collocati in un luogo ricco di metalli, gemme e animali esotici, annidato nelle montagne orientali. Gli studi di Piotr Steinkeller, assiriologo dell’Università di Harvard, propendono nettamente per una identificazione della nuova civiltà proprio con l’antico paese di Marhashi.

Prima dell’alchimia, la chimica Recentemente è stato possibile analizzare alcuni impasti cosmetici ottenuti da flaconi in clorite, marmo e alabastro, in alcuni casi di alto livello artistico, provenienti dalle tombe della valle dell’Halil Rud, presso Jiroft, datate tra il 2500 e il 2000 a.C. Si va da contenitori

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VICINO ORIENTE

A sinistra lo scavo di una tomba della necropoli di Mahtoutabad, presso Jiroft (2500 a.C. circa). La tomba conteneva un vaso di calcite zonata con i resti di un pigmento cosmetico rosso, posto davanti al bacino del defunto; e un vaso di rame con coperchio ligneo presso i piedi, che conservava resti di un pigmento dal colore giallo acceso, probabilmente natrojarosite (un solfato di sodio e ferro). In basso una scatola rettangolare bipartita in clorite per cosmetici. Tardo III mill. a.C. Kerman, Museo di Jiroft.

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Piccolo contenitore in clorite decorato con «occhi di dado». Metà del III mill. a.C. Kerman, Museo di Jiroft. Questi contenitori, di forma standardizzata, erano ampiamente commercializzati con il loro contenuto di cerussite.

piú semplici, apparentemente «di massa», a prodotti piú curati per fattura e contenuto, forse destinati a persone o contesti di spiccato prestigio. I primi dati, in corso di elaborazione presso laboratori scientifici dell’Università di Padova, e non ancora pubblicati, indicano la presenza in questi cosmetici di elementi chimici e minerali particolarmente rari, quali per esempio stronzianite (carbonato di stronzio, SrCO3) e vanadinite, una apatite contenente vanadio con formula Pb5Cl(VO4)3, fino a ora rinvenuti in manufatti e opere artistiche di gran lunga piú recenti; wulfenite (molibdato di piombo, PbMoO4), braunite (manganito di manganese, MnO3Mn), manganite (ossido di manganese, di formula MnOOH), e molti altri composti ancora piú complessi, oltre ai piú consueti cerussite, malachite, azzurrite. E vi sono anche tracce fortemente indicative di una

sintesi chimica intenzionale, attraverso procedimenti di corrosione acida o di frantumazione ed ebollizione, concentrazione ed evaporazione, purificazione dei precipitati. Grazie alla cromatografia e spettrometria di massa, si sta inoltre indagando il «legante» di questi cosmetici, cioè le sostanze prevalentemente di origine vegetale che conferivano al cosmetico la malleabilità e adesività, e forse avevano anche effetti benefici ed emollienti sulla cute. Si tratterebbe di costituenti delle cere vegetali, acidi cinnamici e alcaloidi: sostanze che possiedono riconosciute proprietà aromatiche, antiossidanti e antinfiammatorie. Pur attraverso i filtri delle probabili trasformazioni post-deposizionali, si stanno aprendo davanti a noi pagine straordinarie di storia della chimica: una chimica dell’antica età del Bronzo, che dunque precede, e di molto, l’alchimia spesso citata come antesignana della chimica sperimentale moderna. L’impressione è che a Marhashi dovessero esistere abili metallurghi e artigiani, esperti nel riconoscimento e nel trattamento dei minerali nelle loro forme amorfe e cristalline, capaci di ottenere una notevole varietà di pigmenti colorati anche con procedimenti sintetici; e altrettanti preparatori di unguenti e profumieri che mescolavano, a tali polveri colorate, elaborate preparazioni organiche. Il rinvenimento di cosmetici nelle sepolture iraniane indica, insieme ai già noti contesti egizi e mesopotamici, quanto questi prodotti fossero importanti nella vita delle comunità e nei comportamenti funerari dell’età del Bronzo, dal Mediterraneo all’Indo. Queste tecnologie, che costituirono la base della cosmetica delle epoche storiche, si svilupparono per millenni grazie alla complessa interconnessione di rotte commerciali e chaînes opératoires, in modi che devono essere ancora compresi. Certo è che a giudicare dai dati attuali la cosmetica dell’antico Iran non si trasmise rapidamente a quella mesopotamica, ma potrebbe aver gradualmente influenzato, ancora piú a ovest, quella egiziana.

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VICINO ORIENTE

Tra macine e alambicchi

G

li scavi di Maria Rosaria Belgiorno (CNR) a Pyrgos Mavroraki (Cipro) hanno portato alla luce un laboratorio degli inizi del II millennio a.C., dedicato alla produzione di cosmetici e unguenti ricavati dalla macerazione di erbe e piante profumate, annesso a un frantoio che produceva ingenti quantità di olio di oliva. Proprio l’olio era la sostanza che fissava i profumi vegetali. Secondo gli scavatori, le analisi effettuate sui contenitori ceramici analizzati hanno rivelato la lavorazione di

«rosmarino, origano, alloro, mirto, prezzemolo, mandorla amara, camomilla e anice». Tra le sostanze organiche identificate dagli scienziati del CNR troviamo anche resina di pino mescolata a oppio e vino, ed efedrina, un’altra sostanza psicotropa. Il laboratorio, improvvisamente distrutto e abbandonato in seguito a un terremoto intorno al 1850 a.C., comprendeva macine in pietra vulcanica, grandi bacili, anfore, tazze, flaconi per profumo, attingitoi e imbuti per travasare i

Pyrgos Mavroraki, Cipro. Gli scavi di un laboratorio per cosmetici e profumi (1850 a.C. circa) hanno portato in luce un apparato produttivo completo, fatto di macine, mortai e pestelli per colori e olii aromatizzati, e di «ampolle» per il trattamento e la conservazione dei liquidi.

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liquidi, alambicchi per distillare. Sono state trovate anche 14 fosse intonacate colme di carbone, che contenevano i vasi destinati alla raffinazione delle essenze.



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QUELL’OSSESSIONE

SUBDOLA E MAGNIFICA BUONO, GIUSTO E NATURALE O DECISAMENTE «AL DI LÀ DEL VERO»? DALLA GRECIA DI POLICLETO AI CONSIGLI DI OVIDIO, DAI RITRATTI BIOGRAFICI DEL FAYYUM ALL’ETERNA GIOVINEZZA DI UN’IMPERATRICE BIZANTINA, MILLECINQUECENTO ANNI DI RICERCA DELLA BELLEZZA «CLASSICA»

S

Cratere a colonnette attico a figure rosse con scena di toletta, da Cortona. Metà del V sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

e guardiamo alla nostra esperienza quotidiana, osserva Umberto Eco, il buono non è solo ciò che ci piace ma anche quello che vorremmo avere per noi: si può considerare buona un’azione virtuosa, e allora vorremmo averla compiuta noi. È buono un cibo raffinato, e allora vorremmo gustarlo. Il bello, infatti, ci appare come un valore in sé, indipendente dal suo possesso; qualcosa che ci piacerebbe fosse nostro, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro. Se ci riferiamo alla persona, il bello può essere visto in questi precisi termini, ma anche come qualcosa che genera attrattività insieme a condivisione, quindi coesione, a sua volta premessa... per la prosaica continuazione della specie. È in questo senso che la bellezza si identifica anche con qualcosa di archetipicamente buono. È questo il filtro che abbiamo ereditato dal mondo classico? Bello, anche allora, era l’aggettivo piú spesso usato per indicare ciò che piaceva. Ma ciò che era «bello» sembrava necessariamente anche «buono» e, non a

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caso, lo stretto legame fra il bello e il buono, inteso non solo come attraente, ma anche come nobile e giusto – per gli antichi Greci «kalos kai agathos» – era la grande qualità ideale che l’Ellade riferiva a se stessa, enfatizzando la propria superiorità culturale e morale nei confronti degli altri popoli, delle tribú «barbare» e dei loro dispotici sistemi di governo. Rientravano nella bellezza umana caratteri «universali» come l’integrità del volto, l’aspetto sano e giovanile, il vigore fisico, senza dimenticare le presunte qualità dell’anima e del carattere che venivano percepite con l’occhio della mente, piuttosto che con quello del corpo. Nell’arte, la bellezza del classicismo era spesso valutata in base alla somiglianza tra artificio e

Particolare della decorazione di una lekythos attica a fondo bianco raffigurante una donna che si lava in un bacino per abluzioni. 470-460 a.C. Londra, The British Museum.

natura, vale a dire sulla verosimiglianza delle opere dell’uomo rispetto ai modelli naturali. Esisteva infatti una «bellezza» della natura che, nel periodo classico, era considerata senza incertezze una qualità intrinseca del mondo. L’arte aveva il compito di imitarla, ma, allo stesso tempo, anche quello di fare bene le cose per lo scopo al quale erano destinate. Si consideravano arti quella dello scultore e del pittore, ma anche quella dell’oratore, del costruttore di barche o del calzolaio. Solo in epoca moderna, infatti, con la riproducibilità su larga scala delle opere, si sviluppò la nozione dell’esistenza di «belle arti» superiori in senso estetico, nettamente separate da altre sfere dell’artigianato e del lavoro umano in generale.

«La mitologia sulle donne è creata dagli uomini, e, in una cultura dominata dai maschi, può avere ben poco a che fare con le condizioni delle donne in carne e ossa» (Sarah Pomeroy, 1975) Ogni techne (arte) era considerata come una forza quasi geneticamente innata in alcune categorie di persone e non in altre. Anche gli artigiani piú abili e sofisticati, come Fidia, erano considerati esattamente come le api, capaci di fare il miele in virtú della propria natura. Se, in un simile quadro, si voglia ricostruire l’ideale di bellezza nel mondo greco-romano – operazione complessa a fronte della sconfinata ricchezza delle fonti archeologiche e letterarie –, bisogna cercare di non guardare all’indietro con occhi troppo attuali, e risalire nel tempo attraversando fasi ed evoluzioni spesso innescate da eventi storici, da continue crisi e dal fluido mutare dei rapporti di potere nelle società umane. Il metodo potrebbe essere, come sempre, far parlare direttamente gli

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Prometeo e Pandora

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ella Teogonia di Esiodo, versi 565-584, il poeta descrive la bellezza di Pandora come un «male scambiato per un bene»: la donna e, per estensione, la sessualità in cambio del principale motore tecnico della complessità del vivere civile. Si tratta della rielaborazione di un tema antichissimo, già presente nell’epopea babilonese di Gilgamesh, quando l’uomo-bestia Enkidu, che vive una sua felice esistenza primordiale tra gli animali dei boschi, viene convertito alla civiltà da Shamash, la prostituta sacra del tempio, grazie alla prestazione del sesso, e

all’iniziazione ai piaceri, altrettanto materiali, del pane e della birra. Si noti come la bellezza di Pandora sia una bellezza costruita artificiosamente: la figura, che dobbiamo figurarci fatta d’argilla come una statua, ha le fattezze di una ingenua «vergine vereconda», ma, in realtà, è resa ammaliante da doni divini dovuti alle sottigliezze tecniche della tessitura e della metallurgia. Da Esiodo in poi, il luogo comune della condanna delle arti subdole con le quali la bellezza femminile riveste ruoli distruttivi, se non malvagi, sarà una costante della cultura ellenica.

«Ma il coraggioso figlio di Iapeto (Prometeo) lo ingannò rubando il bagliore abbacinante dell’invincibile fuoco in una canna vuota all’interno; ferito nel profondo del cuore fu il tonante Zeus, e l’animo gli bruciò dall’ira appena vide che gli uomini possedevano il bagliore splendente del fuoco. Allora, in cambio del fuoco, dispose un malanno per gli uomini: plasmò allora con la terra la figura di una timida vergine, per volontà del figlio di Crono, Atena dagli occhi azzurri fece per lei una cintura e la vestí di una veste bianca e di un velo, ricamato di sua mano, le fece cadere dal capo, meraviglioso a vedersi; tutto intorno, collane di fiori freschissimi, deliziosi, le pose sulla testa Pallade Atena; e intorno alla testa mise una corona d’oro da lei fabbricata apposta, con le sue mani, per compiacere il padre Zeus; su essa, cosa meravigliosa, aveva incise molte belve terribili, quante la terra e il mare ne nutrono a frotte, e tante ne aveva poste, pervase di grazia, magnifiche, simili in tutto agli animali dotati di voce».

autori e le migliaia di oggetti e contesti che fanno cosí promettente e inesauribile la ricerca archeologica. In simili ricostruzioni, l’esaltazione e conservazione della bellezza della persona, nella millenaria lotta contro il trascorrere del tempo e nella comunicazione attraverso il corpo di universi di significati, valori e ideologie, come si è visto, sono ancora largamente in corso di indagine.

Nella Grecia arcaica Nel mondo arcaico di cultura greca, la parola chiave della bellezza in quanto «moda» e fenomeno politico-sociale è habrosyne,

Christina Nilsson come Pandora, olio su tela di Alexandre Cabanel. 1873. Baltimora, Walters Art Gallery. La donna che il pittore ritrae nelle vesti della leggendaria Pandora, Christina Nilsson, era un celebre soprano svedese.

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traducibile con «gusto dell’opulenza, dell’eleganza e della ricercatezza». A seguire le fonti, il rapporto del mondo greco con questo fenomeno sembra aver origine dalla cultura degli abitanti delle coste dell’Asia Minore e delle isole antistanti. Da qui, ben presto, il fenomeno sarebbe giunto a contaminare tutta la grecità, senza escludere nemmeno la piú sobria e severa Sparta, che, secondo Tucidide, aveva inizialmente tentato di opporvisi. Nelle popolazioni anatoliche e mesopotamiche, progressivamente inglobate nella sfera commerciale e amministrativa dell’impero persiano degli Achemenidi, vigeva un costume descritto dagli autori ellenici come un lusso costellato di unguenti, profumi, monili, vesti di grandissimo pregio e raffinatezza, e naturalmente – almeno agli occhi dei critici dei Greci delle origini – a una immorale e indolente mollezza. Ateneo di Naucratis (III secolo d.C., testimone tardivo e indiretto) ricordava che vi erano ben 14 profumieri fra il personale della tenda dell’imperatore persiano Dario. La scultura di periodo arcaico, influenzata, appunto, da modelli orientalizzanti, riservava alle immagini divine femminili una imponente e lussuosa dignità, fatta di sguardi sereni e imperscrutabili, di volumi solidi, compatti e bilanciati, e di vivacissimi colori ai quali si affidava il compito di riprodurre lo sfarzo dei tessuti piú preziosi. Le donne delle classi elevate evidentemente dedicavano particolare cura anche ai capelli, con extensions e acconciature elaborate tenute insieme da pettini, nastri, diademi e spilloni. Vi sono anche immagini, nelle ceramiche arcaiche a figure nere, nelle quali la «bellezza» delle figure femminili non è affidata all’eleganza di vesti e ornamenti o all’erotismo, quanto piuttosto al prestigio della signora della casa aristocratica come padrona e manager di attività domestiche importanti sia sul piano economico, sia su quello della celebrazione di grandi rituali pubblici: in primo luogo, la produzione di costosi, grandi tessuti su imponenti telai verticali. Il bello, in simili contesti, coincideva semplicemente con il

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nobile e la preminenza sociale. L’habrosyne trasmessa da lussuose vesti e ricchi monili, del resto, aveva evidentemente una connotazione fortemente aristocratica; ma l’aspirazione a esserne parte era estesa a tutta la società greca, come è evidente in quanto sappiamo a proposito di comportamenti e della cura del corpo in età arcaica. Autori quali Saffo, Alcmane e Senofane citano oggetti preziosi come copricapi, bracciali d’oro, costumi sgargianti di porpora, chiome splendide olezzanti di unguenti profumati. Secondo Esiodo (VII secolo a.C.) alle nozze di Cadmo e Armonia le muse e gli dèi cantavano in onore degli sposi: «Chi è bello è caro, chi non è bello non è caro». Questi versi proverbiali, piú volte ricordati dai poeti, tendono a escludere che la Grecia arcaica avesse una visione puramente estetica della

«Odoravano d’unguento chioma e seno: anche un vecchio ella avrebbe innamorato» (Archiloco) bellezza. Proprio come l’oracolo di Delfi, interrogato sul criterio di valutazione della bellezza, avrebbe risposto «Il piú giusto è il piú bello». Al punto che lo stesso Esiodo descrisse la prima donna, Pandora, come un «bel male», una creatura con un «cuore di cagna» rivestito da un involucro esteticamente seducente, ma anche un male, per quanto necessario agli uomini al fine di garantire loro la discendenza. Omero nell’Iliade, Libro III, dichiara: «Non è vergogna che i Teucri e gli Achei dagli schinieri robusti, per una donna simile, soffrano a lungo dolori: terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali! Ma pur cosí, pur essendosi sí bella, vada via sulle navi, non ce la lascino qui, danno per noi e pei figli anche dopo!». Gli autori del mondo greco arcaico enunciano

Sulle due pagine repliche dell’Afrodite Cnidia scolpita da Prassitele nel 364-361 a.C. Nella pagina accanto, la Venere della Collezione Ludovisi (Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps); a destra, particolare, della Venere venduta ai Medici dai Colonna (Firenze, Galleria degli Uffizi).

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uno stretto legame fra la bellezza femminile e una sua intrinseca, mortale pericolosità. In altre parole, il celeberrimo «kalos kai agathos» valeva per l’uomo, ma non per la donna! Di qualsiasi cosa fosse tacciata la bellezza femminile, l’atteggiamento piú semplice era di sommergerla con la misoginia. Quando, di lí a poco, i pittori della piú popolare ceramica tardo-arcaica a figure rosse dipinsero

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Particolare della decorazione di una oinochoe attica a figure rosse con una giovane che mostra una collana di perle a un amorino, da Nola. 410-400 a.C. Tolosa, Musée Saint-Raymond.

corpi femminili nudi, appare chiaro che avevano con essi una dimestichezza piuttosto limitata: a volte, essi dipingevano corpi maschili ai quali applicavano due seni triangolari, spesso davvero poco convincenti. Facile, a questo punto, cedere alla tentazione di sottolineare come una cultura nella quale l’omosessualità maschile era largamente accettata, e per la quale le donne rimanevano segregate in casa


per buona parte del proprio ciclo vitale, non consentiva agli «artisti» una fedele riproduzione delle realtà femminili.

La Grecia classica ed ellenistica Nel corso del tempo, si sarebbero sviluppati, a proposito di raffinatezza estetica, giudizi etici nettamente negativi. Li ritroviamo, per esempio, in Senofane di Colofone (570-475 a.C.), il quale sottolineò la crescente connotazione barbarica degli sfarzosi costumi dei suoi concittadini; oppure in Tucidide (460-circa 400 a.C.), che criticò gli anziani aristocratici di Sparta per l’uso

In alto pissidi con resti di paste coloranti. Atene, Museo del Ceramico. A sinistra contenitore per profumi in vetro colorato. Fine del IV-III sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

dei chitoni di lino e delle cicale d’oro per annodare i capelli, segni di effeminato orgoglio, e di un tenore di vita smodatamente raffinato. Tuttavia, le pulsioni moralistiche non sembrano aver ostacolato un crescente apprezzamento estetico, speculazioni filosofiche e nuove sperimentazioni riguardanti le forme corporee, sia maschili, sia femminili. Si parla espressamente di canone (dal greco kanon cioè «regola») a proposito di Policleto (l’«eroe culturale» delle proporzioni corporee, attivo nella seconda metà del V secolo a.C.), che avviò una ricerca sui rapporti numerici ideali del corpo umano, riferimento per i successivi scultori, e fonte di continue metafore per medici e filosofi delle epoche a venire.

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La bellezza sembra ora fondarsi sulla «misura» e sulla proporzione armoniosa delle forme (analogia), alla quale gli antichi Greci associano grazia ed equilibrio. Secondo Quintiliano (I secolo d.C.), Policleto avrebbe intenzionalmente evitato di scolpire figure di anziani, limitandosi rigorosamente a immagini di giovani: il preteso realismo degli artisti di età classica aveva confini molto precisi. In realtà, dell’opera testuale di Policleto sopravvivono solo poche citazioni, riportate da scrittori ellenistici in modo, a quanto pare, tanto impreciso e superficiale che se ne sta ancora discutendo senza sosta: il canone resta un totale mistero. Come ha notato un critico, «Deve essere considerata un’anomalia del sapere accademico degli archeologi il fatto che sino a ora nessuno sia riuscito a estrarre le regole del canone policleteo dalle sue realizzazioni visibili, né a compilare le misure commensurabili che sappiamo esso conteneva». La citazione forse piú interessante si trova nell’opera De placitis Hippocratis et Platonis del medico Galeno (II secolo d.C.), il quale riporta un parere di Crisippo (III secolo a.C.): la salute del corpo si deve alla simmetria di caldo, freddo, asciutto e umido. Parimenti, la bellezza (to kallos, comunemente opposto a to aischron, il brutto) del corpo consiste nella simmetria delle parti: di un dito rispetto a un altro, delle dita nel loro insieme rispetto alla struttura del polso, di questo rispetto all’avambraccio, e dell’avambraccio rispetto alla parte superiore del braccio, e cosí via. Come previsto, appunto dal kanon di Policleto, termine che oltre a designare il trattato, sarebbe stato anche fisicamente incorporato in una statua omonima, oggi perduta (a meno che non sia da identificare, come molti vorrebbero, con il suo marziale Doriforo).

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Vogliamo cercare altre tracce di una millenaria continuità? La parola greca kanon sembrerebbe etimologicamente legata alla «canna», ossia allo strumento di misura lineare che le divinità mesopotamiche tendevano ai sovrani da loro protetti, nell’affidare loro la costruzione dei grandi santuari. Nel trattare della resa del corpo umano, alcune fonti antiche indugiano nel confronto tra l’opera di Policleto, vista come il culmine

Pisside attica a figure rosse con scene che vedono protagonisti donne ed eroti. Fine del V sec. a.C. Oxford, Ashmolean Museum.


dei modi degli antichi, e quella dei suoi successori. Questi testi ricordano la precisione (akribeia), che nelle statue di Policleto derivava da accurate proporzioni numeriche, per produrre, con formula latina, un decor supra verum (una bellezza al di là del vero o del naturale, che evitava ogni espressione di difformità), mentre le figure di Lisippo (seconda metà del IV secolo a.C.) perseguivano una somiglianza totale al soggetto rappresentato.

Lisippo, infatti, si distaccò dai precedenti canoni, fabbricando statue le cui proporzioni anatomiche variate tenevano conto delle distorsioni ottiche nella percezione visiva umana. Le sue figure umane (maschili) erano piú esili e gracili, mentre la testa risultava rimpicciolita. Come scrisse Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), egli «diceva che gli scultori a lui precedenti riproducevano gli uomini come erano, ed egli invece come all’occhio appaiono essere» (Naturalis Historia, XXXIV, 65). Tanto piú che, sempre secondo le fonti, suo fratello Lisistrato di Sicione sarebbe stato il primo a usare calchi in gesso, con una tecnica quasi fotografica, per riprodurre esattamente le fattezze dei volti. Strade diverse, dunque, ma comunque indirizzate a nuovi canoni di bellezza come fedeltà imitativa. Piú in generale, irrequietezze e dubbi muovevano in una nuova direzione: come rispettare il dettame della rappresentazione del bello, quando la natura stessa – per come stava rivelandosi alla biologia, alla medicina e alla geografia di un mondo in continua dilatazione – si esprimeva spesso nell’anomalo e nel deforme? Un problema insolubile, ma che diede vita alla rivoluzione estetica dell’arte ellenistica. Il fisico femminile piú apprezzato e

«Quale la cosa piú bella sulla terra nera? Una torma di cavalieri, dicono alcuni, altri di fanti, altri di navi. Io, ciò che si ama» (Saffo) | BELLEZZA | 111 |


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riprodotto dagli scultori del tempo, abbandonate le algide convenzioni della femminilità austera delle dee arcaiche, appare sempre piú carnale (sarkinos) e formoso, con fianchi larghi, seno e glutei non troppo pronunciati, rotondi e sodi. Prassitele (370-330 a.C.) lo avrebbe immortalato e canonizzato nella celebre Afrodite di Cnido (in origine, una dea protettrice della navigazione), opera a noi nota solo attraverso copie di epoca romana. A fronte a tale prestigiosa (ma anche erotica) attenzione per l’aspetto esteriore della donna, la società ateniese e greca in generale continuò a fondarsi sulla disuguaglianza tra i generi, vigorosamente sostenuta da scritti medici e filosofici che, anche nella riflessione aristotelica, teorizzano l’inferiorità fisica e morale della donna, giustificandone la subordinazione. Era necessario tuttavia formare la donna almeno al ruolo sociale di madre, e questo processo si articolava secondo modalità e tempi diversi a seconda dell’epoca, della polis e della classe sociale di appartenenza. Esisteva una paideia femminile, fatta di educazione alla danza, al canto e

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all’attività fisica, ritmata da feste religiose che miravano a coinvolgere le giovani donne e a garantire loro l’assunzione del futuro ruolo di madri di cittadini. Vi era poi uno spazio pubblico non accessibile alle spose ma occupato da donne non libere e prostitute, svincolate da legami matrimoniali e obblighi familiari. Analogamente a quanto avviene in alcune società del nostro tempo, la sposa greca delle élite, pur segregata in casa e ai margini della vita pubblica secondo il modello della donna-ape (melissa) laboriosa e sottomessa, già esaltato in epoca arcaica, non rinunciava al lusso nel vestiario, negli ornamenti e nella cura del corpo, come testimoniano le commedie di Aristofane e il frequente ricorrere di leggi suntuarie miranti a contenere «l’eccessivo sfarzo delle donne» e a limitarne la visibilità sociale. Già nelle raffigurazioni su ceramica a figure rosse della seconda metà del V secolo a.C., e nei decenni della Guerra del Peloponneso (431404 a.C.), questo scopo appare pienamente conseguito. Pissidi (le scatole usate per unguenti e belletti) e altri vasi ci mostrano

Nella pagina accanto, in alto particolare di uno skyphos attico raffigurante una donna che tiene uno specchio e un cofanetto per gioielli. 420-410 a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso cucchiaino per cosmetici in faïence in forma di ragazza che nuota. VI sec. a.C. Londra, The British Museum. Nella pagina accanto, in basso cassetta portagioielli, da Cuma. Età ellenistico-romana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


quadri di vita quotidiana tratti da un claustrofobico universo-gineceo: le donne siedono a truccarsi con specchi, drappi, telaietti da ricamo, cesti per la lana, brocchette e flaconi di unguenti, circondate da svolazzanti amorini, mentre pesanti porte chiuse divengono il simbolo materiale della loro separazione dal mondo attivo dei maschi. La bellezza tanto temuta dalle antiche ideologie aristocratiche si è finalmente trasformata in una dimensione di apatica prigionia, allietata (si fa per dire) da una tecnologia cosmetica che si faceva sempre piú industriosa quanto complicata. La parola cosmetico deriva dal greco kosmèo, adornare, che deriva a sua volta da kòsmos,

«Zeus, perché hai dunque messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole?» (Euripide) ordine in opposizione al caos. Le pratiche cosmetiche della donna greca sono state ben riassunte e commentate da Rossano De Cesaris. Alcuni unguenti legano il loro nome alla città di provenienza: a Cheronea veniva prodotta una crema idratante ed emolliente ricavata dal giglio, che fu di gran moda per molto tempo. Sulla pelle del volto si applicava lo psimuthion, ossia il bianco di biacca o cerussa, costituita da carbonato basico di piombo (cerussite) probabilmente miscelato a sostanze grasse, che conferiva all’incarnato un aspetto ceruleo uniformando la cute e coprendo gli inestetismi. Gli autori antichi spesso ridevano dell’abuso di queste ben note sostanze: «Sei una scimmia imbiancata con il piombo o il fantasma di qualche vecchia megera tornata dai confini oscuri della morte?», scriveva beffardo Aristofane (455388 a.C.). Le sopracciglia venivano ridisegnate con polvere di antimonio o sughero bruciato o

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fuliggine, piuttosto unite al centro, secondo Teocrito (315-circa 260 a.C.), come tratto distintivo di bellezza della donna mediterranea. Gli occhi erano contornati da un composto che, secondo Dioscoride (40-90 d.C.), si otteneva mescolando il nerofumo ottenuto bruciando aghi di pino e grasso animale o vegetale, oppure bianco d’uovo o resine naturali. Altrimenti si utilizzavano antimonio, sughero bruciato e fuliggine. Gli ombretti erano prodotti con polveri ottenute dalla combustione di noccioli di dattero bruciati o foglie di rosa. Le ciglia si scurivano con nerofumo mescolato a chiara d’uovo.

Per ravvivare le guance Dal IV secolo a.C. in poi, le guance venivano ravvivate con vari estratti vegetali, come polpa schiacciata di more, fichi rossi, gelsi, fragole, succo di barbabietola rossa; altrimenti si usava la radice di Anchusa o di Alkanna tinctoria, che secondo Dioscoride forniva un cosmetico «dello stesso colore del sangue». Questo colore rosso si poteva ottenere anche con alghe rosse come il phukos o con il cinabro (solfuro di mercurio, HgS, sostanza da sempre simbolicamente associata, per via delle proprietà del metallo liquido, all’idea di immortalità). Le labbra venivano decorate con il miltos, il cui rosso era ottenuto dall’Anchusa tinctoria o dal minio (ossido misto di piombo, 2PbO·PbO2). Tuttavia i colori preferiti sembra fossero il rosso mattone a base di ossidi di ferro, e il marrone ottenuto da polveri argillose. Nel Museo dell’Acropoli di Atene si può ammirare la Kore di Euthydikos (480 a.C.), le cui labbra sono ancora di color ruggine. Le tinture a base di antimonio, o talvolta ottenute con paste fatte con sanguisughe decomposte, permettevano di scurire i capelli, mentre quelle a base di tintura di faggio li schiarivano. L’henné conferiva apprezzate sfumature rossastre. Fra le sostanze odorose della cosmesi vi era la bakkaris, un unguento-cosmetico per il viso estratto dalle radici dell’omonima pianta, forse quella chiamata oggi hatmi in Turchia (Althea

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Pompei, Villa dei Misteri. Particolare degli affreschi della Sala della Megalografia raffigurante una giovane donna che viene pettinata. I sec. a.C.


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Affresco raffigurante una fanciulla che versa profumo in un’ampolla, dalla Villa della Farnesina (Roma). I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

officinalis). A testimonianza della diffusione dei profumi e olii orientali, a partire dal VII secolo a.C., l’uso di alabastra (balsamari in ceramica o pietra di forma allungata) e di altri contenitori per cosmetici – aryballoi, askoi, e lekythoi – si diffuse dalla Grecia dell’est e da Corinto alla Grecia continentale, in Italia, Etruria e nelle colonie greche, fino alla costa della Spagna. Le sostanze aromatiche piú pregiate venivano da molto lontano, soprattutto dalla penisola sudarabica: per Erodoto erano cassia, cinnamomo, ledano e soprattutto incenso e mirra.

Ora che Roma è tutta d’oro... Anche a Roma la condizione della donna era di sottomissione all’uomo: al padre, ai fratelli e infine al marito, dai quali dipendeva anche per l’esercizio di diritti giuridici quali sposarsi, ereditare e fare testamento. Nelle iscrizioni funerarie i mariti romani lodavano le loro consorti con aggettivi quali: pia, pudica, frugi, casta, domiseda, lanifica. Tuttavia, già dall’età arcaica, le donne romane erano strumento di trasmissione di cultura, educando personalmente i figli e preparandoli a divenire cives romani; nonostante l’inferiorità giuridica avevano ruoli sociali complementari rispetto all’uomo, ma non inferiori per dignità, sia all’interno della famiglia che in contesti esterni a essa. Cornelio Nepote (100-circa 27 a.C.) nella prefazione alle Vite degli uomini illustri, dichiara: «Sono ritenuti scorretti presso i Greci molti atti che sono buoni secondo la nostra mentalità. Quale Romano per esempio ha ritegno di andare a un banchetto con la moglie? E quale madre di famiglia evita di soggiornare nelle stanze d’entrata, e di

scambiare parola con chi va e chi viene? Eppure in Grecia le cose stanno altrimenti: la donna non siede a mensa se non tra parenti, e passa il suo tempo unicamente nella parte piú remota della casa, che si chiama gineceo, dove nessuno può entrare se non è stretto congiunto». La famiglia romana, dunque, era ambiente e palcoscenico della bellezza femminile in misura molto maggiore di quanto non avvenisse in Grecia. E a tale visibilità femminile corrisposero nuovi sviluppi. A cavallo fra il III e il II secolo a.C. Roma iniziò una rapida espansione che, in pochi decenni, l’avrebbe condotta a dominare il Mediterraneo orientale, portando a casa ricchezze, materie prime e un’inevitabile contaminazione dei costumi: iniziò cosí il periodo aureo dell’abbigliamento, della cura del corpo e della cosmesi, in parte condivisi da maschi e femmine, e diffusi gradualmente dai vertici a tutti gli strati della popolazione. Nella cosmesi romana si distinguevano un’ars ornatrix, che riguardava la cura della pelle con maschere, unguenti e balsami, e un’ars fucatrix, cioè l’arte del trucco «ingannatore», la cui distinzione viene enfatizzata anche negli scritti di Galeno. Non mancavano, come peraltro in Grecia, le critiche severe all’abitudine di cambiare radicalmente i connotati con il trucco. A proposito dell’ars ornatrix, e riprendendo l’analisi di Rossano De Cesaris, viene descritta da Plinio il Vecchio una pozione schiarente per il viso a base di sterco di coccodrillo, denominata crocodilea, mentre da Giovenale apprendiamo l’invenzione attribuita a Poppea di una maschera a base di latte d’asina e farina di segale per mantenere

«Rozza semplicità fece il suo tempo. Ora non piú: che Roma è tutta d’oro, domina il mondo intero soggiogato e le ricchezze. Ami chi vuole quelle antiche età; per me, sono contento d’esser nato oggi soltanto» (Ovidio, Ars amandi) | BELLEZZA | 117 |


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il viso liscio e vellutato. Addette alla preparazione di queste pozioni erano schiave denominate cosmetae. Il grasso di cigno era speciale per combattere le rughe, la lanolina estratta dalla lana di pecora e la placenta di mucca erano utili per la cura del viso e dell’acne. Alcuni di questi ingredienti, benché strani, sono rimasti in uso anche oggi per la loro indubbia efficacia: la lanolina o gli estratti di placenta, come pure il latte, quale esfoliante cutaneo grazie alla componente di acido lattico. Citiamo ancora, per gli usi piú vari, il fiele (succo biliare) di toro e d’asino, il burro, i bulbi di narciso, le radici di melone, il bicarbonato di sodio e gli estratti di genitali di vitello (non a caso l’industria cosmetica di oggi si vanta di limitare l’uso di prodotti di origine animale!). Si diffusero le creme, composti formati da parte acquosa e parte oleosa tenute insieme da un agente emulsionante. Plinio enumerava sapientemente ricette e proprietà salutifere di mille erbe e decotti; mentre il «libertino» Ovidio prometteva alle donne successo e delizie amatorie se avessero seguito i suoi consigli di bellezza, trucco e seduzione: «Voi già sapete come render bianca con la cera la pelle, e se dal sangue non vi viene il color roseo del viso, supplisce l’arte; e poi con arte ancora marcate l’orlo rado ai sopraccigli, e con piccolo neo fate piú bello il lindor della guancia. Né vergogna è già segnare gli occhi con un tenue tocco di carboncino o con il croco delle tue rive, o trasparente Cidno. Già compilai per voi, donne, un libretto ricco d’ogni consiglio alla bellezza; è un piccolo libretto, ma prezioso. Rivolgetevi a lui che vi ristori dallo sfacelo delle vostre forme: sempre per voi è pronta l’arte mia. Ma che l’amante non vi colga mai con i vasetti delle vostre creme! L’arte che vi fa belle sia segreta» (Ovidio, Ars amandi, 305-323, 181-183). E ancora: «È giusto che vi preoccupiate di piacere, poiché nella vostra generazione ci sono uomini ben curati. I vostri mariti assumono gusti e modi di essere femminili e a stento la sposa ha qualcosa da aggiungere al loro lusso» (Ovidio, Medicamina faciei

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femineae, 23-26). Questi consigli venivano elargiti dal poeta mentre nella classe dominante si diffondeva la menzione di un tipo di donna che non incarnava piú il modello di figlia, sposa e madre virtuosa, ma era prototipo di dissolutezza e seduzione per fini illeciti, o per semplice desiderio di potere. Modelli letterari di decadenza e malcostume, le vicende di tali donne dovevano servire a mettere in guardia le giovani fanciulle, mostrando a cosa sarebbero andate incontro se non si fossero comportate nel rispetto delle tradizioni. Tutto ciò, come Ovidio avrebbe amaramente imparato a sue spese con l’esilio, tracimava abbondantemente in oscure pieghe della politica.

Uova e corna di cervo Le donne, comunque, continuavano a curare la pelle e a truccarsi. Il poeta, grande osservatore del costume femminile e delle sue trasformazioni, ci ha tramandato laboriose e francamente poco attraenti ricette cosmetiche che suonano cosí: prendere dei grani d’orzo decorticati, e della lenticchia bastarda macerata in 10 uova e fatta essiccare; poi macinare tutto e aggiungere corna di cervo sminuzzate; aggiungere quindi dei bulbi di narciso sbucciati e pestati, della resina vegetale, farina e miele. Qualunque donna applicherà al volto tale pasta cosmetica, avrà la pelle piú brillante del suo specchio. Oppure, ecco qui la ricetta dell’Alcionea: prendere dei lupini abbrustoliti e fava cotta ridotti in polvere, biacca, salnitro e polvere di iris. Impastare tutto, e aggiungere nidi di alcioni. Applicare sul volto per eliminare le macchie della pelle. Oppure, ancora, un altro rimedio per l’arrossamento del volto: gli ingredienti sono incenso, salnitro, resina e mirra. Pestare e setacciare, aggiungere miele, finocchi, petali di rosa, incenso maschio, sale libico e orzo. Il trucco del viso, nel mondo romano, rientrava comunque nelle insidie dell’ars fucatrix, e comprendeva un prodotto base che poteva ricondursi alle ricette di Ovidio o ad altri miscugli in cui rientravano spesso cerussa, ocra rossa, eventualmente gesso,

La Cleopatra Nahman. Collezione privata. La testa in marmo bianco conserva tracce di stucco e, in origine, doveva essere colorata. Lo stucco permetteva anche di definire con maggiore accuratezza l’acconciatura. L’insieme dei caratteri stilistici consente di ascrivere l’opera all’ambiente alessandrino della fine del regno della regina.


Eau d’ancien Egypte

In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ell’estate del 2019, i giornali hanno dato rilievo alla ruptatemqui ricreazione di un profumo dell’età di Cleopatra, che conseque vite es è risultato «intenso e speziato», da parte di studiosi sae quis deris dell’Università delle Hawaii. La riproduzione rehenis aspiciur sperimentale è basata sulla scoperta di un laboratorio di sincte seque con profumi nel sito dell’antica Tmui (Tell El-Timai, la zona nusam fugit et qui industriale della città di Mendes) nel Basso Egitto. Tra le bernate laborest, ut fragranze ut aliquam rentus utilizzate dagli artigiani, le analisi dei residui secchi nei contenitori hanno individuato mirra, magnim ullorepra cardamomo (nelle due varietà Cinnamomum verum e serro dolum

N

Cinnamomum cassia), olio di oliva, resine, cannella e altre spezie. Vicino al laboratorio per la produzione delle essenze vi erano attive fornaci per la fabbricazione di lekythoi (vasetti per unguenti) e boccette di vetro nelle quali erano commercializzati i prodotti.

farina di riso e fave, gusci di piccione tritati. Sembra che grazie a questo preparato si ottenesse un incarnato pallido e ceruleo, simbolo di eleganza, eventualmente arricchito da gote rosseggianti. In alcune occasioni si applicava come brillantante una polvere di cristallo macinata. Le sopracciglia venivano modellate in modo da renderle vicine tra loro, e arrotondate utilizzando carboncini, stoppini di lucerna, antimonio in polvere, fuliggine o piombo. Dopo la conquista della Gallia, mentre i Romani venivano a contatto con esotiche bellezze settentrionali, si diffuse anche la moda di schiarire i capelli e le sopracciglia. L’incavo degli occhi andava scurito per accentuare la profondità dello sguardo. Gli occhi stessi erano bordati di nero con polveri ottenute dalla fuliggine, dall’antimonio in polvere, dal nerofumo di datteri bruciati, dalle formiche abbrustolite, dal nero di seppia o dal manganese. In alcuni casi si usava l’immortale kohl di provenienza egizia, a base di piombo, che serviva anche per annerire le ciglia. Sulle palpebre si stendevano ombretti di colore giallo (fornito dallo zafferano), verde (malachite), azzurro/indaco (malachite o azzurrite, un altro carbonato di rame, con formula Cu3(CO3)2(OH)2) e sfumature di grigio (fuliggine). I pigmenti rossi usati per labbra e guance erano ottenuti dai già citati fucus, Anchusa tinctoria, da bacche e frutti rossi, dalla feccia del vino, dalla cocciniglia, dal sangue di piccione, dal cinabro, dal minio, dalla sandracca (la resina estratta dall’arbusto Tetraclinis articulata), da misture di argille ed ematite, e da alcuni molluschi da cui si estraeva la preziosa porpora. Nel periodo imperiale, il rossetto a base di minio si applicava alle labbra delle statue degli dèi durante le celebrazioni religiose. Alla preparazione di cosmetici per le guance erano addetti schiavi che, dopo aver trattato con erbe aromatiche e disinfettato il cavo orale, masticavano e risputavano gli ingredienti cosí trattati. Sembra che l’etimologia di «fard» derivi da un’antica voce franca farde, cioè

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«colore», in seguito passata a significare anche «materia sudicia, sputo». Le indagini fisico-chimiche e mineralogiche possono chiarirci alcuni caratteri e differenze regionali negli usi cosmetici di epoca grecoromana. Uno studio di Eléonore Welcomme e collaboratori ha preso in esame i pigmenti bianchi usati in cosmesi per schiarire il volto, provenienti da contesti dei secoli IV e III a.C. di area ellenistica (Eleusi, Demetriade e Derveni), del IV secolo a.C. a Paestum, Pompei e nella Gallia e Germania romana (Alesia, Amiens, Colonia). Alcune polveri risultavano composte, come quelle di tremila anni prima, da idrocerussite e cerussite (bianco di piombo o biacca) in varie proporzioni. Altre contenevano pigmenti a base di calcite o gesso.

I campioni di Pompei e di ambito romano periferico (Gallia e Germania) non contenevano mai pigmenti a base di piombo, ma piuttosto calcite o gesso con varia granulometria: in effetti, secondo gli autori antichi le donne romane usavano, oltre alla cerussa, delle polveri fini denominate «terre bianche». L’uso del gesso in cosmetica è menzionato dal poeta Nonno di Panopoli già nel V secolo a.C. Le fonti letterarie successive (Teofrasto, IV secolo a.C.; Plinio il Vecchio e Dioscoride, I secolo d.C.) citano terre bianche quali caolino, calce e gesso, preparate con procedimenti che presumiamo complessi, la cui descrizione purtroppo non è giunta fino a noi. Plinio e Dioscoride citano la terra bianca di Chios (Chia Terra) e la Selusina creta, la creta argentaria e quella annularis come ingredienti di

Una ricerca complessa

U

na costante condizione nello studio dei cosmetici antichi è la difficoltà di riconoscere nei composti i minerali originari, gli effetti del loro trattamento chimico e quelli delle trasformazioni da questi subite durante il seppellimento. La natura artificiale dei fondotinta chiari a base di piombo di età ellenistica è stata dedotta dall’aspetto dei grani, a forte ingrandimento, al microscopio a scansione: l’omogenea finezza e regolarità delle particelle è infatti piú compatibile con una sintesi chimica che con un processo di frantumazione, che avrebbe prodotto granuli piú grandi.

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In un campione di Eleusi si osservano particelle aghiformi, anch’esse incompatibili con la frantumazione meccanica, che tenderebbe a formare granuli sferoidali. Lo studio del degrado di questi materiali è stato affrontato con la diffrazione dei raggi X: collimando le radiazioni su diversi livelli del campione (quindi esplorandolo chimicamente a varie profondità), sono state escluse importanti modificazioni negli strati piú superficiali. Al contrario, l’analisi del cosmetico contenuto in un flaconcino tardo romano in vetro, in parte frammentato, rinvenuto in Palestina in una


In alto testa di una statuetta in avorio raffigurante un volto femminile, da Nimrud. VIII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto in basso coppetta fenicia in avorio per cosmetici in forma di anatra, da Tel Dover. Periodo degli Hyksos. Haifa, Reuben and Edith Hecht Collection.

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La raccolta della resina secreta dall’albero del drago di Socotra (Dracaena cinnabari), chiamata «sangue di drago», da cui si ricavano farmaci e tinture.

paste usate per rendere piú chiaro il viso. Invece nei cosmetici di area ellenistica, come anche a Paestum, si usavano pigmenti a base di piombo.

I ricchi mercanti del Levante I Fenici erano noti già agli scrittori dell’antichità come protagonisti di comunità mercantili a elevato standard di vita, distinti in pubblico dal gusto raffinato e dall’uso di colorazioni vivaci nell’abbigliamento. Il loro stesso nome è in relazione al termine greco phoenix, cioè rosso, come la porpora di Tiro, il cui commercio fu da essi monopolizzato per lungo tempo, o come l’alizarina estratta dalla Rubia tinctorum. Le attività dei Fenici e delle successive comunità che chiamiamo convenzionalmente puniche erano collegate a rotte commerciali estese dall’Oriente e alle relative materie prime, che essi elaboravano e distribuivano, dal Mediterraneo allo stretto di Gibilterra, assumendo la funzione di autentici mediatori culturali. I laboratori di Cartagine erano famosi per la produzione di medicinali e cosmetici, e a Tiro, Sidone e Rodi si producevano contenitori in pasta vitrea e alabastro per cosmetici e unguenti che venivano esportati un po’ ovunque. Recenti indagini di Cecilia Baraldi e collaboratori su contenitori rinvenuti in contesti funerari a Mozia, Lilibeo e altri siti della Sicilia hanno evidenziato una notevole

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varietà di prodotti e tecnologie in ambito cosmetico. I flaconi, con forme puniche o interculturali greco-puniche, si datano tra il VI e il III secolo a.C. I risultati delle analisi dei contenuti colpiscono per il gran numero di polveri rosse, quasi a sottolineare la passione dei Fenici per questo colore. Accanto al piú che probabile uso cosmetico, il rinvenimento degli stessi pigmenti su ossa o crani ne suggerisce un uso di natura funeraria. In molti casi, il pigmento principale, come di consueto, era l’ematite, sia naturale che artificiale, ottenuta in questo caso dal riscaldamento della goethite a 300-350 °C, come emerso da analisi spettroscopiche. Altre polveri rosse e rosate, contenute in alabastra per unguenti e profumi, contenevano cinabro. Plinio, nella Naturalis Historia (XIII, 7) cita una sostanza, cinnabaris, che potrebbe essere sia il cosiddetto cinabro indiano (la resina della Dracaena cinnabari), sia il minerale cinabro (come si è detto, solfuro di mercurio, HgS). Nei campioni fenici è presente proprio il cinabro, talvolta con tracce di anatasio (biossido di titanio, TiO2), calcite, gesso e quarzo. L’ematite e il cinabro sono pigmenti usati per tutta l’antichità in area mediterranea, dove l’aggiunta di gesso o cerussa rendeva il colore piú rosato, mentre l’aggiunta di carbone e pirolusite conferiva un colore rosso scuro. All’interno di un alabastron è stata riconosciuta


Cristalli di rodocrosite (carbonato di manganese, MnCO3), minerale che deve il suo nome al color rosa carnicino.

zona in cui erano già noti analoghi flaconcini contenenti kohl nero costituito da galena, ha permesso di evidenziare il degrado di questo minerale in condizioni di conservazione non ottimali. Le indagini chimico-fisiche ci informano quindi su molti aspetti: composizione chimica, struttura dei granuli, processi di produzione, degrado. Studiando altri caratteri fisici, quali il potere coprente e il potere riflettente, si riscontrano importanti differenze fra i derivati del piombo e i prodotti a base di gesso o calcite. Entrambi i caratteri sono superiori nei derivati del piombo, dove l’idrocerussite

la presenza di ossido di piombo (Pb3O4), pigmento che si sintetizza artificialmente trattando con il calore i carbonati di piombo. Altri materiali ci sembrano particolarmente insoliti. Per esempio, in un unguentario in vetro punico è stata rinvenuta la rodocrosite (MnCO3), minerale rosa mai descritto in precedenza nei cosmetici; altri rari reperti sono il cromato giallo di piombo (PbCrO4) detto crocoite e il cromato rosso di piombo Pb2O(CrO4) detto fenicrocoite. Un campione proveniente da Mozia conteneva acidi grassi e un composto antrachinonico affine all’acido kermesico, nota sostanza rossa estratta dalla cocciniglia. In sintesi, sembra che i Fenici utilizzassero per i loro cosmetici rossi materie prime e tecnologie estrattive e produttive molto piú varie e numerose rispetto alle ben note, e sempre citate, porpora di Tiro e alizarina.

Ritorno in Egitto La regione egizia del Fayyum era diventata importante a partire dal III secolo a.C., quando i Tolomei, la nuova dinastia regnante d’Egitto, la resero fertilissima grazie a grandi opere idrauliche e canalizzazioni. La zona si popolò ben presto non solo di Egizi, ma anche di coloni greco-macedoni, che ottenevano le terre come ricompensa per il servizio militare prestato, dando vita a una influente classe ereditaria di proprietari terrieri. Anche dopo la conquista

conferisce un elevato potere coprente, e la cerussite un elevato potere riflettente. Ciò significa che anche uno strato sottile di pigmento a base di idrocerussite/cerussite conferisce quel colore bianco intenso e brillante che ne ha determinato l’uso estensivo fin dall’età del Bronzo.

della regione da parte dei Romani, la popolazione risultava composta in maggioranza da Greci, Egizi ed Ebrei ellenizzati: ai proprietari terrieri e ai braccianti si unirono ben presto imprenditori, banchieri e mercanti. Il processo di ellenizzazione di questa composita società si compenetrò con l’apporto della cultura romana, e molte usanze delle comunità andarono incontro a una progressiva integrazione. Durante la dominazione romana, la tradizionale mummificazione dei morti rimase una prassi molto popolare, ma le pratiche funerarie assorbirono anche l’uso romano di ritratti a carattere naturalistico, dipinti a tempera a uovo, oppure a cera (encausto) direttamente sul sudario o su un leggero pannello di legno duro fissato sul volto, o inserito tra le bende delle mummie per ricordare l’aspetto, reale o idealizzato che fosse, dei defunti. Guardiamo questi eccezionali ritratti (100-250 d.C. circa), che parlano dell’aspirazione alla bellezza e dell’amore per la vita piú di quanto farebbero mille pagine scritte. Erano perlopiú ritratti di uomini e donne che non avevano superato i 35 anni di età (l’aspettativa di vita, al tempo, si aggirava intorno ai 40-45 anni), ma vi sono anche numerosi bambini. Anche se la classe sociale delle persone cosí ritratte era relativamente elevata (solo l’1-2% delle mummie di età romana di Hawara ne erano dotate), è possibile che i dipinti fossero una

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scelta economica alternativa alla piú costosa maschera funebre. Il volto del defunto veniva rappresentato frontalmente su sfondo monocolore, a volte contornato da elementi decorativi. Talvolta, ma non sempre, vi è una corrispondenza tra l’età presumibile dai ritratti e l’età effettiva al momento della morte desunta dallo studio dei resti umani. In genere si tratta di ritratti «di vivi» fatti sui morti. Tuttavia, in alcuni casi, i ritratti sono sicuramente precedenti, ed è certo che erano stati ritagliati per adattarli alla mummia post mortem. Il defunto o la defunta erano comunque ricordati nei panni di una «immortale giovinezza»; sembra che i pittori, nei loro progetti, seguissero una serie limitata di «volti standard», immortalando cosí i propri modelli di bellezza.

Nei volti del Fayyum Il ritrovamento del primo ritratto del Fayyum da parte di un occidentale ebbe luogo nel 1615 e si deve all’eclettico viaggiatore italiano Pietro Della Valle (1586-1652). Tuttavia, solo nel 1888, il grande archeologo inglese William Matthew Flinders Petrie (1853-1942) e il mercante d’arte austriaco Theodor Graf (18401903) iniziarono a far circolare nei musei e nelle collezioni europee e statunitensi gli splendidi volti dipinti recuperati nei saccheggi delle necropoli di Hawara. Hawara el-Maqtà è un vasto complesso archeologico sorto nella regione del Fayyum sudorientale. Nel sito sorgevano il complesso funerario del faraone Amenemhet III (morto intorno al 1800 a.C.), con il cosiddetto «labirinto di Meride» (il suo tempio funerario, che sembra aver dato vita a leggende sul labirinto), la tomba della sua favorita Neferuptah, un importante cimitero del Medio Regno databile al periodo 1850-1800 a.C., e la necropoli di età romana dalla quale i ritratti provengono. Osservare i volti del Fayyum, oggi staccati dalle proprie mummie, e domandarsi cosa li accomuni alla tradizione egizia viene quasi da sé. Alcuni studiosi pongono l’accento sulla similitudine tra

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l’usanza dei ritratti egiziani e quella romana del creare delle maschere in cera dei volti dei propri cari defunti, da conservarsi nelle abitazioni di famiglia. Sembra inoltre che le mummie, con il ritratto della defunta o del defunto, venissero tenute per lunghi periodi fuori dalle tombe, per essere ricordate e onorate dai familiari prima della sepoltura. Quando pensiamo alle mummie egizie, il nostro pensiero va al classico corpo ben conservato, serrato all’interno di un sarcofago, sul quale la maschera in legno dorato non rappresenta i tratti somatici piú caratteristici del defunto, ma un’immagine idealizzata, che ci colpisce soprattutto per perfezione tecnica, eleganza, policromia e per il rispetto di canoni estetici millenari. Non cercheremmo mai di riconoscere il volto dell’uomo nelle sembianze esterne del suo sarcofago. La continuità di vita dell’uomo egizio, formata insieme da permanenza e rinascita delle anime del defunto, era affidata alle mille cure che venivano riservate alla sua sepoltura, ai rituali magici e alle pratiche del viaggio nell’aldilà riportate nell’iconografia sepolcrale egizia. Nelle immagini del Fayyum, invece, impressiona la vibrante qualità artistica. Eppure, anche se i ritratti formano il piú ricco corpus ritrattistico e forse pittorico dell’antichità, gli oltre mille dipinti sono stati trascurati dagli storici dell’arte e restano tuttora poco conosciuti al pubblico, forse perché dispersi in molte sedi museali e non attribuibili, come oggi vorremmo, ad artisti ben definiti. Sono volti di indiscutibile bellezza e fascino, il cui profondo realismo è del tutto inusuale nel mondo egizio. E, d’altra parte, la potenza espressiva e la rinnovata, inedita «magia performativa» di questi volti ci appare molto superiore a quella che ritroviamo nelle sculture, nei mosaici o negli affreschi giunti a noi dall’antichità greco-romana. Da questo punto di vista costituiscono insieme un unicum e un enigma creato dall’intreccio fra evoluzione artistica, integrazione fra popoli e nuova strutturazione sociale dell’Egitto tolemaico, a quel tempo permeato dai piú


Affresco raffigurante le tre Grazie, dalla Casa di T. Dentatus Panthera a Pompei. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

diversi processi di sincretismo culturale. Basti pensare all’identificazione DemetraIside, alla divinizzazione degli imperatori ellenistici e romani accostata a quella dei faraoni, o alle misteriose quinte del culto di Antinoo, l’amato dell’imperatore Adriano (76138 d.C.), la cui morte per annegamento nelle acque del Nilo ha molte connotazioni misteriche, se non sacrificali. Le capigliature, il vestiario e i gioielli dei volti del Fayyum li ascrivono senz’altro alla cultura romana o alessandrina, che perpetuava sotto ogni forma l’onda lunga della grecità. I canoni di bellezza sono di tipo ellenistico: volti maschili

simili tra loro, di forma triangolare, con naso allungato e zigomi pronunciati. Le donne hanno visi forse piú realistici, carattere accentuato da una accurata riproduzione di preziosi ornamenti di forma convenzionale, soprattutto corone auree e orecchini a doppio pendente che riflettono la luce. In tutti, maschi e femmine, adulti e bambini, occhi scuri e dilatati osservano lo spettatore, trasmettendo sguardi intensi e pensosi; sguardi che sembrano quasi voler comunicare il senso del distacco, dell’appartenenza a un mondo ultraterreno e insieme il desiderio di permanere fra i vivi, nel

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Sulle due pagine due ritratti del Fayyum (Egitto), che ritraggono entrambi giovani donne, il cui volto è dipinto a encausto su tavola. Il primo, a sinistra, proviene da Hawara, è databile al 110-130 d.C. e fa parte della collezione dei National Museums Scotland di Edimburgo; il secondo, nella pagina accanto, è databile fra il 150 e il 200 d.C. ed è custodito a Praga, presso la Narodni Galerie.

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ricordo dei familiari e degli amici, della propria vita terrena, del lavoro, del proprio status. Sono ormai dissolti il maquillage vivace, ma stereotipato del costume dell’antico Egitto, come l’idealizzazione simbolica della potenza e del rango sociale, che dominava le tensioni ideologiche interne alle società del Nilo. Ogni volto del Fayyum conserva una propria personale espressione, pur sullo sfondo degli stessi modelli espressivi. Acconciature ricercate e gioielli perseguono una perfezione naturalistica nell’allusione ai modi di vita di una stessa classe agiata. E proprio l’aspirazione alla perfezione potrebbe essere il denominatore comune dell’arte funeraria egizia: nell’Egitto antico, perfezione magico-simbolica, rituale e idealizzata; nell’Egitto greco-romano, perfezione naturalistica, resa dell’individualità, dei sentimenti e della bellezza della gioventú, fissata nel ricordo dei vivi, ma con la stessa drammatica aspirazione all’Eterno.

Nata dalla porpora L’inseguimento dell’eterna giovinezza e il rischio dell’«accanimento cosmetico» sono ben esemplificati dalla vicenda dell’imperatrice bizantina Zoe Porfirogenita (978-1050), «nata dalla porpora», cioè nata per essere un’imperatrice regnante, che apparteneva a una nobilissima stirpe di sovrani bizantini. È stata descritta dagli storici del suo tempo, testimoni oculari della sua bellezza, come una donna bionda dalla pelle chiara e luminosa, priva di rughe, di aspetto molto giovane anche

«Questo dipinto ha uno sguardo che non è l’espressione di un momento, che non è l’ipnosi di Bisanzio, ma spesso una luce notturna di vita eterna – attraverso la quale i morti sono in armonia con l’aldilà...» (André Malraux) | BELLEZZA | 127 |


GRECIA E ROMA

verso i 60 anni, età in cui il filosofo Michele Psello (1018-1096) dichiarava che «ogni parte di lei era solida e in buone condizioni». Nella sua vita travagliata vi furono complesse vicende coniugali con ben tre mariti, l’accusa di avvelenamento e omicidio del primo, alterni periodi di gloria ed emarginazione; ma sempre con il sostegno e l’attaccamento del suo popolo. Zoe era consapevole del suo fascino e cercò di preservarlo dalla vecchiaia il piú a lungo possibile, con tecniche innovative e inusuali: le fonti storiche la descrivono intenta tutto il giorno alla produzione di farmaci, profumi, essenze e cosmetici, creatrice di un vero e proprio laboratorio nel suo quartiere privato del palazzo imperiale, organizzato con inservienti, attrezzature e fuochi che ardevano giorno e notte. I prodotti da lei usati provenivano da terre lontane, dall’India e dall’Egitto. Michele Psello racconta che Zoe, grazie all’uso dei preparati su se stessa, anche dopo i settant’anni, non aveva una ruga sul viso ed era fresca come all’apice della sua bellezza. Un mosaico della chiesa di S. Sofia a Costantinopoli, databile all’epoca in cui Zoe aveva circa 65 anni, la ritrae in effetti di aspetto molto giovanile, con volto chiaro e occhi ben truccati, anche se ovviamente siamo di fronte a una rappresentazione fortemente idealizzata. Come emerge dai testi di Teofane Nonno (X secolo), la cosmetica costituiva una parte importante della medicina bizantina. Benché l’impero fosse di impronta religiosa, l’ideale di bellezza e giovinezza nella vita di tutti i giorni era molto sentito e le donne dedicavano una costante attenzione al loro aspetto. La maggior parte dei medici bizantini seguiva la tradizione romana e il concetto estetico pagano di bellezza e salute del corpo, riprendendo dai testi medici greco-romani le preparazioni cosmetiche, i profumi e i coloranti per capelli; fra questi Alessandro di Tralles (VI secolo) e Paolo di Egina (VII secolo) descrivono metodi per rendere i capelli biondi o rossi con preparati a base di mirra, calce, zafferano, sandracca e tapsia. Altro ideale estetico presente in ambito bizantino e

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mediato dai canoni della bellezza classica greco-romana era avere una cute uniformemente bianca: le donne grecoromane e, in generale, del Mediterraneo non erano di pelle chiara, ma continuavano a rivestire la pelle con cosmetici schiarenti a base di piombo o polvere di gesso. L’imperatrice Zoe rappresenta un esempio esagerato del desiderio di eterna giovinezza, con la sua ossessione per la bellezza, i suoi tre mariti, l’ultimo dei quali sposato quando lei aveva 64 anni e lui meno di 20, le numerose relazioni extraconiugali. Ma attorno ai 65 anni Zoe iniziò a cambiare, a rinunciare ai suoi intrecci amorosi, a perdere interesse per l’aspetto esteriore e per i suoi doveri di regnante. Michele Psello, che oltre che storico era un eminente medico della corte imperiale, riferisce che Zoe era diventata mentalmente instabile e, pur mantenendo inalterata la sua bellezza, iniziò a presentare tremori, bradicinesia, anoressia, scadimento generale, febbre. Zoe morí a 72 anni, congelando nella memoria collettiva il ricordo del suo perenne bell’aspetto. Si è pensato che la malattia fosse stata causata dagli effetti tossici sul sistema nervoso dei prodotti da lei confezionati e, benché la loro composizione chimica ci sia sconosciuta, la cosa non si può escludere (anche se, come si è visto, ricerche recenti tendono a ridimensionare la velenosità del piombo sulla pelle). Si intravede nel racconto della vita di Zoe il solito atteggiamento moralistico dei commentatori, non dissimile da atteggiamenti che si ritrovano anche nella cultura contemporanea. La vicenda della bella Zoe sembra portare alle estreme conseguenze un rapporto controverso fra l’uomo, la donna e la cosmesi: prassi che soddisfa la vanità e il desiderio di attrattività, che integra e accentua la propria individualità e il proprio stile di vita, elemento curativo e protettivo dall’invecchiamento e dalle malattie, ma anche possibile veleno, quando (in genere da parte maschile) si decida che queste aspirazioni siano state portate a un innaturale eccesso.

Mosaico raffigurante l’imperatrice d’Oriente Zoe. Istanbul, Santa Sofia.


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MONOGRAFIE

n. 41 febbraio/marzo 2021 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Eugenio De Carlo è medico presso l’Azienda Ospedaliera di Padova. Sergio Pernigotti è professore emerito di egittologia all’Università di Bologna. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Eric Vandeville/AKG Images: copertina e pp. 106-107; Album: pp. 6/7, 8, 12/13, 24, 127; Album/Fine Art Images: pp. 9, 28, 59 (alto), 105; Album/National Gallery of Art, Washington DC: pp. 10, 16-17; Erich Lessing/Album: pp. 11, 25 (basso), 48 (basso), 88, 102/103, 112-113, 120; AKG Images: pp. 14-15; AKG Images/Rainer Hackenberg: p. 25 (alto): AKG Images/Werner Forman: pp. 32, 44, 45 (alto), 83; AKG Images/Pictures From History: pp. 33, 58, 121; AKG Images/Bible Land Pictures: pp. 38, 78, 80 (alto); AKG Images/Rabatti & Domingie: p. 39; Werner Forman Archive/Museo Egizio, Torino: p. 43; Zuma Press: p. 45 (basso); Album/The Metropolitan Museum of Art, NY: pp. 46, 84-85, 109 (basso); CM Dixon/Heritage Images: p. 104; Bernard Bonnefon/AKG Images: p. 108; AKG Images/ JH-Lightbox ltd/John Hios: p. 109 (alto e centro); Ashmolean Museum/University of Oxford/Heritage Images: pp. 110/111; Fototeca Gilardi: pp. 116/117; Age: p. 122 – Doc. red.: pp. 18-22, 40-41, 48 (alto), 50/51, 52-55, 59 (basso), 63-65, 67-77, 80 (basso), 81, 86, 89, 100-101, 119, 125, 126 – Shutterstock: pp. 23, 30/31, 34-35, 36, 42/43, 47, 56/57, 61, 62, 90/91, 96/97, 114/115, 123, 129 – Museo delle Civiltà-Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini», MiBACT: p. 26 – Da: Handbook of South American Indians, Smithsonian Institution, Washington 1946: p. 29 – Alamy Stock Photo: p. 57 – The Amarna Project: p. 60 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 87 – Cortesia Missione Archeologica Italiana nell’Iran Sud-Orientale: pp. 92/95 – Cortesia Museo delle Civiltà, Roma: pp. 96, 97 – Cortesia degli autori: pp. 98-99 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 49, 66, 91. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: la Venere della Collezione Boncompagni Ludovisi, replica dell’Afrodite Cnidia scolpita da Prassitele nel 364-361 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.

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