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VIAGGIO NELLE ANTICHE
Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
CITTÀ DEL TUFO PITIGLIANO • SORANO SOVANA • VITOZZA
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VIAGGIO NELLE ANTICHE CITTÀ DEL TUFO
N°42 Aprile/Maggio 2021 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 15 APRILE 2021
VIAGGIO NELLE ANTICHE
CITTÀ DEL TUFO
PITIGLIANO • SORANO • SOVANA • VITOZZA a cura di Carlo Casi con contributi di Lara Arcangeli, Antonello Carrucoli, Luciano Frazzoni, Luca Nejrotti, Manuela Paganelli, Enrico Pellegrini, Simona Rafanelli, Debora Rossi e Fabio Rossi dedicato a Enrico Pellegrini
6. Introduzione
Paesi di pietra e gole boscose... 8. Pitigliano
La regina della rupe 46. Sorano
Il paese di pietra 64. Sovana
Nella città delle sirene 112. Ildebrando da Sovana
Il monaco che volle farsi papa 122. Vitozza
Nella città fantasma
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ROC N° 0702 PERIODICO ENTO POSTALE – AUT. – SPEDIZIONE IN ABBONAM
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viaggio attraverso i millenni di un’idea
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ituati nel lembo sud-orientale della Toscana, i tre centri costruiti nella tipica pietra vulcanica dell’area – Pitigliano, Sorano e Sovana – e a cui aggiungiamo le rovine fiabesche della città fantasma di Vitozza – rappresentano un fenomeno unico e unitario, dal punto di vista architettonico, artistico e storico. Questa nuova Monografia di «Archeo» ne ripercorre le vicende, dalle origini protostoriche alle glorie medievali e rinascimentali, conducendo il lettore attraverso le vie cave, scavate dagli Etruschi nella roccia e guidandolo per i vicoli dei borghi che hanno visto le gesta di grandi protagonisti dell’età di Mezzo, primo fra tutti il monaco Ildebrando da Sovana, salito al soglio di Pietro con il nome di papa Gregorio VII. Le pagine che seguono sono un invito alla scoperta – o anche riscoperta – di un territorio tra i piú intensi e affascinanti della nostra Penisola, e a riguardo desidero ricordare gli enti e le persone che hanno contribuito alla loro realizzazione: Toscana Promozione Turistica, innanzitutto, l’agenzia della Regione Toscana impegnata in un costante lavoro di presentazione delle tante e diversificate destinazioni di viaggio offerte da questo straordinario territorio, il Comune di Pitigliano, il Comune di Sorano e, last but not least, lo staff della Cooperativa Zoe. A tutti loro vanno i nostri ringraziamenti. Andreas M. Steiner
Questa Monografia è dedicata a Enrico Pellegrini (1955-2016), collaboratore della nostra rivista e fautore della rinascita archeologica delle Città del Tufo.
PAESI DI PIETRA E GOLE BOSCOSE...
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í dove la Toscana confina con il Lazio e s’avvicina all’Umbria, esiste un lembo di terra dove il tempo sembra essersi fermato, le case degli uomini sono ricavate nella roccia e le finestre, da lontano, sembrano tanti piccoli occhi che ti osservano. Sono le Città del Tufo, esempi mirabili di mimetismo architettonico e residui sotto quota di un mondo ancora chiuso e ben difeso. Pitigliano, Sorano, Sovana e la città fantasma di Vitozza sono state costruite con il tufo, sul tufo e nel tufo regalando un aspetto cosí omogeneo al paesaggio da rendere quasi impossibile distinguerne i limiti fisici. Ognuna con le sue peculiarità e le sue storie, sono però indissolubilmente accomunate dalla morbida pietra vulcanica, che le rende bellissime, ma, allo stesso tempo, cosí fragili all’erosione del tempo, sempre in perenne ricerca di un precario equilibrio. E se le frane o gli smottamenti sono fenomeni alquanto diffusi, la tenacia delle comunità locali è tale che ogni strappo in questo delicato tessuto urbanistico è sempre stato ricucito con la massima attenzione e celerità. Bisogna anche riconoscere che qui la storia si è impegnata molto lasciando importanti tracce ovunque, dalle monumentali tombe etrusche alle fortezze medievali, dalle ombrose vie cave agli isolati colombari. Un mosaico di straordinarie ricchezze che ha da sempre entusiasmato tutti coloro che le si sono avvicinati. Già il pittore inglese Samuel J. Ainsley ne subí il fascino ed ebbe a dire: «Viste quasi tutte le antichità di simil genere contenute dall’Etruria posso affermare con verità non essermi altrove occorse cotante varietà di sepolcri scolpiti, quante in Sovana…». Siamo nella primavera del 1843, quando l’avventuroso viaggiatore si avvicina a Sovana con l’unica certezza data dalla citazione di un municipium di Suana fatta da Plinio e da Tolomeo. Qui, incuriosito dai racconti degli abitanti su alcuni «scherzi della natura», riesce a farsi accompagnare in quei posti e per primo scopre, all’interno della fitta boscaglia, i resti di quelle che intuisce subito essere le facciate di monumentali tombe etrusche. «Giorno dopo giorno Ainsley ritornò sul luogo, e sfidando il sole canicolare e i suoi influssi malefici, continuò, finché non ebbe portato a compimento i disegni dei monumenti piú notevoli e preso le loro misure con la massima attenzione», racconta l’amico e
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Una veduta di Pitigliano che permette di apprezzare il sapiente sfruttamento della rupe tufacea su cui il borgo sorse e si sviluppò nel corso dei secoli.
PER CONOSCERE IL FASCINO NASCOSTO DELLE CITTÀ DEL TUFO connazionale George Dennis nel suo Città e Necropoli d’Etruria (1848). E continua: «Spedí immediatamente una descrizione di questa necropoli all’Istituto Archeologico di Roma, insieme con i disegni, le piante e le sezioni delle tombe piú importanti, affinché se ne desse notizia. In realtà egli ha lasciato poco da fare ai futuri visitatori di Sovana, tanto particolareggiate e accurate sono le descrizioni e i disegni, e tanto lo zelo con cui continuò le ricerche a beneficio della scienza archeologica». Le sue preziose illustrazioni, pervase di sempre abili fusioni tra monumenti e paesaggio naturale circostante, aprono di fatto la via alle ricerche archeologiche e fanno assurgere il piccolo centro tufaceo al ruolo di primadonna nel mondo dell’etruscologia. Lo stesso Dennis dedica un intero capitolo a Sovana, descrivendone con autorevolezza la variegata topografia e pubblicando, come era suo costume, una carta archeologica della zona. Anche Sorano viene ben considerata dall’inglese: «Ma le bellezze romantiche e pittoresche di Sorano non sono minori, viste dal basso, in particolare dalla strada che conduce a Castell’Ottieri, da cui la vista del paese e dei dirupi incoronati dal castello difficilmente può trovare rivali in Italia: un paese di pietra, di rovine, di gole boscose». Ed è ancora Dennis che per primo attribuisce a Pitigliano l’origine etrusca: «Uno sguardo al di là vi convincerà che si tratta di un sito etrusco, che, non essendo mai stato visitato dagli archeologi, non è ancora stato riconosciuto». Il suo convincimento è tale che cosí continua: «Le piatte distese intorno a Pitigliano sono piene di tombe, specialmente verso ovest, dove per miglia la pianura ne è tutta crivellata. Non sono mai stati fatti degli scavi, ma il caso, di tanto in tanto, porta le tombe alla luce». Negli ultimi anni, grazie alla nascita del Parco Archeologico «Città del Tufo», del Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi», dei Musei Archeologici a Pitigliano, Sorano e Sovana, l’archeologia ha avuto un nuovo e importante impulso. Da allora fervono gli scavi e le mostre, e sempre piú sono le attività tese a promuovere e valorizzare la grande bellezza, diffusa come un candido aroma in questi luoghi incontaminati e ricchi di antiche vestigia. Carlo Casi
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A Pitigliano «pendio, rupe e sporgenze, sono crivellati di tombe. Vi sono anche tratti dell’antica strada, tagliati nel tufo, con dei colatoi laterali, e nicchie nelle pareti» (George Dennis, Città e Necropoli d’Etruria, 1848) | CITTÀ DEL TUFO | 8 |
Pitigliano. Un tratto della via cava del Gradone, una delle testimonianze del passato comprese nel Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi». Le vie cave sono percorsi tagliati nel banco roccioso, soprattutto in epoca etrusca, e riutilizzati sino a pochi decenni fa quali importanti arterie viarie di collegamento tra l’abitato e la campagna limitrofa. Per questo continuo riuso, raggiungono spesso notevoli profondità.
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La necropoli etrusca di San Giovanni Nepomuceno, che comprende tombe databili tra il VI e la fine del III-inizi del II sec. a.C. Anche questo sepolcreto è incluso negli itinerari di visita del Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi».
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Il ricco patrimonio storico e archeologico di Pitigliano è frutto di oltre due millenni di ininterrotta presenza dell’uomo
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Una veduta di Pitigliano (Grosseto). Arroccata su uno sperone tufaceo a poco piú di 300 m slm, la cittadina si presenta oggi nelle forme assunte soprattutto fra il XV e il XVI sec., quando era governata dalla casata degli Orsini.
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REGINA DELLA RUPE AL VIAGGIATORE APPARE QUASI SOSPESA NEL VUOTO... ARROCCATA SU UNO SPERONE TUFACEO E DIFESA DA VERTIGINOSI STRAPIOMBI, PITIGLIANO, LA PIÚ GRANDE DELLE CITTÀ DEL TUFO, RACCHIUDE LE VESTIGIA DI UNA STORIA MILLENARIA di Carlo Casi, Enrico Pellegrini e Debora Rossi
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itigliano appare d’improvviso, quando la brusca svolta sotto la chiesa della Madonna delle Grazie scopre la lingua tufacea sulla quale il borgo è nato e si è sviluppato, affacciato sulle strette e ombrose valli del Meleta e del Lente. Mirabile crocevia di culture, quest’angolo recondito della Maremma grossetana ha rappresentato rifugio e salvezza per il popolo dei perseguitati che, a seguito delle bolle papali, dovette abbandonare le piú importanti città nelle quali si era storicamente insediato: gli Ebrei. Qui la comunità ebraica crebbe e si sviluppò, in un rapporto di convivenza e tolleranza cosí felice da far ribattezzare la cittadina «Piccola Gerusalemme» (vedi oltre, alle pp. 32-45).
Emilia-Romagna Liguria Mas as ass a sss sa
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Pitigliano Lag Lag Lago go go di Bo olse ols ol ls naa ls
Lazio
Il primo riconoscimento Altre tracce, non meno importanti, ne hanno segnato la storia e si deve all’archeologo e diplomatico inglese George Dennis (1814-1898) il merito di averlo identificato, durante i viaggi in Italia compiuti intorno alla metà dell’Ottocento, come «un luogo Etrusco, che, non essendo mai stato visitato dagli archeologi, non è stato riconosciuto ancora come tale. [Ci sono] tombe su ogni lato – dalla sommità dell’altura su cui si innalza la città, giú fino alle rive del torrente, e di nuovo su per l’opposto versante del burrone – pendio, rupe e sporgenze, sono crivellati di tombe. Vi sono anche tratti dell’antica strada, tagliati nel tufo, con dei colatoi laterali, e nicchie nelle pareti (...) Quali che possano essere state le loro decorazioni interne o esterne, quasi duemila anni di profanazioni hanno talmente mutato le loro caratteristiche, che tali problemi possono essere risolti ormai solo dall’archeologo» (da The cities and cemeteries of Etruria, pubblicato in edizione originale nel 1848, a Londra, e tradotto per la prima volta in Italia nel 2015, come Città e Necropoli d’Etruria, per i tipi della Nuova Immagine di Siena). In realtà, ritrovamenti di oggetti antichi nelle vicinanze del paese erano stati già effettuati agli inizi del XIX secolo, come conferma l’acquisto, nel 1833, in favore delle Gallerie
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A destra un altro tratto della via cava del Gradone, realizzata in età etrusca per collegare la città dei vivi alla necropoli.
Granducali di sei vasi attici a figure nere e di una kalpis (vaso per acqua) a figure rosse insieme alla monumentale anfora del Pittore di Micali sulla quale compare una scena di cui sono protagonisti Eracle e satiri. Un grande fervore di ricerche si registra all’indomani dell’Unità d’Italia, alla fine del XIX secolo, grazie all’operato dei funzionari della neonata Regia Soprintendenza agli Scavi dell’Etruria, con sede a Firenze, che portò alla scoperta di numerose tombe nella zona e all’identificazione di un nuovo insediamento – una vera e propria città – e della sua necropoli sulle alture a strapiombo sul fiume Fiora (Poggio Buco).
Tesori dispersi Purtroppo, complici la distanza dai centri amministrativi piú importanti, le strade disagevoli e l’impenetrabile macchia mediterranea, la maggior parte del patrimonio archeologico presente nel Comune di Pitigliano è andato disperso a opera degli scavatori clandestini e venduto sia a privati, sia a musei stranieri (tra cui
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quelli di Filadelfia, Berkeley, Chicago e Berlino). È quanto emerso da un controllo sistematico del territorio avviato alcuni anni fa dall’allora Soprintendenza Archeologia della Toscana in collaborazione con l’Amministrazione comunale, che aveva come obiettivo la schedatura dei monumenti archeologici ancora identificabili e il monitoraggio del loro stato di conservazione. Di fronte alla forte accelerazione del processo di deterioramento del patrimonio ambientale e ai continui saccheggi dei monumenti funerari di età etrusca, le autorità locali hanno deciso di investire nella salvaguardia e nella riqualificazione del patrimonio naturale e storico che oltre due millenni di ininterrotta presenza dell’uomo hanno tramandato fino a noi. La scoperta di tombe etrusche sormontate da tumuli o decorate con rilievi architettonici scolpiti, l’identificazione di file di tombe rupestri disposte su piú ordini, la scoperta di una consistente occupazione dell’area in età ellenistica (IV-fine del III/inizi del II secolo a.C.) e di una serie di ambienti termali pertinenti a un importante edificio di età imperiale (II-III secolo d.C.) hanno permesso di aggiornare le conoscenze e di inserire lo sviluppo storico del territorio di Pitigliano in un piú ampio e vivace quadro storico. In particolare, l’esplorazione delle necropoli del Gradone e di San Giovanni ha consentito di realizzare il Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi».
L’intuizione di un grande educatore L’idea di affiancare al percorso espositivo del Museo Civico Archeologico di Pitigliano, nel quale sono esposti gli oggetti rinvenuti nelle tombe etrusche dei dintorni, la visita di quelle stesse tombe che li contenevano si deve infatti al mai dimenticato ideatore della trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi, il «maestro» Alberto Manzi (19241997), grande pedagogista e per breve tempo sindaco di Pitigliano. La tutela, la didattica e, non ultima, la ricerca scientifica sono stati i temi alla base
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Il Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi» 1. Ingresso 2. Insediamenti etruschi 3. Necropoli del Gradone 4. Vie cave 5. N ecropoli di San Giovanni 6. P onte di San Giovanni Nepomuceno
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dell’istituzione del Museo Archeologico all’aperto di Pitigliano. Due sono le linee guida del parco archeologico, che si aggiunge a quello della vicina Sovana: attuare una conservazione integrata del patrimonio ambientale e architettonico riscoperto e consentire al visitatore di immergersi completamente nella storia di questi luoghi. La situazione topografica delle necropoli etrusche del Gradone e di San Giovanni, che si trovano nei pressi di una «via cava» (cioè «scavata»: la definizione indica percorsi tagliati nel banco roccioso, che raggiungono spesso notevoli profondità, n.d.r.), e il contesto ambientale suggestivo, si sono rivelati particolarmente adatti a realizzare il progetto, che si propone di condurre il visitatore a esplorare la «città dei morti» in una situazione simile a quella originaria.
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LA VISITA ALL’AREA ARCHEOLOGICA Il Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi» si trova alle pendici meridionali del borgo di Pitigliano e vi si accede dalla Strada Provinciale 127.
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a visita dell’area archeologica ha inizio dalla «città dei vivi». La fase del villaggio protostorico della tarda età del Bronzo (XI-X secolo a.C.), attestato archeologicamente sulla rupe tufacea di Pitigliano, è rappresentata da un modello didattico di abitazione del tipo a capanna circolare, realizzato in dimensioni quasi al vero. La ricostruzione di una casa etrusca ad atrio, tipica dell’età arcaica, consente invece, attraverso uno sguardo virtuale, di osservarne i tre ambienti principali: la cucina, la camera nuziale e la sala del
banchetto. Una «via cava» conduce alla «città dei morti» immersa nella penombra del bosco. Per prima s’incontra la necropoli del Gradone, che fu in uso per circa centocinquant’anni (dalla seconda metà del VII al terzo quarto del VI secolo a.C.) e che ha restituito notevoli vasi sia di impasto locale con decorazione graffita sia d’importazione greca, per lo piú coppe a figure nere. Il sepolcreto comprende tombe con pianta cruciforme con un vestibolo scoperto al quale si accede per un dromos (corridoio) a gradini. Nelle camere, una bassa fossa
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quadrangolare distingue le banchine, sulle quali si aprono fosse di deposizione per i defunti inumati che presentano, in corrispondenza di una estremità, un alloggiamento rotondeggiante per la testa; talvolta sono anche presenti loculi aperti sulle pareti. Le camere funerarie sono state da tempo svuotate dei loro arredi, ma alla fine di questo primo percorso è possibile visitare la tomba di Velthur e Larthia e rivivere la sacralità e le
Gioielli dell’architettura rupestre Una delle due monumentali tombe etrusche della necropoli di San Giovanni Nepomuceno, databile alla seconda metà del VI sec. a.C. La pianta e il prospetto ne illustrano le caratteristiche architettoniche piú salienti.
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In alto una tomba a camera monumentale, «a tumulo», con crepidoma corniciato in blocchetti di tufo, attestata nei pressi dell’abitato di Pitigliano (necropoli di San Giuseppe). Ultimo quarto del VII-inizi del VI sec. a.C. In basso un tratto della via cava del Gradone.
emozioni di una cerimonia funebre etrusca. Attualizzare con tecniche moderne la suggestiva idea di ricreare il solenne momento del commiato ai defunti già deposti sulle banchine funebri è sembrata la soluzione piú efficace per una divulgazione scientifica adeguata ai tempi attuali. Terza e ultima tappa è la necropoli di San Giovanni Nepomuceno, già nota agli studiosi per i vasi attici a figure nere recuperati negli scavi del 1897, ma della quale si era persa l’esatta ubicazione. Il ponte che scavalca il torrente
In alto l’interno della tomba della necropoli del Gradone nella quale è stata ricostruita la sepoltura dei defunti Velthur e Larthia.
Sepolcri monumentali Assonometria ricostruttiva di una tomba a vestibolo scoperto con accesso a gradini e pianta cruciforme della necropoli del Gradone, databile al VII sec. a.C.
Meleta si trova di fronte a una tomba monumentale, che ripropone caratteristiche proprie degli ambiti culturali vulcente e ceretano. Peculiare di Vulci è lo stretto vestibolo scoperto sul quale si affacciano tre ingressi (uno dei quali finto) a un’unica camera funeraria, il cui soffitto è finemente scolpito a imitazione di una travatura lignea ed è impreziosito dalla sottolineatura dipinta in rosso (caratteristiche riconducibili all’ambiente ceretano). Piú oltre, si incontrano dodici tombe a camera di età arcaica scavate nella parete tufacea e rese accessibili da un corridoio piú o meno profondo, anch’esso ricavato nella roccia, alle quali sono intercalate tombe a cassone di età ellenistica. Gli spazi compresi tra le due serie di sepolture – arcaica ed ellenistica – dovevano essere funzionali allo svolgimento delle operazioni consuete del culto funerario (purificazioni, sacrifici, preghiere, compianti), dove anche l’elemento
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scenografico doveva contribuire all’ambientazione delle sacre processioni e rappresentazioni.
Un riuso «irriverente» Al termine del percorso, un’altra tomba, assai piú imponente, attesta l’importanza raggiunta
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da Pitigliano alla fine del VI secolo a.C.: la struttura è stata deturpata in età moderna, adattandola a porcilaia, ma se ne può ancora leggere la pianta, caratterizzata da due camere in asse, la prima delle quali di grandi dimensioni e munita di una coppia di pilastri. L’accesso alla seconda camera è sormontato da un timpano a
Tomba della necropoli di San Giovanni Nepomuceno. Seconda metà del VI sec. a.C. Sullo sfondo, si riconosce la sagoma di Pitigliano.
rilievo; all’interno, sul soffitto leggermente displuviato, è riprodotto il trave centrale. La scoperta forse piú emozionante è stata però quella dell’antico percorso che costeggiava la necropoli, per ora riportato alla luce solo per un breve tratto e riconducibile, in questa realizzazione, alla fase ellenistica della
frequentazione della necropoli. Costituito da un tracciato incassato nel tufo, sul piano del quale sono ancora ben visibili le tracce lasciate dalle ruote dei carri che lo percorrevano, il sentiero si snodava lungo la valle del fiume Meleta collegando il fondovalle con le pendici del pianoro su cui sorgeva la città.
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PITIGLIANO QUANDO I MUSEI RACCONTANO IL TERRITORIO
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ià nel 1995, anno della sua rifondazione, il Museo Civico Archeologico di Pitigliano poteva vantare, tra le sue peculiarità, l’integrazione con il territorio, in grado, da un lato, di ottimizzare l’uso delle risorse e di creare economie di scopo e di scala, e, dall’altro, di costruire itinerari capaci di collegare organicamente alla vita di ogni giorno – in un dialogo continuo tra passato e presente – le multiformi espressioni della complessa storia di quest’area, che insiste storicamente sull’antico Ager Volcentanus e il vasto comparto della media valle del Fiora. Ciò risponderebbe anche a un indirizzo teorico e metodologico moderno che intende perseguire la fruizione diffusa e integrata del luogo «museo», in grado di superare la dicotomia tra la difficoltà di ospitare in loco le emergenze culturali difficilmente spiegabili senza la salvaguardia del rapporto oggetto/contesto,
Una veduta di Pitigliano con, in primo piano, le arcate dell’acquedotto mediceo, alimentato dal torrente Meleta.
museo/territorio, reperto/sito e la musealizzazione coatta dell’oggetto decontestualizzato.
Dalla necropoli di san Giovanni L’esistenza di numerose tombe etrusche che circondavano il paese era comunque nota agli abitanti di Pitigliano sin dagli inizi del XIX secolo dal momento che, nel 1833, si registrò il già ricordato acquisto in favore delle Gallerie Granducali di sei vasi attici a figure nere e di una kalpis a figure rosse, insieme a una hydria attribuita al Pittore di Micali con scena di apoteosi di Eracle, verosimilmente provenienti dalla necropoli di san Giovanni Nepomuceno. Il rinvenimento, avvenuto in circostanze non meglio note nei «contorni di Pitigliano», fu attribuito, in un primo momento, alla vicina Vulci, per assicurarne il sicuro prestigio, finalizzato alla vendita secondo le logiche del mercato antiquario ottocentesco.
Solo di recente, dopo aver ripristinato il dato topografico, e in seguito a una serie di fortuite circostante è stato possibile assegnare la provenienza delle suppellettili al sepolcreto suburbano di San Giovanni Nepomuceno, prospiciente l’abitato. La restituzione temporanea – e la successiva esposizione nel Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca di Pitigliano – di parte di questi oggetti si concretizzò nel 2006, in occasione della mostra «I vasi figurati greci ed etruschi di Pitigliano. Eroi, amori, divinità», curata da Enrico Pellegrini (vedi box alle pp. 28-31).
Il primo Antiquarium Altri vasi provenienti dalle necropoli circostanti andarono invece a costituire il nucleo del primo locale museo chiamato semplicemente Antiquarium e inaugurato il 5 giugno 1864, con Biblioteca annessa, nel quale, un po’ sul modello delle Kunstkammer, «le camere delle arti» di rinascimentale memoria, accanto a quadri, a vari oggetti di pregio e una collezione di monete, trovava posto, senza alcuna distinzione, anche una discreta collezione di vasi etruschi rinvenuti negli scavi del vicino territorio sovanese e pitiglianese. Tuttavia, ancora per molti anni, a caratterizzare le ricerche archeologiche di Pitigliano furono gli scavi occasionali, privi di intenti scientifici, mirati alla spoliazione degli oggetti piú importanti dei corredi funerari e alla loro vendita. I ritrovamenti, sempre piú frequenti, consentirono nel tempo l’organizzazione dei materiali secondo il contesto funerario di provenienza, a cui diede un contributo significativo Evandro Baldini, Ispettore Onorario per i Monumenti e Scavi di Antichità tra il 1911 e il 1934. Proprio nella corrispondenza intercorsa tra Baldini e la Regia Soprintendenza Archeologica dell’Etruria si devono ricercare i primi resoconti scientifici, pubblicati in Notizie e Scavi di Antichità, tra il 1913 e il 1924.
archeologico conservato fu smembrato e trasferito in altra sede. Benché ufficialmente non si abbiano notizie sulla località di destinazione, buona parte delle ceramiche è riconoscibile nelle collezioni del Museo Civico Archeologico di Grosseto. Al termine della guerra, furono necessari altri 50 anni affinché Pitigliano potesse riappropriarsi di uno spazio museale e l’occasione fu la donazione della signora Adele Vaselli. Nel 2019, il 6 luglio, in accordo con l’amministrazione comunale, il Museo Civico Archeologico sorto 24 anni prima, è stato intitolato alla memoria di Enrico Pellegrini – Direttore dei Musei Civici Archeologici di
L’interruzione della guerra Si deve verosimilmente al 1920 il trasloco delle collezioni, divenute ormai copiose ed espressione della importante presenza etrusca nel territorio, dalla vecchia sede di un edificio scolastico ai locali, piú spaziosi e appropriati, del dismesso Ufficio Telegrafico. Durante l’ultimo conflitto mondiale, per motivi di sicurezza, il materiale In alto l’ingresso del Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini» e, a destra, un particolare del suo allestimento.
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PITIGLIANO
Pitigliano dal 1997 al 2016, anno della sua prematura scomparsa –, archeologo, etruscologo, studioso e funzionario impegnato nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio culturale che tanto ha contribuito, con la sua caparbia volontà, a restituire alla collettività buona parte della storia archeologica del territorio pitiglianese. In occasione dell’intitolazione del Museo Civico Archeologico, la Direzione scientifica museale, in accordo con l’Amministrazione, celebrò l’evento restituendo alla collettività un complesso di ceramiche etruscocorinzie, oggetto di un intervento di restauro nel 2018. Si trattava di un nucleo di ceramiche rappresentativo di produzioni vulcenti di imitazione orientalizzante, datato tra il VII e il VI secolo a.C. e individuato nel 2000 dallo stesso Pellegrini tra il materiale etrusco della collezione di Adele Vaselli proveniente da Poggio Buco. Un gesto che ha sottolineato l’operatività di un piccolo museo civico che, con innumerevoli difficoltà, cerca di ottemperare alla sua principale funzione conservativa, esponendo materiali archeologici di indubbio valore, alla ricerca di quella continuità d’intenti voluta proprio da Pellegrini.
Il Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini» L’esposizione all’interno del cinquecentesco Palazzo Orsini si compone di cinque sale, sapientemente progettate intorno al magazzinolaboratorio, con un’area adibita a restauro, e custodisce i materiali archeologici delle due importanti città etrusche situate nel territorio comunale: Poggio Buco e Pitigliano. Nelle prime sale sono presenti in particolare i reperti che
fanno parte della Collezione Vaselli: si tratta di numerosi vasi con decorazione geometrica provenienti dagli scavi effettuati fra il 1955 e il 1960 nelle aree sepolcrali di Poggio Buco di località Sparne, Caravone, Insuglietti e Selva Miccia, insieme a un importante nucleo di
In alto anfora attica a figure nere con scena di Dioniso, col capo cinto da corona d’edera in chitone e himation, e menade danzante tra satiri. VI sec.a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra frammento di kylix attica forse raffigurante il duello di Achille e Memnone sul corpo di Antiloco. Cerchia di Exekias, 530 a.C. Pitigliano, Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini».
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A destra olpe etrusco-corinzia con teoria di animali reali e fantastici. Pittore degli Archetti policromi, fine VII-inizi VI sec. a.C. Pitigliano, Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini». In basso ricostruzione di una capanna simile a quelle del villaggio della tarda età del Bronzo sorto sulla rupe di Pitigliano nell’XI-X sec. a.C. Pitigliano, Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi».
suppellettili etrusco-corinzie e di rari vasi in bucchero, soprattutto hydriae (vasi per acqua) e crateri con decorazione incisa, graffita e a rilievo, databili alla prima metà del VI secolo a.C. Ai pochi scavi in contesti urbani, sono destinate le sale successive, nelle quali sono riuniti manufatti rinvenuti nell’attuale centro storico del paese (area de Le Macerie e Capisotto) che attestano una frequentazione dello stesso e del territorio limitrofo a partire almeno dall’età del Bronzo Finale (XII secolo a.C.) sino al III secolo a.C.
Nuove collezioni Significative della fase insediativa arcaica e tardo-arcaica sono anche le ceramiche della Collezione Martinucci, recuperate dai dintorni di Pitigliano ed esposte nella quinta sala del Museo. Il percorso di visita si è arricchito, nel 2013, dei materiali di età arcaica ed ellenistica provenienti dalla necropoli suburbana di San Giovanni Nepomuceno, compresa nel circuito del Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi» e, nel 2016, dei materiali etrusco-romani provenienti dallo scavo della porzione di una domus romana, in uso almeno dalla fine dall’età repubblicana alla tarda età imperiale, in località Quattro Strade. Particolarmente prezioso è un frammento di kylix attica a figure nere attribuita alla cerchia del famoso pittore Exekias, che implementa i
rinvenimenti di ceramiche di produzione attica e/o di produzione etrusca, tra cui una celebre hydria del Pittore di Micali, recuperati in passato dalle necropoli circostanti e oggi conservate principalmente al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Notevole per il numero e il buono stato conservativo il servizio da banchetto in bucchero pesante datato al secondo quarto del VI secolo a.C. e proveniente dagli scavi Vaselli. Debora Rossi
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PITIGLIANO
I MAGNIFICI QUATTRO
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omplemento naturale delle indagini sul campo condotte nel tempo è la realtà civica museale di Pitigliano, che raccoglie, conserva, studia e valorizza il patrimonio storico-artistico e archeologico del territorio pitiglianese attraverso ben quattro distinte entità, due delle quali, il Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini» e il Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi», dedicate alla cultura etrusca. Completano l’offerta culturale il Museo Diocesano di Arte Sacra di Palazzo Orsini (vedi box alle pp. 42-43) e il Percorso del Ghetto Ebraico, che può vantare una delle cinque sinagoghe della Toscana (vedi box alle pp. 36-39). Il riallestimento del Museo Archeologico di Pitigliano nella sede storica della Fortezza Orsini (vedi box alle pp. 22-25) rimonta a un progetto del 1995 del DRI, l’Ente Interregionale di promozione culturale e turistica, in sinergia con la Regione Toscana e l’Ente Pubblico dopo la cospicua donazione di oltre 1000 reperti archeologici da parte di Adele Vaselli. Si trattava della quota parte riconosciuta dallo Stato all’ultima tenutaria di Poggio Buco, fiorente centro etrusco della media Valle del Fiora afferente alla città di Vulci (vedi box qui accanto), per gli scavi effettuati tra il 1955 e il 1960 nelle aree sepolcrali di località Sparne, Caravone, Insuglietti e Selva Miccia. L’inaugurazione seguí di pochi giorni la riapertura del centrale Teatro Salvini e della Sinagoga dopo i lavori di restauro. Decollato come Museo della ricerca, divulgazione e promozione turistica nel cinquecentesco Palazzo Comitale, nel 1999, dopo soli quattro anni, il Museo Civico Archeologico rinnovava completamente il percorso espositivo e didattico grazie all’archeologo Enrico Pellegrini (1955-2016), che, un paio d’anni prima, l’allora sindaco di Pitigliano, Alberto Manzi, aveva voluto come Direttore Scientifico. La collezione museale diviene cosí espressione della civiltà etrusca e punto di riferimento per le altre istituzioni museali del territorio.
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LE MERAVIGLIE DI POGGIO BUCO
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ul pianoro tufaceo che si affaccia sul fiume Fiora, a 9 km da Pitigliano, le indagini archeologiche condotte tra il 1894 e il 1897 misero in luce varie strutture, di uso abitativo e artigianale, una piazzetta lastricata a grandi blocchi di tufo e tratti della cinta di mura posta a difesa della città, databili tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. Le arature avevano tuttavia danneggiato l’impianto e nulla si rinvenne dell’alzato delle strutture. Tra le ceramiche spiccano alcune terrecotte architettoniche (lastre a rilievo) frammentarie, la cui presenza attesta l’esistenza di un importante edificio, probabilmente la sede di una famiglia aristocratica, come nel caso degli edifici di Acquarossa, presso Viterbo, e di Murlo, nel Senese. Tra i soggetti raffigurati sono presenti teorie di animali, come quelle che compaiono sui vasi dipinti nello stile etrusco-corinzio, e motivi legati al mondo eroico, quale quello con carri e corteo di armati. Il rinvenimento di ghiande missili di piombo con l’iscrizione staties/statiesi aveva fatto supporre che si potesse identificare questa città con la Statonia menzionata dalle fonti, oggi localizzata invece nella zona di Bomarzo. L’area della città e delle necropoli sono di proprietà privata ma sottoposte a specifiche norme di tutela in quanto riconosciute di interesse archeologico particolarmente importante.
Nella pagina accanto anfora etrusco-corinzia del Ciclo dei cosiddetti «Anforoni squamati» (Pittore di Le Havre), la prima attestata nei corredi tardoorientalizzanti di Poggio Buco. 625-610/600 a.C. Pitigliano, Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini». Sulla faccia, decorazione incisa e dipinta di fregio zoomorfo.
Anfora del Pittore di Marsiliana, da Poggio Buco. Fine del VII sec. a.C. Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini».
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PITIGLIANO DI DÈI, EROI E ALTRE STORIE: LA CERAMICA ATTICA DI PITIGLIANO
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e numerose tombe a camera distribuite intorno al pianoro di Pitigliano, sede anche dell’insediamento etrusco, rivelano un utilizzo esteso per oltre un secolo, dall’età orientalizzante a quella arcaica, il cui limite inferiore è sottolineato dalla frequente occorrenza di ceramica attica a figure nere databile negli ultimi decenni del VI secolo a.C. Tra le forme documentate nei corredi del territorio pitiglianese, spiccano kylikes (coppe a due manici) e lekythoi (bottiglie per profumi), verosimilmente connesse a due momenti fondamentali e distinti nell’ambito della cerimonia rituale: la libagione e l’unzione del cadavere. Fra le kylikes, ricorrono esemplari ornati con scene dominate dai temi del simposio e dell’eros, nelle quali primeggiano il greco dio del vino Dioniso e il piú forte fra gli eroi: Eracle. Quest’ultimo appare impegnato duramente nelle dodici canoniche «fatiche», a cui se ne aggiungono altre fiorite sul suolo italico in seno alle leggende intessute intorno alla figura dell’eroe che, con impareggiabile audacia, si leva a difendere la sposa di Zeus – Era/Uni etrusca – dal violento assalto dei Sileni.
Pitigliano nei musei della Toscana Purtroppo, la maggior parte delle ceramiche figurate, individuate soprattutto nei primi decenni del Novecento, è andata dispersa o è stata gravemente danneggiata in seguito alle sfortunate vicende subite dall’Antiquarium di Pitigliano, particolarmente disastrose durante la guerra. Un
discreto numero dei vasi superstiti – oggi conservati nei Musei archeologici di Grosseto e di Firenze – ha formato l’oggetto della mostra «I vasi figurati greci ed etruschi di Pitigliano. Eroi, amori, divinità», allestita nel 2006 presso il Museo Civico della Civiltà Etrusca di Pitigliano, e un rapido sguardo sulle rappresentazioni figurate consente di cogliere le tematiche che formano la nota dominante del prezioso nucleo vascolare, che inneggia alla tavola e al simposio. Temi connessi alla sfera del vino e dell’eros si svolgono sull’esterno delle kylikes del Museo grossetano, accompagnati da argomenti legati alle dimensioni atletica e guerriera, ricorrenti sul corpo delle lekythoi dello stesso museo, in perfetta armonia con le destinazioni ultime – vaso per bere il vino e contenitore di unguenti e oli profumati – di tali recipienti. Un panorama piú articolato è attestato dagli esemplari delle Collezioni Granducali, in parte pervenuti nel Museo fiorentino: otto esemplari, in origine, di grandi dimensioni, ornati da scene imponenti, nelle quali campeggiano soprattutto eroi e divinità dell’Olimpo greco ed etrusco, ritagliati, nella tecnica delle figure nere, contro sfondi iperurani o colorati dal rosso dorato dei grappoli unitamente al colore cupo dell’edera e dei viticci intrecciati che pendono dai pergolati dei giardini dionisiaci. La funzione che la singola forma vascolare riveste in seno al cerimoniale del consumo del vino sembra influenzare ancora fortemente le scelte dei ceramografi, dettando, per esempio, su un’anfora
Particolare di una kylix raffigurante un auleta stante (a sinistra), in atto di suonare il doppio flauto e, di fronte, un personaggio maschile seduto su un otre, con coppa sollevata nella mano destra. Sul fondo, tralci di vite e grappoli d’uva resi a punti incisi. Ultimo trentennio del VI sec. a.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’arte della Maremma.
Particolari della decorazione di una hydría del Pittore di Micali. Fine del VI sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. In alto, scena figurata con quattro figure maschili imberbi in conversazione. Qui sopra, l’ingresso di Eracle all’Olimpo, accolto da un consesso di divinità: da sinistra, l’eroe, retrospiciente, con clava e arco, avanza guidato da una figura femminile, forse Atena; al centro, Poseidone barbato con tridente, Era (?) con fiore nella destra, intenta a dialogare con Zeus (?), Ares armato munito di elmo con cimiero, scudo con episema riproducente Eracle, seguito da Afrodite (?).
destinata a contenere il vino da recare sulla mensa, come sulla kylix «a occhioni», deputata al suo consumo, il corteggio di Dioniso attorniato da musici, Menadi e Sileni. Opera di pregio del Pittore di Micali, ceramografo e maestro di bottega operante a Vulci nell’ultimo quarto del VI secolo a.C., è l’hydría (vaso per acqua) sulla quale l’artista ha inserito, su collo e spalla del vaso – due sequenze parallele di figure reali e fantastiche – efebi incedenti e Sileni danzanti – che compongono lo scenario di fondo
essenziale allo svolgimento dell’episodio mitologico dispiegato sul ventre del vaso: l’ingresso di Eracle nell’Olimpo. E ancora Eracle e Atena, dea della razionalità e dell’ordine cosmico, compaiono affiancati sull’altra faccia del medesimo vaso, impegnati nella guerra contro i Giganti, i mostruosi figli di Gea, simbolo primigenio del mondo irrazionale e selvaggio sul quale si estende, trionfante, l’ordine imposto da Zeus e dagli dèi dell’Olimpo, fra i quali primeggia, sovrana, insieme all’eroe suo protetto,
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Anfora attica raffigurante Eracle alla guida di un carro, accompagnato da Atena ed Ermes. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. La scena è una metafora dell’episodio che vuole l’eroe protagonista dell’assunzione nell’Olimpo celeste.
l’indomita dea guerriera. E se, come ha suggerito Giovanni Colonna, «piú di ogni altro, l’episodio che esalta lo speciale legame di amicizia tra Eracle e Atena» è proprio «l’introduzione di Eracle all’Olimpo, auspice e testimone la dea», è ancora un’anfora attica a esibire, sulla faccia principale del corpo, un «episodio» di apoteosi che rimanda, come significato ultimo, a quello mitologico dell’ascesa all’Olimpo dell’eroe. L’uomo barbato, ma privo degli attributi che possano connotarlo come Eracle, è rappresentato in piedi su un carro, in veste di auriga, nell’atto di avanzare
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accompagnato da Atena e dal dio-araldo Ermes: divinità «tutelari», presenza del carro e tema del viaggio verso una destinazione ultraterrena, adombrata dall’identità stessa dei personaggi divini, inducono tuttavia, al di là della mancata caratterizzazione del personaggio su carro, a riconoscere nella scena rappresentata la metafora dell’episodio che vuole Eracle protagonista dell’assunzione nell’Olimpo celeste, a cui il defunto, nelle intenzioni dell’artista o del committente, era verosimilmente assimilato. All’episodio di esaltazione del destino aristocraticamente «eroico» del defunto corrisponde, sull’altra faccia del vaso, una scena di carattere «simposiaco», che vede protagonista Dioniso, circondato da Menadi e Sileni. La «solidarietà concettuale» tra simposio e «immersione» in una dimensione ultraterrena, «nel segno di una concezione edonistica della morte» – come sottolineava Bruno d’Agostino – lascia intravvedere l’intima connessione semantica intercorrente tra il «consumo del vino» e i concetti di eros, caccia, kòmos (un corteo rituale durante il quale i partecipanti si abbandonano a un’atmosfera di ebbrezza, messo in relazione con Dioniso, n.d.r.) che, in virtú di relazioni parallele e incrociate, entrano di diritto nel novero delle tematiche piú rappresentate sulle superfici dei vasi destinati al banchetto dei vivi e a quello rituale dei defunti. L’abbandono agli eccessi derivati da un «disordinato» consumo del vino, identificabili nello scatenamento irrefrenabile dei sensi nell’eros e nella danza orgiastica, forma la trama del tessuto narrativo che si svolge sulla superficie dei vasi e che trova un puntuale riscontro nelle pitture murali delle tombe a camera arcaiche di Tarquinia. Vino ed eros, intesi dunque come «immersione» in un’altra dimensione – ultra-razionale e, come tale, ultramondana – che, d’altro canto, contiene in sé la possibilità di una riemersione, di un «ritorno» alla dimensione reale, tutta umana e terrena, che è per i superstiti superamento dello stesso «trapasso» e, con esso, del «miasma» contagioso della morte, tramite l’esaltazione delle pratiche vitalistiche, di «recupero», nello spazio «contenuto» e «composto» del rituale cerimoniale. Un rituale che, per la sua stessa natura di mimesi del vero, si colora
A destra particolare della decorazione dipinta sulla spalla di una lekythos, con fregio di boccioli allungati. Classe del Leoncino, fine del VI-inizi del V sec. a.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma.
A sinistra particolare della decorazione dipinta sulla spalla di una lekythos con scena di atleti: due in corsa verso destra e un saltatore con halteres rivolto a sinistra. Classe del Leoncino, fine del VI-inizi del V sec. a.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma.
frequentemente di toni e aspetti comici e burleschi, fin nella rappresentazione di orge sessuali in cui gli atteggiamenti e le pose esageratamente scomposte o per meglio dire «acrobatiche» assunte dai protagonisti, concentrati nel dare il massimo risalto all’atto sessuale, assume un carattere decisamente grottesco, che, accompagnato allo scatenamento dell’aggressività, mira, sin dall’età villanoviana, a rimarcare i temi della fecondità e della vitalità. Giochi – anche cruenti, prove atletiche, gare sportive, duelli mortali completano, nel mondo
funerario, lo «spaccato» iconografico volto a definire e sancire – mediante rituali che celebrano le funzioni vitalistiche – l’insuperabile distanza del mondo dei viventi da quello del defunto che, proprio in grazia degli stessi rituali che «insistono sul suo inevitabile allontanamento», acquisisce lo statuto di «beato». E proprio a questa concezione di «beato» aspira il defunto – novello Eracle – mediante il superamento di quelle canoniche «dodici fatiche» che, adornandole, rivestono la superficie di numerosi vasi da simposio. Simona Rafanelli
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IL MEDIOEVO SCOLPITO NEL TUFO
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opo una fase romana ancora poco nota, in età altomedievale (IX-XI secolo) Pitigliano è annesso «dalla potente famiglia degli Aldobrandeschi» al feudo di Sovana. Nel XIII secolo il centro viene annoverato tra i possedimenti trasmessi per dote matrimoniale da Anastasia, ultima discendente della stirpe sovanese, a Romano Orsini, nipote di papa Niccolò III. Per tre secoli dimora definitiva dei nuovi conti, la cittadina fu scenario di travagliate vicende interne alla famiglia e
Qui sotto balsamari a forma di cerbiatto e, al centro, alabastron (vasetto per unguenti o profumi) ovoide. Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini». In basso interno del vano di una casa etrusca d’epoca arcaica ricostruita nel Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi».
Pitigliano da scoprire Planimetria a volo d’uccello di Pitigliano, con l’indicazione dei luoghi e dei monumenti piú importanti.
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Una veduta aerea, da ovest, di Pitigliano, che evidenzia la sagoma della rupe di tufo su cui l’abitato si è sviluppato nel corso dei secoli.
15. Vicolo della Battaglia 16. Vicolo del Seminello 17. Vicolo Venezia 18. Sinagoga 19. Vicolo Goito 20. Vicolo Palestro 21. Palazzo comitale, Museo Diocesano di Arte Sacra 22. Teatro 23. Vescovato 24. Fontana monumentale 25. Cattedrale 26. Porta di Sotto 27. S. Rocco 28. Acquedotto mediceo
oggetto di interesse sempre piú diretto prima della Repubblica di Siena poi della signoria de’ Medici, che subentrò definitivamente alla guida del paese dopo la capitolazione della dinastia ursina (1604). Sotto i Medici, Pitigliano divenne «città di rifugio» di una comunità ebraica destinata ad aumentare con il decreto del 1569, che sancí, in piena Controriforma, la cacciata dei Giudei da tutte le città del vicino
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In basso un monumentale cratere (vaso per miscelare acqua e vino) in bucchero nero con testine femminili e figure umane a rilievo, dalla necropoli di Poggio Buco. Metà del VI sec. a.C. Pitigliano, Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini».
Stato Pontificio (vedi box alle pp. 36-39). Al volgere del XVIII secolo, il centro fu annesso al Granducato di Toscana dagli Asburgo-Lorena. Alla munificenza, in particolare, di Leopoldo II di Lorena si devono significative migliorie urbanistiche e interventi pubblici di risanamento ambientale, tra cui l’edificazione del ponte di San Giovanni Nepomuceno sul torrente Meleta, che ancora oggi dà accesso al paese per chi viene dalla SR74 Maremmana in direzione di Orvieto (vedi piantina alle pp. 32-33). Nel 1860 il plebiscito sancí l’adesione del popolo di Pitigliano al Regno d’Italia e l’inizio di un periodo florido anche per la comunità ebraica, che, avendo ormai superato le 400 unità, contribuí a conferire al centro l’epiteto di «Piccola Gerusalemme». Il centro urbano, che si estende sullo sperone tufaceo eroso nei
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millenni dagli affluenti di sinistra del Fiume Fiora – i torrenti Meleta a sud, Prochio e Lente a nord –, compare all’improvviso agli occhi del visitatore già all’altezza della curva del santuario della Madonna delle Grazie, poco prima del ponte di San Giovanni. Fedele alla sua originaria e caratteristica posizione, il paese per secoli non ha avuto una significativa espansione urbanistica al di fuori del nucleo piú antico d’epoca medievale a cui, soprattutto nel corso del XVI secolo, fu data una nuova veste, anche a seguito della realizzazione dell’imponente acquedotto. Il centro storico si presenta ancora ben distinto dalla cosiddetta «Zona Nuova», localizzata a oriente del pianoro, sia per la presenza di notevoli monumenti eretti a strapiombo della balza tufacea sfruttando lo stesso
A sinistra S. Rocco (già S. Maria Assunta). Rilievo raffigurante un uomo tra due mostri anguiformi, murato all’esterno della chiesa, databile al XII sec. In basso piazza della Repubblica. La fontana monumentale seicentesca detta anche «finestrone meridionale».
materiale della roccia su cui poggiano, sia per il tipico affastellamento di case, vie e viottoli che confermano la continuità d’uso del limitato spazio abitativo nei secoli. La posizione della rupe, quasi sospesa nel vuoto, ha inoltre reso la cittadina praticamente inespugnabile fino all’avvento delle armi da fuoco, tanto che mura di difesa furono erette solo negli unici due punti vulnerabili: presso la Porta di Sotto, da cui partiva l’antica via per Sovana, e sul lato nord-est, privo di balze a strapiombo, collegato alla collina di San Michele. Quest’ultima zona, che rappresenta l’attuale l’ingresso meridionale all’abitato, richiese sin da epoca medievale, un solido (segue a p. 41)
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PITIGLIANO GLI EBREI DI PITIGLIANO: STORIA DI UNA CONVIVENZA SECOLARE
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circa metà di via Zuccarelli, l’antica «via di Sotto», che corre parallela al Corso lungo il fronte meridionale del costone tufaceo su cui sorse il paese di Pitigliano, subito dopo il lungo intradosso della volta che la scavalca, si apre il Ghetto ebraico della cittadina. Assieme a quello di Capisotto, ubicato all’estreme propaggini occidentali del paese, il quartiere costituisce la parte piú antica del centro storico e fu istituito, con ampia certezza documentaria, nel 1622, tre anni dopo quello, non piú esistente, della vicina Sorano. Le prime colonie di Ebrei, in fuga dai territori di confine dello Stato Pontificio, tuttavia, cercarono e trovarono riparo nelle cosiddette «città di rifugio» o «di frontiera» della Contea degli Orsini (Sorano, Sovana e Pitigliano) già nel XVI secolo, o forse prima, in piena Controriforma, dove era noto un loro banco di prestito su pegno. Nel 1576, a soli sette anni dall’emanazione del bando di persecuzione di papa Pio V (al secolo, Antonio Ghislieri), la comunità pitiglianese contava sei nuclei familiari, per un totale di 33 persone. Una presenza che, piú tardi, fu incrementata dall’arrivo di nuovi esiliati provenienti dalla vicina Castro, distrutta il 2 settembre 1649 per volere di papa Innocenzo X. Già sul finire del 1500, all’area afferivano il cimitero situato lungo l’odierna SR 74 in direzione di Manciano, appena fuori dall’abitato di Pitigliano, le
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piú antiche case ebraiche, i principali edifici, i servizi della comunità israelitica e la Sinagoga, visibile nella sua sorprendente imponenza giungendo dal pittoresco vicolo Manin, che la raccorda alla cattedrale cristiana, su Via Roma, a memoria di una secolare convivenza, in questo angolo di Maremma, tra la comunità cattolica e quella ebraica. Nei 150 anni che seguirono l’istituzione del Ghetto nella Contea ursinea, si alternarono i Medici, che favorirono la comunità ebraica pitiglianese per l’importante ruolo commerciale da essa svolto tra lo Stato Pontifico e il porto di Livorno, e i Lorena, sotto i quali venne consentita per la prima volta anche l’elezione degli Ebrei ai Consigli Comunali. Nel 1773, la visita di Pietro Leopoldo al tempio israelitico sancí un primo riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità granducale della comunità, che crebbe prospera e raggiunse, nei successivi settant’anni, il massimo splendore economico, culturale e demografico, superando, nel decennio 1850-1860, le 400 unità su una popolazione di 4000 abitanti. Il florido sviluppo e la fattiva integrazione con la comunità cattolica locale – brevemente interrotta solo dai moti del 16 giugno 1799, quando, in seguito all’occupazione della Toscana da parte delle forze rivoluzionarie francesi, gli Ebrei furono oggetto di rappresaglie per l’appoggio dato ai repubblicani
napoleonici – fece meritare alla cittadina maremmana l’epiteto di «Piccola Gerusalemme». Nel 1823, il tempio ebraico fu visitato da Ferdinando III e, nel 1829, ancora da Leopoldo II; nel 1833, fu istituita una Scuola di Arti e Mestieri, la Società di Mutuo Soccorso fra Israeliti mantenuta dalla comunità e trovarono dimora, in una ricca biblioteca, circa 400 volumi, tra cui incunabuli e manoscritti di grande pregio, provenienti dal generoso lascito della famiglia Consiglio. Dopo l’Unità d’Italia iniziò la lenta emigrazione della comunità verso le grandi città, dove piú facile era intraprendere nuove e vantaggiose attività economiche. I numerosi matrimoni misti, inoltre, la ridussero ulteriormente al punto da farle perdere la propria autonomia e, nel 1931, la comunità pitiglianese fu accorpata a quella ebraica di Livorno. Una settantina o poco piú erano gli Ebrei residenti nella città del tufo che subirono gli effetti delle leggi razziali varate dal fascismo nel 1938. Negli anni piú bui delle persecuzioni, durante la Repubblica di Salò e l’occupazione tedesca, tuttavia, quasi tutti riuscirono a salvarsi dalla deportazione nei campi di sterminio e dalla Shoah per l’aiuto e la solidarietà della popolazione locale, che forní loro rifugio nelle campagne circostanti e nella vicina Tuscia viterbese.
Il Ghetto Il Ghetto rappresenta oggi una zona raccolta e suggestiva all’interno del borgo, dove le case si affastellano le une sulle altre a sfruttare per intero la piattaforma tufacea, intervallate solo da vicoli tortuosi che si affacciano sullo strapiombo naturale del Meleta, affluente del Fiora. Il percorso espositivo, a cui dà accesso il vicolo Marghera, si articola in parte nella Sinagoga, ubicata al centro dell’antico Ghetto, e in parte nel palinsesto di ambienti ipogei scavati nel tufo e adibiti alle attività produttive e culturali della comunità; l’una e l’altra rivedono la luce dopo le opere di ricostruzione e restauro promosse dall’amministrazione comunale nel 1995. Il primo luogo di culto in cui l’antico nucleo della comunità si riuniva doveva verosimilmente essere ubicato nella sala rettangolare che ospita oggi una mostra sulla cultura ebraica (vedi piantina a p. 38). La narrazione è affidata a una accurata selezione di oggetti che pertengono alle funzioni religiose e alla quotidianità. Dinnanzi alla biglietteria si apre il Mikveh (o Mikvah, letteralmente «raccolta» di
acqua) adibito a spazio per la Tevilah, un bagno rituale purificatorio per abluzione di cui, per tradizione, sia uomini sia donne dovevano beneficiare per riacquisire purità rituale dopo vari eventi, come, per esempio, la conversione, la perdita di liquidi seminali (il Keri), di fluidi in quantità considerevoli (lo Zav/Zavah), per una purificazione in seguito al contatto con una donna in Niddah (normali mestruazioni) o per il Kohèn, cioè l’officiante del culto. Il bagno rituale è creato secondo i piú rigorosi dettami della tradizione rabbinica; si tratta di un’ampia vasca quadrangolare incassata nella roccia tufacea di cui restano visibili i cordoli, alla quale era annesso un pozzo per la raccolta di acqua piovana, e doveva contenere acqua sufficiente a coprire l’intero corpo di una persona di statura media Nella pagina accanto l’interno della Sinagoga dopo l’intervento di restauro che ha restituito all’edificio l’aspetto originario. In basso il lungo corridoio scalinato della cantina ipogea, con annessa bottaia, adibita alla produzione e all’invecchiamento di vino Kasher.
PITIGLIANO
La vita nel Ghetto A partire dal XVI secolo, Pitigliano accolse una comunità ebraica che, alla metà dell’Ottocento, contava 400 anime. Di quella importante presenza, è testimonianza il quartiere ebraico della cittadina, che, oltre alla Sinagoga, comprendeva tutte le strutture legate ai dettami e agli usi degli Ebrei e delle quali viene qui riprodotta la pianta: VISTA PANORAMICA
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1. ambiente per le abluzioni rituali (mikveh); 2. cantina; 3. mostra di cultura ebraica; 4. macello kasher; 5. forno delle azzime; 6. tintoria; 7. sala per conferenze. poiché, secondo le regole esposte dalla Torah, il rito richiedeva l’immersione completa. Continuando il lungo corridoio, si giunge all’ingresso di una cantina, con annessa bottaia per la produzione di vino Kasher, cioè «adatto alla consumazione» e prodotto secondo le regole della legislazione alimentare prescritta nella kasherut contenuta nella Torah (libri del Levitico e Deuteronomio). La struttura dell’ambiente richiama le piú tipiche e monumentali cantine scavate nel tufo presenti in tutta l’area del centro storico di Pitigliano e, soprattutto, lungo la via «di Sopra» o Fratta. Oltrepassata la sala conferenze, sul lato opposto del corridoio si apre il locale della tintoria, l’antica «fullonica» ebraica alimentata da acqua piovana e acqua percolata dal tufo, dove la comunità, per lo piú rappresentata da tessitori e conciatori, lavorava tessuti e pelli che commerciava. Suggestivo è il locale adiacente, con il forno, e l’annesso bancone in marmo, per la produzione del pane azzimo (matzà), a base di farina e lievito, che con regolarità veniva acceso dalla comunità una volta l’anno, sino al 1939, in
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occasione della Pesah, la Pasqua ebraica, una delle tre liete ricorrenze della tradizione israelitica che commemora la liberazione del popolo dall’Egitto (Esodo 12, 15). Il percorso di visita si conclude con l’ambiente adibito a macello Kasher, il luogo in cui lo shochet (macellaio) macellava, seguendo le regole della kasherut, gli animali consentiti dal protocollo alimentare, per lo piú bovini, ovini e caprini.
La Sinagoga Alla Sinagoga, una delle cinque presenti in Toscana, si accede per una scala che dagli ambienti ipogei conduce all’esterno, sull’ampia terrazza panoramica che, in origine, apriva l’ingresso alla Scuola israelitica, all’Archivio e alla Biblioteca. Una lapide situata all’interno del Tempio celebra il 5358, il 1598 secondo il calendario gregoriano, quale anno di fondazione della struttura a opera di un certo Ieudà, figlio di Scebbetai, tessitore del luogo. Nel tempo, l’edificio di culto fu oggetto di importanti interventi di restauro, come ricordano le diverse epigrafi
Pitigliano, Ghetto ebraico. Intradosso su via Zuccarelli e, sulla sinistra, accesso al vicolo Marghera, dove ha inizio il percorso di visita alla Sinagoga e agli ambienti ipogei.
Pietro Leopoldo di Lorena nel 1773, quando la Sinagoga era «tutta a stucchi dorata e di buon disegno». Questi annotava che in città vivevano allora 200 Ebrei su una popolazione complessiva di circa 2500 abitanti. Nei secoli anche l’Aron-HaKodesh, l’Armadio Sacro di maestranze settecentesche che custodiva il Sefer Torah, i rotoli della legge, fu donato a una sinagoga israeliana per preservarlo da altri cedimenti struttivi dell’edificio e oggi è conservato a Israele nella sinagoga di Carmiel, in Galilea. Il Parokhet, l’arazzo destinato a coprirlo e intessuto nel 1834 è oggi esposto nel Museo Ebraico di New York. I Dieci comandamenti echeggiano dipinti sull’intradosso del soffitto a botte del Tempio fra altre iscrizioni, brani di salmi e preghiere. Tra i pochi elementi illesi dai crolli dei secoli, resiste la balconata del matroneo (luogo delle donne) collocata sul lato nord della struttura, al secondo piano, e schermata da una grata in legno dorato intagliato a motivi vegetali.
Il cimitero commemorative relative agli interventi condotti nel 1756 dopo il crollo del tetto – che fortunatamente non provocò vittime – e del 1835, quando, sulla facciata e all’interno, furono aggiunti stucchi e rifiniture in oro. Nel 1931 venne ripristinata la decorazione marmorea della finestra rotonda che dà luce alla tevah, il podio ligneo a pianta circolare per la conduzione delle officiature collocato al centro dell’aula e impreziosito da una balaustra a colonnine con annesso il mobile per la pratica della circoncisione; di fronte due panche ricurve definiscono un’area per il coro mentre sui lati perimetrali dell’aula sono collocati i banchi per il pubblico. Nel 1944 i bombardamenti degli alleati su Pitigliano lesionarono gravemente l’edificio che, alla fine degli anni Cinquanta, subí ancora il crollo della copertura e la successiva chiusura. L’aspetto odierno è frutto dell’opera di ricostruzione conservativa degli anni 1995-2003. L’ambiente interno, tuttavia, presenta arredi in legno di fattura recente e forma semplificata rispetto all’architettura originaria. Un cartiglio posto di fronte all’ingresso ricorda la visita del granduca
Poco fuori Pitigliano, su uno dei tornanti della SR 74 Maremmana, in direzione di Manciano, si apre il cancello del cimitero israelitico. L’area sepolcrale occupa la ripida balza tufacea che digrada sulla Valle del torrente Meleta, in un punto a metà tra il cimitero cristiano subito sopra e la necropoli etrusca di San Giovanni Nepomuceno, inserita nel percorso espositivo del Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi», nella balza inferiore, a riprova di una significativa continuità d’uso degli spazi funerari che resiste nei secoli e negli aspetti antropici di questi luoghi. Alle tombe molto semplici, ritenute piú antiche, verosimilmente ascrivibili ai primi nuclei israelitici del luogo, si alternano quelle monumentali della fine dell’Ottocento e d’inizio Novecento, alcune delle quali pregevoli per la ricchezza delle lapidi a bassorilievo, spesso corredate da statue marmoree. La ridotta estensione della balza tufacea, poi ulteriormente mutilata dalla costruzione della strada «Maremmana» intorno al 1870, obbligò, in un periodo di eccezionale mortalità, a seppellire i numerosi membri della comunità del tempo in piedi, provocando cosí un singolare affollarsi delle lapidi. Debora Rossi
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sistema di fortificazioni militari a protezione della Cittadella, della Rocca aldobrandesca e del Cassero. In età rinascimentale, l’intervento ingegneristico di Antonio da Sangallo il Giovane, voluto dal comes Gianfrancesco Orsini nel 1545, apportò un assetto pressoché definitivo all’impianto militare, con la creazione di una imponente cinta bastionata, della quale restano, nonostante le alterazioni apportate fino ai nostri giorni, i due fortilizi a pianta poligonale di San Francesco a nord, ben conservato all’ingresso dell’attuale via di Santa Chiara, e di San Michele che domina, all’entrata sud del paese, l’attuale piazza Petruccioli e la fontana monumentale dedicata al granduca Leopoldo II. Tra l’uno e l’altro bastione si incunea il ponte di raccordo con l’antico acquedotto mediceo, sotto il quale seguita oggi la via per Sorano.
Per le antiche strade
Pitigliano, rione di Capisotto. Antiche abitazioni e cantine presso la Porta di Sovana, sul lato nord della rupe tufacea, dove ha inizio la scalinata che si raccorda con l’antica via per Sovana e il sentiero detto «Selciata».
L’accesso al centro storico avviene attraverso la Porta sormontata da un arco a grosse bugne in travertino rigato, anticamente denominata «del Soccorso». L’ampio terrazzo panoramico che la precede, sospeso sulla vallata del Meleta, ospita ciò che resta dell’emblema araldico ursino che un tempo adornava il bastione sud, gemello di quello ancora in situ visibile sul forte nord. Al lato della terrazza un’ampia scalinata conduce ai vecchi lavatoi, dove si conservano ancora le vasche che, simili ad altre presenti nel centro storico, erano in uso sino a pochi anni fa. Oltre la doppia porta d’accesso si raggiunge piazza Garibaldi, fulcro della Cittadella, chiusa sul lato nord dall’attuale Palazzo Comunale, costruito nel 1939 sopra il Teatro che Tommaso Salvini, nel 1870, rinnovò dopo avere apportato modifiche a quello, piú antico, edificato dalla prestigiosa Accademia dei Ravvivati in piena epoca post-illuminista. Sulla destra si diparte una doppia scalinata cinquecentesca, che, in origine, conduceva ai bastioni, servendo i relativi ambienti d’uso militare. Una rampa si raccorda, tramite un
viadotto del 1861, al ponte che scavalca la via per Sorano e collega la Cittadella alla parte nuova del paese; l’altra conduce alla piazzetta della Cittadella, già sede della polveriera in età moderna, dalla quale sono ben apprezzabili le tre arcate della parte superiore del Cassero del Castello, in buona parte occultato dal grande palazzo eretto nel 1840 nell’area dell’antico fossato medievale da alcune ricche famiglie di Ebrei. Alla Fortezza Orsini e al centro storico del paese si accede percorrendo l’attuale via Cavour che collega piazza Garibaldi a piazza della Repubblica e segue l’andamento dell’acquedotto mediceo; al nucleo originale di quest’ultimo rimontano i due archi piú ampi sostenuti da un poderoso pilastro tufaceo visibile nella sottostante area dei Lavatoi. Le 13 arcate minori a strapiombo sulla rupe sono state aperte in seguito a una ristrutturazione urbanistica della zona nel 1845. L’acquedotto, che si alimentava dalle sorgive del torrente Meleta, termina nella fontana rinascimentale posta sull’estremo lato sinistro di piazza della Repubblica, denominato «finestrone meridionale». Il Palazzo o Fortezza Orsini, monumento principale di Pitigliano, domina la piazza e si articola in un palinsesto di corpi di fabbrica di origine medievale a ovest del Cassero, fortemente alterato dalle trasformazioni architettoniche di Antonio da Sangallo il Giovane, Baldassarre Peruzzi e Salvatore de Simone su commessa di Niccolò III e Niccolò IV Orsini tra XV e XVI secolo. Una rampa inclinata, seguita da un’ampia scalinata, dà accesso al cortile loggiato interno, corredato di pozzo esagonale, sul quale si affaccia l’antico Palazzo comitale, oggi sede del Museo Diocesano di Arte Sacra e del Vescovato. Sul lato opposto, un’ala aggiunta nel XVIII secolo alla Fortezza, ospita il Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca «Enrico Pellegrini» (vedi box alle pp. 22-25). Il borgo medievale di Pitigliano, che si apre sul lato di ponente della piazza, è ordinato lungo un sistema di tre vie maggiori (via di Sopra, via di
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Sotto e via di Mezzo), pressoché parallele, intersecate da oltre sessanta vicoli minori ortogonali, molti dei quali con affaccio sugli strapiombi laterali della rupe. Serrate lungo il ciglio del pianoro, le case hanno l’aspetto compatto e organico degli insediamenti medievali. Non mancano edifici di un certo pregio architettonico, nei quali gli elementi decorativi di plastica eleganza sono applicati alle facciate delle case o ai portali e le finestre reimpiegano stemmi o contrassegni gentilizi (vicolo Venezia,
vicolo del Seminello, vicolo Volturno, vicolo Palestro, vicolo della Battaglia, vicolo della Vittoria, via Vignoli e via Generale Orsini). Il nucleo piú antico e operoso del centro era sicuramente quello che costituisce l’attuale rione di Capisotto, localizzato sull’estremità occidentale del pianoro tufaceo, perimetrato già in epoca etrusca da un tratto di mura urbiche in opera quadrata. Relativamente piú recenti (XVII secolo) sono le abitazioni sulle quali si impostano quelle attuali
IL MUSEO DIOCESANO DI ARTE SACRA
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l complesso della Fortezza Orsini, il cui impianto originario risulta fortemente modificato dalla ristrutturazione promossa dal comes Gian Francesco Orsini e realizzata su progetto forse di Antonio da Sangallo il Giovane nell’anno domini 1545, ospita sin dal 1989 il Museo Diocesano di Arte Sacra allestito in un’ala del palazzo che si affaccia sul bel cortile interno. Ampliato per volontà della Diocesi di Pitigliano-Sovana e Orbetello nel 1998 e inaugurato l’anno successivo, il percorso museale si sviluppa in oltre venti sale articolate su due piani; l’accesso avviene dal portale decorato sul lato sinistro del cortile colonnato. Il Museo civico custodisce e valorizza opere d’arte e arredi liturgici provenienti dalle cattedrali delle città del tufo e dalle altre chiese minori della diocesi. A ricordare che questi ambienti erano in origine la residenza della famiglia feudale è il ciclo di pitture sui Trionfi degli Orsini, che accoglie il visitatore nel salone di ingresso. Si tratta di interessanti esemplificazioni
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di pitture astrologiche rinascimentali, riportate alla luce a seguito di recenti interventi di restauro, intervallate dai ritratti dei personaggi che troneggiano nelle lunette assieme alle raffigurazioni dei principali castelli posseduti dalla potente casata. Nelle restanti sale del piano terra sono custoditi armature, vetri e ceramiche, due tele di scuola senese che raffigurano l’Arcangelo Raffaele e il Cristo fra i Santi donati dal convento di S. Francesco di Piancastagnaio. Si prosegue poi con un dipinto di Apollonio Nasini raffigurante il Transito di San Giuseppe, una tela della Circoncisione di Gesú, risalente al XVII secolo, uno stendardo utilizzato nelle processioni sacre e raffigurante la Madonna del Rosario e San Giorgio e San Rocco, quest’ultimo patrono di Pitigliano, celebrato il 16 agosto di ogni anno. Interessante è anche la sezione delle statue rinascimentali a tema sacro in marmo e terracotta. Dal salone di ingresso, a sinistra, si accede alla sala detta «dei Pittori», che
Madonna col Bambino, statua lignea policroma attribuita alla cerchia di Jacopo della Quercia. XV sec. Museo Diocesano di Arte Sacra.
Il Palazzo (o Fortezza) Orsini, il cui assetto attuale è frutto di vari interventi e rifacimenti, in particolare di quelli operati tra il XV e il XVI sec.
di via Vignoli – detta comunemente «Fratta» –, raggiungibile dall’antica via di Sopra e seguita su tutto il versante nord della rupe di tufo sino a discendere ai fiumi Prochio e Lente.
Dal restauro alla musealizzazione Sul lato opposto del paese, quello meridionale, si snoda via Zuccarelli, già via di Sotto, che dà accesso al quartiere ebraico, con la Sinagoga della fine del XVI secolo al centro del Ghetto, caratterizzato dai resti delle abitazioni quattrocentesche. Un recente restauro ha
espone alcune tra le opere piú celebri degli artisti mancianesi Piero Aldi e Paride Pascucci; al primo appartengono due dipinti che ritraggono il vescovo Giulio Matteoli, al secondo invece le Storie della vita di Papa Gregorio VII, con la vocazione di Ildebrando da Sovana e l’incontro con l’imperatore Enrico IV al castello della contessa Matilde di Canossa. Impressionano per grandezza le tele dell’illustre paesaggista pitiglianese Francesco Giacomo Zuccarelli, membro fondatore della Royal Academy per nomina diretta di re Giorgio III nel corso del XVIII secolo. Nelle sale al secondo piano, a cui dà accesso l’ampia scalinata marmorea, si concentrano le opere piú interessanti dell’intera collezione. Degne di menzione sono una statua lignea policroma della Madonna col Bambino attribuita alla cerchia di Jacopo della Quercia, una tavola della Madonna col Bambino con Angeli e i Santi Francesco e Pietro realizzata da Guidoccio Cozzarelli sul finire del 1500 e un bel frammento della parte superiore di una
restituito al tempio, crollato agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, l’antico aspetto e reso nuovamente visitabili gli ambienti sotterranei a esso annessi, nonché i locali dell’archivio, della biblioteca e della Scuola Israelitica, tutti gravemente danneggiati dai bombardamenti aerei del 1944. Nel 1959 fu celebrata l’ultima significativa funzione religiosa dello Yom Kippur: l’area di culto e il restante quartiere della Piccola Gerusalemme costituiscono oggi uno tra i pochi musei italiani a cielo aperto della civiltà ebraica (vedi box alle pp. 36-39).
Madonna in ceramica di stile robbiano. Alla prima metà del Cinquecento risale la statua lignea di maestranze veneziane che raffigura Niccolò III Orsini, capitano generale delle milizie della Repubblica di Venezia e conte di Pitigliano, ritratto con la sua veste di condottiero e l’armatura indosso nella sala a lui dedicata. Nelle altre sale si
possono ammirare una collezione di oggetti e arredi sacri in argento, i gioielli dei Lorena, ampolle, croci, calici e il braccio-reliquiario di san Gregorio VII. Curiose, infine, la piccola raccolta di copie di strumenti di tortura, le pergamene del X-XI secolo e alcune bolle papali. Debora Rossi
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La principale via d’accesso al borgo è via Roma, antica via di Mezzo. Percorrendola, si raggiunge la cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo, già Collegiata insigne nel 1509, sottoposta nei secoli a numerosi rifacimenti e comunicante con il quartiere ebraico per mezzo del viadotto di vicolo Manin. La robusta torre campanaria, che svetta sulla facciata barocca dell’edificio religioso, era un tempo adibita a uso civile e militare e rappresenta ancora oggi un elemento caratterizzante del profilo urbano di Pitigliano. Al suo interno sono degne di nota due magnifiche tele del pittore mancianese Pietro Aldi (1885) dedicate a Ildebrando da Sovana,
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salito al soglio pontificio nel 1073 col nome di Gregorio VII e al quale è intitolata anche la piazza antistante la Chiesa. Nella stessa piazza si conserva il pilastro monumentale in travertino donato alla progenie ursina (1490). La naturale continuazione di via Roma, anticamente via delle Fabbrerie, è oggi via Generale Orsini, che si ricollega, all’altezza dell’antica Dogana, alla parallela via Vignoli; seguitando per Capisotto, la strada si ricongiunge a via Zuccarelli. Alla confluenza dei due percorsi, si trova la chiesa di S. Rocco (già S. Maria Assunta), dalla singolare pianta trapezoidale, probabilmente la piú antica chiesa
Le propaggini occidentali del borgo di Pitigliano. Si noti la difesa naturale del sito, assicurata dai ripidi costoni tufacei e dai torrenti che scorrono intorno alla rupe.
di Pitigliano come ricorda un bassorilievo del XII secolo murato sulla facciata esterna del lato di sinistra dell’edificio, che reca la figura a mezzo busto di un uomo tra due mostri anguiformi (vedi foto alle pp. 34/35). All’interno, sulla volta della parete absidale e sui muri laterali, si conservano tracce di affreschi e una serie di nove stemmi dipinti a ricordo delle principali casate storiche succedutesi al governo del paese a partire dai Medici. Al piano terra delle case rustiche del centro storico, in un dedalo di gallerie scavate in epoca imprecisata, si aprono ambienti sotterranei sorprendenti, un tempo adibiti al
ricovero degli animali, a ospitare telai per la lavorazione della canapa oppure a frantoi; uno di questi, recentemente musealizzato su vicolo Goito, era a servizio del Ghetto ebraico e censito nel Catasto granducale del 1825. Altri locali sotterranei funzionano ancora oggi come cantine; i piú spettacolari si trovano nel quartiere di Capisotto, presso la Porta di Sovana dove ha inizio la scalinata che scende fino al sentiero detto «Selciata», che, costeggiando la rupe, fa il giro completo dell’abitato e si raccorda con l’area dei Lavatoi e la Piazza Petruccioli o, diversamente, alle «vie cave» del versante occidentale.
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«È posto Sorano in luogo piano ed aperto e dalla parte di occidente ha una bellissima veduta, e quasi per un miglio discende per un colle molto ripido all’ingiú; all’incontro del luogo sorge un monte ripido parimenti difficile a salirsi, con alcune lunghe vie scavate nel sasso» (Francesco Sansovino, 1565) | CITTÀ DEL TUFO | 46 |
Una veduta di Sorano. La cittadina sorge su un poderoso masso roccioso ed è dominata dalla sagoma imponente della Fortezza Orsini.
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IL PAESE DI PIETRA SEBBENE IL TERRITORIO DI SORANO FOSSE FREQUENTATO GIÀ IN EPOCA ETRUSCA E POI ROMANA, LE PRIME NOTIZIE SULL’INSEDIAMENTO SORTO SULLA RUPE CHE DOMINA IL FIUME LENTE RISALGONO AL MEDIOEVO. DA ALLORA IN POI, IL BORGO FU AL CENTRO DI ASPRE CONTESE, OGGI TESTIMONIATE DAI POSSENTI FORTILIZI POSTI ALLE DUE ESTREMITÀ DELL’ABITATO di Carlo Casi e Luciano Frazzoni
Sorano. Sullo sfondo, si staglia la mole del Masso Leopoldino, la fortificazione che sfrutta la naturale difendibilità del sito.
SORANO
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l centro dei tortuosi valloni incisi dalle acque che vi scorrono all’interno, Sorano – cittadina in provincia di Grosseto – appare incastonata tra due speroni rocciosi, quello imponente sul quale si erge maestosa la Fortezza Orsini e quello piú fragile del terrazzato Masso Leopoldino. Del borgo possediamo la descrizione di Francesco Sansovino (1521-1586), scrittore e figlio del celebre architetto e scultore Iacopo Tatti: «È posto Sorano in luogo piano ed aperto e dalla parte di occidente ha una bellissima veduta, e quasi per un miglio discende per un colle molto ripido all’ingiú; all’incontro del luogo sorge un monte ripido parimenti difficile a salirsi, con alcune lunghe vie scavate nel sasso (...) Sotto le radici del monte corre un torrente rapidissimo chiamato Lente, in questo luogo cosí erto e pittoresco si distende dal basso alla cima Sorano ma di modo perché nel mezzo del monte esce in fori un sasso grande che divide la terra in due parti e sul quale è fabbricata una cappella [l’autore si riferisce evidentemente al Masso Leopoldino, non ancora fortificato, e alla chiesetta di S. Caterina, crollata nel 1801]. La rocca posta in piano e sul piú alto loco della città, chiude tutta la terra attorno al suo circuito. Le mura grosse vanno poi dalla rocca al torrente predetto e le fosse vi sono profonde e scavate nel sasso» (L’Historia di Casa Orsina, Venezia 1565). Questa descrizione risulta di grande interesse, perché offre un’immagine di come il paese doveva presentarsi prima degli interventi urbanistici operati dagli Orsini, dai Medici e, successivamente, dai granduchi di Toscana, che ne hanno notevolmente modificato l’aspetto: da centro tipicamente medievale, con la rocca e la cinta muraria, a cittadina di aspetto rinascimentale. Altrettanto preziosa è la testimonianza lasciata dal diplomatico ed esploratore inglese George Dennis (1814-1898) in Città e necropoli d’Etruria, scritto durante il suo viaggio in Maremma nel 1843 e pubblicato a Londra nel 1848. Dopo aver visitato Pitigliano, Dennis si
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reca a Sorano, e nota che non vi si trova una locanda per alloggiare («e chi mai può visitare una località cosí nascosta?»), ma ha comunque modo di apprezzare i piatti tipici locali, cucinati per lui dalla signora Farfanti, detta «la Livornese», presso la cui casa trova ristoro. Tralasciando l’identificazione di Sorano con l’antico centro di Sudertum, lo studioso inglese afferma che «l’attrattiva di Sorano (…) poggia quasi esclusivamente sulla bellezza del paesaggio», avendo «poco o nulla da mostrare di antichità». La sua descrizione è la seguente: «Sorano si trova su una lingua di terra al bordo estremo della pianura etrusca. Attraversate le profonde gole all’intorno, e vi trovate di colpo tra i monti. Da questo versante avrete una formazione vulcanica, sull’altro un deposito alluvionale. L’altitudine difende Sorano dall’atmosfera pestifera che ha spopolato la vicina Sovana [nel 1843 la popolazione di Sovana era di 64 unità a causa della malaria, mentre quella di Pitigliano di 3513 e quella di Sorano di 1083]».
Quel castello che incorona i dirupi... «Il paese è piccolo, con strade ripide, strette e tortuose. Nel centro si innalza una ripida massa di pietra [il Masso Leopoldino], la cui sommità domina uno dei panorami piú romantici di questa regione d’Italia. Il borgo si ammucchia intorno alla base dell’altura, dove il grande vecchio castello feudale [la Fortezza Orsini], con i grigi bastioni, incorona i dirupi in secondo piano, i famosi precipizi e il profondo abisso ai vostri piedi, e le catene dei monti sul davanti, che salgono lentamente per altitudine e imponenza fino alla sublime cresta del monte Amiata spruzzato di neve». Piú avanti, a proposito della vista che si gode dal punto panoramico di San Rocco scrive: «La vista del paese e dei dirupi incoronati dal castello difficilmente può trovare rivali in Italia: un paese di pietra, di rovine, di gole boscose». Il centro di Sorano non sembra conservare tracce di frequentazione di epoca etrusca (sebbene Dennis lo definisca come sito (segue a p. 55)
Uno scorcio del borgo. Sulla destra, in basso, la Porta dei Merli, sopra il cui arco a bugnato si aprono le feritoie per l’alloggio delle catene di un ponte levatoio. XVI sec.
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SORANO TRA IL MASSO E LA FORTEZZA Il centro storico A. Palazzo del Comune e piazza del Municipio B. Acquedotto e Fontane C. Arco del Ferrini D. Chiesa di S. Niccolò E. Palazzetto comitale degli Orsini F. Galleria (Via Cava) G. Mulino sul fiume Lente H. Masso Leopoldino I. Ghetto Ebraico L. Porta dei Merli M. Cortilone N. Sinagoga O. Chiesina del borgo
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Qui sotto il fossato difensivo creato a protezione della Fortezza Orsini.
G
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La Fortezza Orsini P. Bastione di Levante, o di S. Marco Q. Piazza d’arme R. Fossato difensivo S. Museo comunale T. Palazzo comitale degli Orsini U. Cortili e loggia V. Ingresso ai sotterranei (le mine) Z. Mastio – Ingresso principale W. Bastione di ponente, o di S. Pietro
EMILIA-ROMAGNA Carrara Massa Viareggio
Lucca
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Pistoia
Pisa
Prato FIRENZE
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Arcipelago
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I La collegiata di S. Nicola.
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SORANO
L’ULTIMO DONO D’UNA SPOSA FEDELE
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el 1950, durante la costruzione della strada che collega Sorano con l’Elmo, l’archeologo Guglielmo Maetzke (1915-2008) scavò 23 tombe etrusche a ipogeo, in gran parte già depredate, situate nei pressi del costone nord-orientale del «pianetto» di Sorano e delle rive del torrente Calesine. I sepolcri sono costituiti da un breve dromos (corridoio d’ingresso) e da una camera quadrangolare con due banchine ai lati; il soffitto è ad arco, in un solo caso è a doppio spiovente con trave centrale, a imitazione delle case etrusche d’epoca arcaica. Un’altra tipologia è quella a loculo, per deposizioni
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singole. I materiali rinvenuti furono lasciati ai proprietari del terreno, la famiglia Ricci Busatti, che, nel 2010, li ha donati allo Stato. In una tomba a loculo, fu rinvenuta un’anfora dipinta, ancora contenente le ceneri del defunto; poco distante, fu trovata una ciotola in bucchero, sulla quale si legge: «Mi Thanecvilus helvnas», ossia «Io (sono di) Tanaquilla (moglie) di Helvna». È probabile (o almeno affascinante pensare) che il vaso contenga le ceneri del marito, e la ciotola sia l’ultimo dono di Tanaquilla al suo sposo. La necropoli è databile tra la fine del VII e gli inizi del V secolo a.C.
Al centro e in basso foto scattate nel corso dello scavo delle tombe, condotto nel 1950 dall’archeologo Guglielmo Maetzke.
In alto, sulle due pagine e qui sopra alcuni dei corredi funerari recuperati nelle tombe etrusche scoperte nel 1950 in prossimità del torrente Calesine. Il piccolo sepolcreto fu in uso tra la fine del VII e gli inizi del V sec. a.C. All’indomani dello scavo, i reperti furono lasciati alla famiglia proprietaria del terreno in cui aveva avuto luogo la scoperta. Successivamente, nel 2010, sono stati donati allo Stato italiano.
etrusco, e dia notizia del ritrovamento in una tomba nelle vicinanze di Sorano, in direzione di Sovana, di un bellissimo specchio in bronzo raffigurante il giudizio di Paride, in possesso del marchese Strozzi di Firenze), né romana; alcune tombe riferibili al periodo etrusco sparse intorno al paese, presso San Rocco, andrebbero pertanto ascritte a piccoli nuclei abitati non ben definibili. Anche la fase romana, come accennato, non sembra a oggi attestata, nonostante alcuni studiosi abbiano erroneamente attribuito a quest’epoca i numerosi colombari esistenti in zona. In età medievale Sorano faceva parte della «Terra Guiniccesca», appartenente al conte Ranieri di Bartolomeo. Nel 1210 diviene proprietà degli Aldobrandeschi e, con la successiva divisione in due rami della famiglia, viene inclusa nella contea di Sovana-Pitigliano. Agli inizi del XIV secolo, dopo la morte senza eredi maschi di Margherita Aldobrandeschi (1312), insieme ad altri centri della contea,
Sorano passa agli Orsini, trasformandosi in uno dei baluardi nella difesa contro i numerosi attacchi portati da Siena e Orvieto, nell’ambito delle guerre per il controllo di questa parte di Maremma. Sottomessa alla Repubblica senese, dopo i molti conflitti succedutisi nel corso del XV secolo, nel 1555, alla caduta di Siena per mano fiorentina, la contea tornò agli Orsini. Nello stesso periodo viene redatto lo Statuto di Sorano. Per la sua posizione strategica, la città fu oggetto di attacchi da parte di numerosi eserciti, ma, soprattutto, fu al centro delle dispute interne alla famiglia Orsini, tanto da essere definita da Cosimo I de’ Medici lo «zolfanello delle guerre d’Italia». Le continue lotte intestine portarono gli Orsini all’estinzione e a una profonda crisi della contea che, nel 1604, con la morte di Alessandro di Bertoldo, passò ai Medici; nel 1608 fu acquistata dal granduca di Toscana Ferdinando I, passando poi nel 1737, ai Lorena. Nel XVIII secolo, a causa della malaria, questa zona della Maremma, come quella costiera, conobbe un calo demografico e una profonda crisi economica (benché a Sorano e in altri centri vi fosse un’attività legata alla produzione di salnitro necessario per la polvere da sparo). Un nuovo incremento nella popolazione soranese si ebbe con il governo illuminato del granducato di Toscana.
Alla scoperta del borgo Al paese si accede per la Porta di Sopra, sul lato sud, che conduce alla piazza del Municipio e di qui al centro storico; ma si può anche percorrere l’itinerario passando dalla
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SORANO C’È VITA NELLA ROCCIA fortezza, alla quale si accede dalla strada provinciale per San Quirico. La Fortezza Orsini è il monumento principale di Sorano ed è anche uno dei migliori esempi di architettura militare d’epoca rinascimentale, realizzata da Gian Francesco Orsini tra il 1542 e il 1546 e progettata dall’architetto senese Antonio Maria Lari, inglobando le strutture di un cassero medievale aldobrandesco risalente al XIII secolo. Progettata secondo le esigenze difensive dettate dall’avvento delle prime armi da fuoco, il fortilizio costituí un inespugnabile baluardo a difesa del territorio, al confine tra lo Stato Pontificio e la Repubblica di Siena, punto strategico per un facile sbocco verso il mare.
Un fortilizio ben difeso Da un ponte che attraversa un primo ampio fossato, si varca un portale ad arco, inserito in una prima imponente cinta muraria a scarpa cordonata, con mastio centrale, che termina sui lati con due bastioni muniti di cannoniere: a ovest, quello detto di San Pietro, dove è collocato un grande stemma, e, a est, quello di San Marco (in riferimento alle città di Roma e Venezia, cui gli Orsini erano piú legati). Dal mastio, dove, sulla sinistra, si trovano il punto informativo e la biglietteria, da cui partono le visite guidate, si attraversa un primo piazzale con un edificio dei primi del Novecento sulla sinistra, la Villa Ricci-Busatti, ora sede del liceo linguistico. La parte opposta del piazzale è invece aperta, e serviva come piazza d’armi. Il piano superiore del mastio presenta ambienti disposti su due livelli, attualmente utilizzati per mostre d’arte. Scendendo da una rampa sulla sinistra della corte, si accede, accompagnati dalla guida, ai camminamenti sotterranei, lunghi cunicoli in parte scavati nel banco tufaceo e in parte realizzati in blocchi squadrati di tufo, con soffitti voltati, lungo i quali si aprono numerose feritoie per le armi da fuoco. Disposti su piú livelli, questi camminamenti corrono lungo tutto il perimetro delle mura della fortezza e dei due bastioni, e permettevano il rapido spostamento delle truppe di guardia; alcune (segue a p. 62)
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scendo da Sorano, prima del ponte sul fiume Lente, s’incontrano alcuni colombari sullo sperone di roccia a sinistra della strada; due di questi si trovano all’altezza del piano stradale, mentre un altro gruppo si trova in posizione molto elevata (se ne vedono le aperture dal punto panoramico di San Rocco), attualmente non accessibile. Si tratta di piccoli ambienti a pianta quadrata, con un’apertura sullo strapiombo e tre pareti su cui sono le nicchie per ospitare i colombi. Passato il ponte sul Lente, a 2 km circa dal paese, da una piccola strada che si incrocia con la Provinciale si raggiunge il complesso rupestre di S. Rocco. Comprende la necropoli, costituita da piccole tombe a camera tagliate nel versante ovest dello sperone tufaceo, riferibile al III e II secolo a.C., dunque al momento successivo alla conquista del territorio da parte dei Romani. Alla fase medievale appartiene invece un piccolo abitato rupestre (anche se le prime notizie risalgono al 1562), privo di edifici e strutture fortificate, costituito da grotte a piú piani disposte sui versanti est e sud dello sperone tufaceo, e da un colombario con le nicchie quadrate scavate nelle pareti. Uno di questi ambienti rupestri, costituito da tre grotte contigue con vasche per la decantazione dell’argilla e un forno, testimonia la produzione di ceramica per uso domestico in un periodo compreso tra il XIV e il XV secolo.
Un voto contro la peste Nominata per la prima volta in una visita pastorale del 1576, la chiesa di S. Rocco è costituita da un piccolo edificio a navata unica, con abside semicircolare di tipo romanico, eretto dalla comunità soranese, probabilmente come voto in seguito a una pestilenza, tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. All’interno si conserva un affresco posto sull’altare maggiore, databile alla fine del XVII o agli inizi del XVIII secolo, la Vergine con il Bambino tra i santi Stefano, Lorenzo e Giovanni Battista, eseguito da un artista ignoto attivo in ambito locale. Proseguendo verso il lato ovest, dopo aver attraversato una stretta sella si raggiunge l’estremo sperone del pianoro tufaceo, dove si trovano altre grotte riferibili all’abitato, e da cui si può ammirare il panorama della valle del Lente e del paese di Sorano. A sinistra della chiesa, si trova la principale via cava, detta appunto di San Rocco, che, attraverso un suggestivo percorso che costeggia nel punto piú
In alto e in basso l’interno e l’esterno di uno dei numerosi ambienti scavati nel tufo dell’insediamento
rupestre di S. Rocco, che testimoniano la frequentazione del sito fin da epoca molto antica.
basso il fiume Lente, metteva in collegamento l’insediamento medievale con quello di Vitozza (percorso 5 km). Inizialmente legata alla necropoli etrusca, dal Medioevo e fino al 1940 costituí l’unica strada di collegamento tra Sorano, i Pianetti e Sovana. Lungo il suo percorso, sulle pareti tufacee si possono osservare alcune nicchie che accoglievano immagini sacre, i cosiddetti «scaccia diavoli» a protezione dei viandanti. Interamente scavata nel tufo, la strada presenta al centro una profonda canaletta per lo scolo delle acque. Sul tracciato si apre anche una grotta con simboli cristiani incisi, di epoca medievale. Due
diverticoli in prossimità dell’attraversamento del Lente conducono alla vie cave di Case Rocchi e di San Carlo (o San Valentino). Dal punto di vista naturalistico, la conformazione della via cava, che alterna zone umide e ombrose nella parte piú bassa e zone asciutte e calde nella parte alta, ha permesso lo sviluppo di una notevole varietà di piante; qui si possono infatti osservare boschi tipici della macchia mediterranea, in cui sono presenti la farnia, il cerro, il frassino, l’acero, il carpino, l’orniello, il pioppo, il leccio, il salice, il noce, il corniolo, il viburno, il sambuco, oltre a muschi e licheni nelle zone piú umide.
SORANO IL MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO DI SORANO
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li ambienti trecenteschi della Fortezza Orsini sono oggi sede del Museo Civico Archeologico di Sorano. L’idea di realizzare un museo all’interno del fortilizio nasce negli anni Novanta, dopo un lungo intervento di recupero dell’intero complesso architettonico, voluto fortemente dal Comune di Sorano e dalla Regione Toscana, in collaborazione con le Soprintendenze di settore. Nel 1993 fu approvato il progetto relativo ai lavori di restauro che prevedevano, tra l’altro, l’allestimento museale nei locali adibiti un tempo a biblioteca. Il progetto riguardava inizialmente la realizzazione di un percorso espositivo dedicato al territorio, suddiviso in varie sezioni: la storia, le ricerche archeologiche, l’ambiente, gli
insediamenti rupestri, la Fortezza Orsini e le attività produttive. I materiali archeologici provenivano in gran parte dai butti della Rocca di Castell’Ottieri, di proprietà della famiglia Mari, con una piccola testimonianza di reperti rinvenuti nella Fortezza. Un ambiente, inoltre, era dedicato ai codici medievali delle comunità di Sorano e Castell’Ottieri. Battezzata «Museo del Medioevo e del Rinascimento», la raccolta fu inaugurata nel 1996 e, negli anni successivi, i suoi spazi hanno ospitato mostre temporanee dedicate alle ricerche archeologiche svolte sul territorio ed
La poderosa Fortezza Orsini, oggi sede del Museo Civico Archeologico di Sorano.
di Lara Arcangeli e Fabio Rossi esposizioni d’arte contemporanea. Nel tempo, nuovi studi e nuove scoperte hanno portato ad ampliare enormemente le conoscenze sul territorio e, soprattutto, hanno reso possibile l’acquisizione di nuovo materiale archeologico, anche da collezioni private. Al fine di valorizzare tali novità, si è deciso di ripensare l’intero allestimento e cosí, nel 2019, è nato il rinnovato Museo Civico Archeologico. Il visitatore è accolto nell’antico Salone delle Udienze, a partire dal quale si sviluppa il percorso museale in senso cronologico, dalle epoche piú recenti a quelle piú antiche. Nelle prime tre sale sono esposti reperti di età rinascimentale e medievale provenienti dalle indagini archeologiche effettuate su tutto
il territorio comunale e in particolare a Sorano, Vitozza, Sovana e Castell’Ottieri.
Un corredo di pregio Nella vetrina dedicata a Sorano sono esposti reperti recuperati dai cosiddetti «pozzi da butto», indagati nel centro storico del paese e nella Fortezza Orsini negli anni Novanta. Fra questi, si distinguono due piatti frammentari risalenti al XV secolo di particolare pregio, in quanto recano lo stemma nobiliare della famiglia Conti, composto da un’aquila coronata a scacchi blu e gialli con ali abbassate, grande coda e artigli. I due oggetti appartennero alla contessa Elena dei Conti di Montelanico (1445-1504), moglie del celebre capitano di ventura Niccolò III
Orsini conte di Pitigliano, Sorano e Nola. I piatti dovevano far parte di un nutrito corredo di stoviglie presenti nel castello di Sorano durante la momentanea residenza della contessa e attestano l’alto livello qualitativo richiesto dalla committenza. L’aquila a scacchi è divenuta oggi il logo del nuovo Museo. Seguono le vetrine dedicate ai ritrovamenti effettuati negli anni Ottanta nelle abitazioni rupestri dell’insediamento di Vitozza (vedi alle pp. 122-129) e a quelli provenienti dagli scavi effettuati, nei medesimi anni, all’interno di Palazzo Pretorio, a Sovana. Da qui, in particolare, proviene un piatto di grande pregio, decorato a lustro, con al centro la raffigurazione di due mani strette una all’altra. Tale
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immagine simboleggia un patto, probabilmente l’accordo matrimoniale concluso fra due nobili famiglie. Nella vetrina successiva sono esposti oggetti rinvenuti nel ghetto ebraico di Sorano durante i lavori di restauro del vecchio forno e dell’antica sinagoga di proprietà di Giorgio ed Enrica Bartolomeo.
effettuata permise di evidenziare chiaramente l’importanza di questa vallata e del Pianetto di Sorano come via di comunicazione tra i centri etruschi di Sovana e Pitigliano e la regione chiusina. A questo riguardo, sono da ricordare le due monumentali tombe a semidado rinvenute in località
un’ampia diffusione in tutti i centri della valle del Fiora, le olle stamnoidi e i votivi anatomici in terracotta. Nel 2010 i figli dell’unica erede della famiglia, Paola Ricci Busatti, hanno eseguito la sua volontà di donare la collezione allo Stato, a condizione che i suddetti reperti rimanessero nel Comune di
Case Rocchi e le numerose tombe a camera presenti sia lungo la vallata del fosso di Castel Sereno, sia sul versante opposto della valle del Lente. Le ultime vetrine sono dedicate ai reperti della collezione di provenienza incerta, le cui caratteristiche testimoniano una piena affinità con i materiali rinvenuti negli scavi archeologici effettuati nei territori di Sovana, Pitigliano, Poggio Buco e Saturnia. Fra gli altri, ne sono prova gli attingitoi con decorazione graffita sul collo e sulla spalla con motivi a denti di lupo e archetti intrecciati, che trovano
Sorano e che fossero esposti al pubblico in un futuro museo, affinché tutta la cittadinanza potesse fruire di questo patrimonio culturale. Nel 2019, il Comune di Sorano ha ottenuto dallo Stato il deposito dei reperti e ha quindi potuto provvedere all’esposizione degli stessi. La torre ottagonale della fortezza, l’ambiente piú piccolo del percorso museale, custodisce un autentico tesoro: si tratta, infatti, dell’unica stanza affrescata del museo, che fu scoperta fortuitamente nel 1967. Gli affreschi sono realizzati «a grottesche», uno stile di decorazione parietale
Un lascito generoso Nelle tre stanze che seguono si possono vedere i materiali etruschi della Collezione Ricci Busatti. Una parte dei reperti provengono dagli scavi effettuati nel 1950 dall’allora Soprintendenza alle Antichità d’Etruria lungo il fosso del torrente Calesine (vedi box e foto alle pp. 54-55), sul costone nord-orientale del Pianetto di Sorano, lasciati sia in custodia, sia come premio di rinvenimento alla famiglia; una parte, invece, è di provenienza incerta, in quanto i Ricci Busatti possedevano varie proprietà agricole nei Comuni di Sorano e Pitigliano, e quindi da questi terreni provengono, probabilmente, i reperti della collezione posseduti prima del 1950. Negli anni Cinquanta le indagini archeologiche lungo il Calesine permisero di portare alla luce un’ampia necropoli, che si estendeva su entrambi i versanti della valle, chiamata popolarmente «Valle dei Morti», costituita da tombe a incinerazione e a inumazione, a camera e a loculo, scavate nel banco di tufo e disposte su piú livelli, molte delle quali ancora intatte, che restituirono un’ingente quantità di reperti inquadrabili cronologicamente nella seconda metà del VI secolo a.C. La scoperta
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della partitura di un madrigale musicato a quattro voci e che si sviluppa su ciascuna delle quattro pareti, opera del musicista Domenico Maria Ferrabosco (1513-74), sul testo di una canzone del Decameron di Giovanni Boccaccio (IX giornata): «Io mi son giovinetta e volentieri m’allegr’e canto alla stagion novella...». tipicamente rinascimentale, ispirata alle pitture romane di epoca augustea. Si caratterizza per la raffigurazione di scene mitologiche o con esseri ibridi e mostruosi, quali, per esempio, putti e chimere, spesso ritratti in In alto particolare dell’affresco, scoperto nella torre ottagonale della Fortezza Orsini, raffigurante la partitura musicale di un madrigale a quattro voci su un testo tratto dal Decameron. XVI sec. In basso e nella pagina accanto due sale del Museo Civico Archeologico, nato dal rinnovamento e dall’ampliamento del Museo del Medioevo e del Rinascimento.
forma di figurine esili ed estrose, che si fondono in decorazioni geometriche e naturalistiche, strutturate in maniera simmetrica, su uno sfondo in genere bianco o comunque monocromo. Fra i soggetti rappresentati stupisce la presenza di due uccelli: un pappagallo e un colibrí, entrambi originari delle Americhe. Vi sono, poi, scene mitologiche: il Suicidio di Didone e, forse, il Matrimonio di Enea con la stessa Didone. Sulla parete a sinistra dell’ingresso sono raffigurate scene bacchiche. Raro e di grande interesse è l’inserimento nella decorazione
Gli amori del conte La tradizione vuole che questa fosse la stanza degli amori del conte Niccolò IV Orsini. Sembra, infatti, che una lunga scala elicoidale realizzata all’interno della torre ottagonale, oggi tamponata, conducesse all’ingresso del paese e permettesse quindi l’ingresso indisturbato di giovani fanciulle. Il nuovo allestimento ha restituito all’intera comunità soranese nuovi spunti di lettura del proprio ricco passato e il Museo Civico Archeologico si pone anche come punto di riferimento dell’offerta turistica del borgo medievale di Sorano attraverso le sue attività culturali ed educative, quali mostre tematiche, conferenze, attività didattiche e visite guidate, non soltanto alla Fortezza Orsini, ma all’intero territorio. Dal 2013, la struttura è inserita nel sistema museale del Comune di Sorano insieme al Parco Archeologico «Città del tufo» (con la necropoli di Sovana e gli insediamenti rupestri di San Rocco e di Vitozza) e al Polo Museale di Sovana. Dal Museo partono, con turni orari diversificati durante l’anno, visite guidate al Complesso architettonico della Fortezza Orsini e ai Camminamenti sotterranei. Lara Arcangeli e Fabio Rossi
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aperture verticali servivano non solo per l’aerazione, ma anche per la dispersione dei residui di gas delle polveri da sparo.
Il nucleo piú antico Attraversato un secondo fossato, si raggiunge il nucleo piú antico del complesso, dove è una torre circolare forse appartenente al cassero aldobrandesco. Oltrepassata la torre, si accede a un cortile chiuso su tre lati da edifici; in uno di questi, destinato alla residenza privata dei conti, è allestito il Museo Civico Archeologico (vedi box alle pp. 58-61); alla sua sinistra, la cappella privata degli Orsini. L’edificio di fronte è invece in parte occupato da una struttura ricettiva, mentre al centro vi è un piccolo teatro, nel quale si svolgevano gli spettacoli per
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la corte. Dal cortile, attraverso una rampa a doppia curva, si può raggiungere il centro storico. Dalla Fortezza, si scende in via Finetti, dove si incontra la collegiata di S. Nicola. La chiesa viene nominata nelle decime del 1276 come suffraganea della pieve di S. Nicola di Selvena. L’impianto originario, a una sola aula absidata, realizzato in stile romanico da maestranze senesi, si deve probabilmente all’iniziativa di Margherita Aldobrandeschi di Montfort. Nel 1509 la chiesa acquista il titolo di «collegiata insigne». Nel 1772, in seguito alla traslazione delle spoglie di santa Felicissima da Faleria, compatrona di Sorano – che, secondo la tradizione popolare, riposano ora nella cripta sotto l’altare maggiore –, l’edificio subisce notevoli ampliamenti. Viene infatti creata la
L’ingresso al borgo medievale di Sorano dalla Porta dei Merli, attraversando la quale si raggiunge la valle del fiume Lente.
navata sinistra, si allarga quella centrale che ingloba anche il campanile, anch’esso rimaneggiato, e viene realizzata la cappella del Crocifisso. Una lapide ricorda la consacrazione, nel 1779, della nuova chiesa dall’aspetto neoclassico. Il fonte battesimale, che sul bordo conserva incisa la data del 1549, è l’unico arredo piú antico rimasto; il resto delle opere risale infatti ai secoli XVIII e XIX. Tra queste, da segnalare il San Giuseppe con il Bambino del pittore mancianese Pietro Aldi, fatto eseguire nel 1884 dal dottor Angelo Busatti. Dall’altare, attraverso un cunicolo, si scende al piano inferiore, diviso in due parti, con la cripta di S. Felicissima e un’altra che accoglie sepolture a cubicoli e ambulacri. Accanto alla chiesa di S. Nicola, sorge il Palazzo comitale, residenza dei conti Orsini prima della ristrutturazione della fortezza. È probabile che il nucleo originario si debba agli Aldobrandeschi e che risalga alla seconda metà del XIII secolo. Nel 1551 Nicolò IV promosse alcuni restauri, come ricorda un’iscrizione su un architrave della corte interna. Pur continuando a essere abitato, il palazzo si trovava già nel 1747 in condizioni fatiscenti; nel 1783 viene acquistato da un certo Agostino Selvi per 600 scudi, e da un rilievo dello stesso anno si ricava che del complesso facevano parte anche alcuni locali in via di Santa Monaca, poi venduti alla collegiata di S. Nicola. Nel 1826 viene costruito un edificio a uso di stalla, che riduce notevolmente la superficie della corte interna; agli inizi del Novecento il palazzo viene diviso in diverse frazioni abitative, viene chiusa la loggia al primo piano e vengono spostate al piano superiore le colonnine.
Il simbolo del borgo Contrapposto all’imponente Fortezza Orsini, il Masso Leopoldino è forse il luogo che piú caratterizza Sorano, offrendo dalla sua sommità un panorama su tutto il paese e sul paesaggio circostante. Si tratta di un enorme sperone tufaceo di forma irregolarmente allungata, disposto in direzione nord-sud, che ricorda la
prora di una nave. Fu utilizzato a partire dal IX secolo in funzione difensiva, con la costruzione di una torre merlata posta sul punto piú stretto, dove era collocata anche la campana del Comune. Con la costruzione della Rocca Aldobrandesca, il Masso perse la sua funzione militare, e vi fu costruita la chiesetta di S. Caterina. Nel XVIII secolo il Masso venne fortificato dai Lorena, con un’opera di regolarizzazione dello sperone tufaceo e la costruzione di un alto muro a scarpa cordonato da un lato, e di un bastione quadrato sul lato sud-est, anch’esso con cordonatura. Nei secoli di vita dell’abitato, sotto il Masso furono realizzate numerose cavità, utilizzate dai Soranesi come abitazioni o stalle; questo portò a un indebolimento dello sperone tufaceo, che provocò, il 13 febbraio del 1801, una disastrosa frana, che distrusse molte grotte-abitazioni, uccidendo anche un gran numero di persone e animali. Nel disastro crollò anche la chiesa di S. Caterina. Nel 1820-1822, durante lavori di riorganizzazione urbanistica di Sorano da parte di Ferdinando III, il Masso venne abbassato e rinforzato, con la costruzione di un muraglione e nell’occasione furono anche interrate le grotte. Attualmente sul Masso Leopoldino svetta la caratteristica Torre dell’Orologio. Scendendo a destra, si passa per la cinquecentesca Porta dei Merli, dal portale ad arco bugnato sopra il quale si notano ancora le feritoie per l’alloggio delle catene di un ponte levatoio; sulla porta campeggiano gli stemmi araldici di Cosimo II dei Medici e di Niccolò IV. Scendendo dalla porta, si può arrivare nel fondovalle, dove sono conservati alcuni tratti di antiche vie cave. Proseguendo invece in direzione nord si raggiunge l’estremo limite di Sorano, dominato da un grande edificio realizzato nel 1554 da Niccolò IV Orsini, e utilizzato come granaio, detto «il Cortilone». Da qui si può scendere nella parte dell’abitato che si estende a ridosso della rupe tufacea nel lato ovest, dove si trova un vecchio quartiere abbandonato nel 1929 a causa del disgregarsi della roccia, e dove sorge anche la cappelletta della Madonna del Borgo.
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«Viste quasi tutte le antichità di simil genere contenute dall’Etruria posso affermare con verità non essermi altrove occorse cotante varietà di sepolcri scolpiti, quante in Sovana…» (Samuel J. Ainsley, 1843)
Un paesaggio tipico del territorio di Sovana, nel quale le tracce dell’uomo, qui riconoscibili nelle nicchie e nei loculi scavati nel tufo, si fondono con la caratteristica vegetazione della macchia mediterranea.
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La piccola camera funeraria della Tomba della Sirena accolse probabilmente i resti di un solo defunto, incinerato, «Vel Nulina (figlio di) Vel»
Uno scorcio della necropoli di Sopraripa. Sulla sinistra, si riconosce la Tomba della Sirena, intorno alla quale si aprono gli ingressi di altri monumenti funerari, di varia tipologia.
LA NASCITA DELLA CITTÀ
Uno scorcio della necropoli di Poggio Felceto, con tombe a edicola e semidado.
NELLA CITTÀ DELLE SIRENE IMMERSA IN UN PAESAGGIO DI GRANDE SUGGESTIONE, PUNTEGGIATO DA SPETTACOLARI MONUMENTI RUPESTRI E STRADE SCAVATE NELLA ROCCIA, SOVANA VANTA UNA STORIA PLURISECOLARE. SEGNATA, NEL MEDIOEVO, DALLE GESTA DI UN PATRONO MISTERIOSO E DALL’IMPERIOSO PONTIFICATO DEL SUO FIGLIO PIÚ ILLUSTRE, IL MONACO ILDEBRANDO di Lara Arcangeli, Carlo Casi ed Enrico Pellegrini
SOVANA
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iamo nella parte piú meridionale della Toscana, in provincia di Grosseto, nell’angolo compreso tra Lazio e Umbria. Una terra difficile e da sempre di frontiera, nella quale il fiume Fiora continua a dividere ancora oggi un paesaggio caratterizzato da colline dolci e ondulate e rupi vulcaniche aspre e piú isolate. Qui il paesaggio piatto e monotono dei tufi assolati si interrompe bruscamente, di quando in quando, lasciando spazio a lame verdeggianti, sviluppatesi all’interno delle profonde incisioni fluviali che solcano il territorio come rughe profonde. Nel mezzo, alla stregua di isole, si ergono antiche rocche, spesso abbandonate e decadenti, e, a volte, circondate da paesi nei quali le case mal si distinguono dalla roccia sottostante, formando un tutt’uno di rara bellezza. È questo il caso di Sovana.
Nel nome di Ildebrando Le sue nobili origini sono svelate già dalla Rocca Aldobrandesca (XI secolo), ma ancor piú dall’aleggiante presenza di un celebre personaggio nato qui, intorno al 1020-1025: Ildebrando, appunto, di Sovana, che divenne papa Gregorio VII (vedi alle pp. 112-121). Anche la piú monumentale tomba a edicola della necropoli che si sviluppa come una Emilia-Romagna Liguria Mas asssssa ass a
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Sovana Lag Lag Lago go go di Bol olse ols o llss na a
Lazio
Uno scorcio della Tomba Ildebranda di Sovana, la piú monumentale del comprensorio. Prima metà del III sec. a.C.
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SOVANA
Un Parco da scoprire Pianta del Parco Archeologico «Città del Tufo» con i percorsi di visita: 1. Tomba Ildebranda; 2. Tomba della Sirena, percorsi non attrezzati; 3. Poggio Grezzano; 4. Valle Bona-Monte Rosello; 5. Costone del Folonia. Svastica con iscrizione etrusca
Tomba Ildebranda
Tifone
Poggio Stanziale
Tomba Pisa
Unità introduttiva Poggio Grezzano
1 Sentiero per Tomba Pola
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Palazzo Comunale S. Maria Maggiore
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Chiesa di S. Sebastiano (Unità introduttiva del Parco)
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Via Cava di S. Sebastiano
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Tomba della Sirena Necropoli di Sopraripa
corona intorno al centro abitato ha subíto il fascino del grand’uomo. È conosciuta infatti con il nome di Tomba Ildebranda, quale indelebile tributo a lui dedicato dalla tradizione popolare locale. Risalente alla prima metà del III secolo a.C., il sepolcro è caratterizzato da un ampio podio modanato, accessibile mediante due scale laterali, e, sulla fronte, da sei colonne scanalate su alte basi modanate, alle quali se ne aggiungevano altre tre ai due fianchi. Esse sostenevano il soffitto a lacunari dell’ambulacro e sono sormontate da un fregio
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Palazzo Pretorio
La firma del committente L’iscrizione nel Cavone di Sovana, con il nome di chi commissionò l’opera, accanto alla quale si distingue una svastica.
Fine percorso attuale
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S. Mamiliano
Palazzo Bourbon ia del Monte n lo
Tomba del Sileno Tomba dei Colombari
4
a Prov.le Sovana - So Strad
5
rano
Via Cava
Tombe a dado Rocca Aldobrandesca Folonia Tomba Siena
In alto la Tomba dei Demoni Alati. III sec. a.C. In basso la Tomba della Sirena, la cui facciata è coronata da un frontone decorato a rilievo con Scilla che avvolge nelle sue spire due amorini. III-II sec. a.C.
a rilievo decorato da grifi affrontati, alternati a rosette e trattenuti per le code da una figura femminile, romanticamente appellata «signora degli animali». Il monumento era coronato, come di consueto, da un grande cippo in tufo. Al di sotto, in corrispondenza della cella del tempio e preceduta da un lungo dromos (corridoio d’ingresso) vi è un’ampia camera funeraria a pianta cruciforme e soffitto a doppio spiovente, con un’unica banchina per la deposizione. Oggi la tomba si presenta piuttosto deteriorata, ma
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IL COMPLESSO MONUMENTALE DELLA TOMBA DEI LEONI
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el settore di Poggio Prisca della necropoli etrusca di Sovana, subito a sud-est della Tomba Ildebranda, è situato il complesso monumentale della Tomba dei Leoni. Appena oltre, sul lato a nord-ovest, si apre la via cava di Poggio Prisca. Questa parte dell’area archeologica, nella quale insistono le tombe monumentali a facciata rupestre piú rappresentative dell’intera necropoli (oltre alla già ricordata Tomba Ildebranda, la Tomba dei Demoni Alati e la Tomba Pola), è stata acquisita al patrimonio del Comune di Sorano dopo un annoso iter burocratico-amministrativo. Il complesso monumentale in questione venne alla luce alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, grazie alle indagini svolte dall’allora Soprintendenza Archeologica della Toscana; il recupero durante i lavori di una testa leonina in tufo, ha dato il nome non solo alla tomba di provenienza del reperto, ma anche all’intera area. Oltre ad alcune probabili tombe a fossa scavate direttamente nel banco tufaceo, di cui non si hanno purtroppo informazioni precise circa il contenuto e
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la datazione, l’area è caratterizzata dalla presenza di quattro tombe a facciata rupestre, in parte deteriorate, riferibili all’età ellenistica (III-II secolo a.C.). Proprio in questo periodo, infatti, il sepolcreto si popola di impianti monumentali che ne hanno propiziato la fama di grande necropoli rupestre.
A dado e a edicola Rispetto ai tipi architettonici noti per l’intera necropoli sovanese, nell’area sono presenti in particolare due tombe a semidado, caratterizzate da un blocco parallelepipedo con modanature e dotato, in alto, di una sorta di altare, anch’esso modanato, probabilmente utilizzato, come negli altri casi, per l’infissione dei cippi; come già detto, le facciate sono purtroppo molto deteriorate e in parte crollate in antico. È invece migliore la leggibilità delle strutture rupestri di due tombe a edicola. La prima presenta un piccolo frontone di forma triangolare leggermente aggettante. Ai lati della facciata sono visibili le tracce di due avancorpi, con tutta probabilità ciò che resta delle
Nella pagina accanto la creatura marina scolpita nel timpano della Tomba dei Demoni Alati. Seconda metà del III sec. a.C.
dobbiamo immaginare, invece, una struttura eccezionalmente ricca di decorazioni plastiche e vivacemente policroma. Fatto, questo, confermato anche dai restauri condotti negli anni Settanta del Novecento, quando furono messi in luce nuovi elementi della decorazione architettonica, che comprendeva protomi d’ariete agli angoli del timpano e, probabilmente, statue acroteriali angolari a forma di animali accosciati.
Alla maniera dei frontoni greci La grande originalità di Sovana si evince dalla presenza di impianti architettonici molto complessi come le tombe a edicola e a tempio, delle quali la Tomba Ildebranda è un esempio, e nemmeno isolato. Di questo tipo, infatti, se ne conosce almeno una decina, con fronti colonnate da due a otto elementi, come è il caso della Tomba Pola, anch’essa databile al III secolo a.C. Le facciate si rifanno al frontone greco, nel quale il timpano è interamente
ante. La seconda tomba, posta a poca distanza dalla prima, presenta una struttura simile alla precedente con avancorpi laterali piuttosto lunghi, che vanno a formare una sorta di «semi-recinto». Sono ben conservate, per entrambe le strutture, le doppie gradinate laterali che conducono nella parte superiore dell’architettura.
Il segno dei tombaroli Sotto i monumenti si aprono profondi corridoi di accesso (dromoi) che conducono alle camere sepolcrali a croce latina, dotate di banchine sui lati per la deposizione dei defunti. Le tombe sono state depredate in antico, come dimostrano i fori praticati dagli scavatori clandestini sulle pareti interne delle camere sepolcrali. L’orientamento del Comune di Sorano, in piena sinergia e accordo con tutte le altre istituzioni coinvolte, è da tempo quello di tutelare e, in particolare, valorizzare l’ingente patrimonio archeologico presente sul territorio come dimostrano la nascita, alla fine degli anni Novanta, del Parco Archeologico «Città
chiuso e completamente decorato di sculture, confermando il carattere estremamente innovativo almeno per il IV secolo a.C. Altrettanto originale è la Tomba del Sileno, cosí chiamata in ragione delle antefisse che ne decoravano la copertura, risalente al secondo quarto del III secolo a.C. Si tratta di un rarissimo esempio di tomba a edicola circolare, scoperta nel 1963 da Paolo Enrico Arias, dell’Università di Pisa, eccezionalmente ancora intatta. Un breve dromos immette nella camera quadrangolare allargata sul fondo e dotata di tre banchine. Il defunto occupava probabilmente quella di fondo, dove non furono rinvenuti altri oggetti, mentre le due banchine laterali accoglievano, insieme al corredo, alcune urne cinerarie. Il monumento presenta un corpo cilindrico a cui erano in origine addossate sei semicolonne su base sagomata con capitelli, sovrastato da una copertura conica ornata lungo il perimetro di base da maschere sileniche.
del Tufo», i vasti programmi di censimento dei principali monumenti funerari etruschi, il recupero della Fortezza Orsini di Sorano e la nascita, nel 2012, del Polo Museale di Sovana (vedi box alle pp. 102-105). All’interno di questo orientamento, si inserisce il progetto di restituire alla piena fruizione dei cittadini anche il complesso monumentale della Tomba dei Leoni. Dopo un massiccio intervento di ripulitura e taglio della vegetazione infestante, effettuato nel 2017, a molti anni di distanza dai primi interventi operati nell’area, nel 2018, il Comune di Sorano, grazie ad Anci (Ente capofila), ha potuto inserire gli interventi per la valorizzazione e fruizione riguardante la «Tomba dei Leoni» nel piú ampio progetto RACINE-Rete in Azione per Conservare e valorizzare il patrimonio e l’Identità culturale, nell’ambito del Programma Interreg Italia-Francia Marittimo 2014-2020. Obiettivo finale dei lavori è la realizzazione di un nuovo percorso di visita nel primo settore della necropoli di Sovana. Lara Arcangeli e Fabio Rossi
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Esempio altrettanto singolare è la Tomba del Tifone (prima metà del III secolo a.C.), un sepolcro a edicola, con pilastri scanalati e timpano decorato da una conturbante protome femminile velata, che sorge da un intricato viluppo di foglie e fiori. Questa fu erroneamente interpretata da George Dennis (1814-1898) quale mostro marino (Tifone), mentre si tratta, invece, di un motivo decorativo, di gusto barocco, che trova confronto in ambito magno-greco. Al di sotto del timpano, la fronte si apre in un vano rettangolare, coperto da soffitto a cassettoni decorati a losanghe e inquadrato da due lesene scanalate, mentre è presente una scala sul lato destro. Dalle tracce di stucco rimaste è stato supposto, come in altri casi, l’uso della policromia nella finitura del monumento. È comunque intorno alla fine del III secolo a.C. che a Sovana si afferma un nuovo tipo di tomba, che, pur derivando dai precedenti, presenta elaborazioni ancor piú pregnanti e direttamente riferibili all’ideologia funeraria.
alti piedistalli, si ergono due statue, quasi a tutto tondo, che raffigurano altrettanti personaggi femminili, alati e vestiti di tunica e pesanti mantelli. Altre due imponenti sculture erano poste simmetricamente nella platea davanti la facciata e raffiguravano due leoni, uno dei quali, quello di sinistra (il solo conservato), è in posizione d’assalto. La facciata è coronata da un timpano triangolare. Sul frontone, ad altorilievo, campeggia un demone marino imponente, fornito di grandi ali e, in luogo delle gambe, di estremità serpentine che, dopo due avvolgimenti, terminano in code pisciformi. Il demone mantiene dietro la testa un timone di una nave. Nel campo al di sopra delle spire anguiformi, guizzano due delfini. Le sculture conservano ancora tracce di pittura. Lo stesso demone appare a Sovana nella tomba a edicola con vano quadrato PF11 e in quella piú famosa detta della Sirena. Quest’ultima risulta leggermente piú recente di quella dei Demoni Alati, che ne è stata sicura fonte d’ispirazione. Anche qui il defunto è posto entro il nicchione arcuato, che è fiancheggiato da due personaggi a rilievo raffiguranti un demone maschile e uno femminile. La camera funeraria, posta fuori asse, è molto piccola, e probabilmente ospitava i resti di un solo defunto incinerato, «Vel Nulina (figlio di) Vel», come recita l’iscrizione conservata in facciata. Sulla trabeazione, con fregio di patere e triglifi, è un frontone decorato a rilievo con il demone marino che avvolge nelle sue due spire altrettanti amorini e che ha regalato impropriamente il nome alla tomba. La mitologica figura femminile con la coda di pesce, tanto presente nell’immaginario (segue a p. 83)
Espressione principe della grande originalità di Sovana è la diffusa presenza di monumenti funerari molto complessi, come nel caso della imponente Tomba Ildebranda e della non meno spettacolare Tomba Pola
La porta dell’aldilà Un grande nicchione rettangolare o arcuato prende il posto, al centro della facciata, della sagoma della porta e al suo interno viene scolpita l’immagine del defunto come simposiasta. Traspare, come mai prima d’ora, il desiderio di commemorare il destino del defunto nell’aldilà, immaginato nella felice e permanente situazione di banchettante tra le divinità. Il nicchione stesso diventa rappresentazione della porta dell’aldilà, quasi un oblò da cui poter guardare dentro il mondo dei defunti. È questo il caso della Tomba dei Demoni Alati, dove, ai lati del nicchione e su
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La Tomba Pola, uno dei monumenti funerari piú spettacolari dell’area di Poggio Prisca. III sec. a.C. Il sepolcro, del tipo a tempio, era originariamente caratterizzato da otto colonne su alto podio.
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SOVANA LE «VIE CAVE»
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ell’antichità, cosí come avviene ancora ai nostri giorni, si faceva ricorso a strade in trincea e in gallerie per superare un ostacolo orografico in modo rapido e sicuro, mantenendo al contempo la pendenza dei nuovi percorsi su valori affrontabili dagli animali e dai carri, attraverso il taglio verticale del banco roccioso. Queste strade erano sufficientemente ampie e brevi da ridurre sia i tempi di percorrenza, sia la pendenza naturale dei dislivelli altimetrici esistenti tra i valloni e i pianori sopraelevati sui quali sorgevano gli abitati, i santuari extraurbani e le piú vaste aree necropolari. Il ricorso a queste pratiche di ingegneria stradale, almeno dal VII e VI secolo a.C., trova conferma nella documentazione archeologica e nella presenza di tombe arcaiche scavate nelle pareti di alcune tagliate.
Nella roccia tenera Denominate localmente «vie cave» cioè scavate, tali opere furono favorite dalla natura geologica tufacea dei terreni nell’entroterra meridionale della Toscana e dell’Alta Tuscia viterbese, facili allo scavo, ma anche compatti e non bisognosi di particolari opere di consolidamento. La realizzazione di queste direttrici viarie non era sempre frutto di un unico intervento, ma poteva articolarsi in piú fasi, distribuite in un arco di tempo di lunghezza variabile a seconda dell’importanza del percorso, della tipologia e della natura geologica dell’ostacolo orografico. All’apertura e alla prima sistemazione della via, con relative operazioni di taglio del tufo, potevano infatti far seguito, oltre alle normali opere
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Un tratto della via cava di Poggio Prisca.
di manutenzione e di restauro del tracciato, anche interventi di ampliamento e potenziamento, tali da giustificare l’evoluzione strutturale del manufatto con il progressivo abbassamento della sede stradale.
Vie in trincea Il piano di calpestio attuale delle «vie cave» non è dunque quello originario, ma, come una sorta di stratigrafia al contrario, si attesta a un livello piú basso, anche di qualche decina di metri, dal primo. La via in trincea era con ogni probabilità un apprestamento impegnativo sul piano tecnico e oneroso su quello finanziario e doveva quindi essere sentito dalla collettività al pari della realizzazione di un’opera d’arte e/o di un monumento. Per economizzare tempi e costi, venivano senza dubbio adottati alcuni accorgimenti, quali quello di sfruttare, per poi regolarizzare, il diaframma roccioso nel punto piú favorevole, per esempio in corrispondenza delle selle naturali che caratterizzavano il paesaggio. Inoltre, nel lavoro di scavo piú superficiale i tracciati sfruttavano, quando possibile, leggeri avvallamenti trasversali al costone, generalmente creati dall’erosione prodotta dalle acque meteoriche, e alternavano, nel percorso, tratti aperti in senso ortogonale al pendio a tratti condotti secondo le naturali variazioni di quota dei terreni. La larghezza dei percorsi variava a seconda della loro importanza: già in età etrusca erano sufficienti 170 cm per rendere la strada carrabile. Una cura particolare era rivolta alla manutenzione e all’«arredo» di queste vie. Infatti, non solo il
taglio della parete veniva regolarizzato per l’intera altezza dello sperone tufaceo, cosí da scongiurare un’improvvisa frana, ma furono anche realizzate scanalature con andamento parallelo alla sede stradale, o vere e proprie canalette ricavate lungo le pareti in corrispondenza della stessa, funzionali alla raccolta e al convogliamento delle acque meteoriche. In seguito, quelle direttrici, ancora utilizzate in epoca medievale, poterono munirsi di nicchie risparmiate nella parete rocciosa e destinate a ospitare le immagini, cosiddette «scacciadiavoli», di un santo protettore con pitture a fresco, al quale era richiesto di vigilare sul viandante.
Timore e meraviglia Per la loro stessa natura, per l’imponenza e la maestosità, ma soprattutto per la loro dimensione sotterranea, le monumentali tagliate viarie incutevano infatti timore, ispiravano meraviglia e sembravano proiettarsi in una dimensione soprannaturale, nel mondo dell’immaginario mitico, delle leggende e delle ancor piú diffuse tradizioni popolari orali, che ne trasfiguravano ogni aspetto storico e ne adombravano il loro utilizzo pratico e funzionale. Croci, animali stilizzati e altri segni di difficile interpretazione ancora ben conservati lungo le pareti di molte vie cave di Sovana potrebbero, dunque, avere avuto una funzione apotropaica. Riguardo ai mezzi di scavo utilizzati, in presenza di rocce tenere come il tufo dovettero essere impiegati semplicemente picconi e forza umana. Nel settore in cui l’escavazione
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In alto e in basso sezione e prospetto di una via cava.
assumeva l’aspetto piú monumentale, l’impegno dell’opera poteva essere sottolineato da iscrizioni rupestri, collocate ad altezza
d’uomo e contenenti, solitamente, il nome del committente (gentilizio); in alcuni casi, poteva prevalere la volontà di lasciare un «segno forte» della presenza dell’autorità centrale e del controllo da essa esercitato sulla via, soprattutto se erano stati effettuati lavori per rendere piú diretto e sicuro il tracciato.
Il clima e il colore Nel Parco Archeologico «Città del Tufo», le vie cave di Sovana conducono il visitatore alla scoperta delle principali necropoli etrusche. Gli itinerari si completano dunque con questi suggestivi sentieri che svolsero l’importante compito di agevolare i collegamenti tra il pianoro in cui sorse l’abitato, prima etrusco poi medievale, di Sovana e le aree sepolcrali di sua pertinenza. Questi percorsi viari, ripidi, tortuosi e
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profondamente incassati nella roccia, sorprendono anche per le particolari condizioni climatiche e ambientali che, oltre ad assicurare un insolito refrigerio nella stagione calda, hanno determinato con il tempo una sorta di microclima, facilitando il proliferare di una varietà straordinaria di piante spontanee tipiche di ambienti umidi e ombrosi. Percorrendo le vie cave si incontrano infatti vari tipi di felce e sugli alberi che orlano i bordi non di rado è possibile osservare i fusti delle piante presenti avvolti dalle edere ricadenti spesso all’interno delle stesse vie; lungo i percorsi piú stretti le pareti appaiono quasi completamente rivestite da muschi e licheni, che, con il loro caratteristico riflesso verdastro, contrastano il rossoocra del tufo e accrescono la suggestione dei luoghi. Debora Rossi
Una tomba della necropoli di Poggio Felceto, non lontano dalla Tomba Ildebranda.
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In alto resti di tombe e loculi nella necropoli di Poggio Felceto. A sinistra la Tomba del Tifone. Prima metà del III sec. a.C. Si tratta di un sepolcro a edicola, con pilastri scanalati e timpano decorato da una protome femminile velata.
collettivo, ha evidentemente condizionato l’interpretazione della raffigurazione. Si tratta sempre di un personaggio di chiara matrice greca, ma riferibile al mito di Scilla piuttosto che a quello delle Sirene. Vittima di Circe, per gelosia venne trasformata in un mostro che aveva attaccati, nella parte inferiore del corpo, sei feroci cani. Lo stesso Ulisse ne fece la conoscenza e il suo equipaggio subí altrettante perdite.
Un’allegoria della vita e della morte In questo caso il tipo della Scilla è quello etrusco, che ha sostituito con un gonnellino di alghe le protomi canine attorno alla vita ed è fornito di ali. Normalmente Scilla è rappresentata con le braccia sollevate a lanciare pietre o a impugnare minacciosamente parti delle navi che ha fatto naufragare, come remi, timoni o ancore. Come le Sirene, il mostro marino incarna le difficoltà del viaggio attraverso l’oceano della vita che il defunto ha ormai felicemente compiuto. E tutta la scena d’intorno si compone improvvisamente come un’allegoria della vita e (segue a p. 89)
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SOVANA GLI SCAVI NELLA NECROPOLI DEL CAVONE
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opo l’alluvione che nel 2012 danneggiò seriamente la via cava del Cavone a Sovana di Sorano, prese avvio un ambizioso progetto di messa in sicurezza che, come spesso accade in archeologia, permise di gettare nuova luce su una delle vie cave piú suggestive e interessanti dell’Area del Tufo: dopo la rimozione dei detriti di frana che ingombravano il percorso, i lavori ebbero inizio nel 2014, con la rimozione della vegetazione infestante, per concludersi, nel 2020, con lo scavo di un sistema destinato alla raccolta e allo smaltimento delle acque pluviali. L’intervento volto a rimuovere la vegetazione, che con le proprie radici e il proprio peso metteva a rischio i cigli della via cava e la necropoli che vi si trova, fu svolto sotto controllo
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archeologico per tutelare la necropoli che si sapeva essere scavata nelle pareti rocciose, in particolare in quella occidentale. Le tombe erano già state censite in passato, ed erano, tutto considerato, in gran parte ben conservate sotto la coltre vegetale, ma durante i lavori ci si rese conto che, pur essendo state saccheggiate, anche in antico, rivelavano ancora tracce dei corredi, che affioravano dal consistente interro che le colmava. Furono individuate cinquantotto strutture tombali, comprendendo anche quelle crollate e quelle completamente vuote. Si trattava di una scoperta di grande interesse, poiché, sebbene la necropoli fosse conosciuta, non ne erano state studiate esaustivamente le forme architettoniche, né si sospettava
la presenza di reperti, data l’evidenza delle violazioni degli scavatori clandestini. Lo scavo, tuttavia, si prospettava estremamente difficoltoso, poiché le tombe, che in origine si dovevano trovare su balze e terrazzamenti digradanti e facilmente accessibili, oggi, a causa dei progressivi ribassamenti e allargamenti a cui era stato sottoposto il Cavone nel corso dei secoli, si affacciavano da una parete liscia a strapiombo per una decina di metri, accessibili solo dall’alto con corde e attrezzatura da rocciatore. Data la difficoltà dello scavo, gli archeologi si calarono dal ciglio della parete ovest del Cavone, coadiuvati in questo dal personale specializzato in lavori in corda e procedettero al progressivo disgaggio del
terreno che ingombrava le camere funerarie. Date le anguste dimensioni degli spazi di lavoro, il terreno era calato con sacchi a piè di parete dove veniva attentamente setacciato. Furono cosí indagate e sgombrate ventisette tombe.
La necropoli arcaica I rinvenimenti di uno scavo archeologico cosí «avventuroso» furono piú significativi di quanto atteso. In primo luogo, fu possibile ricavare un quadro generale completo della tipologia architettonica, che si presentava molto omogenea, con modeste varianti. Si trattava di tombe arcaiche «a camera», dotate di un largo dromos, cosí ampio e poco profondo da costituire in pratica una sorta di anticella aperta verso la strada, dove, in alcuni casi, furono individuate una o piú nicchie, riservate a fanciulli inumati o a sepolture a incinerazione; all’interno della piccola camera sepolcrale, a volte accessibile scendendo alcuni gradini, si trovavano in genere larghi letti funebri, disposti a ferro di cavallo intorno a uno stretto spazio centrale, raramente dotati di un rialzo in corrispondenza della testa, a guisa di cuscino. Nelle pareti, spesso erano scavati loculi, mentre il tetto era sempre piano, con un solo caso a doppio spiovente. Tutte le tombe risultavano prive del sigillo (a volte semplicemente accantonato di fianco all’ingresso) ed erano state saccheggiate: i reperti superstiti erano in gran parte frammentari e solo un certosino intervento di catalogo, restauro e studio ha permesso di ricostruirli e di ricavarne le
informazioni storiche utili ai ricercatori; tuttavia, molto materiale era sfuggito alle «grinfie» dei tombaroli. La situazione peculiare della necropoli fa sí che non si possa essere certi che i reperti messi in salvo costituiscano un campione rappresentativo dei nuclei originali o che si tratti solo degli oggetti meno «appetibili» per i saccheggiatori. Il materiale superstite costituisce comunque un corpus omogeneo e databile tra l’età orientalizzante recente e quella arcaica (VII e VI secolo a.C.) e testimonia di una struttura sociale di base
uniforme, di media disponibilità economica: prevalgono le produzioni locali (tra cui i tipici attingitoi politi e decorati con denti di lupo e motivi vegetali stilizzati), ma spiccano anche rari casi riconducibili a importazioni, come i pendenti in bronzo a forma di piccola mano aperta, amuleti tipici dell’area adriatica, o i vaghi di collana in vetro policromo a «linguetta», che trovano confronti a Vetulonia, oppure lo scarabeo in faïence, inciso con pseudoscrittura geroglifica. Tra i reperti in bronzo, segno di una qualche distinzione sociale vi sono i resti di lance (punte e
Sulle due pagine immagini dell’intervento di ripulitura condotto nella necropoli del Cavone e, nella
pagina accanto, la facciata di uno dei monumenti sepolcrali al termine delle operazioni.
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sauroteres, i puntali posteriori) e fibbie da cintura con i ganci in forma di teste di cavallo.
Usi e riusi Un aspetto ancora poco studiato delle necropoli etrusche dell’area del tufo è il loro riutilizzo in età medievale e la messa in sicurezza del Cavone ha permesso anche di approfondire questo argomento: le tipologie dei reimpieghi vanno dal semplice riuso come riparo abitativo del sepolcro piú settentrionale, alla destinazione cultuale del piccolo oratorio all’estremità meridionale della via cava. Ancor piú interessante, nascosto dalla boscaglia in alto sopra l’imbocco meridionale della via cava, vi è un complesso di tombe riutilizzato sia come riparo – forse come romitorio date le diverse croci incise nella roccia –, sia come centro produttivo, data la presenza di un esteso colombario, che accorpa almeno tre preesistenti camere sepolcrali.
Una nuova topografia Infine, l’indagine del sito ha permesso di riscoprire un aspetto molto interessante del Cavone. La via cava oggi è cosí suggestiva per le sue gigantesche proporzioni, ma in origine doveva avere un aspetto molto differente: si trattava, infatti, di una via doppia, costituita da due assi paralleli, uno piú orientale (che conserva pressappoco le misure originali) In alto piatto ansato con decorazione dipinta. A destra fibbia da cintura in bronzo con ganci in forma di testa di cavallo, un reperto compreso nel corredo funebre di un individuo che si deve immaginare di ceto elevato.
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A sinistra kantharos (tazza a due manici) in bucchero nero, recuperata da una delle tombe della necropoli e sfuggita ai saccheggi degli scavatori clandestini.
In alto l’ingresso di una delle tombe della necropoli dopo la ripulitura. Alla parete sinistra del dromos è poggiata una delle lastre che sigillavano il sepolcro.
e uno piú occidentale (usato fino ai nostri giorni). I due assi erano separati da un dosso di tufo, anch’esso segnato dalla presenza di numerosi sepolcri, per lo piú affacciati verso oriente. L’aspetto piú interessante è che il tronco orientale, caduto in disuso, ha conservato presumibilmente la profondità originaria, come prova il fatto che le tombe vi si affacciano a livello del piano di calpestio. Probabilmente, anche il tronco occidentale correva
allo stesso livello prima di essere approfondito dall’usura e dalla manutenzione. Le tombe che vi si affacciavano erano disposte su alcune terrazze digradanti, l’ultima delle quali è stata individuata nel 2019, durante i lavori per l’irreggimentazione delle acque pluviali. Alla luce di questa valutazione sui livelli originali della via cava, anche la valletta ortogonale che, risalendo dopo poco oltre l’accesso meridionale, si mostra a 5 m
circa dal piano di calpestio, può essere interpretata come un diverticolo viario, diretto verso l’attuale Poggio Prisca. Il Cavone è dunque testimonianza di un piú complesso asse viario, fatto di tronchi principali e diverticoli che servivano capillarmente il territorio, collegando i fondovalle con i pianori soprastanti, a cui si associava l’uso cultuale e funerario delle necropoli scavate lungo la maggior parte dei percorsi. Luca Nejrotti
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SOVANA I COLOMBARI
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ltre alle monumentali tombe rupestri di età etrusca, il paesaggio tufaceo di Sovana è caratterizzato da numerose cavità aperte su alte pareti a strapiombo, al cui interno s’intravedono piccole nicchie semicircolari o quadrate (25 x 25 cm circa), fittamente accostate, che, negli ambienti piú vasti, possono raggiungere facilmente il migliaio. Questi ambienti sono stati assimilati a lungo ai monumenti funerari in uso presso i Romani dal I secolo a.C. al II secolo d.C., nei quali le file sovrapposte di nicchie, i loculi (colombaria), contenevano le urne cinerarie dei defunti come, per esempio, quelli situati sulla via Appia a Roma dei liberti di Livia e di Augusto. Tuttavia, con il progredire degli studi, tale interpretazione è risultata sempre meno accettabile, anche perché presupponeva un’elevata densità di popolazione, in età romana non altrimenti documentata. Lo stesso termine di colombarium è tramandato dagli autori antichi per le strutture dedicate all’allevamento dei colombi (per esempio Columella, VIII, 8, 3), diffuse in ambito romano a partire dal I secolo a.C.
Esigenze funzionali La pianta di questi apprestamenti, minuziosamente descritti nei trattati di agricoltura medievale e rinascimentale, risponde essenzialmente a esigenze funzionali. La prima è la necessità di impedire l’accesso agli animali predatori, ciò che spiega la posizione dell’ingresso nei punti piú impervi dei costoni tufacei, raggiungibili solo con lunghe scale di legno. Proprio la
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stretta rispondenza tra le descrizioni tramandate dalle fonti e le strutture con cellette presenti nell’area dei tufi ha ormai accreditato l’ipotesi che si tratti di ambienti realizzati in epoca medievale e destinati all’allevamento dei colombi e dei piccioni. Gli ambienti erano costruiti appositamente oppure sfruttando strutture piú antiche, come nel caso del colombaio
situato nella necropoli di Monte Rosello-Valle Bona, realizzato adattando una tomba etrusca, della quale resta il soffitto a lacunari e una parte del perimetro originario. A Sovana i colombari sono presenti in gran numero, dislocati tanto alle pendici del paese che lungo i costoni dei poggi circostanti (Grezzano, Monte Rosello e presso il costone del Calesine).
Ben visibile, pur se non accessibile, è l’interno di un ambiente traforato da nicchiette situato sopra la galleria della strada che conduce a San Martino sul Fiora; di alcuni colombari aperti sulla parte piú alta dei costoni, oggi irraggiungibili per il crollo di tratti della rupe, si osservano porte o finestre che si affacciano su alti strapiombi. Carlo Casi
La Tomba dei Colombari, nella necropoli di Monte Rosello. È stato ormai accertato che le piccole nicchie sono di epoca posteriore e furono usate per i colombi e non a scopo funerario.
della morte, nella quale l’estinto viene rappresentato entro la porta dell’Ade, ma già pressoché isolato nella beatitudine degli iniziati. Come nella Tomba dei Demoni Alati, i leoni ruggenti non fungono da guardiani del sepolcro, ma rappresentano i mostri che affollano l’oltretomba, e le Vanth (divinità femminili etrusche appartenenti al mondo degli Inferi, n.d.r.) poste agli angoli del nicchione, accompagnano in questo ultimo viaggio il povero Vel, per il quale, vista la posizione rovesciata, la fiaccola della vita, tenuta nella mano dal demone alato, è ormai spenta.
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Intitolata agli apostoli Pietro e Paolo, la cattedrale di Sovana è un autentico gioiello architettonico, reso ancor piú prezioso dal suo apparato decorativo | CITTÀ DEL TUFO | 90 |
L’interno della cattedrale di Sovana, intitolata ai santi Pietro e Paolo.
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QUASI COME UN ROMANZO di Carlo Casi
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iamo nel 2004, e a Sovana fervono i lavori di recupero della vecchia chiesa diruta di S. Mamiliano, che si affaccia sulla piazza del Pretorio, destinata a diventare sede del museo cittadino, donando alla storica città un altro monumento da visitare. Ma intanto il cantiere è in piena attività e mentre si stanno completando gli scavi di verifica nella cripta per porre poi in sicurezza statica l’edificio, sotto il muro perimetrale nord della chiesa, avviene una scoperta eccezionale. Dalla poca terra rimasta emerge un’olletta d’impasto, in parte frammentaria, ma completamente ricolma di monete d’oro! Ben 498 solidi (vedi box alle pp. 96-97), tutti riferibili al V secolo d.C. Da Onorio, primo imperatore romano d’Occidente, che regnò dal 395 al 423, a Zenone, che resse la corona imperiale dal 474 al 491, con una maggiore presenza di quelle coniate sotto Leone I tra il 457 e il 474. Compaiono anche solidi di Valentiniano
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Sulle due pagine il tesoretto monetale rinvenuto nel 2004 nella chiesa di S. Mamiliano. Nella pagina accanto particolare del monumento funebre che un tempo ospitava le spoglie di Mamiliano.
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III (425-455), di Petronio (455), di Maggiorano (457-461), di Libio Severo (461-465), di Antemio (467-472), di Teodosio II (408-450), di Eudoxia (450), di Leone II (474), di Basilisco (475-476) e di Ariadne (476-491). Monete della zecca di Costantinopoli soprattutto, ma anche di Arles, Roma, Milano e alcuni esemplari di Thessalonica. Ma come mai un tesoro cosí importante è stato nascosto proprio lí? Ci può forse essere un rapporto con la chiesa di
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S. Mamiliano? Alcuni studiosi hanno avanzato una quanto mai suggestiva proposta, che si lega indissolubilmente alla vita del santo. Ma chi era dunque san Mamiliano? Non si hanno notizie precise su di lui sino al 450 d.C., quando i Vandali lo trovano vescovo di Palermo, dove forse era nato. Fu esiliato a Cartagine da Genserico, poi visse in Sardegna e, da ultimo, si ritirò sull’Isola di Montecristo, dove si spense nel 460. Qui sembra che in
una grotta, a lui dedicata e sovrastata dalle mura della poderosa fortezza, abbia sconfitto un feroce drago ottenendo in cambio acqua sorgiva. Poiché fu uno dei primi evangelizzatori della Toscana meridionale e del suo arcipelago, Mamiliano – le cui reliquie sono distribuite tra Palermo, Roma, Sovana, l’Isola d’Elba e Pisa – è il patrono della diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello ed è venerato dai marinai toscani e sardi.
Una vicenda plurisecolare Oltre a rivelare la presenza del tesoretto, le indagini nella chiesa di S. Mamiliano hanno permesso di precisarne la vicenda costruttiva e le fasi di utilizzo. La documentazione qui riprodotta evidenzia, in particolare, lo sfruttamento di gran parte del sottosuolo dell’edificio a scopo sepolcrale: gli scavi hanno infatti accertato la presenza di un fitto reticolo di tombe (vedi pianta alla pagina accanto e sezione qui sotto). E proprio in corrispondenza di una di esse (la n. 30; vedi foto alla pagina accanto) è venuto alla luce il gruzzolo formato da quasi 500 solidi aurei. In alto, a destra, il vaso parzialmente svuotato, con le monete allineate per una prima inventariazione.
Mamiliano, sulla stessa isola, all’inutile ricerca di ricchezze sepolte. Non si può certo non notare la compresenza del santo con il leggendario tesoro e, allo stesso tempo, risulta molto intrigante la vicinanza cronologica all’interno del V secolo. E perché non pensare allora che Alexandre Dumas conoscesse la leggenda e che da questa abbia tratto ispirazione per il suo celeberrimo Conte di Montecristo? Tutti certamente ricordano l’avvincente storia di Edmond Dantès, pubblicata nel 1846, e il segreto a lui rivelato dall’abate Faria riguardante un tesoro sepolto sull’Isola di Montecristo. Il ritrovamento del quale gli consentirà poi di vendicarsi dei torti precedentemente subiti, all’indomani della sua rocambolesca fuga dalla prigione del Castello d’If. Secondo questa teoria, il tesoro di Montecristo esisteva veramente, ma la chiesa di S. Mamiliano nella quale andava cercato non era quella isolana, bensí quella di Sovana!
Fra suggestioni e realtà archeologica Ma il santo è legato anche a una serie di curiose coincidenze. Il principe di Piombino prima e il Granduca di Toscana poi, nella seconda metà del Cinquecento, mettono in guardia i propri sudditi dal ricercare il tesoro di Montecristo, visto l’imperversare dei pirati in quel tratto di mare; parallelamente si ha conoscenza di una spedizione di giovani corsi che vanno a scavare nella chiesa di S.
La suggestione dell’affermazione, alla luce del ritrovamento del ripostiglio monetale, risulta certo di grande impatto, anche se permangono seri dubbi a riguardo. Occorre infatti sottolineare, innanzi tutto, che gli scavi archeologici non hanno rilevato solo la presenza delle monete, ma anche di strutture murarie e stratigrafie che possono aiutarci a far luce sul mistero. Piuttosto imponente è la fase
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SOVANA ORO ALLO STATO SOLIDO
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a storia degli esordi del solido, la moneta aurea coniata a partire dal 310 d.C., è il riflesso delle complesse vicende politiche e socio-economiche che caratterizzano l’epoca tardo-antica. Già nel 294 Diocleziano aveva dovuto provvedere
romana, ben rappresentata dai resti di un edificio termale con un pavimento musivo in tessere bianche e nere e dall’impianto dell’ipocausto. A questa succede un momento di abbandono dell’area, che viene successivamente assorbita da una nuova edificazione, non ben riconosciuta ancora, ma forse già databile in epoca paleocristiana, mentre la prima fondazione della chiesa romanica risale probabilmente al XII secolo. Qui furono trasferite, nel 1460, dall’Isola del Giglio le reliquie di san Mamiliano poi spostate, dopo una serie di avventurose vicende, nella cattedrale di Sovana dove ancora si trovano. La chiesa a questo punto viene utilizzata anche a scopi sepolcrali, come prova il reticolo di tombe rinascimentali rinvenute. Una pratica seguita quasi certamente sino alla fine del Settecento, quando la chiesa, visto il cattivo stato di conservazione, viene abbandonata.
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a una riforma del sistema monetale, rivedendo il rapporto tra argento e bronzo nelle nuove monete, e promulgando l’Edictum de pretiis, un calmiere che fissava i prezzi massimi di numerose merci: per esempio 1/2 litro dell’ottimo vino di Falerno non poteva costare oltre 30 denari (contro gli 8 del vino comune!), le piccole monete in rame con l’aggiunta di scarsissime tracce di argento. Nonostante gli sforzi, la riforma di Diocleziano non portò i benefici sperati e, nel 310, Costantino, da pochi anni acclamato imperatore d’Occidente, fece coniare nelle sue zecche il solidus aureus, la nuova moneta in oro, battuta a 1/72 di libra, pari a 4,54 grammi circa. Il solido si diffuse poi anche nella parte orientale dell’impero, una volta che Costantino, sconfitto Licinio a Crisopoli nel 324, mise fine alla tetrarchia, riunificando sotto il suo controllo l’impero romano. Il solido venne affiancato da due frazioni: il semisse, che aveva il valore di 1/2 solido, e il tremisse, che ne valeva 1/3. Nello stesso periodo,
Uno dei solidi aurei di Antemio facenti parte del tesoro di S. Mamiliano. 467-472. Al dritto, l’imperatore; al rovescio, lo stesso Antemio e Leone I sorreggono un globo sormontato dalla croce; sotto la coppia si leggono le sigle COM e OB, che rimandavano, rispettivamente, all’autorità preposta al controllo delle finanze imperiali e alla purezza dell’oro.
Sicuramente dobbiamo escludere che la deposizione monetale sia stata effettuata dal santo stesso, dal momento che, venendo a mancare nel 460 d.C., non avrebbe potuto recuperare i solidi che fanno parte del tesoretto e che furono coniati successivamente a quel periodo. Dobbiamo allora pensare a qualcun altro che, verso la fine del V secolo, occulta i suoi «risparmi». E come inquadrare il rapporto con san Mamiliano? È a dir poco irrealistico presupporre che il proprietario delle monete potesse sapere che proprio lí sarebbe stata dedicata, secoli dopo, una chiesa a tal patrono. Il tesoro potrebbe anche essere in relazione con quelle strutture non ben comprese e di difficile inquadramento cronologico descritte in precedenza, ma dovremmo in questo caso ipotizzare una qualche relazione stringente con il nostro eremita e, soprattutto, con qualche suo seguace, il quale, all’indomani della morte del santo e contestualmente all’edificazione di
Costantino introdusse come sottomultipli dei solidi anche nuove monete in argento: il miliarensis (1/18) e la siliqua (1/24). Vennero coniati anche multipli, la cui funzione era spesso celebrativa: si tratta di «medaglioni-monete» che vanno dal valore di 1 solido e mezzo, fino a emissioni assai rare, equivalenti a 30, 48 e 72 solidi. Queste ultime sono state talvolta riutilizzate in opere di oreficeria, come oggetti ornamentali personali. Sui solidi la legenda COMOB (abbreviazione di Comes Sacrarum Largitionum, conte delle sacre elargizioni) rimanda all’autorità che controllava le finanze dell’impero a partire da Costantino, mentre OB (=obryzum) stava a indicare la purezza dell’oro. Sul dritto dei solidi è raffigurato il busto dell’imperatore, senza alcun intento ritrattistico; sul rovescio, si trova in genere l’immagine della Vittoria con la croce e il globo crucigero, ma non mancano tipi con la personificazione di Costantinopoli, o gli imperatori in trono. Nella parte orientale dell’impero, il solido rimase in uso fino al X secolo.
un qualche simulacro a lui dedicato, abbia deposto il gruzzolo a futura memoria. Ma dovremmo anche immaginare che, dopo questi eventi, si fosse diffusa un’errata credenza, che avrebbe confuso Sovana con l’Isola di Montecristo nel nome di san Mamiliano. Un insieme di circostanze che però, al momento, non trovano alcuna corrispondenza materiale.
Anni travagliati L’Italia viveva all’epoca una crisi preoccupante, iniziata già con l’azione destabilizzante del cristianesimo e il dilagare della corruzione della macchina burocratica imperiale. A questo si deve aggiungere il pericolo delle invasioni dei popoli che premevano sulle frontiere, come i Goti, che, dopo la battaglia di Adrianopoli nel 378, si erano stanziati in Mesia, Tracia e Macedonia e, sotto la guida di Alarico, agli inizi del V secolo, arrivarono a Roma, che, nonostante gli sforzi di Stilicone,
Dritto e rovescio di un solido aureo di Onorio, emesso dalla zecca di Milano e facente parte del tesoro. 402-403, 405-406.
saccheggiarono (410 d.C.). Lo sgomento degli abitanti di tutto l’impero fu enorme, sebbene la sede imperiale fosse stata spostata nel 402 a Ravenna da Milano e a Roma fossero rimasti solamente il senato e l’alta burocrazia. Alla crisi politica dobbiamo inoltre aggiungere una serie di carestie ed epidemie virulente, compresa la prima apparizione della malaria, che condizionarono notevolmente la vita di quel periodo e non solo. Ancora nel 1843 George Dennis discuteva sull’origine della malattia a Saturnia, attribuendone la colpa alle famose sorgenti solfuree, e Alessandro François, celebre archeologo fiorentino e fortunato scopritore della tomba di Vulci che porta il suo nome, fu, nel 1857, una delle vittime piú illustri. La desolazione e il degrado di quei momenti ci vengono comunque ben raccontati dapprima da Rutilio Namaziano, nella cronaca di un suo viaggio compiuto probabilmente nel 417 lungo (segue a p. 100)
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SOVANA ALLA SCOPERTA DEL BORGO MEDIEVALE
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(quasi) cinquecento Sovanesi di oggi hanno ben ragione di essere orgogliosi del loro paese: Sovana è un nobile frammento del Medioevo italiano innestatosi su un passato etrusco, oggi gelosamente custodito e valorizzato da interventi che hanno portato alla realizzazione di un sistema museale che consente di apprezzare al meglio la storia locale. Passeggiare per Sovana è come affrontare un lento ritorno al passato: lungo la strada che attraversa il borgo, percorsa da poche auto, i passi dei «viandanti» sono attutiti dalla pavimentazione in mattoni, pazientemente disposti a spina di pesce, che ben si amalgamano con le basse e ridenti abitazioni costruite in blocchetti di tufo, ravvivate dalla fioritura delle piante curate con amore dai residenti della via di Mezzo.
Il fortilizio degli Aldobrandeschi Il Medioevo si riconosce immediatamente, sin dall’ingresso presso i resti della Rocca, edificata intorno al Mille come abitazione fortificata dagli Aldobrandeschi, che ne furono proprietari fino alla fine del XIII secolo, quando la contea passò di mano agli Orsini. Questi ultimi riedificarono il fortilizio come dimora a tre piani, munita di cortile interno, cisterna per l’acqua, deposito per le granaglie, di un forno e, soprattutto, di un sistema di camminamenti e cunicoli sotterranei attraverso i quali ci si poteva rapidamente spostare in tutta sicurezza, e raggiungere la parte opposta dell’abitato. Conquistata da Siena agli inizi del Quattrocento, la Rocca fu restaurata da Cosimo I de’ Medici nel 1572 e solo nel XVII secolo ebbe inizio il suo abbandono definitivo. I resti della Rocca sono ancora oggi collegati ai sopravvissuti tratti di mura che in antico cingevano In basso i resti della Rocca Aldobrandesca (XI-XVI sec.). Nella pagina accanto uno scorcio della piazza del
il borgo, al quale si accedeva attraversando tre porte: quella della Rocca, un tempo munita di ponte levatoio e antemurale; la Porta del Passo (o Porta Segreta), che è quella meglio conservata; e la Porta Santa Croce, in prossimità del Duomo. Il cuore del borgo medievale è la piazza del Pretorio, sulla quale si affacciano il Palazzo Pretorio, con la bella Loggia del Capitano del Popolo alla sua sinistra, il Palazzo Comunale (o dell’Archivio), e i ruderi della chiesa cimiteriale di S. Mamiliano: questi edifici oggi fanno parte del Polo Museale di Sovana, inaugurato nel 2004 con una collezione di reperti provenienti dalle ricchissime necropoli etrusche del territorio, e un’interessante raccolta di ceramiche medievali. Sulla piazza prospettano anche la suggestiva chiesa di S. Maria Maggiore e il piú recente Palazzo Bourbon del Monte.
Dal Pretorio alla Loggia del Capitano Nel XIII secolo il Palazzo del Pretorio era la sede comunale del tribunale, delle prigioni e delle magistrature forestiere: sulla facciata sono esposti gli stemmi dei commissari che governarono la cittadina tra il 1484 e il 1686, mentre sull’angolo esterno, inglobata dalla muratura dello sperone d’angolo, si nota la colonna sulla quale venivano affissi i bandi pubblici. Arricchito da affreschi del XVI secolo di scuola senese, l’edificio ospita al piano inferiore un centro di documentazione e informazione sulla cultura materiale del territorio, mentre al piano superiore è allestita una sezione del Polo Museale. «Parlano» di Medioevo anche la vicina Loggia del Capitano del Popolo, e – sul lato corto della piazza – il Palazzo Comunale, edificato nel XII secolo e utilizzato già nel XVII secolo come Pretorio, con, al centro della foto il Palazzo dell’Archivio (o Palazzo Comunale).
sede dell’Archivio. Pur ampiamente manomessa, dopo che in epoca rinascimentale alla sua facciata venne addossato il Palazzo Bourbon del Monte, la chiesa di S. Maria Maggiore (XII-XIII secolo), conserva al suo interno un magnifico ciborio altomedievale, forse in origine collocato nella Cattedrale di Sovana. Alcuni affreschi del XV e XVI secolo decorano tratti delle pareti della chiesa.
Nella chiesa del patrono Altro edificio medievale che arricchisce la piazza del Pretorio è la chiesa di S. Mamiliano, dedicata al santo che dal 1795 è il patrono di Sovana. Le origini dell’edificio di culto risalgono probabilmente al IX secolo: costruita sopra un impianto termale d’epoca romana, la chiesa venne riedificata nel XII secolo. Qui furono inizialmente ospitate le reliquie di Mamiliano, prelevate nel 1460 dall’Isola del Giglio, e trasferite poi nel Duomo di Sovana nel corso del XVIII secolo, quando la chiesa risulta essere ormai in avanzato stato di rovina, nonostante le sia ancora assegnato un canonico per officiare la Santa Messa. Negli ultimi anni, un intervento radicale ha consentito il recupero della struttura trasformata oggi in sede museale (vedi box alle pp. 102-105), lasciando a vista un settore degli scavi archeologici (nel corso dei quali venne alla luce il «tesoro di San Mamiliano») per dare modo di apprezzare le trasformazioni dell’area nel corso dei secoli: dalle terme romane alla basilica piú antica, forse di epoca paleocristiana, e al reticolo di tombe a fossa di epoca rinascimentale. L’unico edificio della piazza a non rispondere ai canoni architettonici medievali, attribuito anzi a Jacopo Barozzi, il
Vignola, è il Palazzo Bourbon del Monte, edificato nel corso del XVI come residenza di un vescovo, appartenente a una delle piú importanti famiglie aristocratiche del principato mediceo. Tuttavia, nella mente dei piú, il nome di Sovana è legato a quello di uno di quei personaggi che «hanno fatto» il Medioevo: papa Gregorio VII, nato Ildebrando Adobrandeschi, a Sovana, intorno al 1020. Al civico 47 di via del Duomo, una targa segnala quella che la tradizione riconosce come casa natale del papa che costrinse in penitenza a Canossa l’imperatore Enrico IV (vedi alle pp. 112-121). La passeggiata tra case che hanno ancora un certo sentore dell’architettura edilizia medievale, ha come ultima meta il Duomo dei Ss. Pietro e Paolo, elegante esempio di architettura medievale dove elementi romanici e gotici si fondono in un insieme di rara armonia. Sede vescovile, Sovana ricostruí tra la fine dell’XI e gli inizi del XII la sua cattedrale, che insiste su strutture piú antiche risalenti al IX-XI secolo (vedi anche il box alle pp. 100-101). L’apparato scultoreo rapisce il visitatore sin dall’esterno, dove si ammira il portale serrato da bianche colonnine diversamente scanalate, ai cui lati spiccano due protomi leonine con le fauci spalancate. Anche gli stipiti marmorei del portale sono decorati con figure assai particolari: una sirena bicaudata e un cavaliere con il braccio alzato in atto di brandire la spada. Completano il vivace apparato iconografico del portale le lastre, alcune di reimpiego, con pavoni, con l’albero della vita e con altri motivi vegetali. Dall’interno, suddiviso in tre navate, si accede alla cripta dove sono conservate le reliquie di san Mamiliano. Debora Rossi
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SOVANA LA CATTEDRALE, UNA MIRABILE FUSIONE DI ROMANICO E GOTICO
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solata rispetto alla piattaforma tufacea su cui sorge l’abitato di Sovana, svetta, da ponente, la Cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo, un edificio religioso architettonicamente rilevante per dimensioni, antichità e apparato ornamentale e scultoreo, nel quale convivono elementi romanici e gotici. Di fronte alla chiesa, la terrazza panoramica offre un’ampia vista sul paesaggio collinare toscano, interrotto solo dai picchi coniformi di Monte Labbro (1250 m) e Monte Amiata (1750 m). L’attuale edificio risale al XII secolo e ingloba i resti di una preesistente struttura del IX-XI secolo, verosimilmente ancora visibili al tempo di papa Gregorio VII, come sembra attestare l’iscrizione lapidea apposta nella lunetta del portale. All’XI secolo possiamo assegnare con certezza la cripta, l’abside e la cupola; al XII secolo i pilastri polistili e i loro capitelli; al XII e XIV secolo i muri laterali, rafforzati da speroni massicci, la copertura a volta in sostituzione di quella a capriate lignee e l’addossamento del Palazzo Episcopale. Quest’ultimo costituisce un fabbricato orientato secondo i canoni liturgici del tempo e per la sua edificazione furono verosimilmente obliterati il portico e l’originario ingresso della chiesa alla quale, oggi, si accede dal lato lungo meridionale.
Un portale verso lo spazio sacro La preziosa trama decorativa del portale affascina anche il visitatore piú distratto, in quanto reimpiega le pregevoli lastre marmoree superstiti della struttura originaria, fornendo al contempo un ricco campionario impregnato di romanico simbolismo. Attraverso il portale della chiesa, infatti, aveva seguito il passaggio dallo spazio esterno e mondano a quello interno e sacro, aspetto che non doveva essere sconosciuto agli architetti dell’epoca se destinarono a questa
la costa tirrenica, e successivamente da Paolo Diacono. È dunque molto piú realistico pensare che a suggerire ai facoltosi possessori la messa al sicuro del proprio gruzzolo, proteggendolo cosí da possibili eventi calamitosi e cruenti, sia stata la drammatica insicurezza nella quale si trovava tutta l’Italia nel V secolo a seguito di
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«soglia» un’iconografia ornamentale tanto preziosa. Il portale è serrato da due stipiti nel quale trovano alloggio lastre marmoree scolpite (rispettivamente cinque in quello di sinistra e quattro in quello di destra); a essi addossate si trovano due colonnine scanalate – a spirale la destra e a treccia la sinistra –, sormontate da due protomi leonine a fauci spalancate in pietra vulcanica, protettrici e guardiane dell’ingresso. Il leone di sinistra stringe un ariete tra le zampe, l’altro poggia su foglie d’acanto.
La sirena e la croce La decorazione scultorea dello stipite di sinistra mostra, dal basso, una sirena bicaudata, sopra la quale si osserva una croce ornata da quattro spirali e sormontata da un volto umano grottesco, rotondo e sogghignante. Due eleganti pavoni, ritratti di profilo e divisi dall’albero della vita in frutto, sono il soggetto della lastra sovrastante. Tra questa e la protome leonina è posta una nuova piastra marmorea, con una rosa stante al centro di quello che sembra essere un sole radiante. Nello stipite di destra è raffigurata una serie di cerchi sovrapposti al di sotto dei quali, nella parte inferiore, si staglia la figura di un singolare cavaliere col braccio destro alzato a brandire una spada e l’altro abbassato e protetto da uno scudo ogivale; entrambi gli elementi richiamano alla mente gli epici racconti appartenuti al ciclo cavalleresco che tanta fortuna ebbe in Italia e
La facciata della Cattedrale di Sovana. L’attuale edificio risale al XII sec., ma insiste su una chiesa piú antica, databile tra il IX e l’XI sec.
Oltralpe in età medievale. In alto, lo spazio semicircolare della lunetta risulta composto di pezzi eterogenei, disposti in tre file di dodici lastre complessive, forse appartenenti ai plutei dell’edificio originario anteriore al Mille. In ciascuna di esse sono presenti motivi essenziali e stilizzati in semplici linee spiraliformi, curve e ondulate. Nella parte superiore il motivo è circolare con rosette all’interno di festoni rotondi.
L’anima in volo Nella fila inferiore si riconosce il cosiddetto «nodo celtico o infinito», ovvero un intreccio di linee che si intersecano a meandro. Nell’arco è una figura umana, probabilmente simbolo animistico, ovvero anima che s’invola verso il Regno dei Cieli. La facciata esterna dell’abside è divisa in cinque parti da lesene marmoree. Numerosi rilievi scultorei decorano le pareti tufacee di questa parte dell’edificio. Al centro della parete si aprono due strette finestre allungate: la piú lunga guarda all’interno verso l’altare maggiore, l’altra dà luce alla cripta. Quest’ultima, forse risalente all’VIII secolo è divisa in cinque navatelle da sei colonne in travertino a sostegno della bassa volta. Su una parete laterale è appoggiata un’urna contenente le reliquie di san Mamiliano, patrono di Sovana, che il vescovo Pio De Santi fece trasferire dalla vicina chiesa di S. Maria Maggiore, visto il pessimo stato di conservazione della chiesa. Formelle e pietre scolpite provenienti dall’edificio antico sono murate in varie zone dell’interno della chiesa (630 mq circa) che si presenta ripartito in tre navate da imponenti file di colonne a fascio bicrome (bianco-nero). La navata centrale è di grandezza quasi doppia rispetto alle due laterali. In quella di destra è collocata l’urna che conteneva
invasioni, carestie ed epidemie. Sono numerosi, infatti, i tesoretti tardo-antichi rinvenuti anche nell’area maremmana, sicura testimonianza della difficoltà dei tempi, ma anche di una ancora viva circolazione monetale lungo quei tracciati che, evidentemente, seguitavano a essere utilizzati. Testimonianza della relativa
le reliquie di san Mamiliano, prima che venissero trasportate nella cripta. L’arca funeraria, originariamente collocata nella chiesa è in travertino e reca scolpita, su un basamento a forma di sarcofago, la figura giacente del santo. I capitelli che sormontano le colonne sono intagliati a motivi vegetali e arricchiti da figurazioni simboliche umane e animali che richiamano, nello stile, l’intervento di maestranze provenienti in parte dall’area senese dell’abbazia benedettina (pilastri di sinistra), in parte dell’Alto Lazio (modi lombardo-laziali nel colonnato di destra). I migliori caratteri delle due componenti stilistiche, benedettina e lombardo-laziale, confluiscono nella ragguardevole decorazione dei rilievi figurati del capitello del secondo pilastro. La bicromia, simbolica rappresentazione della via gradinata di accesso al Paradiso, conferisce una nota di autentica vivacità al complesso.
Un sobrio altare in pietra Il ciborio in bronzo dorato del XV secolo e l’altare settecentesco in marmo sono stati sostituiti oggi da un sobrio altare in pietra. Nell’abside sopravvivono i resti affrescati, assai deteriorati, di Santa Margherita egiziaca. Nel vano di passaggio tra la navata destra e quella mediana si colloca il fonte battesimale del 1434 a coppa ottagona di travertino impreziosito di simboli sacri. La Cattedrale custodiva in origine la pala di Guidoccio Cozzarelli, raffigurante la Madonna col Bambino, angeli e Santi (1494), oggi conservata nel Palazzo Orsini a Pitigliano; ancora in loco è invece la tela di Domenico Manenti, della scuola di Caravaggio, raffigurante il Martirio di San Pietro del 1671 e la Conversione di San Paolo. Debora Rossi
Nella pagina accanto la ricca decorazione di uno dei capitelli che coronano le semicolonne addossate ai pilastri della navate.
continuità con un passato oramai destinato a scomparire definitivamente sotto i colpi dei tragici eventi che tra la metà del VI e la metà del VII secolo – la guerra gotica, la conquista longobarda dell’Italia, la conquista vandala dell’Africa – si abbatteranno su quel mondo classico, scrivendone per sempre la parola fine.
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SOVANA S. MAMILIANO, DA CHIESA A MUSEO
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ra gli edifici storici piú rappresentativi del borgo di Sovana va annoverato senza dubbio il Museo di San Mamiliano, affacciato sulla piazza principale assieme al Palazzo Pretorio e al Palazzetto dell’Archivio che costituiscono il Polo Museale di Sovana. Inaugurato nel 2012, il museo è stato allestito, dopo ingenti lavori di restauro, all’interno di una antica chiesa che, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, era ridotta allo stato di rudere. Sebbene sia considerata da alcuni come la piú antica cattedrale di Sovana, è invece da interpretare come chiesa cimiteriale, edificata nel IX secolo per la conservazione delle reliquie del santo titolare prelevate dall’Isola del Giglio. Figura leggendaria di monaco eremita, vissuto forse nel V secolo, Mamiliano avrebbe svolto un’intensa attività di predicazione in questa regione e, con la diffusione del cristianesimo, Sovana conquistò un ruolo preminente, divenendo
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sede di diocesi alla fine del VI secolo. L’attuale edificio, esempio di architettura romanica, è databile al XII secolo, ma subí successivi rifacimenti e cadde in disuso nel Settecento.
Le scoperte sotto il pavimento La chiesa, a unica navata, presenta un’abside semicircolare in blocchi di tufo. Interessante è la cripta colonnata, con capitelli di reimpiego, anteriore al X secolo, oggi visitabile. Gli scavi condotti nel 1998 e nel 2004 nell’ambito dei lavori di restauro per la trasformazione della chiesa in sede museale hanno portato alla luce, al di sotto del piano pavimentale, testimonianze archeologiche di eccezionale importanza, che hanno consentito di ampliare le nostre conoscenze non solo sull’edificio sacro, ma anche sulla storia millenaria di Sovana. Tali scoperte hanno indotto le Soprintendenze di settore e l’Amministrazione
comunale a modificare radicalmente l’originario progetto espositivo, che prevedeva la realizzazione di un museo dedicato agli Etruschi nel territorio sovanese. Si è infatti scelto di musealizzare l’edificio sacro, lasciando in vista una parte importante dello scavo, privilegiando l’esposizione di reperti archeologici riferibili ad alcune importanti fasi di vita del territorio sovanese. Di particolare rilevanza è stata la messa in luce, nell’angolo nord-occidentale dell’edificio, di un impianto termale, pubblico o privato, databile nel II secolo d.C. Si possono ancora vedere il piano pavimentale in laterizio, le pilae di mattoni quadrati, sorreggenti un pavimento sospeso costituito da bipedali (laterizi quadrati di due piedi di lato) e cocciopesto. Le attività di scavo si sono inoltre concentrate sull’area cimiteriale che copre quasi interamente l’edificio di fronte alla cripta. Si tratta di un fitto reticolo di tombe rettangolari,
A sinistra un particolare dell’allestimento del Museo di San Mamiliano, realizzato negli spazi, restaurati, della chiesa omonima e inaugurato nel 2012.
delimitate da tramezzi a lastre di tufo e con copertura, raramente conservata, in pietre. Le tombe sono state utilizzate ripetutamente per successivi seppellimenti, come dimostrano i materiali rinvenuti nel terreno di riempimento, databili dalla fine del XV al XVIII secolo.
498 monete d’oro Si tratta principalmente di medagliette e crocifissi in ottone, rosari in ottone e osso, spilli e fibbie facenti parte dell’abbigliamento del defunto, nonché di alcuni anelli con castone. E proprio dallo scavo di una di queste tombe, la n. 30, avviene la scoperta piú sorprendente: un piccolo vaso in ceramica contenente 498 monete d’oro, nascosto probabilmente nell’ultimo quarto del V secolo, in un periodo difficile per la Penisola a causa delle guerre, delle invasioni, carestie ed epidemie, in particolare dovute alla malaria.
In basso un’altra immagine dell’olletta che custodiva il tesoretto composto da 498 solidi in oro, rinvenuta all’interno di una tomba.
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SOVANA
Il «tesoro ritrovato» è costituito da solidi aurei con una attestazione prevalente di monete coniate sotto l’imperatore Leone I, al potere tra il 457 e il 474 d.C., seguite da quelle coniate sotto l’imperatore Antemio che regnò tra il 467 e il 472 d.C. Lungo il percorso museale sono esposte la ciotola contenente il tesoro (del quale si parla piú diffusamente alle pp. 92-101) e una selezione di monete dei vari imperatori d’Oriente e d’Occidente.
Fra Etruschi e Romani Nelle altre vetrine del Museo sono esposti reperti, soprattutto di età tardo-etrusca e romana, che documentano un vivace artigianato locale a Sovana, nell’ambito della produzione di oggetti in terracotta. Di particolare interesse sono il vasellame che componeva il corredo della tomba 4 di San Sebastiano (recupero 1996-1997), datato tra il II e il I secolo a.C., la collezione di sette vasi a pareti sottili, di buon livello qualitativo e databili al I secolo a.C., recuperati da Francesco Merlini nel 1904 e i frammenti di terrecotte architettoniche rinvenute nel centro di Sovana e recuperate nel 1895 da Riccardo Mancinelli (III-II secolo a.C.).
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L’esistenza di fornaci a Sovana è confermata dal ritrovamento di un quartiere artigianale negli scavi condotti dall’Università degli Studi di Milano presso il Duomo, che hanno evidenziato anche scarti di lavorazione. Particolarmente interessanti infine, anch’essi esposti, sono gli ex voto in terracotta provenienti da una stipe votiva rinvenuta nel 1827 nell’area funeraria etrusca all’ingresso della via cava del Cavone, connessa a un luogo di culto a divinità salutifere e della fecondità. Oltre ai consueti ex voto costituiti da animali, teste, parti anatomiche, statuette, si distinguono alcuni prodotti molto schematici e rozzamente espressivi, quasi popolareschi, che fanno del complesso votivo del Cavone un documento di grande interesse della creatività degli artigiani locali.
L’arrivo dei Longobardi Una novità nell’esposizione del Museo di San Mamiliano è rappresentata dai materiali di età longobarda provenienti dal sito de La Biagiola (di cui si parla piú diffusamente alle pp. 106-111), che deve la sua importanza all’essere la testimonianza materiale dell’evoluzione di un insediamento
Nella pagina accanto ex voto in terracotta, da una stipe votiva nell’area funeraria all’ingresso del Cavone. In alto statuette di piombo riferibili a una pratica
magica, da una tomba della necropoli sovanese. III sec. a.C. Raffigurano due personaggi nudi, un uomo e una donna, con le mani legate dietro la schiena.
rurale, la cui storia può essere ricostruita dal periodo etrusco, attraverso l’età romana, all’Alto Medioevo fino a una cascina di età moderna. Nel museo sono esposti i corredi provenienti dallo scavo delle tombe longobarde. In particolare parti di cintura in ferro ageminato con argento e ottone, uno scramasax (spada corta) con coltellino e un pettine di osso databili al VII secolo. Queste sepolture rappresentano rinvenimenti di eccezionale importanza, poiché testimoniano la presenza longobarda in un’area strategica per il controllo del territorio nella media valle del fiume Fiora, di cui poco si sapeva dalle fonti scritte.
sovanese, casualmente riportata alla luce durante lavori agricoli nel 1908, che ha però restituito un corredo riferibile a epoca arcaica. Ciò significa che, a qualche centinaio d’anni dalla chiusura della tomba, qualcuno vi penetrò e depose, con intenti specifici, le due figurine. Le statuette rappresentano infatti un particolare esempio di pratica magica: raffigurano due personaggi nudi, un uomo e una donna, con le mani legate dietro la schiena. Sulla gamba destra, recano un’iscrizione onomastica incisa: Zertus Cecnas quella maschile e Velia Satnea quella femminile. I due personaggi, ben riconoscibili, sono dedicati agli dèi sotterranei, agli dèi dei morti: a essi è sacro anche il metallo con il quale sono realizzate, il piombo. Con le mani legate dietro la schiena, Zertur e Velia sono legati alla maledizione; chi subisce la maledizione non è piú libero delle sue azioni, ma è prigioniero della maledizione medesima. Lara Arcangeli e Fabio Rossi
La curiosa storia di due statuette Il rinnovato allestimento museale ha inoltre dato maggiore visibilità a due reperti di grande pregio. Si tratta di due statuette di piombo, risalenti al III secolo a.C., che presentano una storia molto particolare, fin dal loro ritrovamento. Gli oggetti vennero rinvenuti in una tomba della necropoli
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SOVANA
LUCE SU UN MEDIOEVO OSCURO di Carlo Casi, Manuela Paganelli e Luca Nejrotti
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e l’avessimo vista con i nostri occhi, questa gente schierata sul campo di battaglia, con gli uomini allineati insieme alle donne – queste ultime curiosamente pettinate con le lunghe chiome bionde sciolte fin sotto il mento –, anche noi saremmo caduti nella tentazione di fare la stessa domanda del dio Godan: «Chi sono quelli con le lunghe barbe?». Avremmo cosí contribuito non solo alla nascita di una leggenda, quella dei Longobardi, ma anche alla loro vittoria sui Vandali, ottenuta grazie allo stratagemma suggerito alla sacerdotessa Gambara dalla dea Frea, la quale, pur sapendo che il suo divino marito non sarebbe mai venuto meno alla promessa di dare la vittoria allo schieramento sul quale avrebbe posato il primo sguardo al sorgere del sole, si premurò comunque di girare il talamo dell’immortale consorte verso oriente, laddove aveva già fatto schierare i suoi favoriti, proprio quegli «uomini dalle lunghe barbe» (o piú semplicemente dalla stravagante acconciatura!). Quella dei Longobardi però non fu solo leggenda, ma, soprattutto, storia. Una storia nobile, importante, che si è intrecciata a quella delle genti romane e straniere che, sin dal V secolo d.C., si sono trovate a vivere, inconsapevolmente, un’epoca di travolgenti trasformazioni politiche ed economiche, che sconvolsero l’Europa occidentale modificandone profondamente gli assetti sociali e culturali: l’Alto Medioevo. Il Medioevo «oscuro» di Sovana parte da qui. Dagli uomini «dalle lunghe barbe» che davvero hanno contribuito a ridisegnare un territorio, quello della Tuscia, e dunque anche quello di Sovana. Questa porzione d’Italia è fortemente plasmata da un considerevole passato etrusco e romano, ma poiché su tali radici si sono poi innestate nuove genti, nuove organizzazioni sociali e nuovi linguaggi, questo territorio ha assistito a
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La sezione del Museo di San Mamiliano dedicata alle sepolture longobarde scoperte nel sito de La Biagiola.
un irrefrenabile processo di armonizzazione tra le nuove e dirompenti energie e il «paesaggio», fisico e umano, che le aveva accolte.
La spartizione della Penisola Alla fine del VI secolo, i Longobardi avevano ormai saldamente occupato l’Italia Settentrionale, si erano stanziati in Toscana e in Umbria, scendendo fino a conquistare ampie terre del nostro Meridione. La fondazione del ducato longobardo della Tuscia, che era pars regni e non ducato autonomo, avvenne probabilmente dopo il 576: giocarono forse un ruolo decisivo alcuni dei militari al soldo dell’esercito bizantino, che decisero di cambiare repentinamente fronte. Lucca, dove si stabilirono una curtis regia e una ducale, venne affidata dal re a un duca, mentre nelle altre città della Toscana vennero insediati i gastaldi. Bisanzio (dunque quello che restava dell’impero romano) e Roma (dunque l’autorità pontificia) sapevano bene quanto potevano essere pericolosi l’isolamento e
In basso una tomba longobarda scoperta in località La Biagiola, in corso di scavo.
familiari, le fare (da cui il frequente toponimo), mentre i Bizantini tentano la riconquista, fortificando i punti strategici nelle loro mani. Piuttosto che essere travolti dai Longobardi, che lo stesso papa Gregorio Magno aveva definito «gens nefandissima», è possibile che gli abitanti di Sovana abbiano preferito una soluzione meno pericolosa, promettendo di arrendersi pacificamente nel 592 ad Ariulfo di Spoleto. Una volta stabilizzato il dominio longobardo, il duca di Tuscia, uno dei piú potenti dignitari del regno, ebbe modo di controllare le fruttuose aziende agricole dislocate nel territorio tra Sovana e Manciano, e di certo ebbe tutto l’interesse a mantenerne ben saldo il controllo.
l’accerchiamento da parte dei nemici: la loro sopravvivenza e il dominio su una parte dell’Italia dipendeva anche dall’esistenza di un «corridoio» che univa le due città, Roma con la residenza del papa, e Ravenna, sede dell’esarca, l’alto dignitario dell’impero bizantino, governatore e rappresentante dell’autorità imperiale in Occidente. In questa nuova strategia del controllo del territorio, la valle del Tevere e la via Amerina divennero un passaggio obbligato, da custodire e difendere a denti stretti, cosí come vennero controllati tutti gli sbocchi che si aprivano su di essa: ecco allora che anche le terre piú interne della maremma tosco-laziale, attraversate dall’Albegna, dall’Ombrone, dal Fiora e poi, piú a sud, il Mignone – fiumi che marcarono i confini altalenanti tra Tuscia longobarda e ducato di Roma – assunsero un ruolo strategico e vennero contese tra le due parti. Sovana rinasce cosí, nel primo Medioevo, in un’epoca in cui i Longobardi si stanziano nel territorio, mantenendo i raggruppamenti
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SOVANA
Il sito de La Biagiola, una vasta area nella zona di Pianetti di Sovana ove si localizzano numerose tracce archeologiche, è stato scoperto nel 2004 dal Gruppo Archeologico Torinese nel corso di interventi diretti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana (SBAT), volti a verificare la segnalazione della presenza di strutture pertinenti a una villa romana, della quale furono all’epoca individuati alcuni muri in opus reticulatum. A partire dal 2009 sono stati effettuati alcuni saggi di scavo localizzati a ridosso dei ruderi di un edificio noto come Casalaccio, laddove già affioravano dal piano di calpestio lacerti di mura di certo ascrivibili all’epoca romana. L’indagine archeologica ha cosí permesso di accertare la presenza di una sequenza diacronica di strutture murarie pertinenti a una villa. Le murature piú antiche
appartengono al reticolo di fondamenta in blocchi di tufo squadrati, e sono riconducibili a una fase arcaica: si può immaginare che fossero destinate a sorreggere un alzato in crudo, di cui nulla è purtroppo sopravvissuto. La fase immediatamente successiva è riconoscibile nelle murature in opus incertum, che vennero poi rasate per essere riutilizzate, sovrapponendo i caratteristici muri in opera reticolata. Della villa sono state cosí messe in luce diverse strutture, tra cui una cisterna, silos e alcune vaschette scavate direttamente nella roccia, probabilmente riconducibili ad attività vinaria o olearia. Un silo, riutilizzato come butto, ha restituito importanti reperti architettonici e ceramici, la cui datazione spazia dal periodo tardo etrusco all’epoca tardo-antica! All’esterno del Casalaccio, gli scavi hanno messo in luce una piccola necropoli
Ortofoto dei resti della villa romana scoperta nel 2004 in località La Biagiola e poi indagata.
QUANDO L’ARCHEOLOGIA FA RIMA CON LA CONDIVISIONE
R
ipercorrendo la storia della scoperta e delle successive campagne di indagine archeologica sul sito de La Biagiola si può notare, fin dall’inizio, lo stretto legame con il territorio e le sue comunità: sin dall’impegno dei volontari del Gruppo Archeologico Torinese nel creare una fitta rete di rapporti la popolazione locale, anche attraverso le prime occasioni divulgative, nell’ambito delle «Notti dell’Archeologia». Quest’aspirazione si è mantenuta ed è stata potenziata nel 2012, quando i professionisti, coordinati dall’Associazione «Cultura e Territorio», sono subentrati ai volontari: con una lungimiranza e sensibilità ancora rare nel nostro Paese, la vicina cantina «La Biagiola vitivinicola», che si affacciava sul mercato proprio quell’anno,
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scelse di investire nella conoscenza e nella promozione del territorio e s’impegnò nel sostegno alle indagini archeologiche. Fu l’inizio di un
percorso, difficile, volto a creare una forte connessione tra ricerca archeologica e comunità, in questo facilitati anche dall’entusiasmo e dal sostegno
Archeologi al lavoro sul cantiere di scavo della villa romana de La Biagiola.
altomedievale. A eccezione di due sepolture, le tombe sono prive di corredo e le analisi del radiocarbonio hanno permesso di datarle tra i secoli VII e X. Persa la sua connotazione funeraria, il Casalaccio divenne in età moderna un casale rustico: da allora, la prolungata attività agricola e un’intensa attività di spoliazione hanno fortemente compromesso il deposito archeologico e disperso i materiali, a eccezione dei corredi di due tombe di epoca longobarda rinvenute intatte.
In armi per l’ultimo viaggio Lo scavo di una necropoli di epoca longobarda è, per gli archeologi, un’occasione unica di conoscenza delle dinamiche insediative del territorio, capace di gettare luce sulle modalità della progressiva integrazione dei Longobardi con la popolazione locale o, al contrario, della
dei diversi funzionari della Soprintendenza che si sono succeduti negli anni e dal supporto continuo del Comune di Sorano. Negli anni, decine di donatori privati hanno sostenuto la ricerca e la tutela del sito, che d’altro canto, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, è sempre stato mantenuto fruibile e oggetto di periodiche comunicazioni divulgative, fino all’integrazione nei percorsi di fruizione turistica dell’area e alla collaborazione con il Parco Archeologico «Città del Tufo». Anche il rapporto con «La Biagiola vitivinicola» è diventato sempre piú «simbiotico», fino a informare di sé le politiche di marketing della cantina, inserendo le visite al sito nell’ambito degli eventi che organizza, ma anche l’ideazione di uno dei suoi vermentini di punta, il
volontà di affermazione dell’appartenenza al gruppo di comando. I Longobardi seppellivano i propri defunti con gli abiti e gli ornamenti piú significativi. Come in vita, gli uomini trovavano nelle armi il segno distintivo del potere: la spatha, arma lunga a due tagli, costituiva – insieme allo scudo – l’attributo piú importante del guerriero e veniva portata sospesa a una cintura, spesso rinforzata dalla tracolla, con pendenti di cuoio e terminazioni ornamentali; la lancia, al contrario, era un elemento variabile dell’equipaggiamento militare, mentre l’elmo, la corazza e l’arco erano in dotazione solamente agli uomini di rango piú alto. La presenza di speroni e di finimenti dei cavalli nelle sepolture connota alcuni defunti come cavalieri: curiosamente, fino al VII secolo i cavalieri longobardi indossavano un solo sperone, ma, imitando l’armamento del
«Cocciopesto», affinato in anfore realizzate in una versione contemporanea del materiale romano cosí diffuso sul sito archeologico. Un percorso che si fonda sulla consapevolezza che gli archeologi, soprattutto vista la crisi del settore, devono cercare di fare qualcosa «in piú» rispetto a un rapporto dialogico
con il territorio in cui spesso ci si trova a dover persuadere delle necessità piú alte della tutela e della ricerca un uditorio ostile o quantomeno poco partecipe. È proprio in questi casi, quando si riesce, che si può trasformare il patrimonio archeologico in una risorsa vera per il territorio e le comunità. Luca Nejrotti
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SOVANA I LONGOBARDI IN MAREMMA
L’
nemico bizantino, finirono anch’essi per adottare il secondo sperone. Le donne venivano deposte con accessori delle vesti e dell’acconciatura. Accanto alle fibule, che inizialmente erano esclusivamente utilizzate per la chiusura dell’abito e del mantello – e che vennero poi portate in funzione simbolica appese a un pendete di una cintura –, trovavano spazio altri oggetti quali il coltello, la borsetta, le conchiglie o le sfere di cristallo di rocca e altri ornamenti in bronzo e avorio. Per entrambi si aggiungevano doni funebri scelti tra quegli oggetti appartenenti alla famiglia e di uso quotidiano come i caratteristici pettini in osso, le monete, contenitori in vetro e resti di cibo, che, talvolta anche appositamente modificati, venivano deposti accanto al defunto e ne definivano lo status sociale anche nella vita ultraterrena.
Oggetti tipici Le due tombe della necropoli de La Biagiola, riferibili alla metà del VII secolo, hanno restituito alcuni elementi di corredo tra i piú tipici della cultura longobarda. In una delle due tombe infatti, gli archeologi hanno rinvenuto uno scramasax, termine composto dalle due parole di origine germanica skrama «ferita» e sachs «coltello», con il quale si designa un’arma corta a un solo taglio, che veniva portata inserita in un fodero in cuoio appeso a una cintura decorata da pendenti con rivetti e fibbie, alcune delle quali sono state recuperate nella sepoltura insieme a un coltellino, un pettine in osso e una chiave. La seconda tomba fu utilizzata piú volte, come dimostra la presenza di uno scheletro scomposto, pertinente alla deposizione piú antica. All’interno, in relazione alla deposizione piú
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impronta longobarda nella nostra Penisola è tangibile oggi non solo nelle architetture e nelle manifestazioni artistiche, ma anche nei riflessi linguistici, apprezzabili in particolar modo nel nostro sistema onomastico e nella toponomastica dei territori che maggiormente hanno visto la presenza dei Longobardi. In Toscana, per esempio, non sono rari i nomi, e i cognomi, di probabile derivazione longobarda come i frequenti Adolfo, Alberto, Aldo o Guido, o i piú rari Brando, Folco, Lando o Ulderico. Anche nel dialetto toscano si possono riconoscere alcune parole che rimandano alla lingua dei Longobardi, e se in tutta Italia si usano probabili longobardismi – come arrosto, birra, gruzzolo e pozzanghera, solo per citarne alcuni –, nella regione che fu culla della lingua italiana troviamo espressioni particolari che utilizzano parole derivate dalle lingue germaniche, alle quali apparteneva quella longobarda.
«Bracare», «ganzo» e «zazzicare» È il caso di «ammascare» usato per «scoprire» (da masca, strega); di «bracare» per «frugare» (da brakko, cane da caccia) e dell’espressione di ammirazione assai comune in Toscana «ganzo!» per «perfetto!» (da ganz, sano, illeso) o di quella, meno nota, «zazzicare», usata per indicare il modo di darsi da fare senza un preciso metodo, e soprattutto senza risultato, per tentare di risolvere un problema (da zatza > zazza, ciocca di capelli: le donne le intrecciano alle dita spesso senza alcuno scopo)! Qualcuno scomoda poi addirittura Dante Alighieri, che, nel canto XXXII dell’Inferno, usa «zebe» per «capre», rimandando al termine longobardo ziber/ zubar, che designava il caprone offerto per il
recente, sono stati rinvenuti ben quindici elementi, tra pendenti e fibbie, appartenenti a una cintura per la sospensione delle armi, realizzati in agemina di argento e ottone. Si tratta di una tecnica di lavorazione dei metalli utilizzata per produrre effetti decorativi policromi attraverso l’applicazione di un metallo duttile (oro, argento, rame, ottone) inserito sotto forma di laminette battute a freddo nei solchi sapientemente incisi sul metallo di base (molto spesso ferro, ma anche bronzo), che danno vita a disegni raffinati e assai complessi: la ritroviamo sulle armi, sulle placche e fibbie
In alto veduta aerea dell’area della villa romana in località La Biagiola.
sacrificio: il vocabolo pare sia sopravvissuto a lungo nelle campagne fiorentine e pistoiesi proprio per indicare la capra. Anche la toponomastica può suggerire talvolta la presenza longobarda: in tutta Italia è assai frequente il toponimo «Fara», termine con il quale si indicavano i nuclei di famiglie patriarcali, alla base dell’organizzazione sociale. Altro toponimo frequente è «Sala», che indicava non solo una generica casa padronale, ma anche la sede dello skuldhais, il funzionario addetto alla riscossione dei tributi. In Toscana si trova spesso un altro toponimo che trae origine dalla lingua longobarda, «Cafaggio» (o Cafaggiolo), derivante da gahagi, termine che indica tanto un boschetto recintato, quanto una tenuta di caccia, comunque un possedimento del re.
Una terra dei cavalli? E non solo… come dimenticare proprio la Maremma, con Sovana a fare da regina di questa terra cosí amata! L’etimologia ufficiale vuole che il termine Maremma derivi dal latino maritima, «terra sulla riva del mare», ma non tutti sono d’accordo e c’è chi propone un’altra derivazione, quella dal termine marh, che – usato anche nell’Editto di Rotari – indica il cavallo. D’altra parte la Maremma è certamente la «terra dei cavalli», allo stato brado o raggruppati nelle mandrie di razza maremmana, appunto. Splendidi purosangue che possiamo vedere ancora oggi negli angoli incontaminati di questo affascinante lembo di Italia, a volte accuditi da moderni butteri, che ricordano quelli raffigurati da uno degli interpreti piú sensibili della luce e dei colori della Maremma, Giovanni Fattori. Carlo Casi, Manuela Paganelli e Luca Nejrotti
delle cinture da sospensione, sugli speroni e sui finimenti dei cavalli, sulle fibule o sugli sgabelli pieghevoli rinvenuti nelle tombe piú ricche. Sebbene gli scavi archeologici abbiano restituito la testimonianza dell’esistenza di artigiani itineranti nelle diverse comunità longobarde, in grado di produrre localmente i manufatti metallici (i corredi di alcune sepolture definiscono chiaramente l’attività di orefice del defunto), è ormai certo che una buona parte degli oggetti rinvenuti nelle necropoli longobarde sono riferibili a veri e propri centri di produzione «centralizzata», di piú antica tradizione tardo-antica, come quello venuto alla luce a Roma, negli scavi della Crypta Balbi, che forniva non solo il mercato locale, ma aveva una diffusione dei propri prodotti su un piú ampio raggio. I pendenti e le fibbie rinvenuti nelle tombe longobarde di Sovana sono decorati con motivi geometrici o zoomorfi riproposti secondo i canoni propri del cosiddetto II stile «animalistico germanico», che utilizza rappresentazioni stilizzate di animali intrecciate a formare motivi assai complessi, nei quali l’organicità della figura viene travolta, generando un disegno che risulta quasi astratto (mentre nel I stile le figure erano semplicemente accostate tra di loro). Questo nuovo gusto decorativo si sviluppa proprio in Italia ed è un importante marcatore cronologico, che consente di attribuire anche le tombe longobarde con corredo rinvenute a Sovana alla metà del VII secolo.
Materiali di produzione longobarda provenienti dalle tombe de La Biagiola ed esposti nel Museo di San Mamiliano.
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ILDEBRANDO DA SOVANA
IL MONACO CHE VOLLE FARSI PAPA
FORSE DISCENDENTE DEI NOBILI ALDOBRANDESCHI, ILDEBRANDO È SENZA DUBBIO IL SOVANESE PIÚ ILLUSTRE. SALITO AL SOGLIO PONTIFICIO NEL 1073, CON IL NOME DI GREGORIO VII, SI FECE INTERPRETE DELLE ASPIRAZIONI DI RINNOVAMENTO MORALE E DI SUPREMAZIA DELLA CHIESA SUL POTERE TEMPORALE. E LE DIFESE CON TENACIA NEL DURO SCONTRO CON L’IMPERATORE ENRICO IV di Antonello Carrucoli
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tabilire con certezza la data di nascita di Gregorio VII – al secolo, Ildebrando da Sovana – è ancora oggi impossibile e, in attesa di nuove ed eventuali precisazioni, non si può far altro che indicare la periodizzazione convenzionale, ovvero quella compresa tra il 1025 e il 1035. Una datazione che trovò peraltro conferma nella ricognizione sulla salma del grande pontefice, effettuata nel 1984 da Francesco Mallegni e Gino Fornaciari, membri del gruppo di Paleontologia umana dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Pisa. In quell’occasione, cosí scrisse Valeria Caldelli su La Nazione del 14 giugno 1984: «Papa Gregorio VII era assai corpulento e artritico (…) e lo studio delle ossa ha permesso di indicare con una certa sicurezza la data di nascita tra il 1025 e il 1035 e non intorno al 1020 come in genere si credeva (…). Era alto un metro e sessantadue e doveva pesare parecchi chilogrammi vista la sua corporatura robusta, con omeri e femori che avrebbero fatto invidia ad un guerriero». Le analisi dello scheletro rilevarono anche che il pontefice aveva sofferto nell’ultima fase della sua esistenza di un’artrosi diffusa un po’ in tutto il corpo e aveva una profonda flebite alle gambe, messa in evidenza da alcuni segni particolari rimasti
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sulle tibie; in piú camminava piegato verso sinistra, come dimostra una deformazione riscontrata sulle vertebre. Sul luogo di nascita non tutta la storiografia concorda, ma in tre redazioni del Liber Pontificalis si afferma chiaramente che Gregorio, chiamato Ildebrando, è toscano di nascita del borgo di Raovaco-RoancoRovaco. Se a queste informazioni coniughiamo sia l’importantissima precisazione territoriale di questo borgo fatta dal cardinale inglese Bosone († 1178) – secondo il quale Ildebrando era «di nazione toscana, originario di Sovana, del villaggio di Rovaco» –, sia l’informazione riportata dallo storico pitiglianese Evandro Baldini, il quale, parlando del torrente Roiana-Rovana, individuava lungo questo corso d’acqua (che nasce a Pian di Corano, nel territorio del Comune di Pitigliano, e sfocia nel fiume Fiora, di fronte a Poggio Buco, in località Carboniere) i resti di una fortificazione «da identificarsi forse con l’antico oppidum Rovanacum», traiamo forti indizi circa l’individuazione del luogo di nascita di uno dei piú grandi papi della storia. Dell’oppido Rovaco, un altro storico locale, Giuseppe Giusti, scrive: «È certo che sul poggio delle Rocchette erigevasi sopra un alto masso tufaceo, un castello; tale poggio è bagnato da un fosso detto la Roiana, fosso che antiche carte che risalgono
In basso et utem net laut facient Ritratto di et quam fugiae officae Gregorio VII ruptatemqui (al secolo conseque vitedaes Ildebrando sae quis deris Sovana), olio su rehenis aspiciura tela attribuito sincte sequeFranchi. con Giuseppe nusam fugit et qui 1608. Milano, bernate laborest, ut Pinacoteca utAmbrosiana. aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
ILDEBRANDO DA SOVANA
all’epoca medicea e di Maria Teresa d’Austria definiscono come flumen Ronacum, nella sua radice latina». Per parte sua, Giovan Battista Vicarelli – anch’egli storico locale – propone una non improbabile interpretazione: l’oppido Rovaco e Sovana sarebbero lo stesso luogo, in quanto il toponimo Roanaco corrisponderebbe a Soanae, perché gli amanuensi, nel trascrivere i documenti, potrebbero aver scambiato la «S» con la «R», la «E» del dittongo «AE» sarebbe diventata «C» e il punto fermo sarebbe stato interpretato come una «O». Chi scrive è dell’opinione che l’oppido Rovaco si trovasse proprio lungo il corso della Roiana, in prossimità della valle della Iesa e della via di Trigoli, già importante snodo viario territoriale di quel lontano periodo, quando, a partire dal X secolo, cominciarono a intensificarsi le fortificazioni di villaggi per consentire una maggiore tutela del territorio. Al tempo in cui Ildebrando venne al mondo, quelle terre facevano parte della Contea Aldobrandesca, governata dal conte Ildebrando IV con sede a Sovana; qualche studioso ha
avanzato l’ipotesi, non priva di suggestioni, di una parentela del futuro Gregorio VII con la nobile famiglia degli Aldobrandeschi, sebbene il suo nome non venga mai citato nel loro albero genealogico. Le fonti piú accreditate parlano del padre di Ildebrando come di un certo Bonizo o Boninzone, forse un soldato, un falegname o un capraio, e della madre come di un’esponente della nobiltà romana, probabilmente della famiglia dei Pierleoni.
L’educazione del piccolo Ildebrando L’ipotesi che la donna non fosse di umili origini è rafforzata dal fatto che Ildebrando venne portato a Roma in tenerissima età e che, fra i quattro e i cinque anni, iniziò a frequentare la scuola del Patriarchio Lateranense, un istituto
Particolare della Carta dei Territori di Sovana e Scansano divisa nelle sue Comunità. 1778-1783. Nell’area evidenziata, alla confluenza fra il fiume Fiora e il fosso Roiana (il cui corso è tracciato, ma senza l’indicazione del nome) potrebbe essere localizzato l’oppido Rovaco, che alcuni studiosi identificano con il luogo di nascita di Ildebrando da Sovana.
riservato a bambini di alta estrazione sociale. In questa scuola, tra gli educatori, il nostro ebbe anche Giovanni Graziano, destinato a salire al soglio di Pietro nel maggio del 1045, con il nome di Gregorio VI, e che volle accanto a sé, in qualità di segretario, il giovane Ildebrando. Agli inizi del X secolo, nel 910, nacque a Cluny un movimento spirituale di religiosi innovatoririformatori, fermamente decisi a riportare la Chiesa all’originaria purezza evangelica, sradicando definitivamente i mali derivanti dalla secolare temporalizzazione, quali la simonia, il concubinato e il nepotismo. Simili pratiche erano motivo di scandalo presso la popolazione, che non si capacitava dell’elezione di papi indegni e del mercimonio che ne derivava. Il movimento riformatore cluniacense, che riuscí a far eleggere vari papi desiderosi di liberare la Chiesa dalle pericolose dipendenze materiali-temporali, ebbe vari leader: tra questi, spicca la figura di Ildebrando da Sovana che, il 22 aprile del 1073, venne eletto papa, succedendo ad Alessandro II. Ma l’ascesa di Ildebrando aveva avuto inizio
con il pontificato di Leone IX (1048-1054), punto di riferimento del movimento riformista, quando al nostro erano stati affidati incarichi delicati e di rilievo, tra cui quello di legato pontificio: toccò a lui dirimere in terra francese l’eresia di Berengario e, morto Leone IX, dovette recarsi in Germania dall’imperatore per decidere sulla nomina del nuovo papa, che fu Vittore II (fino al 1057, anno della sua morte, n.d.r.). Ildebrando era ormai divenuto una figura di riferimento per la Chiesa di Roma e, nel 1058, l’elezione a nuovo pontefice del vescovo di Firenze, Gerardo – che prese il nome di Niccolò II – ne è la conferma.
Una questione interna alla Chiesa Con il sostegno dei leader riformatori – Ildebrando, Umberto di Silvacandida e Pier Damiani – nell’aprile del 1059 Niccolò II diede il via a un concilio, a Roma, nel quale furono prese decisioni di estrema importanza in merito all’elezione del pontefice. Questa divenne un fatto interno alla Chiesa, attraverso il voto dei cardinali, mettendo cosí
A destra Roma, basilica dei Ss. Quattro Coronati. Particolare della Leggenda di Costantino e San Silvestro raffigurante Costantino che offre al papa la tiara imperiale, simbolo del potere temporale. 1246. Nella realtà, ogni nuovo pontefice riceveva «la corona che si chiama regno» dal primo dei cardinali diaconi, in S. Pietro, dopo essere stato ufficialmente consacrato e avere celebrato la Messa.
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ILDEBRANDO DA SOVANA IL DICTATUS PAPAE
P
er consuetudine storiografica, la raccolta di 27 norme canoniche che fissò i principi fondamentali della riforma della Chiesa viene attribuita a papa Gregorio VII. Vi erano affermati il potere assoluto del pontefice romano, la sua supremazia sulle gerarchie della Chiesa e il diritto di deporre gli imperatori e di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà. Che la politica non fosse una materia sconosciuta ai pontefici è del resto noto almeno fin dal V secolo d.C., quando, loro malgrado, essi dovettero occuparsene in seguito alle invasioni dei popoli germanici, essendo venuta meno l’autorità imperiale romana. Con l’avvento dei Longobardi, un secolo piú tardi, il papato si trovò obbligato a firmare un’alleanza con i Franchi dopo che, per decine di anni, le campagne erano state percorse da bande sparse di razziatori che avevano finito per distruggere l’agricoltura e impedire i rifornimenti militari al popolo. Si può far risalire, quindi, almeno a questo periodo l’acquisizione de facto da parte del papato di un nuovo ruolo politico-istituzionale sul
Miniatura raffigurante Il Potere spirituale e il Potere temporale. XII sec. Nel registro inferiore un chierico e una coppia di sposi rappresentano il popolo sottoposto alla giustizia.
a riparo la Santa Sede sia dalle lotte intestine della nobiltà romana, sia dall’ingerenza imperiale che, in virtú del Privilegio di Ottone del 962 (il Privilegium Othonis), aveva l’ultima parola sull’elezione del papa.
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territorio di Roma e dei dintorni, non in virtú di una formale sovranità territoriale, ma in base al riconoscimento ottenuto dalla popolazione stessa. Inoltre, il nuovo peso politico-istituzionale della Chiesa, che andava oltre l’autorità religiosa, comportò la ridefinizione della stessa struttura ecclesiastica, al fine di metterla in grado di fare fronte alle accresciute, e impreviste, funzioni a cui si era vista chiamata. Le donazioni longobarde dei primi castelli nell’VIII secolo, formalmente
destinate «agli apostoli Pietro e Paolo», non possono pertanto prescindere dal riconoscimento ormai consolidato del ruolo politico della Chiesa, a cui gli stessi sovrani longobardi, a partire dalla regina Teodolinda – che intessè una fitta corrispondenza con papa Gregorio Magno –, guardavano ormai come necessario interlocutore negli equilibri politici della Penisola. Nel 728, la cessione del re longobardo Liutprando a papa Gregorio II di alcuni castelli del Ducato
romano importanti per la difesa di Roma, il maggiore dei quali era quello di Sutri (la cosiddetta Donazione di Sutri), fu la prima delle due restituzioni per donationis titulo effettuate da Liutprando alla Chiesa di Roma. La seconda si ebbe nel 743. Momenti cruciali di un percorso che vide spesso associate la croce alla spada, e che si ripetono con la dinastia merovingia prima e carolingia poi. Dopo l’usurpazione del trono regio, Pipino il Breve cercò in papa Stefano II l’alleato perfetto che, per il tramite della nuova cerimonia dell’unzione del re da parte del papa, forse ispirata dagli episodi biblici di Saul e del profeta Samuele, creò i precedenti per un conflitto di potere epocale nella storia. La consacrazione rese infatti Pipino re-sacerdote, dotato di un potere nuovo, che non derivava piú solo dall’assemblea dei guerrieri, ma direttamente da Dio. Inoltre, dopo la disfatta dei Longobardi guidati da Desiderio (774) e la simbolica e solenne deposizione sull’altare di S. Pietro delle chiavi di 22 città dell’Italia centro-meridionale già bizantine, il pontefice si trovò a possedere intere regioni sulle quali esercitava il proprio governo, divenendo perciò papare. Nel 756 inoltre, per effetto della (falsa) Donazione di
Costantino, il potere temporale della Chiesa fu legittimato con forza «retroattiva». Con Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero si consolidò il patto di unione tra Chiesa e impero e pacifici si mantennero i rapporti tra le due istituzioni. Sino alle soglie dell’anno Mille, quando re-sacerdote e papa-re entrarono
in conflitto per stabilire a chi spettasse il potere universale, la summa tra il potere spirituale, eterno e celeste e quello temporale, materiale e terreno. La disputa si fece durissima dalla fine del X secolo, quando, nel 962 d.C., Ottone I di Sassonia, da re-sacerdote, abolí il principio di elezione cittadina dei vescovi, arrogandosi il diritto di nomina, al fine di assegnare loro un feudo e facendone fedeli vescovi-conti. Con il Privilegio
Con la bolla In nomine domini, promulgata da Niccolò II nel suddetto concilio, non solo venne cancellato il privilegio ottoniano, ma si andò ben oltre: era la Chiesa, nella persona del papa, a concedere l’esclusiva del titolo imperiale, si condannavano e si vietavano le pratiche
In alto incisione raffigurante papa Gregorio VII.
Ottoniano, inoltre, proclamò il diritto imperiale di scegliere il pontefice, un primato che finí quando la cattedra pontificia passò a Ildebrando da Sovana. Gregorio VII consacrò la vita alla missione di rafforzare la Chiesa con atti confluiti in quella che viene comunemente definita «Riforma gregoriana»: obbligo del celibato per i preti, formulazione degli elementi del diritto canonico, istituzione di tribunali ecclesiastici incaricati di giudicare le infrazioni a queste norme. Egli perseguí il piú alto tra gli scopi: liberare la Chiesa dal potere laico, strappando all’impero il potere universale per attribuirlo esclusivamente al papato (Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis) e a questo scopo emanò il Dictatus Papae. Il secondo atto verso la supremazia del potere ecclesiastico si compí, con eguale e significativa forza, quando salí al soglio pontificio Lotario dei Conti di Segni col nome di Innocenzo III, fondatore della monarchia pontificia assoluta. Con lui, l’opera di riforma intrapresa da Gregorio VII divenne ancora piú radicale, assumendo talvolta toni cruenti, come durante la crociata contro gli Albigesi (1208-1229) e gli altri movimenti evangelici. Debora Rossi
simoniache – identificate con le investiture che i laici davano ai sacerdoti del loro potere spirituale – e si «apriva» al normanno Roberto il Guiscardo, con il quale il papa concluse un accordo a Menfi, riconoscendogli i ducati di Puglia, Calabria e Sicilia. Tuttavia, l’imperatrice
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LA NASCITA DELLA CITTÀ
Agnese, moglie di Enrico III e madre del futuro imperatore Enrico IV, non accolse con favore quelle risoluzioni ed ebbero inizio le frizioni destinate a sfociare nello scontro epocale tra l’impero e la Chiesa passato alla storia come «lotta per le investiture». Il 22 aprile del 1073, quando Ildebrando succedette ad Alessandro II con il nome di Gregorio VII, si mosse nel pieno di uno spirito riformatore, sulla scia di una tradizione antica nei rapporti tra la Chiesa di Roma e il potere laico, e sulla base della quale i protagonisti si confrontarono, facendo ciascuno la sua parte, con convincimento. Dal loro scontro emersero gli orizzonti dei futuri rapporti tra le parti sociali – oratores, bellatores, laboratores – in un contesto che, dopo il Mille, dava nuovi ed evidenti segni di vitalità; nascono nuove forme di aggregazioni, non piú «centrate» sui castelli: siamo alle soglie della società dei Comuni e delle città. La concezione gregoriana della Chiesa, espressa in particolare nel suo Dictatus Papae (vedi box alle pp. 116-117), segue una specifica e chiara tradizione culturale-religiosa, il cui
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inizio si identifica con un episodio ben preciso nella storia antica: la rinuncia, nel 378 d.C., da parte dell’imperatore Graziano al titolo di pontefice massimo, di cui si fregiavano gli imperatori da Augusto in poi. Dopo l’editto di Tessalonica (380 d.C.), che riconosceva il cristianesimo come religione ufficiale dell’impero, quel titolo passò al vescovo di Roma, insieme alla facoltà legislativa consistente nei decretalia iniziati nel V secolo d.C dal vescovo Siricio.
I poteri che reggono il mondo Il vescovo di Roma fu, dunque, chiamato pontifex maximus, assumendo uno dei titoli propri dell’imperatore, che era appunto imperator (capo militare), titolare della tribunicia potestas (potestà tribunizia) e pontifex maximus (massima autorità religiosa). Da quel momento la Chiesa non attese molto a chiarire i suoi rapporti con l’impero; scrive papa Gelasio (494 d.C) all’imperatore di Costantinopoli, Anastasio I: «Due sono, Augusto imperatore, le autorità che reggono principalmente il mondo: la sacra
In alto miniatura raffigurante papa Niccolò II che incorona Roberto il Guiscardo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante sant’Ugo il Grande di Cluny con Enrico IV che implora Matilde di Canossa, da un’edizione della Vita Mathildis di Donizone. 1111-1115 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
autorità dei vescovi e la potestà regale. Delle quali tanto piú grave è la responsabilità dei sacerdoti in quanto devono rendere conto a Dio di tutti gli uomini, re compresi...». In questa epistola emerge il fondamentale distinguo tra auctoritas e potestas: la prima a carattere legislativo – e quindi superiore – appartiene alla Chiesa, la seconda – potere esecutivo, quindi inferiore – all’impero. Secoli dopo, nel 1080, sulla falsariga di Gelasio, Gregorio VII, scrivendo a Guglielmo il Conquistatore, gli ricordò che l’umanità, per volontà di Dio, è guidata da due istituzioni superiori alle altre, quella pontificia e quella regia, il Sole e la Luna, ma la prima è di gran lunga la piú importante, visto che dovrà rendere conto dell’operato degli uomini di fronte al tribunale di Dio. Oltre alle ingerenze laiche, Gregorio VII dovette però guardarsi anche dai «nemici» interni alla Chiesa, vale a dire quell’episcopalismo metropolitano, fortemente localizzato e per niente incline a genuflettersi al primato del vescovo di Roma quale unico successore di Pietro. Il papa di origini sovanesi non arretrò di un passo e trasferí il concetto imperiale di Roma caput mundi in Roma caput ecclesiae: il vescovato romano – e quindi il suo rappresentante – è sede apostolica e i suoi poteri vanno oltre qualsiasi altro potere presente sulla Terra, perché derivanti direttamente da Dio.
Nel segno della tradizione Gregorio VII fondava la sua visione religiosa sui principi di autorità e giustizia divina, una visione, tuttavia, che trascura molti aspetti che piú tardi saranno cari a Francesco di Assisi – amore, povertà, servizio –, ma pur sempre una visione figlia di una tradizione e di quel tempo, pervenuta all’idea di un onnipotente che è espressione di un Dio solenne, grande, al quale tutti devono inchinarsi. Enrico IV si oppose, e fu Canossa (vedi box qui accanto). A nostro avviso, però, a quelle vicende non si giunse perché Gregorio VII si era proposto come alfiere di una rivoluzione che lo vedeva
L’UMILIAZIONE DI CANOSSA
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el castello di Canossa, situato nel territorio di Reggio Emilia, culminò, con tratti a dir poco teatrali, lo scontro fra Enrico IV e Gregorio VII. Nel gennaio del 1076 l’imperatore aveva dichiarato deposto il pontefice, il quale, un mese piú tardi, reagí con la scomunica del sovrano. Il pronunciamento inimicò a Enrico i principi tedeschi, che gli imposero di riconciliarsi con il papa entro un anno, fissando inoltre un appuntamento per un’assemblea da tenersi con Gregorio ad Augusta il 2 febbraio dell’anno successivo. Appena seppe che il pontefice si apprestava a partire per Augusta, Enrico scese in dicembre con il suo esercito in Italia diretto a Roma, mentre Gregorio, avendolo appreso, si rifugiò appunto nel castello di Canossa, ospite della grancontessa Matilde. Nell’inverno fra il 1076 e il 1077 Enrico e la suocera, la contessa Adelaide di Susa, diedero inizio alla loro processione penitenziale a Canossa per ottenere la revoca della scomunica. Per tre giorni e tre notti, dal 25 al 27 gennaio 1077, Enrico fu costretto a umiliarsi, dovendo attendere davanti all’ingresso del castello d’essere ammesso al cospetto di Gregorio: imperversava una bufera di neve ed Enrico giaceva inginocchiato, a piedi scalzi, vestito con un saio, il capo cosparso di cenere, di fronte al portale chiuso. Solo grazie all’intercessione del padrino, l’abate di Cluny Ugo, e della marchesa Matilde, poté finalmente essere ricevuto dal papa il 28 gennaio. Dall’evento è derivata l’espressione «andare a Canossa», con la quale si intende fare atto di sottomissione umiliante, ritrattando e riconoscendo la supremazia dell’avversario. (red.)
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ILDEBRANDO DA SOVANA
La lettera scritta dall’imperatore Enrico IV a Gregorio VII per comunicargli la sua deposizione. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.
avverso al potere feudale. Gregorio VII fu un papa «conservatore», che si mosse, come già detto, nel solco di una tradizione i cui tratti erano stati definiti secoli prima e ancor piú strutturati tra il IX e il X secolo, quando i legami tra la Chiesa e il potere civile avevano raggiunto un’osmosi mai vista prima. A partire da Carlo Magno, il sovrano iniziò a essere considerato come il confratello del papa, entrambi vicari di Cristo in Terra, tanto che, sulla scia di questa ben consolidata tradizione, ai tempi di Gregorio VII, Pier Damiani – il cardinale che fu esponente di spicco del movimento riformista – scriveva: «Cristo aveva in sé in maniera eminente e indissolubilmente congiunte la dignità regale e quella sacerdotale, di modo che, nella guida del popolo cristiano, queste due dignità devono essere unite e darsi reciproco aiuto. Ciascuna di esse ha la sua ragione d’essere, rispetto all’altra. Il sacerdozio è protetto dal regno e il
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regno è consolidato per mezzo della santità del ministero sacerdotale. Il re è armato di spada per andare contro i nemici della Chiesa; il sacerdote attende agli esercizi di pietà per rendere Dio favorevole al re e al popolo (...) il regno e il sacerdozio, devono essere uniti per divino mistero, e le due sublimi persone che li incarnano devono essere congiunte da una tale reciproca unanimità che, stretti da un mutuo amore, il re si trovi nel romano pontefice e il romano pontefice nel re» (Pier Damiani in Dag Tessore, Gregorio VII: il monaco, l’uomo politico il santo, Città Nuova, 2003; pp. 70-71).
Verso lo scontro La tradizione era dunque questa: chiara, segnata; e Gregorio VII all’inizio si mosse in questo solco, mostrandosi paterno e conciliante con un Enrico IV, uomo dai costumi tutt’altro che irreprensibili. Tuttavia, anche Enrico IV agiva sulle basi di
deporre gli imperatori e, come se non bastasse, affermando che «la sua sentenza non deve essere messa in discussione da nessuno, ma egli soltanto può mettere in discussione le sentenze di tutti». A nostro avviso, insomma, nulla separa la presa di posizione di Gregorio VII, che agisce nell’XI secolo, da quella assunta da papa Gelasio nel 494, quando scrisse all’imperatore di Costantinopoli, Anastasio, la già citata lettera. Quell’idea, formatasi nel 378 d.C. con il passaggio della carica di pontefice massimo dall’imperatore al vescovo di Roma, era destinata ad andare in crisi: e l’apice di questa crisi si ebbe nell’XI secolo, con Gregorio VII, Enrico IV e Matilde di Canossa.
L’esilio e poi la fine
Miniatura raffigurante Enrico IV in trono (a sinistra) e papa Gregorio VII, dapprima in preghiera (al centro) e poi cacciato da un soldato dell’imperatore, dalla Chronica sive Historia de duabus civitatibus (Cronaca delle due città) di Ottone di Frisinga. Metà del XII sec. Jena, Universitätsbibliothek.
una tradizione imperiale: senza andare troppo a ritroso, a partire da Ottone I e fino a Enrico III, erano stati gli imperatori a cercare di salvaguardare la dignità della Chiesa – non senza tutelare i propri interessi – influenzando le nomine pontificie e, addirittura, facendo deporre papi indegni. Come si poteva quindi conciliare questa tradizione con i principi del Dictatus Papae? Entrambi i confratelli trascesero, andando oltre il solco della tradizione: trascese Enrico IV, che continuò a disobbedire alla Chiesa circa la rinunzia alle investiture laiche dei vescovi-conti e teorizzando la superiorità del potere regio su quello della Chiesa, sulla base del passo evangelico delle «due spade» (Luca 25, 35-38). E trascese Gregorio VII, quando, con il Dictatus Papae – 27 brevi proposizioni scritte nel 1075 – teorizzò la superiorità della Chiesa come istituzione divina sul Regnum, attribuendo al pontefice, fra le molte facoltà, il potere di
Ciascuno fece la sua parte e, nell’alternarsi delle vicende di questo scontro epocale, emerge la sofferenza di questo grande religioso, Ildebrando, costretto a chiamare i Normanni di Roberto il Guiscardo per essere difeso dall’imperatore e dall’antipapa; e al quale non fu risparmiato il dolore di vedere mezza Roma distrutta dai suoi «liberatori», che lo condussero a Salerno, dove morí, in esilio, il 25 maggio del 1085. Sul letto di morte concesse l’assoluzione a tutti, salvo che a Enrico IV e all’antipapa Guiberto. Da allora, il suo corpo riposa all’interno di un’urna di argento e cristallo nella Cattedrale di Salerno. Nel 1106, abbandonato anche dai figli, sconfitto su tutti i fronti, muore Enrico IV. Nel 1115 è la volta di Matilde, che alla morte era vicaria imperiale e viceregina d’Italia per il giovane imperatore Enrico V. Nel tempo, il nome della grancontessa è divenuto leggendario e la sua profonda religiosità l’aveva portata a preparare le strade per i pellegrini verso Roma e a far costruire splendide chiese. Nel testamento lasciò parte dei suoi beni alla Chiesa (aprendo nuovi contrasti con l’impero), la quale, riconoscendole il ruolo giocato in quel delicato periodo, l’accolse in seguito nella monumentale tomba costruita da Gian Lorenzo Bernini nella basilica di S. Pietro a Roma.
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Aggirandosi fra i ruderi di Vitozza, si ha la sensazione di viaggiare e tornare a tempi lontani, che non abbiamo vissuto, ma che diventano vicini grazie al fermo immagine dell’abbandono
Vitozza (San Quirico di Sorano, Grosseto). I resti della «Chiesaccia», luogo di culto forse dedicato a san Quirico e la cui costruzione si può attribuire a maestranze romaniche senesi.
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NELLA CITTÀ FANTASMA
LE OLTRE DUECENTO GROTTE SCAVATE NELLA ROCCIA FANNO DI VITOZZA UNO DEI PIÚ IMPORTANTI SITI RUPESTRI D’ITALIA. OLTRE MILLE ANNI FA, QUELLA CHE OGGI CI SI PRESENTA COME UN LUOGO DAI TRATTI FIABESCHI ERA UN CENTRO VIVACE E FIORENTE, DOMINATO DALLE PODEROSE ARCHITETTURE DEL CASTELLO E DELLA CHIESA di Carlo Casi e Luciano Frazzoni
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A destra un’altra immagine della «Chiesaccia». Sulle due pagine pianta a volo d’uccello dell’insediamento di Vitozza: 1. abitazioni rupestri; 2. Rocca Sud; 3. II castello; 4. «Chiesaccia»; 5. colombari; 6. acquedotto.
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ntrare in una città fantasma è un po’ come perdersi nella memoria di tempi passati, che non abbiamo vissuto, ma che, grazie al fermo immagine dell’abbandono, ci sembra di poter rivivere. È questa la prima sensazione che si prova entrando a Vitozza, dove lo sviluppo ininterrotto di grotte – molte delle quali utilizzate chiaramente come abitazioni – rimanda a immagini di centri sicuramente piú famosi con cui condivide la medesima sorte, almeno sino a un passato non troppo recente. Conosciamo i nomi e le storie degli ultimi abitanti, veri e propri cavernicoli moderni, che si sono progressivamente trasferiti in alcuni paesi limitrofi e hanno dato origine al piú moderno centro di San Quirico, posto a circa 1 chilometro. Ci troviamo in quell’ultimo lembo di Toscana che si affaccia sul Lazio e sull’Umbria, protetta alle spalle dall’alto massiccio del Monte Amiata e che a sud strizza l’occhio alle sabbiose coste tirreniche vulcenti, dove sfocia il fiume principale della zona: il Fiora. Con le sue 200 e piú grotte, Vitozza risulta uno dei piú importanti ed estesi siti rupestri medievali in Italia. Sorge su uno sperone tufaceo delimitato dai
valloni dei torrenti Lente e San Quirico, ed è delimitato a sud-est da una rocca, la Rocca Sud, e da un fossato artificiale; nella parte opposta, a nord-ovest, l’insediamento ha come limite naturale il profilo del promontorio, caratterizzato da pareti molto scoscese. Un varco che si apre nella cinta muraria, collegata alla Porta Sud, assicurava il controllo e la difesa nel punto di accesso verso il lato sud-ovest, mentre un altro fossato artificiale separa la rocca dal pianoro retrostante.
Le prime descrizioni La «città diruta chiamata Vitozzo» non è stata visitata da George Dennis (1814-1898; archeologo e diplomatico inglese, che compí numerosi viaggi in Etruria, raccontati nel libro The Cities and Cemeteries of Etruria, n.d.r.), il quale dice di averla vista solamente dal lato opposto di un ampio burrone, privandoci dunque di una delle sue preziose descrizioni, ma viene comunque da lui definita di epoca medievale. Piú tardi, nel 1927, l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) parla dei colombari situati presso lo sperone di Sant’Angiolino, indicandoli come di origine romana. Dopo questi sporadici riferimenti, il sito sembra di nuovo cadere nell’oblio per molti decenni. Le prime ricerche archeologiche vennero infatti condotte tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta del secolo scorso, quando 67 grotte furono rilevate e
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VITOZZA
numerate dal professor Roberto Parenti. In seguito, tra il 1983 e il 1984, Vitozza fu interessata da un intervento di ricerca e valorizzazione, curato della Cooperativa Archeologia di Firenze, durante il quale fu effettuato il rilievo di altre grotte, dei colombari, delle strutture della cinta muraria sud-ovest e del pianoro centrale (l’area II), e venne predisposto un percorso attrezzato di visita al sito. Dal 1998 Vitozza fa parte del Parco Archeologico «Città del Tufo» del Comune di Sorano (vedi box a p. 128).
Alla scoperta del sito Per scoprire questa città fantasma, si può partire da San Quirico e seguire la strada indicata dai cartelli per Vitozza; lungo il sentiero, in località Piancistalla, si incontrano un piccolo oratorio rupestre, riconoscibile dalla piccola croce, e alcune grotte, in parte ancora utilizzate dagli abitanti di San Quirico come pollai, rimesse e magazzini per gli attrezzi agricoli. Poco prima di giungere a Vitozza, si trovano le grotte n. 9, 10 e 11. La prima, presenta tre aperture lungo il sentiero, che danno accesso a un vasto ambiente circolare al centro e a pianta rettangolare sul lato sinistro; si tratta probabilmente di una cava di materiale inerte, utilizzato per la preparazione della malta; la seconda grotta (n. 10) era una cava di materiale lapideo da costruzione, come indicano i segni delle zeppe sul banco di tufo posto sulla destra; la terza (n. 11) presenta quattro aperture ed è formata all’interno dall’unione di almeno tre ambienti; conosciuta come «grotta della salnitraia», veniva probabilmente sfruttata nel XVIII secolo per la fabbricazione del salnitro, utilizzato per la polvere da sparo. Data la vicinanza di queste grotte alla struttura fortificata sullo sperone sud, è possibile pensare che servissero per la realizzazione dei conci di tufo e della malta per costruire le murature difensive. La prima struttura muraria che si incontra è la Rocca Sud, posta sullo sperone roccioso della parte sud-est dell’abitato, a difesa e controllo
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della porta di accesso da questo lato, a cui è collegata da un muro a conci di tufo poggiante sulla nuda roccia. Definita «fortilizio diruto» nella stima catastale del 1783 (redatta in relazione all’alienazione dei beni del Granducato), era probabilmente costituita, in origine, da una serie di edifici, in parte crollati o franati. Sul lato nord, si nota un largo fossato artificiale profondo circa 4 m, da cui probabilmente si accedeva alla struttura fortificata mediante un ponticello di legno. Di questa, sono attualmente riconoscibili un torrione e un tratto di muro pertinente forse a un altro ambiente, su cui si aprono due finestre; nella parete interna si notano inoltre cinque fori quadrangolari, nei quali erano alloggiate le travi del solaio del piano superiore. In base alla tecnica muraria, la fortificazione si può datare intorno alla metà del XII secolo. Proseguendo il percorso in direzione del pianoro, nel tratto tra la Rocca Sud e la chiesa, si possono notare i resti di strutture murarie in blocchi di tufo, probabilmente pertinenti ad abitazioni medievali. Scendendo di quota lungo il sentiero a sinistra, si incontra un pianoro dove sono presenti alcune «pestarole», vasche scavate nel tufo e utilizzate per la pigiatura dell’uva o la concia delle pelli.
Murature imponenti Al di sotto di quest’area, sul lato sud-ovest, si trova l’altra porta di accesso che conduceva alla parte centrale dell’abitato, e che si apre entro una imponente cortina muraria a conci di tufo legati da malta, che termina a strapiombo sul fosso San Quirico. La porta, larga 2,5 m e alta 3, era sormontata da un arco, non piú conservato, ma di cui rimangono tracce negli stipiti, e presenta su un lato una mensola ancora in situ. Sulla sinistra della porta si aprivano tre feritoie, di cui una soltanto conservata. Non è chiaro se questo tratto di mura con la porta di accesso sia contemporaneo alle altre strutture difensive, o se sia stato realizzato in un momento successivo, per difendere meglio l’insediamento sul lato sud-ovest, dopo una
Una suggestiva veduta invernale della «città fantasma» di Vitozza.
prima fase di espansione dall’estremo sperone di Sant’Angiolino verso sud. Al centro del pianoro si trova la cosiddetta «Chiesaccia», cosí chiamata nel catasto del 1783 in quanto già diruta. Potrebbe forse trattarsi della chiesa dedicata a san Quirico citata nelle decime del 1276-77 e del 12961324. L’edificio è a pianta rettangolare con abside e campanile a vela. Le pareti laterali, a
filaretti di blocchi squadrati di tufo, presentano finestre; su quella del lato est si apre inoltre una porta ad arco ribassato. La presenza di peducci in tufo all’interno delle pareti laterali farebbe pensare a una copertura a volta in muratura. L’abside presenta almeno due fasi costruttive, identificabili dalle diverse tecniche murarie, come si riscontra anche nel campanile. È probabile che l’edificio, nella sua
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VITOZZA
IL PARCO ARCHEOLOGICO «CITTÀ DEL TUFO»
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naugurato nel 1998 su iniziativa del Comune di Sorano, in collaborazione con la Regione Toscana e con la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana, il Parco Archeologico «Città del Tufo» occupa un’area estesa, fortemente caratterizzata dall’azione erosiva dei torrenti e quindi da un paesaggio singolare e suggestivo, ricco di profondi canyon che si aprono nell’altopiano. Il Parco propone un percorso che realizza in pieno la sintesi tra natura, paesaggio e monumenti della civiltà etrusca e medievale. Esso comprende la città di Sovana, con i suoi monumenti piú significativi, le vie cave e le necropoli che si sviluppano intorno a esse, con le celebri tombe Ildebranda, della Sirena, Pola, Pisa e del Sileno. Qui è visitabile anche il Museo di San Mamiliano, recentemente inaugurato. Nelle immediate vicinanze di Sorano, in posizione panoramica sopra il fiume Lente, è inoltre visitabile l’insediamento rupestre di San Rocco,
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con le sue testimonianze storiche di età medievale. Da qui si può raggiungere Sorano e visitare la Fortezza Orsini, che ospita il Museo del Medioevo e del Rinascimento. La visita si completa con il villaggio rupestre di Vitozza, nelle immediate vicinanze della frazione di San Quirico di Sorano, con le sue duecento grotte.
DOVE E QUANDO PARCO ARCHEOLOGICO «CITTÀ DEL TUFO» Info tel. e fax: 0564 614074; www.leviecave.it; Comune di Sorano: tel. 0564 633023, fax: 0564 633033; CoopZoe: tel. e fax 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it Note gli orari e le modalità di accesso ai siti e musei possono variare, anche in funzione della stagione: si consiglia quindi di verificarli attraverso il sito web della struttura o prendere contatto con le sue sedi
Nella pagina accanto particolare dell’ingresso di una delle grotte di Vitozza. È in generale molto difficile stabilire una datazione precisa per la realizzazione delle cavità e ricostruirne la frequentazione in epoca antica, poiché molte di esse hanno continuato a essere utilizzate fino a tempi recenti, a scopi diversi.
fase originaria, sia opera di maestranze romaniche senesi, cui si devono molti degli edifici ecclesiastici presenti tra la Bassa Toscana e l’Alto Lazio. Dopo la chiesa, il pianoro termina in direzione nord-ovest con un altro fossato artificiale, al di là del quale si trova un altro edificio fortificato, che controlla una via tagliata nel tufo che conduce all’ultima parte dello sperone dell’insediamento, chiamato Sant’Angiolino dai resti di una chiesa definita nel catasto del 1783 «di S. Angelo». Oggi ne rimangono uno spigolo con la mazzetta di una porta e un’imponente massa di macerie costituite da blocchi squadrati di tufo. Non si può stabilire se la struttura fosse in origine dedicata a san Bartolomeo o san Vittore, come riportano le notizie delle decime. Non vi sono comunque tracce di altre chiese nell’insediamento di Vitozza. Su questo pianoro, di forma pressappoco triangolare, che domina la valle del Lente e dei suoi affluenti, si trovano anche un fossato artificiale tagliato in senso nord-sud, alcuni silos e cisterne, tre grotte, di una delle quali rimangono solo due pareti e i gradini di accesso scavati nel tufo (grotte nn. 66 e 67), e due colombari.
Spazi multifunzionali Come si è detto, a Vitozza si contano oltre 200 grotte, realizzate secondo schemi e in tempi diversi. Si possono suddividere in grotte destinate al solo uso abitativo, grotte utilizzate sia come abitazione che come stalla, grotte utilizzate soltanto come stalle e ricovero per animali, e infine grotte per altri usi (forni, ricovero per attrezzi agricoli, ecc.). È da notare che quelle usate come abitazione si trovano concentrate prevalentemente sullo sperone sud-ovest, meglio esposto al sole, mentre le cavità adibite a stalle si trovano su quello nord-est. Gli ambienti utilizzati come abitazioni presentano al loro interno, sia sul pavimento che sulle pareti, tracce di manufatti funzionali alla vita quotidiana: nicchie scavate per fungere da dispensa o per appoggiarvi fonti di illuminazione; fori per graticci lignei per i giacigli (rapazzole), silos
per la conservazione delle derrate alimentari o sfruttati come riserve d’acqua, in quest’ultimo caso con le pareti intonacate per renderle impermeabili. Inoltre, presentano spesso fori verticali, utilizzati come canne fumarie per disperdere il fumo dei focolari accesi per cuocere i cibi, e canalette per lo scolo delle acque piovane. Le grotte piú antiche risalgono a un periodo compreso tra il IX e il X secolo, mentre il loro utilizzo è testimoniato almeno sino al XIX secolo; si pensi che ancora tra il XVII e il XVIII secolo il costo dell’affitto di una grotta era di poco inferiore a quello di una normale abitazione. Come già ricordato, nello sperone sud-ovest, chiamato di Sant’Angiolino, Bianchi Bandinelli segnalò nel 1927 la presenza di almeno 10 grotte-colombari, da lui datate in epoca romana (I secolo a.C.-I secolo d.C.) e destinate secondo lo studioso a uso funerario per conservare le urnette con le ceneri dei defunti, in base a confronti con i numerosi colombari presenti a Roma. Di queste, soltanto tre sono attualmente visibili e praticabili, cioè la grotta n. 36, la n. 67 e un altro piccolo ambiente posto a un livello inferiore della parete tufacea in direzione della Porta Sud-Ovest. Questi ambienti sono caratterizzati da piccole nicchie disposte sulle pareti; gli studi su questo tipo di manufatti portano a escluderne l’uso funerario (le cellette sono oltretutto troppo piccole per contenere le urne in terracotta); tali ambienti venivano invece utilizzati, in varie epoche, a partire dall’età tardo-repubblicana, ma soprattutto dal Medioevo fino ai nostri giorni, per l’allevamento dei colombi a scopo alimentare. La grotta n. 36 è costituita da un primo ambiente con una porta di servizio laterale per permettere l’accesso agli allevatori; sul pavimento sono tracce di piccoli recinti, vasche e canalette per l’acqua; le pareti presentano una fitta serie di nicchie di forma ogivale; da qui si passa a una seconda stanza, anch’essa con nicchie alle pareti, e una piccola porta aperta sul dirupo, da dove i volatili potevano entrare e uscire. Con la visita ai colombari si conclude l’itinerario di Vitozza.
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MONOGRAFIE
n. 42 aprile/maggio 2021 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Lara Arcangeli è direttore del Parco Archeologico «Città del Tufo». Antonello Carrucoli è insegnante e scrittore. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Luciano Frazzoni è archeologo. Luca Nejrotti è archeologo. Manuela Paganelli è archeologa. Enrico Pellegrini (†) è stato direttore archeologo presso la Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale. Simona Rafanelli è direttore scientifico del Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. Debora Rossi è direttore dei Musei Civici di Pitigliano. Fabio Rossi è direttore del Museo della Preistoria della Tuscia e della Rocca Farnese di Valentano. Illustrazioni e immagini: Massimo Tomasini: copertina (e pp. 12/13) e pp. 6-11, 14/15, 22/23, 40/41, 46-51, 52, 56-57, 60, 61 (basso), 62/63, 64/69, 70/71, 76/77, 78/79, 81, 83, 90/91, 100, 102/103, 106/107, 122/123, 125, 126/127, 128 – Doc. red.: pp. 16/17 (Francesco Corni), 18 (centro e basso, a sinistra), 19, 32, 32/33 (Maurizio Biserni), 33, 34-37, 54-55, 58/59, 88/89, 94-97, 112-121 – Cortesia degli autori: pp. 18 (alto e basso, a destra), 20/21, 23, 24-31, 52/53, 53 (Roberto Germogli), 61 (alto), 80, 84-87, 92/93, 103, 104-105, 107, 108-111, 124/125 – Shutterstock: pp. 38/39, 43, 44/45, 73, 74, 82/83, 92, 98-99, 101 – Mondadori Portfolio: Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 42 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 14, 70, 72/73 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 52, 124. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: una veduta di Pitigliano (Grosseto), cittadina che si presenta oggi nelle forme assunte soprattutto fra il XV e il XVI sec.
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