Archeo Monografie n. 45, Ottobre/Novembre 2021

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POMPEI I NUOVI ITINERARI

N°45 Ottobre/Novembre 2021 Rivista Bimestrale

IN EDICOLA IL 15 OTTOBRE 2021



POMPEI

scavi • scoperte • restauri di Alessandro Mandolesi, con presentazioni di Massimo Osanna e Gabriel Zuchtriegel

10. introduzione Pompei rinasce dalla Schola

16. itinerari di visita La città svelata 19. Antiquarium 26. Villa Imperiale 28. Complesso di Championnet 31. Casa dei Mosaici geometrici 31. Casa del Marinaio 34. Insula Occidentalis 36. Granai 36. Casa di Sirico 38. Casa dell’Orso ferito 38. Casa di Popidius Priscus 40. Casa dei Cornelii 43. Casa delle Pareti Rosse 46. Terme Repubblicane 47. Teatro 50. Casa del Criptoportico 51. Casa dei Ceii 54. Casa degli Amanti 56. Fullonica di Stephanus, Case di Paquius Proculus e di Fabius Amandus 57. Casa del Sacerdos Amandus 58. Casa dei Casti Amanti, Casa dei Pittori al lavoro 59. Casa del Frutteto 61. Domus della Nave Europa 65. Praedia di Giulia Felice 68. Casa della Venere in conchiglia, Casa di Octavius Quartio 70. Quartiere di Porta Nocera 74. Anfiteatro 75. Palestra Grande 78. Casa del Fauno 82. Casa del Poeta tragico 83. Regio VI 86. Casa dei Vettii 87. Mura 92. Via dei Sepolcri 93. Villa di Diomede 96. Villa dei Misteri

102. nuove scoperte La ricerca e l’emozione 104. Regio V, vicolo dei Balconi 107. Casa del Giardino 111. Casa di Orione 113. Affresco dei gladiatori 115. Termopolio 116. Leda e il cigno 118. Tomba di Gneo Nigidio Maio 120. Tomba di Marcus Venerius Secundio 121. Villa di Civita Giuliana 125. Fondo Iozzino 126. Laboratorio di Ricerche applicate Si ringrazia Massimo Osanna per la disponibilità alla realizzazione della pubblicazione, e il direttore Gabriel Zuchtriegel per aver condiviso le prospettive di sviluppo del Grande Progetto Pompei. Grazie inoltre al personale del Parco Archeologico di Pompei, e in particolare all’Ufficio Stampa e Comunicazione per la preziosa collaborazione su contenuti e immagini.


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a quando, nel 1748, iniziarono gli scavi borbonici, Pompei non ha mai smesso di affascinare visitatori, artisti e intellettuali, cambiando inesorabilmente la nostra visione dell’antico e portandoci alla scoperta della viva quotidianità di una città romana. È uno spazio dove si annulla la distanza con il passato e, passeggiando per le sue strade basolate, siamo invece investiti dalla prossimità del mondo antico alla nostra contemporaneità, basti pensare ai graffiti incisi sui muri della città che ci raccontano sentimenti universali come l’amore e l’amicizia, o agli alimenti rinvenuti nelle pentole, testimonianza dell’ultimo pasto non consumato e simulacro della fragilità della vita umana. Conservare, valorizzare e conoscere questo eccezionale patrimonio nella sua materialità era l’obbiettivo principale del Grande Progetto Pompei, che si è sviluppato con piani coordinati su piú fronti, dal restauro alla fruizione, sempre però rispettando il suo stratificato palinsesto storico. Un’azione, quindi, che per la prima volta è intervenuta sul sito nella sua globalità, uscendo da una logica di interventi puntuali di emergenza per intervenire sulla città concepita come un tessuto urbano unitario. Abbiamo condotto interventi di restauro complessivi degli edifici che versavano in condizioni di avanzato degrado come per esempio la Casa del Criptoportico o la Casa di Championnet, mettendo parallelamente in sicurezza per la prima volta tutta la città, cosí da evitare ulteriori perdite della materia archeologica. Le condizioni, infatti, erano cosí critiche che non si poteva rispondere con una manutenzione ordinaria: era necessario agire con interventi straordinari per poter riportare il sito nei binari della manutenzione ordinaria e programmata, che è la nuova sfida che sta ora affrontando il sito. Tutti questi interventi, esito di confronti continui tra team multidisciplinari di architetti, archeologi, ingegneri e restauratori provenienti da diverse parti d’Italia e che qui hanno portato la loro differente formazione, non sono stati il mero ripetersi di operazioni standardizzate ma il risultato dell’attenzione e delle riflessioni sulla specificità del contesto pompeiano. Un contesto che, anche se indagato ormai da piú di 200 anni, non smette mai di stupire come ben mostrano le ultime scoperte, offrendoci occasioni uniche di conoscenza. Basti pensare al carro di Civita Giuliana, l’unico carro cerimoniale rinvenuto nel mondo romano, o ai nuovi scavi nella Regio V con le loro case, vicoli e fast food. Sono scavi che nascono da esigenze diverse,

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nel caso di Civita Giuliana si tratta di una collaborazione con la Procura della Repubblica di Torre Annunziata per contrastare la piaga degli scavi illeciti, per la Regio V erano lavori nell’ambito della messa in sicurezza dei fronti di scavo e in altri casi invece abbiamo avviato autonomi progetti di scavo, perché essere un ente di tutela non può esimerci dalla ricerca. Per la prima volta, infatti, abbiamo avuto la possibilità straordinaria di indagare Pompei con un approccio interdisciplinare in quanto il Parco ora può contare su specialisti come archeobotanici, archeozoologi, antropologi, vulcanologi e geologi che hanno lavorato insieme agli archeologi per raccogliere ogni minima traccia conservata nella terra cosí da ricostruire il paesaggio antico e le biografie di uomini e cose. Questa Monografia di «Archeo», sulla scia del mio libro Pompei. Il tempo ritrovato (Rizzoli 2019), vuole raccontare i lavori di restauro, le scoperte di questi ultimi anni e il grande lavoro che ha portato alla nuova immagine di Pompei, che finalmente è riuscita a far dimenticare le tremende immagini del crollo della Schola Armaturarum in quel tragico novembre del 2010. Una storia di impegno, di lavoro costante e di riscatto, che, con l’aiuto di questa Monografia, speriamo possa cogliere chi ora verrà a visitare il sito. Questo racconto è corredato da un ricco e affascinante apparato fotografico, che permette di apprezzare sia i luoghi riaperti al pubblico che i nuovi scavi. Il viaggio inizia dal rinnovato Antiquarium degli Scavi, inaugurato nel gennaio 2021, con cui abbiamo finalmente restituito a Pompei il suo museo e che costituisce una sorta di introduzione alla visita, portando il visitatore a immergersi nella profonda diacronia del sito. Attraverso la visita di case e complessi restaurati, percorrendo strade e vicoli finalmente «liberati» dai puntelli e dalle opere di presidio dei decenni precedenti, a volte ancora del terremoto del 1980, come nel caso della Casa degli Amanti, si arriva ai nuovi scavi nella Regio V, aperti al pubblico da agosto al termine di lavori di restauro e messa in sicurezza. Qui sono ancora forti per chi li visita, e non solo per gli archeologi, l’immediatezza e l’emozione della scoperta, con le case dalle cromie vivaci e accese, le sgargianti iscrizioni elettorali e le anfore pronte a essere usate nel termopolio. Con questo fascicolo sottobraccio, guida per spazi a volte ancora inediti, non posso che invitare a tornare a riscoprire Pompei, dove l’incontro con l’antico continua, ieri come oggi, a farci emozionare. Massimo Osanna Direttore generale Musei, Ministero della Cultura già Direttore del Parco Archeologico di Pompei

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iede ludi greci e latini per quattro giorni». Cosí conclude un’iscrizione alquanto singolare, trovata recentemente a Pompei, nel luglio del 2021, nell’ambito di un progetto di indagini stratigrafiche nella necropoli di Porta Sarno, promosso dall’Università Europea di Valencia in collaborazione con il Parco Archeologico. Dopo piú di 270 anni di scavi e ricerche, il sito vesuviano stupisce ancora: si tratta della prima attestazione certa di esibizioni in lingua greca a Pompei, ipotizzate in passato sulla base di indicatori indiretti. Ecco il testo completo dell’epigrafe della tomba di Marco Venerio Secundio: M. Venerius Coloniae lib(ertus) Secundio, aedituus Veneris, Augustalis et min(ister) eorum. hic solus ludos graecos et latinos quadriduo dedit, ovvero: «Marco Venerio Secundio, liberto della colonia, custode del tempio di Venere, Augustale e ministro degli stessi. Questi da solo organizzò spettacoli greci e latini per la durata di quattro giorni». Si tratta, dunque, di un ex schiavo della città, un servus publicus, il quale dopo la sua liberazione, salí al rango di Augustale, ovvero membro del collegio responsabile del culto imperiale. Della sua ascesa sociale ed economica è testimonianza anche la tomba monumentale, a forma di piccolo sacello, che fece erigere fuori Porta Sarno, ben visibile al viandante. Un personaggio, dunque, ben integrato nella società pompeiana, che però, al tempo stesso, non mancò di rimarcare una certa peculiarità nelle scelte, sia nella vita che nella morte. Organizzare spettacoli in greco è una scelta originale, farsi inumare lo è altrettanto. Infatti, a differenza di tutte le altre sepolture di adulti dell’epoca, quella di Venerio Secundio non è una cremazione, bensí un’inumazione. Lo stato in cui fu trovato lo scheletro, in particolare il cranio, sul quale si vedono ancora i capelli bianchi e corti, fa ipotizzare che potrebbero essere state usate sostanze che favorivano la conservazione del corpo: insomma, si tratterebbe di una specie di imbalsamazione, ipotesi che attende di essere verificata attraverso analisi archeometriche sui resti umani recuperati nella tomba, grazie al lavoro dell’équipe spagnola, sotto la direzione di Llorenç Alapont e dei funzionari restauratori e archeologi del Parco. Sia gli spettacoli, sia il rito funerario adottato riflettono in maniera emblematica lo spirito del periodo neroniano; la tomba si data approssimativamente alla seconda metà degli anni Sessanta del I secolo d.C. Nerone (imperatore nel 54-68 d.C.), molto

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amato dal popolo e non da ultimo dai liberti, a favore dei quali intervenne bloccando un’iniziativa del Senato che avrebbe consentito agli ex proprietari la revoca dell’atto di manomissione, si cimentava come artista e cantava anche in greco. Nel 59 d.C., istituí a Roma giochi (ludi) per i quali chiamò histriones graecos et latinos (attori greci e latini). E la seconda moglie di Nerone, Poppea Sabina, la cui famiglia molto probabilmente risiedeva a Pompei (la Casa del Menandro è stata attribuita ai Poppaei sulla base di un sigillo) e che nella vicina Oplontis possedeva un’imponente villa (la «villa A» a Torre Annunziata), dopo essere deceduta in seguito a un calcio che il marito le avrebbe sferrato, secondo Tacito, sulla pancia mentre era incinta, fu imbalsamata e inumata nel sepolcro dei Giuli a Roma, regum externorum consuetudine – secondo la consuetudine di re stranieri, come dice Tacito. Si tratta di un periodo segnato dalla sperimentazione e dalla ricerca di nuovi orizzonti: dall’arte e dall’architettura (si pensi alla Domus Aurea a Roma) alla poesia e alla sfera religiosa (Poppea mostrò una certa simpatia per la religione ebraica, come sostiene lo storico giudeo Flavio Giuseppe). Edward Bulwer-Lytton nel suo famoso romanzo del 1834 The Last Days of Pompeii, avrebbe immaginato addirittura la presenza di persone cristiane nella città all’indomani dell’eruzione, anche se fino a oggi mancano testimonianze univoche in tal senso. Dopo lo straordinario rilancio del sito negli anni del Grande Progetto Pompei sotto la direzione di Massimo Osanna, raccontato in questa Monografia di «Archeo», nei prossimi anni si continuerà a rinforzare il modello di tutela e di fruizione inclusiva già avviato. Occorre usare tutte le tecnologie a disposizione per monitorare questo straordinario sito e intervenire con progetti di manutenzione, messa in sicurezza e restauro per far sí che il Grande Progetto non resti un episodio, ma diventi un percorso consolidato nel tempo. Contestualmente, l’enorme patrimonio digitale del Parco deve essere reso accessibile anche all’esterno per trasformarsi in uno strumento di ricerca e di divulgazione della conoscenza per il pubblico. In tutto ciò, però, non bisogna mai dimenticare quale sia la vera fonte di energia di ogni luogo della cultura, ovvero la ricerca. Anche in questo gli anni del Grande Progetto sono stati una stagione estremamente proficua e stimolante, come si può evincere dalle pagine che seguono. La tomba di M. Venerius Secundio ci ricorda che Pompei non smette mai di stupire e che la nostra responsabilità consiste nel consegnare alle future generazioni non solo un sito conservato e restaurato secondo gli standard piú aggiornati, ma anche pieno di segreti capaci di meravigliare il mondo, accademico e non solo, ancora a lungo. Gabriel Zuchtriegel Direttore del Parco Archeologico di Pompei

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POMPEI RINASCE DALLA SCHOLA D

ivenuta tristemente nota per i drammatici crolli del 2010, che tanto scalpore e sdegno sollevarono nella comunità internazionale, la Schola Armaturarum si è trasformata nell’emblema della rinascita di Pompei, grazie al Grande Progetto Pompei (vedi box a p. 12). Una metamorfosi che passa attraverso complessi e diversificati cantieri di lavoro, attorno ai quali è maturata una diversa coscienza del sito archeologico, che ha portato a un modello virtuoso di gestione delle risorse e dei processi di conoscenza, valorizzazione e fruizione. Proprio dal recupero del piccolo edificio della Schola, affacciato su Via dell’Abbondanza, la principale arteria cittadina, parte questo nostro viaggio alla scoperta della nuova immagine pompeiana, scaturita dai recenti interventi di messa in sicurezza, di restauro, di scavo archeologico e di studio pluridisciplinare, azioni che offrono una visione inedita dell’antico centro vesuviano. Il Grande Progetto, tuttora in corso, è il contenitore entro il quale si è ricercata una gestione ordinaria del sito perduta nel corso del tempo, incentrata sulla manutenzione programmata e sull’approccio integrato fra conservazione, ricerca e fruizione. Per restituire le atmosfere agli antichi luoghi cittadini, e contribuire a un’ampliata conoscenza pubblica, si è reso necessario il recupero di molti edifici e delle loro delicate decorazioni dipinte o musive, e garantire per tutti un’adeguata protezione per il prossimo futuro. Il Grande Progetto ha rappresentato un laboratorio permanente di interventi articolati, anche dal punto di vista di un’adeguata conoscenza dei monumenti; l’impiego dei materiali nei cantieri è stato scelto, per esempio, in base alla compatibilità con quelli antichi, elementi lapidei e laterizi oppure leganti simili a quelli già in opera. Oltre a prevedere studi diagnostici finalizzati alla giusta comprensione dei manufatti, il progetto si è concentrato sulla definizione di un metodo operativo efficace verso un’idonea e durevole conservazione. I lavori hanno cosí consentito di riaprire progressivamente strade e quartieri della città, chiusi alle visite per lungo tempo, addirittura dal terremoto che colpí la Campania nel 1980.

Un contesto unico e omogeneo Pompei oggi è concepita come un contesto unico e omogeneo, una città con tutte le sue complessità da monitorare costantemente e da pianificare con interventi continuativi per macro- e mini-aree, ossia per Regiones (quartieri) e Insulae (isolati), proprio come il direttore degli scavi Giuseppe Fiorelli l’aveva organizzata topograficamente poco dopo la metà dell’Ottocento.

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Un’immagine degli scavi condotti nella Schola Armaturarum nell’ambito del progetto di recupero della struttura. Le indagini hanno riportato alla luce un piccolo deposito di anfore che contenevano olio, vino e garum (la salsa a base di pesce).

Protagonista del rilancio pompeiano è certamente Massimo Osanna, prima soprintendente e poi direttore del Parco Archeologico di Pompei, che, dal 2014 al 2019 – all’inizio insieme al generale dei Carabinieri Giovanni Nistri, direttore generale del Grande Progetto –, ha coordinato il vasto piano degli interventi, con il supporto di un efficente staff di tecnici costituito da archeologi, architetti, ingegneri, restauratori, geologi e paleoantropologi. Concretezza e comunicazione sono sicuramente due cifre significative che hanno segnato questa fortunata stagione pompeiana, e oggi l’eredità di Osanna è raccolta da

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Il Grande Progetto Pompei

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inanziato dalla Commissione Europea e sostenuto dal Governo italiano, il Grande Progetto Pompei si è avviato fattivamente nel 2014, articolandosi in diversi piani operativi (piano delle opere su strutture archeologiche; piano della conoscenza; piano della sicurezza; piano della capacity building; piano della fruizione e comunicazione), attraverso i quali si sono restituiti al pubblico di circa 50 edifici chiusi e riaperti quartieri e strade cittadine. Il cantiere «di intervento di messa in sicurezza dei fronti di scavo» ha interessato specificatamente tre chilometri del perimetro che costeggia l’area

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ancora non scavata di Pompei, la cui superficie è pari a 22 ettari. Questo ha riguardato soprattutto i fronti di Via Vesuvio, nell’area del cosiddetto «cuneo» della Regio V, dove oggi è fruibile, grazie agli interventi di scavo e di restauro, un nuovo lembo abitato con le raffinate Case del Giardino e di Orione, e un intero termopolio. La cura costante e la manutenzione programmata è il nuovo modus operandi del Parco Archeologico: grazie al Grande Progetto, in qualche misura i visitatori oggi hanno modo di immergersi in una nuova Pompei, non piú lasciata quasi all’incuria del tempo, ma accessibile e spiegata a tutti.


In alto la Schola Armaturarum a scavo concluso, nel 1916. Su una trave si può notare il calco dell’impronta della transenna lignea a intreccio che separava il salone da Via dell’Abbondanza. Nella pagina accanto il restauro degli affreschi con trofei dipinti nella grande aula della Schola.

Gabriel Zuchtriegel, giovane e valente direttore da subito impegnato nel potenziamento del Parco, dove ricerca, conservazione, restauro e innovazione continueranno a intersecarsi per la massima conoscenza di Pompei. La Schola Armaturarum è un edificio pubblico singolare, di modeste dimensioni, costruito su Via dell’Abbondanza pochi anni prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Il fabbricato ospitava la sede di una vivace associazione di stampo militare, probabilmente impegnata in attività pubbliche e ludiche nella vicina Palestra Grande o nel piú spettacolare anfiteatro; uno spazio, quindi, ricreativo e, al contempo, fortemente identitario, legato a un sodalizio cittadino di alta considerazione sociale. Non è da escludere, secondo un’ipotesi di Massimo Osanna, che possa trattarsi addirittura di una delle associazioni temporaneamente sciolte dal Senato romano – e in seguito ricostituita – all’indomani della famosa e sanguinosa rissa fra Pompeiani e Nocerini scoppiata nel 59 d.C. nell’anfiteatro, ricordata dallo storico Tacito. Scavata fra il 1915 e il 1916, la Schola era incentrata su un ampio salone con annessi di servizio retrostanti, largamente aperto su Via dell’Abbondanza, dalla quale si separava tramite una transenna lignea a intreccio, ricostruita in base ai calchi in gesso delle impronte della struttura lasciate nella cenere. Gli incassi presenti sulle pareti della sala testimoniano il montaggio di vistose scaffalature, dove forse stavano in bella mostra armature e trofei militari,

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emblemi distintivi dell’associazione. La parete principale di fondo, ben visibile dall’esterno, era scandita da semipilastri destinati a sorreggere grandi mensole, sopra una delle quali, al momento dello scavo, poggiava un armadio di cui fu eseguito il calco. Dopo la scoperta e i primi restauri, iniziarono le sfortune dell’edificio: il pesante bombardamento alleato che colpí Pompei nel settembre 1943 danneggiò pesantemente la copertura, il lato occidentale del salone e gli affreschi in IV stile pompeiano con immagini di trofei sui pilastri d’ingresso; delle Vittorie alate dipinte nel salone, solo quattro si salvarono; anche i calchi dell’armadio e delle transenne su Via dell’Abbondanza furono polverizzati. Nell’immediato dopoguerra l’edificio venne ricostruito fino alla copertura, con la messa in opera di un pesante solaio in cemento, oggetto poi del drammatico crollo provocato dal dissesto idrogeologico che aveva interessato i fronti circostanti di terreno non scavato e dall’accumulo di acqua piovana sul lastrico dell’edificio.

Da rovina a simbolo del «museo diffuso»

Veduta dall’alto degli scavi nella Schola Armaturarum, con i tre ambienti scoperti: quello a sinistra conserva il deposito di anfore; la tettoia sulla destra copre la grande aula.

La Schola è stata al centro di un importante progetto di recupero destinato alla fruizione pubblica del monumento, mediante il restauro degli affreschi e l’apprestamento di un adeguato percorso di visita, mirato anche ad approfondire la sua conoscenza con il completamento dello scavo archeologico. Della Schola era infatti noto l’impianto planimetrico, basato sull’ampia sala con annessi di servizio retrostanti, questi ultimi rimasti non del tutto indagati. La stanza piú interna era ancora sommersa da ceneri e lapilli: con lo scavo, qui è venuto alla luce un piccolo deposito di 14 anfore ancora in posto che contenevano olio, vino e salse di pesce (garum). Una di queste mostrava ancora delle iscrizioni dipinte in cui si leggono i numeri evidentemente destinati a indicare quantitativo e caratteristiche del prodotto conservato. La provenienza delle anfore svela alcuni contatti mediterranei che Pompei intrattenne nel I secolo d.C., come per esempio la presenza di contenitori fabbricati a Creta e destinati a trasportare il tanto apprezzato vino locale, oppure anfore olearie dall’Africa settentrionale, fino a quelle betiche per salse di pesce prodotte in Andalusia. L’utilizzo della stanza come deposito è confermato dai graffiti visibili su una delle sue pareti, tracciati per segnalare l’attività di stoccaggio. Ma la constatazione piú interessante che emerge dallo scavo è legata a una delle funzioni praticate nella grande sala riunioni della struttura, dove, alla luce delle recenti scoperte, si svolgevano cerimonie conviviali basate sul consumo di pasti e bevande. Lo scavo della Schola si può considerare, a ragione, l’esordio della nuova stagione esplorativa di Pompei, culminata, come vedremo piú avanti, nell’indagine di un settore urbano della Regio V. Con le sue anfore sistemate nel deposito, la Schola Armaturarum rappresenta uno dei punti focali del «museo diffuso» di Pompei, un progetto di valorizzazione articolato in allestimenti museografici distribuiti in vari edifici connessi a temi diversi della vita quotidiana, con oggetti ricollocati negli originari luoghi di scoperta, cosí come lo avevano pensato nella prima metà del Novecento gli allora direttori Vittorio Spinazzola e Amedeo Maiuri.

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A. Casa del Menandro B. Terme Stabiane C. Tempio di Apollo D. Edificio di Eumachia E. Macellum F. Tempio di Giove G. Basilica H. Santuario di Venere I. Foro Triangolare L. Odeion M. Lupanare N. Terme Suburbane

Grazie ai restauri e ai nuovi scavi, la città vesuviana si mostra «viva», proprio come lo era duemila anni fa

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INGRESSO - USCITA Piazza Esedra


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Pianta di Pompei con, in evidenza, gli edifici pubblici e le domus riportate al loro splendore grazie agli interventi del Grande Progetto Pompei.

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L’ITINERARIO ALLA SCOPERTA DEL NUOVO VOLTO DI POMPEI 1. Antiquarium 2. Villa Imperiale 3. Complesso di Championnet 4. Casa dei Mosaici geometrici 5. Casa del Marinaio 6. Insula Occidentalis 7. Granai 8. Casa di Sirico 9. Casa dell’Orso ferito 10. Casa di Popidius Priscus 11. Casa dei Cornelii 12. Casa delle Pareti Rosse 13. Terme Repubblicane 14. Teatro

15. Casa del Criptoportico 16. Casa dei Ceii 17. Casa degli Amanti 18. F ullonica di Stephanus, Case di Paquius Proculus e di Fabius Amandus 19. C asa del Sacerdos Amandus 20. C asa dei Casti Amanti, Casa dei Pittori al lavoro 21. Casa del Frutteto 22. Domus della Nave Europa 23. Praedia di Giulia Felice 24. C asa della Venere in

conchiglia, Casa di Octavius Quartio 25. Quartiere di Porta Nocera 26. Anfiteatro 27. Palestra Grande 28. Casa del Fauno 29. Casa del Poeta tragico 30. Regio VI 31. Casa dei Vettii 32. Mura 33. Via dei Sepolcri 34. Villa di Diomede 35. Villa dei Misteri 36. Regio V, vicolo dei Balconi

37. Casa del Giardino 38. Casa di Orione 39. Affresco dei gladiatori 40. Termopolio 41. Leda e il cigno 42. Tomba di Gneo Nigidio Maio 43. Tomba di Marcus Venerius Secundio 44. Villa di Civita Giuliana 45. Fondo Iozzino 46. Laboratorio di Ricerche applicate 47. Schola Armaturarum

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ITINERARI DI VISITA

I

l Grande Progetto Pompei (vedi box a p. 12) ha permesso di restituire al pubblico settori urbani, strade ed edifici pubblici e privati in precedenza parzialmente chiusi o del tutto inaccessibili, attualmente aperti a rotazione per motivi di tutela e di personale. Il lavoro svolto dal 2014 a oggi offre pertanto una nuova esperienza di visita alla città antica, in parte sconosciuta, tradotta in una maggiore conoscenza della storia e della vita quotidiana pompeiana, illuminata da nuovi scavi

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archeologici in parte resi da subito fruibili, come un tratto del quartiere della Regio V. Seguiremo pertanto un itinerario speciale e inedito di Pompei, collegato alle principali novità emerse negli ultimi anni grazie ai recenti lavori e a specifici studi condotti sulla ricca documentazione emersa dalle coltri vulcaniche che hanno sepolto la città. Questa ideale passeggiata pompeiana non può che partire dal nuovo Antiquarium degli Scavi, presso gli ingressi di Porta Marina e di

In basso, sulle due pagine una sala dell’Antiquarium nella quale sono riuniti alcuni calchi di vittime dell’eruzione.


A destra l’ingresso dell’Antiquarium, spazio museale nel quale sono riuniti reperti che illustrano le varie fasi di vita della città di Pompei.

Piazza Esedra, tornato alla sua vocazione originale di museo della città e di luogo introduttivo alla visita degli scavi.

Antiquarium 1. L’allestimento dell’Antiquarium è ispirato alle atmosfere pensate da Amedeo Maiuri, direttore degli scavi per molti decenni a cavallo della seconda guerra mondiale, che accompagnano il visitatore nello sviluppo storico e topografico della città. Realizzato tra il 1873 e il 1874 dall’allora direttore Giuseppe Fiorelli nella zona sottostante la terrazza del Tempio di Venere, accanto a Porta Marina, l’Antiquarium ha visto un primo aggiornamento nel 1926, per essere poi drammaticamente colpito dai bombardamenti alleati del settembre 1943, che causarono la distruzione di una sala e la perdita di molti reperti conservati. È stato quindi ricostruito e ampliato nel 1948 da Maiuri, in occasione delle celebrazioni del secondo centenario della scoperta del sito archeologico. E piú tardi nuovamente l’oblio, con la lunga chiusura nel 1980 a causa del terremoto, fino alla riapertura in tempi recenti, dopo ben 36 anni di attesa. Una tormentata vicenda quella del principale contenitore pompeiano, che oggi recupera la sua immagine di spazio espositivo interamente dedicato alla città. Con la sua ampia e scenografica terrazza appoggiata alle mura occidentali e alla sottostante Villa Imperiale, torna a offrire un suggestivo spaccato introduttivo sulle vicende di Pompei, aggiornato

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ITINERARI DI VISITA

alle ultime scoperte: dalle origini arcaiche fino all’eruzione del 79 d.C., con uno sguardo sempre attento alle inscindibili relazioni con Roma, ma anche alla sua immortalità, grazie al lavoro di riscoperta che dal 1748 continua a meravigliare archeologi e visitatori. Curato da Massimo Osanna, Fabrizio Pesando e Luana Toniolo, l’Antiquarium è concepito come porta di accesso alla città antica, dove trovare tutte le informazioni necessarie per un corretto inquadramento storico-archeologico e un orientamento alla visita agli scavi. Dall’ingresso monumentale aperto sulla terrazza, si accede a una serie di sezioni espositive snodate lungo le sale che offrono approfondimenti sui grandi momenti della città antica. Prima di Roma, Roma vs Pompei, Pompeis difficile est, Tota Italia, Hic habitat felicitas, A fundamentis reficere, L’ultimo giorno sono le grandi sezioni che

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offrono una rilettura aggiornata di Pompei, mantenendo sempre viva la tradizione espositiva dell’Antiquarium, attraverso allestimenti luminosi e il recupero di vetrine degli anni Cinquanta del Novecento.

Le parole di Goethe L’esposizione si apre però con Summa Pompeiana, uno spaccato introduttivo segnato da una selezione di pezzi iconici che ritraggono le principali tappe della scoperta del sito, e i protagonisti di questa straordinaria stagione. La violenta distruzione di Pompei dona per la prima volta al mondo una dimensione reale e quotidiana di una città romana, inattesa per tutti, riassunta da Goethe nel 1786 con una delle piú felici definizioni della città antica: «Molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità. Credo sia difficile vedere

Fregi floreali in terracotta con divinità ed eroti, dall’Insula Occidentalis. Seconda metà del II sec. a.C.


In basso particolare di una lastra in terracotta raffigurante una Nereide che cavalca un ippocampo.

qualcosa di piú interessante». La visita segue poi le tappe evolutive del centro, la prima dedicata a Pompei Prima di Roma. Il «secolo oscuro» rimanda alla fase formativa, nel pieno dell’età arcaica (VI secolo a.C.), quando Pompei si trasforma da villaggio protourbano a città ispirata dalle esperienze urbane etrusche, ma allo stesso tempo fortemente stimolata da spinte innovative greche provenienti dalla colonia di Cuma, vero faro culturale attorno al golfo di Napoli. A Pompei si pianifica un impianto regolare, con aree pubbliche e importanti santuari, come quello di Apollo, vicino al Foro, e di Atena, presso il Foro Triangolare; inoltre, si innalza una cinta muraria di oltre tre chilometri di lunghezza. Dopo la crisi del V secolo a.C., che investe

molte città campane, segue la fase di vita sannitica, frutto dei sommovimenti italici che riguardano gran parte del Mezzogiorno interno; le tombe sannitiche del IV secolo a.C., trovate nell’area della necropoli fuori Porta Ercolano, con i corredi riferibili alla pratica del banchetto rituale, gettano luce su questa fase ancora impenetrabile. Poi l’alleanza con Roma, tramite trattati, e lo storico Livio che per la prima volta ricorda Pompei. L’ingresso fra le città federate coincide con una notevole attività edilizia, che si riflette nella ristrutturazione del Tempio Dorico del Foro Triangolare – testimoniato dalla metopa in tufo con l’episodio del supplizio del re Issione legato da Zeus a una ruota in perpetuo movimento, e da lastre in terracotta

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L’AFFRESCO

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periodo il piú famoso porto dell’Egeo e crocevia globale di genti e di merci. Una serie di oggetti testimonia l’arrivo di merci dall’Oriente e dall’Occidente, scambiate con rinomati prodotti locali, come il vino e il garum: fra questi spiccano vasi e coppe da banchetto di produzione egea, contenitori di provenienza iberica e un gran numero di anfore rodie e puniche. L’«immagine di Roma» è sempre piú presente percorrendo le vie della città, lungo le quali si affacciano grandi case, talvolta a sfiorare persino il lusso di quelle di Roma. Gli ingressi sono spesso segnalati da alti portali, con ricchi capitelli scolpiti in tufo, come quello esposto dalla Casa dei Capitelli figurati con coppie di sposi fra menadi e satiri, raffiguranti all’esterno la trasfigurazione dei proprietari nella perfetta coppia maritale.

Un legame indissolubile

In alto affresco di Venere pompeiana con erote dalla Taberna delle Quattro divinità. Qui sopra affresco raffigurante Venere su una quadriga tirata da elefanti, dall’Officina dei Feltrai. I sec. d.C. Nella pagina accanto efebo in bronzo portalucerna, dalla Casa di Marco Fabio Rufo.

raffiguranti Minerva ed Ercole – e in una rinata attenzione al culto di Apollo e, nondimeno, nella definizione di un nuovo circuito murario munito di aggere, riutilizzato piú tardi dai Romani. Dai primi decenni del III secolo a.C. inizia a svilupparsi la Pompei che tutti conosciamo, con le sue strade, i suoi edifici pubblici e le sue abitazioni. Il «secolo d’oro» è il II a.C., quando il centro vede il rinnovamento dei propri monumenti e la nascita di nuovi edifici, dal teatro alla palestra, dalle terme ai mercati. In particolare, l’attività dei mercanti pompeiani nel Mediterraneo è nota fin dal II secolo a.C., documentata da iscrizioni di cittadini presenti a Delo, in questo

Dopo la parte preromana, nelle successive sale si sviluppano le sezioni dedicate alla città, illustrate da una selezione di opere provenienti dai depositi e dagli scavi recenti della Regio V. Roma vs Pompei focalizza l’indissolubile legame del centro vesuviano con l’Urbe, a partire dalla sanguinosa guerra sociale, con Pompei e gli alleati italici contrapposti a Roma, fino alla conquista di Silla nell’89 a.C. Iscrizioni in lingua osca documentano eccezionalmente la difesa pompeiana delle mura, con le milizie scelte lungo i diversi settori e gli ausiliari raggruppati presso le principali aree pubbliche e le strade, fra le quali si citano la víu sarinu (via Salaria) e la víu mefíu (via Mediana). La creazione della colonia di veterani sillani nell’80 a.C., Cornelia Veneria Pompeianorum, mutò completamente l’orientamento politico e sociale della città. La classe dirigente sannitica fu scalzata dai nuovi arrivati e Pompei assunse sempre piú l’aspetto di città romana, grazie a una rioganizzazione planimetrica e alla costruzione di edifici allora in voga, come il piccolo teatro per le rappresentazioni musicali (Odeion) e l’anfiteatro. Lungo le strade che uscivano dalle porte urbiche furono create necropoli monumentali, ispirate a quelle di

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ITINERARI DI VISITA

Roma, e il suburbio fu popolato da ville aristocratiche (su tutte quelle di Diomede, dei Misteri e di Civita Giuliana) e da una moltitudine di fattorie simili a Villa Regina di Boscoreale. La Pompei augustea, organicamente inserita nel progetto politico unificante dell’Italia, la Tota Italia, manifesta la sua piena identità nel Foro civile, con monumenti rappresentativi del potere politico e religioso e, sul lato orientale, edifici commissionati da magistrati e da potenti personaggi locali, come la sacerdotessa Eumachia. Altri importanti interventi edilizi sono la Palestra Grande, per la formazione fisica e culturale della gioventú, l’ammodernamento del teatro, come spazio ludico-sacrale curato dall’architetto M. Artorius Primus, e il Tempio di Venere, pensato come luogo celebrativo delle origini della gens Iulia.

Il rapporto con la corte imperiale Un’altra sezione (Hic habitat felicitas) è dedicata al benessere e al rapporto privilegiato con la corte imperiale di età giulio-claudia, in particolare sotto Tiberio e Nerone, ma anche con Caligola, per aver forse ospitato una delle sue mogli, e con Claudio, un cui figlio, secondo Svetonio, trovò qui la morte in un tragico gioco infantile. Le domus dell’aristocrazia e dei nuovi ricchi mostrano nell’organizzazione architettonica, nelle decorazioni e negli arredi un gusto raffinato, di sapore ellenico, esotico e talvolta antiquario, una ricercatezza e

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un’esibizione del lusso che testimoniano un ampio benessere socio-economico. Tra gli affreschi esposti quelli di «giardino» della Casa del Bracciale d’oro e del triclinio della Casa del Menandro, appartenuta a un ramo della famiglia di Poppea Sabina, moglie di Nerone, e il prezioso tesoro di argenti trovato a Moregine, sulla strada che univa Pompei a Stabiae. I recenti scavi nella Regio V hanno restituito altri reperti significativi, fra cui frammenti di stucco in I stile dell’ingresso (fauces) della Casa di Orione e il ricco gruppo di amuleti della Casa con Giardino. A fundamentis reficere illustra invece la fine del mondo «dorato» della prima età imperiale, segnata da una calamità che colpí duramente la città, il terremoto del 62 d.C., forse un lungo sciame sismico che trova riscontri drammatici nei rilievi della Casa di Cecilio Giocondo, dove appaiono alcuni monumenti del Foro sconquassati dal sisma. Per l’enorme e lungo lavoro di ricostruzione non potevano essere sufficienti le officine locali di muratori (structores) o di pittori (pictores), quindi dovettero intervenire imprese specializzate provenienti da altre zone campane, composte da schiavi, lavoratori salariati, architetti, muratori, decoratori. Si trattava di ospitare in città tutte queste maestranze e di adattare i servizi necessari alle loro esigenze: una città-cantiere, con locande, ristori, alloggi e postriboli dedicati. È questa l’immagine archeologica della Pompei che visitiamo oggi.

In alto un’altra immagine dell’allestimento dell’Antiquarium. Nella pagina accanto affresco raffigurante Dionisio e Arianna a Nasso, dalla Casa del Bracciale d’oro.


storia di una città e della sua riscoperta Fine VII-inizio VI secolo a.C. Fondazione di Pompei a seguito dell’aggregazione di villaggi degli Opici, una popolazione indigena ricordata dagli storici antichi, sotto la guida di gruppi etruschi. Già nel primo quarto del VI secolo a.C. l’impianto urbano è strutturato e organizzato, con una cinta muraria e due santuari urbani, uno dedicato ad Apollo e uno ad Atena, elementi cardine della città per tutta la sua storia. IV secolo a.C. Dopo la crisi che interessa la città nel V secolo a.C., Pompei è ripopolata da nuove genti, i Sanniti, scesi dai monti dell’Irpinia e del Sannio. Comincia un nuovo processo di urbanizzazione, che culminerà nel II secolo a.C., con la progressiva occupazione dello spazio entro le mura cittadine e la costruzione di grandi dimore. II secolo a.C. Il «secolo d’oro» di Pompei vede la riorganizzazione degli spazi sacri e pubblici della città e una vivacissima attività commerciale su scala mediterranea, grazie alla produzione vinaria. 80 a.C. Pompei diventa colonia romana con il nome di Veneria Cornelia Pompeianorum. Dopo i disastrosi esiti della prima guerra civile romana, durante la quale Pompei si era schierata dalla parte di Silla, in città sono stanziati come coloni non meno di 2000 capifamiglia, veterani dell’esercito di Silla.

seguito di questo evento, il Senato romano, con un senatusconsultum, proibí i giochi gladiatori per dieci anni e le famiglie responsabili vennero esiliate dalla città. 62 d.C. Pompei è colpita da un terremoto disastroso. Al sisma segue una massiccia opera di restauro dei monumenti pubblici e delle case. 79 d.C. Il 24 agosto o il 24 ottobre, secondo le nuove scoperte, Pompei è sepolta da una tremenda eruzione. L’evento esplosivo è il primo descritto da un contemporaneo: è stato possibile, infatti, ricostruire la storia di questa catastrofe grazie alle lettere scritte da Plinio il Giovane allo storico Tacito, che gli chiedeva notizie sulla morte dello zio Plinio il Vecchio, avvenuta durante l’eruzione. 1748 Inizio ufficiale degli scavi di Pompei promossi dal re Carlo III di Borbone, un decennio dopo Ercolano. 1807 Sotto la dominazione francese di Gioacchino e Carolina Murat, cominciano le prime indagini estensive, con l’elaborazione di un vero piano di scavo, che permette di

comprendere l’estensione della città, riportando alla luce l’intero circuito murario. 1863 Giuseppe Fiorelli, nominato direttore degli scavi di Pompei dopo l’unità d’Italia, apre al pubblico il sito, istituendo un regolare biglietto, realizza i primi calchi delle vittime e suddivide la città in insulae e regiones. 1911-1923 Vittorio Spinazzola, soprintendente dal 1911 al 1923, scava l’intera Via dell’Abbondanza, riuscendo a mettere in luce e a conservare le parti superiori degli edifici, portando cosí a una nuova visione dell’edilizia pompeiana. 1924-1961 Amedeo Maiuri, soprintendente dal 1924 al 1961, imprime alla città la sua immagine attuale con grandi scavi e interventi volti a migliorarne la fruizione. Riporta alla luce gli edifici a sud di Via dell’Abbondanza, come la Casa del Menandro (1928-1934) e completa lo scavo della Villa dei Misteri (1929-1930) con il fregio dionisiaco, uno dei piú famosi affreschi del mondo antico. Amplia e migliora l’allestimento dell’Antiquarium; fa realizzaere nuovi ingressi; ripiantuma i giardini antichi e dota i

principali monumenti dell’illuminazione notturna. 1943 Tra l’agosto e il settembre 1943 Pompei è colpita da circa 150 bombe sganciate dagli Alleati. Gli ordigni distruggono una sala dell’Antiquarium, con la perdita di circa 1000 reperti, e colpiscono pesantemente varie case, tra cui la Casa del Criptoportico, la Casa di Trebio Valente e la Schola Armaturarum. 1997 Pompei è iscritta nella Lista del Patrimonio UNESCO. 2014 Partenza del Grande Progetto Pompei, avviato nel 2012 a seguito del crollo della Schola Armaturarum il 6 novembre del 2010. L’iniziativa del Governo italiano, finanziata con fondi nazionali ed europei, ha permesso sistematici interventi di messa in sicurezza del sito, affiancati da un ambizioso programma generale, articolato in sei piani (sicurezza, opere, conoscenza, capacity building, comunicazione, fruizione), che ha interessato tutti gli aspetti cruciali di Pompei, dalla conservazione alla valorizzazione. (testi tratti da Timeline, pannello dell’Antiquatium)

59 d.C. Durante uno spettacolo di giochi gladiatori nell’anfiteatro si scatena una violentissima rissa tra Pompeiani e Nocerini, in cui i secondi hanno la peggio. Lo storico Tacito racconta come, a

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ITINERARI DI VISITA villa imperiale Infine L’Ultimo giorno, il 24 agosto o piú probabilmente il 24 ottobre del 79 d.C., come suggeriscono recenti scoperte: sappiamo che i Pompeiani tentarono di ripararsi nelle case dalla massiccia pioggia di lapilli, finché la mattina successiva la scarica violentissima di gas tossico devastò completamente città e territorio, e le speranze dei sopravvissuti. La caduta di cenere finissima, depositata per uno spessore di 6 m circa, aderí alle forme dei corpi umani e alle pieghe delle vesti, cosí come dimostrano i recenti calchi delle vittime dalla villa di Civita Giuliana.

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In basso, sulle due pagine il grande salone (oecus) della Villa Imperiale e, qui sotto, un particolare della sua decorazione ad affresco raffigurante Teseo che risale sulla sua nave e abbandona Arianna sulla spiaggia di Nasso.

2.

Conservata proprio sotto l’Antiquarium, la Villa Imperiale offre un’esperienza di visita immersiva nella vita di una casa signorile pompeiana, nell’ambito del circuito del «museo diffuso» che unisce diversi luoghi connessi al tema della quotidianità. Con la crescita del centro in età giulio-claudia (fine I secolo a.C.prima metà I secolo d.C.), il lato occidentale della cinta muraria cittadina, quello piú scenografico e apprezzato perché fronteggiava direttamente la marina, vede la progressiva acquisizione degli spazi pomeriali – i terreni sacri e liberi che correvano lungo le mura della città – necessari ora alla realizzazione di infrastrutture e allo sviluppo architettonico di lussuose abitazioni con l’aggiunta di terrazze e piani ricavati nei bastioni. Si creano cosí nuove soluzioni di dimore, sul modello della casapalazzo sulle mura, con l’aggiunta di eleganti portici e giardini affacciati sul golfo di Stabiae. Dopo il bombardamento che nel 1943 colpí l’Antiquarium, Amedeo Maiuri avviò importanti lavori di ricostruzione e di ampliamento della struttura espositiva. Questi furono anche


l’occasione per esplorare archeologicamente i livelli sottostanti l’edificio: e vennero subito alla luce i resti dell’esteso complesso residenziale – già intercettato dagli scavi borbonici – distrutto dal terremoto del 62 a.C. e in seguito abbandonato e spoliato fino alla fatale eruzione vesuviana. Appoggiata alle mura su piú livelli digradanti, la dimora è caratterizzata all’esterno da un lungo portico ornato in III stile pompeiano (quadretti di paesaggio e figurine di eroi e dèi) e antistante giardino, aspetto che precedeva le sale interne sull’esempio delle ville ad ambulatio (a portico aperto) dell’area flegrea (Baia, Miseno) e di Capri (Villa Jovis). I primi ambienti della casa erano distinti da una straordinaria vista panoramica e da una raffinata decorazione dipinta di III e IV stile e pavimentale in intarsi marmorei (opus sectile). Colpisce la presenza del grande salone voltato a cassettoni – un oecus per rappresentanza o all’evenienza una ricercata sala da pranzo – con anticamera e corridoi laterali, dalle dimensioni insolite per Pompei. L’ambiente affrescato è dominato al centro delle pareti, fra complessa

In basso un altro particolare degli affreschi dell’oecus della Villa Imperiale raffigurante il volo di Dedalo e Icaro.

zoccolatura e pennellature laterali dominate dal rosso e suddivise da esili elementi architettonici, da tre grandi riquadri con scene tratte dal «mito cretese»: a sinistra Teseo che abbandona Arianna sulla spiaggia di Nasso, sullo sfondo si vede la prua d’una nave; al centro Teseo e il Minotauro, con la dea Atena a guardare; a destra, invece, il momento piú drammatico della storia di Dedalo in volo, con il figlio Icaro che precipita per essersi avvicinato troppo al sole. Le riproduzioni del salone, oltre a rivelare la grande qualità delle maestranze impegnate nella decorazione, con l’ultima

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ITINERARI DI VISITA

scena vicina al modello ellenistico, denotano il gusto dei committenti e la loro sensibilità per la cultura greca dilagante nella prima età imperiale. Una conferma è data anche dalla presenza, nel quadro di Dedalo e Icaro, di didascalie scritte in greco. Accanto al salone troviamo una camera da riposo diurna (diaeta, caratteristica dei soggiorni estivi) con due ariose finestre e letto sopraelevato sotto una volta a botte; le pareti qui sono dipinte con pannelli in bianco marmoreo fra eleganti architetture con vari elementi, come tettoie, candelabri con funzione di colonne, una campanella in oro e argento, gemme inserite nelle cornici. Nella nicchia dell’alcova si trovano invece varie immagini, fra cui il mito di Meleagro, Atalanta e la contesa sulla caccia al cinghiale calidonio. Un breve corridoio immette poi a un accurato triclinio che si apriva sul peristilio interno della casa. La villa era dotata inoltre di un complesso di cisterne in opera reticolata, situato proprio sotto l’Antiquarium e da questo in parte ancora visibile, funzionale alla residenza e allo smaltimento delle acque provenienti

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Nella pagina accanto il triclinio della Villa Imperiale. In basso veduta della Villa Imperiale che evidenzia la sua posizione, immediatamente sotto l’Antiquarium.

dall’adiacente terrazza del Tempio di Venere. Il complesso residenziale è stato aperto al pubblico in occasione dell’inaugurazione dei lavori dell’Antiquarium (2016), con il quale si collega tramite un organico percorso di visita. La Villa Imperiale costituisce un punto focale del «museo diffuso» di Pompei, mettendo in mostra signorili ambienti domestici con arredi e oggetti della quotidianità, dai triclini ai bracieri fino alle ricercate stoviglie.

complesso di championnet

3.

Rimanendo nella Regio VIII, la piú meridionale della città, ci spostiamo a sud del Foro, alla scoperta di un altro contesto privato restituito alla fruizione pubblica. Il complesso di Championnet, finora poco noto, comprende un insieme di edifici residenziali elegantemente disposti a terrazza sul margine sud-occidentale del pianoro cittadino. Il gruppo di costruzioni prende nome dal generale francese Jean-Étienne Championnet, promotore, nel 1799, della Repubblica partenopea e grande appassionato alle scoperte pompeiane, a tal


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ITINERARI DI VISITA

punto di avviare scavi nel settore meridionale della città dove vennero scoperte due case a lui intitolate. La casa Championnet I, disposta su due livelli, ha un atrio con impluvium (bacino per la raccolta dell’acqua piovana) in marmo e resti di tre delle quattro colonne che sostenevano il compluvium (apertura spiovente nel tetto, fonte di luce e aria): tanto nell’atrio quanto nei cubicoli circostanti sono ben conservati mosaici pavimentali di elevata qualità, a schemi geometrici e a tessere colorate; completava la casa il giardino attorniato da colonne. Championnet II è stata invece scoperta piú tardi e ha il tipico schema delle case romane, atrio con impluvio e giardino con peristilio che correva su tutti i lati e di cui rimangono le basi delle colonne. Posizionato sul dislivello che scende dal Foro al ciglio del pianoro, il nucleo di Championnet presenta alcuni aspetti edilizi singolari, determinati proprio dalla sequenza di terrazze con affacci panoramici sulla piana del Sarno. L’origine delle case risale al II secolo a.C., ma in seguito queste vennero piú volte rimaneggiate fino alla formazione di grandi residenze a piú atri e peristili, finemente decorate a mosaico, ad affresco e a stucco. Il cantiere di restauro del Grande Progetto è stato qui concepito come un laboratorio multidisciplinare, in cui diverse professionalità si sono

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quotidianamente confrontate sui diversi aspetti degli interventi. È stato necessario approfondire il quadro conoscitivo dell’area mediante indagini strumentali, rilievi architettonici e scavi stratigrafici propedeutici ai restauri. Le indagini archeologiche hanno fornito dati interessanti e in parte inaspettati: innanzitutto la scoperta, molto prima delle case, di una serie di botteghe artigianali di età arcaica (VI secolo a.C.), quando Pompei sembrerebbe manifestare, anche alla luce dei recenti ritrovamenti nel santuario extraurbano di Fondo Iozzino, una significativa etruschizzazione del centro. Saggi hanno riguardato anche il Cortile delle Murene, un ampio giardino con vasca per la piscicoltura e peristilio realizzato in età post-sismica sopra edifici piú antichi, utilizzato per raccordare il complesso residenziale dei Mosaici Geometrici con la casa Championnet II.


In alto pavimento del triclinio della casa di Championnet I con tessellato bicromo. Nella pagina accanto, in basso il peristilio della casa di Championnet II, affacciato sulla valle del Sarno. In basso pavimento di un cubiculum della casa di Championnet I con emblema stellato.

La posizione dell’area di Championnet spiega l’attenzione riservata a questo settore urbano: si tratta, infatti, di una zona di particolare interesse sia per la sua vicinanza alla principale piazza cittadina, fulcro della vita civile, religiosa ed economica, sia per la caratteristica degli edifici abitativi «a terrazza» che insistevano sul ciglio del pianoro, un esempio singolare di edilizia pompeiana che ritroveremo anche nella cosiddetta Insula Occidentalis. La formazione delle residenze sul pendio – ben visibili dall’ingresso al Parco di piazza Esedra – avviene dopo la fondazione della colonia (80 a.C.), quando la cinta sannitica perde la sua funzione difensiva e concede spazi a nuove costruzioni civili. Le residenze si adattano, addossandosi alle mura urbane, alla natura scoscesa del ciglio pompeiano, mediante potenti sostruzioni e massicci sbancamenti. Gli interventi si estendono fin quasi ai piedi della rupe, con la progressiva aggregazione di terrazze e loggiati con vista panoramica.

Casa dei Mosaici Geometrici 4. La campagna di restauri ha restituito altre interessanti domus situate sempre in questo settore meridionale della città, grazie alle quali si amplia la possibilità di conoscere nuovi e interessanti aspetti del vivere negli spazi domestici pompeiani. Adiacente al complesso di Championnet, alle spalle degli edifici pubblici che si affacciano sul lato meridionale del Foro, si trova un settore residenziale ampiamente ristrutturato nell’antichità. Con accesso da Via delle Scuole, si entra nella Casa dei Mosaici Geometrici, fra le piú grandi della città, frutto dell’unione di due abitazioni ad atrio piú antiche (del III-II secolo a.C.): l’edificio si presenta come tipica abitazione romana impostata all’inizio su un ampio atrio e tablino, per poi essere ampliata con un arioso peristilio che, nell’ultima fase di vita, si estende fino a confinare con gli edifici municipali del Foro, in particolare il Tabularium (l’archivio pubblico). Profondamente rinnovata dopo il terremoto del 62 d.C., con il rifacimento della facciata e

dell’atrio in opera laterizia e specchiature in opera reticolata, la residenza, con i suoi oltre 60 ambienti estesi su una superficie di circa 3000 mq, è scenograficamente articolata su due livelli di terrazze affacciati sul ciglio del pianoro. Dal punto di vista decorativo, la costruzione è qualificata da un ricco ed elegante pavimento musivo di età giulioclaudia, che si estende dal vestibolo alle ali della casa, costituito da mosaici a tessere bianche e nere con accurati motivi a labirinto e a scacchiera. Al Museo Archeologico Nazionale di Napoli sono conservati due bellissimi mosaici staccati da questa casa, il primo con scena marina dominata da una lotta fra polpo e aragosta, il secondo con il ratto delle Leucippidi da parte dei Dioscuri. Al momento dell’eruzione, molte stanze della casa erano rivestite da un semplice intonaco e mostrano numerosi fori da scaffalature: considerata la vicinanza del Tabularium, all’epoca ancora in restauro e al quale la dimora era collegata, si è pensato che almeno parte dell’archivio cittadino fosse stato provvisoriamente sistemato in questo edifico privato.

casa del marinaio

5.

Per conoscere altre residenze restituite alle visite e meno conosciute, occorre spostarsi nell’adiacente Regio VII, sul lato occidentale della città. Un’elegante abitazione-panificio si trova in quello stretto lembo di quartiere compreso, a ridosso di Porta Marina, fra le mura occidentali e il Foro civile. La costruzione,

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ITINERARI DI VISITA

fra le meno note, è stata restaurata e resa fruibile con il Grande Progetto Pompei. Dopo il complesso di Championnet, la Casa del Marinaio – cosí chiamata dal mosaico della soglia d’ingresso con navi ormeggiate negli arsenali, possibile allusione alla tranquillità offerta dall’abitazione ai suoi abitanti oppure all’attività di armatore svolta dal suo facoltoso signore – si distingue per alcuni interessanti elementi funzionali e decorativi. L’edificio ha i caratteri tipici di una tradizionale casa di città e, come tanti altri edifici residenziali pompeiani, il suo primo impianto risale all’età tardo-sannitica (fine del II secolo a.C.). La costruzione della dimora richiese un grande impegno edilizio, dal momento che fu necessario livellare il terreno per la presenza di un forte dislivello che segnava questo settore adiacente al margine occidentale del pianoro urbano. L’andamento del terreno era infatti sensibilmente scosceso e venne pertanto adottata una soluzione particolare: la casa poggia su due diverse superfici, a sud su un alto terrazzamento riempito artificialmente e ben livellato; a nord, invece di riportare un enorme quantitativo di terreno, si imposta su una serie di ambienti voltati semi-ipogei

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Nella pagina accanto, in alto lastra di marmo dipinta raffigurante Niobe che stringe fra le braccia la figlia piú giovane colpita da un dardo, dall’oecus-triclinio invernale della Casa del Marinaio. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso l’impluvium con il pozzo della Casa del Marinaio. Nella pagina accanto, in basso il forno situato al livello inferiore della Casa del Marinaio, adibito a panificio.

accessibili da un vicolo che fiancheggia l’edificio. Al di sotto si è cosí creato un ampio quartiere sotterraneo a carattere commerciale e produttivo, evidentemente controllato o gestito dai proprietari della sovrastante casa. Si tratta di una configurazione architettonica e funzionale praticamente unica nel panorama pompeiano, destinata a coniugare le bellezze di una tipica domus urbana con la praticità di un laboratorio artigianale.

Una dimora dai caratteri signorili La casa si rivela signorile nella sua articolazione planimetrica, organizzata attorno a un atrio tuscanico monumentale decorato in III stile; l’impluvium rettangolare, in tufo di Nocera sapientemente modanato, era dotato di un pozzo in marmo sul quale sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalla corda legata al secchio con cui veniva attinta l’acqua. La sala piú interessante è l’oecus, utilizzato come triclinio invernale, posto subito a est dell’ingresso alla casa; pavimentato in cocciopesto, l’ambiente era fornito di due alte finestre collegate, attraverso le canne fumarie interne al muro, a feritoie utilizzate per


l’areazione della stanza. Durante il I secolo a.C. l’edificio venne ampliato a est con una nuova ala destinata a ospitare un piccolo impianto termale privato, mentre nell’ultima fase di vita dell’edificio gli spazi del livello inferiore vennero riconvertiti a panificio con annessi magazzini (horrea); inoltre, a ovest della casa, venne ricavato un secondo atrio per accedere al settore servile a servizio della proprietà. Degna di nota è la lastra di marmo dipinta, originariamente posta nell’oecus-triclinio invernale e oggi conservata al Museo Archeologico di Napoli, con Niobe che stringe fra le braccia la figlia piú giovane colpita da un dardo; proprio in omaggio a questo straordinario reperto, l’allora direttore Fiorelli denominò l’intero quartiere «Isola di Niobe». L’eleganza dell’architettura e dell’apparato decorativo della domus rivela il rango elevato del proprietario, forse identificabile, nell’ultimo periodo, con C. Lollius Fuscus, che concorse come edile nel 78 d.C. È verosimile che la creazione di un panificio all’interno dei magazzini si sia resa necessaria in seguito alle difficili condizioni di vita postterremoto, come testimoniano, nello stesso periodo, tanti altri impianti produttivi simili installati in città. L’ambiente destinato alla lavorazione del pane mostrava una serie di mensole sulle pareti per la lievitazione dell’impasto; sul muro nord si apriva un passavivande con anta scorrevole connesso direttamente con il piano del forno, in modo da facilitare il passaggio dei pani messi a lievitare nel laboratorio, dove si conservavano due grandi recipienti di pietra per mescolare e impastare il pane. Le indagini archeologiche hanno permesso l’individuazione di un forno piú antico di dimensioni minori, a uso probabilmente privato, danneggiato dal sisma del 62 d.C. e in seguito abbandonato e sigillato. Poco si conosce sul granaio privato, che doveva comunque rispondere a esigenze di accessibilità per il carico e scarico con carri e animali al pari di horrea pubblici piú grandi. Il panificio della Casa del Marinaio era situato in

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ITINERARI DI VISITA

un’ottima posizione per la vendita, in prossimità di Porta Marina e dei mercati del Foro. I due piani della casa, residenziale e produttivo, sono stati raccordati mediante un ampio giardino fortemente incassato, situato nell’angolo nord-ovest. Al suo interno fu allestita, dagli inizi del Novecento, una ricca collezione di anfore ritrovate in diversi punti di Pompei, purtroppo andata distrutta in seguito al bombardamento del 1943. Del drammatico evento resta il ricordo in un cumulo di cocci raccolto all’interno del cratere di una delle bombe che colpirono la costruzione.

Insula Occidentalis 6. Risalendo a nord il Vicolo del Farmacista, troviano un originale complesso che attesta una forma dell’abitare in case lussuose in uno dei settori residenziali piú ricercati della città: l’Insula Occidentalis. La grandiosa Insula è formata da un’aggregazione di «ville urbane» affacciate sulla cinta occidentale – case della

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In alto l’affresco proveniente dal triclinio della Casa del Bracciale d’oro raffigurante le Nozze di Alessandro e Rossane (o Statira, figlia del re persiano Dario III), oggi esposto nell’Antiquarium.

Biblioteca, del Bracciale d’oro, di Fabio Rufo, di Castricio, di Umbricio Scauro – e scenograficamente organizzate su ampie terrazze panoramiche digradanti verso la marina. Queste costruzioni offrono al visitatore un’emblematica testimonianza del gusto romano di vivere in dimore ispirate al modello della casa-palazzo sulle mura, di chiara tradizione ellenistico-orientale. Lo splendore delle case dell’Insula è esaltato da affreschi con colte rappresentazioni, ariose architetture e lussureggianti giardini, e ancora da vivaci mosaici pavimentali, oltre che da arredi alla moda e da pregiate suppellettili, in parte esposte nell’Antiquarium degli Scavi. La Casa del Bracciale d’Oro è certamente fra le piú ricercate, ove si poteva godere appieno il gusto del soggiornare, immersa, com’era, in una raffinata bellezza, fra pitture di III e IV stile con richiami letterari o vedute di spazi verdi, e mosaici pavimentali composti da marmi policromi provenienti da tutte le regioni dell’impero. La casa trae il suo nome da un


grande gioiello in oro del peso di 610 grammi indossato da una delle vittime, forse una matrona trovata con un bimbo ritto sul grembo, in fuga dall’eruzione: un bracciale caratterizzato, nella parte terminale, da due teste di serpente affrontate che reggono un disco con il busto della dea Selene (Luna). Un altro fuggiasco ritrovato nella casa portava invece con sé una cassettina in legno e bronzo che custodiva un tesoretto di 40 monete d’oro e 175 in argento. Fra queste è compreso il discusso denario dell’imperatore Tito, che, secondo un’ipotesi, si daterebbe non prima del settembre del 79 d.C., posticipando cosí di almeno un mese la tradizionale data dell’eruzione vesuviana del 24 agosto. La casa era dotata di un grande triclinio affrescato, esposto nell’Antiquarium, con le rappresentazioni

Qui sotto il monile che ha dato nome alla Casa del Bracciale d’Oro. In basso particolare di un affresco della Casa del Bracciale d’Oro con raffigurazioni di piante e uccelli.

delle Nozze di Alessandro e Rossane (o Statira, figlia del re persiano Dario III) e di Arianna e Dioniso a Nasso, temi evidentemente allusivi alle unioni matrimoniali felici. Nella stagione estiva i banchetti si svolgevano al piano inferiore della residenza, in un altro elegante triclinio, aperto su un ampio spazio verde rinfrescato dalle acque di un monumentale ninfeo, rivestito da mosaici policromi in pasta vitrea, conchiglie e schiuma di lava per suggerire l’idea di una grotta. La parete del triclinio estivo affrescata con una vivace veduta di giardino, è tra le migliori rappresentazioni di giardino fiorito di III stile. La cura dei dettagli con la quale è raffigurato lo spazio verde, genera un effetto realistico, che permette di riconoscere alcune specie di piante dell’epoca, oltre a vari uccelli che volteggiano o riposano sugli alberi.

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ITINERARI DI VISITA

A sinistra calchi di alcune delle vittime sorprese dall’eruzione nella Casa del Bracciale d’Oro. In basso, sulle due pagine un’immagine dei Granai, adattati a deposito dei materiali provenienti dagli scavi e ora compresi nel «museo diffuso» realizzato nel sito e dedicato al tema della vita quotidiana.

granai 7.

casa di sirico

Raggiungendo il lato occidentale del Foro civile, incontriamo i cosiddetti Granai – costruiti accanto al Tempio di Giove dopo il terremoto del 62 d.C. –, caratterizzati da ampie aperture separate da pilastri in laterizio, uno spazio destinato forse al mercato della frutta e della verdura; in posizione quindi contrapposta al Macellum, la struttura che era invece destinata alla vendita delle carni in genere. Già deposito degli scavi con Amedeo Maiuri, i Granai si sono ora trasformati, nell’ambito del «museo diffuso» di Pompei, in esposizione dedicata ai materiali della vita quotidiana e alle attività commerciali in città, organizzata attorno ai numerosissimi reperti di produzione seriale come vasellame in terracotta, fornelli per la cottura e tante anfore, i grandi contenitori utilizzati per trasportare olio, vino e salse di pesce provenienti da tutto il Mediterraneo.

Per osservare altre interessanti soluzioni abitative, occorre quindi inoltrarsi su Via dell’Abbondanza, fino al vicolo che conduce al Lupanare, poco prima delle Terme Stabiane. Dopo alcune botteghe, troviamo una grande e agiata abitazione, detta di Sirico, in quanto appartenuta verosimilmente, al momento dell’eruzione, a Publius Vedius Siricus, citato in un sigillo di bronzo trovato nel tablino. La casa è il risultato di un’aggregazione un po’ disorganica avvenuta alla fine del I secolo a.C. fra due precedenti abitazioni con atri distinti, l’una con accesso dal Vicolo del Lupanare, l’altra, corrispondente poi all’ingresso principale di Sirico, sull’affollata Via Stabiana, occupando cosí in senso est-ovest la parte centrale dell’insula. La domus è stata scavata nella seconda metà dell’Ottocento e, al momento dell’eruzione, l’intero edificio era in

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8.


A destra Casa di Sirico: pianta, prospetti di monili, portalucerna e pavimento con iscrizione SALVE LUCRU, disegno realizzato da Giuseppe Abbate per l’opera Le case ed i monumenti di Pompei di Fausto Niccolini. 1854-1896.

piena ristrutturazione, con lavori che riguardavano in primo luogo gli apparati decorativi secondo i canoni del IV stile. Alcuni ambienti del nucleo occidentale erano stati già completati, come la grande esedra destinata a ospitare banchetti con i letti conviviali disposti attorno a un pregiato pavimento a lastre marmoree (opus sectile), fra raffinati affreschi differenziati da quadretti centrali ispirati all’Iliade, che celebrano Eracle ebbro con Amorini (parete nord), Teti nell’officina di Efesto che assiste alla lavorazione delle armi di Achille (parete est) e la costruzione delle mura di Troia (parete ovest). La parte orientale, quella di accesso alla casa, è invece dominata da un elegante atrio tuscanico con impluvio marmoreo, fontana e una mensa in marmo sostenuta da

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due robusti trapezofori (sostegni di tavole in marmo). Nella domus furono rinvenuti gli scheletri di cinque individui. Il proprietario Sirico apparteneva a una agiata classe politica e commerciale pompeiana e riceveva, per la sua eminente posizione, sostenitori e avventori in casa, con la beneaugurante iscrizione – realizzata sul pavimento in cocciopesto dell’ingresso su Vicolo del Lupanare – SALVE LUCRUM, «Benvenuto guadagno!». L’iscrizione ha fatto pensare che una parte dell’abitazione fosse destinata alla trattazione degli affari commerciali di famiglia.

Casa dell’Orso Ferito

9.

Proseguendo sullo stesso vicolo, superato il Lupanare, si raggiunge l’incrocio con il Vicolo degli Augustali, sul quale affaccia la piccola Casa dell’Orso Ferito, nome derivante dal bel mosaico situato proprio all’ingresso e che rappresenta l’apotropaica figura dell’orso con la

scritta di saluto HAVE. La casa è di livello sociale medio-alto e venne costruita solo alla metà del I secolo d.C., in uno spazio rimasto ancora libero fra altre due abitazioni. Nonostante la ristrettezza dell’area, venne creata una tipica casa ad atrio tuscanico con ambienti laterali, mentre l’elemento su cui converge l’attenzione della domus è la bella fontana a edicola posta in fondo al piccolo giardino, ornata a mosaico e molto in voga in età neroniana. L’intervento di restauro ha portato all’antico splendore sia i pavimenti con riquadri in opus sectile, di grande qualità, sia gli affreschi, considerati un raffinato esempio di pittura pompeiana di IV stile.

Casa di Popidius Priscus 10. Poco piú avanti, a giudicare dall’eleganza della grande dimora sul Vicolo del Panettiere, appartenuta alla famiglia di origine sannitica dei Popidii e nota come Casa di Popidius Priscus,

In alto particolare di una delle pitture della Casa dell’Orso ferito raffigurante un cinghiale e un molosso affrontati. A sinistra il mosaico posto all’ingresso della Casa dell’Orso ferito con l’immagine dell’animale e la scritta di saluto HAVE.

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A destra bassorilievo con un fallo benaugurante collocato alla porta del panificio di N. Popidius Priscus, con la scritta HIC HABITAT FELICITAS («Qui è di casa la felicità»).

produrre e distribuire pane doveva essere un vero e proprio business per alcuni pompeiani. Proprio accanto alla lussuosa casa, sull’angolo con Vicolo Storto, si trova un ampio panificio parzialmente a cielo aperto appartenuto probabilmente a N. Popidius Priscus, che lo gestiva attraverso un suo liberto. All’interno sono presenti un capiente forno a legna in opera cementizia, simile a uno attuale, e una serie di macine in pietra (quattro, piú una piccola) dura e porosa, capace di non contaminare la farina con frammenti litici particolarmente pericolosi per i denti al momento della masticazione. Durante la macinazione il grano veniva versato nel catillus e triturato dallo sfregamento dei due blocchi. Alcune macine di questo panificio recano addirittura inciso il marchio di fabbrica Hos(tili?), a sancire la qualità della macchina.

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ITINERARI DI VISITA

In questo panificio manca il banco di vendita: è probabile che si vendesse all’ingrosso o per mezzo di ambulanti a servizio del proprietario (libarii). Con piú di 80 pagnotte per infornata (quelle piú comuni erano conformate a spicchi, il moretum), questo era uno dei piú grandi e attivi forni della città. HIC HABITAT FELICITAS («Qui è di casa la felicità») si legge ai margini di un bassorilievo con un fallo benaugurante, collocato proprio alla porta del panificio. L’attività del forno si era rivelata estremamente redditizia per la famiglia che abitava nella dimora adiacente. D’altra parte, Popidio era un imprenditore ambizioso; oltre a vendere le sue pagnotte in città, da qualche tempo aveva

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preso a stampigliarle come vere opere d’arte ed esportarle fin nella vicina Nocera. Peraltro un suo collega concittadino, Paquio Proculo, a infornare e apporre il proprio sigillo su ogni pane, aveva fatto soldi a palate, tanto da essere nominato duoviro della città. E cosí ancora oggi, il profumo del pane appena sfornato sembra avvolgere i vicoli di questo quartiere.

Casa dei Cornelii

11.

Ritornati su Via dell’Abbondanza, quasi di fronte all’ingresso delle Terme Stabiane, si apre la Casa dei Cornelii, sul quadrivio degli Olconii, fra le prime residenze scoperte a Pompei (1766) ed

Sulle due pagine le macine installate nel panificio di Popidio Prisco. Alcune di esse recano inciso il marchio di fabbrica Hos(tili?), come nel caso dell’esemplare riprodotto alla pagina accanto.


dai chicchi di grano alle pagnotte

L

a produzione del pane dal II secolo a.C. esce progressivamente dall’ambito domestico, dove nasce a servizio della sola famiglia, per trasformarsi in proficua attività commerciale nel pistrinum (il panificio). A Pompei specifiche ricerche hanno focalizzato questi cambiamenti, documentando con attenzione le sistemazioni nel tempo degli spazi usati per la panificazione. Sono circa quaranta i panifici censiti in città, anche se mancano all’appello tutti i forni distrutti dal bombardamento del 1943. Grazie al lavoro degli studiosi, sono stati chiariti alcuni passaggi della catena panificatoria. L’operazione di umidificazione del grano prima della molitura, che permetteva di ottenere una farina piú bianca, malgrado una perdita di rendimento, sembra molto piú comune di quanto si pensasse. Delle macine, di cui si sono compresi l’usura e il funzionamento, sono state studiate le varie iscrizioni – incise o dipinte – presenti sui due elementi che le compongono: la meta conica inferiore (fissata a una base in muratura) e il catillus superiore a forma di clessidra che veniva fatto girare sulla meta con una robusta stanga in legno grazie alla spinta di un cavallo, di un asino o degli schiavi. Varie ipotesi sono state poi formulate sulla provenienza delle macine pompeiane in pietra lavica dal piú importante centro di produzione del I secolo d.C., Orvieto. Fino a poco tempo fa non si avevano tracce di altri metodi d’impasto diversi da quello meccanico: alcuni panifici hanno però rivelato buchi di palo che sono stati interpretati come impronte di un mobile ancorato sul pavimento con il quale si procedeva all’impasto manuale. La costruzione dei forni sottolinea invece la varietà delle tecniche adoperate: se lo schema generale rimane omogeneo, nel dettaglio ogni forno è un caso a parte, per via di un necessario adattamento alle situazioni preesistenti. Si è infine osservato che al momento della distruzione della città, molti dei laboratori di produzione del pane identificati non erano in funzione.

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estesamente indagata da Fiorelli a partire dal 1861. Sul finire dell’Ottocento, la domus era divenuta tappa fissa di ogni visita alla città, perché impreziosita nell’atrio tuscanico da un ricco arredo di sculture. Presso il tablino si trovava il busto-ritratto in marmo di un antenato illustre della famiglia, Caius Cornelius Rufus. L’abbellimento della domus, all’inizio dell’età imperiale, rispondeva al desiderio di nobilitazione dei suoi proprietari, che, a tal fine, predisposero un signorile assetto all’asse atrio-peristilio, curando in particolare l’apparato idrico e gli arredi decorativi, fra cui spiccavano pregevoli trapezofori (tavoli ornati) di fabbrica orientale. Il ricco apparato ornamentale dell’atrio, con i marmi lunensi e i mosaici in bianco e nero, e i nuovi intonaci dipinti post-terremoto in IV stile pompeiano, dovettero colpire notevolmente se diverse vedute ottocentesche di disegnatori e fotografi sono arrivate fino a noi: opere che oggi costituiscono testimonianze molto preziose per via del deperimento che la struttura ha subito nel tempo, circostanza che ne ha purtroppo comportato il progressivo oblio.

L’acqua come abbellimento La specificità della casa si ritrova nella sua parte posteriore, dove un bel peristilio è scandito da colonne in stile dorico che incorniciano un giardino con fontana. Lo sfruttamento idrico a scopi di abbellimento architettonico fu certamente un effetto della rinnovata disponibilità di acqua determinata dall’introduzione a Pompei dell’acquedotto di età augustea, attraverso il grande collettore di Porta Vesuvio. L’intera domus è infatti attraversata da un’articolata rete di tubature che alimentavano lo zampillo al centro dell’impluvium marmoreo, trasformato in una fontana regolata da una valvola posta sul bordo della vasca. Giochi d’acqua animavano invece il giardino interno, sia il bacino situato presso il viridario, sia il peristilio attraverso una decina di fontanelle ricavate nei fusti delle colonne; di queste rimangono i solchi che ospitavano le tubature e, in qualche caso,

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anche la fistula. Questi zampilli facevano quindi pendant con la fontana del giardino, e richiamavano anche lo sprizzo dell’atrio, in un suggestivo studio prospettico con l’armonica sequenza impluvio-peristilio.

Il peristilio che incornicia il giardino con fontana della Casa dei Cornelii.


Casa delle Pareti Rosse

12.

I toni accesi e dilatati del colore simbolo di Pompei hanno suggerito subito il suo nome. La Casa delle Pareti Rosse, rimasta per molto tempo inaccessibile, si trova nel quartiere

sud-occidentale della città compreso fra il tratto iniziale di Via dell’Abbondanza in uscita dal Foro e il ciglio meridionale del pianoro. Scavata fra il 1832 e il 1882, l’impianto dalle dimensioni ridotte risale all’età repubblicana,

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ITINERARI DI VISITA

In questa pagina, dall’alto la sala 13, la sala 14 e l’atrio della Casa delle Pareti Rosse.

quando la residenza fu realizzata forse all’indomani della conquista sillana per un esponente della nuova élite coloniale pompeiana. Al momento della sua scoperta si trovava in buona parte in rifacimento, in seguito ai gravi danni subiti dal terremoto, come dimostrano, per esempio, le pareti di alcuni ambienti appena intonacati ma non ancora dipinti, che prevedevano le linee in rosso a tracciare la ripartizione geometrica dei nuovi ornati. Le due stanze piú significative della casa sono la 13 e la 14, affacciate sul lato sinistro dell’atrio e utilizzate come soggiorni (oeci), fra le prime a essere completate nei lunghi lavori di ristrutturazione; entrambe accolgono una raffinata decorazione parietale in IV stile, costituita da pareti ravvivate dal brillante colore pompeiano. Nella prima delle due sale troviamo eleganti pannellature verticali in rosso comprese fra lesene e architravi a fondo bianco arricchite da architetture illusionistiche e ravvivate da belle figurine (eroti, pavone, uccelli), il tutto sostenuto da una zoccolatura nera che include altre metope con piccole raffigurazioni. Nei quadretti che spiccano al centro delle pareti rosse sono stati rappresentati alcuni personaggi mitologici evidentemente cari ai padroni di casa, quali il supplizio di Marsia – il sileno che osò sfidare Apollo –, il molle corpo di

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Narciso disteso oppure Apollo citarista accompagnato da una musa. Nella stanza accanto si ha invece la percezione di un rosso immersivo, che domina lo spazio movimentato solo da esili e sinuose architetture. Nell’accuratezza che contraddistingue le pitture, spiccano anche qui i riquadri centrali con l’immagine di un sileno e di una ninfa, secondo alcuni gli amanti Galatea e Polifemo, o di Frisso e l’ariete dal vello d’oro, e infine la tenera coppia di Marte e Venere.

Un sacello domestico Sulla parete est dell’atrio è sistemato un ricercato larario a edicola, con due colonnine a imitazione del marmo e un timpano con dipinte

armi gladiatorie purtroppo scomparse, destinato al culto domestico e rinnovato un decennio prima dell’eruzione. All’epoca della scoperta conservava sull’altare sei statuine in bronzo delle divinità protettrici della casa: illuminate da una lucerna, c’erano le immagini tipiche del pantheon domestico costituite dai due Lari con rhyton e patera (vasi da libagione), da Esculapio, da Apollo con cetra, da Mercurio con petaso e da Ercole con clava, queste due ultime sono le divinità piú rappresentate negli altari privati pompeiani dopo gli stessi Lari. Sulla parete interna dell’edicola è ancora raffigurato il Genio paterfamilias con cornucopia, vestito della toga praetexta (interamente bianca, sinonimo di purezza)

Il supplizio di Marsia, particolare della decorazione della sala di soggiorno (oecus) n. 13 della Casa delle Pareti Rosse.

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alzata a coprire il capo, mentre compie una libagione con la patera su un altare circolare con accanto i Lari; la fronte del podio sacro era invece dominata da un serpente strisciante tra le piante.

Terme Repubblicane

13.

La grande passione per le terme è testimoniata in città da vari stabilimenti pubblici, situati in prossimità dei luoghi piú frequentati e ritrovati quasi tutti in restauro dopo il terremoto del 62 d.C. Le meno conosciute di queste costruzioni sono le Terme Repubblicane, adiacenti l’ingresso del Foro Triangolare e del Quartiere dei Teatri: si tratta finora di uno dei piú antichi fra gli edifici balneari non solo della stessa Pompei, ma dell’intera area campana, se non addirittura romana. Un impianto, quindi, di grande interesse scientifico e che è stato oggetto di un progetto di ricerca. Dal punto di vista architettonico, le Terme Repubblicane sembrerebbero un impianto «sperimentale», che precede la soluzione ottimale e monumentale adottata nelle vicine Terme Stabiane. Le piccole terme costituiscono, infatti, un esempio di stabilimento riferibile alla fase di passaggio tra il modello greco (balaneion) e quello romano. Vennero scavate nel 1950 da Amedeo Maiuri, il quale ne descrisse gli ambienti e ne documentò la planimetria; all’indomani di quell’intervento, il complesso non venne piu considerato. Situate in corrispondenza di una delle zone piú antiche di Pompei, le Terme Repubblicane hanno una storia lunga e complessa. Le prime tracce di frequentazione dell’area risalgono almeno all’epoca arcaica (VI secolo a.C.). L’utilizzo del sito continua in epoca ellenistica (IV-III secolo a.C.) e, nel corso del II secolo a.C., viene costruito l’impianto termale, a pianta quadrangolare, con un perimetro di 30 x 30 m circa di lato e con un’organizzazione planimetrica avanzata per quell’epoca. La terma mostra una suddivisione in due settori, maschile e femminile, con ingressi separati: ciascuno esibisce la sequenza

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canonica delle strutture termali romane, consolidata in età successiva, ovvero lo spogliatoio (apodyterium), la sala per il bagno tiepido (tepidarium) e quella per il bagno caldo (calidarium). Lo sviluppo speculare dei due settori prevede i due calidaria affiancati e direttamente connessi al praefurnium (grande forno). Nel settore sud-est viene inoltre realizzato un laconicum (sauna). Tutti gli ambienti balneari presentano pavimenti in cocciopesto, ornati da inserti di calcari bianchi o pietre policrome, oppure da

In basso due immagini delle Terme Repubblicane e delle indagini condotte all’interno del calidarium dell’impianto.


Particolare del pavimento a scaglie di calcare del calidarium maschile delle Terme Repubblicane, ornato da coppia di palmette.

motivi geometrici in tessere bianche, a eccezione del calidarium maschile, che ostenta un pregevole pavimento in scaglie di calcare (lytostroton) ornato con una sinuosa coppia di palmette. Le pareti dei vari ambienti erano decorate da pitture di I stile, quasi totalmente perdute, con zoccoli a fondo rosso e stipiti delle porte in bianco. L’edificio non sembra avere avuto un lungo utilizzo nel tempo. L’impianto si può far risalire all’ultima fase di vita della Pompei sannitica e sembra che sia stato frequentato sino alla fine del I secolo a.C., quando l’intero stabilimento viene dismesso. In passato si pensava che il funzionamento delle terme fosse durato fino a poco dopo le guerre sociali, in base al ritrovamento nei suoi scarichi di un gruzzolo di monete risalente attorno all’80 a.C., forse perduto o nascosto da uno dei frequentatori dei bagni. A testimoniare invece la continuità di frequentazione del complesso restano le ristrutturazioni che riguardano soprattutto il calidarium maschile (risistemazione della vasca), il praefurnium (rialzamento del pavimento) e il pozzo preesistente (copertura e creazione di un’intercapedine per l’alloggiamento della ruota idraulica per attingere a un’antica vena d’acqua). Recenti scavi condotti dalla Freie Universität di Berlino in collaborazione con la Oxford University, hanno confermato l’antica origine dell’impianto, caratterizzato dalla presenza di particolari

intercapedini usate per la diffusione di aria calda al di sotto dei pavimenti dei calidaria maschile e femminile, costituite da canali paralleli realizzati al posto del tradizionale sistema delle colonnine di mattoni, in seguito largamente adottate in tutte le terme romane. L’invenzione del riscaldamento a ipocausto (pensiles balneae) viene attribuita dalle fonti antiche (Plinio il Vecchio) al campano Sergius Orata, il quale, tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C., avrebbe tratto questo sistema dall’itticoltura, una delle sue attività favorite. Il sistema di intercapedini/canali per il riscaldamento delle stanze è impiegato nei piu antichi impianti termali greci: è dunque possibile che le Terme Repubblicane rientrino in un ristretto gruppo di stabilimenti scoperti in Grecia, Sicilia (Gela, Siracusa), Magna Grecia (Velia) e aree campana (Cuma) e laziale (Fregellae), databili fra la fine del IV e il II secolo a.C., impianti che vengono considerati precursori delle sale da bagno con riscaldamento a ipocausto.

teatro 14. Il monumentale Quartiere dei Teatri è costruito a ridosso del costone meridionale del pianoro cittadino, un tempo dominato dal sovrastante Tempio Dorico (Foro Triangolare), come in un impianto scenografico tipico delle città ellenistiche che vedeva la sequenza santuario-

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ITINERARI DI VISITA

teatro posti a quote diverse. Il quartiere comprende il grande teatro, con annesso quadriportico – usato come un moderno foyer – e un altro coperto piú piccolo (Odeion). Il teatro di Pompei è fra i piú antichi del mondo romano: edificato nel II secolo a.C., sfrutta, come quelli greci, il pendio naturale per la costruzione delle gradinate distinte in tre zone, di cui quella inferiore riservata alle autorità e ai cittadini importanti (ima cavea). Comodi gradini accoglievano sedie (bisellia) per gli aristocratici elegantemente vestiti «per vedere», ma anche «per farsi vedere» dagli altri spettatori. La parte centrale (media cavea) era probabilmente destinata ad altre personalità e forse ai rappresentanti delle corporazioni artigiane. Al centro della fila piú bassa di sedili, ricordato da una inscrizione di bronzo, c’era il posto riservato a Marco Olconio Rufo, facoltoso cittadino di Pompei, che aveva

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contribuito a restaurare e ampliare il teatro intorno al 3 a.C. In quella occasione i lavori furono diretti dall’architetto M. Artorius, come ci informa l’iscrizione presso l’accesso orientale dell’orchestra. Nei settori superiori della cavea si distribuiva il resto del pubblico. Un corridoio anulare separava la cavea inferiore da quella superiore (summa cavea): nella parte piú elevata prendevano generalmente posto le donne. Nella sua ultima configurazione, il teatro poteva accogliere fino a 5000 spettatori. L’ingresso era gratuito, pertanto spesso le persone andavano a occupare i posti a sedere molte ore prima degli spettacoli. Alle spalle del palcoscenico, la scena aveva due ordini architettonici movimentati da absidi, nicchie, colonne e statue, come accadeva nei migliori teatri in stile ellenistico. Affascinanti dovevano essere le scenografie dipinte, mosse da speciali macchinari che davano agli spettacoli

In alto il teatro di Pompei che arrivò a raggiungere la capienza massima di 5000 spettatori. Nella pagina accanto uno spettacolo allestito nel teatro di Pompei in occasione della rassegna di drammaturgia antica Pompeii Theatrum Mundi.


tragedie, pantomime e farse popolari

I

l «cartellone teatrale» pompeiano era dipinto sui muri delle strade o annunciato in città da appositi araldi a servizio degli organizzatori; anche i magistrati in carica (gli edili, competenti agli spettacoli pubblici), in qualità di finanziatori, avevano tutto l’interesse a sostenere gli eventi a fini propagandistici. Nel teatro si rappresentavano sia tragedie greche, sia commedie ispirate a fatti politici o della quotidianità, come appare rappresentato negli affreschi della Casa del Centenario, e fra gli autori piú apprezzati dovevano esserci l’ateniese Menandro, ritratto nell’omonima casa prossima al teatro, e i latini Plauto e Terenzio. Non mancavano poi i

mimi e i pantomimi, derivati dalla commedia. L’archimimo Caius Norbanus Sorex, talmente popolare da girare a braccetto con il dittatore Silla, si è piú volte esibito nel teatro, e i magistrati pompeiani posero addirittura il suo ritratto in bronzo sia nel vicino Tempio di Iside che nell’edificio di Eumachia del Foro. Fra le rappresentazioni piú apprezzate dai cittadini vi erano certamente le fabulae Atellane, vere e proprie farse popolari in lingua osca, nate proprio in Campania e che prevedevano «siparietti» su trame scritte, ma con ampia libertà d’improvvisazione, a seconda della bravura dell’attore. Praticamente una commedia dell’arte ante litteram.

Caratterizzavano le Atellane personaggi in costume e in maschera, come i divertenti e ingenui Macco, Buccone, Pappo, Dosseno o Manduco. A Pompei è stato ritrovato un interessante gruppo di modelli di maschere in gesso usati per ricavare esemplari da scena, uno dei quali raffigura un personaggio comico della farsa atellana, Buccus, distinto da un grosso naso adunco simile alla moderna maschera di Pulcinella. In estate Pompei ospita un programma di drammaturgia antica, Pompeii Theatrum Mundi, curato dal Teatro Stabile di Napoli, con testi riproposti al pubblico nell’affascinante atmosfera di questo spettacolare edificio.

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ITINERARI DI VISITA

effetti suggestivi ed emozionali. A differenza di quello moderno, il sipario si abbassava all’inizio e si alzava alla fine dello spettacolo.

Casa del Criptoportico

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Da Via Stabiana, che affianca un lato del Quartiere dei Teatri, si torna a Via dell’Abbondanza, per visitare gli edifici recuperati con il Grande Progetto Pompei. La Casa del Criptoportico deve la sua denominazione alla presenza, sotto l’ampio giardino che funge da fulcro dell’intero edificio, di un sontuoso criptoportico fenestrato, sul quale si aprivano una stanza di soggiorno (oecus) e alcuni ambienti termali, coperti da volte a botte e a crociera originariamente decorate in fine stucco. Le ali del criptoportico erano affrescate con un ciclo pittorico ispirato a episodi dell’Iliade, un pregevole esempio di pittura pompeiana di II stile finale. Sopra grandi erme dipinte, unite da festoni, si snodava il lungo fregio, composto da una sequenza di quadretti con personaggi eroici e divini, indicati da didascalie in greco. L’ampio oecus, che

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In alto particolare della Casa del Criptoportico con la ricostruzione di una delle volte a crociera che in origine sorreggevano il soffitto della struttura sotterranea. A sinistra il restauro del larario della Casa del Criptoportico. Nella pagina accanto, in alto frammenti di affreschi che costituivano la decorazione originaria della Casa del Criptoportico.

conserva il pavimento in mosaico di tessere nere con l’aggiunta di scaglie di travertino, mostrava sulle pareti una composizione pittorica simile al criptoportico, ma con quadretti a soggetti dionisiaci. Altre raffigurazioni dipinte, raffinate e scenografiche, decoravano gli ambienti termali, di cui rimangono soltanto gli affreschi del frigidarium. Il primo impianto della domus risale al II secolo a.C. e, nel secolo successivo, l’edificio arrivò a inglobare gli ambienti dell’adiacente Casa del Sacello Iliaco. Dopo il terremoto del 62 d.C., le due abitazioni tornarono a essere divise e indipendenti. Con l’ultimo proprietario, negli anni che precedettero l’eruzione del 79 d.C., il criptoportico e gli ambienti del balneum privato vennero utilizzati solo come depositi di anfore vinarie e la domus perse ogni carattere di sontuosità. Scavata a piu riprese fra il 1911 e il 1929 da Vittorio Spinazzola e Amedeo Maiuri, nell’area del giardino furono ritrovati i resti di vittime dell’eruzione, raccolti in gruppi di 6 e 10 individui, di cui furono realizzati alcuni calchi, tuttora conservati. Si tratta, probabilmente, degli abitanti della casa, i quali, ai primi segni della catastrofe, trovarono rifugio nel criptoportico, ma, colmandosi in seguito di cenere e lapilli anche gli ambienti piu nascosti, guadagnarono l’uscita dalle finestre e si


avventurarono in giardino, cercando inutilmente scampo. I restauri hanno riguardato buona parte dell’edificio, e in particolare la sezione termale con la volta a botte del forno (praefurnium) e l’unica volta a crociera finora documentata a Pompei, nell’ambiente piú caldo (calidarium), in parte compromessa dal bombardamento del 1943 che danneggiò gravemente anche questa casa. Si è inoltre ricreato l’originario collegamento tra il criptoportico e il piano superiore, realizzando una passerella in legno per consentire la visione dall’alto degli ambienti termali ipogei e delle rispettive superfici decorate. Il cantiere ha offerto anche l’opportunità di aggiungere nuove e significative informazioni sulle fasi edilizie del complesso, documentate attraverso indagini di scavo che hanno interessato l’ambiente del tepidarium e uno degli ambienti meridionali, riprendendo saggi già condotti da Maiuri. Il tepidarium è stato liberato dei detriti accumulati dall’ultimo abitante della domus, portando in luce numerosi e interessanti frammenti di intonaci dipinti e di stucchi a rilievo che dovevano appartenere alla decorazione dell’ambiente stesso. Le attività di ripulitura hanno permesso di «riscoprire» alcuni frammenti delle pitture parietali del criptoportico, che all’epoca degli scavi dello Spinazzola erano stati ricomposti e in parte

Qui sopra un’immagine dei primi scavi condotti nella Casa del Criptoportico.

ricollocati sulle pareti, ma di cui si era persa ogni traccia dopo il bombardamento. Un’altra indagine ha riguardato uno degli ambienti meridionali, subito all’esterno dell’oecus, rivelando l’esistenza di piu livelli pavimentali sovrapposti, sia in mosaico che in cocciopesto, e le diverse destinazioni d’uso della stanza negli ultimi decenni di vita di Pompei.

Casa dei Ceii

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La Casa dei Ceii non è una dimora di gran lusso, diremmo di livello sociale medio, se paragonata alle vicine domus della Regio I dette del Citarista, del Menandro e del

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ITINERARI DI VISITA

Criptoportico. L’interesse risiede invece nelle sue raffigurazioni parietali, concentrate nelle stanze piú rappresentative dell’abitazione, forse di proprietà della gens dei Ceii – e in particolare di Lucius Ceius Secundus, candidato alla suprema carica di duoviro poco prima della distruzione della città, nel 78 d.C. –, in base alle iscrizioni elettorali trovate sulla facciata principale della casa, ancora ben conservata con il suo aspetto antico e austero. La banchina in muratura presente

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all’esterno a destra dell’ingresso, destinata ai clientes in attesa di essere ricevuti, è stata forse aggiunta proprio al momento dell’ascesa politica di L. Ceius Secundus. Risalente all’età tardo-sannitica (II-I secolo a.C.), l’edificio ha un impianto stretto e allungato, evidentemente condizionato dalla presenza di costruzioni precedenti: alla prima fase edilizia appartiene la vasca dell’impluvio, posta al centro dell’atrio a quattro colonne e perfettamente in asse con l’ingresso (fauces),

In basso lo scavo della Casa dei Ceii del 1913-1914. In primo piano, il giardino affrescato.


A sinistra particolare dell’affresco con paesaggio nilotico. In basso la parete centrale del giardino con scena di caccia.

formato da frammenti di anfore disposti per taglio, secondo una soluzione rara a Pompei e conosciuta nelle case ellenistiche dell’isola di Delo. Dopo il terremoto del 62 d.C., la casa è al centro di importanti ristrutturazioni, che hanno segnato l’attuale aspetto funzionale e decorativo. Sulle pareti dell’atrio si propone addirittura una decorazione rétro, ispirata agli eleganti ornati del III stile di età augustea, composta da grandi campi rossi uniformi delimitati da lesene, una scelta estetica forse condizionata dalle ambizioni politiche del proprietario. Prima dell’eruzione, al fine di raggiungere il piano superiore della residenza, una scala fu forzatamente addossata a una parete dell’atrio, andando a coprire parte di questa decorazione. Nel triclinio, due grandi quadri su fondo bianco dominano l’ambiente, l’uno con Dioniso giovane impegnato nel versare del vino a una tigre, l’altro con una menade e fiaccola. Particolare è anche la decorazione di un cubicolo, alle cui pareti troviamo busti di

menadi e satiri che escono da tendaggi, o ancora altri medaglioni con busti e tralci dai colori vivaci e contrastati, fino all’immagine di Apollo accompagnato da un suonatore di cetra e da una musa. All’esterno è invece dipinta una ninfa, affiancata da una civetta e da una colomba, intenta con una conca d’acqua ad alimentare un canale che scorre ai suoi piedi sul pavimento e arriva a una sfinge anch’essa con conca idealmente zampillante dell’acqua del condotto. Entrambe le figure fanno da cornice alla scena maggiore della casa affrescata sulle alte pareti del giardino. Qui i dipinti rappresentano al centro un’animata scena di caccia condotta da animali selvatici ed esotici disposti su piú livelli (lupi contro cinghiali, una tigre che rincorre arieti, un leone alle prese con un toro), mentre ai lati spaziano paesaggi nilotici di origine alessandrina, con templi, statue sacre, devoti, animali del delta egiziano e gli scuri Pigmei, anticamente considerati originari della parte piú remota dell’Egitto, vicina all’Oceano, donde arrivava il Nilo. Siamo davanti a un soggetto pittorico che ricorre sui muri perimetrali dei giardini pompeiani, allo scopo di ampliare illusionisticamente le dimensioni di questi spazi verdi e allo stesso tempo di evocare una dimensione idilliaca e coinvolgente. In questo caso, con ogni probabilità, il tema delle pitture potrebbe testimoniare anche un legame del proprietario della domus con il mondo egizio e in particolare con il culto di Iside, molto diffuso in città prima della sua distruzione.

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ITINERARI DI VISITA Casa degli Amanti

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«Amantes, ut apes, vitam mellitam exigunt»: questo appassionato verso (esametro) – che paragona gli amanti alle laboriose api, che trascorrono la maggior parte della loro esistenza nella dolcezza del loro prodotto, il miele – è stato finemente inciso da un liberto greco o da un colto proprietario a margine di un quadretto con anatre affrescato sul fondo del peristilio della Casa degli Amanti. La domus è ubicata nel cuore della Regio I – accanto alla piú fastosa Casa del Menandro – ed è stata riaperta al pubblico dopo un lungo e impegnativo lavoro di restauro. Portata alla luce nel 1933 e chiusa al pubblico per motivi di sicurezza dagli anni Ottanta, in seguito al sisma che colpí la Campania, la casa è tornata ai suoi splendori post-scavo: notevole è la sua singolarità architettonica, per la presenza, ben conservata, del secondo piano del peristilio (giardino colonnato), pressoché completo, accessibile attraverso una scala allestita nel portico settentrionale, di cui oggi resta soltanto la traccia sulla parete di fondo. Questo secondo piano sembra essere stato aggiunto nel I secolo d.C.; lo stato di sostanziale integrità in cui furono rinvenute le strutture del livello superiore restituí, all’indomani della scoperta, la configurazione autentica di questo spazio, distinto da un’originale soluzione architettonica (peristilio a doppio ordine), che, a oggi, rappresenta un unicum a Pompei.

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La dimora è di medie dimensioni: all’impianto primitivo, risalente ai primi decenni del I secolo a.C., appartengono nella zona dell’atrio la bella pittura «a pareti chiuse» in II stile delle fauces (ingresso) e la maggior parte dei pavimenti conservati. Altra particolarità dell’abitazione è l’assenza del tablino, eliminato per fare spazio al settore posteriore organizzato attorno al peristilio, come accade in altre case pompeiane costruite in epoca tardorepubblicana – quelle di Ganimede, del Granduca Michele, della Venere in conchiglia, dei Vettii –, quando gli ambienti aperti sullo spazio porticato acquistano maggiore rilievo. Il resto degli affreschi eseguiti nell’atrio (medaglioni al centro di riquadri rossi alternati a vedute architettoniche su fondo nero, contornati da candelabri e spirali d’acanto), nel grande oecus con volta a botte affacciato sull’atrio (soffitto con scene mitologiche) e piú avanti nel peristilio e nei suoi cubicoli, è in generale di buona qualità e realizzato in IV stile durante il I secolo d.C. Il doppio loggiato che circonda il piccolo giardino, organizzato su alto podio, è composto in basso da colonne di color bianco e nero, raccordate da transenne lignee, in alto da due lati colonnati, mentre gli altri due sono chiusi con finestre in quanto estensione degli ambienti del piano inferiore. Sul peristilio si apre una serie di stanze, fra cui quelle di fondo, che conservano graziosi soffitti e pavimenti, mentre un puteale e una tinozza


L’atrio della Casa degli Amanti nel corso dei lavori di restauro che hanno interessato l’edificio. Nella pagina accanto il graffito inciso al margine di un quadretto affrescato con anatre nel quale gli amanti vengono paragonati ad api laboriose, che vivono nella dolcezza del miele.

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per attingere acqua dalla cisterna erano sistemati proprio di fronte alla cucina, in un angolo del portico. Agli scopritori la casa apparve «ancor fresca delle ultime rifiniture», aspetto che suggerí, all’allora direttore degli scavi Amedeo Maiuri, la possibilità che appartenesse, al momento della distruzione cittadina, a una coppia di giovani coniugi che intessevano qui i primi giorni della loro effimera felicità, come sembrerebbe rimarcare lo sdolcinato verso inciso sotto il portico. Sotto il quale una mano ignota aggiunse poi la risposta «mi piacerebbe»... Alcuni oggetti della casa trovati durante gli scavi (un braciere, un bacile, una lucerna in bronzo e varie cerniere in osso) sono esposti in una vetrina collocata nell’atrio. Questa esposizione rientra nel progetto di musealizzazione diffusa di Pompei, al fine di ricollocare e contestualizzare i reperti negli ambienti del loro ritrovamento.

fullonica di stephanus, case di paquius proculus e di fabius amandus

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Alcuni edifici, fra loro vicini, offrono un interessante spaccato sulla vita che animava Via dell’Abbondanza, la principale arteria stradale che attraversa in senso est-ovest l’intera Pompei. Di questo nucleo, da poco restaurato, fanno parte la fullonica di Stephanus – uno dei migliori esempi pompeiani di officina destinata alla lavorazione e alla tintura della lana – e varie domus signorili, come quella dell’Efebo e di Paquius Proculus. Quest’ultima, attribuita a un influente personaggio locale, è conosciuta per il mosaico con il cane alla catena, fra porte semiaperte, e per uno straordinario pavimento con immagini di animali, remi, timoni e testine umane, fra i piu estesi e meglio conservati della città. La dimora presenta, inoltre, una curiosa pianta trapezoidale, determinata dalla chiusura dei primitivi cubicula (stanze da letto), in seguito inglobati nella contigua Casa di Fabius Amandius. «Poche case rendono,

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come questa, fresca e viva l’impressione di una modesta abitazione borghese che pur non rinuncia a un certo signorile decoro»: cosí Amedeo Maiuri definí la casa di Amandio, un bell’esempio di piccola abitazione destinata al ceto medio, per la sua forma stretta e allungata, quasi soffocata com’era fra la casa di Paquio Proculo, una taberna e il cortile di un’altra domus. Si tratta di una vera abitazione in miniatura se confrontata con le domus signorili, con stanze piú piccole e meno numerose, eppure decorate con eleganza e raffinatezza. Il piccolo atrio, nonostante le modifiche, è comunque proporzionato rispetto alla planimetria generale e presenta l’impluvio con al centro la bocca della cisterna; le pareti sono dipinte in IV stile, con ampie campiture a fondo rosso e originali riquadri che

Qui sopra la fullonica di Stephanus, officina adibita alla lavorazione e alla tintura della lana.


In alto, a sinistra l’atrio della Casa di Fabius Amandus. A destra, in alto l’atrio della Casa del Sacerdos Amandus. In basso affresco situato all’ingresso della Casa del Sacerdos Amandus.

racchiudono scene di paesaggi pastorali e sacrali. L’atrio è ricavato dai tre cubicula della Casa di Paquius Proculus, le cui primitive porte si riconoscono ancora in parete perché trasformate in armadi. Il viridario, che si apre con una grande finestra sull’atrio, serviva a dare la necessaria aria e luce alla casa: è un giardino minuscolo con pareti dipinte a motivi vegetali per dare l’illusione di uno spazio piu ampio. Nel tentativo di ovviare alla carenza di spazi, i vani scala che conducevano al piú arioso piano superiore assunsero anche altre funzioni, come quello con un’apertura sulla strada, destinato forse anche a bottega tessile; al suo interno sono stati infatti ritrovati una decina di pettini da tessitore.

Casa del Sacerdos Amandus 19. La vicina Casa del Sacerdos Amandus, cosí chiamata per le scritte elettorali dipinte sullo stipite sinistro dell’ingresso, ha una forma piu irregolare, determinata dalle trasformazioni subite nel tempo e dai restauri condotti in seguito al terremoto del 62 d.C. Le fauci (ingresso), lunghissime – dove almeno nove

persone, fra adulti e bambini, cercarono invano di sfuggire all’eruzione –, indicano che gli ambienti sulla strada erano staccati rispetto al nucleo primitivo della residenza per farne evidentemente altro uso (botteghe, depositi), per cui l’atrio è stato in un secondo momento ridimensionato e arretrato. Su questo si aprono gli ambienti piu importanti, un triclinio con pitture a tema mitologico in III stile (Polifemo e la nave di Ulisse; Perseo e Andromeda; Ercole nel giardino delle Esperidi; il volo di Dedalo e Icaro) e un cubiculum dipinto arredato di armadio a muro. Elegante è anche il piccolo peristilio che includeva il giardino ombreggiato da un grande albero ancora segnalato dall’impronta della sua radice. Anche questa abitazione disponeva di un piano superiore, indipendente – accessibile dal vicino thermopolium, forse appartenuto allo stesso proprietario della dimora –, del quale si riconosce ancora in facciata l’apertura di un

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ITINERARI DI VISITA

balcone: qui si trovava l’officina di un tabellarius, un costruttore di tavolette cerate, trovate in grande quantità carbonizzate fra le macerie e i crolli dell’edificio.

Casa dei Casti Amanti, casa dei pittori al lavoro

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Sul lato opposto di Via dell’Abbondanza, nella Regio IX, degna di nota è la Casa dei Casti Amanti, compresa in un’unica grande insula che include anche la Casa dei Pittori al Lavoro e

Due immagini della Casa dei Pittori al lavoro, cosí denominata perché sulle pareti sono state osservate le tracce delle varie fasi della realizzazione degli affreschi, bruscamente interrotta dall’eruzione del 79 d.C.

alcune botteghe. Il nome origina dal bacio «casto» che due amanti si scambiano in uno dei quadretti di banchetto che decorano il triclinio della dimora, con annesso panificio. Si trattava, infatti, dell’abitazione di un ricco panettiere e all’interno della costruzione, oltre al forno, ben conservato con le annesse macine, sono visibili anche le due stalle con i resti di sette animali. Quando il Vesuvio decise di porre fine alla vita di Pompei, all’interno della Casa dei Pittori al lavoro erano in corso lavori di ristrutturazione, e soprattutto il rifacimento

della decorazione parietale di un grande oecus, una sala di rappresentanza: qui gli scavi hanno messo in evidenza un cantiere dove è possibile osservare tutte le fasi di realizzazione di una pittura parietale, dalla preparazione della calce alle stesure dell’intonaco e dei colori di fondo, dalla realizzazione dei disegni preparatori o sinopie in ocra all’esecuzione dei dettagli dei quadri figurati con immagini svolazzanti, impreziosite da sovradipinture a fresco-secco, fino alla levigatura finale (politiones) necessaria per far aderire i diversi strati di colore alla parete. Per la realizzazione di un affresco parietale si richiedevano tempi rapidi e un forte affiatamento della squadra coinvolta nel lavoro, con una chiara ripartizione dei ruoli e delle competenze; per questo ambiente è stato calcolato che gli artigiani impegnati dovevano essere quattro, supportati da almeno un paio di assistenti. Un primo pittore stava tracciando i disegni preparatori (sinopie) con scorci

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architettonici nella parte mediana di una parete, con l’aiuto di una squadra e di cordini; un secondo pittore, piú esperto, era invece impegnato nelle sovradipinture a fresco-secco di figure sulla parete accanto; un terzo pittore stava invece dipingendo un quadro mitologico al centro di una terza parete, e un quarto e ultimo pittore aveva appena steso l’intonachino su un angolo della stanza ed era pronto ad applicare il colore di fondo. Nel frattempo, i due assistenti stavano preparando la calce da utilizzare per l’intonaco (tectorium) e l’intonachino. C’è da aspettarsi che gran parte di queste operazioni si sarebbero dovute ultimare in quella stessa giornata lavorativa, considerato che non si poteva aspettare molto tempo prima che l’intonaco asciugasse: ma si trattava evidentemente di quel fatale giorno del 79 a.C.

Casa del Frutteto

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Pompei aveva i suoi spazi verdi, e in molte case c’erano giardini, talora estesi altre volte costituiti solo da piccoli fazzoletti di terra: vi si coltivavano piante ornamentali e di utilità, alcune considerate all’epoca esotiche. Su Via dell’Abbondanza, all’angolo con un vicolo diretto al quartiere dell’anfiteatro, si trova una domus che nella parte piú interna e riservata ha uno spazio verde con uno dei piú begli esempi di pittura di giardino. Grazie ai restauri, la Casa del Frutteto (o dei Cubicoli Floreali) è tornata a far rivivere le atmosfere di un lussureggiante vivaio dipinto pompeiano. Il tema del giardino nella pittura romana si diffonde nel III stile detto «ornamentale», tipico del periodo augusteo (fine del I secolo a.C.-primi decenni del I secolo d.C.): caratteristico del decoro è lo sfondo, in alcuni casi dietro un’immaginaria staccionata, occupato da un folto giardino formato da svariate specie di piante e di uccelli. Nelle abitazioni la veduta è in genere relegata in ambienti di rappresentanza, come nel triclinio estivo della Casa del Bracciale d’Oro o in quello della Villa di Livia a Prima Porta (Roma), mentre nella Casa del Frutteto le

In alto particolare di una delle pitture di giardino della Casa del Frutteto raffigurante un corbezzolo. A destra il giardino della Casa del Frutteto.

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decorazioni abbelliscono due piccole e raffinate stanze da riposo (cubicoli), come se il proprietario amasse circondarsi dell’immagine di vivai negli ambienti piú intimi e familiari. In questa coppia di stanze private le rappresentazioni del verde, immaginate sotto un pergolato sostenuto da esili fusti, sono arricchite da motivi egittizzanti, come gli attributi di Iside, che forse alludono alla devozione orientale del proprietario. Il primo dei due cubicoli (quello dell’atrio) presenta su fondo azzurro un giardino con variegate piante ornamentali e da frutto eseguite con la massima precisione, dove oltre all’oleandro, l’alloro, il mirto, il prugno e il ciliegio, fra cui volteggiano uccelli, si possono chiaramente identificare i corbezzoli e i limoni.

Uno solo alla volta Il «sempre verde» corbezzolo simboleggiava l’immortalità e la contemporanea presenza sull’albero sia dei fiori che dei frutti accentuava tale significato; Plino il Vecchio era entusiasta di questa bacca rossa ma ne raccomandava un uso limitato, fornendo una curiosa etimologia del termine unedo (poi incluso nel nome scientifico della pianta, Arbutus unedo, n.d.r.): «unum tantum edo» (uno e basta), poiché frutto difficile da digerire e nocivo alla stomaco. Originario della Cina, il limone, nel I secolo d.C., si stava appena diffondendo nell’area vesuviana, tanto da non esserci ancora una produzione di frutti tale da permettere di ritrovarne i semi nel terreno. Plinio ne descrive le specie e i tentativi di acclimatamento: racconta che per favorire l’attecchimento le piantine venivano allevate in vasi forati nei paesi d’origine per poi essere trasportate in Italia dove erano trapiantate in piena terra. Il limone era apprezzato soprattutto per le sue proprietà medicinali: il succo veniva usato come colluttorio per rendere l’alito gradevole, il seme si dava da mangiare alle donne incinte che soffrivano di nausee, il frutto era indicato nel caso di debolezza dello stomaco (Plinio N.H. XXIII, 105). Nel secondo cubicolo (del tablino) sono invece

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Gli affreschi del secondo cubicolo della Casa del Frutteto: su fondo nero, si vedono tre alberi di diversa grandezza. Al centro, un fico con un serpente, simbolo di prosperità.

rappresentati su fondo nero tre alberi di diversa grandezza, con al centro un grande fico con un serpente, simbolo di prosperità. I Romani appresero dai Greci i segreti della sua coltivazione: Plinio ne enumera ben 29 varietà, tra cui quella pregiata di Ercolano. Il fico era usato in medicina come emolliente e dolcificante; il lattice del frutto era inoltre adoperato per curare alcune infezioni cutanee. (segue a p. 65)


VIGNE antiche e moderne: la domus della nave europa

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a Domus della Nave Europa, raggiungibile attraverso l’omonimo vicolo, si apre sul suo rigoglioso vigneto, esteso sul retro del complesso. L’edificio ha la particolarità di essere un’elegante abitazione trasformata in una sorta di «azienda agricola» urbana. Nel suo ampio giardino erano state infatti avviate diverse coltivazioni orticole e, soprattutto, era stato impiantato un vigneto, oggi ripristinato sulla base di fonti storiche e indagini botaniche. Nel 1996, a Pompei è stato avviato il progetto «Villa dei Misteri», con l’obiettivo di ripristinare l’antica viticoltura nei luoghi deputati della città e con gli stessi vitigni dell’epoca

dell’eruzione. Sono state reimpiantate alcune delle specie che producevano il richiestissimo Vesuvinum, le cui anfore ricolme raggiungevano Spagna, Gallia fino alla Britannia. L’uvaggio è costituito dall’aglianico, dallo sciascinoso e dal piedirosso. I Pompeiani conoscevano molti segreti della coltivazione della vite, grazie ad anni di sperimentazioni e di specializzazioni della manodopera: fra i vitigni che per primi appassionarono gli agricoltori locali spicca sicuramente la «Murgentina», originaria della città siciliana di Morgantina, che qui ebbe cosí tanto successo da cambiare perfino il nome in

In alto il vigneto della Domus della Nave Europa, rimesso a dimora seguendo le indicazioni fornite dalle fonti e i dati scaturiti dalle indagini paleobotaniche.

In basso uno scorcio della Domus della Nave Europa: sulla destra, si vede la porta dalla quale si accede al vigneto che si estende a ridosso della casa.

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ITINERARI DI VISITA

A destra particolare del fregio della Casa dei Vettii con amorini intenti a mescere il vino.

In alto uno dei vigneti impiantati nell’area degli scavi. Nella pagina accanto l’affresco all’ingresso della Casa dei Vettii, raffigurante Priapo che pesa il suo membro enorme su un piatto della bilancia.

«Pompeiana», ma anche l’Holconia, proveniente invece della ferace Etruria. Nelle piú importanti ville del circondario pompeiano sono presenti locali per la lavorazione del vino (torcularia), occupati da grandi presse (come nel caso della Villa dei Misteri) necessarie per ottenere una maggiore quantità di succo; questo veniva poi incanalato e condotto nella cella vinaria, dove si conservava in orci di terracotta allineati e seminterrati per evitare che gli sbalzi di temperatura potessero danneggiarne la fermentazione. Infine, il vino veniva travasato in anfore rese impermeabili spalmandone l’interno con resina di pino e messo a invecchiare anche per diversi anni. Nota famiglia di produttori di vini a Pompei erano gli Arrii; assieme a loro, Asinio Proculo, conosciuto invece per una particolare qualità, l’Asiniano racemato, un doc dell’epoca. Un’altra celebre famiglia, gli Eumachi, fece fortuna anche con la lavorazione della vite e l’esportazione della bevanda soprattutto a Cartagine. Famosi erano i fratelli Vettii, Conviva e Restituto, ex liberti che proprio con il vino si erano arricchiti tanto da costruirsi una delle dimore piú fastose della città.

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La coltura della vite era molto piú redditizia della cerealicoltura, ma questa pratica poteva essere intrapresa solo da ricchi proprietari, in grado di anticipare le costose spese d’impianto dei vigneti e di attendere il tempo necessario a ottenere i raccolti. La Casa dei Vettii è posta sotto l’egida di Priapo, dio della prosperità, dipinto in bella vista sulla porta d’ingresso. Le stanze piú ricercate si affacciano sul peristilio con lussureggiante giardino, fra cui risalta il salone – concepito come una sala di rappresentanza – con i celebri amorini affrescati intenti a svolgere i mestieri pompeiani; l’immagine piú curata è proprio la scena della vendemmia, con la raccolta, la spremitura, i tini pieni, la mescita del vino e il trionfo di Bacco e Arianna. Nella fornita cella vinaria sono state trovate anfore contenenti un vino pregiato, come menzionano le iscrizioni dipinte sui recipienti con l’indicazione della qualità, delle origini e della data di lavorazione, come per un odierno docg. I vigneti attuali sono stati ripiantati a Pompei secondo le modalità antiche: i filari ravvicinati si dispongono esattamente sulle impronte delle trincee antiche, individuate grazie ai calchi in gesso delle radici delle piante, a circa 4 piedi di distanza tra loro (ogni piede misura 29,64 cm), sostenuti da impalcatura di castagno secondo il sistema della vitis compluviata, descritto nella Naturalis Historia da Plinio il Vecchio; nell’elogiare la bontà dei vini pompeiani, che raggiungevano il massimo del pregio nell’arco di 10 anni, il grande naturalista avverte però della loro pesantezza, in quanto capaci di procurare terribili mal di testa se bevuti in eccesso. Le aree a vigneto si trovano nelle Regioni I e II presso l’Anfiteatro (oltre la Casa della Nave d’Europa, il vigneto dell’oste Eusino, dell’Osteria del Gladiatore, del Foro Boario, della Casa del Triclinio estivo) e coprono un’estensione di circa un ettaro.


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ITINERARI DI VISITA

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A destra l’elegante porticato dei praedia di Giulia Felice, scandito da colonnine in marmo. Nella pagina accanto uno degli ambienti dell’impianto termale compreso nei praedia di Giulia Felice.

La Casa del Frutteto era una dimora molto antica, non particolarmente grande e lussuosa: presenta oltre all’atrio, un piccolo peristilio, con le stanze collocate su un lato e non intorno a questi spazi di solito centrali. L’accesso all’edificio (fauces) è ancora chiuso dal calco della porta. Tutte le altre stanze della domus mostrano invece decori semplici o non sono dipinte. Dal centinaio di anfore ritrovate nella casa, si è dedotto che qui abitasse un commerciante di vini, mentre Amedeo Maiuri, scopritore dell’edificio, la attribuiva suggestivamente a un curatore o amministratore degli horti pompeiani.

praedia di Giulia Felice

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«Nella proprietà di Giulia Felice, figlia di Spurio, si affittano un bagno caldo degno del tocco di Venere e per gente di riguardo, poi si affittano tabernae con alloggi sovrastanti, appartamenti al primo piano (cenacula), dalle idi di agosto (13 agosto) fino a quando ricorrerà la stessa data per la sesta volta, cioè per cinque anni consecutivi». Con questo spot pubblicitario dipinto sull’ampia proprietà affacciata su Via

dell’Abbondanza, l’astuta imprenditrice ante litteram Giulia Felice promuove la bellezza del luogo e la locazione di parte della sua splendida «villa urbana», ubicata in prossimità dell’anfiteatro, nella Regio II. Forse discendente da un ramo di liberti imperiali, Giulia aveva infatti pensato di ricavare una bella rendita dallo sfruttamento di diversi ambienti non utilizzati, soprattutto dopo che il violento terremoto del 62 d.C. aveva duramente colpito la città, mettendo fuori uso molti edifici e servizi pubblici, come le tanto amate terme. Le proprietà di Giulia si formano alla fine del I secolo a.C. dall’accorpamento di precedenti costruzioni in un unico grande complesso, caratterizzato all’interno dalla prevalenza di spazi verdi. I praedia di Giulia Felice si articolano in diversi nuclei con ingressi indipendenti: una lussuosa casa ad atrio, con un grande triclinio concepito come una grotta animata da giochi d’acqua; un ampio giardino su cui si aprivano vari ambienti residenziali, con fontane e pergolati sotto cui passeggiare e meditare; un impianto termale dotato di tutti i comfort; un lussureggiante parco nel quale allenarsi come nei ginnasi greci.

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Giulia si dedica cosí agli affari, affrettandosi ad attrezzare nel suo contesto alloggi e, in particolare, un bagno custodito destinato a un pubblico selezionato. E, per abbellire locazioni e servizi, fece realizzare un raffinato porticato scandito da esili colonne in marmo, un giardino con euripo (canale idrico) che creava una magica sensazione idillico-sacrale per la presenza dalle immagini di Pan e del sapiente greco Pittaco di Mitilene – connesso com’era anche a una nicchia dedicata al culto

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di Iside, oggi ricomposta al Museo Archeologico di Napoli, che insieme al giardino rievocavano le atmosfere delle feste svolte lungo le rive del Canopo di Alessandria d’Egitto –, comodi quartierini per ospiti benestanti; il tutto arricchito da un unitario e vivace ciclo pittorico in IV stile. Dalle iscrizioni incise sui muri, si sa, per esempio, che alcuni frequentatori del complesso appartenevano al sodalizio dei giovani pompeiani che proprio lí avevano il

Due particolari dell’affresco con scene di vita quotidiana nel Foro, dai praedia di Giulia Felice. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


Il giardino con euripo (canale idrico) dei praedia di Giulia Felice.

loro Ginnasio con tutte le attrezzature necessarie all’attività fisica. L’ingresso principale della residenza di Giulia Felice mostrava invece un’altra particolarità. Sulle pareti dell’atrio era stato dipinto un lungo e originale fregio con scene di vita tratte direttamente dal Foro di Pompei. La sequenza quasi «fotografica» delle attività quotidiane svolte nella principale piazza cittadina è anch’essa conservata al Museo di Napoli, distaccata e trasferita dopo la scoperta avvenuta durante i primi scavi condotti alla

metà del Settecento. Queste pitture forniscono un’informazione autentica su alcune professioni pompeiane del I secolo d.C. Fra gli ariosi portici del Foro ornati da statue equestri, i cittadini si muovono fra venditori ambulanti di stoffe, bestiame, scarpe, utensili in ferro, stoviglie domestiche, pane e ortaggi, e poi le attività didattiche con maestri e diligenti scolari. Un lungo rotolo è affisso alla base di alcune statue e probabilmente esponeva le proposte di leggi per il periodo del trinundinum, ossia le tre settimane necessarie prima della loro

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approvazione. Il fregio di Giulia ci restituisce una straordinaria rappresentazione del Foro negli anni precedenti l’eruzione, con la piazza qualificata dagli edifici monumentali, per i quali si è proposto di riconoscere per esempio l’edificio di Eumachia e il Macellum, che appaiono ormai completamente restaurati dopo il rovinoso sisma che colpí il centro vesuviano. Un intervento di valorizzazione ha reso fruibile il complesso di Giulia Felice attraverso una passerella che si snoda dall’ingresso al portico, dalle terme al giardino.

Casa della Venere in conchiglia, Casa di Octavius Quartio 24. Un altro interessante «cuore verde» pompeiano si trova nella Casa della Venere in conchiglia, anch’essa soggetta a molte trasformazioni. Come nella Casa dei Vettii, qui il tablino viene sacrificato a favore del giardino

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In alto, a sinistra il giardino, circondato da peristilio, della Casa della Venere in conchiglia. In alto, a destra il biclinio (sala per consumare pasti dotata di due letti) della Casa di Octavius Quartio. A destra una foto dei primi scavi condotti nella Casa di Octavius Quartio. Nella pagina accanto, in basso l’affresco da cui prende nome la Casa di Venere in conchiglia, che orna la parete di fondo del peristilio della dimora.

circondato da un elegante peristilio, uno spazio verde attorno cui ruota l’intera domus. Sul giardino si affacciano, infatti, eleganti ambienti affrescati, tra cui il grande oecus, secondo per dimensioni solo a quello della Casa del Menandro. La parete di fondo del peristilio è decorata con lo scenografico affresco di Venere, dea protettrice di Pompei, accanto alla quale, oltre una transenna dipinta, è raffigurato un rigoglioso giardino con piante e animali locali ed esotici: in questo luogo si può apprezzare al meglio lo stretto rapporto tra verde reale e verde dipinto. Accanto a questa abitazione, ancora su Via dell’Abbondanza, la Casa di Octavius Quartio (noto da un sigillo ritrovato, membro del collegio degli Augustali, dediti al culto degli imperatori) è una versione in miniatura delle grandi ville aristocratiche diffuse fuori città, all’interno della quale troviamo un giardino, con piante e specchi d’acqua, ristrutturato dopo il terremoto del 62 d.C. Lo spazio verde è articolato in due zone poste a quote diverse e solcate da due canali

d’acqua artificiali (euripi) perpendicolari fra loro, animati da cascatelle e da un’incredibile varietà di fontane fra pergolati ombreggianti. Impreziosiscono il giardino statue e arredi molto accurati, che fanno di questo spazio una delle migliori testimonianze di architettura da giardino in città. (segue a p. 74)

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fra le case del ceto medio

I

l quartiere di Porta Nocera, che si estende nel settore sudorientale di Pompei, si sviluppò in relazione al trafficato ingresso urbano e fu scelto da quanti dal suburbio affluivano in città per lavorare o per assistere agli spettacoli nel vicino anfiteatro; era in prevalenza abitato da quella che potremmo definire la «piccola borghesia» pompeiana. Le famiglie residenti, di ceto medio, erano distinte da capacità economiche diverse, maturate in parte grazie alle attività commerciali svolte nel vivace rione, e, in parte, alla partecipazione politica e sociale cittadina. La topografia dell’area rivela un carattere fortemente dinamico, determinato dalla coesistenza di edifici sia abitativi che commerciali. La conoscenza di questo quartiere costituisce cosí una straordinaria occasione per leggere la crescita di una zona urbana periferica e il suo sviluppo demografico fino al momento della distruzione della città. In particolare, lo studio degli edifici permette di valutare le differenti condizioni di vita fra

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un vicino e l’altro: emergono pertanto informazioni sia sui rapporti di concorrenza commerciale all’interno del quartiere, sia sulle risposte e sugli adattamenti delle famiglie residenti in rapporto agli sviluppi economici e sociali della città. La cosiddetta Domus e Botteghe e le case del Larario Fiorito e del Triclinio all’aperto furono scoperte da Amedeo Maiuri negli anni Cinquanta del Novecento, ma il loro scavo si completò solo nei successivi anni Ottanta. La denominazione Domus e Botteghe sintetizza la funzione di questa prima costruzione casa-bottega: all’esercizio della vendita erano infatti destinati gli ambienti fronte strada, mentre il settore propriamente residenziale era interno e incentrato su una corte scoperta, dotata di un triclinio e di un portico, sul quale si aprivano altre stanze della casa. Queste sono decorate con pitture in IV stile che, al momento dell’eruzione, erano ancora in rifacimento come dimostrano alcune anfore piene di calce rinvenute durante lo scavo.

Sulle due pagine uno degli ambienti dell’edificio noto come Domus e Botteghe, cosí denominato perché composto da una parte commerciale, sul fronte strada, e una residenziale, piú interna. In basso uno spazio della Casa del Triclinio all’aperto.

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La Casa del Triclinio all’aperto è invece il risultato dell’accorpamento di precedenti nuclei edilizi indipendenti: la modesta abitazione affacciata su Via di Nocera mostra infatti un impianto planimetrico piuttosto ristretto. Cinque

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ambienti, fra cui un piccolo viridarium (giardino), sono disposti in successione sul lato di un corridoio di passaggio che immette in un peristilio, dal quale si accede ad altri tre vani. Agli angusti spazi abitativi si contrappone la vasta area aperta

posta a nord di essi, oggi piantata a vigneto, cosí come doveva essere in antico. Tra il verde dei vitigni è situato il grazioso triclinio estivo che dà il nome alla casa, abbellito da due fontane a nicchia rivestite di vivaci mosaici in pasta vitrea,


In questa pagina quadretti a soggetto mitologico, inquadrati in cornici giallo ocra, affrescati nella grande sala (oecus) della Casa del Larario fiorito. Nella pagina accanto la vivace decorazione pittorica con motivi floreali e amorini in volo che ha dato nome alla Casa del Larario fiorito.

pomici e conchiglie. Il complesso doveva costituire una sorta di osteria con giardino a uso dei frequentatori del vicino anfiteatro. Infine, la Casa del Larario fiorito, la piú ampia fra gli edifici finora descritti, frutto della fusione di due unità abitative indipendenti e caratterizzate da uno stesso schema planimetrico, che vedeva il settore residenziale da un lato, su Via di Nocera, e un ampio spazio a giardino dall’altro. Il complesso doveva probabilmente avere anche una funzione commerciale o, comunque, essere aperto al pubblico, come suggeriscono le iscrizioni elettorali dipinte in uno degli ambienti interni. La grande abitazione conserva molte pitture parietali, fra cui spiccano quelle della grande sala (oecus) affacciata sul giardino, con quadretti mitologici al centro di pannelli giallo-ocra. Singolare è anche il raffinato larario (per il culto domestico) da cui la domus prende il nome: allestito all’interno di un piccolo cubicolo, l’altarino è decorato con amorini in volo e delicati fiori sparsi. L’area dell’hortus (giardino) è invece provvista di un grande triclinio in muratura su un pavimento in cocciopesto con inserti di marmo.

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ITINERARI DI VISITA Anfiteatro 26. L’anfiteatro di Pompei, oltre a essere fra le prime costruzioni scoperte negli scavi settecenteschi, è anche uno dei piú antichi esempi conservati del suo genere, precedente addirittura il primo anfiteatro in muratura finora noto a Roma. L’edificio fu innalzato, verso il 70 a.C., nell’angolo sud-orientale della città, in un’area periferica forse ancora sgombra da costruzioni, praticamente a ridosso delle mura di cinta per sfruttarle come sostegno parziale della cavea, capace di ospitare circa 20 000 spettatori. Un’iscrizione ricorda che la costruzione dell’anfiteatro, che i Pompeiani chiamavano Spectacula, avvenne a spese di C. Quinctius Valgus e Marcus Porcius, magistrati locali (duoviri) che contemporaneamente edificarono anche l’Odeion. La struttura originaria è costituita da muri in opera incerta e in opera quasi reticolata: con il terremoto del 62 d.C., le volte dei corridoi anulari furono danneggiate e successivamente restaurate con arcate in laterizio. Anche all’anfiteatro, come a teatro, i cittadini, ai quali erano distribuite speciali tessere d’entrata, avevano diritto di assistere gratuitamente alle rappresentazioni periodicamente offerte dai politici locali e dai potenti di turno, come fece piú volte Alleo Nigidio, sepolto nel monumento funerario da poco scoperto fuori Porta Stabia. Mentre il popolo si disponeva nei settori piú elevati (media e summa cavea), ai personaggi piú importanti era riservata la parte inferiore della gradinata, segnata da una prima fila di sedili (ima cavea) posta in posizione sopraelevata rispetto all’arena e protetta da un parapetto

Ercolano, Casa a Graticcio. L’esterno dell’edificio, con tracce di canne orizzontali a copertura di un opus craticium, tecnica edilizia che consiste in un’intelaiatura a traliccio riempita di una miscela di calcinacci, malta e argilla.

decorato con pitture di spettacoli circensi e scene di caccia, di modo che gli spettatori fossero al riparo dai pericoli derivanti dalle rappresentazioni gladiatorie piú cruente. Gli animali e le attrezzature per gli spettacoli venivano introdotti dall’esterno e trasportati su carri sfruttando ampi passaggi (vomitoria), che dalla piazza esterna sbucavano direttamente nell’arena. I corridoi venivano utilizzati anche dagli spettatori che

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Qui sopra una veduta a volo d’uccello dell’anfiteatro. A sinistra la Palestra Grande, spazio dedicato alla cura della salute fisica e mentale.


Qui sopra veduta esterna dell’anfiteatro. In alto, sulle due pagine un’altra veduta della Palestra Grande con l’anfiteatro sullo sfondo.

accedevano al settore inferiore e mediano della cavea; i corridoi erano infatti collegati con un passaggio coperto che girava intorno all’arena e che portava alle gradinate attraverso numerose scalette. Dopo il memorabile concento dei Pink Floyd nel 1971, immortalato nel film-documentario Pink Floyd: Live at Pompeii del regista scozzese Adrian Maben, l’anfiteatro è tornato nel 2017 a rievocare quei suoni grazie alla

performance di David Gilmour, storico chitarrista del gruppo inglese.

palestra grande

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Sulla piazza, di fronte all’anfiteatro, si osserva un grande edificio rettangolare dall’aspetto severo, per via degli alti muri perimetrali merlati, ma aggraziato all’interno per la presenza di lunghi e armoniosi portici, disposti

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su tre lati e scanditi da 118 colonne in laterizio stuccato. Si tratta della principale palestra pubblica cittadina, costruita in piena età augustea sul modello del ginnasio greco, in sostituzione della piccola palestra di età sannitica, posta in prossimità del Foro Triangolare e del teatro. La Palestra Grande costituiva uno spazio verde libero, destinato alla formazione del corpo e della mente e, in particolare, agli esercizi ginnici tenuti dalle associazioni giovanili locali: molte di queste attività erano promosse dalla propaganda dell’imperatore, qui venerato in un ambiente posto al centro del portico occidentale e aperto verso la corte interna, con la statua imperiale alloggiata su una base ancora conservata. Un’associazione sportiva giovanile attiva nella palestra, identificata come Iuventus, forse a carattere paramilitare, potrebbe avere avuto non poco peso nella sanguinosa rissa contro i

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Nocerini scoppiata nel 59 d.C., che provocò la squalifica del vicino anfiteatro per ben 10 anni. Scavato fra gli anni 1930 e 1950, l’edificio è rappresentato schematicamente proprio nella famosa pittura che raffigura quello scontro. Dopo i restauri, la Palestra Grande è stata riaperta alle visite con una doppia offerta: da un lato la possibilità di godere dei suoi ariosi spazi, nel loro aspetto originario, dall’altro di ammirare, sotto i portici meridionali, gli splendidi affreschi di Moregine, esposti in precedenza solo in mostre. Sull’opposto portico settentrionale, la Palestra si è trasformata inoltre in spazio espositivo, cosí da arricchire con nuovi percorsi l’offerta culturale del Parco. Un’atmosfera particolare avvolge gli affreschi dal complesso scoperto in località Moregine, circa 600 m a sud delle mura di Pompei, non lontano dalla foce del fiume Sarno e dal relativo scalo portuale. Il ritrovamento risale al 1959, in

L’allestimento degli affreschi di Moregine in occasione della riapertura della Palestra Grande.


A destra pannello affrescato dal triclinio C di Moregine raffigurante una offerente. In basso le vetrine dedicate ai materiali restituiti dallo scavo del complesso di Moregine, ora conservati nell’Antiquarium, nel primo suggestivo allestimento della Palestra Grande.

occasione della costruzione dell’autostrada Napoli-Salerno. Nei primi scavi venne alla luce l’edificio caratterizzato da un cortile porticato sul quale si affacciavano diversi triclini sontuosamente affrescati, con tramezzi mobili in legno perfettamente conservati, e la zona termale ancora in costruzione al momento dell’eruzione. Nel 1999, durante il completamento dello scavo, le difficoltà emerse nell’esecuzione dei lavori, dovute all’affioramento della falda freatica, hanno costretto ad asportare le pregevoli pitture per motivi di conservazione. Nella Palestra Grande si possono oggi ammirare gli affreschi staccati dai tre triclini settentrionali di Moregine, in raffinato IV stile, databili all’epoca claudioneroniana (metà del I secolo a.C.) e probabile opera delle stesse maestranze che decorarono a Pompei la Casa dei Vettii. Il ciclo degli affreschi appartiene a un unico programma decorativo di gusto figurativo, commissionato da una proprietà di elevato livello culturale. Il triclinio A occidentale è composto da tre pareti a fondo rosso su cui sono dipinte, assieme ad Apollo, le Muse. Nel triclinio B centrale, le

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rappresentazioni di Elena e dei Dioscuri (Castore e Polluce), fra le raffigurazioni delle stagioni, si stagliano sulle eleganti pareti a fondo nero. Infine, nel triclinio C orientale, spicca sulle pareti rosse l’originale personificazione di un fiume, forse proprio il Sarno, con vittorie alate fra offerenti legati al mondo apollineo e dionisiaco. Il complesso apparteneva probabilmente alla ricca famiglia puteolana dei Sulpicii, che qui custodiva parte del suo archivio contabile. Forse l’edificio serviva anche per ospitare mercanti e gruppi di avventori legati alle attività commerciali del vicino porto del Sarno. Lo scavo ha restituito

inoltre materiali di grande interesse, che documentano sia la presenza di prodotti mediterranei importati (anfore vinarie dall’Egeo), sia le attività amministrative mediante tavolette cerate con contratti registrati. Ma, soprattutto, spicca un nucleo di argenterie di eccezionale qualità, esposte nel nuovo Antiquarium. Di particolare interesse sono le modalità di ritrovamento dei preziosi, rinvenuti nel settore termale dell’edificio: in una latrina fu scoperta una grande gerla in vimini, apparentemente piena di sola terra dell’eruzione. Dalle radiografie fatte in laboratoprio, dopo il recupero del contenitore, si sono intravisti dei corpi metallici; venti vasi da tavola in argento sbalzato e cesellato che il microscavo ha consentito di portare alla luce: piatti, coppe, supporti da tavola, un cucchiaio.

casa del fauno

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Nei primi giorni del settembre 1943, nell’area degli scavi di Pompei echeggiano boati sinistri e si alzano nuvole di fumo denso. Il sito è diventato purtroppo un obiettivo militare

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A sinistra il microscavo che ha portato al recupero dei manufatti in argento custoditi in una cesta di vimini trovata a Moregine e, in basso, a sinistra, i magnifici manufatti dopo la pulitura e il restauro.


Sulle due pagine l’atrio secondario della Casa del Fauno. L’edificio fu devastato dal bombardamento alleato del 1943 e le colonne oggi visibili, in tufo con decorazioni in stucco, sono frutto della prima ricostruzione e poi dei restauri condotti negli anni scorsi.

dell’aviazione anglo-americana, per la presunta presenza di truppe tedesche nelle adiacenze. Il bombardamento infierisce in particolare sul settore settentrionale e occidentale della città antica, corrispondente alle Regiones VI, VII e VIII. Sono colpiti il Foro, la Basilica e il Tempio di Apollo, fra le domus subiscono gravi danni soprattutto la Casa del Fauno e di Cecilio Giocondo. Le ferite causate dalle esplosioni sono ancora oggi visibili nel Parco, per esempio lungo la sede stradale di Via del Vesuvio, e danno conto della potenza deflagrante degli ordigni da circa 250 libbre ciascuno. I resti di uno di questi si conserva all’ingresso della

Casa del Fauno, le cui tormentate colonne dell’atrio secondario, ricostruite nel dopoguerra e ancora fratturate dal terremoto del 1980, tornano a risplendere al termine di un recente restauro. Famosa per il bronzetto del Fauno danzante che impreziosiva l’impluvio dell’atrio principale, oltre a essere una delle case piú vaste di Pompei – 3000 mq circa estesi su un unico isolato –, la residenza si segnala per la raffinatezza dei suoi apparati architettonici e decorativi, tanto da essere stata considerata, già ai suoi tempi, uno degli esempi piú mirabili di abitazione privata e modello della casa aristocratica romana d’età repubblicana.

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L’impluvio dell’atrio principale della Casa del Fauno, in una foto d’archivio, con la replica della statua da cui la dimora ha tratto il suo nome.

La parte anteriore dell’edificio si sviluppa intorno a due atri: il primo è il principale di tipo tuscanico, segue lo schema tradizionale della casa ad atrio italica; il secondo è invece tetrastilo, con il tetto poggiato su quattro colonne, secondo uno schema tipicamente ellenistico. La domus si apriva su Via della Fortuna, dove l’iscrizione di benvenuto HAVE precedeva gli ampi atri e gli spazi destinati a ricevere i visitatori per le cerimonie della salutatio. La residenza nasce all’inizio del II secolo a.C., in tarda età sannitica, quando sorge una prima abitazione già articolata su due atri, con peristilio e un grande giardino esteso fino al limite opposto dell’insula. Verso la fine del secolo la casa viene trasformata, con la creazione di uno specifico ingresso all’atrio minore, trasformato in un’armonica struttura tetrastila, mentre sul peristilio si aggiunge una grande esedra con il celebre mosaico di Alessandro (al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e il giardino viene invece monumentalizzato con un porticato dalle colonne in laterizio. Il rifacimento riguarda anche gli apparati decorativi parietali in I stile e pavimentali in opus sectile ed emblemata in vermiculatum. Da questo momento la residenza diventa un vero e proprio punto di riferimento per l’architettura domestica pompeiana, ispirando per circa un secolo le scelte di altre sontuose case, come quelle di Pansa, del Labirinto, del Menandro, del Cinghiale, di M. Obellius Firmus.

Un Satiro per antenato Committenti della lussuosa dimora furono verosimilmente i Sadirii, facoltosa gens pompeiana, considerato che la statua di un loro esponente era presente all’interno della casa e che alla stessa famiglia si rimanda il programma decorativo di stampo dionisiaco, illustrato da preziosi mosaici e dall’immagine del Satiro danzante (cosiddetto Fauno), nel quale la stirpe evidentemente si riconosceva, ereditandone perfino il nome (Sadirii, dal latino Satrii). Il Satiro negli scavi fu ritrovato sul bordo dell’impluvio e originariamente era collocato su

una base abbellita da due pantere affrontate, come immortalato da una fotografia ottocentesca. Gli ultimi proprietari della casa furono invece i Cassii, suggeriti da un sigillo trovato accanto a una delle vittime presenti nell’atrio secondario: i proprietari decisero di rinnovare la dimora dopo il terremoto del 62 d.C., come dimostra il peristilio trasformato, al momento dell’eruzione, in un deposito di materiali edilizi da cantiere. Sull’appartenenza iniziale della dimora, Amedeo Maiuri avanzò un’ipotesi affascinante: il direttore degli scavi propose infatti di riconoscere che questa potesse essere la dimora di Sulla, nipote del dittatore Publio Silla, incaricato di conciliare gli interessi dei nuovi coloni pompeiani con i veteres cives dopo l’89 a.C. L’ambiente di raccordo all’atrio principale, aperto durante la trasformazione del nucleo primitivo della casa (fine del II secolo a.C.), immette nel suo settore privato, imperniato attorno all’imponente atrio secondario tetrastilo esaltato da colonne in stile corinzio-italico. Di fronte all’ingresso, dalla parte opposta dell’atrio, si apre un’esedra con pavimento di scaglie di travertino e palmette agli angoli; qui è presente una base che sosteneva una cassaforte purtroppo scomparsa. Ciò che colpisce, rispetto al resto dall’abitazione, è la sobrietà della decorazione del quartiere privato, presumibilmente in via di rifacimento al momento dell’eruzione. Nell’atrio secondario, oltre al sigillo dei Cassii, furono ritrovati oggetti legati al culto domestico, fra cui un altarino dedicato a Flora e una statuina di Iside. Nel 1943 due bombe colpirono l’abitazione, e una di queste piombò proprio sull’atrio tetrastilo, radendo al suolo tre delle quattro colonne in tufo e decorate in stucco; rimaneva integra solo la colonna posta a nord. Le colonne distrutte furono subito ricostruite utilizzando i metodi del periodo, ossia con grandi grappe in ferro e malte cementizie; dopo il terremoto dell’Irpinia, una delle colonne venne anche puntellata per sostenere le parti frammentate. Il restauro consente di restituire alle visite un altro pezzo di questa prestigiosa

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dimora, che reca in sé la testimonianza di un capitolo drammatico di Pompei legato all’ultima guerra mondiale.

Casa del Poeta tragico

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Simbolo per eccellenza della proprietà privata, il celebre mosaico con cane alla catena e iscrizione CAVE CANEM, scoperto tra il 1824

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Il mosaico del CAVE CANEM all’ingresso della Casa del Poeta tragico.

e il 1825 nella raffinata Casa del Poeta tragico, è tornato all’antico splendore grazie ai restauri. La raffigurazione del molosso ringhioso legato alla catena, divenuta una delle icone internazionali del sito vesuviano, non è isolata: compare, infatti, anche nelle case di Paquius Proculus e di Orfeo, nonché, da ultimo, sul bancone dipinto del termopolio scoperto nella Regio V. Il cane da difesa, la cui


presenza era raccomandata da Catone per le villae piú lussuose, veniva anche affrescato sulle pareti delle dimore signorili; nel Satyricon di Petronio (29, 1) l’ingresso della domus del ricco liberto Trimalcione era dominato dalla rappresentazione di un grande cane da guardia, talmente vivace e realistica da atterrire l’ospite Encolpio: «Quanto a me, trasecolato da tutto quel che vedevo, a un tratto do un balzo indietro e per poco non mi spacco la gamba. Perdiana! Proprio a sinistra di chi entrava, vicino al casotto del portiere, c’era un molosso immane, legato con tanto di catena, dipinto sul muro, sí, ma che sembrava vero, e sopra a lettere grandi tanto, una scritta: “attenti al cane”». Il restauro del mosaico è stato svolto dando la possibilità al pubblico di assistere all’intervento mediante l’uso di protezioni speciali. Una curiosità: il mosaico del cane è alloggiato su un supporto in pietra vulcanica dal momento che fu staccato dopo la scoperta dalla sua sede originaria, l’ingresso della casa (fauces), e portato al Museo Archeologico di Napoli alla metà dell’Ottocento – «a guardia» della sala degli oggetti preziosi – per essere poi ricollocato in situ all’inizio del secolo successivo. L’analisi degli elementi costitutivi del mosaico ha permesso di precisare la natura delle tessere utilizzate, bianche in calcare, nere di vulcanite, policrome (verdi, rosse, azzurre) in pasta vitrea. Due momenti degli interventi di consolidamento e restauro del mosaico del CAVE CANEM, ai quali il pubblico ha potuto assistere in diretta.

regio VI

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Nella Regio VI, estesa nel quadrante nordoccidentale di Pompei, l’asse stradale principale è Via di Mercurio, che, con la sua notevole larghezza (7 m circa), corrisponde al cardine massimo (cardo maximus) del centro arcaico; la Regio è delimitata a est da Via Vesuvio, che ricalca un tracciato del IV secolo a.C., e, a ovest, dalla Via Consolare, una strada di origine antichissima; a nord e a ovest, il quartiere è invece compreso dalle mura urbiche, nel cui angolo nord-occidentale si apre uno dei principali accessi alla città, Porta Ercolano. La Regio VI ha rappresentato un

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esempio virtuoso nell’ambito del recente recupero di un quartiere pompeiano. Terremoti, bombardamenti, restauri impropri e incuria avevano portato al degrado di uno dei settori urbani piú importanti. Quando l’allora direttore degli scavi Giuseppe Fiorelli, poco dopo la metà dell’Ottocento, ideò per Pompei una sorta di sistema catastale con il fine di rendere piú agevole la visita della città antica e la localizzazione degli edifici pubblici e privati, fra i nove quartieri definiti (Regiones), la Regio VI, con la sua pianta a scacchiera, rappresentava la zona piú regolare dell’intero tessuto urbano; ne facevano parte 17 insulae, comprendenti case prestigiose, come quelle del Poeta tragico, del Fauno e dei Vettii, per una superficie complessiva di 80 000 mq circa. La Regio fu, tra l’altro, una delle prime a essere scavate in maniera estensiva, allo scopo di rendere visitabile almeno una parte della città. La messa in sicurezza e alcuni restauri hanno concesso finalmente di riaprire alla visita aree precedentemente interdette, e di rileggere le evoluzioni delle strutture edilizie che raccontano vicende, trasformazioni, ampliamenti o ridistribuzioni degli ambienti interni alle costruzioni, compavendite di immobili, cambiamenti di destinazioni d’uso. In alcuni casi, infatti, è stata riscontrata la mancanza di ammorsature tra le pareti conservate dovuta a interventi successivi al sisma del 62 d.C., in occasione dei quali si è ricostruito con tecniche edilizie diverse e piú rapide rispetto alle precedenti.

Una vocazione antica Sin dal II secolo a.C., l’area assunse una vocazione residenziale, preferita dall’aristocrazia sannitica che vi costruí agiate dimore, poi inglobate nelle case romane di Pansa, della Fontana Grande, dei Dioscuri, dell’Ancora, di Sallustio e, in particolare, del Fauno, che occupa un’intera insula. La zona conservò questa sua vocazione anche dopo la deduzione della colonia e nella prima età imperiale, con la costruzione di altre importanti

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A sinistra l’ingresso della Casa del Labirinto. Nella pagina accanto, in alto uno dei cantieri aperti nella Regio VI. Nella pagina accanto, in basso particolare di un affresco con toletta di ermafrodito nella Casa dell’Adone Ferito. A destra il mosaico del vestibolo della Casa dell’Ancora che ha dato nome al complesso. In basso l’affresco raffigurante Adone morente soccorso da Venere e circondato da amorini nella Casa dell’Adone Ferito.

dell’opera incerta, mentre nel peristilio furono ricostruite alcune colonne. Fra i complessi restituiti, si segnala anche la Casa di Adone Ferito, notevole per gli affreschi a soggetto mitologico: grazie a una erogazione liberale (proventi dalla vendita del libro su Pompei di Alberto Angela), sono stati restaurati i due dipinti con la grande composizione sulla parete nord del giardino che dà il nome alla casa (Adone morente soccorso da Venere e circondato da amorini) e con la Toletta di Ermafrodito, in un ambiente a sud della casa. E ancora la Casa dell’Ancora, su Via di Mercurio, con un’originale planimetria abitativa; prende il nome dalla raffigurazione presente sul mosaico del vestibolo ed è articolata in settori disposti su due livelli: ambienti di rappresentanza e privati intorno all’atrio e all’ariosa terrazza, e il grazioso giardino sottostante racchiuso da nicchie absidate e da un elegante portico.

domus, fra cui quelle del Labirinto, delle Vestali, degli Amorini Dorati e dei Vettii. Fra i recenti restauri, si può citare la Domus del Labirinto, cosi chiamata dal soggetto presente su un mosaico di uno dei cubicula padronali. La residenza presenta una pianta a doppio atrio – il principale tetrastilo e il secondario tuscanico – e un ampio peristilio, oltre a un settore termale privato e a uno spazio per la produzione interna del pane. Dopo aver subito danni nell’assedio sillano dell’89 a.C., la domus divenne proprietà della potente famiglia dei Sextilii; riportò notevoli danneggiamenti ancora col terremoto del 62 d.C., come evidenziano sui muri perimetrali le diverse ammorsature in laterizio e le cuciture in opera quadrata nelle lacune

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ITINERARI DI VISITA

Interessanti dati sulle fasi costruttive dell’edificio provengono dagli scavi di un triclinio e dal giardino porticato che, secondo Maiuri, sembra essere quasi un prototipo dei giardini delle ville rinascimentali italiane.

Casa dei Vettii

31.

Fra le novità scaturite in questi ultimi anni spicca sicuramente, seppur parziale, la riapertura della Casa dei Vettii. La signorile dimora, per anni chiusa, svela gli ambienti d’ingresso – posti sotto la protezione di Priapo, dio dal grande fallo dipinto a destra del portone e simbolo della prosperità dei proprietari della casa, i fratelli commercianti

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In alto il triclinio della Casa dei Vettii noto come la «Pinacoteca». Nella pagina accanto, in alto la cassaforte trovata nell’atrio della Casa dei Vettii. Nella pagina accanto, in basso particolare del fregio della Casa dei Vettii raffigurante un amorino alla guida di una biga tirata da una coppia di delfini. A destra una foto degli scavi condotti da Amedeo Maiuri presso Porta Vesuvio.

ex liberti Aulus Vettius Conviva e Restitutus – con l’atrio e i suoi cubicula, e il pregevole triclinio con affreschi a tema mitologico. Il legame dei proprietari con Priapo è confermato dalla presenza di una statua in marmo, che originariamente decorava lo scenografico giardino e che fu accantonata, al momento dell’eruzione, in una stanza della casa. Sempre nell’atrio è stata sistemata una delle due casseforti in bronzo riccamente decorate a sbalzo e cesello, in origine posizionate ai lati di questo spazio. Altro ambiente visitabile è il triclinio, abbellito da ricercati quadri policromi, in passato tenuto poco illuminato affinché la troppa luce non alterasse i colori e la godibilità delle scene, disposte come in una moderna pinacoteca. Le raffigurazioni mitologiche mostrano al centro delle tre pareti Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso; Dedalo che dona a Pasifae, moglie di Minosse, la vacca di legno da cui nascerà il Minotauro; Mercurio, invitato da Zeus, che lega lssione su una ruota di fuoco che gira continuamente nel cielo per punirlo di aver concupito Giunone.

mura 32. Le mura che cingono Pompei costituiscono un eloquente ricordo di battaglie di oltre 2000 anni fa. Lunga piu di 3 km, e in gran parte conservata per un notevole elevato, la cinta urbana è dotata di sette porte (Ercolano, Vesuvio, Nola, Sarno, Nocera, Stabia e Marina) e di dodici torri, numerate a partire dal lato meridionale del centro. Originariamente in grandi blocchi, le mura mostrano alcuni tratti ripristinati in opera incerta di lava che

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corrispondono probabilmente alle brecce aperte durante l’assedio sillano dell’89 a.C., come testimonia anche l’iscrizione che ricorda il restauro della cinta voluto dai duoviri Cuspius e Marcus Loreius, all’indomani dell’istituzione della colonia romana. I due graffiti con il nome «Silla», letti agli inizi del Novecento su un lembo d’intonaco al primo piano della Torre X, vicina a Porta Vesuvio, sono stati interpretati come segno di presa della città da parte di un legionario. Dentro Pompei, conservate forse per scaramanzia nell’antichità, sono state rinvenute numerose palle di pietra lanciate nell’assedio dalle macchine belliche piu potenti. La storia delle fortificazioni di Pompei costituisce anche un importante fil rouge per la conoscenza della sistemazione urbana. La città conserva tre circuiti difensivi, disposti all’incirca sullo stesso percorso, costruiti in tempi diversi e con materiali e tecniche differenti. I primi due piú antichi, il muro in pappamonte (un tufo tenero e facilmente lavorabile) e quello a ortostati, sono noti attraverso alcuni resti archeologici, mentre la terza cinta in calcare si estende su tutto il perimetro oggi visibile e documenta, a sua volta, altri rifacimenti eseguiti fino alla distruzione del 79 d.C. A una prima fortificazione arcaica del VI secolo a.C. si attribuiscono i tratti di muratura in blocchi di pappamonte e lava tenera sul fronte settentrionale (presso Torre XI, a Porta Vesuvio, e Torre IX) e sud-orientale, vicino a Porta Nocera. La prima cinta includeva importanti spazi sacri come il santuario di Apollo e il Tempio Dorico, nonché luoghi pubblici, quali la piazza del mercato nell’area del successivo Foro civile, mentre l’occupazione interna

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doveva essere caratterizzata da quartieri abitativi sparsi. Un aggiornamento del circuito murario avviene fra il VI e il V secolo a.C., come si può osservare dai tratti visibili presso Porta Ercolano, Torre Mercurio, Porta Vesuvio, Porta Stabia e Porta Nocera. La nuova cinta, detta «a ortostati», è contraddistinta da una doppia cortina in calcare e da un riempimento interno composto da terra e pietrame: si tratta di una

A sinistra un tratto delle mura a ortostati di tipo greco visibili presso Porta Vesuvio. In basso un tratto delle mura presso Porta Ercolano con fori delle baliste. Nella pagina accanto, in basso i fori lasciati dai proiettili delle baliste sul paramento delle mura di Pompei durante l’assedio dell’89 a.C.

all’alba d’un giorno d’estate...

N

ella primavera dell’89 a.C., insieme ad altre città italiche, Pompei si solleva contro Roma reclamando a gran voce la piena cittadinanza ed esponendosi cosí a conseguenze militari che non tardano ad arrivare. Al comando dell’esercito romano è il generale Lucio Cornelio Silla che attacca la città sul lato settentrionale della cerchia, tra Porta Ercolano e Porta Vesuvio.


In alto scale nella cinta a ortostati presso Porta Ercolano.

tecnica evoluta, di chiara ispirazione greca, verosimilmente cumana, che si ritrova anche a Neapolis. Alla fine del IV secolo a.C., dopo l’affermazione dei Sanniti in città, si rende necessario adeguare il sistema difensivo per l’evolversi delle tecniche murarie e militari: si adotta una fortificazione di tipo italico «ad aggere», con un robusto terrapieno di rinforzo sul lato interno. La nuova cinta in blocchi di

Senza dubbio è il tratto migliore della fortificazione, armato da una possente struttura a doppia cortina in blocchi rincalzata da un aggere di terra, e ben difeso da torri poste a 200 m circa l’una dall’altra. Ma dal ciglio del fossato delle mura fino alle falde del Vesuvio, contrariamente agli altri lati del pianoro urbano segnati da fianchi scoscesi, si estende un’ampia pianura, idonea al dispiegamento delle catapulte e delle baliste da sfondamento. Essendo romani sia gli armamenti che le tattiche degli assedianti e degli assediati, apparve chiaro che la città sarebbe caduta solo dopo un lungo ed estenuante assedio. La difesa dei Pompeiani dagli spalti delle mura e dalle torri è strenua e, in un primo momento, i Romani hanno addirittura la peggio, grazie anche

calcare e tufo oblitera del tutto le due precedenti strutture difensive. Allo stesso periodo sannita appartiene la monumentalizzazione delle porte urbiche, costituite da un profondo passaggio attraverso l’aggere, rinforzato da due bastioni esterni con portone a due battenti. Forse con la minaccia annibalica si aggiunge una seconda cortina muraria interna, funzionale alla realizzazione di un camminamento di ronda protetto da parapetti. Studi recenti hanno messo in discussione la ricostruzione tradizionale delle mura pompeiane proposta da Amedeo Maiuri, immaginando invece un sistema originario già a doppia cortina: e proprio per verificare questa ipotesi sono stati avviati scavi presso la Torre di Mercurio, mirati a comprendere origine e sequenza delle strutture. (segue a p. 92)

alla collaborazione degli alleati italici capitanati da Lucio Cluenzio. Ma, all’alba di una calda giornata estiva, una grandine di palle di pietra si abbatte contro le mura cittadine, sgretolando i parapetti difensivi e annientando il contrattacco delle artiglierie disposte sulle torri di guardia. Pompei e gli alleati perdono la loro guerra, Roma ristabilisce la sovranità e la città diviene prima municipium, poi, nell’80 a.C., Publio Cornelio Silla, nipote del dittatore Lucio, ne fa una colonia col nome di Cornelia Veneria Pompeianorum. E ancora oggi, nel paramento tra Porta Ercolano e Porta Vesuvio, si possono contare centinaia di crateri lasciati dai colpi delle baliste, delle catapulte, delle fionde, i piu grandi dei quali hanno un diametro fino a 15 cm e una penetrazione di 12.

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un matrimonio felice

U

no degli eventi espositivi piú innovativi ospitati recentemente a Pompei, immortalato da migliaia di visitatori, è stata la mostra dedicata alle grandi sculture di Mitoraj, in uno sperimentale connubio fra archeologia e arte contemporanea. «In generale, deploro che l’architettura non integri nella sua elaborazione l’opera d’arte, che si aggiunge molto spesso a seconda delle risorse a disposizione e al di fuori di ogni considerazione estetica»: con questa critica l’artista di origine polacca Igor Mitoraj (1944-2014), amante di Pompei, ambiva a stimolare una profonda relazione fra arte e luoghi, e nel suo caso un’integrazione armonica fra sculture sovradimensionate e scenari costruiti. Ogni volta Pompei offre ai visitatori lo stupore della scoperta archeologica, sempre entusiasmante, attraverso strade, santuari, edifici pubblici, dimore riccamente decorate e, in generale, strutture in mattoni invase dalla calda luce mediterranea che incantano, in ogni momento dell’anno, l’osservatore con le loro

variegate tonalità. Quindi uno scenario straordinario per accogliere, per la prima volta negli scavi, un progetto espositivo di arte contemporanea di ampio respiro. Dopo le mostre dell’artista nella Valle dei Templi ad Agrigento e nei Mercati di Traiano a Roma, quella di Pompei ha suggellato un binomio osmotico tra il sito archeologico e l’attualità classica di Mitoraj. Una trentina di sculture in bronzo sono state allestite in settori cruciali degli scavi, a partire dalla maestosa e iconica immagine del Dedalo, mitico artefice e inventore affacciato sul ciglio della rupe del Tempio di Venere, opera donata al Parco

In alto Dedalo di Mitoraj affacciato sulla terrazza del Tempio di Venere. In basso Gambe alate e Torso di Ikaro nel cortile del Quadriportico dei Teatri.

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Dall’alto Tindaro al Foro; l’allestimento del Quadriportico dei Teatri con Teseo screpolato, Torso di Ikaro e Gambe alate; il Centauro al Foro.

Archeologico e che oggi accoglie i visitatori all’ingresso di piazza Esedra. L’esposizione ha compreso su viale delle Ginestre l’affettuosa rappresentazione di Hermanos (I fratelli), nel Quadriportico dei Teatri il grande profilo del Teseo screpolato, il Torso di Ikaro e Gambe alate, per poi risalire al Foro Triangolare, con la composta eleganza della coppia di Ikaro alato e Ikaria, immaginata dall’artista come sorella di Icaro e Dedalo. Il percorso ha poi raggiunto le Terme Stabiane, dominate al centro della palestra dal laconico sguardo del Centurione, mentre i gruppi enigmatici dei Pompeiani rinascevano nell’apodyterium (spogliatoio) della sezione maschile. Tramite Via dell’Abbondanza, si è raggiunto il Foro cittadino: qui la dimensione degli spazi si è unita all’imponenza dei colossi di Mitoraj. Tindaro è stato fuso nel tradizionale scorcio del Tempio di Giove con il Vesuvio sullo sfondo; l’Ikaro blu sembrava invece appena precipitato dal cielo e mollemente adagiato sul pavimento della piazza, mentre il Centauro svetta ancora oggi, con la sua lunga lancia verticale, su un antico podio meridionale del Foro, rievocando cosí l’antico fasto di questo spazio pubblico. Forse una delle immagini piú suggestive che può restituire Pompei. Infine, nella Basilica, una serie di immagini sembravano dialogare fra loro: Ikaro, Ikaro screpolato e Ikaria bretelle hanno rievocato cosí le appassionate e animate discussioni che in questo grande edificio pubblico si legavano alla gestione degli affari e dell’amministrazione della giustizia.

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ITINERARI DI VISITA L’AFFRESCO

via dei Sepolcri

33.

La scoperta di un atelier ceramico su Via dei Sepolcri – adiacente alla scenografica necropoli fuori Porta Ercolano – articolato in tre botteghe, ha permesso di conoscere le diverse fasi di un’attività artigianale al momento dell’eruzione del 79 d.C. La ricerca è stata anche l’occasione per studiare l’organizzazione, la gestione e la trasformazione di una zona suburbana, caratterizzata dalla compresenza di spazi funerari e spazi artigianali e commerciali. Le indagini, eseguite dal CNRS di Parigi e dall’Università di Montpellier, si sono soffermate sull’attività manifatturiera della bottega: dallo studio della fornace, per capire il periodo d’utilizzo, alle caratteristiche dell’attività produttiva, specializzata nella fabbricazione di «pignattini», già segnalati in questa zona nei diari di scavo ottocenteschi. Si sono cosí identificati gli spazi di lavoro, dal tornio del vasaio ai bacini di decantazione. In prossimità della fornace, un livello di lapilli del 79 d.C. ricopriva, proteggendoli, una decina di vasi non ancora cotti: sono boccalini a pareti sottili, usati per bere o per versare bevande nelle locande pompeiane, decorati

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In questa pagina due immagini dell’atelier ceramico scoperto su Via dei Sepolcri: in alto, la bottega con l’antistante ritrovamento della tomba sannitica; in basso, uno degli interni dell’officina.


A destra, in alto particolare del corredo ceramico rinvenuto nella tomba sannitica antistante l’atelier ceramico. A destra, al centro boccalini a pareti sottili che ancora dovevano essere cotti al momento dell’eruzione. In basso la fornace adibita alla cottura dei vasi.

con piccole incisioni e con la superficie rivestita di un sottile strato di finissima argilla diluita (ingobbio). Si è cosí capito che la bottega era in piena attività al momento dell’eruzione vesuviana. L’esplorazione davanti alle botteghe ha inoltre permesso di scoprire sepolture a inumazione di età sannitica entro cassa costruita con lastre di calcare. Si tratta di un’importante testimonianza sulle pratiche funerarie della Pompei preromana, distinte da corredi composti da oltre una decina di vasi dipinti della metà del IV secolo a.C. (esposti nell’Antiquarium). Il rinvenimento contribuisce a far luce sulla società pompeiana in un momento cruciale della storia della Campania antica, che vede l’affermazione di nuove comunità di stirpe sannitica. Il tipo di sepoltura, nota in altri centri campani, era documentata a Pompei solo da vecchie notizie ottocentesche. Il rinvenimento consente finalmente di approfondire la ricerca sulla comunità locale: le indagini antropologiche hanno accertato che, in un caso, si tratta della deposizione di una donna adulta di mezza età (35-40 anni), in un altro di un uomo adulto, deposto sul dorso con ricco corredo ai lati del corpo, tombe miracolosamente scampate al bombardamento del settembre 1943.

Villa di Diomede

34.

Il Parco Archeologico ha recentemente aperto al pubblico il cantiere di restauro della Villa di Diomede, la grande e scenografica residenza situata lungo Via dei Sepolcri, sulla strada per Ercolano. La denominazione deriva dall’impropria associazione della residenza con l’antistante tomba di M. Arrius Diomedes. Si tratta di uno dei primi complessi scoperti a Pompei, tra il 1771 e il 1775, e di uno dei monumenti piú descritti e rappresentati da architetti e viaggiatori del Grand Tour. Le recenti ricerche, coordinate dall’École normale supérieure di Parigi, hanno permesso di ricostruire l’evoluzione storica dell’edificio,

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ITINERARI DI VISITA

dalla sua costruzione alla scoperta archeologica, fino agli interventi conservativi contemporanei. Il primo impianto della villa risale probabilmente al II secolo a.C., ma il complesso venne profondamente ristrutturato e ampliato al momento della fondazione della colonia, nell’80 a.C. La monumentale residenza (estesa oltre 3500 mq) è organizzata su tre livelli e mostra la caratteristica dell’inversione del peristilio, disposto prima dell’atrio, secondo le prescrizioni dettate dall’architetto Vitruvio per le grandi ville. Dopo il peristilio, ai lati dell’atrio, si trovano le stanze padronali oggetto di restauro, riccamente decorate e affacciate sul giardino sottostante e sulla splendida marina.

In fuga con i sesterzi La zona servile si trovava invece sul lato d’ingresso dell’edificio e qui era custodita tutta l’attrezzatura agricola. Il quartiere inferiore, raggiungibile con una scala, accoglie invece il criptoportico che funge da sostegno al peristilio con giardino. Nei pressi della porta posteriore della villa furono trovati due corpi aggrovigliati, uno dei quali aveva un anello d’oro al dito e una chiave d’argento in mano (secondo alcuni il proprietario della residenza), e teneva un gruzzolo di 1356 sesterzi. Altri diciotto corpi, fra i quali donne e bambini, asfissiati dai vapori eruttivi, furono scoperti nel sotterraneo. La prima fase del progetto di ricerca ha visto la realizzazione di un modello fotogrammetrico in 3D di alta qualità, integrato con la copiosa documentazione storica della villa costituita da

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rilievi sette-ottocenteschi, copie delle pitture parietali, vedute e vecchie fotografie, che hanno permesso di far «rivivere» nel modello tridimensionale una visita virtuale della residenza al momento della sua scoperta, quando sulle murature ancora brillavano i colori delle pitture pompeiane. Per fortuna, Francesco La Vega, direttore degli scavi alla fine del Settecento, fece in modo che l’avanzamento dei lavori fosse accuratamente documentato e, consapevole dell’inevitabile degrado che avrebbero subito le decorazioni lasciate in posto, fece fare copie delle pitture parietali da vari disegnatori. Lo studio ha poi analizzato il cantiere di costruzione: l’analisi delle stratigrafie murarie associata a quella delle pitture parietali e dei pavimenti a mosaico hanno permesso di precisare l’evoluzione edilizia della costruzione e di individuare i vari rifacimenti durante il suo tempo di vita. È stata per esempio focalizzata

In alto, a sinistra la Villa di Diomede in una veduta ripresa da drone. In alto, sulle due pagine assonometria ricostruttiva della Villa di Diomede ottenuta dall’associazione del modello fotogrammetrico, del modello senza tessitura e della proiezione del modello nella pianta realizzata da François Mazois intorno agli anni Dieci dell’Ottocento.


monumento e approfondire le conoscenze e le tecniche utilizzate dai Romani per far fronte al rischio sismico, un aspetto interessante e ancora poco indagato nella storia dell’architettura antica. La villa conserva, infine, un lembo di storia del Grand Tour iscritto sui suoi muri: celebri autori, da François-René de Chateaubriand ad Alexandre Dumas, hanno peraltro descritto o citato l’edificio nelle loro opere. All’interno della dimora è cosí possibile analizzare questa memoria testuale; molti graffiti incisi dai viaggiatori a partire dalla fine del Settecento

la ricostruzione parziale del complesso all’indomani del violento terremoto che devastò Pompei nel 62 d.C.; in particolare, la collaborazione con gli ingegneri dell’Università degli Studi Federico II di Napoli ha permesso di trasformare la villa in un laboratorio privilegiato per esplorare il comportamento strutturale del A destra un’immagine delle attuali condizioni del bacino termale della Villa di Diomede (in alto) e la sovrapposizione del rilievo ottocentesco della medesima struttura sullo stato attuale del muro.

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sono presenti nelle stanze piú belle, fra cui quello del conte di Cavour; brevi nomi che consentono comunque di ricostruire i flussi di visita in relazione alle diverse nazionalità rappresentate fino a tutto l’Ottocento.

Villa dei Misteri

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«Cosí la Villa dei Misteri con il suo grande dipinto di soggetto dionisiaco, con le nobili strutture e decorazioni del quartiere signorile e con gli impianti della sua azienda agricola, compendia e riassume in sé, nell’arte, nella religione e nell’industria tratta dal lavoro dei campi, i diversi ed essenziali aspetti della città sepolta». Con queste parole Amedeo Maiuri, che scavò la famosa villa suburbana fra il 1929 e il 1930, riassume con estrema efficacia le singolarità di uno degli edifici privati piú affascinanti di Pompei. Dopo un accurato restauro, il monumento è tornato a svelare al pubblico l’eleganza delle sue stanze e la meraviglia dei suoi eccezionali affreschi e pavimenti, veri capolavori dell’arte romana. L’occasione di immergersi negli spazi rivitalizzati del grandioso edificio, per apprezzare non solo la freschezza dei colori originali della pittura pompeiana piú colta, ma anche le atmosfere di una delle cerimonie sacre piú «misteriose» del mondo antico. Villa dei Misteri appartenne forse agli Istacidii, una delle famiglie piú note della Pompei di età augustea, la cui tomba, decorata con statue dei maggiori rappresentanti della stirpe, è ben visibile nella vicina necropoli fuori Porta Ercolano. Fra gli esempi meglio riusciti di commistione fra villa d’otium e villa rustica, sviluppatasi proprio nelle aree vesuviane, il complesso rappresenta – assieme alla vicina Villa di Diomede – il tipico modello di residenza di periferia delle classi elevate, diffusosi come «rifugio» dal caos urbano e come centro di produzione ed elaborazione di prodotti agricoli. Costruita su un pendio affacciato verso la marina, lungo la strada che, uscendo da Pompei, si dirigeva a Ercolano, Villa dei Misteri raggiunse l’aspetto monumentale attorno al 60

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Un momento dei restauri condotti nella sala decorata dal grande dipinto a tema dionisiaco che ha dato nome alla Villa dei Misteri.

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a.C., quando venne rinnovata con una ricchissima decorazione parietale e pavimentale. In età augustea, la villa fu oggetto di un secondo rimaneggiamento, che ha riguardato soprattutto gli alloggi della servitú, dove è stato rinvenuto il sigillo di L. Istacidus Zosimus, un liberto degli Istacidii.

Da residenza di lusso a fattoria L’aspetto odierno si deve agli interventi edilizi seguiti al terremoto del 62 d.C., momento in cui se ne è avviata la conversione da villa residenziale a fattoria agricola. All’epoca dell’eruzione del 79 d.C., l’ultimo proprietario stava riadattando l’edificio al gusto corrente della sua età e, soprattutto, alle proprie condizioni sociali ed economiche, sicuramente meno elevate rispetto a quelle di chi l’aveva preceduto. I pochi oggetti rinvenuti durante gli scavi hanno fatto supporre che, all’epoca degli ultimi lavori di ristrutturazione, il complesso fosse in parte disabitato. Uno degli ambienti nobili, il cubicolo a doppia alcova con pavimentazione a mosaico, era stato addirittura destinato a deposito di cipolle. È possibile quindi che, al momento dell’eruzione, la villa fosse stata svuotata di gran parte delle suppellettili. Maiuri rinvenne scheletri umani nella parte servile della residenza, una

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circostanza che indicherebbe invece che questa parte di villa era ancora vissuta. Dall’ingresso principale, aperto a est (ancora non completamente scavato), si accedeva all’ampio e luminoso peristilio, che raccordava i vari settori dell’edificio: un vero e proprio snodo vitale della villa. Ai lati dell’ingresso si sviluppava il quartiere servile, strettamente collegato ai locali produttivi, fra cui spiccano quelli destinati alla lavorazione del vino (torcularia). Il lussuoso quartiere residenziale si trovava sul lato opposto, a ovest, in direzione del mare, e si impostava originariamente su un suggestivo asse prospettico costituito in sequenza da atrio, tablino e sala di soggiorno, chiusa in fondo da un’imponente esedra semicircolare fenestrata, simile alle grandi verande vetrate di certe ville moderne. Il fronte mare, sostenuto da un solido criptoportico, era il piú scenografico, con una lunga terrazza immersa fra lussureggianti giardini pensili. Nella parte meridionale della villa si trovavano i cubicoli, il piú elegante dei quali è affrescato con slanciate architetture reali, arricchite da false aperture tipo trompel’œil e affiancate da figure isolate idealmente «strappate» dalle scene dionisiache della sala del triclinio, come la maliziosa immagine del satiro danzante. Sempre a sud del complesso

In basso, sulle due pagine fotomosaico delle pitture che ornano un cubicolo a doppia alcova adiacente alla sala della megalografia. Tra le altre, si riconoscono le figure di un satiro danzante e di una sacerdotessa (vedi foto alle pp. 100/101).


Qui sotto veduta esterna verso la marina della Villa dei Misteri, con il giardino in primo piano.

trovava posto un piccolo atrio con adiacente peristilio: qui, al momento dell’eruzione, era stata provvisoriamente deposta una statua, forse raffigurante l’imperatrice Livia (esposta nell’Antiquarium), in attesa di essere riallocata una volta ultimati i lavori della villa. Una grande cucina e l’irrinunciabile zona termale completano i servizi presenti su questo lato. Le sale in cui si snoda il quartiere residenziale

manifestano, attraverso raffinate e incomparabili soluzioni architettoniche e ornamentali, il gusto dei committenti e la loro sensibilità per la cultura greco-ellenistica, che nel I secolo a.C. stava dilagando nel mondo romano. Il tutto viene sapientemente tradotto in espressione artistica da capaci maestranze di possibile origine campana. Gli ambienti residenziali, dove si sono

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ITINERARI DI VISITA

concentrati i recenti lavori di restauro, sono affrescati con pitture prevalentemente di II stile. Dall’atrio si entra nel tablino, originariamente aperto sul peristilio, ma poi chiuso e trasformato in stanza, impreziosito da una raffinata decorazione in III stile, a fondo nero e con ricercati motivi miniaturistici direttamente ispirati alla pittura dell’antico Egitto, che tanto affascinò i nuovi conquistatori della terra dei faraoni; da uno dei decori della stanza deriva l’attuale logo del Parco Archeologico di Pompei. Dal soggiorno con esedra si accede, attraverso un passaggio laterale, alla sala del grande dipinto a tema dionisiaco, una delle meraviglie artistiche di Pompei. Questo ambiente era in origine un oecus, collegato all’adiacente doppia alcova nuziale, e solo piú tardi assunse la destinazione di triclinio invernale. Il nome della villa si deve appunto agli imponenti affreschi della sala, detta anche «della Megalografia» o «dei Misteri», per via del soggetto molto discusso e pervaso da una calma religiosa. La tesi piú seguita riconosce nella scena la rappresentazione di un rito legato a Dioniso, ispirata a un originale ellenistico datato fra il IV e il II secolo a.C.: forse l’iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci. Sappiamo dalle fonti che, a chiunque partecipava a culti di questo genere, era fatto divieto assoluto di lasciarsi sfuggire qualsiasi minima indiscrezione legata al rito. I Misteri passarono a Roma proprio dall’ambito campano ed etrusco e si svilupparono parallelamente alla religione ufficiale. Per via del loro rapido successo presso i ceti abbienti dell’Italia meridionale, furono lungamente avversati dal Senato. Ma chi commissionò questo impegnativo ciclo di affreschi? Secondo alcuni studiosi proprio la facoltosa padrona della villa, che, per l’originale tematica dei dipinti, è stata perfino considerata una ministra del culto di Dioniso. L’unica certezza è che i proprietari della villa concepirono per questa sala un programma decorativo di straordinario rinnovamento, fortemente imbevuto di classicità greca. Le scene della megalografia occupano la fascia

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mediana della sala e poggiano su uno zoccolo decorato a finto marmo. Le figure, con la loro aulica imponenza, sono disposte a gruppi e sembrano essere state ritagliate, incollate e quasi private delle ombre. La particolarità del soggetto ha fatto si che archeologi, storici e restauratori si esprimessero in vario modo su questo impianto decorativo, alcuni addirittura interpretando il podio illusionistico come una rappresentazione teatrale. In sintesi, si possono indicare per la cerimonia due spiegazioni principali, forse anche combacianti: come si è detto, potrebbe trattarsi di un rito iniziatico dionisiaco oppure dei preparativi per le nozze di una giovane altolocata.

Un’interpretazione controversa Come in una sequenza di fotogrammi, il grande fregio individua momenti cruciali della cerimonia, che vede le figure impegnate in varie azioni sacre. Già dalla prima scena da sinistra, accanto alla porticina di collegamento con il cubicolo nuziale a doppia alcova, l’interpretazione del soggetto è alquanto controversa. Il primo gruppo è costituito da due donne e un bambino che legge un testo. Secondo alcuni studiosi, il bambino è da identificare con lo stesso Dioniso fanciullo intento nella lettura delle prescrizioni del rituale tra la madre Semele e la sorella Ino. Secondo Maiuri, invece, si tratterebbe piuttosto di uno «dei giovinetti adibiti in funzione di sacerdoti fanciulli al servizio della divinità di Dioniso, iniziati anch’essi ai Misteri»; infine, lo storico Paul Veyne ritiene che si tratti del fratellino della giovane sposa, impegnato nella lettura dei classici, seguito dalla precettrice e affiancato dalla madre. A questa scena segue una giovane donna che porta offerte sacre e che transita tra la prima rappresentazione e la successiva: secondo una delle interpretazioni piú accreditate, saremmo di fronte all’offerta di una focaccia ai convitati, considerata di buon auspicio per i novelli sposi. Seguono altre donne, impegnate nella preparazione di un bagno rituale, che secondo la tradizione anticipava e seguiva il primo rapporto sessuale.


Coppetta con colore, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il vasetto contiene grumi amorfi di rubrica, cioè di ocra rossa a base di ossidi di ferro.

Le figure di un satiro danzante e di una sacerdotessa facenti parte della decorazione pittorica del cubicolo a doppia alcova.

Un sileno che suona e canta precede poi una panisca (originale versione romana di Pan al femminile), che offre il suo seno a una cerbiatta. Chiude la parete una menade in posizione dinamica, che assiste al compimento della cerimonia. Il gruppo successivo, a sinistra della parete di fondo della stanza, ha stimolato l’ipotesi che l’affresco possa riprendere una rappresentazione teatrale, per la presenza di un sileno che impugna una coppa e offre da bere a un satiro alle sue spalle, mentre un secondo satiro innalza una maschera teatrale. Lo svolgimento del rito converge al centro della parete di fondo, occupata da Dioniso che si abbandona mollemente sull’aggraziata figura femminile seduta in trono (purtroppo lacunosa), identificata dai piú con Arianna: un riferimento alle nozze fra i due protagonisti, simbolo della felicità ultraterrena che attende gli iniziati al culto. Un momento significativo del culto è raggiunto con lo svelamento della mystica vannus (cesto mitico), tradotto con l’immagine di una giovane donna in atto di proteggere il contenuto di un paniere coperto da un panno, da identificare con il fallo, simbolo della fecondità. La cerimonia continua con la flagellazione rituale ed espiatoria di una donna colpita da un essere femminile alato mentre è chinata sul grembo di una compagna; accanto, una menade nuda del corteggio danza vorticosamente in preda all’esaltazione rituale. Nei riti dionisiaci, la fustigazione era intesa come mezzo catartico. Sulle pareti ai lati dell’ingresso della sala trovano infine posto, da una parte, la scena della toletta di una giovane sposa dallo sguardo ammaliante, acconciata per il rito nuziale; dall’altra parte, il ritratto di una donna matura seduta, ammantata e assorta, forse proprio la domina alla quale suggestivamente si potrebbe attribuire la commissione del grande affresco dionisiaco. La rappresentazione simbolica delle sue nozze?

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LA RICERCA E L’EMOZIONE

Il cantiere di scavo nella Regio V, dove è stata esplorata un’area di oltre 1000 mq, fra la Casa delle Nozze d’Argento e quella di Marco Lucrezio Frontone.

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Anche le scoperte piú recenti rinnovano la «magia» di Pompei, capace di restituire le immagini della vita dei suoi abitanti come nessun altro sito archeologico al mondo

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NUOVE SCOPERTE

N

el 2018 ha preso il via una nuova e sorprendente stagione di ricerche archeologiche, la piú importante dopo oltre 60 anni, in un lembo urbano di Pompei rimasto ancora inesplorato. Gli scavi hanno riguardato un’area di oltre 1000 mq della Regio V, nella parte settentrionale della città, compresa tra la Casa delle Nozze d’Argento e la Casa di Marco Lucrezio Frontone, già parzialmente esplorata fra Otto e Novecento. La porzione di terreno indagata è denominata «cuneo» per la sua particolare configurazione, una sorta di grande dente compreso fra i vicoli omonimi delle due suddette case. L’intervento è ricaduto nel piano di messa in sicurezza dei fronti di scavo che delimitano i 22 ettari di città ancora da scavare, riprofilando gli alti fronti di terra per evitare smottamenti o, ancora peggio, pressione sulle strutture messe già in luce, una delle cause dei piú recenti crolli. Le indagini hanno riservato

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agli archeologi importanti novità, a partire da un vicolo chiamato «dei balconi» fino ad arrivare a residenze elegantemente decorate, quella di Orione e del Giardino, e a un termopolio interamente indagato. Grazie a questi lavori si è unito questo nuovo ambito al resto del tessuto cittadino visitabile, raggiungibile da Via di Nola.

Regio V, vicolo dei balconi 36. Dirette da Massimo Osanna, le ricerche nella Regio V hanno visto impegnati archeologi, ingegneri, antropologi, restauratori e altre figure specializzate, coinvolte in uno studio interdisciplinare senza precedenti per Pompei, supportato da tecniche e analisi di laboratorio avanzate che permettono di comprendere al meglio quanto si sta scavando. Nel «cuneo» è emersa, sotto la stratigrafia composta da livelli di cenere sovrapposti a strati di lapilli, un’articolata serie di strutture che consentono

In basso particolare, in corso di scavo, delle decorazioni pittoriche di II stile nella Casa di Giove.


In alto Massimo Osanna osserva lo scheletro del fuggiasco che, sopravvissuto alla prima ondata dell’eruzione, cercò inutilmente scampo e, oltre a essere investito dalla nube piroclastica, venne colpito da un pesante blocco di pietra.

di ricostruire l’organizzazione di questo settore abitato, sistemato lungo due vicoli disposti ad angolo fra loro nel pieno di un quartiere dal reticolo abbastanza irregolare, dovuto forse alla necessità di adattarsi agli edifici preesistenti e all’andamento delle vicine mura urbane. Da Via di Nola, superato il primo Vicolo di Cecilio Giocondo, ci si addentra nel secondo, diretto a nord e in leggera salita, fiancheggiante in fondo l’esterno della Casa delle Nozze d’Argento, la piú imponente del quartiere: è stata messa in luce l’originaria configurazione della stradina con tanto di marciapiedi e di ingressi alle botteghe ed edifici che vi si affacciavano. Il vicolo è stato chiamato «dei Balconi» per la scoperta di tre terrazze sulle quali, al momento dell’eruzione, erano state messe ad asciugare delle anfore da vino verosimilmente capovolte. I balconi si sono preservati perché, quando sono crollati, il vicolo era già ricoperto di lapilli, e quindi il loro fondo si è praticamente posato su questi ultimi. Sul vicolo sono stati individuati alcuni ambienti inizialmente attribuiti alla Casa di Giove –

scoperta fra Sette e Ottocento subito a sud della Casa delle Nozze d’Argento –, cosí chiamata per l’immagine della divinità raffigurata nel larario del giardino, oggi quasi scomparsa. In realtà, gli scavi hanno dimostrato che quest’area era occupata originariamente da due case distinte, di Giove e di Orione, poi riunite evidentemente da un unico proprietario all’indomani del terremoto del 62 d.C., tramite un corridoio che collegava i peristili delle precedenti dimore. Della Casa di Orione si osserva l’elegante rivestimento della facciata e dell’ingresso in I stile pompeiano, in parte esposto nell’Antiquarium, praticamente un’imitazione in stucco di muri composti da filari regolari di blocchi squadrati in pietra. In prossimità dell’angolo con il Vicolo delle Nozze d’Argento sono stati effettuati altri due interessanti ritrovamenti: il primo è quello dello scheletro di un fuggiasco claudicante, sopravvissuto alla prima ondata distruttiva, finché, nella disperata ricerca di salvezza, camminando lungo la stradina ormai ricolma di lapilli, la furia della successiva nube piroclastica ne ha sbalzato all’indietro il corpo, e un grosso blocco in pietra, trascinato anch’esso dalla nube, lo ha poi colpito violentemente. L’individuo stringeva al petto una piccola borsa con all’interno un gruzzolo di monete certamente sufficiente per vivere quasi due mesi, composto com’era da una ventina di denari d’argento e da un paio di assi di bronzo, per un valore nominale di 80 sesterzi e mezzo. Su un lato dell’incrocio sono poi affiorate iscrizioni elettorali, riferibili alle ultime consultazioni elettorali di Pompei: un primo slogan recita «CELSUM AED[ilem] O[ro] V[os] F[aciatis]» («Vi prego di votare per Celso, candidato all’edilità»); un secondo invece «L(ucium) ALBUCIUM AED(ilem)». Quest’ultima iscrizione, che si riferisce agli Albucii, probabili proprietari dell’antistante Casa delle Nozze d’Argento, è stesa, come le altre, su una base pittorica bianca necessaria a coprire frasi precedenti e a migliorare la superficie scrittoria. Iscrizioni elettorali erano già presenti nella zona, soprattutto all’incrocio

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NUOVE SCOPERTE

fra Via di Nola e Via Vesuvio, testimonianza dell’impegno politico dei residenti del quartiere, chiamati Campanienses (nome della circoscrizione elettorale) per via della vicina Porta Vesuvio o Campana.

La data dell’eruzione Ma l’iscrizione che ha destato maggiore scalpore dagli scavi della Regio V è certamente quella legata alla data dell’eruzione che nel 79 d.C. distrusse Pompei. Si tratta di un’iscrizione estemporanea, fatta a carboncino in un ambiente dell’atrio della Casa del Giardino – ubicata sul vicolo quasi di fronte a quella di Orione – in corso di ristrutturazione al momento della catastrofe. Il contenuto della scritta sembrerebbe, infatti, rinforzare l’ipotesi che la data dell’eruzione vada collocata in ottobre e non ad agosto. L’iscrizione è datata al sedicesimo giorno prima delle calende di novembre, corrispondente al 17 ottobre, e ricorda che in quel giorno erano stati prelevati o ricevuti alcuni oggetti (oppure pagati) conservati nella cella olearia della casa, probabilmente olio, vino, garum, frutta e quant’altro: «XVI (ante) K(alendas) Nov(embres) in olearia / proma sumserunt [...]», ossia, secondo la lettura della paleografa Giulia Ammannati dell’Università di Firenze, «il sedicesimo giorno prima delle calende di

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novembre, hanno preso nella dispensa olearia [...]». Un’altra lettura, proposta invece dall’archeologo pompeianista Antonio Varone, intravvede un riferimento piú goliardico, «XVI (ante) K(alendas) Nov(embres) in[d]ulsit pro masumis esurit[ioni]», ovvero «il 17 ottobre lui indulse al cibo in modo smodato». In ogni caso, l’iscrizione è stata realizzata durante i lavori di rifacimento di alcuni locali della casa, verosimilmente poco prima dell’eruzione: trattandosi di carboncino, fragile ed evanescente, la scritta non avrebbe potuto resistere a lungo nel tempo, e quindi è molto probabile che si tratti dell’ottobre del 79 d.C., appena una settimana prima della catastrofe, che sarebbe, secondo questa ipotesi, avvenuta il 24 ottobre. La scoperta rinforza la serie di testimonianze già disponibili che, in precedenza, avevano indotto alcuni studiosi a pensare l’eruzione del Vesuvio in un periodo autunnale. Come le trascrizioni della famosa lettera allo storico Tacito di Plinio il Giovane sull’eruzione vesuviana, di cui non si conserva l’originale, nella quale si fa riferimento a mesi diversi, fra agosto e novembre, quindi la datazione tradizionale del 24 agosto non sembra confermata. Inoltre, durante altri scavi pompeiani, sono stati trovati in diversi punti della città reperti riconducibili al periodo autunnale, quali

In basso, a sinistra l’iscrizione scoperta nella Casa del Giardino che sembra confermare il mese di ottobre come data dell’eruzione.


In basso pianta delle aree della Regio V indagate dai nuovi scavi, che, fra gli altri, hanno restituito l’iscrizione «L(ucium) ALBUCIUM AED(ilem)».

bracieri, frutta essiccata, tra cui noci, fichi, melegrane, castagne e resti di vinaccia, segno della recente vendemmia. Anche i residui dell’abbigliamento riscontrati su alcuni corpi delle vittime dell’eruzione hanno fatto pensare a un periodo diverso dall’estate. Infine, una moneta in argento con l’effigie di Tito dalla Casa del Bracciale d’Oro e l’iscrizione che lo celebra imperatore per la quindicesima volta,

indica, sebbene in parte deteriorata, un orizzonte cronologico preciso, posteriore all’agosto del 79 d.C.

casa del giardino

37.

Sul Vicolo dei Balconi le ricerche hanno messo in luce, in particolare, due domus signorili, denominate «del Giardino» e «di Orione»,

Iscrizioni elettorali

Vicolo dei Balconi, le anfore

Casa di Giove

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NUOVE SCOPERTE

per gli dèi della casa

«O

gni porta ha due facce, l’una guarda i passanti, l’altra il dio Lare», con questa frase Ovidio mette in evidenza come l’interno della casa romana fosse sotto la tutela degli dèi Lari, protettori della famiglia e dei suoi schiavi, assieme al genio del paterfamilias e ad altre divinità piú care al proprietario della dimora. Pompei costituisce la piú importante fonte di conoscenza dei larari, il luogo riservato al culto domestico, soprattutto per la loro riconoscibilità e configurazione all’interno delle domus, circostanza che permette qualche volta di precisare anche il carattere di un singolo luogo di culto privato. Altro tratto originale pompeiano è rappresentato dalla disposizione di questi altari

all’interno della casa, talvolta ubicati in punti diversi da quello principale dell’atrio, lo spazio di rappresentanza per eccellenza, dove accanto al larario monumentale, erano esposti anche i ritratti e gli archivi della familia, e si celebravano le piú importanti feste della casata. Dal vestibolo al peristilio, dalla cucina al giardino (viridarium), possiamo infatti trovare dislocate queste installazioni di culto, per rispondere a particolari regole sociali e religiose, ma anche per esigenze di maggiore visibilità all’interno delle case. La vivacità dei colori scoperti sull’ultimo larario pompeiano aiuta anche a capire la meraviglia che dovevano destare altri sacrari venuti in luce in passato e purtroppo oggi in buona parte consumati dal tempo, come quello della casa

quest’ultima con eccezionali mosaici pavimentali dalle raffigurazioni senza precedenti. La Casa del Giardino, cosiddetta per la presenza di un giardino con portico affrescato, è nota per il rinvenimento dell’iscrizione a carboncino appena citata, che sembrerebbe cambiare la data dell’eruzione. Sul portico della dimora si affaccia una bella stanza con megalografie, raffiguranti in un riquadro Venere con un uomo (Paride o Adone) ed Eros, e in un altro Venere in atto di pescare, assieme a Eros. Nello stesso ambiente si trova anche un raffinato ritratto femminile, probabilmente la domina della casa. Sull’atrio si affaccia invece la cosiddetta stanza degli scheletri, un vano secondario dove sono stati ritrovati i resti di una decina di individui che qui si rifugiarono nel tentativo di salvarsi, ora oggetto di studio e analisi del DNA. In uno degli ambienti di servizio è stata ritrovata, inoltre, una

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nella Regio VI 15,23, di cui restano vecchie foto a testimoniare pure la somiglianza con quello appena scoperto. La presenza di larari inseriti nei giardini è ben nota a Pompei: la Casa del Principe di Napoli ha un larario nell’area verde, cosí collocato per motivazioni topografiche interne e forse per la natura stessa degli dèi Lari; qui l’atrio è infatti decentrato rispetto al resto delle stanze, quasi nascosto alla visione generale della casa; i Lari dovevano invece sorvegliare sulla maggior parte degli spazi domestici. Il giardino assume una certa importanza nella sfera religiosa privata dopo aver perso la primitiva dimensione intima dell’hortus; dal I secolo a.C. divengono sempre piú spazi centrali dell’organizzazione domestica e vengono perciò

cassetta in legno contenente monili femminili e amuleti contro la malasorte (detti «della fattucchiera»), probabilmente appartenenti a una delle vittime trovate nella casa, oggi esposti nell’Antiquarium degli Scavi. Quella di un larario nel giardino interno è una delle prime importanti scoperte compiute nella nuova campagna di scavi. L’altare domestico, realizzato nei decenni precedenti la distruzione della città, è composto da una nicchia (con all’interno ancora la lucerna in bronzo), sormontata da un frontoncino, alla maniera di un tempietto, ai lati della quale compaiono le immagini degli dèi Lari rappresentati, come convenzionalmente avviene a Pompei, in due giovani danzanti vestiti di una corta tunica e con calzari ai piedi; una mano sollevata regge un rhyton (vaso potorio rituale), dal quale scende come uno zampillo il vino, che essi attingono da una patera sorretta dall’altra mano.


monumentalizzati. In questa nuova veste i giardini ospitano, tra sculture ed elementi decorativi, anche apprestamenti di culto. L’integrazione del larario in una mirabile pittura di giardino è inoltre attestata nella Casa di Optatio, dove gli altari entrano a far parte dello stesso sistema decorativo, in cui la divinità rappresenta la forza naturale, e pertanto viene celebrata anche attraverso i dipinti. D’altronde, il giardino romano viene tradizionalmente eletto luogo di Venere, posto sotto la sua tutela, come ricorda Plinio il Vecchio (N.H. XIX, 19.50), una Venere che a Pompei non è solo patrona ma anche divinità della natura, della fertilità e dell’abbondanza.

In alto il larario della Casa del Criptoportico. In questo caso, nella nicchia, compare Mercurio, nume tutelare della dimora.

I Lares, in origine spiriti degli antenati, poi divenuti numi tutelari del focolare, appaiono sempre come divinità gemelle, identiche nell’aspetto, raffigurate in modo speculare ai lati della nicchia che marca l’architettura del sacrario.

Composizioni standardizzate I larari pompeiani mostrano una sostanziale uniformità iconografica, con una composizione a volte standardizzata e ripetitiva, dovuta al conservatorismo religioso tipico delle città vesuviane e al breve periodo di tempo in cui sono stati realizzati, compreso fra il terremoto del 62 d.C. e l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Ai Lari si offriva cibo: in occasioni eccezionali della vita familiare, si immolava solitamente un maiale, oppure, suggestivamente ipotizzabile per il nostro caso, si consumavano porzioni di ambite prede di caccia, come il cinghiale e il cervo, entrambi assaliti da lupi o cani, e

rappresentati sulla brillante parete rossa con scena venatoria che scorre subito a destra del larario. Sotto la nicchia, due serpenti dall’aspetto viperino, con cresta e barba, colti a bocca aperta e sciolti nelle loro lunghe spire, convergono decisi sull’altare rotondo sul quale sono poste uova e una pigna, simbolo di eternità. I serpenti sono spiriti dotati di energia positiva (agathodaemoni, demoni buoni) ed espressione della manifestazione del genius loci, lo spirito benigno che anima le aree domestiche e protegge i luoghi destinati alla conservazione del cibo (il penus). L’attenzione è però attirata dall’ambiente naturale dipinto che circonda il larario: il tutto è potenziato da un paesaggio idilliaco con natura florida ed esuberante, composta da vegetazione popolata da uccelli che si staglia sul fondo bianco. In queste pitture colpisce soprattutto il gioco fra illusione e realtà. Infatti, piante dipinte

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NUOVE SCOPERTE

e piante vere si mescolavano in questo luogo incantevole, dove anche il vivido pavone raffigurato in basso sembrerebbe muoversi sul piano di calpestio del giardino. La raffigurazione è quindi mossa fra aspetti reali e sognati che si confondono e si diffondono nell’ambiente, in principio dominato da rigogliose piante che dovevano crescere davanti al larario. Collegata a questa rappresentazione, e quindi all’edicola sacra, era inoltre l’arula in pietra (piccolo altare per sacrifici) ritrovata ai piedi dell’installazione, sulla quale erano ancora conservate le tracce di bruciato delle ultime offerte deposte per onorare le divinità domestiche. Questo spazio aveva pertanto una funzione religiosa importante all’interno della casa, considerata anche la presenza di una vasca bordata e dipinta che insiste quasi al centro del giardino, alimentata in antico da un sistema idrico connesso al pozzo situato all’angolo dell’invaso, trovato al momento dello scavo col coperchio semiaperto e ancora colmo di lapilli.

Per scacciare la malasorte «Comunemente vi si crede in ogni ora della vita, magari senza accorgersene!» scrive Plinio il Vecchio (N.H. XXVIII, 10) riguardo alle pratiche svolte quotidianamente per scongiurare ogni

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maleficio. Gesti, formule e oggetti «magici» sono componenti immerse nell’universo romano, radicate in ogni livello e ceto sociale, molto piú di quanto possano immaginare gli intellettuali dell’epoca cosí aggrappati ai rigori scientifici e quindi profondamente scettici nei confronti di queste azioni. Le pratiche magiche si servono di segni e di strumenti che gli scavi hanno puntualmente evidenziato, ma appare piuttosto complessa la loro interpretazione e definizione, perché trasmesse nell’antichità per via orale e privata piú che ufficiale. La scoperta in una stanza-deposito della Casa del Giardino di uno di questi discussi casi, forse collegato alla sfera magica, è avvenuta all’interno di una cassetta in legno. Si tratta di un ricco gruppo di ornamenti femminili costituiti da amuleti, gemme e svariati elementi in faïence, bronzo, osso e ambra, ma non d’oro. Monili gelosamente raccolti e purtroppo mai piú recuperati dalla loro proprietaria che abbandonò in gran fretta la sua abitazione. Gli ornamenti, prontamente restaurati, erano sicuramente utilizzati per

Ornamenti femminili, esposti nell’Antiquarium, costituiti da amuleti, gemme ed elementi in faïence, bronzo, osso e ambra, trovati in una cassetta in legno rinvenuta nella Casa del Giardino. È probabile che agli oggetti fosse stato attribuito un valore «magico» e fossero utilizzati come antidoto contro la cattiva sorte.


abbellirsi, ma avevano, per certe configurazioni, anche una funzione protettiva, destinata a scacciare la malasorte. La cassetta conservava due specchi, vaghi di collana, pendenti ed elementi decorativi, un unguentario di vetro, amuleti fallici, due frammenti di una spiga e una figurina umana, tutti in ambra, nonché diverse gemme, fra cui una ametista con figura femminile e una corniola con l’immagine di un artigiano; spiccano per qualità poi due paste vitree, con la testa di Dioniso e un satiro danzante finemente incisi. Altri preziosi sono stati trovati in una seconda stanza della casa, in prossimità dell’atrio, assieme ai resti scheletrici di donne e bambini, sconvolti da vecchi saccheggi, da identificare come parte del nucleo familiare qui residente. Gli oggetti femminili sono straordinari, perché raccontano microstorie degli abitanti della città che tentarono di sfuggire all’eruzione. La cassetta con i piccoli preziosi potrebbe appartenere a una delle dieci vittime ritrovate in un ambiente secondario della casa, particolarmente sensibile al mondo della magia. Dal punto di vista iconografico è interessante il ricorrente richiamo degli oggetti custoditi a temi connessi alla fortuna, alla fertilità e alla protezione contro la malasorte. I pendenti di collana a forma di piccoli falli, la spiga, il pugno chiuso, il cranio, la figura di Arpocrate e gli scarabei, sono simboli che avevano all’epoca un preciso significato e funzione. Di questi ornamenti, alcuni avevano certamente un valore nelle credenze domestiche e nella vita quotidiana della familia nel cui ambito ogni attività, dalla nascita alla morte, dal lavoro allo svago, è profondamente contaminata e scandita dalla presenza del segno divino tramite presagi, prodigi, profezie, quelle che definiremmo pratiche di superstizione religiosa. Per esempio, l’ingresso della casa prevede una complessità dei riti privati sin dai primordi della religione romana, poiché nella mentalità romana l’intera dimora è percepita come un sistema sacro, capace di una volontà e di una sorta di potenza magica da cui dipende la sicurezza di tutta la famiglia.

Lo storico Polibio riconosceva nella superstizione religiosa perfino il fondamento della res publica romana, un formidabile strumento di controllo nelle mani dell’élite senatoria per dominare le passioni istintuali e i volubili umori della moltitudine (Storie I, 56, 6-11): «a mantenere unito lo stato romano sia proprio un aspetto biasimato presso gli altri popoli, ovvero la superstizione», poiché presso di loro «è stata introdotta con tanta enfasi sia nella vita privata, sia negli affari pubblici della città, che non sarebbe possibile fare di piú». Il mondo romano riconosceva nella superstizione (superstitio) il timore eccessivo nei confronti degli dèi; il superstizioso, infatti, eccede nei rituali, insiste nella loro ripetizione, regola ogni momento della propria vita quotidiana a partire dal timore dell’intervento divino. Pompei annovera varie testimonianze sui riti magici: dall’utilizzo dell’ossidiana, usata, come nella Casa dell’Efebo, a mo’ di specchio, in funzione protettiva della dimora familiare. Oppure il complesso dei Riti magici, all’interno del quale si praticava un culto misterico legato al dio d’origine orientale Sabazio (dio della vegetazione, che in Campania pare abbia goduto del favore speciale delle puerpere), a cui fanno riferimento in funzione sempre protettiva le due mani magiche in bronzo e i vasi crateriformi in terracotta usati per le offerte, decorate da piccole coppette e applicazioni con raffigurazioni di piante, animali e strumenti musicali (all’Antiquarium di Boscoreale).

Casa di Orione

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La Casa di Orione prende nome dal mosaico pavimentale scoperto nell’ala sinistra della domus, una raffigurazione rara del catasterismo del mitico cacciatore Orione. La scena è probabilmente connessa, per affinità compositive, a quella di un secondo mosaico lacunoso presente nel cubiculum diurno, sempre con Orione cacciatore di un mostro e di bestie, aiutato da una farfalla, due opere che evidenziano l’elevato livello culturale e probabili rapporti del proprietario con il

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NUOVE SCOPERTE

mondo mediterraneo orientale, da cui sembrerebbero arrivare i due mosaici. Nel 79 d.C. l’abitazione era in corso di ristrutturazione e gli scavi hanno evidenziato diversi e distruttivi cunicoli di spoliazione, praticati in passato prima degli scavi ufficiali, allo scopo di recuperare oggetti preziosi. Già intercettata negli scavi ottocenteschi, la dimora è stata interamente portata in luce e presenta un atrio centrale, sul quale si aprono diverse stanze con decorazioni in I stile e accurati mosaici pavimentali. Proprio per

Il mosaico policromo della Casa di Orione con la raffigurazione del leggendario cacciatore.

queste associazioni decorative, la casa è stata attribuita a proprietari dal gusto retrò, che appositamente conservarono alle pareti riquadri e cornici in stucco del piú antico stile pompeiano al posto di piú aggiornati cicli pittorici. E in queste scelte di mantenimento ricade anche il pregiato mosaico di Orione, un emblèma databile alla fine del II secolo a.C. (1,78 x 0,92 m) con la rappresentazione del cacciatore che dopo la morte si trasforma, per volere di Zeus, in una delle piú affascinanti costellazioni celesti. Fra i tanti miti legati al gigantesco e bellissimo Orione, amato da Eos (l’Aurora), si ricorda quello della sua uccisione voluta per gelosia da Artemide, perché invaghito delle Pleiadi, per mezzo di uno scorpione inviato nella sua capanna per pungerlo a morte; in seguito Orione ascese in cielo assieme al fedele cane Sirio. Il culto di Orione si è sviluppato soprattutto in Beozia, dove Corinna, nella prima metà del V secolo a.C., ne cantò la storia. La poetessa, rendendo omaggio alla musa ispiratrice Tersicore e alle tradizioni piú care alla natia regione greca, scrive: «Ecco che Tersicore mi invita a cantare le belle storie alle fanciulle di Tanagra dai candidi pepli, e la mia città davvero gioisce, per i canti che soavemente sussurrano… io canto alle fanciulle i racconti del tempo dei nostri padri, in cui spesso appare il Cefiso… spesso il grande Orione».

La metamorfosi del cacciatore Le raffigurazioni di Orione che si trasforma in astro sono rare nell’iconografia greco-romana e l’attestazione di Pompei assume perciò un valore particolarmente significativo. Nel mosaico – un opus vermiculatum a tessere minute che hanno consentito all’autore di rendere con una certa accuratezza gli effetti di luminosità e di dinamicità della metamorfosi – il cacciatore è raffigurato proiettato verso l’alto, con Eros (Amore) che tormenta e brucia la sua anima, qualificata da ali di farfalla, un attributo della dea Psiche. Un altro dettaglio utile alla lettura dell’opera è l’assenza delle pupille negli occhi del cacciatore, circostanza che richiama il

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suo accecamento avvenuto sull’isola di Chio, per via del rapporto amoroso avuto con Merope, adorata figlia del re Enopio. Nel mosaico, l’immagine di Orione si integra verso il basso con la parte posteriore del mortale scorpione, anch’esso tramutato in una costellazione. Il mosaico è collocato in uno degli spazi piú lussuosi della casa. Gli emblemata sono raffinate composizioni pavimentali di tradizione greco-ellenistica, realizzate con tessere talvolta sagomate, distinte da una policromia che gareggia con quella della pittura; il riquadro era eseguito in bottega e successivamente inserito nell’ambiente da decorare, al centro di un pavimento, contornato da un mosaico di qualità modesta o, come nel nostro caso, da un coccipesto di tradizione repubblicana, eseguito sul posto. Questa circostanza impedisce di sapere se il luogo di esecuzione del riquadro possa coincidere con quello del suo rinvenimento. L’esempio piú famoso di emblèma è senza dubbio il mosaico di

L’affresco raffigurante la fine del combattimento fra due gladiatori, scoperto nel sottoscala di una bottega della Regio V. Protagonisti della scena sono un Mirmillone (a sinistra) e un Trace, che, sconfitto, sembra invocare la clemenza dell’avversario.

Alessandro della Casa del Fauno, composto da circa un milione di tessere e presumibilmente realizzato in un atelier alessandrino su ispirazione di un celebre dipinto del greco Filosseno di Eretria. Altri esempi di quadri musivi pompeiani sono conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, prelevati dalle loro sedi originarie dopo la scoperta per comporre, assieme a quelli di Ercolano, la ricca collezione borbonica. Il mito di Orione si ritrova a Pompei al momento dell’apertura dei rapporti culturali e commerciali della Campania con il mondo greco-orientale, da dove si diffondono la tecnica degli emblemata e la conoscenza di nuovi miti e iconografie finora ignote all’universo magnogreco e italico.

affresco dei gladiatori

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Chissà se il «Trace» sanguinante, dipinto sulla parete di una taverna scoperta nella Regio V, si era confrontato cosí valorosamente con l’avversario da meritarsi, con quel gesto di

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NUOVE SCOPERTE

attesa e allo stesso tempo di supplica, la grazia degli spettatori, a cui l’organizzatore dei giochi cedeva spesso il diritto di vita o di morte? L’affresco che rappresenta l’epilogo di uno scontro fra una coppia di gladiatori – un «Mirmillone» a sinistra e un «Trace» soccombente, ormai quasi inginocchiato, a destra –, costituisce un’altra sorpresa apparsa, con i suoi vividi colori, nel sottoscala della bottega situata in prossimità dello slargo dove si affaccia il termpolio che vedremo subito dopo. Una fascia rossa delimita la scena, delle dimensioni di 1,1x1,5 m circa, realizzata su intonaco bianco per vivacizzare l’angolo di uno spazio frequentato da gladiatori e appassionati di giochi ludici, una taverna dotata di un piano superiore per l’alloggio dei proprietari o per l’esercizio della prostituzione. La presenza di gladiatori in questo quartiere potrebbe essere spiegata con la vicinanza della loro caserma, al cui interno sono state individuate circa 120 iscrizioni a tema gladiatorio. Gli organizzatori dei giochi mantenevano riuniti in familiae i gladiatori, in scuole o in palestre come quella di Pompei. Erano ben alimentati, allenati da maestri d’armi e suddivisi in classi variamente designate in base alle armi che usavano e al loro modo di combattere.

Classi ed equipaggiamenti I due combattenti pompeiani sono diversamente armati e si sono appena affrontati in uno scontro corpo a corpo, sotto gli occhi attenti degli arbitri. Appartengono alle piú antiche classi gladiatorie, che prendevano nome dall’armamento che caratterizzava i principali popoli nemici di Roma. Il «Mirmillone» (in passato detto anche «Gallo», una delle classi piú diffuse), impugna il gladius (corta spada da cui deriva il termine «gladiatore») e un grande scudo rettangolare ricurvo (scutum), indossa poi un gambale alla gamba sinistra (ocrea) e una manica al braccio destro oltre al caratteristico elmo a larga tesa dotato di visiera e vistoso cimiero; l’altro combattente è invece un «Trace», con lo scudo a terra e spada ricurva, rappresentato con alti

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ci vediamo da placidus...

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termopoli, come indica l’origine greca del nome (thermopolium), sono destinati a servire bevande e cibi caldi conservati in grandi dolia (giare) incassati nel bancone in muratura, e sono molto diffusi a Pompei, dove era abitudine consumare il prandium fuori casa (la colazione di mezzogiorno) per fare quattro chiacchiere con amici e clienti. In città se ne contano oltre ottanta, fra cui il frequentato locale di Lucius Vetutius Placidus, aperto su Via dell’Abbondanza. Questo termopolio conserva, oltre all’edicola del larario con la rappresentazione di Mercurio, Dioniso e i serpenti, il banco di vendita con il piano rivestito di scaglie e piastrelle di marmo policromo e completo dei dolia incassati nella muratura; in uno di questi il proprietario della bottega, residente nella casa attigua, ha lasciato l’incasso di quell’infausto giorno del 79 d.C., con la


schinieri per coprire le gambe (cnemides), una protezione al braccio (manica) ed elmo (galea) a tesa larga ed ampia visiera a protezione del volto, anch’esso sormontato da cimiero. Nella vignetta ludica, che doveva rappresentare una coppia solita confrontarsi sull’arena pompeiana, colpisce in particolare l’accento realistico riflesso sull’immagine del gladiatore battuto: da un lato le profonde ferite inferte sul polso e sul petto, da cui fuoriesce tanto sangue da bagnare i suoi gambali; dall’altro la gestualità del poveretto, che con la mano sembrerebbe implorare la grazia. Quando un gladiatore era ferito, invocava abitualmente la clemenza degli spettatori alzando l’indice; se questi volevano graziarlo sollevavano il pugno chiuso e il pollice ripiegato all’interno (pollicem premere), se la volontà era invece quella che il vinto venisse finito dall’avversario si indicava la scelta con la mano tesa (pollice verso). Il popolo che assisteva ai giochi incitava freneticamente lo scontro, finché uno dei combattenti non finiva male e i tifosi del vincitore prorompevano nel molteplice grido di giubilo «Habet, hoc habet!» («Colpito!»).

Termopolio 40. speranza di poterlo recuperare in un secondo momento, costituito da 1385 monete in bronzo pari a un valore complessivo di circa 585 sesterzi. Talvolta, come nel termopolio di Placidus, queste attività erano dotate anche di una o piú stanze retrostanti dove potersi appartare per mangiare comodamente seduti o addirittura sdraiati sui triclini. Asellina è invece un’abile imprenditrice pompeiana che gestisce un altro vivace termopolio sempre lungo Via dell’Abbondanza. Le numerose iscrizioni elettorali dipinte sulla parete esterna della bottega, firmate da donne di origine orientale (Smirina, Egle, Maria, dette «le aselline»), attestano che la frequentazione del locale non era motivata unicamente dal ristoro delle vivande. Il termopolio della Regio V il cui bancone ha restituito una ricca e sgargiante decorazione pittorica.

Nello slargo che fa da incrocio tra il Vicolo delle Nozze d’Argento e il Vicolo dei Balconi è emersa un’altra testimonianza di vita quotidiana, ricorrente lungo le principali strade cittadine, che desta interesse per la freschezza dei suoi decori e per l’articolazione della sua suppellettile trovata in posto. Si tratta di un termopolio – un antesignano della nostra tavola calda – interamente riportato alla luce. L’impianto commerciale ha svelato la decorazione che abbelliva il bancone di mescita, dalla caratteristica forma a L: il lato maggiore mostra un’immagine seminuda di Nereide su ippocampo davanti a delfini guizzanti, immersa in un tranquillo ambiente marino, divinità particolarmente benigne alla vita degli uomini; sul lato minore, che piega verso l’esterno dell’ambiente, è invece una probabile rappresentazione della stessa attività

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NUOVE SCOPERTE

esercitata nel locale, con una figurina che si muove fra i diversi servizi del termpolio, una sorta di invitante insegna commerciale che doveva attirare l’attenzione e l’acquolina dei passanti. Questa particolare raffigurazione rientra nel piú ampio novero delle insegne pubblicitarie pompeiane (signa), che possono essere solo scritte o solo figurative – come nel nostro caso, in cui viene allegoricamente simboleggiato il servizio offerto –, oppure altre ancora scritte e figurative insieme. Spesso sono rappresentati uno strumento del mestiere o un elemento della sua produzione, come una capra per indicare una latteria. Diverse sono le insegne delle taverne, dipinte e spesso intitolate ad animali, cosí che si designava familiarmente il locale con l’animale rappresentato sulla porta. Il ritrovamento di un gruppo di anfore depositate proprio davanti al bancone del termopolio scoperto, esaltava ancor di piú, al momento dello scavo, l’effetto di questa immagine di bottega, che verso la strada mostrava un pavimento montato a grandi lastre marmoree. Il restante braccio del bancone è ornato da nature morte con rappresentazioni di animali, probabilmente macellati e venduti nel locale.

Una bottega ben fornita Frammenti ossei, pertinenti alle stesse specie animali raffigurate, – fra cui anatre, suini, caprovini, pesce e lumache di terra –, testimoniano la grande varietà di prodotti utilizzati per la preparazione delle pietanze, ritrovati proprio all’interno dei recipienti alloggiati nel bancone, quindi cibi destinati alla vendita, come le due anatre germane dipinte a testa in giú, pronte a essere preparate e consumate, un gallo e un cane al guinzaglio, in questo caso solo un monito alla maniera del piú famoso Cave Canem. Le analisi archeobotaniche hanno permesso, inoltre, di individuare sul fondo di un dolio i resti di fave intenzionalmente frammentate e macinate. Apicio nel De re Coquinaria (I,5) ce ne fornisce il motivo, asserendo che venivano usate per modificare il gusto e il colore del vino,

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sbiancandolo. E poi, in un angolo interno dell’ambiente è stato trovato lo scheletro di un piccolo cane, considerato fra i piú minuti finora rinvenuti nel mondo romano, e forse quindi da compagnia piú che da guardia, come quello raffigurato minaccioso sul bancone. Un altro ritrovamento interessante è infine emerso nella parte piú interna del locale, dietro il bancone, dove sono stati rintracciati i resti di un individuo di almeno 50 anni, che, al momento dell’arrivo della corrente piroclastica, era disteso su un letto o una branda, testimoniata dagli apprestamenti del giaciglio e dai chiodi e residui di legno rinvenuti sotto il suo corpo.

leda e il cigno

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Un’incantevole raffigurazione è affiorata, dalle coltri eruttive, in una stanza da letto (cubiculum) di una domus piú distante dalle due precedenti, parzialmente indagata su Via Vesuvio. L’ambiente è posto accanto al corridoio di ingresso alla dimora, dove è stato individuato un affresco con Priapo, simile a quello della vicina Casa dei Vettii. La nuova immagine è di grande qualità pittorica e di notevole suggestione, tanto da suggerire la denominazione della casa; la rappresentazione del mito di Leda e il cigno – che si appaia nella stanza a un’immagine di Narciso, attribuita alla mano dello stesso pittore – fissato nell’attimo del congiungimento tra Giove, trasformatosi appunto nell’animale, e la moglie di Tindaro, re di Sparta. Giove aveva scorto Leda mentre si rinfrescava in un fiume e, invaghitosi della giovane, le si presenta sotto forma di cigno. Dal doppio amplesso di Leda, prima con Giove e poi con Tindaro, nasceranno, fuoriuscendo da due distinte uova, rispettivamente i gemelli Castore e Polluce (i Dioscuri) e, nel secondo, Elena – futura moglie di Menelao, re di Sparta, causa scatenante della guerra di Troia – e Clitennestra, sposa poi assassinata dal marito Agamennone, re di Argo. A Pompei l’episodio di Leda e il cigno gode di una certa popolarità, come dimostra la sua rappresentazione in diverse domus, fra cui quelle del Citarista, della

Nella pagina accanto la delicata e sensuale rappresentazione del mito di Leda e il cigno, affrescata in una domus di Via Vesuvio.


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NUOVE SCOPERTE

Venere in conchiglia, della Regina Margherita, di Meleagro, dei Capitelli Colorati o di Arianna, della Caccia Antica, di Fabio Rufo, della Fontana d’Amore. Ma, a differenza delle altre iconografie, in cui la donna è simbolicamente in piedi con accanto il volatile, e non nel momento del congiungimento carnale, nel nuovo affresco pompeiano Leda appare distesa sul trono con il cigno che la sovrasta. Diretto quindi è il richiamo al passo di Ovidio, che nel VI libro delle Metamorfosi immagina la tessitrice Aracne, impegnata nella sfida decorativa con Atena, che «raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina». Del dipinto colpiscono alcuni aspetti significativi, come la qualità artistica dell’opera, per una delle stanze piú intime della casa, che appare di alto livello rispetto alla media delle altre riproduzioni pompeiane; lo stato d’animo di Leda, praticamente impassibile al suo destino di genitrice di personaggi insigni del mito greco; infine, la scelta della scena mitica,

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fortemente connessa alla sessualità, ma, allo stesso tempo, colta, in quanto direttamente ispirata alla grande letteratura. La carica erotica e allegorica di Leda avrà peraltro un ampio successo nell’iconografia rinascimentale, anch’essa ispirata dal testo di Ovidio; questa storia alimenta una delle sequenze piú hard della pittura dell’epoca. Sarebbe stato infatti proibitivo raffigurare direttamente un atto sessuale, al quale era invece possibile alludere attraverso l’escamotage della letterarietà del mito.

Tomba di gneo nigidio maio 42. Nuove e fortunate scoperte sono avvenute anche nel suburbio di Pompei, in particolare in due aree cimiterali cresciute in corrispondenza di frequentati accessi urbani. Sulla via che usciva in direzione sud da Porta Stabia, è affiorata la tomba di Gneo Nigidio Maio, un monumento che, come ha sottolineato Massimo Osanna, permette di ricomporre anche un rebus archeologico durato 150 anni. La sorprendente scoperta della tomba, costruita poco prima dell’eruzione del 79 d.C., getta nuova luce anche su alcuni importanti episodi degli ultimi decenni di vita di Pompei. L’iscrizione funeraria di 4 m che corre in facciata, la piú lunga finora trovata a Pompei,

In questa pagina immagini della tomba di Gneo Nigidio Maio, della famiglia degli Alleii, scoperta fuori Porta Stabia. In alto, il monumento funerario, parzialmente distrutto nel lato superiore, in corso di scavo; a sinistra, particolare dell’iscrizione, nella quale viene celebrata la carriera del personaggio e che contiene un riferimento alla rissa fra Pompeiani e Nocerini scoppiata nel 59 d.C. nell’anfiteatro; in basso, i rilievi con cacce e scene gladiatorie che facevano parte della decorazione del sepolcro, oggi conservati al Museo Archeologico di Napoli.


In basso una sepoltura a incinerazione in urna deposta nella tomba di Marcus Venerius Secundio, scoperta nella necropoli di Porta Sarno.

organizzata su sette registri narrativi, seppur silente sul nome del defunto, ci informa sulle imprese realizzate in vita dal titolare del monumento: un vero e proprio elogio, che racconta dell’assunzione della toga virile e della carica di duoviro (maggiore carica istituzionale cittadina), nonché delle nozze del prestigioso personaggio pompeiano. Si tratta di momenti significativi della sua vita, festeggiati con atti di singolare munificenza, come un generoso banchetto pubblico, l’elargizione di denaro e, soprattutto, l’organizzazione di spettacoli gladiatori con la partecipazione di bestie feroci. La citazione degli eventi che vedono come promotore il nostro personaggio – identificato da Osanna come un membro della famiglia degli Alleii (Gneo Nigidio Maio), uno dei Pompeiani piú in vista dell’età neroniana, definito addirittura «principe» nell’iscrizione funeraria – rievocano il famoso episodio narrato dallo storico Tacito (Annali XIV, 17) avvenuto a Pompei nel 59 d.C., quando, durante uno spettacolo gladiatorio, scoppiò nell’anfiteatro una rissa, che degenerò in un violento scontro armato. L’evento richiamò addirittura l’attenzione dell’imperatore Nerone, il quale incaricò il Senato di chiarire il fatto. In seguito alle indagini dei consoli, come riporta Tacito, ai Pompeiani fu vietato di organizzare manifestazioni gladiatorie per dieci anni; le associazioni illegali furono sciolte; l’organizzatore dei giochi e quanti altri avevano istigato l’episodio vennero esiliati.

I duoviri in esilio

originato da una futile causa in occasione dei ludi gladiatori banditi da quel Livinieio Regolo, che ho già ricordato espulso dal Senato. Dapprima si scambiarono ingiurie con l’insolenza propria dei provinciali, poi passarono alle sassate, alla fine ricorsero alle armi, prevalendo i cittadini di Pompei, presso i quali si dava lo spettacolo. Furono, perciò, riportati a casa molti di quelli di Nocera, col corpo mutilo per ferite, e in quella città parecchi cittadini piansero la morte dei figli e dei genitori». Sugli spalti dell’anfiteatro scoppiò quindi una furiosa zuffa, probabilmente alimentata da precedenti rancori e dissapori, in cui i Nocerini ebbero nettamente la peggio: furono massacrati e i superstiti cacciati fuori dalla città. Il senatore Livineio Regolo, organizzatore dei giochi, e quanti avevano fomentato la rissa vennero severamente allontanati. Il resoconto storico è peraltro di straordinaria attualità se paragonato agli incresciosi episodi di cui gli stadi sono spesso teatro: possono cambiare i tempi, ma non le azioni facinorose e violente. E, allora come oggi, non mancavano bagarini, ambulanti, ultras schiamazzanti, slogan scritti, e, purtroppo, sfoghi incivili da libidine sportiva. Il fatto di sangue pompeiano colpí profondamente l’opinione pubblica, come testimoniano sia un affresco da una casa che raffigura proprio quello scontro, sia un graffito, all’interno della Casa dei Dioscuri, che fa riferimento all’accaduto: «O Campani, siete morti insieme ai Nocerini in quella vittoria!». L’interdizione dell’anfiteatro venne poi ridotta a soli due anni, forse grazie all’intervento di

Nell’iscrizione della tomba di Porta Stabia, che completa le informazioni di Tacito, si fa riferimento all’esilio che avrebbe colpito anche i due sommi magistrati in carica, i duoviri della città, anche se solo momentaneamente, in quanto poi popolarmente riabilitati, come potrebbe essere accaduto al nostro Nigidius Maius. Al di là dell’affascinante ipotesi storica, l’iscrizione della tomba ci permette di tornare sul drammatico evento del 59. La cronaca di Tacito ricorda che «in quell’epoca si ebbe un fiero massacro tra Nocerini e Pompeiani,

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L’AFFRESCO

Poppea, moglie di Nerone, che sembra possedesse una villa dalle parti di Pompei. Infine, il rebus risolto secondo Osanna. La tomba, danneggiata nella parte sommitale per via della costruzione del sovrastante edificio di San Paolino, mostra una forma quadrilatera dai lati concavi, sormontata da un dado sul quale doveva trovarsi un grande blocco. È probabile che questo possa riconoscersi con il rilievo trovato in questa stessa zona alla metà dell’Ottocento e in seguito finito al Museo Archeologico di Napoli, sul quale compaiono belle scene gladiatorie e di cacce con animali (venationes). Il rilievo mostra infatti misure compatibili con la fronte del monumento, e risponde bene nel tema iconografico rappresentato al ruolo del defunto di straordinario organizzatore di giochi.

tomba di Marcus Venerius Secundio 43. Nella necropoli di Porta Sarno, all’uscita orientale di Via dell’Abbondanza da Pompei, è venuta recentemente alla luce, grazie alle ricerche svolte dal Parco Archeologico e dall’Università di Valencia, la tomba di Marcus Venerius Secundio, un importante liberto citato nell’archivio di tavolette cerate del

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banchiere pompeiano Cecilio Giocondo, conservato nella sua domus affacciata su Via Vesuvio (Regio V). Di questa scoperta hanno colpito i resti inumati del personaggio, trovati ancora ben conservati all’interno della cella funeraria, e, soprattutto, l’iscrizione su cinque righe che documenta, per la prima volta a Pompei, l’organizzazione di spettacoli anche in lingua greca. Sulla lastra marmorea applicata sul frontone displuviato della tomba, risalente agli ultimi decenni di vita della città e con tracce di pitture di giardino, si commemora il proprietario, custode del tempio di Venere e, una volta affrancato dallo stato di schiavitú pubblica, personaggio di status sociale ed economico elevato, visto che, come ricorda appunto l’iscrizione, oltre a diventare Augustale, ovvero membro del collegio di sacerdoti dediti al culto imperiale, «diede ludi greci e latini per la durata di quattro giorni».

Pompei, città multietnica Si tratta della prima testimonianza certa di spettacoli a Pompei in lingua greca, ipotizzati in passato sulla base di elementi indiretti, da inquadrare nell’ambito di una città multietnica della prima età imperiale, dove, accanto al latino, è attestato il greco, all’epoca la lingua franca del Mediterraneo orientale. Ha destato sensazione lo stato di conservazione dello scheletro, fra i meglio preservati a Pompei. Il defunto fu inumato in una piccola cella di 1,6 x 2,4 m posta alle spalle della facciata, mentre nella parte restante del recinto che includeva la tomba sono state ritrovate due incinerazioni in urne, una delle quali raccolta in un vaso di vetro e appartenuta a una donna di nome Novia Amabilis. In età romana, a Pompei vigeva il rituale funerario dell’incinerazione, mentre solo i bambini venivano inumati; si tratta pertanto di un’eccezione alla norma, visto che nella cameretta funeraria siamo di fronte alla deposizione di un uomo di oltre 60 anni, come è emerso dalla prima analisi delle ossa. Le caratteristiche della stanza, un ambiente ermeticamente chiuso, hanno evidentemente

A sinistra due immagini della tomba di Marcus Venerius Secundio, il cui scheletro è stato rinvenuto in eccezionale stato di conservazione, grazie alla parziale mummificazione.


villa di civita giuliana In basso particolare del carro da parata scoperto in località Civita Giuliana. Riccamente decorato, era stato forse realizzato per una giovane e ricca sposa.

creato le condizioni migliori per facilitare la conservazione dello scheletro, con capelli e un orecchio ancora ben riconoscibili. Il corpo era stato deposto insieme a un modesto corredo, composto da due unguentari in vetro e molti frammenti di tessuto, probabilmente la sua veste. Bisogna ancora comprendere se la «mummificazione» parziale del defunto sia dovuta a un trattamento intenzionale o meno, e l’analisi del tessuto ritrovato potrebbe fornire utili informazioni. Dalle fonti antiche sappiamo che determinati tessuti, come l’asbesto (amianto), venivano utilizzati per l’imbalsamazione.

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Le indagini archeologiche in località Civita Giuliana, subito fuori le mura settentrionali di Pompei, hanno messo in evidenza, in seguito a cunicoli clandestini intercettati dai Carabinieri, una grande villa suburbana della quale, nel 2017, erano stati ripotati alla luce cinque ambienti del settore servile, con la stalla occupata da tre equini, fra cui un cavallo con ricche bardature in bronzo, di cui è stato realizzato il calco in gesso insieme a quello della lunga mangiatoia in legno. Interventi successivi, avviati in collaborazione con la Procura di Torre Annunziata, per contrastare la depredazione del patrimonio antico, si sono

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NUOVE SCOPERTE

concentrati in questo settore produttivo (orientale) della villa e nel suo settore residenziale (occidentale). Nel primo, sotto il porticato antistante la stalla con gli equidi – a due piani aperto su una corte, con solaio ligneo a travature carbonizzato realizzato in quercia decidua –, è emerso dalle coltri eruttive uno straordinario carro cerimoniale a quattro ruote, abbellito da decorazioni in bronzo e stagno, con tanto di impronte degli elementi organici accessori. Un ritrovamento eccezionale, perché costituisce un reperto quasi unico nel suo genere e in ottimo stato di conservazione. L’équipe di tecnici impegnata nello scavo ha raggiunto i 6 m di profondità, mettendo in sicurezza le strutture murarie della villa conservate fino a 4 m di altezza. L’intervento è stato svolto con molta attenzione, considerata la fragilità degli elementi che progressivamente affioravano; il carro è rimasto miracolosamente risparmiato sia dai crolli delle strutture che dalle attività clandestine, in quanto soltanto sfiorato da due cunicoli di spoliazione.

L’immagine del veicolo Si è cosí proceduto con un microscavo condotto da archeologi e restauratrici del Parco specializzati nel trattamento del legno e dei metalli; parallelamente, ogni volta che si rinveniva un vuoto, è stato colato del gesso per recuperare l’impronta del materiale organico andato distrutto, e cosí si sono potuti, per esempio, conservare il timone e il panchetto del carro, ma anche le impronte di funi e cordami, restituendo l’immagine del veicolo nella sua completa articolazione. Il cassone ligneo (0,90 x 1,40 m), parte principale del carro, accoglieva la seduta al massimo per un paio di persone, contornata da braccioli e schienale in metallo; era riccamente decorato sui lati lunghi con un’alternanza di lamine bronzee intagliate e pannelli lignei dipinti in rosso e nero, mentre sulla parte posteriore si concentrava un complesso sistema decorativo, allusivo alla sfera matrimoniale, composto da tre distinti registri, con una successione di medaglioni in

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Sulle due pagine immagini dei calchi delle vittime dell’eruzione rinvenute nel criptoportico della villa di Civita Giuliana. Dall’alto, in senso orario, le varie fasi dell’intervento che ha permesso la realizzazione dei calchi e, nella pagina accanto, in basso, il risultato finale dell’operazione, che mostra i due uomini, uccisi dalla nube piroclastica mentre tentavano di mettersi in salvo.

bronzo e stagno, con scene erotiche forse connesse alle nozze, oppure immagini di satiri e ninfe, mentre sulle borchie ci sono amorini impegnati in varie attività. Nella parte inferiore del cassone si conserva invece una piccola erma femminile coronata in bronzo. Le analisi archeobotaniche hanno rivelato che il legno utilizzato per la costruzione del veicolo è il frassino, particolarmente adatto per i mezzi da trasporto per la sua elasticità e leggerezza, come ricorda Plinio il Vecchio, mentre gli elementi decorativi in bronzo erano sostenuti da elementi in faggio, ideale per questo tipo di applicazione. Si tratta pertanto di un carro «al femminile», forse commissionato per una giovane e ricca sposa, appartenente a una ricca famiglia del suburbio pompeiano. In città sono stati ritrovati in passato altri carri per il trasporto, come quello della Casa del Menandro, conservato negli ambienti servili, il cisium, utilizzato per spostarsi con merce al seguito lungo le strade, ma niente di simile e ricercato rispetto al carro di Civita Giuliana. Quest’ultimo è probabilmente un pilentum, noto dalle fonti, utilizzato non per gli usi quotidiani o i trasporti agricoli, ma per accompagnare momenti festivi della comunità, parate e processioni, destinato a sacerdotesse e a signore, e non si esclude che potesse trattarsi di un carro usato appunto anche per i rituali matrimoniali, per condurre la sposa nel nuovo focolare domestico. Un vero unicum archeologico, con riscontri solo nella lontana Tracia (Grecia settentrionale). Il settore residenziale della villa di Civita Giuliana è disposto in posizione panoramica verso il golfo di Napoli, articolato attorno a un peristilio rettangolare delimitato su due lati da un portico, su un altro da un criptoportico


proprio secondo la tecnica sperimentata per la prima volta nel 1867. In merito a questa ideazione, all’epoca l’allievo e collaboratore di Fiorelli, Giulio De Petra, si espresse cosí: «La piú fortunata delle sue invenzioni fu la immagine autentica che diede della catastrofe vesuviana (…) per cui questi rivivono nelle

coperto da terrazza. Sul peristilio si affacciano alcuni ambienti di soggiorno, due cubicula diurna (stanze da letto) dagli eleganti pavimenti in cocciopesto con motivi a tessere lapidee, e un oecus (grande sala da banchetto) affrescato in III stile e un pavimento a inserti marmorei (opus sectile), in corso di rifacimento al momento dell’eruzione. Al di sotto della terrazza correva invece il criptoportico, frequente nelle ville suburbane vesuviane, lungo almeno 56 m e già in parte esplorato agli inizi del Novecento. E proprio nel criptoportico, in particolare in uno stretto vano di collegamento al piano superiore, sono affiorate due testimonianze del dolore pompeiano. Nello scavo dell’ambiente di passaggio, sigillato dai crolli delle murature al di sotto uno spesso strato di cenere grigia riferibile alle violente correnti piroclastiche che hanno distrutto Pompei, gli archeologi e i restauratori hanno percepito la presenza di vuoti nella coltre indurita, all’interno dei quali si scorgevano resti scheletrici umani. E cosí, seguendo l’intuizione ottocentesca di Giuseppe Fiorelli, i tecnici del Parco Archeologico, dopo avere rimosso parte delle ossa, hanno proceduto con la colatura di gesso nelle cavità,

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NUOVE SCOPERTE

forme e nelle contrazioni della loro agonia». La tecnica di base del colaggio è rimasta quella passata, ma diverso oggi è l’approccio metodologico, supportato da analisi preventive: per esempio, con l’endoscopio sono stati esplorati i fori dei vuoti affioranti ed è stata eseguita una scansione laser-scanner che ha permesso di ottenere in anteprima un modello 3D dell’interno. Il gesso, inoltre, è una speciale miscela ottenuta dopo varie prove sul campo. I due Pompeiani sono stati sorpresi dalla morte durante la seconda corrente piroclastica, che nelle prime ore del mattino, probabilmente del 25 ottobre, investí Pompei, soffocando i superstiti ancora presenti in città e nelle campagne circostanti. Questa seconda corrente è stata preceduta da una breve pausa, forse di una mezz’ora, durante la quale i sopravvissuti di Civita Giuliana cercarono scampo. La nuova corrente investí però la villa con particolare violenza, invadendo ogni angolo dell’edificio, fino a seppellire nella cenere i due poveri fuggitivi. Il calco della prima vittima mostra la testa reclinata (esposto nell’Antiquarium), con denti e ossa del cranio ben visibili, che le prime analisi suggeriscono essere un giovane fra i 18 e i 25 anni di età, alto circa 156 cm. Gli schiacciamenti vertebrali riscontrati, inusuali per l’età dell’individuo, hanno fatto pensare a uno schiavo, per la forte sollecitazione delle spalle dovuta allo svolgimento di lavori pesanti. Indossava una tunica corta, riconoscibile dall’impronta del panneggio all’altezza del ventre, con ricche e spesse pieghe, la cui consistenza, assieme alle tracce di tessuto pesante, suggeriscono che fosse di lana. La seconda vittima ha invece una posizione diversa, già documentata in altri calchi pompeiani: il volto è rovesciato nella cenere, e il gesso ha delineato con precisione il mento, le labbra e il naso, mentre si conservano ancora le ossa del cranio. Le braccia sono ripiegate con le mani sul petto, mentre le gambe sono divaricate e piegate. La robustezza della vittima, soprattutto a livello del torace, indica anche in questo caso un uomo, piú anziano del precedente, con

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un’età compresa tra i 30 e i 40 anni e alto circa 162 cm. Indossava un abbigliamento apparentemente piú ricercato, circostanza che ha fatto pensare a un membro della famiglia residente: sul petto, dove la stoffa crea evidenti pieghe, si conservano le impronte della trama del mantello in lana, fermato sulla spalla sinistra; nella parte alta del braccio sinistro è invece riconoscibile l’impronta di un tessuto diverso relativo a una lunga tunica che raggiunge la zona pelvica. Non è però da escludere che anche la vittima piú giovane fosse provvista di un mantello di lana, ritrovato accanto alla sua impronta sempre attraverso la tecnica del colaggio.

Un’«invenzione» geniale «Udivi i gemiti delle donne, le grida dei fanciulli, il clamore degli uomini: gli uni cercavano a gran voce i genitori, altri i figli, altri i consorti, li riconoscevan dalle voci; chi commiserava la propria sorte, chi quella dei propri cari: ve n’erano che per timore della morte invocavano la morte; molti alzavano le braccia agli dei, altri piú numerosi dichiaravano che non vi erano piú dei e che quella era l’ultima notte del mondo»: Plinio il Giovane, in una delle due famose lettere allo storico Tacito, descrive cosí il pathos della tragedia umana consumata nell’area vesuviana nel 79 d.C. Parole che trovano piena corrispondenza nelle straordinarie testimonianze umane emerse dalle coltri vulcaniche di Pompei, grazie agli scavi archeologici. A Giuseppe Fiorelli, direttore degli scavi dopo l’unità d’Italia, spetta la piú importante «invenzione pompeiana», rappresentata dal far risorgere, attraverso calchi in gesso, le vittime dell’eruzione, con i loro volti, i loro corpi e i vestiti che indossavano in quel fatale giorno. Le impronte ottenute con il gesso entrarono immediatamente nell’immaginario di quanti si recavano a Pompei. Le sensazioni, a volte morbose, che suscitavano le impronte pompeiane, accompagnarono la progressiva riscoperta della città e non ci fu rinvenimento che venisse ricordato nelle cronache senza essere


Una delle grandi statue fittili femminili rinvenute in occasione dei primi scavi condotti nell’area sacra di Fondo Iozzino.

accompagnato da una emozionale ricostruzione degli ultimi attimi di vita e da tentativi di identificazione delle persone.

fondo iozzino

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Nei dintorni di Pompei, oltre a splendide ville rustiche, si trovavano anche piccoli santuari innalzati lungo le strade che dal centro si inoltravano nelle campagne vesuviane. Questi luoghi avevano importanti funzioni sociali e di rappresentanza sul territorio, collegati a riti e a feste religiose. Gli archeologi hanno individuato vari complessi sacri, non ancora del tutto chiari dal punto di vista dell’organizzazione. Fra questi, nel suburbio meridionale di Pompei, risalta l’area sacra di Fondo Iozzino – forse dedicata a Zeus Meilichios, ossia con funzioni ctonie – che godeva di una straordinaria posizione, ubicata com’era su una bassa collina ben visibile dalla foce del Sarno. I primi scavi misero in luce le mura di recinzione dell’area (500 mq circa di estensione), all’interno della quale si trovano i resti di un recinto minore in

tufo di Nocera. Eccezionale è stato il rinvenimento, in passato, al centro del santuario, di tre statue fittili femminili di grandi dimensioni, la migliore delle quali è stata identificata con Artemide-Ecate, trovata rovesciata ai piedi della sua base. L’esplorazione della fase di frequentazione piú antica del santuario ha restituito materiale votivo e numerosi reperti, fra cui ceramica di produzione italiota del IV secolo a.C.; ceramica miniaturistica; bucchero di fabbrica etruscocampana deposto capovolto sul terreno con dediche votive iscritte; strumenti rituali defunzionalizzati e marcati con il nome del dedicante; terrecotte architettoniche e coroplastica che decoravano le strutture sacre. Il Parco Archeologico ha svolto nuovi scavi in corrispondenza del recinto piú piccolo e dello strato con materiale votivo e ceramico preromano, per accertare i rapporti e le prime frequentazioni religiose del luogo. L’analisi dei ritrovamenti permette oggi di stabilire la presenza di un’area di culto risalente al la fine del VII secolo a.C., che ha avuto un momento di

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NUOVE SCOPERTE

quando pompei era etrusca

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e motivazioni che hanno portato gli Etruschi a colonizzare la Campania sono complesse e articolate, stimolate dalla ricerca dei rapporti con il mondo greco e orientale mediterraneo e dallo sfruttamento di nuove risorse ambientali interagendo con le componenti locali. «Come la contigua Pompei, presso cui scorre il fiume Sarno, Ercolano appartenne agli Osci, poi ai Tirreni e ai Pelasgi, infine ai Sanniti; anche questi ultimi furono scacciati»: già Strabone, nella sua Geografia (V,4,3), ricordava le complesse vicende dell’area vesuviana, a lungo contesa fra diversi popoli, fra cui gli Etruschi. Le ricerche hanno evidenziato che la valle del Sarno doveva essere uno dei teatri piú importanti dell’etruschizzazione campana, sotto la spinta dei capoluoghi di Capua (odierna Santa Maria Capua Vetere) nella pianura del Volturno, e di Pontecagnano nell’agro Picentino e piana del Sele. Fra le pendici del Vesuvio e i monti Lattari, le relazioni fra le genti indigene e gli Etruschi favoriscono un forte sviluppo delle comunità locali, che si riflette, per la prima volta, in un’efficiente organizzazione urbana e funzionale del territorio. L’«universo etrusco» del Sarno si manifesta in un exploit di insediamenti in cui le diverse componenti del popolamento costruiscono rapporti di interazione che superano i confini

particolare rilevanza in età arcaica, in seguito a una significativa frequentazione etrusca, e ancora nel III secolo a.C., in età sannitica, quando il santuario sarebbe stato recintato. L’area vede poi una riorganizzazione in età romana, con la costruzione del recinto minore, delle edicole e dei podi per le statue. I rinvenimenti al Fondo Iozzino (esposti nell’Antiquarium), hanno gettato nuova luce sulla fase arcaica di Pompei e, in particolare, sul contributo dato dagli Etruschi al momento della sua prima fisionomia urbana. La mostra «Pompei e gli Etruschi» alla Palestra Grande (2018-2019) ha offerto uno spaccato sulla questione dell’Etruria campana e dei rapporti e delle contaminazioni fra le élites etrusche, greche e indigene, che trovano proprio a Pompei un importante riferimento archeologico.

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etnici. Questo fenomeno culmina fra il VII e il VI secolo a.C. con la creazione di cittadine pianificate in base a esigenze sociali ed economiche che restano valide fino alla conquista romana; si definiscono strade, aree abitative, quartieri artigianali e, soprattutto, spazi riservati alla comunità, in primo luogo i santuari. Nella vallata del Sarno emergono realtà formatesi per aggregazione demografica, esito di un sinecismo che svuota progressivamente i villaggi dell’età del Ferro di questo comprensorio. I risultati piú evidenti si hanno proprio a Pompei, sorta in età arcaica su una terrazza elevata, a dominio della fascia costiera. Del centro arcaico si definiscono il tracciato murario e la viabilità generale, e nel primo spazio cittadino viene innalzato, con l’aiuto di maestranze greco-cumane, il tempio di Apollo con funzioni poliadiche, in un’area poi occupata dal Foro civile di età romana. Nel vicino Foro triangolare, su una terrazza protesa, spunta un secondo e imponente tempio dedicato probabilmente ad Atena ed Ercole. Il passaggio verso il Sarno e lo scalo marittimo era

laboratorio di ricerche applicate

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I rinvenimenti di reperti organici hanno sempre accompagnato la storia delle scoperte vesuviane: a Pompei grande stupore generarono i resti vegetali, in particolare frutta e commestibili, oltre a stoffe e conchiglie, che con gli altri reperti simili furono subito raccolti nel settecentesco Herculanense Museum, ospitato nella Villa Reale di Portici. Conservati con i materiali di valore nel «Gabinetto dei Preziosi», i «Commestibili», furono una delle maggiori attrazioni del primo museo dedicato alle antichità vesuviane. Accanto a oreficerie, argenterie, gemme e cammei, in bella vista comparivano infatti tessuti, pigmenti di colori e resti alimentari, fra cui un panis quadratus con bollo di proprietà, rinvenuto nella Casa dei


invece protetto da santuari extraurbani dall’aspetto meno monumentale, fra cui quello di Fondo Iozzino, da cui proviene uno straordinario corpus di iscrizioni etrusche, il piú consistente trovato in Italia meridionale. In questo luogo di culto si usava infatti parlare l’etrusco, come dimostrano le iscrizioni sulle offerte composte da brevi enunciati con nomi personali e di divinità. Nell’Antiquarium di Pompei ritroviamo i materiali deposti in questo complesso, costituiti da armi e servizi per le libagioni rituali con appunto iscrizioni votive. Tutto porta a pensare a una consistente comunità etrusca insediata a Pompei dalla fine del VII secolo a.C. fino all’arrivo dei Sanniti; e il dato epigrafico locale evidenzia la profonda portata del processo di «etruschizzazione» di questo settore vesuviano. Il dominio etrusco si indebolisce dopo la fondazione di Neapolis e la battaglia navale di Cuma del 474 a.C.: nei centri dell’interno la cultura etrusca sopravvive fino alla discesa dei Sanniti, nella seconda metà del V secolo a.C., da questo momento i veri protagonisti della politica e della cultura campana, relegando gli Etruschi a un ruolo secondario. Questi, benché proseguano a usare la propria lingua nelle epigrafi, si adeguano sempre piú all’elemento dominante e finiscono per integrarvisi quasi completamente.

In alto l’area sacra di Fondo Iozzino, che visse una fase particolarmente significativa in epoca arcaica. A destra resti carbonizzati di aglio, conservati nel Laboratorio di Ricerche applicate.

tessuti, i cordami, le essenze, i bitumi e tutti gli avanzi organici raccolti a Pompei, tranne i colori, già collocati in apposite tavole nella sala degli antichi dipinti». Con la nascita dell’Antiquarium di Pompei, i reperti organici rimasero nella città antica, in modo da offrire ai visitatori una panoramica piú ampia sulla sua quotidianità. Nella I stanza erano conservati avanzi di tessuti e una fune dalla Casa del CamiIlo, e nella III stanza si custodiva una campionatura di pigmenti e di resti carbonizzati quali cereali, fave, olive, fichi, noci, uova, 81 pagnotte rinvenute nel panificio di Modestus, oltre a numerose conchiglie. Dopo le drammatiche vicissitudini sofferte dall’Antiquarium, per risolvere il problema conservativo e di catalogazione dei reperti organici, nel 1994 fu allestita una camera climatizzata nei locali della vecchia Direzione degli scavi, annessa al neo Laboratorio di Ricerche applicate, erede delle storiche vicende che hanno interessato la raccolta e la

Cervi di Ercolano. L’esposizione di Portici era un evidente e suggestivo richiamo al modello nord-europeo della Wunderkammer («camera delle meraviglie»), evoluzione del collezionismo enciclopedico delle corti, in cui venivano raccolti reperti preziosi e singolari, fossero essi di origine naturale o artificiale. Si arrivò al superamento della Wunderkammer solo con il nuovo ordinamento delle collezioni voluto da Fiorelli, fra il 1863 e il 1875, che per la prima volta considerò la questione dell’adeguata conservazione delle testimonianze organiche: «i commestibili, tolti dalla sala degli ori e delle gemme, ove prima trovavansi, si sono trasportati in una stanza isolata, che per condizioni speciali è meno soggetta ad alterazioni atmosferiche. lvi pure saranno situati in altre vetrine, le conchiglie, i

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NUOVE SCOPERTE

conservazione dei reperti organici provenienti dagli scavi, fondamentali per scoprire minuti aspetti della vita alimentare dei suoi abitanti. Oltre alla conservazione dei campioni, oggi il Laboratorio provvede alla loro conoscenza e divulgazione, attraverso progetti didattici e di ricerca svolti in collaborazione con prestigiose università e istituti.

Le cipolle sono buone e... fanno bene Il nucleo piú consistente della raccolta pompeiana è costituito da vegetali carbonizzati, per lo piú cereali e legumi (farro, orzo, lenticchie, veccioli, favino), all’epoca importanti fonti di energia per l’organismo. Documentati sono pure i pani, elementi insostituibili nell’alimentazione, ottenuti con farina di grano di diverse qualità e acquistato nelle botteghe a seconda delle disponibilità economiche del cliente. Fra gli ortaggi piú consumati si segnalano le tante cipolle rinvenute nelle abitazioni, utilizzate anche per scopi terapeutici; Columella ricorda che la varietà pompeiana era molto apprezzata: «Scegli le cipolle pompeiane o quelle di Ascalona o anche le cipolle marsiche semplici, che i contadini chiamano unio cioè quelle che non sono andate in seme nè hanno dei getti aderenti». Tra i reperti vesuviani è presente ovviamente la frutta, come noci, melograni, fichi e gli esotici datteri. Nel Laboratorio sono conservati molti melograni, i famosi Punica granata largamente coltivati

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sulle coste mediterranee; dieci quintali, secondo una stima indicativa, erano addirittura depositati al momento dell’eruzione in un ambiente della Villa B di Oplontis. Fra i materiali di origine animale spiccano invece le uova, il cui consumo era importante per il prezioso apporto proteico. Una soluzione ottimale per conservarle è costituita dalla loro immersione nella cenere all’interno di contenitori di argilla, come nel caso di quelle rinvenute nella Casa di Giulio Polibio. Le uova sono ampiamente rappresentate sugli altari dei larari domestici, talvolta accanto ad altre offerte, verso le quali convergono dei serpenti (agatodemoni) simbolo di prosperità e di buon auspicio: l’uovo, nella sua forma perfetta, assume in questi casi una valenza concettuale connessa alla rigenerazione della vita che si trasmette piú tardi al cristianesimo, come simbolo della Pasqua e della rinascita di Gesú. In una dieta in cui prevalgono legumi e cereali e scarseggiano le carni, derivanti in parte dalla caccia praticata nel territorio vesuviano, oltre alle uova, le proteine animali sono fornite dai derivati del latte, come i formaggi, stagionati e non. Varie ricette antiche prevedono il loro uso; un pezzetto di formaggio, un pugno di olive e un po’ di pane costituiscono di fatto l’alimentazione piú diffusa tra le classi sociali meno abbienti. Tra le classi piú elevate è invalso invece l’uso di allevare animali esotici: si mangiano cosí polpette di pavone, di fagiano e di coniglio,

Coppette con pigmenti colorati, utilizzati soprattutto dai decoratori di pareti (pictores), conservati nel Laboratorio di Ricerche applicate del Parco Archeologico di Pompei.


struzzo lessato, pappagalli e fenicotteri in umido, di cui Apicio ci informa che la lingua è dotata di un sapore squisito! A Pompei, una ricerca sui resti degli scarichi fognari di alcune abitazioni ha portato a scoprire un’ampia varietà di cibi importati dall’estero, tra cui una coscia di giraffa macellata. Parte integrante dell’alimentazione delle popolazioni costiere sono i prodotti ittici, utilizzati da tutte le classi sociali, seppure in maniera differente. Agli schiavi sono destinati i molluschi meno pregiati, come le «balorde», non a caso conosciute come le «cozze degli schiavi». Una sezione del Laboratorio di Pompei è costituita proprio dalle valve dei molluschi: molte specie, oltre al consumo alimentare, sono utilizzate come elemento decorativo negli spazi verdi delle abitazioni per pannelli decorativi, fontane e ninfei. Particolarmente amate dai commensali sono le ostriche (Ostrea edulis), il cui consumo è cosí ampio e fonte di guadagno che si realizzano anche appositi vivai: «primo fra tutti Sergio Orata inventò i vivai di ostriche nella sua villa di Baia, al tempo dell’oratore Lucio Crasso: e non per gola, ma per avidità, in quanto percepiva grandi rendite», ricorda Plinio il Vecchio. E tra i ricchi la moda di

allevare pesce, cosí da avere sempre disponibili le specie piú pregiate quali murene, orate o saraghi è cosí diffusa che anche nei giardini di alcune case di Pompei (complesso di Championnet), le piccole piscine che si accompagnano ai ninfei sono a volte trasformati in murenai. Tra i condimenti, oltre all’olio di oliva e all’aceto, era largamente impiegato il celebre garum, per insaporire carne, pollo, agnello e verdura, e considerato anche un medicamento utile a guarire le ustioni, le ulcere, i morsi dei cani e soprattutto dei coccodrilli. Il garum è ottenuto dalla fermentazione nel sale di intestini e scarti di pesce azzurro. Se ne ottengono diverse qualità, quella peggiore era destinata alla razione giornaliera per gli schiavi. Pompei è rinomata per la qualità di questa salsa: la migliore la produce A. Umbricius Scaurus, di cui conosciamo l’abitazione affacciata in posizione panoramica verso il mare (Insula Occidentalis). Il famoso commerciante ha fatto raffigurare ai quattro angoli dell’impluvio le ampolline usate per la conservazione del condimento con una scritta menzionante il suo nome e l’espressione «liqua (minis) flos», a indicare la qualità piú raffinata e pregiata del suo prodotto.

Per saperne di piú Pompei, il Tempo ritrovato. Le nuove scoperte (Rizzoli, 2019) di Massimo Osanna racconta la rinascita e le scoperte archeologiche che hanno interessato Pompei in questi ultimi anni, una testimonianza viva e affascinante riproposta piú velocemente in Generazione Pompei, uscito in Campania con il quotidiano La Repubblica (2021). Un resoconto sulle metodologie e sugli interventi di recupero del patrimonio monumentale, nell’ambito del Grande Progetto Pompei, si ha invece in Restaurando Pompei. Riflessioni a margine del Grande Progetto, a cura di Massimo Osanna e Renata Picone (L’«Erma» di Bretschneider, 2018). Guida completa e approfondita sugli scavi di Pompei è Pompei Oplontis Ercolano Stabiae (Laterza, 2006) di Fabrizio Pesando e Maria Paola Guidobaldi, da affiancare alla breve Pompei. Guida (Artem, 2016) di Massimo Osanna, Gabriel Zuchtriegel, Mario Grimaldi. E poi ancora Pompei 79 d.C. Una storia romana (Electa, 2020), a cura di Mario Torelli, dedicato al confronto Roma-Pompei; I misteri di Pompei (Garzanti, 2017), di P. Veyne, su Villa dei Misteri. Piú narrativi I tre giorni di Pompei (Rizzoli 2016) di Alberto Angela; Pompei (Mondadori, 2017) di Mary Beard, e 79 Storie su Pompei che non vi hanno ancora raccontato... (L’«Erma» di Bretschneider, 2016) di Lara Anniboletti. Infine, i cataloghi delle mostre ospitate a Pompei editi da Electa, Pompei e l’Europa 1748-1943 (2015), Egitto Pompei (2016), Pompei e i Greci (2017), Pompei e gli Etruschi (2018). Per notizie e contenuti utili alla conoscenza e alla visita del Parco Archeologico di Pompei, con informazioni aggiornate sull’apertura degli edifici e sugli eventi, si possono consultare il sito web pompeiisites.org, oppure i canali social: Facebook, Pompeii-Parco Archeologico; Instagram, Pompeii-Parco Archeologico; Twitter, Pompeii Sites; YouTube, Pompeii Sites.

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MONOGRAFIE

n. 45 ottobre/novembre 2021 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei ed è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative sul patrimonio archeologico e museale. Illustrazioni e immagini Il corredo iconografico dell’opera è stato gentilmente fornito dall’Archivio fotografico del Parco Archeologico di Pompei. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

In copertina: un’immagine del termopolio scoperto nella Regio V, che, con il suo bancone vivacemente affrescato, è una delle acquisizioni piú spettacolari fra quelle scaturite dagli scavi condotti nell’ambito del Grande Progetto Pompei.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 - Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI)

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