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ARCHEOLOGIA NEL CUORE DI ROMA
PALATINO • COLOSSEO • FORO ROMANO • DOMUS AUREA
N°48 Aprile/Maggio 2022 Rivista Bimestrale
€ 7,90
ARCHEOLOGIA NEL CUORE DI ROMA
Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
ARCHEO MONOGRAFIE
MONOGRAFIE
IN EDICOLA IL 23 APRILE 2022
ARCHEOLOGIA NEL CUORE DI ROMA
PALATINO • COLOSSEO • FORO ROMANO • DOMUS AUREA testi di Martina Almonte, Roberta Alteri, Ines Arletti, Francesca Boldrighini, Stefano Borghini, Paolo Castellani, Francesca Cesari, Fulvio Coletti, Livia Colopardi, Irma Della Giovampaola, Fiorangela Fazio, Maria Grazia Filetici, Luciano Frazzoni, Giulia Giovanetti, Alessandro Lugari, Barbara Nazzaro, Angelica Pujia, Federica Rinaldi, Antonella Rotondi, Alfonsina Russo, Maddalena Scoccianti, Arianna Santelli, Gabriella Strano e Sabrina Violante
6. PRESENTAZIONE Un grande museo diffuso
14. IL FORO ROMANO 14. Presentazione 26. Il nuovo Museo del Foro 30. Nuove indagini nell’area del Comizio e della Curia Iulia 32. I Rostra imperiali e la loro manutenzione 38. Il ritorno dei dodici dèi 42. Nella casa delle sacerdotesse di Vesta 50. Quell’antica via per l’Esquilino 52. La devozione in forme colossali
56. IL PALATINO 56. Presentazione 66. La Domus Tiberiana: sperimentare per tutelare 70. Horti e fontane, tra antichità e Rinascimento 74. I frutti dalla terra degli imperatori 76. Le Curiae Veteres e le pendici nord-orientali del Palatino
80. IL COLOSSEO 80. Presentazione 86. L’arena dei gladiatori e il rinnovato spazio degli ipogei 90. Gerusalemme, il dipinto ritrovato 92. L’arena che verrà, tecnologica ed ecosostenibile 98. Il cantiere del Colosseo
102. LA DOMUS AUREA 102. Presentazione 108. Luce Aurea
114. GLI AUDITORIA DI ADRIANO 114. Presentazione 118. Monitoraggio e manutenzione per proteggere il patrimonio 121. Un codice per il Fundraising 122. La Carta del Rischio per la tutela di mosaici e pavimenti marmorei
124. LA COLONNA TRAIANA 124. Presentazione 128. Cosí romana, cosí europea
I
l centro monumentale di Roma antica accoglie testimonianze archeologiche tra le piú rilevanti dell’Occidente e non solo. Si tratta di un patrimonio universale, visitato, ogni anno, da milioni di persone provenienti da tutto il mondo. Eppure, la visita di questo complesso fatto di grandi edifici, frammenti architettonici, sculture e «semplici» lastricati viari non è impresa facile. La presenza «simultanea» di monumenti imponenti per dimensioni e per immediata bellezza, riuniti all’interno di un perimetro relativamente circoscritto ma risalenti a epoche ed eventi distanti tra di loro spesso anche centinaia di anni, richiede una conoscenza preliminare tutt’altro che scontata. Vi sono poi gli interventi architettonici e urbanistici di età moderna che rendono ancora piú ardua la comprensione del tessuto antico: basti citare l’Altare della Patria, intorno al quale si accalcano i turisti, ammirati dalla sua bianca mole ma ignari della sua smisuratezza, cosí incongrua se messa a confronto con le dimensioni dei resti antichi su cui insiste. O, ancora, la strada moderna (già via dell’Impero e oggi via dei Fori Imperiali) che di un simbolo di Roma, l’Anfiteatro Flavio o Colosseo, offre un colpo d’occhio «da cartolina», sacrificando al contempo ogni corretta prospettiva dei monumenti del Foro Romano, costretti a essere visti «di spalle». Il centro di Roma antica è un palinsesto straordinario ma di ardua lettura, la cui comprensione non può che avvenire gradualmente, e alla cui conoscenza vuole contribuire questa nuova Monografia di «Archeo». I suoi autori (tanto numerosi da non poter essere, qui, menzionati singolarmente) sono i protagonisti di quell’«archeologia nel cuore di Roma» evocata dal titolo. Sono gli archeologi di un’istituzione – il Parco archeologico del Colosseo – creata nel 2017, a cui è affidata la «vita contemporanea» delle millenarie vestigia di un villaggio divenuto capitale di un impero. Andreas M. Steiner
«Archeo» ringrazia la società cooperativa Coperarte, e il suo presidente Camillo Macone, per il generoso contributo finanziario alla realizzazione di questa Monografia.
UN GRANDE MUSEO DIFFUSO I
l Parco archeologico del Colosseo racchiude un’area di circa settantasette ettari, di cui 47 attrezzati e aperti al pubblico, frequentata da oltre sette milioni e mezzo di visitatori nel 2019, con un incremento negli ultimi anni determinato dal sempre piú intenso flusso turistico dall’Estremo Oriente, e si colloca tra i siti piú visitati nel mondo. Istituito con D.M. del 12 gennaio 2017, si configura come un luogo unico e inconfrontabile per l’archeologia, la storia, la cultura nazionale e internazionale, in cui si alimenta una continua educazione alla memoria in relazione con l’intero sistema culturale di Roma e d’Italia. Racchiude complessi monumentali quali il Foro Romano, il Palatino,
l’Arco di Costantino e la Colonna Traiana, la Domus Aurea, gli Auditoria di Adriano e il Colosseo. Quest’ultimo è un’icona tra le piú conosciute al mondo, il simbolo di Roma antica e il segno grafico per progetti e azioni incentrati sulla Roma contemporanea. Con questa Monografia di «Archeo» il Parco vuole raccontare il grande impegno profuso con importanti lavori di restauro e di ricerca archeologica, dando anche conto delle iniziative promosse e realizzate nell’ambito della sua intensa programmazione culturale. Tutto questo, anche nonostante le significative criticità determinate nell’ultimo biennio dalla pandemia. Il costante lavoro multidisciplinare e
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Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo.
Veduta panoramica del Foro Romano.
di squadra, che vede quotidianamente impegnati archeologi, architetti, restauratori, ingegneri, geologi, fisici, informatici, ha come unico obiettivo quello di restituire al pubblico un luogo sicuro, accogliente e, nello stesso tempo, emozionante, che sappia raccontare in modo semplice ma corretto la storia complessa di un sito pluristratificato di 2775 anni. La missione del Parco archeologico del Colosseo è infatti quella di dare piena centralità alla gestione e alla valorizzazione di una tra le piú importanti aree archeologiche del mondo. Una delle principali tematiche al centro della riflessione e dell’azione del Parco archeologico del Colosseo ha riguardato la necessità di superare la separazione fisica, ma anche culturale tra il Colosseo e la Città di Roma. E nell’azione del Parco è di estrema importanza la condivisione di strategie con Roma Capitale, a partire dalla progressiva riunificazione dei circuiti di visita dei Fori (Foro Romano e Fori Imperiali) e
ulteriormente con l’avvio del progetto di riqualificazione della piazza del Colosseo. Tra le attività prioritarie del Parco, inoltre, già da alcuni anni è stata avviata una imponente attività di monitoraggio e manutenzione, con cicli programmati, del proprio patrimonio monumentale, ma anche dei mosaici e delle pareti affrescate, presupposto fondante di qualsiasi progetto di valorizzazione. E per queste attività il Parco archeologico del Colosseo si avvale anche dell’uso combinato di tecnologie innovative. Alla diagnostica strumentale si affianca infatti il monitoraggio da droni e da satellite, di particolare rilievo per fornire informazioni, tra l’altro, sul movimento dei suoli che, se opportunamente integrate con quelle raccolte in situ, sono in grado di contribuire alla definizione della vulnerabilità dei siti e all’analisi dei rischi a cui i beni culturali, e in particolare quelli archeologici, sono esposti. Contestualmente, a quasi
quarant’anni da quella importante stagione di restauri che la Legge Biasini del 1981 aveva favorito, interessando i monumenti dell’area archeologica centrale, il Parco, nell’ambito di un programma organico di interventi ha attivato cantieri di manutenzione, consolidamento e presentazione al pubblico della Colonna Traiana, degli Archi di Tito, Settimio Severo e Costantino, della Casa delle Vestali e del Tempio di Vesta, della Curia, del Tempio di Venere e Roma, della Basilica di Massenzio, della Domus Tiberiana e degli Horti Farnesiani, degli Auditoria di Adriano. Al Colosseo, di recente sono stati completati anche i lavori di restauro dei sotterranei, finanziati dalla sponsorizzazione di Tod’S SpA, ora riaperti al pubblico con un percorso di visita che consente, per la prima volta, di percorrerli integralmente (dalla Porta Libitinaria a quella Triumphalis); e sulla base delle risultanze delle indagini archeologiche effettuate in questo contesto si è dato avvio alle procedure per il progetto di ricostituzione dell’arena, intervento finanziato dal Ministero nell’ambito dei Grandi Progetti Beni Culturali e che sarà realizzato con soluzioni tecnologiche avanzate. E, inoltre, proseguono i lavori di restauro dei fornici e della controfacciata dell’attico del Colosseo. Anche la cura e la manutenzione del verde hanno rappresentato una delle priorità, essendo il Parco un «polmone green» nel cuore di Roma. Agli Horti Farnesiani è stato dato avvio a una rilevante attività di restauro dei giardini e degli edifici, con la rifunzionalizzazione delle
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fontane antiche e rinascimentali e delle Uccelliere, oggi spazio per esposizioni temporanee. Sono state ripiantate le aiole a disegni geometrici ornamentali sulla base delle tracce sul terreno e del disegno di Giovanni Battista Falda del 1667 che descrive minutamente gli Horti nel loro studiato scenario per le nozze di Odoardo I Farnese e Margherita de’ Medici. Sempre negli Horti Farnesiani è stato anche restaurato il roseto voluto agli inizi del secolo dall’archeologo Giacomo Boni, che proprio qui, tra questi fiori affacciati sulla meraviglia del Foro Romano, ha voluto essere sepolto. E, inoltre, sempre nell’ambito dei progetti di cura e manutenzione del verde, sono state realizzate altre iniziative legate all’ampio concetto di Green Economy che hanno dato vita al progetto «PArCo Green», che comprende una vasta serie di azioni, tutte accomunate dallo scopo di ridurre l’impatto ambientale e, piú in generale, di diminuire l’inquinamento, di conservare l’ecosistema e la biodiversità, comunicando questi valori anche al pubblico, tramite laboratori didattici. Alle pendici meridionali del Palatino sono stati anche piantumati filari di piante antismog, caratterizzate dalla capacità di migliorare la qualità dell’aria. Sempre per esaltare i valori ambientali delle aree gestite dal Parco, oltre alla cura degli ulivi sino alla produzione dell’olio, sono state posizionate alcune arnie che hanno consentito la produzione di miele del Palatino e sono stati impiantati filari di vite che porteranno alla produzione di vino. Accanto a questi interventi di manutenzione e restauro programmati dei monumenti e di
cura e manutenzione del verde, il Parco, dal momento della sua istituzione, già di per sé un Museo a cielo aperto, ha avviato un piano di aperture di siti e monumenti in precedenza chiusi al pubblico, con il risultato di far crescere notevolmente le superfici visitabili (come, per esempio, il percorso multimediale dalla Casa di Augusto alla Casa di Livia, all’Aula IsiacaLoggia Mattei fino a S. Maria Antiqua). Si può calcolare un incremento di circa 23 000 mq, per oltre 40 ettari di superficie fruibile per i soli Foro Romano e Palatino. L’obiettivo complessivo di questa attività è di proporre al pubblico un «museo diffuso» nel perimetro del Parco, con un sistema di «luoghi» del racconto in grado di rendere sempre vivo e ancor piú coinvolgente il «dialogo» tra i singoli monumenti, con gli oggetti finalmente contestualizzati, e un pubblico sempre piú consapevole dei valori che il patrimonio culturale esprime. Tale strategia consente peraltro di diversificare notevolmente i percorsi tematici, anche al fine di evitare concentrazioni di pubblico in determinati punti del Parco. Il «museo diffuso» si articola intorno ai tre cardini del sistema museale interno: il Museo del Colosseo con l’esposizione permanente inaugurata nel 2018 «Il Colosseo si racconta: la storia infinita di un’icona», che documenta tutte le fasi di vita del monumento dalla sua costruzione ai piú recenti restauri; il Museo del Palatino, arricchito da applicazioni multimediali, e, in ultimo, il Museo del Foro, riaperto al pubblico dopo circa 40 anni di chiusura, in occasione dell’esposizione dedicata
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alla figura di Giacomo Boni (1859-1925), primo Direttore del Foro Romano e del Palatino. A questo sistema museale si collegano altri luoghi significativi, che raccontano la loro storia attraverso i reperti esposti al loro interno, come la Casa delle Vestali, con il piú antico sacerdozio femminile, e la Domus Tiberiana, con un viaggio nel tempo lungo il clivus della Vittoria e attraverso gli ambienti del fastoso palazzo imperiale. Anche la Domus Aurea è ora riaperta al pubblico in modo permanente, arricchitasi di un nuovo ingresso, con la «passerella di luce» progettata dall’architetto milanese Stefano Boeri e un nuovo affascinante percorso di luce tra le pitture di Fabullus, «segnato» da sculture di Muse e di Amazzoni, quanto resta dei fastosi arredi della reggia di Nerone rinvenuti, a seguito di un Uno scorcio del Foro Romano: sulla sinistra, le colonne superstiti del Tempio della Concordia e, sulla destra, quelle del Tempio di Saturno.
attento studio, nei depositi del Parco. Uno degli sforzi principali fatti dal Parco, peraltro, è quello di attivare un dialogo costante con i diversi pubblici e con i non pubblici. Questo è da considerarsi uno degli aspetti di maggiore complessità, in quanto il ruolo principale del Parco è quello di fornire un contributo decisivo alla crescita culturale della collettività, attraverso la creazione e la trasmissione del proprio patrimonio di conoscenze. Nel processo strategico e dinamico di allargamento e diversificazione del pubblico e di miglioramento delle condizioni complessive di fruizione del Parco archeologico, la crescita esponenziale di utenti digitali non può piú essere sottovalutata. In questa direzione a un sito web in quattro lingue, innovativo e moderno, si affianca un’intensa dimensione relazionale veicolata attraverso i social del Parco
(www.parcocolosseo.it). In conclusione, il valore del Parco può essere considerato sotto due profili: il valore interno e quello esterno. Quello interno si basa sul patrimonio archeologico e, piú in generale, culturale e sulla sua rappresentazione: il Colosseo, il Foro Romano e il Palatino, la Domus Aurea, il Museo del Palatino e il Museo del Colosseo, il nuovo Museo del Foro, i nuovi percorsi tematici e diversificati, ma anche le infrastrutture, gli accessi, il punto ristoro, l’accessibilità sia fisica che culturale. Al valore interno del Parco, si affianca un valore esterno, generalmente espresso dal rapporto tra i benefici che il Parco apporta al contesto sociale di riferimento e al territorio, sia in termini di miglioramento dell’immagine complessiva del luogo nel quale è ubicato, sia in termini di innalzamento
della qualità della vita per i residenti. E in questo senso attraverso forme di fidelizzazione e networking su base territoriale, supportate dalla comunicazione social e dall’attivazione di una membership card, il Parco intende coinvolgere il pubblico, invitandolo a riscoprire l’area archeologica, rinnovata nell’accoglienza e nel decoro, attraverso mostre temporanee, cicli di conferenze, concerti, incontri, dibattiti, cinema, danza. Il Parco, in conclusione, in linea con i principi della Convenzione di Faro, pone al centro della sua visione il valore del patrimonio culturale per la società civile e, attraverso la sua azione, intende perseguire la dimensione di luogo di partecipazione, condivisione, trasmissione, connessione di tutte le comunità. Alfonsina Russo
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UN PARCO NEL CUORE DI ROMA | PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO | 10 |
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I quasi 80 ettari del Parco archeologico del Colosseo abbracciano l’area archeologica centrale di Roma e sono la testimonianza piú estesa e tangibile della città antica. Nei suoi confini, infatti, oltre al Foro Romano – cuore politico e amministrativo dell’Urbe – ricadono il Palatino – colle che conserva le memorie del mitico fondatore della città, Romolo, e poi dei suoi imperatori –, ma anche il Colosseo – icona universalmente nota della civiltà romana – nonché le spettacolari vestigia della Domus Aurea, la grandiosa residenza voluta da Nerone. Il tutto in un dialogo ideale, ma anche fisico, con altri grandi poli della Roma antica, quali il colle del Campidoglio e l’area dei Fori Imperiali.
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4 1 DOVE E QUANDO Il Parco archeologico del Colosseo è aperto tutti i giorni dell’anno, con l’eccezione del 1° gennaio e del 25 dicembre. Per tutte le informazioni riguardanti gli orari – che variano stagionalmente –, i biglietti, gli ingressi e le visite guidate si può contattare il numero 06 39967700 (attivo tutti i giorni, dalle 10,00 alle 15,00). Informazioni sulle modalità di visita e sulle diverse tipologie di biglietto sono disponibili anche sul sito web del Parco: www.parcocolosseo.it
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IL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO 1. Circo Massimo 2. Arcate severiane 3. Palazzo dei Flavi (Domus Augustana) 4. Septizodium 5. Ampliamento massenziano 6. Cosiddetto Stadio
7. F acciata della Domus Augustana 8. Paedagogium 9. Casa di Augusto 10. Tempio di Apollo 11. Capanne romulee 12. Scalae Caci
13. Tempio della Magna Mater 14. Vicus Tuscus 15. Horti Farnesiani 16. Domus Tiberiana 17. Horrea Agrippiana 18. Casa delle Vestali 19. Basilica Giulia
20. Curia Iulia 21. Colonna Traiana 22. Domus Aurea 23. Tempio di Venere e Roma 24. Anfiteatro Flavio (Colosseo) 25. Meta Sudans
FORO ROMANO
IL FORO ROMANO NELLA VALLE RACCHIUSA FRA IL CAMPIDOGLIO E IL PALATINO SI CONSERVANO LE TESTIMONIANZE DI UNA STORIA MILLENARIA. UN PALINSESTO STRAORDINARIO E UNICO AL MONDO E LA CUI «VITA CONTEMPORANEA» È, OGGI, AFFIDATA ALLE CURE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO di Luciano Frazzoni
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Il Foro Romano in un dipinto di Giovanni Paolo Pannini. XVIII sec. L’area si presentava all’epoca con un aspetto ben diverso dall’attuale: nel tempo, la piazza e i suoi monumenti erano andati progressivamente interrandosi e il piano di campagna era dunque assai piú elevato.
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FORO ROMANO
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l Foro Romano è un’area molto complessa nel suo insieme, con monumenti compresi in un arco di tempo che va dalle fasi di vita piú antiche della città fino a quelle tardo-imperiali. La sua descrizione è perciò impegnativa e in questa trattazione cercheremo di seguire sia l’evolversi cronologico dell’area, sia un percorso che seguirà un ordine topografico, a prescindere dai vari periodi. La conoscenza delle piú antiche epoche di frequentazione del Foro si deve soprattutto agli scavi condotti da Giacomo Boni tra il 1899 e il 1900 e, in particolare, alle scoperte effettuate nell’area del Comizio. La valle compresa tra il Campidoglio e il Palatino si presentava in origine paludosa e inospitale, percorsa da un corso d’acqua, il Velabro, che si riversava poi nel Tevere. I primi centri abitati si svilupparono infatti sulle estreme propaggini delle colline circostanti del Palatino e del Campidoglio, mentre la pianura era utilizzata come area sepolcrale, come testimonia il sepolcreto dell’età del Ferro (X-IX secolo a.C.) individuato presso il Tempio di Antonino e Faustina e i cui corredi funerari sono esposti nel Museo del Foro (vedi alle pp. 26-27). Dopo essere stata utilizzata esclusivamente per sepolture infantili dalla fine del IX al VII secolo a.C., a seguito dell’ampliamento dell’abitato del Palatino verso la parte settentrionale del colle e la Velia, l’area sepolcrale si spostò sull’Esquilino, segno evidente che anche la zona del Foro era entrata a far parte del nucleo urbano. Risale infatti alla fine del VII secolo a.C. la prima pavimentazione in terra battuta della piazza, al tempo della dinastia etrusca dei Tarquini. Al loro primo re, Tarquinio Prisco, si deve la realizzazione della Cloaca Maxima, prima grande opera di regimentazione delle acque che, canalizzando il corso del Velabro e attraversando l’area centrale del Foro, rese questa parte della città utilizzabile per le attività connesse al commercio e alla vita politica della città, diventando luogo di riunione dei cittadini, dei senatori e dei magistrati romani, nonché centro religioso. Nel Comizio si trova, infatti, uno dei
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piú antichi santuari, da identificare con il Volcanal, luogo dedicato a Vulcano, comprendente un altare a tre ante, la base di una statua e un cippo con iscrizione arcaica databile alla metà del VI secolo a.C. Benché incompleta, l’iscrizione è interpretabile come una legge sacra, in cui sono indicati gli atti rituali che il rex doveva svolgere sull’altare. L’importanza di questo luogo è sottolineato dal fatto di trovarsi al di sotto di un’area distinta dal resto del pavimento del Foro, perché ricoperta da marmo nero (da cui il nome di Lapis Niger) e circondato da una balaustra. Le fonti indicano inoltre che qui Romolo fu ucciso o volò in cielo, trasformandosi nel dio Quirino, ossia la divinità protettrice delle curie, le circoscrizioni gentilizie istituite da Romolo, in cui il popolo romano era organizzato sia per l’arruolamento militare che per le assemblee civiche, che si svolgevano nel Comizio, il centro politico e giudiziario di Roma. Qui si trovavano la Curia Hostilia, nella quale si riunivano i senatori, i
L’archeologo/ architetto Giacomo Boni (1859-1925) posa accanto a una delle tombe del sepolcreto arcaico da lui scoperto nei pressi del Tempio di Antonino e Faustina.
Operai di Giacomo Boni impegnati nei lavori di sistemazione della via Sacra al termine dello scavo.
tribunali per i processi e la tribuna degli oratori, che, dopo la vittoria di Anzio durante la guerra latina nel 338 a.C., prese il nome di Rostra, in quanto vi furono affissi i rostri delle navi catturate ai nemici.
Il trasferimento dei tribunali Nella prima metà del III secolo a.C., all’inizio della prima guerra punica, la piazza del Comizio assunse una forma circolare con gradinata interna. La parte a sud corrispondeva ai Rostra, quella a est era occupata dalla Graecostasis, una piattaforma sopraelevata dove gli ambasciatori stranieri, in particolare greci, assistevano alle riunioni del Senato; la parte piú settentrionale, ai lati della Curia Hostilia, era probabilmente occupata dai tribunali dove si svolgevano i processi. Dopo varie trasformazioni avvenute intorno all’80 a.C. a opera di Silla, che comportarono tra l’altro la ricostruzione della Curia, ampliata fino a contenere ben 1000 senatori, i tribunali vennero trasferiti e fu realizzata la prima
pavimentazione in travertino della piazza forense e del Comizio. L’aspetto di questa parte del Foro mutò nuovamente al tempo di Giulio Cesare, tra il 54 e il 44 a.C.: scomparve definitivamente il Comizio e, per costruire il Foro Iulio, fu spostata la Curia, che prese il nome di Iulia, collocata a diretto contatto con il nuovo Foro, mentre i Rostra vennero ricostruiti nell’angolo corto nord-occidentale della piazza. L’aspetto odierno dei Rostra, con la facciata rettilinea in blocchi di tufo su cui sono ben visibili i fori sui quali erano affissi i rostri di bronzo delle navi, si deve a un ampliamento di Augusto e a restauri successivi (vedi alle pp. 32-37). A nord dei Rostra, tra l’Arco di Settimio Severo e il Tempio di Saturno, si trova un edificio rotondo in mattoni, risalente a epoca severiana, ma che sostituisce quello piú antico del II secolo a.C., da identificare con l’Umbilicus Urbis (Mundus), ossia con il luogo che indicava il centro della città della fondazione romulea, e punto di contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Resti di una
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FORO ROMANO
colonna marmorea (in origine di bronzo) ai piedi del Tempio di Saturno, indicano invece il Miliarium aureum, ossia la pietra miliare realizzata da Augusto, che indicava il punto di partenza delle strade che si dipartivano dalla città. Piú volte restaurata fino al IV secolo d.C. e poi trasformata nella chiesa di S. Adriano nel VII secolo d.C., la Curia Iulia è un grande edificio in laterizi coperto da un tetto a doppio spiovente, con la facciata in origine rivestita da lastre marmoree nella parte inferiore e da bugnato in stucco nella parte piú alta, su cui si aprono tre grandi finestre (vedi alle pp. 30-31). La porta è una copia dell’originale in bronzo, riutilizzato nel XVII secolo come portale della basilica di S. Giovanni in Laterano. All’interno l’ambiente è diviso in tre sezioni; quelle laterali presentano ognuna tre bassi gradoni, dove erano i seggi dei senatori; le pareti laterali sono movimentate da nicchie inquadrate da colonne,
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risalenti alla ricostruzione dell’edificio dovuta a Diocleziano dopo l’incendio del 283 d.C., come anche il ricco pavimento di marmo. Sulla parete di fondo si aprono due porte, divise da un basamento, che doveva accogliere la statua della Vittoria e un altare. All’interno della Curia si trovano inoltre due rilievi, prima collocati nel Foro, di epoca traianea. In uno è rappresentata l’abolizione dei debiti, con la distruzione dei pubblici registri alla presenza dell’imperatore, nell’altro l’istituzione degli alimenta, prestiti a basso interesse per gli agricoltori. Queste scene sono ambientate nel Foro, con la rappresentazione di alcuni degli edifici principali; sul retro sono raffigurati gli animali destinati ai sacrifici (suovetaurilia).
L’area nord-occidentale L’area nord-occidentale del Foro, a ridosso del Tabularium, l’archivio di Stato di epoca sillana, è
Sulle due pagine una veduta del Foro Romano dal Palatino. L’ampia valle divenne il cuore politico e amministrativo dell’Urbe all’indomani della sua bonifica: in origine, infatti, si trattava di una zona paludosa e dunque impraticabile per via del Velabro, il corso d’acqua che la attraversava.
A destra il cippo con iscrizione in latino arcaico (secondo quarto del VI sec. a.C.) scoperto nell’area di culto arcaica rinvenuta nel 1899 da Giacomo Boni al di sotto del Lapis Niger e identificata con il Volcanal (santuario di Vulcano). Il testo inciso sulla pietra sarebbe quello di una lex sacra, un regolamento rituale e sacrificale.
occupata da alcuni edifici sacri, appartenenti a fasi diverse. Partendo dall’angolo sud-ovest, si incontra il Tempio di Saturno, uno dei piú antichi santuari di Roma dopo quello di Giove Capitolino. Se ne conservano l’imponente podio – frutto del rifacimento promosso dal console L. Munazio Planco nel 42 a.C. – e la facciata, con otto colonne sormontate da capitelli ionici e un fregio con iscrizione che ne ricorda la ricostruzione dopo un incendio, del III secolo d.C. All’interno del tempio si trovava l’Erario, il tesoro dello Stato romano. Davanti vi sono anche i resti dell’Ara di Saturno, un santuario a cielo aperto di epoca arcaica (ora coperto da una moderna tettoia), poi sostituito dal tempio dedicato a questa divinità. Alle pendici del Campidoglio, tra il Tabularium e il Clivo Capitolino, sono visibili, nell’ordine: un edificio in laterizi su due piani con pianta ad angolo ottuso, sui cui lati si aprono una serie di tabernae, preceduto da un porticato con colonne e trabeazione. Qui un’iscrizione permette di riconoscere il complesso con il Portico degli Dèi Consenti (consiglieri), dove era probabilmente l’archivio dell’Erario, ospitato nel vicino Tempio di Saturno (vedi alle pp. 38-41). Segue il Tempio di Vespasiano e Tito, eretto da Domiziano per il padre e il fratello divinizzati. Della struttura, addossata al Tabularium, chiudendone cosí la porta principale, rimangono tre colonne con il sovrastante architrave decorato con strumenti sacrificali, e con l’iscrizione che ricorda il restauro di Settimio Severo e Caracalla. A nord di questa, è il Tempio della Concordia, secondo la tradizione costruito da Camillo nel 367 a.C. per sancire la fine delle lotte tra patrizi e plebei. Quello attualmente visibile, ossia una parte del podio e la soglia della porta (anche se parte della decorazione è conservata nei Musei Capitolini) si deve a un restauro del 10 d.C. di Tiberio, quando l’edificio assunse una pianta con la cella piú larga che lunga, per mancanza di spazio. Oltre che essere adibito da Tiberio a una sorta di museo, il tempio ospitò diverse riunioni del Senato, e Cicerone vi pronunciò la quarta
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FORO ROMANO
orazione Catilinaria. Di fianco al Tempio della Concordia, oltre la scala moderna che conduce al Campidoglio (che in qualche modo riprende le antiche Scalae Gemoniae), sotto la chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami, si trova il Carcer Tullianum, dove vennero imprigionati e poi strangolati prigionieri di Stato, come Giugurta, Vercingetorige e Seiano. Si tratta di un luogo risalente addirittura alle origini della città, che costituisce solo una parte del complesso originario, buio e opprimente, costituito da due ambienti sovrapposti con copertura a botte a blocchi di tufo. Leggendaria è la notizia secondo la quale vi sarebbero stati tenuti prigionieri anche gli apostoli Pietro e Paolo. Per concludere il percorso della parte ovest del Foro, si giunge all’Arco di Settimio Severo, a tre fornici , che si trova su un rialzamento della via Sacra nel proseguimento verso il Clivo Capitolino. Come ricorda l’iscrizione sull’attico, ripetuta sui due lati, il monumento fu eretto nel 203 d.C. per celebrare il trionfo di Settimio Severo e dei suoi figli Geta (il cui nome fu poi cancellato dopo il suo assassinio da parte del fratello) e Caracalla contro i Parti. Gli archi sono inquadrati su entrambe le facciate da quattro colonne; figure di Vittorie si trovano nell’arco principale, mentre quattro pannelli sopra quelli laterali, piú piccoli, rappresentano a rilievo episodi delle due campagne partiche. Sull’attico, come sappiamo da alcune monete, era una quadriga in bronzo con i due Severi.
La pavimentazione della piazza Con Augusto, dopo l’incendio del 14 a.C., l’intera area centrale del Foro viene nuovamente lastricata in travertino a opera di L. Nevius Surdinus, come ricorda l’iscrizione presso la Colonna di Foca. L’ultima pavimentazione, sempre in lastre di travertino e che ha in parte rimaneggiato quella augustea, risale agli anni dopo il 203 d.C. e si deve a Settimio Severo. Questo è l’ultimo lastricato, giunto fino ai nostri giorni, anche se con continui rappezzamenti e rilavorazioni. A est della Colonna di Foca vi è un’area trapezoidale piú bassa rispetto al pavimento,
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che presenta al centro un basamento circolare con foro, da identificare con il Lacus Curtius, cioè con il luogo in cui il cavaliere sabino Curtius sarebbe sprofondato in una voragine palustre, durante i combattimenti tra Romolo e Tito Tazio, il re dei Sabini. Tale scontro, svoltosi nell’area del Foro tra Campidoglio e Palatino, è ricordato anche nel sacello di Cloacina, i cui resti sono visibili tra la via Sacra e la Basilica Emilia. Qui le donne sabine avrebbero posto fine allo scontro tra i loro padri e i loro mariti. Nella parte centrale della piazza si innalzava il monumento equestre di Domiziano (equus Domitiani), rimosso dopo l’uccisione e la damnatio memoriae dell’imperatore, ma di cui restano tracce nel lastricato pavimentale. Gli ultimi interventi nell’area centrale del Foro risalgono ai tetrarchi. Per celebrare la visita a Roma dei quattro imperatori in occasione del ventennale dei due Augusti Diocleziano e Massimiano, e il decennale dei due Cesari Costanzo Cloro e Galerio, nel 303 d.C., vennero erette nel lato sud sette colonne onorarie; la base di quella che doveva sostenere la statua di Costanzo Cloro, presenta su un lato una scena di sacrificio. L’ultimo monumento eretto nel Foro per onorare l’imperatore d’Oriente che aveva donato alla chiesa il Pantheon, è la Colonna di Foca, risalente al 608 d.C. Nei secoli successivi, l’area del Foro subí un progressivo impaludamento, con il conseguente innalzamento dei piani di frequentazione. Nel XVII-XVIII secolo assunse la denominazione di Campo Vaccino, in quanto vi pascolavano i buoi. Solo con l’attività di scavo di Giacomo Boni tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, avrà inizio la riscoperta dei suoi monumenti. A chiudere la piazza nel lato corto orientale del Foro, è il Tempio del Divo Giulio, dedicato da Augusto a Cesare, divinizzato nel 29 a.C. Gravemente depredato nel corso dei secoli, ne rimane il podio, nella parte anteriore del quale è ricavata una nicchia semicircolare, successivamente chiusa; al suo interno si trovano i resti di un altare, a indicare il luogo in cui fu cremato il cadavere di Giulio Cesare. Davanti al tempio si trova un
Il Campidoglio visto dal Foro Romano. Nella foto sono ben riconoscibili le arcate del Tabularium, l’archivio di Stato dell’impero, su cui fu costruito il Palazzo Senatorio. Ai suoi piedi si concentrano i monumenti dell’area nord-occidentale del Foro.
regolare e monumentale. Dal punto di vista architettonico, le basiliche erano costituite da un grande ambiente allungato, diviso in tre navate da portici colonnati (modello che sarà ripreso dalle prime basiliche cristiane). Al loro interno si svolgevano varie attività che nel periodo invernale non potevano essere espletate all’aperto, da quelle finanziarie a quelle giudiziarie. Qui doveva radunarsi un gran numero di cittadini che passavano la giornata assistendo ai processi, ma anche di perditempo che, seduti sulle gradinate esterne, si intrattenevano in vari giochi, come testimoniano le tabulae lusoriae incise sulle lastre della Basilica Giulia, corrispondenti ai giochi del filetto e della dama (ludus latrunculorum). monumento rettangolare, i Rostri del Divo Giulio, opposti a quelli del lato ovest. Qui erano affissi i rostri delle navi egiziane sconfitte nella battaglia di Azio contro Antonio e Cleopatra. Alla battaglia era dedicato anche un arco trionfale nel lato a sinistra del tempio, di cui restano scarsi resti, mentre sul lato opposto, simmetrico a questo, era un altro arco che ricordava la vittoria di Augusto sui Parti. Fin dall’inizio l’area del Foro era divisa in due parti, quella del Comizio a nord, riservata all’attività politico-giudiziaria, quella della piazza vera e propria a sud, destinata al commercio con la presenza di botteghe di generi alimentari disposte su due lati lunghi. Alla fine del IV secolo a.C., con le mutate esigenze di una città in rapida espansione, l’area a carattere commerciale subí profonde modifiche: alle botteghe di generi alimentari si sostituirono gli uffici dei cambiavalute (tabernae argentariae), e sui due lati lunghi, alle loro spalle, vennero costruite le prime basiliche. Sul lato nord si trova la Basilica Emilia, costruita nel 179 a.C., l’unica superstite di impianto repubblicano, anche se molto restaurata in epoca imperiale; sul lato opposto venne realizzata, nel 169 a.C., la Basilica Sempronia, poi sostituita da Giulio Cesare con la Giulia. Nulla rimane della Porcia, costruita nel 184 a.C. da Catone il Censore accanto al Comizio. Con questi edifici la piazza del Foro venne ad assumere un aspetto piú
Al tempo dei re Tornando alle testimonianze riferibili all’età arcaica, occorre spostarsi nel settore a sud della via Sacra, oltre la piazza del Foro. Qui si trovano alcuni edifici, nei quali sono probabilmente da riconoscere le abitazioni dei primi re, collocabili nel periodo compreso tra il VII secolo a.C. e l’inizio della repubblica (509 a.C.). La Regia, situata tra il Tempio di Antonino e Faustina a nord, la parte retrostante il Tempio del divo Giulio a ovest e il tempio di Vesta e l’Atrio delle Vestali a sud-est, è un piccolo edificio di forma trapezoidale, la cui pianta, benché ricostruita dopo il 36 a.C. dal console Cn. Domizio Calvino, ricalca la forma originaria della prima età repubblicana. Comprende un cortile triangolare e tre ambienti allineati, collegati tra loro, secondo lo schema tipico delle abitazioni arcaiche. L’ambiente piú grande, a ovest, presenta al centro un altare rotondo, da identificare con l’altare di Marte, dove erano custoditi gli scudi dei sacerdoti Salii, devoti al dio. La Regia era probabilmente la residenza del secondo re di Roma, Numa Pompilio, al quale si devono la fondazione della religione romana e l’introduzione del culto di Vesta. Con il passaggio alla repubblica, divenne la sede in cui il rex sacrorum (il sacerdote che aveva ereditato le funzioni sacerdotali del re) e successivamente il pontefice massimo
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FORO ROMANO
svolgevano le loro funzioni religiose. La domus Regis Sacrorum, dimora del rex sacrorum e in seguito del pontefice massimo, sorgeva nel punto piú alto della Sacra Via; ne sono in parte ancora visibili i resti sul lato nord della Casa delle Vestali (vedi alle pp. 42-49). Qui abitò anche Giulio Cesare, in qualità di pontefice massimo, dal 62 a.C. fino alla sua morte. Nel vicino tempio circolare di Vesta, di cui si conserva una ricostruzione del III secolo d.C. a opera della moglie di Settimio Severo, Giulia Domna, ardeva il fuoco sacro della città. Il compito di far sí che questo fuoco non si spegnesse mai era affidato alle vergini Vestali, sacerdotesse che avevano la residenza in un edificio a est del tempio, l’Atrium Vestae. Quello che si può visitare ora è un complesso molto piú grande e con orientamento diverso rispetto a quello di epoca repubblicana, che ha coperto sia la precedente Casa delle Vestali, la casa del pontefice massimo e del rex sacrorum. Si tratta di un grande cortile porticato, sui cui lati si dispongono gli ambienti destinati alle sacerdotesse di Vesta, originariamente a piú piani, frutto di vari rifacimenti, a partire da Augusto. Con l’incendio neroniano il Tempio e l’Atrio di Vesta vennero completamente sostituiti dall’edificio ancora visibile, che subí ulteriori rifacimenti sotto Traiano e Settimio Severo, per essere poi definitivamente abbandonato dalle Vestali dopo l’editto di Teodosio che aboliva i culti pagani (391 d.C.). Il complesso fu poi occupato da funzionari della corte imperiale prima, e papale poi. Al centro del cortile sono tre bacini, due quadrati piú piccoli e uno piú grande rettangolare al centro, mentre sotto il portico si trovavano le statue delle Vestali massime, le decane del collegio, alcune delle quali riposizionate seppure in una collocazione casuale. A ovest del Tempio di Vesta sorge un altro edificio legato ad antichi culti di epoca repubblicana, quello dei Dioscuri, introdotto agli inizi del V secolo a.C. Qui si trova la sorgente, dedicata alla dea delle acque Giuturna, il cui bacino fu monumentalizzato in
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epoca repubblicana con il nome di Lacus Iuturnae, con un basamento su cui erano collocate le statue dei Dioscuri. Secondo la leggenda, infatti, i due mitici gemelli sarebbero qui giunti ad abbeverare i loro cavalli, annunciando la vittoria dei Romani sulla Lega Latina presso il lago Regillo nel 499 a.C. In seguito a questo episodio, accanto alla fonte venne innalzato il tempio dei Castori, su alto podio, di cui attualmente restano tre colonne, appartenenti a un restauro dovuto a Tiberio. Il tempio, uno dei piú grandi di Roma, ospitava l’ufficio dei pesi e delle misure e alcuni negozi di banchieri e, occasionalmente, vi si svolsero alcune riunioni del Senato.
Lungo la via Sacra Di fronte alla Regia si trova il Tempio di Antonino e Faustina, posto su un alto podio con altare al centro, lungo la via Sacra. Dedicato dapprima da Antonino Pio a sua moglie, divinizzata nel 141 d.C., e successivamente, dopo al sua morte nel 160 d.C, anche all’imperatore, presenta sei colonne con architrave sulla facciata e due colonne sui lati. L’edificio fu poi trasformato in epoca altomedievale nella chiesa di S. Lorenzo in Miranda, della quale rimane la facciata di epoca seicentesca. Proseguendo a est lungo la via Sacra, vi è il tempio circolare, coperto da cupola, dedicato da Massenzio al figlio Romolo, morto prematuramente nei primi anni del IV secolo d.C. L’edificio, da collegare alla vicina Basilica di Massenzio, mostra una fronte concava su cui si aprono quattro nicchie, che accoglievano altrettante statue. Fiancheggiato da due colonne di porfido con capitelli corinzi in marmo bianco, il portale conserva ancora i battenti in bronzo originali. Ai lati si trovano due ambienti absidati lunghi e stretti, preceduti da due colonne su alto plinto. Dopo un portico di epoca medievale, nell’area facente parte della Velia, si apriva uno degli ingressi principali della Basilica di Massenzio, costituito da un protiro con quattro colonne in porfido sulla sommità di una scalinata.
Nella pagina accanto veduta del Foro con, al centro, la Curia Iulia.
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FORO ROMANO
L’edificio, uno dei piú grandi presenti nel Foro, fu iniziato da Massenzio tra il 307 e il 308, e terminato da Costantino dopo la battaglia di Ponte Milvio e la morte di Massenzio nel 312 d.C., su un’area in precedenza occupata dagli Horrea Piperataria (magazzini del pepe) realizzati da Domiziano, un complesso commerciale destinato alla vendita di spezie e medicine (una sorta di farmacia di Stato, come si deduce dagli scritti del medico Galeno, che abitava in questa zona). Presenta tre navate orientate lungo un asse est-ovest, di cui la
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centrale, piú grande, era in origine coperta da volte a crociera, mentre quelle laterali erano formate da tre ambienti coperti da volte a botte con cassettoni. Secondo il progetto originario, l’ingresso doveva trovarsi sul lato est, mentre su quello opposto era una grande abside con la statua colossale dell’imperatore (parti della quale, tra cui la testa-ritratto, una mano e un piede sono visibili nel cortile del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio). Un cambiamento nel progetto, dovuto forse a Costantino, portò ad aprire l’ingresso sul lato
L’Arco di Tito, innalzato dopo la morte dell’imperatore (81 d.C.) al culmine della via Sacra, ai piedi del Palatino.
sud, mentre su quello opposto si realizzò, alla fine del IV secolo, un’abside con nicchie per statue. Del grandioso edificio (la navata centrale doveva raggiungere i 35 m di altezza), si conserva in elevato solo la navata del lato settentrionale. La sua funzione fu probabilmente quella di basilica giudiziaria, utilizzata per tutto il periodo tardo-antico, collegata agli uffici della Prefettura urbana situati sulle vicine Carinae, mentre le funzioni politiche vennero trasferite nella nuova capitale Costantinopoli.
L’omaggio di un fratello
Particolare della decorazione interna dell’Arco di Tito. Nei due fregi a rilievo è raffigurato il trionfo dopo la vittoriosa conclusione della prima guerra giudaica, nel 71 d.C.
Sul lato opposto della via Sacra, ai piedi del Palatino, si trovava un altro complesso di magazzini, probabilmente granari, forse identificabili con gli horrea Vespasiani, edificati dal primo imperatore dei Flavi. La via Sacra si conclude davanti alla gradinata del Tempio di Venere e Roma.Di fianco a questa, si trova l’Arco di Tito, nel punto dove la via Sacra diverge verso il clivo oggi chiamato Palatino, ma probabilmente da identificare nel clivus Apollinis, mentre il tratto che dall’arco si dirige verso la valle del Colosseo, erroneamente identificato con il proseguimento della via Sacra, è da riconoscere nel clivus Curiarum, che conduceva alle Curiae Veteres. Secondo l’ipotesi di Filippo Coarelli, l’Arco di Tito costituirebbe l’ingresso al Palatino, in relazione con un altro arco ora scomparso, dedicato da Domiziano al padre Vespasiano,
collocato sulla sinistra del Clivo Palatino. L’Arco di Tito fu eretto nell’81 d.C. da Domiziano, per commemorare il fratello Tito divinizzato e celebrare il trionfo della guerra giudaica del 70-71 d.C., come ricorda la dedica sul lato verso il Colosseo. A unico fornice inquadrato da colonne, presenta negli archivolti figure di Vittorie alate, mentre al di sopra è un fregio con la raffigurazione di una processione trionfale. Ma l’apparato decorativo piú importante, che costituisce anche un eccezionale documento storico, si trova all’interno: sui pannelli laterali sono infatti rappresentati due momenti del trionfo giudaico. In quello di sinistra il corteo trionfale con il bottino del Tempio di Gerusalemme, tra cui i simboli della religione ebraica, ossia la menorah (il candelabro a sette bracci), l’arca dell’alleanza e le trombe d’argento; su quello di destra è raffigurato Tito sulla quadriga, incoronato dalla Vittoria seguito dalle personificazioni del Senato e del Popolo Romano, e preceduto dalla dea Roma. Al centro della volta interna, decorata da eleganti cassettoni, è raffigurata l’apoteosi di Tito, che ascende al cielo su un’aquila. Il principale asse stradale, che attraversava trasversalmente in senso est-ovest la valle del Foro unendo il Campidoglio e il Palatino, era la via Sacra; parallela a questa, nel settore meridionale, tra la via Sacra e le pendici settentrionali del Palatino, correva la via Nova, che dall’Arco di Tito giungeva fino al Velabro. Altre cinque strade costituivano la viabilità antica del Foro: il Clivo Argentario, che si dirigeva verso il Campo Marzio, passando tra la pendice del Campidoglio e il Foro di Cesare; l’Argileto, che collegava la zona del Foro con il quartiere della Suburra; il Clivo Capitolino, che costituiva una prosecuzione della via Sacra fino al Campidoglio, passando attraverso l’Arco di Settimio Severo; infine il vicus Iugarius nel lato ovest, e il vicus Tuscus (cosí chiamato perché in origine occupato dalle dimore di Etruschi di alto rango stabilitisi a Roma) nel lato est, che dalla piazza del Foro, costeggiando le basiliche, si dirigevano verso il Foro Boario e il Tevere.
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ILROMANO NUOVO MUSEO FORO DEL FORO
L
a prima parte del nuovo Museo del Foro è stata inaugurata in occasione della mostra «Giacomo Boni. L’alba della modernità» (15 dicembre 2021-30 aprile 2022), proponendo un nuovo percorso espositivo, che riunifica e valorizza i contesti del Foro Romano scavati dall’archeologo/architetto Giacomo Boni agli inizi del Novecento. Il primo Antiquarium del Foro fu istituito da Boni nel 1908 nei locali del convento di S. Francesca Romana/S. Maria Nova, costruzione voluta da Alessandro VI tra il 1492 e il 1503. L’archeologo veneziano non riuscí a seguire costantemente i lavori di allestimento, dati i suoi molteplici impegni, e nominò Guido Cirilli direttore dei lavori, mantenendo comunque il ruolo di supervisore. Lo scopo dell’allestimento museale era quello di presentare al pubblico i risultati delle ricerche condotte in quegli anni nell’area del Foro Romano. Costituito
da nove sale espositive, l’Antiquarium sarebbe dovuto diventare un centro culturale di ricerca e di studi. Nella presentazione dei materiali archeologici fu rispettata l’integrità dei complessi riportati in luce, in base alla convinzione che i singoli reperti conservano il loro valore storico-archeologico solo se esposti all’interno del contesto di provenienza. Significativa a questo proposito è la presentazione al pubblico, nel 1912, dello scavo del sepolcreto presso il Tempio di Antonino e Faustina, ove per ogni tomba fu ricostruito l’intero contesto, considerando allo stesso livello di importanza tutti i tipi di reperti: manufatti, resti antropologici, botanici e faunistici. Nel corso del tempo la collezione dell’Antiquarium fu ampliata con l’esposizione di materiali recuperati dalle indagini di Dante Vaglieri, Alfonso Bartoli, Pietro Romanelli e Gian Filippo Carrettoni.
In basso il sepolcreto arcaico del Foro in corso di scavo. Le indagini portarono alla scoperta di 41 tombe, collocabili fra la prima età del Ferro (X sec. a.C. circa) e il VI-V sec. a.C.
In alto, sulle due pagine la sala del Museo del Foro dedicata ai materiali del Lapis Niger e del santuario di Vesta. Nella pagina accanto, a destra la sala con le sculture della Basilica Emilia.
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Dagli anni Ottanta del secolo scorso alcune sale furono chiuse e adibite a uffici per il personale tecnico, fino alla sua chiusura definitiva negli anni Novanta. Varcato l’ingresso, il percorso espositivo del nuovo Museo del Foro prevede due sale dedicate al sepolcreto indagato da Giacomo Boni negli anni 1902-1905 nell’area del Tempio di Antonino e Faustina. Durante le indagini furono scavate in tutto quarantuno tombe: quattro appartenenti a bambini relative alle abitazioni arcaiche (fine del VI-V secolo a.C.), dodici di bambini associate a capanne databili fra la fine dell’VIII e il VII secolo a.C. e ancora venticinque a pozzo e a fossa riferibili alla prima età del Ferro (X secolo a.C. circa) e relative al nucleo di sepolture che si estendeva in questa area prima della sua utilizzazione come zona di abitato. Nel Museo in particolare si possono osservare, accanto a una quadreria con disegni alle pareti realizzate dai disegnatori che lavoravano con Boni, alcune tombe «allestite» in vetrine progettate appositamente dall’archeologo veneziano e riportate
ai colori originari. Nel nuovo percorso queste «tombe in vetrina» sono state collocate all’interno di nuove teche, appositamente progettate nell’ambito di un sistema espositivo integrato che evoca il momento dei ritrovamenti, cristallizzando le sepolture all’interno di grandi vetro-camere luminose che dialogano con i pavimenti policromi, già restaurati da Boni. Si tratta di tombe a incinerazione risalenti al X secolo a.C. circa (fase laziale IIA) – con corredi comprendenti urna a capanna, vasi miniaturizzati o oggetti di dimensione normali –, sepolture a inumazione in fossa risalenti al X secolo a.C. e tombe relative all’abitato con corredo costituito da vasi realizzati al tornio. Per facilitare la comprensione del sepolcreto è stata dedicata una sala al grande plastico, fatto realizzare da Boni, che riproduce l’area in cui furono scavate le tombe esposte nelle prime due sale. Sono riprodotte fedelmente tutte le evidenze archeologiche rimesse in luce in questo settore del Foro. Il plastico testimonia il rigore scientifico dello
scavatore del Foro, che anche in quest’area adottò il metodo stratigrafico nella ricerca sul terreno e dedicò un’attenzione particolare alla raccolta di tutti i materiali e alla documentazione, corredando ogni fase dell’esplorazione con piante, sezioni e fotografie. L’esposizione prosegue nelle sale che si affacciano sulla cella di Venere e Roma, dedicate alle origini di Roma in un’interazione dialogica tra gruppi scultorei ed elementi architettonici, rappresentati rispettivamente dal complesso della Fonte di Giuturna e dal fregio della Basilica Emilia. Nel Museo sono esposte infatti con i loro cavalli le statue in marmo dei due gemelli divini Castore e Polluce (i Dioscuri) che, secondo la tradizione, avrebbero annunciato a Roma, presso questa sorgente, la vittoria sui Latini nella battaglia del Lago Regillo (499 o 496 a.C.). Il complesso monumentale, scoperto da Boni nel 1900, presenta una continuità di vita dall’epoca arcaica a quella medievale. Nel II secolo a.C. la fonte fu racchiusa in un bacino rettangolare, poi ornato da statue di divinità quali Apollo ed Esculapio,
esposte nelle sale del Museo accanto alla vera di pozzo con iscrizione di epoca augustea. Della basilica Emilia, fondata nel 179 a.C. dai censori M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore, sono esposti una serie di rilievi raffiguranti i momenti salienti della storia di Roma: Romolo e Remo che partono per fondare la nuova città; la costruzione delle mura di una città (Roma o Lavinio); il ratto delle Sabine; la festa in onore del dio del grano Conso; una scena di battaglia; la punizione di Tarpea; i Parentalia. Una sala del Museo è invece dedicata ai depositi votivi del Foro Romano con teche di grandi dimensioni, progettate ad hoc, che scandiscono lo spazio in un percorso che restituisce l’immagine di alcuni importanti ritrovamenti a carattere sacro risalenti a Boni: il Lapis Niger, il santuario di Vesta, l’Equus Domitiani/Doliola e Regia. A questi si aggiunge la teca nella quale sono esposti i reperti appartenenti al deposito votivo del Clivo Capitolino, scavato tra gli anni Ottanta e Novanta dalla Soprintendenza archeologica di Roma. Roberta Alteri
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IL FORO ROMANO E I SUOI MONUMENTI 4
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In alto ricostruzione ipotetica del settore settentrionale del Foro Romano in un acquerello del 1893. 1. Portico degli Dèi Consenti; 2. Tempio di Vespasiano; 3. Tempio della Concordia; 4. Carcere; 5. Chiesa dei SS. Luca e Martina; 6. Arco di Settimio Severo; 7. Ara di Saturno e Umbilicus Urbis; 8. Rostra di epoca cesariano-augustea; 9. Tempio di Saturno; 10. Lapis Niger; 11. Plutei traianei; 12. Colonna di Foca; 13. Basilica Giulia; 14. Lacus Curtius; 15. Curia Iulia; 16. Equus Domitiani (monumento equestre di Domiziano); 17. Colonna domizianea; 18. Equus Constantini; 19. Rostra del tempio del Divo Giulio; 20. Porticus Iulia; 21. Basilica Emilia; 22. Tempio dei Castori; 23. Fonte Giuturna; 24. Tempio di Vesta; 25. Tempio del Divo Giulio; 26. Regia; 27. Tempio di Antonino e Faustina; 28. Casa delle Vestali; 29. Domus Publica; 30. Edificio repubblicano; 31. Tempio di Romolo; 32. Basilica dei SS. Cosma e Damiano; 33. Basilica di Massenzio; 34. Edifici imperiali; 35. Arco di Tito; 36. S. Francesca Romana; 37. Tempio di Venere e Roma.
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Nuove indagini nell’area del Comizio e della Curia Iulia
L
e indagini al Comizio, dopo i grandi interventi di Giacomo Boni (18991900) e gli scavi condotti da Pietro Romanelli (1954-1961), sono riprese in occasione della rimozione (a partire dal 2009) dell’ormai fatiscente pavimento in cemento armato realizzato nel 1961, sospeso sui resti del Comizio repubblicano e sull’area sacra del Niger Lapis. Quel pavimento riproduceva la quota del lastricato in marmo e travertino realizzato da Cesare e ultimato da Augusto, dopo la demolizione e il seppellimento delle antiche strutture del Comizio. La sua rimozione ha offerto l’opportunità di riesaminare i resti archeologici e effettuare alcuni sondaggi stratigrafici mirati. L’indagine ha permesso di approfondire la conoscenza delle fasi piú antiche dell’area e di aggiornare quanto già noto della vita del complesso dalla cacciata dei re fino all’età cesariana. Centro politico e giudiziario della Roma arcaica e repubblicana, il Comizio era costituito da una piazza circondata su tre lati da tribune gradinate dalle quali i magistrati si rivolgevano all’assemblea popolare. Il quarto lato era occupato dalla Curia Hostilia, l’antica Curia attribuita dalle fonti al terzo re di Roma Tullo Ostilio successivamente ricostruita in forme maggiori dal dittatore Silla, che occupava l’area corrispondente alla Chiesa dei Ss. Luca e Martina. Del Comizio, in particolare del settore
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meridionale della piazza, faceva parte l’area sacra del Niger Lapis con il celeberrimo Cippo del Foro, un cippo in tufo recante la piú antica iscrizione in lingua latina arcaica, tuttora conservato sotto il pavimento in pietra nera (Niger Lapis) che dà nome al santuario. Il riesame dei resti è stato condotto nell’ambito del progetto di restituzione dell’area alla pubblica fruizione, tramite la realizzazione di una nuova copertura che permetterà l’accesso e la visibilità delle strutture sottostanti.
Tracce del tempo dei re Le recenti indagini hanno in particolare svelato che l’area del Comizio era già strutturata ai tempi dei primi re come piazza bordata da tribune, precedenti a quelle cui appartengono i resti visibili connesse alla fine della monarchia (509 a.C.) e utilizzate per l’intera età repubblicana. Alla fase regia risale infatti il posizionamento del Cippo del Foro, nonché la deposizione originaria della stipe votiva del Niger Lapis, esposta nel nuovo allestimento del Museo del Foro (vedi alle pp. 24-25), una porzione della quale è stata scavata e recuperata proprio nell’ambito dei recenti scavi. Connesso al complesso comiziale, sul lato settentrionale della piazza, già Boni aveva individuato e scavato un piccolo vano, poi inglobato nelle strutture del portico antistante la Curia Iulia, il nuovo edificio senatorio
Nella pagina accanto l’area sacra antistante la Curia riportata alla luce grazie ai recenti interventi di scavo. In basso l’interno del vano. Già individuata nel 1899 da Giacomo Boni, la struttura accoglie una cassa in tufo. Trattandosi di un cenotafio, cioè di una tomba vuota, è plausibile che sia un luogo voluto per onorare la memoria di un personaggio di grande rilievo nella storia di Roma.
inaugurato da Augusto nel 29 a.C. e successivamente restaurato da Diocleziano dopo l’incendio divampato durante l’imperio di Carino nel 283 d.C. Il vano fu documentato da Boni in corrispondenza della soglia dell’edificio senatorio, a una quota notevolmente piú bassa, e fu poi chiuso negli anni Trenta del Novecento da Alfonso Bartoli per costruire la scala di accesso alla Curia: a quel tempo, infatti, Bartoli fu incaricato dal regime di demolire la chiesa di S. Adriano per ripristinare la Curia dioclezianea.
Una memoria sacra Nell’ambito del progetto di restituzione al pubblico dell’area antistante la Curia Iulia, comprensivo della creazione del nuovo ingresso frontale all’edificio senatorio, sotto la scala novecentesca è stato possibile rintracciare e riaprire il piccolo ambiente, valutare lo stato dei resti archeologici, comprenderne la cronologia e permetterne il restauro. All’interno dell’ambiente è stata rinvenuta una «cassa» ricavata entro un unico blocco di tufo e, accanto a essa, una base circolare dello stesso materiale, come li aveva descritti Giacomo Boni nel 1900. Le stratigrafie e le strutture all’interno dell’ambiente testimoniano fasi databili a partire dall’età arcaica, ricostruendo un panorama precedente agli interventi cesariani di modifica radicale dell’area con la costruzione della Curia e l’obliterazione del Comizio. Benché attualmente ancora in fase di studio, gli elementi presenti all’interno del vano sembrano testimoniare la presenza di una ulteriore memoria sacra presente nell’antica piazza del Comizio.
Pertiene invece alla fase imperiale dell’area antistante la Curia il pavimento in lastre marmoree, rinvenuto durante gli scavi Boni e poi rinterrato, ora riportato alla luce. Posto a una quota corrispondente all’attuale piano di calpestio, conserva incisioni di elementi vegetali e geometrici, oltre a incassi che servivano ad alloggiare basi marmoree, forse iscritte, che dovevano marginare la piazza lungo il fronte dell’edificio. Il pavimento, a tratti lacunoso, è stato oggetto di un progetto di restauro attraverso l’integrazione in travertino delle lastre mancanti. In connessione con il restauro conservativo della Curia e con il progetto di riapertura al pubblico del monumento, è stato rimesso in luce nello stretto corridoio compreso tra la parete occidentale dell’edificio e il muraglione di contenimento sul quale si trova la chiesa dei Ss. Luca e Martina, un ulteriore pavimento marmoreo di età imperiale che connetteva l’edificio senatorio al Secretarium Senatus, su cui sono leggibili fasi di frequentazioni corrispondenti a piú rifacimenti successivi. Nella stessa area sono stati riportati alla luce un pavimento in lastre marmoree e una piccola vasca, pertinenti a un ambiente limitato dall’alto muro in laterizio che chiude lo spazio tra i due avancorpi dioclezianei della Curia. L’ambiente potrebbe appartenere alle piú antiche fasi della chiesa di S. Adriano istituita da papa Onorio I nel 630 nell’antico edificio senatorio. Resti di strutture in blocchi di tufo e un lacerto di muro con resti di intonaco, riferibili al quartiere repubblicano poi occupato dal Foro di Cesare, sono stati individuati sul retro dell’edificio. Nell’ambito del progetto di sistemazione dell’antico percorso viario dell’Argileto, tra la Curia e la Basilica Emilia, sono state riallestite le basi marmoree iscritte, testimoni degli interventi tardo-antichi realizzati nel Foro, rinvenute nel corso degli scavi Boni e precedentemente posizionate, secondo l’allestimento di inizio secolo, sul margine orientale del portico della Curia Iulia. Alfonsina Russo, Francesca Cesari e Arianna Santelli
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I Rostra imperiali e la loro manutenzione
S
ituato nel margine nord-occidentale della piazza forense, il complesso monumentale dei Rostri, mutilo in molte sue parti, consta di emiciclo, tribuna e dei cosiddetti Rostra Vandalica, denominazioni comunemente utilizzate per individuarne i diversi settori, in origine in relazione strutturale a costituire una piattaforma sopraelevata da cui l’oratore poteva parlare al pubblico. Nel corso degli scavi condotti tra il 1829 e il 1833, cominciarono a emergere dall’interro di questa porzione del Foro Romano i primi resti dell’emiciclo. Successivamente, nel 1835, praticando un traforo che aveva lo scopo di congiungere l’area dell’Arco di Settimio Severo e la Colonna di Foca, già scavati, si misero in luce anche i resti dei cosiddetti Rostra Vandalica e della tribuna, identificati correttamente da Efisio Luigi Tocco (1800 circa-1874) come avanzi dei Rostra. In questo lasso di tempo venne costruito un viadotto che cingeva l’arco di Settimio Severo e lambiva i gradoni della Colonna di Foca, impostandosi in parte sui resti del monumento in esame. Solo con la demolizione del viadotto della Consolazione, nel 1882, si comprese realmente la portata della scoperta. Il primo studioso a identificare l’emiciclo con i Rostra cesariani fu, agli inizi del Novecento, Otto Ludwig Richter (1843-1918). Precedentemente situati nell’area del Comizio, sede della vita politica dell’Urbe, i Rostra furono infatti traslati e ricostruiti nel sito attuale nel I secolo a.C. da Giulio Cesare, nell’ambito di un progetto edilizio di piú vasto respiro che interessò anche la Curia, colpita da un incendio nel 52 a.C. in occasione del funerale di Clodio. I Rostra cesariani sono composti da un emiciclo con una gradinata interna (verso il Campidoglio) e da una facciata verticale rivestita da una decorazione marmorea verso la piazza forense. Completati e ampliati da Ottaviano Augusto alla fine del I secolo a.C., furono nuovamente oggetto di un intervento strutturale a cura di Domiziano nel I secolo d.C. La tribuna di età augustea è una costruzione rettilinea alla quale si accedeva tramite la
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scalinata dell’emiciclo cesariano. Una moneta del 13 a.C. (C. Sulpicius Platorinus) rappresenta i Rostri augustei, ma la genericità della raffigurazione non permette di chiarirne appieno l’aspetto. La pedana augustea copre il pavimento cesariano e si inserisce nel pavimento della piazza realizzato da L. Naevius Surdinus nel 9 a.C., che si adatta alla sua presenza: i Rostra augustei, dunque, si collocano cronologicamente tra l’intervento cesariano e il pavimento di Sordino (44-9 a.C.). La tribuna, lunga 23,80 m circa, alta 3,70 m e larga 13, conserva resti della facciata in opera quadrata in blocchi di tufo (di restauro le porzioni a tufelli e malta), sulla quale sono visibili i fori per i perni che servivano a sorreggere i rostri in bronzo, mentre restano pochi frustuli della decorazione marmorea, che doveva essere analoga a quella dell’emiciclo cesariano. Tra l’emiciclo e la struttura rettilinea si suppone fosse allestita una pedana lignea.
Il prolungamento della tribuna Nel II-III secolo d.C., in età severiana, in occasione della realizzazione dell’arco trionfale, le costruzioni situate tra emiciclo e tribuna furono sostituite da una fondazione in calcestruzzo su cui venne eretto un plinto continuo in opera quadrata. In una fase successiva, forse ascrivibile all’età dioclezianea, ovvero, secondo altre ipotesi, alla prima metà del IV secolo d.C., venne realizzato un prolungamento della tribuna verso nord, tramite la costruzione di una muratura laterizia rivestita in marmo, denominata Vandalica per il rinvenimento di una iscrizione, non pertinente, datata al 470 d.C. (CIL VI 32005) che celebra una vittoria sui Vandali. Altri interventi furono effettuati successivamente per consolidare il complesso, luogo di simbolica celebrazione, destinato a ospitare monumenti onorari ormai deprivato della sua funzione politica. Ancora oggi fondamentale è lo studio effettuato negli anni Ottanta del XX secolo da Fulvio Cairoli Giuliani e Patrizia Verduchi, ai quali si deve, tra l’altro, la comprensione della fase di età severiana.
La tribuna dei Rostri. La struttura si presenta nell’assetto conferitole al tempo di Augusto. Si possono vedere i fori nei quali erano inseriti i perni che sostenevano i rostri in bronzo che danno nome al monumento.
Prima degli interventi conservativi avviati nel 2021, l’area dei Rostra mostrava criticità dal punto di vista strutturale, con fenomeni di dissesto in corrispondenza degli ambienti esposti a ovest che costituiscono le sostruzioni del Clivo Capitolino, e un quadro fessurativo significativo. Particolarmente a rischio risultavano anche le strutture del pilastro appartenente alle sostruzioni verso il Campidoglio a causa della presenza di un sistema di confinamento metallico ormai ossidato e non piú funzionante. Tale fenomeno aveva innescato la formazione di vegetazione infestante e radici all’interno dei blocchi lapidei, provocando la rottura della muratura in corrispondenza del piede del pilastro. Inoltre si erano manifestati fenomeni di instabilità di elementi presenti all’interno dell’area, quali i reperti in marmo in posizione
di possibile rotazione, o i gradini della scalinata che risultavano sconnessi a causa della mancanza di un piano di allettamento, con possibilità di innescare fenomeni di scivolamento o rotazione dei blocchi lapidei. Anche le superfici mostravano fenomeni di degrado, quali presenza di patina biologica, distacchi profondi, fessurazioni, croste nere, efflorescenze, scagliature, erosioni, fenomeni di ossidazione degli elementi in metallo, vegetazione infestante, ecc., che interessavano non solo gli elementi lapidei, ma anche il tufo e il laterizio, i nuclei in opera cementizia, le superfici intonacate.
Un progetto pilota La complessità dei fenomeni riscontrati e l’eterogeneità dei materiali impiegati nei Rostra hanno permesso di avviare sul monumento
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A sinistra il Foro Romano in una foto scattata nella prima metà del XIX sec. In basso, sulle due pagine e nella pagina accanto due immagini dell’interno dei Rostra augustei.
uno studio specifico o meglio un progetto pilota che consentisse di individuare protocolli operativi ai fini delle attività della manutenzione programmata sulle strutture archeologiche. Nel 2020 il progetto pilota è entrato nella fase di elaborazione e ha permesso di avviare lo step successivo, volto a individuare i protocolli operativi per la manutenzione a chiamata. Il progetto si è concluso con il restauro dei Rostra e la definizione di un progetto esecutivo per la manutenzione del Foro Romano. Il principio sotteso al piano della manutenzione programmata e a chiamata implica la necessità di mettere a regime, e dare quindi continuità a quanto sperimentato e individuato, al fine di portare le strutture archeologiche del Parco a un livello ottimale di conservazione, con il conseguente decremento di impegnativi interventi conservativi o in somma urgenza. Il progetto pilota di manutenzione dei Rostra, con il coinvolgimento di diverse professionalità, si compone pertanto di opere di consolidamento strutturale, opere di restauro
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delle superfici e opere di pulizia archeologica. I criteri principali che hanno guidato l’intero progetto sono stati: minimo intervento, autenticità, reversibilità (almeno potenziale), compatibilità, distinguibilità delle aggiunte e delle integrazioni.
Soluzioni ad hoc Gli interventi strutturali sono stati definiti in base alle criticità evidenziate attraverso l’analisi del degrado strutturale, al fine di preservare i beni architettonici e permetterne la fruizione in sicurezza. Le soluzioni definite hanno consentito di bloccare l’avanzamento dei fenomeni di degrado e/o di risolvere in maniera puntuale problemi locali. Vista la presenza di molteplici tipologie di murature e di materiali distinguibili, le attività conservative hanno riguardato: murature in pietra sbozzata, pareti in tufo, murature in laterizio, elementi lapidei e metallici. Sono stati effettuati interventi su fessure e su
lesioni a lembi complanari e non complanari, ripristino delle mancanze di malta, ripresa della stilatura dei giunti, interventi sugli appoggi non idonei, ripristino delle mancanze di materiale. Inoltre, sono stati eseguiti interventi di rinforzo puntuale mediante la realizzazione di supporti metallici per elementi instabili, per i frammenti lapidei, per le arcate, per la parete in tufo, per la volta a botte. Per quanto riguarda il restauro delle superfici, è stata attuata una serie articolata di interventi, qui di seguito elencati e brevemente descritti. Interventi preliminari: bussatura e verifica di elementi decoesi/staccati, trattamento biocida e eliminazione vegetazione infestante, spazzolatura con spazzole e pennelli, strato protettivo temporaneo. Interventi su elementi in marmo e travertino: pulizia e restauro del materiale, riadesione di singole scaglie e frammenti distaccati, stuccature e microstuccature. Interventi su elementi in tufo: riadesione di
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singole scaglie e frammenti distaccati, pulizia e restauro, stuccature e microstuccature. Interventi sui paramenti in laterizio: restauro del paramento in laterizio, estrazione dei sali. Interventi sul nucleo cementizio: revisione e restauro delle superfici in nucleo cementizio (cocciopesto, superfici delle creste murarie, superfici in mattoni apparecchiati a denti di sega). Interventi sulle copertine: revisione e integrazioni delle parti mancanti. Le tecniche sono state definite caso per caso e hanno previsto l’utilizzo di materiali tradizionali e moderni, in relazione alla migliore rispondenza al problema specifico.
Regole per un buon restauro Allo stesso modo sono stati vagliati e puntualmente calibrati i fondamentali principiguida del restauro modernamente inteso, vale a dire: la reversibilità, almeno potenziale (che deriva dalla convinzione che ogni intervento è l’esito di una ipotesi valutativa e progettuale,
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sempre perfettibile in futuro senza danno per l’originale); la compatibilità (da intendersi correttamente in senso fisico-chimico, relativamente alla sperimentata non nocività dei trattamenti previsti e dei nuovi materiali introdotti, dal restauro, nell’antico organismo; ma anche come compatibilità «figurativa», che non significa né imitazione o ricalco «stilistico» né dissonante contrapposizione); il criterio del minimo intervento (o della non invasività); la distinguibilità (o, se si vuole, della «autenticità espressiva») delle nuove aggiunte e delle integrazioni rispetto all’antico. Le operazioni di restauro hanno anche garantito il rispetto del carattere «storico» delle superfici murarie, tenendo conto degli interventi pregressi. Le lavorazioni hanno assicurato la difesa delle strutture dagli agenti atmosferici e dall’inquinamento urbano (stuccature, stilature dei giunti, scialbature protettive, ecc.) senza perdere il senso d’antico. Il primo compito è stato, certamente, di eliminare gli effetti patologici del «degrado», ma nel rispetto della
Particolare della decorazione della gradinata dell’emiciclo dei Rostra.
A destra prospetto dell’emiciclo dei Rostra.
fisiologica «alterazione», per naturale invecchiamento, dei materiali. In sostanza, l’intervento conservativo sui Rostra si è ispirato al principio del «minimo intervento» e a una sana visione di manutenzione conservativa, attuando una serie di operazioni puntuali: ripresa dei paramenti murari ammalorati (con tecniche attentamente studiate caso per caso e con un equilibrato uso dei materiali tradizionali e moderni, in ragione della migliore rispondenza al problema specifico); riadesione della fodera laterizia al nucleo; sistemazione dei «bauletti» sommitali in modo da bloccare le infiltrazioni di acqua piovana e da facilitarne il rapido deflusso, senza per questo conferire alle creste murarie una rigidezza geometrica, cosí da non alterare l’immagine tradizionale del monumento e non ostacolare la lettura delle molteplici tracce architettoniche. Il documento storico è stato cosí mantenuto nella sua pienezza testimoniale, mentre, al tempo stesso, è stato protetto in modo adeguato.
In conclusione, attraverso il restauro dei Rostra si è sviluppata una duplice azione sinergica destinata alla valorizzazione e fruizione del bene, intesa nel suo senso piú ampio. Tale azione può essere considerata come migliore e piú efficace presentazione del monumento e, nel tempo, soprattutto come forma di «manutenzione» o, meglio, di «conservazione programmata», dipendente quindi da una adeguata e possibilmente regolare disponibilità finanziaria e da un’accurata pianificazione, anche stagionale, degli interventi. La complessa attività di studio, di analisi, di progettazione e di esecuzione del progetto pilota ha infine consentito di conseguire contestualmente un ulteriore obiettivo, ossia la definizione di modalità e protocolli operativi fondamentali per il piano di manutenzione programmata del Foro Romano. Tutto ciò entro un preciso quadro organizzativo e programmatico, di assoluto rispetto della complessa e delicata natura dell’area. Irma Della Giovampaola
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Il ritorno dei dodici dèi
L’
apertura al pubblico del Portico degli Dèi Consenti, uno degli edifici piú singolari nel panorama di Roma antica, è uno dei prossimi obiettivi del Parco archeologico del Colosseo. Grazie al progetto che prevede il completamento dei lavori di restauro, la valorizzazione degli elementi di studio emersi
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durante gli ultimi lavori e la creazione di un percorso di visita, il monumento sarà restituito al pubblico per una fruizione immersiva dei suoi valori storici, archeologici e culturali. Collocato ai piedi del Campidoglio, in posizione sopraelevata rispetto alla piazza del Foro, l’edificio, originale per forma, articolazione e decoro, è ancora oggi tutto da scoprire,
Il Portico degli Dèi Consenti dopo l’ultimo intervento di restauro.
della parete del colle. Già a un primo sguardo colpiscono le dimensioni, decisamente ridotte rispetto agli imponenti edifici circostanti, in particolare l’adiacente Tempio di Vespasiano e Tito, il vicino Tempio di Saturno e la facciata dominante del Tabularium. Ma ancor piú inusuale appare la struttura architettonica del complesso, composto da due bracci colonnati di diversa lunghezza che si incontrano ad angolo ottuso, assecondando l’andamento di questo settore del colle.
Una decorazione esuberante
sebbene costituisca da tempo parte integrante del paesaggio archeologico dell’area centrale. Nella sua conformazione attuale l’edificio è costituito da un portico a un solo ordine di colonne in cipollino verde, che sostengono un architrave in marmo bianco; il colonnato si dispone davanti a una serie di piccoli vani in laterizio ricavati immediatamente a ridosso
A contraddistinguere ulteriormente l’edificio sono alcune componenti architettoniche che spiccano in contrasto con la trabeazione prevalentemente liscia. Si tratta, innanzitutto, degli esuberanti capitelli figurati con trofei d’armi di fogge differenti che, alludendo alle conquiste romane, assumono particolare rilievo in un edificio posto presso il Clivo Capitolino, quindi lungo l’antico percorso delle processioni trionfali. Non sono da meno le pregiate colonne rudentate in marmo cipollino proveniente dall’isola di Eubea, in Grecia, eco del gusto per le pietre colorate importate dalle province romane, che fu particolarmente vivo nella Roma imperiale. Lo stesso architrave liscio si arricchisce di un soffitto ornato da spessi festoni di quercia. La stretta connessione del portico con il luogo di culto dedicato agli Dèi Consenti, attestato sin dall’epoca repubblicana, si deve all’iscrizione incisa sull’architrave che ricorda i restauri promossi da Vettio Agorio Pretestato, praefectus urbi nel 367 d.C. Il testo, sebbene incompleto e fortemente integrato, fa esplicito riferimento ai simulacri di queste divinità, rendendo inequivocabile l’identificazione del monumento. Risulta piú difficile stabilire l’entità dell’intervento operato da Pretestato. Resta infatti aperta la questione se si sia trattato di un semplice restauro delle effigi degli dèi e del complesso già esistente o se si procedette invece a una radicale costruzione ex novo del portico,
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A destra tavola ottocentesca che mostra il Portico degli Dèi Consenti dopo l’intervento di anastilosi del 1858. Nella pagina accanto rimozione delle croste nere da uno dei capitelli. In basso particolare di uno dei capitelli decorati con trofei d’armi.
reimpiegando materiali di spoglio recuperati da contesti piú antichi. Dato certo è che i materiali che compongono l’edificio non appartengono all’epoca di Pretestato, ma si inquadrano tra l’età flavia e quella adrianea. Il portico risulta strettamente collegato alla terrazza antistante, di forma trapezoidale, pavimentata in lastre di marmo e alla serie di ambienti aperti sulla parete del colle, destinati alle statue di culto degli dèi o a uffici pubblici.
La riscoperta Rimasto a lungo sepolto sotto una spessa coltre di terra, che ne ha impedito la sistematica spoliazione, il portico fu riportato alla luce, in stato di crollo e con parte delle sue componenti ridotte in frammenti, negli anni 1833-34. Nel suo aspetto attuale, l’edificio è frutto di una serie di interventi di anastilosi e restauro eseguiti in due momenti differenti, dapprima alla metà dell’Ottocento e, successivamente, intorno agli anni Quaranta del Novecento. Ne consegue un interessante commistione, che mettendo a confronto su uno stesso edificio scelte e modalità differenti di intervento, accresce ulteriormente il fascino del monumento. Alcune criticità strutturali emerse negli scorsi
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anni, culminate con il distacco e la caduta di un frammento di trabeazione, hanno dato il via a una serie di indagini sul monumento, già chiuso al pubblico, e, successivamente a interventi di restauro volti ad arrestare i processi di degrado in atto a carico del sistema portante e dei materiali marmorei. A seguito dei due importanti eventi che hanno interessato il monumento in epoca moderna – l’anastilosi del 1858 e il restauro del 1942 – si sono infatti generati rapporti di equilibrio critico tra i materiali antichi e i sistemi costruttivi utilizzati nelle ricostruzioni, lontani dagli originari per qualità e tecniche. Infine, la costante esposizione agli agenti ambientali ha chiuso il cerchio su un diagramma di rischio particolarmente alto per la conservazione del monumento. Gli interventi di restauro seguiti alla campagna di indagini sono stati quindi mirati al recupero di uno stato di conservazione ottimale di tutti i materiali e al riequilibrio dei carichi nella struttura portante. I metodi di pulitura e consolidamento dei marmi deteriorati, cosí come gli interventi di conservazione preventiva avverso i maggiori fattori di rischio, sono stati studiati ed eseguiti con l’intento di attivare una sinergia tra componenti compatibili: possiamo citare, per esempio, la protezione dai fenomeni di ossidazione delle barre in ferro di sostegno alla trabeazione, ottenuta mediante l’induzione di processi catodici galvanici, grazie all’installazione di un «materiale di sacrificio» appositamente studiato, e il consolidamento dei marmi ottenuto tramite l’utilizzo simultaneo di due formulati diversi, ma in grado di cooperare per una «ristrutturazione» chimica del materiale decoeso. Oggi il monumento, messo completamente in sicurezza, è costantemente monitorato dai tecnici della conservazione e l’obiettivo è quello di restituire al paesaggio e al grande pubblico la sua bellissima architettura e la conoscenza degli eventi che l’hanno portata fino a noi. Francesca Boldrighini, Fiorangela Fazio, Maddalena Scoccianti e Sabrina Violante
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Nella casa delle sacerdotesse di Vesta
L
a Casa delle Vestali, o Atrium Vestae, venne messa in luce da Rodolfo Lanciani nel corso degli scavi eseguiti negli anni 1882-1884. In particolare, gli ambienti aperti al pubblico nel 2021 per la prima volta dopo gli interventi di restauro e manutenzione effettuati nel 2011, posti tra il lato sud-est del peristilio e la via Nova, che li costeggia, furono rinvenuti tra l’ottobre e il novembre 1883, in seguito alla rimozione del grande muro di recinzione degli Orti Farnesiani e degli strati di interro, giunti fino a m 20 rispetto al piano antico. Le indagini furono portate a termine, tra il 1898 e il 1903, grazie agli scavi condotti da Giacomo
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Boni. Nel 1900, con la demolizione della chiesa di S. Maria Liberatrice, furono rimessi in luce anche gli ambienti dell’angolo sud-ovest. Subito dopo la scoperta ebbero inizio i lavori di sistemazione delle strutture e dei reperti lapidei rinvenuti, parte dei quali, successivamente esposti nell’Antiquarium forense, sono ora allestiti negli ambienti del settore sud-est, sottoposti a un accurato intervento di recupero conservativo tra il 2013 e il 2021, in occasione del quale le indagini archeologiche hanno consentito di acquisire nuovi dati sulle vicende che hanno interessato il complesso architettonico. L’assenza di strutture di età repubblicana e la
In basso, sulle due pagine uno scorcio della Casa delle Vestali, nella quale dimoravano le sacerdotesse addette a uno dei culti piú importanti dell’antica Roma e che, fra l’altro, dovevano vigilare affinché fosse sempre ardente il fuoco acceso in onore della dea.
In basso, a destra planimetria del settore sud-est della Casa delle Vestali, visitabile grazie al nuovo allestimento degli spazi. Sono indicati nella pianta gli ambienti riconosciuti e le fasi di vita del monumento (elaborazione Geasart su base grafica Lythos).
presenza, subito sotto i piani pavimentali imperiali, del suolo naturale, costituito nei punti di affioramento da sedimenti di argilla fluvio-lacustre conferma che il lato est dell’Atrium, a sud della antica via Nova, prima delle ristrutturazioni neroniane dovute all’incendio del 64 d.C., doveva essere occupato dal bosco sacro, il Lucus Vestae. Successivamente, dopo l’incendio, questo settore venne occupato dalle strutture connesse alla Porticus neroniana costruita lungo la via Sacra come accesso monumentale alla Domus Aurea. In questa fase, completata probabilmente dagli imperatori flavi, la Porticus e l’Atrium si allinearono all’andamento
rinvenuti, questa fase è databile negli anni immediatamente successivi alla costruzione delle Terme di Traiano, intorno al 110-113 d.C. Nella fase traianea, gli ambienti posti al pianterreno (A-E) dovevano avere funzioni residenziali e di rappresentanza, come conferma la decorazione parietale in lastre marmoree di cui rimangono tracce evidenti nei fori da grappa sui muri. Allo stato attuale non rimangono resti della decorazione pavimentale coeva a questa fase, a eccezione di un residuo nell’ambiente B. Anche i vani del piano ammezzato possono essere interpretati come ambienti residenziali e privati piú che come ambienti di servizio.
nord-ovest/sud-est del Foro Romano. Alla fase neroniano-flavia si possono ascrivere alcune strutture murarie rinvenute nel corso delle indagini piú recenti nel settore sud-est, sia al cosiddetto mezzanino, sia al piano terra, inglobate nelle strutture traianee di cui costituiranno il palinsesto e che dovevano assolvere anche la funzione di sostegno della pendice del Palatino. Sulla base dei bolli laterizi
Erano infatti accessibili solo dal cortile interno, a sua volta connesso a un percorso primario della Casa, caratterizzati da un apparato decorativo ben definito e da un complesso sistema di aerazione e illuminazione che coinvolse strutturalmente anche gli ambienti del piano superiore, dotati anche nella fase traianea di un balneum. In età adrianea, gli ambienti sud-orientali della
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Casa, pur mantenendo in parte le funzioni precedenti, sembrano essere stati declassati quanto a utenza. Sostanzialmente fino almeno al IV secolo il piano inferiore restò pressoché immutato, mentre interventi e modifiche furono effettuati solo ai piani superiori. La musealizzazione di questo settore del complesso – che include l’esposizione di reperti provenienti dalle indagini condotte nel XIX secolo seppure rinvenuti in giacitura secondaria – si è tradotta nell’apprestamento di un percorso di visita che si snoda lungo il corridoio A e ha permesso la sistemazione dell’ambiente B, il recupero dell’ambiente C (adibito già negli anni Sessanta del XX secolo a
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In basso, a sinistra Testa ritratto di Vestale. In basso, a destra il corridoio A della Casa delle Vestali. Nella pagina accanto una delle statue di Vestale inserite nel percorso di visita.
piccolo antiquarium della Casa delle Vestali), il restauro della mola nell’ambiente D, l’allestimento di alcuni elementi architettonici nell’ambiente E e, infine, lo scavo e il restauro della cella penaria.
Come spose nel giorno delle nozze Le raffigurazioni di Vestali visibili nella Casa esibiscono una particolare acconciatura e un abbigliamento in comune con quello della sposa nel giorno delle nozze, costituito dalla tunica bianca di lino, carbasus o carbasina, trattenuta dal cingulum, una cintura di lana annodata sotto il seno. Le acconciature, con i capelli tagliati molto corti per la tonsura rituale
a cui erano sottoposte le Vestali per tutto il tempo del sacerdozio, possono essere di tre tipi: un primo costituito da una specie di cordone intrecciato, identificato con i seni crines, avvolto in piú passate intorno alla testa, da quattro a dieci, a coprire la zona occipitale e frontale, annodato posteriormente e desinente di solito in due o piú bande ai lati del collo fino alle spalle; un secondo formato dai seni crines coperti da una benda trasparente, in forma di larga fascia, l’infula, che annodata sulla nuca scende ai lati del collo in due o piú bande, come nei ritratti esposti nell’allestimento della Casa delle Vestali; un terzo con velo quadrangolare, il suffibulum, che, coprendo interamente il capo, scende sulle spalle ed è fermato in genere sotto il petto da una fibula. I capelli, intrecciati e avvolti intorno al capo, venivano tagliati e appesi a un albero di loto, l’arbor capillata. In quanto perenne sposa alla vigilia delle nozze, la Vestale, dopo la deposizione dei capelli, probabilmente ne esibiva un’imitazione, fatta per l’appunto con un cordone di lana intrecciata.
Il secondo re di Roma? Accanto alle raffigurazioni di Vestali è allestita la statua del cosiddetto Numa Pompilio. Stante sulla gamba destra, con la sinistra leggermente piegata, raffigura un uomo in età avanzata, con baffi e barba lunga, capelli a ciocche lunghe e regolari stretti da una benda o diadema; indossa la tunica, cinta da balteus e, sopra, una toga di grandi dimensioni, disposta nella foggia detta a umbo teso piegato, in uso dal I secolo d.C. fino alla piena età severiana; ai piedi porta i calcei senatori. La mano sinistra, mancante, doveva reggere un oggetto, forse un volumen. Al momento della scoperta, fu identificata da Rodolfo Lanciani come una statua ritratto di Vettio Agorio Pretestato, di rango senatorio, esponente di rilievo del paganesimo e pertanto databile al IV secolo d.C. Successivamente, venne identificata con Numa Pompilio, secondo re di Roma, fondatore del sacerdozio delle Vestali, in quanto la fascia sulla testa, ispirata a un tipo ideale greco del V secolo a.C.,
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sarebbe una rielaborazione del diadema regale ellenistico, mentre la toga avrebbe richiamato forme di età traianea. Sulla base dei confronti numismatici, la statua sarebbe stata una copia del II secolo d.C. di un originale bronzeo, dapprima datato al III secolo a.C. e poi identificato con la copia di un originale del IV secolo a.C. facente parte di un gruppo di statue onorarie di re leggendari erette sul Campidoglio. Tale identificazione è stata recentemente messa in discussione. Restando ferma la datazione della statua al II secolo d.C. per la foggia della toga, la testa ritratto è stata ritenuta piú tarda, esito di una rilavorazione databile al IV secolo d.C., soprattutto per la resa della capigliatura e della barba. Dunque il personaggio raffigurato secondo modi all’antica non sarebbe Numa, ma, sulla base di una lettera di Simmaco, la scultura potrebbe essere identificata con una statua onoraria eretta a Vettio Agorio Pretestato dal Collegio delle Vestali, non senza l’opposizione di Simmaco secondo il quale nessun pontefice massimo aveva mai avuto tale onore, neanche Numa Pompilio. Pertanto, se la statua ritratto raffigurasse il
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secondo re di Roma, non proverrebbe dalla Casa delle Vestali. Tuttavia, le circostanze del ritrovamento della statua, per quanto è possibile ricostruire, portano a ritenere che fosse collocata in origine nel portico dell’Atrium Vestae; ed elementi consistenti suffragano pertanto l’identificazione proposta da Lanciani.
La madre di Caracalla Nella Casa delle Vestali si può anche ammirare un ritratto di Giulia Domna. La pettinatura, complessa, con scriminatura centrale, presenta capelli bipartiti al centro della fronte che scendono ai lati del viso con una serie di fitte ondulazioni parallele che coprono le orecchie e si raccolgono sulla nuca in un complicato nodo a tartaruga, formato da bande di capelli intrecciate. Il tipo di acconciatura è caratteristico di Giulia Domna, seconda moglie di Settimio Severo, madre di Caracalla,
Nella pagina accanto, a sinistra la statua del cosiddetto Numa Pompilio. Nella pagina accanto, a destra la testa ritratto di Giulia Domna. In basso dedica votiva per la salute degli imperatori posta al Genio dell’accampamento da T. Flavio Domiziano.
divenuta imperatrice a 36 anni circa; sulle guance, dagli alti zigomi, spuntano sotto l’abbondante pettinatura due riccioli, appartenenti alla vera capigliatura, sempre presenti nei conii monetali e nei ritratti dell’imperatrice. Il legame di Giulia Domna con la Casa delle Vestali e l’Aedes Vestae, forse dovuto a una particolare devozione al culto, è attestato anche da un analogo ritratto dell’imperatrice, esposto al Museo Palatino, proveniente dal medesimo contesto. Fra i materiali esposti figura poi la dedica votiva per la salute degli imperatori posta al Genio dell’accampamento da T. Flavio Domiziano. Il dedicante, T. Flavio Domiziano, aveva fatto un voto per la salute degli imperatori quando era speculator della III legio Parthica e lo aveva sciolto quando era diventato princeps dei peregrini. Gli speculatores erano una categoria di principales inviati dalle legioni a Roma nei castra peregrina insieme ai frumentarii, a cui erano strettamente legati, e che prestavano servizio nell’officium dei governatori provinciali per la trasmissione regolare di notizie. Il culto del genio dei Castra, peculiare dei soldati acquartierati presso i Castra peregrina, al Celio, è attestato a partire dalla fine del II o dagli inizi del III secolo d.C. Questa dedica potrebbe essere messa in relazione con un distaccamento al servizio del palazzo imperiale, sul Palatino. In un’altra dedica, esposta nello stesso ambiente, si legge il nome di Ariobarzanes, inizialmente identificato con Gaíos Ioulios Ariobarzanes, figlio dell’Ariobarzane che Augusto avrebbe posto sul trono della Media Atropatene (nel 20 a.C. o nel 9 d.C.). Successivamente, sulla base di una diversa composizione del testo, il dedicante fu identificato con Ariobarzane III, re della Cappadocia dal 51 a.C. circa. Questa iscrizione fa parte di un gruppo di dediche con caratteristiche simili pertinenti probabilmente a un monumento commemorativo situato sul Campidoglio, presso il tempio della Fides, eretto secondo alcuni studiosi dopo la vittoria di Pidna del 168
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Frammenti di catillus e di due metae pertinenti a piú di una macina a clessidra (mola versatilis) in pietra lavica.
a.C. o dopo il testamento di Attalo e la conseguente creazione della provincia di Asia nel 129 a.C., ovvero, secondo altri, dopo la pace di Dardano dell’85 a.C. nell’ambito dei lavori di ristrutturazione successivi all’incendio dell’83 a.C. che aveva colpito l’area capitolina. Infine, secondo un’altra ipotesi, dopo la pace di Dardano sarebbe stato ristrutturato un donario precedente, in cui sarebbero state inserire anche le iscrizioni precedenti del II secolo a.C. accanto alle nuove dediche del I secolo a.C.
La preparazione della mola salsa Fin dalle prime pubblicazioni seguite agli scavi di Rodolfo Lanciani, l’ambiente D della Casa delle Vestali è stato interpretato come pistrinum, ovvero mulino, data la forma circolare e il ritrovamento (probabilmente all’interno o nei pressi) di alcuni elementi frammentari pertinenti a piú di una macina a clessidra (mola versatilis) in pietra lavica: due frammenti di catillus e due metae frammentarie di diverso diametro, la piú integra delle quali è attualmente murata sulla
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sommità del conglomerato all’interno del bacino rotondo. Nonostante l’opinione comunemente condivisa in letteratura, che viene in genere associata a una delle funzioni svolte dalle Vestali, ossia la preparazione della mola salsa, alcune considerazioni di tipo tecnico-costruttivo sembrano escludere la correlazione di questa struttura con l’installazione di un mulino. Mancano infatti elementi certi dell’esistenza di un vero e proprio piano di lavorazione intorno alla meta che comprenda sia la base di raccolta della farina sia lo spazio di manovra necessari alla movimentazione delle leve di rotazione del catillus. Probabilmente si deve ai primi anni del XX secolo il completamento dell’installazione della meta al centro della struttura circolare. Secondo le fonti le tre Vestali Massime un giorno su due, durante il periodo dal 7 al 14 maggio, mettevano le spighe di farro, far, in cesti da mietitori; quindi procedevano alla tostatura, alla frantumazione e alla molitura delle spighe. Aggiungendo sale cotto e sale grezzo ai Lupercalia (15 febbraio),
ai Vestalia (9 giugno) e alle Idi di settembre (13 settembre), le Vestali facevano la mola salsa, sparsa su tutti gli animali condotti al sacrificio pubblico e su ogni offerta fatta agli dèi. Da questo rito preliminare del sacrificio proviene il termine immolare, letteralmente «cospargere di mola». Si può invece ipotizzare che l’ambiente E in origine ospitasse un triclinio, anche per la presenza di due ampie finestre che guardano verso il peristilio e verso il cortile interno, decorato con una fontana. Successivamente una delle finestre venne chiusa e al di sopra del piano pavimentale si impostarono dei muretti, forse relativi a un sistema di vasche e banconi legato a una rifunzionalizzazione della stanza come ambiente di servizio, probabilmente una cucina, ascrivibile al IV secolo d.C. Allo stesso periodo possono essere ascritti i lacerti di pavimenti in mosaico a tessere nere del tutto simili a quelli presenti nei corridoi del peristilio.
Spighe e oggetti sacri La cella penaria con i tre dolia, contenitori, murati in un bancone, e l’adiacente cortile vennero messi in luce negli anni 1882-1883. I dolia furono interpretati come contenitori delle spighe di grano utilizzate nella fabbricazione della mola salsa; all’interno del contenitore piú grande si rinvennero reperti ceramici integri, interpretati all’epoca come oggetti sacri occultati al momento dell’abbandono della Casa da parte delle Vestali. Le recenti indagini archeologiche hanno permesso di datare la costruzione di questo ambiente all’età traianea con la funzione di corridoio di servizio per l’impianto di riscaldamento degli ambienti del settore sud-est dell’Atrium Vestae, con i quali è connesso funzionalmente. Nelle fasi piú tarde, il corridoio e l’impianto di riscaldamento subirono varie modifiche, con una rifunzionalizzazione a cui si collegano la costruzione di una vasca e la collocazione dei contenitori, incassati nel terreno e murati, destinati sia alla conservazione di derrate alimentari, sia in relazione a lavorazioni non
In alto l’interno della cosiddetta cella penaria. A sinistra la lastra sulla quale corre una dedica in cui compare un Ariobarzanes, identificato con Ariobarzane III, re della Cappadocia dal 51 a.C. circa.
ancora identificate. L’abbandono delle strutture sembra essere stato contestuale: i materiali rinvenuti consentono di datare gli interri entro la prima metà del V secolo d.C. Irma Della Giovampaola
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Quell’antica via per l’Esquilino
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i origine antichissima, il Vicus ad Carinas collegava il Foro Romano con l’Esquilino, noto in antico appunto con il toponimo di Carinae. L’asse stradale ha attraversato la storia della città fino alle demolizioni effettuate nella prima metà del XIX secolo che, con lo sbancamento della collina della Velia, ne hanno eliminato una parte, mentre il tracciato sopravvive nel Foro, dalla via Sacra fino al taglio di via dei Fori Imperiali e nelle attuali vie del Foro della Pace e via dei Frangipane. Nelle sistemazioni del I secolo d.C., il tratto centrale del vicus ad Carinas raggiunge il suo definitivo tracciato, passando tra la pendice della Velia e il muro di fondo del Templum Pacis; è questa la sistemazione raffigurata nel frammento 15 a-b della Forma Urbis severiana (la grande pianta marmorea della Roma imperiale realizzata fra il 203 e il 211 d.C. ed esposta, in origine, nel Foro della Pace, n.d.r.). Tra il 2013 e il 2018, il Parco archeologico del Colosseo in collaborazione con l’Università di Roma Tre, ha condotto uno scavo nel tratto della strada retrostante il Templum Pacis che ha consentito di analizzare le fasi di trasformazione del percorso tra la tarda antichità e il pieno Medioevo. Questo tratto del vicus era delimitato da file di tabernae e aveva una larghezza di circa 8 m. La spoliazione, nel tardo Medioevo, del muro in blocchi che delimitava a est il Templum Pacis ha comportato il crollo delle strutture su quel lato, con la perdita del margine della strada. Le tabernae sul lato meridionale sono invece ancora conservate, e sono riconducibili a un rifacimento di età severiana, successivo all’incendio del 192 d.C. L’ultima trasformazione antica di questa area è conseguente all’edificazione della basilica di Massenzio, con la costruzione del grande passaggio coperto, poi noto come Arcus Latronis (Arco del Ladrone: una denominazione assunta forse perché la zona era stata teatro di crimini, n.d.r.), che consentiva al vicus di attraversare la basilica per arrivare alla via Sacra. Nel periodo medievale una delle antiche
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tabernae sul vicus era certamente ancora utilizzata a fini produttivi, come prova la serie di cinque fornaci da ceramica rinvenute. A partire dal tardo XI secolo e fino al XIII, su parte del vicus ad Carinas viene impiantata una necropoli, che proseguiva anche sotto l’Arco del Ladrone, dove sono tuttora visibili i loculi scavati nelle pareti e un affresco raffigurante la Vergine. Risulta peculiare il fatto di trovare una necropoli su una strada pubblica di questa importanza nella viabilità medievale di Roma, seppure da connettere con la limitrofa chiesa dei Ss. Cosma e Damiano. Nei secoli la strada continuò a vivere, anche se, nel XVI secolo, lo sbarramento dell’Arco del Ladrone interruppe il collegamento con la via Sacra e con il Foro Romano.
Una stretta connessione Nel tratto tra la via Sacra e la cesura di via dei Fori Imperiali, il vicus ad Carinas è oggi visitabile e praticabile, anche grazie agli scavi, ai restauri e alla sistemazione del tratto stradale e dell’Arco del Ladrone, eseguiti in occasione della mostra «Roma Universalis», nel 2018. Come accennato, la connessione tra il vicus e il muro di fondo del Tempio e del Foro della Pace è strettamente correlata. L’imperatore Vespasiano inizia un’intensa attività edilizia, tra cui la conclusione del Tempio della Pace nel 75 d.C. per celebrare il periodo di armonia reso possibile dalla nuova dinastia flavia. Data la necessità di consolidare e completare il fronte che separa il Tempio della Pace e il vico delle Carine, si è sviluppata un’ipotesi progettuale che rendesse comprensibile ai visitatori e ai passanti lungo la via dei Fori Imperiali la planimetria del Tempio e dell’area circostante in epoca antica. Sulle tracce del muro di confine tra il tempio e il vicus, che si trova a un livello di alcuni metri superiore, è stato spiccato un volume che si configura anche come parapetto per i visitatori che sostano sul vicus. Il setto murario contiene una scala che collega le due diverse quote. La struttura è rivestita da pannelli di lamiera corten, le cui caratteristiche
Un tratto del vicus ad Carinas, oggi percorribile. Il percorso fu tracciato per mettere in collegamento l’area del Foro Romano con l’Esquilino.
fisico-tecniche hanno permesso di effettuare un’incisione dettagliata pur con uno spessore contenuto e, contemporaneamente, di avere una forte rigidità. Partendo quindi dall’impossibilità di riconfigurare il muro antico e dalla volontà di rendere comprensibile ai piú l’antica configurazione planimetrica di quei luoghi, si è optato per realizzare il nuovo volume del muro, sia per nascondere la scala di collegamento tra il Templum Pacis e il vicus ad Carinas, sia per assolvere a uno scopo didattico
tramite la superfice traforata e retroilluminata sul versante del Tempio. La lavorazione a laser dei pannelli in corten raffigura una stilizzazione della Forma Urbis Romae, ritrovata proprio in quei luoghi, resa visibile sia di giorno che di notte grazie a un sistema di retroilluminazione a led, con luce diffusa in maniera omogenea grazie all’interposizione, tra le barre led e i pannelli di corten, di pannelli in plexiglass color bianco latte. Barbara Nazzaro
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La devozione in forme colossali
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lle estreme pendici settentrionali del Palatino, affacciata sulla valle del Colosseo a est e sul Foro Romano a ovest, si innalza la monumentale platea che ospita i resti del Tempio di Venere e Roma, quello che era il piú grande edificio sacro della città antica, uno dei piú notevoli dell’impero. Si tratta di un’area appena all’esterno della Roma Quadrata di fondazione romulea, caratterizzata dalla sella tra il monte Palatino e la collina della Velia, rilievo oggi quasi del tutto scomparso a causa degli interventi di sbancamento succedutisi tra l’antichità e gli anni Trenta del XX secolo.
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Qui correvano strade antichissime, percorse da processioni la cui origine precedeva la fondazione della città, come quella degli Argei, figure mitiche delle origini di Roma, che Varrone identifica con i principi giunti nella penisola italica al seguito di Ercole. In età repubblicana, la città si era espansa in quest’area con edifici di tipo residenziale, con domus di proprietà di famiglie aristocratiche, come quella della famiglia dei Domizi Enobarbi, la gens che darà i natali all’imperatore Nerone. E infatti proprio a Nerone dobbiamo il primo grande intervento di terrazzamento, quando, all’indomani del drammatico incendio del 64 d.C., decise di
Nella pagina accanto veduta ricostruttiva del Tempio di Venere e Roma (realizzazione Flaviano Pizzardi). In basso la terrazza del Tempio di Venere e Roma con il complesso di S. Maria Nova visti dal Palatino.
ricostruire la città, edificandovi la piú vasta residenza privata mai esistita: la Domus Aurea. Al centro della valle dove oggi sorge il Colosseo, venne realizzato un grande stagno artificiale, su cui si affacciava il monumentale atrio di accesso ai palazzi imperiali, a ridosso della sacra via che con il suo percorso porticato portava fino alla piazza del Foro. Al centro dell’atrio svettava la colossale statua di Nerone assimilato al dio Sole. Quando i Flavi decisero di restituire lo spazio della Domus Aurea ai cittadini e ridisegnarono la piazza innalzando l’anfiteatro in corrispondenza dello stagno, portarono molto probabilmente a compimento il livellamento artificiale dell’area del futuro tempio, rialzando il piano di calpestio di circa mezzo metro e uniformando al nuovo impianto urbanistico voluto da Nerone anche la via Sacra, presso la quale veniva eretto, in corrispondenza del punto piú elevato, l’Arco di Tito.
Adriano, imperatore e progettista L’imperatore Adriano progettò personalmente il Tempio di Venere e Roma e ne iniziò la costruzione nel 121 d.C., provvedendo per prima cosa allo spostamento a valle, nei pressi dell’Anfiteatro Flavio, del Colosso di Nerone, impiegando ben 24 elefanti. Inaugurato da Adriano nel 136, al ritorno dalla Giudea, il tempio fu completato solo cinque anni dopo da Antonino Pio.
La caratteristica principale dell’edificio sacro è quella di avere due aule di culto tangenti e contrapposte: la cella che si affaccia sul Colosseo dedicata alla dea Venere Felice, dea della fecondità e progenitrice della dinastia imperiale, la cella rivolta verso il Foro Romano dedicata a Roma Eterna, personificazione sacra della città e del suo dominio sui territori dell’impero. Tutto intorno si innalzava una doppia peristasi di colonne in granito grigio di provenienza egiziana mentre, sui lati della platea, colonne in marmo chiaro proconnesio scandivano due portici al centro dei quali si aprivano altrettanti ingressi segnati da propilei: in tutto, le colonne del tempio dovevano essere oltre 200, 22 delle quali furono rialzate durante i restauri del 1934, 10 sul lato che fiancheggia la via Sacra e 12 su quello lungo via dei Fori Imperiali. Il gioco chiaroscurale dei marmi era poi amplificato dalla lavorazione dei fusti delle colonne, scanalate quelle chiare piú interne, come testimoniano diversi frammenti conservati in loco, lisce quelle di granito; i capitelli di ordine corinzio erano tutti chiari. All’interno delle due aule di culto, al di sopra di un podio, si ergevano le maestose statue sedute delle due dee, la cui dimensione colossale fu stigmatizzata dall’architetto Apollodoro di Damasco, secondo il quale, se le due dee si fossero alzate in piedi, non sarebbero riuscite a uscire dal tempio (Dione Cassio, Hist. Rom., LXIX, 4, 5).
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A sinistra la cella della dea Roma Aeterna. Nella pagina accanto particolare degli stucchi con resti di foglia d’oro.
Nel 307 d.C., a seguito di un incendio, l’imperatore Massenzio ricostruí le celle in laterizio, abolí le navate laterali e restaurò il pavimento, decorando le pareti con nicchie alternativamente semicircolari e rettangolari, inquadrate da colonnine di porfido. Le due absidi con copertura a volta e decorazione a cassettoni, oggi visibili, si riferiscono a questa fase. La rovina dell’edificio iniziò nel 625, quando papa Onorio I rimosse le tegole di bronzo del tetto per usarle nella copertura della basilica di S. Pietro. Le successive vicende, nel corso dell’età medievale e rinascimentale, sono indissolubilmente legate a quelle dell’edificio conventuale annesso alla chiesa di S. Maria Nova, fondata da papa Leone IV nell’anno 847: la cella della dea Roma venne allora inglobata nell’annesso convento, mentre sulla platea verso il Colosseo si svilupparono orti e giardini. Nel corso dei secoli XI e XII, intorno alla chiesa si sviluppò un borgo fortificato, con mura di cinta e torri di avvistamento. Nel Rinascimento, persa la funzione difensiva, l’area divenne una
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vera e propria cava di materiali pregiati, ma le vestigia imponenti continuarono ad attrarre i visitatori del Grand Tour.
Il recupero e i primi scavi I primi interventi volti a ripristinare l’aspetto originario dell’area vennero messi in atto nel 1815 dalla Commissione Napoleonica per gli Abbellimenti di Roma, sotto la direzione di Giuseppe Valadier. Negli stessi anni, furono anche realizzati i primi scavi sistematici, che proseguirono nel decennio successivo sotto la direzione di Antonio Nibby. Dopo l’Unità d’Italia e il trasferimento della capitale a Roma, il monumento passò sotto il controllo statale: nel 1894 Rodolfo Lanciani eliminò definitivamente il giardino del convento, mettendo in luce il pavimento marmoreo della cella di Roma; tra il 1901 e il 1907 i lavori di Giacomo Boni portano al rinvenimento dei blocchi di fondazione della cella adrianea. Agli inizi del XX secolo, una parte del convento di S. Maria Nova venne trasformata in uffici della Direzione dei Monumenti del Foro
tecnica, che ha interessato sia l’apparato architettonico che quello decorativo delle due celle, prevedendo l’impiego di oltre 60 professionisti per la durata di 11 mesi.
Un’occasione imperdibile
Romano-Palatino, con annesso Museo, gli stessi spazi che oggi ospitano gli uffici della Direzione del Parco archeologico del Colosseo e che si affacciano sulla cella di Roma. Dopo il 1930, la proprietà del tempio venne divisa tra lo Stato italiano e il Governatorato di Roma: mentre Alfonso Bartoli restaurava quindi la cella di Roma, sulla quale si affacciava l’Antiquarium forense, Antonio Muñoz procedeva allo sterro di tutto il podio e alla sistemazione della cella di Venere e del porticato esterno, con il fine di dare vita a una monumentale quinta architettonica per la nuova arteria di via dell’Impero, l’odierna via dei Fori Imperiali. Negli anni Ottanta del XX secolo, un accordo tra il Ministero dei Beni Culturali e il Comune di Roma ha permesso di riunificare il Tempio sotto la competenza statale. Un primo grande intervento di restauro, venne portato a termine in occasione del Giubileo del 2000. Nel luglio del 2021 è stato portato a termine un importante progetto di restauro, finanziato dalla Maison Fendi attraverso una sponsorizzazione
La straordinaria possibilità offerta dai restauri di studiare il monumento da vicino, ha permesso di scoprire importanti tracce delle antiche decorazioni in stucco, come i resti della foglia d’oro che doveva ricoprire tanto le losanghe delle semicalotte absidali quanto i cassettoni quadrati delle volte di copertura delle aule. Interessante è il diverso uso delle chiodature antiche nelle due celle, la cui osservazione ha permesso di ipotizzare la presenza di varie maestranze che portavano avanti il lavoro contemporaneamente. Il monumento è stato successivamente reso accessibile e valorizzato con un intervento di illuminazione notturna, mentre nella cella di Roma è stato allestito un video ricostruttivo che mostra l’edificio templare nelle sue proporzioni mastodontiche, visto dalle diverse angolazioni grazie a un gioco di sovrapposizioni tra la restituzione 3D del tempio, veduta planimetrica sulla Forma Urbis realizzata da Lanciani nel 1900 e ripresa area da drone, restituendone cosí pienamente l’impatto orografico. Parallelamente agli interventi di restauro e valorizzazione del Tempio di Venere e Roma sono stati portati avanti quelli sull’edificio di S. Maria Nova dove, in occasione della mostra dedicata al grande archeologo e architetto Giacomo Boni («Giacomo Boni. L’alba della modernità», 15 dicembre 2021-30 aprile 2022), sono stati riallestiti gli spazi museali dedicati alle straordinarie scoperte realizzate durante gli scavi nel Foro Romano nel primo quarto del XX secolo. Grazie a questi interventi, oggi è finalmente possibile tornare a visitare il complesso architettonico di S. Maria Nova con il Tempio di Venere e Roma nella sua unitarietà, riconoscendone le diverse fasi di vita, fino ai nostri giorni. Martina Almonte
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IL PALATINO SUL MAESTOSO COLLE, SECONDO LA LEGGENDA, TUTTO EBBE INIZIO. QUI, INFATTI, AVREBBE ABITATO IL FONDATORE EPONIMO DI ROMA E SUO PRIMO RE, ROMOLO. DOPO DI LUI, SULL’ALTURA SI AVVICENDARONO PERSONAGGI ILLUSTRI, ARISTOCRATICI E, INFINE, GLI IMPERATORI di Luciano Frazzoni
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econdo la leggenda, riportata anche da Virgilio, il colle Palatino fu abitato da antiche genti greche, immigrate dall’Arcadia sotto la guida del re Evandro e di suo figlio Pallante, che su quell’altura fondò la città di Pallanteum, un abitato di pastori; queste genti vengono dapprima incontrate da Ercole e poi dai Troiani ed Enea (Eneide, VIII, 51-54; 115-119). Il Palatino doveva essere occupato da insediamenti umani, e probabilmente marinai e commercianti greci frequentavano l’area, già
Sulle due pagine Paesaggio romano con rovine, olio su tavola di Pieter Anthonisz. van Groenewegen. 1629-1630 circa. Amsterdam, Rijksmuseum. Sulla sinistra, il Palatino, e, sulla destra la valle del Foro Romano.
In questa pagina, dall’alto i resti di tre capanne della prima età del Ferro, scoperti nel 1948 sul Palatino: sono ben visibili i fori per l’alloggiamento dei pali di sostegno della copertura; ricostruzione grafica, pianta e sezioni di una delle capanne.
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PALATINO
digradante del suo versante verso il Foro Boario e il Tevere, il Cermalus, che assicurava il controllo dell’area sottostante.
TEMPIO DELLA VITTORIA
Le prime fasi di frequentazione La sommità del colle fu frequentata fin dalla preistoria; tracce della presenza umana, risalente al Paleolitico Medio e Superiore, all’Eneolitico e al Bronzo recente sono state rinvenute presso il Tempio di Cibele e nelle pendici settentrionali, presso la Basilica di Massenzio. Nell’area compresa tra il Tempio di Cibele e le scalae Caci (una scalinata scavata nel tufo che conduceva dalla sommità alle pendici del colle verso il Foro Boario, dove si trovava il Lupercale, la grotta sacra nella quale Romolo e Remo furono allattati dalla lupa), tra la fine del IX e gli inizi dell’VIII secolo a.C. si insediò un villaggio di capanne. Altre capanne dovevano trovarsi nella zona in cui sorsero in seguito i palazzi imperiali e sul versante settentrionale del Palatino. Una di queste abitazioni, posta nei pressi della Casa di Augusto, era ritenuta la casa di Romolo, e fu piú volte restaurata dai pontefici dopo ogni incendio.
TEMPIO DELLA MAGNA MATER
prima della colonizzazione greca dell’Italia meridionale (la fondazione di Pithecusa – sull’isola d’Ischia – risale al 775 a.C.), come sembrano confermare anche le scoperte archeologiche (ceramica di tipo italo-miceneo della tarda età del Bronzo – XII secolo a.C. – dall’insediamento alla sommità del Campidoglio e una coppa euboica databile agli inizi dell’VIII secolo a.C. nel Foro Boario nell’area di S. Omobono). Questa occupazione precoce del Palatino fu dovuta alla sua vicinanza al Tevere e al suo attraversamento naturale a valle dell’Isola Tiberina (qui si trovavano il pons Sublicius e il portus Tiberinus, rispettivamente il ponte e il porto piú antichi), nonché alla conformazione
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Nella pagina accanto pianta e ricostruzione del settore sud-occidentale del Palatino. 1. Tempio di Magna Mater; 2. Cosiddetto Auguratorium (o Sacello di Victoria Virgo); 3. Tempio della Vittoria; 4. Casa di Livia; 5. Casa repubblicana; 6. Casa di Augusto; 7. Tempio di Apollo; 8. Scalae Caci; 9. Clivus Victoriae.
In alto resti del tempio della Magna Mater. A sinistra simulacro di culto della Magna Mater seduta su trono, rinvenuto in prossimità delle scale del tempio a lei dedicato. Officina neoclassica di epoca adrianea Roma, Museo Palatino. Negli incassi ai lati erano in origine inseriti leoni accovacciati, sacri alla dea.
Stando al racconto di Tacito, Romolo avrebbe tracciato il solco di fondazione della città, proprio intorno al Palatino, la cosiddetta Roma Quadrata; partendo dall’Ara Massima dedicata a Ercole nell’area del Foro Boario (presso l’odierna chiesa di S. Maria in Cosmedin), da qui proseguendo lungo le falde del Palatino fino all’ara di Conso all’estremità orientale del Circo Massimo, poi alle Curiae Veteres (presso la Meta Sudans) e, infine, al sacello di Larunda, ossia Acca Larenzia, la leggendaria nutrice dei gemelli, nella zona del Velabro. Secondo Filippo Coarelli, il punto di partenza, piú che l’ara Massima di Ercole, sarebbe stato il Lupercale, la grotta ai piedi dell’angolo meridionale del Palatino ossia il Cermalus. Da qui aveva anche inizio l’arcaica festa dei Lupercalia, durante la quale i sacerdoti-lupi, i Luperci, correvano seminudi intorno al colle, celebrando il rito di purificazione dell’antiquum oppidum Palatinum, cioè della città di Romolo, percuotendo le donne sposate come rito di fertilità. Ma sempre secondo Coarelli, questa ricostruzione della fondazione di Roma riportata da Tacito sarebbe un’invenzione dovuta all’imperatore Claudio, che, nel 49 d.C., realizza un nuovo pomerio della città, il cui ampliamento includeva anche l’Aventino. Anche la cinta muraria che Romolo avrebbe costruito intorno al Palatino è
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PALATINO
oggetto di pareri discordi. Recenti indagini archeologiche nel settore settentrionale del colle, di fronte alla basilica di Massenzio e dove era anche la Porta Mugonia – una delle tre o quattro porte della cinta romulea che si apriva sulla strada di fondovalle tra Palatino e Velia, poi chiamata Sacra Via (l’altra porta di cui conosciamo il nome è la Romana o Romanula, verso il Velabro) –, hanno messo in luce una struttura muraria in argilla cruda con una porta, preceduta da un fossato, databile alla seconda metà dell’VIII secolo a.C. A questa si succedono altre fasi costruttive, da collocare tra gli inizi del VII e la fine del VI secolo a.C., quando il muro e il fossato vengono definitivamente cancellati per realizzare il nuovo piano urbanistico dei Tarquini. Questo muro, variamente definito da alcuni come «muro di Romolo», piú che uno scopo difensivo, doveva avere sicuramente un significato simbolico, di delimitazione della nuova città dal resto del territorio.
Un’area ambita ed esclusiva In epoca repubblicana il Palatino divenne la dimora preferita delle famiglie aristocratiche e di personaggi famosi. Alcuni degli esempi piú belli di queste dimore, parzialmente conservate al di sotto della Domus Flavia, sono la cosiddetta Casa dei Grifi, con splendide decorazioni a stucco raffiguranti grifi alati (fine II secolo a.C.), e la cosiddetta Aula Isiaca (cosi chiamata per le decorazioni pittoriche di soggetto isiaco della seconda metà del I secolo a.C.). Sul Palatino abitò, a partire dal 62 a.C., Cicerone, nel luogo piú bello e con una magnifica vista sulla città. Nello stesso isolato, si trovavano le case di Clodio, il tribuno della plebe nemico mortale dell’oratore, di Q. Metello Celere e di Clodia, sorella del tribuno (da identificare forse con la Lesbia di Catullo), e di Q. Lutazio Catulo, console del 78 a.C. Tutte queste dimore vennero occupate dalla Domus Tiberiana in epoca imperiale. Anche Augusto nacque in una casa posta nell’angolo nord-orientale del Palatino, presso le Curiae Veteres (sede politico-religiosa dei
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In alto lastra Campana con rappresentazione della contesa tra Apollo ed Eracle per il possesso del tripode delfico, dall’area del tempio di Apollo. 40-30 a.C. Roma, Museo Palatino. Nella pagina accanto in basso casa dei Grifi, stanza III. Particolare della lunetta con uno dei due grifi (in stucco a bassorilievo) da cui l’edificio prende nome. Fine del II sec. a.C.
cittadini divisi in curie da Romolo, e uno dei vertici del pomerio, localizzate tra la Meta Sudans e l’Arco di Costantino). Successivamente, come ricorda Svetonio, abitò sul Palatino nella casa di Ortensio: una dimora modesta, di cui Augusto era entrato in possesso dopo la morte del proprietario nella battaglia di Filippi del 42 a.C. Dopo la battaglia di Nauloco, nel 36 a.C., egli ampliò la sua dimora, acquistando altre case, e destinando una parte della sua nuova residenza a uso pubblico, con la costruzione anche di un tempio dedicato ad Apollo. Secondo recenti studi, il complesso della Casa di Augusto è il risultato dell’accorpamento di tre residenze di età repubblicana disposte lungo la pendice che digrada verso la valle del Circo Massimo, divisa in due settori, uno pubblico e uno privato: la parte centrale, costituita dal nucleo originario, ossia la casa di Ortensio, posta tra il Tempio della Magna Mater a ovest, e il Tempio di
CASA DI LIVIA
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propriamente lussuoso, anche se di buon gusto; si segnalano le pareti dipinte con quinte architettoniche ispirate alle scenografie teatrali della sala delle Maschere (Casa di Augusto) e quelle con festoni di fiori e frutta (Casa di Livia), oltre alle raffinate pitture parietali di II stile dello Studiolo, dove l’imperatore era solito ritirarsi per studiare e meditare o anche trattare questioni segrete di Stato. Sappiamo da Svetonio che Augusto dormí sempre nello stesso cubicolo (da identificare in uno degli ambienti della casa posta nel settore a sudovest del Tempio di Apollo) per 40 anni, estate e inverno, fino alla sua morte, nel 14 d.C.
Un culto venuto dall’Oriente L’area piú occidentale del Palatino è occupata da un complesso di edifici sacri, il piú importante dei quali è il Tempio della Magna Mater o di Cibele. Questo culto di origine orientale fu
Pianta della parte privata della Casa di Augusto e del tempio di Apollo: 1. Atrio; 2. Peristilio; 3. Stanza delle Maschere; 4. Stanza dei Festoni di pino; 5. Triclinio; 6. Biblioteche; 7. Studiolo.
Apollo nel lato est (che faceva parte del settore pubblico); la Casa di Livia a nord (identificata con certezza grazie a una tubazione con la scritta, Iulia Augusta, nome assunto da Livia dopo la morte di Augusto nel 14 d.C.); e un’altra posta tra la Casa di Livia e quella di Ortensio, compresa tra le scalae Caci e il Tempio di Apollo. Una terza parte della Casa di Augusto, anch’essa di uso pubblico, oltre a quella dedicata al culto di Apollo, era destinata al culto di Vesta (come ci dice Ovidio); questa parte della dimora, dove era probabilmente anche l’ingresso principale, doveva trovarsi nel settore a est del Tempio di Apollo, in seguito occupato dalla Domus Flavia. Del Tempio di Vesta, eretto da Augusto per adempiere alla sua funzione di pontefice massimo, non rimane alcuna traccia, essendo forse andato distrutto durante l’incendio neroniano e mai piú ricostruito. La parte privata della Casa di Augusto e quella della consorte Livia è decorata in modo non
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ITINERARI DI VISITA
introdotto a Roma al tempo della seconda guerra punica. In seguito alle ripetute sconfitte subite, i Romani, dopo aver consultato i Libri Sibillini, nel 204 a.C. inviarono una delegazione a Pessinunte, in Asia Minore, per ottenere la pietra nera (in realtà un meteorite), venerata come l’immagine della Grande Madre. L’icona venne portata a Roma e, nel 191 a.C., fu inaugurato il tempio a lei dedicato. L’edificio, che doveva avere una lunga gradinata di accesso, subí due gravi incendi, nel 111 a.C. e nel 3 d.C., ma venne sempre ricostruito nello stesso luogo. Di fianco a questo edificio, nel lato est, sono stati scoperti i resti di un altro tempio, dedicato alla Vittoria, costruito nel 294 a.C. da Lucio Postumio Megello. Tra i due templi, si trovano i resti di un piccolo edificio in laterizio, per lungo tempo ritenuto l’Auguratorium, ma che recentemente si è voluto identificare come il sacello dedicato nel 193 a.C. da Catone il Censore alla Vittoria Vergine. Come già accennato, l’area a sud antistante questi edifici sacri, dove la tradizione collocava le testimonianze legate alla fondazione di
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Casa di Augusto, Sala delle Maschere, veduta della parete Ovest. Attraverso la pittura viene simulata una complessa architettura, ispirata alle scenografie teatrali. II stile, 30 a.C. circa.
Roma, tra cui la Casa Romuli (o la capanna di Romolo), presenta oggi i fondi di capanne scavati nella roccia risalenti all’VIII secolo a.C.: si possono vedere i fori nei quali erano alloggiati i pali di legno che sostenevano il tetto.
Il primo palazzo imperiale Con i successori di Augusto il Palatino divenne la sede della dimora dell’imperatore, e il termine Palatium diventò sinonimo, oltre che di residenza privata, anche di luogo pubblico, e simbolo del potere imperiale. In tutta l’area occidentale del Palatino, compresa tra il Tempio della Magna Mater e quella sovrastante la Casa delle Vestali, precedentemente occupata dalle dimore repubblicane, tra cui quella di Cicerone, venne realizzato il primo vero e proprio palazzo imperiale, la Domus Tiberiana, nel luogo in cui Tiberio era nato, anche se la prima fase del palazzo va attribuita all’attività edilizia di Nerone dopo l’incendio del 64 d.C. Al centro si trovava un grande peristilio, mentre il lato est era delimitato da un lungo criptoportico,
denominato «neroniano», in quanto è ciò che resta della costruzione originaria della residenza imperiale, decorato da pavimenti in mosaico e stucchi sul soffitto con elementi vegetali ed eroti. Già Caligola, tuttavia, aveva edificato un complesso residenziale unico nell’angolo nord-ovest del Palatino, che comprendeva un ampio atrio al livello del Foro, sul retro del Tempio dei Castori e che, attraverso rampe e gradinate, raggiungeva la residenza, collocata su terrazze sul ciglio superiore del colle. L’intera area venne poi ricoperta dagli Horti Farnesiani, fatti realizzare dal cardinale Alessandro Farnese, nipote di papa Paolo III, a partire dal 1537, e successivamente arricchiti dai membri della famiglia. Solo la parte rivolta verso il Foro conserva strutture ancora visibili, appartenenti a varie fasi (domizianea e traianea). Si tratta di ambienti forse sede del fisco, in seguito adibiti a magazzini. Nell’ambiente in cui è compresa la
Casa di Livia, ambiente con pitture in secondo stile. Sulla parete è raffigurato un portico con colonne corinzie da cui pendono festoni di foglie, fiori e frutta; in alto corre un fregio a fondo giallo, con scene a soggetto egiziano.
chiesa di S. Maria Antiqua, invece, è forse da riconoscere la biblioteca del palazzo, in seguito trasferita nelle Terme di Diocleziano. Dopo Nerone, che aveva realizzato prima la Domus Transitoria – che collegava il Palatino con gli Horti di Mecenate sull’Esquilino – e dopo il grande incendio del 64 la Domus Aurea, con Domiziano venne occupata la parte centrale e meridionale del colle. Nel settore orientale della Casa di Augusto, Domiziano fece realizzare dall’architetto Rabirio il sontuoso palazzo imperiale, realizzato tra il 90 e il 92 d.C. e distinto in tre settori a partire da ovest: la Domus Flavia, la Domus Augustana e lo Stadio, mentre le pendici vennero occupate da edifici commerciali, amministrativi e di servizio al palazzo, tutti collegati a questo da passaggi.
Tre grandi aule La Domus Flavia, che si insediò nella parte di rappresentanza pubblica della Casa di Augusto, mantenendone la stessa funzione, comprende tre grandi aule: al centro l’Aula Regia, utilizzata per le udienze plenarie, con sei nicchie entro le quali erano le dodici statue delle divinità olimpiche disposte a coppie, mentre l’abside al centro del lato meridionale era destinata all’imperatore. Sul lato ovest era la cosiddetta basilica, sede delle riunioni del consiglio del principe, il ministero imperiale (al di sotto si trovano i resti della cosiddetta Aula Isiaca), mentre su quello a est dell’Aula Regia si apre il Larario, forse il corpo di guardia dei pretoriani che sorvegliavano l’ingresso al palazzo (al di sotto si trovano i resti della casa dei Grifi). A sud dell’Aula Regia si trova un grande peristilio con fontana ottagonale al centro, internamente conformata a labirinto (in gran parte restaurata in epoca moderna), a cui segue un grande triclinio con il lato di fondo absidato nel quale prendeva posto l’imperatore, fiancheggiato da due ninfei con fontane ovali. In questa grande sala da banchetto è da individuare la cenatio Iovis ricordata da Pertinace, al di sotto della quale si trovano i resti di un ninfeo della Domus Transitoria neroniana, i cosiddetti Bagni di Livia.
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Ricostruzione prospettica dei palazzi domizianei (ultimi due decenni del I sec. a.C.), che occuparono il settore sud-orientale del Palatino, sostituendosi a costruzioni piú antiche. Il complesso viene distinto in tre settori, denominati, da ovest a est, Domus Flavia, Domus Augustana e Stadio. 1. Vestibulum; 2. Peristilio superiore; 3. Peristilio inferiore; 4. Aula regia; 5. Larario; 6. Basilica; 7. Peristilio della Domus Flavia; 8. Triclinio; 9. Ninfei; 10. Stadio; 11. Tribuna; 12. Facciata della Domus Augustana; 13. Domus Severiana.
A sinistra Domus Flavia: la Basilica (sullo sfondo) vista dal ninfeo (in primo piano).
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Il martirio di san Sebastiano L’intero settore est è infine occupato dal cosiddetto Stadio, in realtà una struttura a forma di circo, delimitato da un portico a pilastri su due piani, probabilmente adibito a giardino.
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Come ricorda Stazio, a un banchetto di Domiziano parteciparono piú di mille persone: è perciò probabile che l’evento conviviale non si sia svolto solo nel triclinio, ma anche nel portico del peristilio antistante. Il settore adibito ad abitazione privata del palazzo imperiale è costituito dalla parte centrale del complesso, la Domus Augustana (o Augustiana), ordinato intorno a due peristili disposti su livelli diversi. Da un grande vestibolo a nord, si accede al peristilio superiore, al centro del quale era un bacino colmo di acqua con un tempietto, forse il santuario di Minerva. Ai piedi di un taglio verticale della collina, a un livello inferiore, si trova un altro grande peristilio, con fontana quadrata al centro, decorata con strutture a pelte di scudo, in origine chiuso da un porticato a due piani. Attorno a questo si aprono vari ambienti, tra cui due sale ottagonali con volte a padiglione.
Al centro del lato lungo orientale, è una grande struttura semicircolare, aggiunta piú tardi, la tribuna destinata all’imperatore e alla sua famiglia. In questo edificio è da riconoscere l’Hippodromus del palazzo, teatro del primo episodio del martirio di san Sebastiano. Il secondo avvenne invece nell’area a nord del palazzo, dove l’imperatore Eliogabalo costruí un tempio dedicato al Sole, e dove fu poi costruita la chiesetta dedicata a san Sebastiano, nell’area della Vigna Barberini. Alle pendici verso il Circo Massimo, vennero
inoltre realizzate alcune strutture, come la grande esedra, il Paedagogium (collegio destinato all’istruzione degli schiavi imperiali) e la Schola Praeconum (sede della corporazione degli araldi addetti ad annunciare l’inizio dei giochi circensi, o comunque del personale connesso con gli spettacoli del sottostante Circo Massimo).
Lo spettacolo dei sette pianeti Con i Severi, anche in seguito al disastroso incendio del 191-192 d.C., sul Palatino vennero avviate numerose opere edilizie, tra cui la costruzione di una nuova ala del palazzo nel lato sud-est, del quale si conservano le arcate di sostruzione e impianti termali, con la facciata scenografica costituita dal Septizodium, dove erano rappresentati i sette pianeti; si tratta di un ninfeo a piú piani di colonne, che doveva essere ben visibile per chi entrava in città dalla via Appia, principalmente per i visitatori provenienti dall’Africa conterranei di Settimio Severo, che ne dovevano rimanere impressionati. Demolito
Lo Stadio del palazzo imperiale. Con ogni probabilità, la struttura, nonostante la forma effettivamente simile a quella di un circo, era utilizzata come giardino.
nel XVI secolo per ordine di Sisto V, l’edificio, è noto grazie ad alcuni disegni rinascimentali e alla Forma Urbis. Il complesso fa parte della cosiddetta Domus Severiana. Altri interventi si devono soprattutto a Massenzio. Con la fondazione di Costantinopoli e lo spostamento della residenza imperiale nella nuova capitale, il Palatino viene saltuariamente utilizzato come residenza dagli imperatori in visita a Roma fino al VII secolo. Nel corso del V secolo varie aree del colle cadono in disuso e la parte residenziale si restringe alle zone centrali della Domus Flavia/Augustana, soprattutto dopo il sacco di Genserico del 455, che coinvolse anche la residenza imperiale. Alcuni restauri del palazzo si devono a Teodorico, nel 500, mentre probabilmente qui si insedia l’amministrazione bizantina a Roma. Con la fine del Ducato di Roma, nella metà dell’VIII secolo, e il terremoto dell’847, il Palatino e la residenza imperiale vengono progressivamente abbandonati e spogliati dei loro arredi, lasciando il posto a orti e vigne.
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La Domus Tiberiana: sperimentare per tutelare
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a Domus Tiberiana sul Palatino occupa oltre un quarto della superficie collinare, estendendosi per circa 4 ettari nel quadrante nord-ovest (195 m in senso nord-sud per 212 m in senso est-ovest), dalle pendici settentrionali, cioè verso il Foro, all’altura Cermalense sul retro dell’area santuariale della Magna Mater, Vittoria e il cosiddetto Auguratorium (recentemente identificato con il tempietto di Victoria Virgo) e, prospettando la valle del Velabro, dalle pendici occidentali alle architetture della Domus Flavia, con la quale in antico doveva fondersi in un unico maestoso e articolato complesso palaziale. L’etimologia della stessa parola «palazzo», d’altro canto, origina proprio dal colle Palatino, venutosi sostanzialmente a identificare con la dimora imperiale. L’attività di tutela condotta dalla Soprintendenza Archeologica di Roma prima, e dal Parco archeologico del Colosseo dal 2018 ha portato ad affrontare complesse lavorazioni per la messa in sicurezza soprattutto del settore monumentale nord del palazzo, interdetto al pubblico fin dal 1979, quando gli strumenti di monitoraggio sismico
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diedero un drammatico segnale di allarme. Fondata sulle pendici settentrionali del colle, sbancate in tre grandi terrazzamenti che sviluppano almeno cinque livelli edificati, l’area monumentale svetta, con le sue eleganti ed elevate arcate, per circa 34 m dalla Nova Via, al livello degli Horti Farnesiani, com’è ben apprezzabile dalla valle forense. La stabilità della Domus Tiberiana era particolarmente compromessa dai dissesti originati da cedimenti sottofondali, conseguenza delle subsidenze nelle stratificazioni argillose che avevano comportato il parziale distacco della imponente facciata dal resto del monumento.
Viaggiare nel tempo La riapertura alla fruizione turistica della Domus Tiberiana, con la visita del quartiere dei servizi nord, amplierà in modo significativo l’offerta del Parco archeologico del Colosseo, proponendo la visita di quello straordinario parterre architettonico dalle altissime volte in laterizio sovrastanti la viabilità che penetra nel palazzo, il clivo della Vittoria. Il visitatore verrà cosí guidato in una sorta di «viaggio immersivo» in un comparto monumentale che
Sulle due pagine e nella pagina accanto rilievo e sezione dell’area in origine occupata dal complesso palaziale della Domus Tiberiana (studio CPT).
ha conservato intatto nei secoli il carattere originario di quartiere con servizi, vani, arredi architettonici, calandosi nella vita di un antico rione, tra suoni e suggestioni evocati dalle maestose architetture. In un percorso a ritroso nel tempo, chi proviene dalle Uccelliere e dagli Horti Farnesiani, riportati alle antiche glorie del primo giardino all’italiana voluto dal cardinale Alessandro Farnese nel 1547, avrà la possibilità di vedere ciò che resta del piano nobile della Casa Imperiale: il monumentale bacino collocato al centro di portici e colonnati, intorno ai quali si articolava una serie di sontuose stanze, sede della corte
imperiale. Percorrendo il clivus Victoriae, l’antica viabilità che attraversa il palazzo come via tecta (cioè coperta), sarà possibile accedere ai vani del lato nord, allestiti come sale museali, completando il «viaggio immersivo» con l’incanto offerto dagli oggetti della vita quotidiana. Il percorso prosegue, senza soluzione di continuità, attraverso la rampa di Domiziano per giungere all’area di S. Maria Antiqua, originaria corte del Palazzo in epoca tardo-antica trasformata in Cappella Palatina, e quindi al Foro Romano. Si vuole, in tal modo, riproporre l’antico cammino mediante il quale, scendendo dal piano nobile del palazzo, attraverso rampe, scalinate e
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viabilità interne, l’imperatore si muoveva con il suo seguito, percorrendo passaggi esclusivi, rigorosamente interdetti alle masse. Restaurate e ricollocate nell’ambito del maestoso progetto architettonico adrianeo, le sale museali poste sul lato nord del clivus Victoriae, accoglieranno, come sopra si è detto, l’allestimento permanente dei vari contesti storici documentati dalle indagini ultratrentennali alla Domus Tiberiana.
Un grande museo diffuso Nella logica del museo diffuso del Palatino – per cui ogni monumento ospita i reperti che esso stesso contiene testimoniando, in tal modo, la vita e le funzioni in sé effettuate e restituendone lo spaccato il piú possibile fedele
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di come in antico fosse fruito quello spazio urbano –, il percorso di visita si dipana attraverso sette sale, in cui, mediante i reperti ceramici, in metallo e in vetro, la statuaria marmorea e fittile, si metteranno in mostra ambiti, funzioni, arredi che periodo dopo periodo hanno caratterizzato il Palazzo Imperiale per oltre sette secoli di vita. Al vasellame che documenta i gusti alimentari della corte imperiale di epoca tardo-antica – con le anfore che, numerosissime, trasportavano le derrate liquide e semiliquide da ogni parte del bacino mediterraneo – oppure alle stoviglie fini da mensa e comune da mensa e dispensa, quelle da cucina e da fuoco o, infine, al vasellame per l’illuminazione, fa da contraltare il numerario spicciolo del IV e V
Cosiddetto Ponte di Caligola: volte in stucco adiacenti al percorso del clivo della Vittoria.
elementi ornamentali di epoca domizianea che impreziosivano con marmi policromi la facciata del palazzo e per i quali si è riconosciuta la mano di una grande personalità ispiratrice del linguaggio decorativo architettonico generale.
Le decorazioni in terracotta
Testa di una delle pregevoli statue che facevano parte dell’arredo scultoreo del palazzo imperiale.
secolo d.C. recuperato nelle lunghe campagne di indagine scientifica, dando conto delle transazioni economico finanziarie effettuate in questo distretto palaziale. Inoltre, si potranno ammirare gli arredi della statuaria marmorea con importanti teste di imperatori e imperatrici. Pur essendo solo una parte delle innumerevoli opere d’arte che impreziosivano gli spazi dell’ufficialità di corte, si deve immaginare che questi capolavori costituissero il patrimonio palatino ricco di vere e proprie gallerie di ritratti, nelle quali, oltre alle effigi imperiali dei casati regnanti e passati, si conservavano anche altre sculture lapidee, presumibilmente firmate dai grandi artisti dell’epoca. Altro ambito espositivo sarà quello degli
Accanto a queste suggestioni, non poteva mancare quella pertinente ai rinvenimenti delle case dell’aristocrazia tardo-repubblicana che occuparono il suolo sul quale, dopo l’incendio neroniano del 64 d.C., venne edificata la Domus Tiberiana. Di queste, si esporranno le partizioni decorative fittili pertinenti agli elementi architettonici degli atria, lastre Campana e gocciolatoi a protome canica o leonina, o ancora le suppellettili in essi rinvenute, come le ceramiche fini da mensa e da dispensa testimonianti i livelli di vita e fruizione di queste residenze. Altro motivo di orgoglio sarà l’esposizione dei frammenti di statue di culto fittili, cronologicamente inquadrabili all’ultimo trentennio del I secolo a.C., appartenenti ad alcune tra le divinità care al pantheon augusteo e attribuibili alla scuola di Pasitele e Cresila: Apollo, Artemide, Afrodite e Alessandro. Non ultimo verranno messi in mostra i reperti riferibili a un piccolo sacello dedicato a Iside e Serapide (lucerne monumentali, oggetti in metallo tipici delle liturgie isiache, sistri, oltre a oggetti della statuaria cultuale). La riapertura al pubblico della Domus Tiberiana e l’esposizione permanente nelle relative sale sono dunque l’esito di un lunghissimo percorso di studi a tutto tondo, che ha contribuito ad accrescere conoscenze archeologiche, geognostiche, architettoniche, sulle sperimentazioni delle tecniche conservative, sull’idraulica, ecc., permettendo i complessi restauri effettuati per la messa in sicurezza dell’intero complesso. Interventi dai quali è scaturita quella rete di conoscenze che hanno fatto assurgere la Domus Tiberiana a emblema della sperimentazione per la tutela. Fulvio Coletti, Martina Almonte e Maria Grazia Filetici
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Horti e fontane, tra antichità e Rinascimento
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a Roma del mito delle origini nasce sulle pendici del Palatino in uno scenario depresso e acquitrinoso, quello delle antiche paludi del Velabro e della valle Murcia, formato dalle esondazioni del Tevere. Dalla prima magistrale opera, al tempo dei Tarquini, per irregimentare quell’acqua malsana nella Cloaca Maxima, l’ingegneria idraulica antica ha realizzato mirabili lavori per garantire l’approvvigionamento idrico: cisterne, pozzi e condotti idraulici. Questi impianti hanno permesso di dare vita anche a fastosi manufatti artistici: fontane, un tempo ricche di statue e giochi d’acqua, che ornavano i peristili dei palazzi imperiali sul Palatino, piú tardi rievocate nelle fontane del giardino rinascimentale degli Horti Farnesiani, espressione di un passato mitologico. Il Parco è ricco di queste vestigia, nelle cui acque si specchiava il cielo di Roma: dall’antichissima fonte di Giuturna, legata al mito dei Dioscuri, Castore e Polluce, che lí
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abbeverarono i loro cavalli entrando a Roma per annunciare la prima vittoriosa battaglia romana sul lago Regillo, alle molte del periodo imperiale, mentre sugli Horti Farnesiani ancora stupiscono per la loro bellezza e grandiosità le fontane rinascimentali. Infine una piccola fontana ottocentesca che nasconde il segreto di essere il punto di origine della condotta d’acqua che alimenta tutte le fontane del pendio. La fontana è composta da una roccaglia in tufo, a simulare una fonte naturale, e da un piccolo stagno con rose e papiri. Allo scoccare di ogni ora, come un orologio ad acqua, dalla fontana si alza una vaporizzazione sottile, che si diffonde col sole in un arcobaleno di colore. Le fontane romane hanno subito danni agli impianti ipogei per l’attività estrattiva e di predazione di materiale realizzata nel Medioevo e nell’età rinascimentale con il probabile scopo di estrarre tufo e pozzolana dagli strati sottostanti. Il risultato di queste imponenti spoliazioni è una miriade di gallerie,
Una veduta degli Horti Farnesiani, realizzati per volere del cardinale Alessandro Farnese a partire dal 1537.
che spesso si snodano sotto le fondazioni dei complessi imperiali. Passeggiando nel Parco è suggestivo pensare al labirinto di cavità che si trova sotto i nostri piedi, la cui estensione è stimata in circa 40 000 mq.
Accorgimenti semplici, ma efficaci Il sistema piú consueto di adduzione dell’acqua era quello di raccolta e di distribuzione a caduta. Ne sono un esempio le vasche della Casa delle Vestali nel Foro Romano, un’area che era il centro religioso e politico della Roma repubblicana. Le tre vasche dell’Atrium Vestae conservano l’antichissimo sistema di adduzione e smaltimento dell’acqua: si susseguono geometricamente, ma sono di diversa grandezza e profondità. La prima vasca, a est, è la piú profonda e riceve acqua da una condotta che parte dal punto di adduzione situato sulla sommità del Palatino. Con il semplice accorgimento del «troppo pieno», l’acqua in esubero viene incanalata e defluisce
lentamente nelle vasche successive e, eventualmente, smaltita nella Cloaca Maxima, come accade da piú di due millenni, o usata per l’irrigazione, secondo l’esigenza stagionale. Le vasche sono state restaurate e accolgono ora ninfee e fiori di loto, simbolo della castità delle Vestali e del rito di iniziazione delle fanciulle che prevedeva il taglio dei capelli con cui ornavano un albero di loto (arbor capillata). «Il tempo scorre incessantemente come l’acqua», «Instar aquae tempus»: sono passati duemila anni dal tempo in cui l’acqua scorreva nella fontana racchiusa nel meraviglioso scrigno del peristilio inferiore della Domus Augustana, la parte privata del palazzo di Domiziano sul Palatino. Il nome deriva dalla presenza nel bacino di quattro strutture in tufo, contrapposte, a forma di pelte, gli antichi scudi romani attribuiti anche alle amazzoni. L’accorgimento fondamentale nella realizzazione del progetto di rifunzionalizzazione è stato quello di tutelare il manufatto
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archeologico, senza operare alcun tipo di intervento o alterazione sulla struttura. L’acqua è stata inserita in una installazione in acciaio, totalmente removibile, adagiata all’interno dell’invaso perimetrale, risultato dell’intervento di scavo e restauro degli anni Trenta del secolo scorso, creando una camera d’aria di rispetto. A seguito di un vecchio crollo di dissesto la fontana presenta, sull’isola centrale, un’apertura che ha messo in comunicazione l’esterno con un canale ipogeo scavato nel tufo, all’interno del quale è stato possibile alloggiare tutto l’impianto idraulico per il funzionamento, completamente a ricircolo dell’acqua, della nuova fontana.
Profumo d’antico... Ai nuovi giochi d’acqua si accompagnano musica e profumi, che rimandano agli usi dei convivi nei triclini estivi, occasione di condivisione di pranzi e divertimento. Il progetto di rifunzionalizzazione delle fontane annovera l’installazione, inaugurata nel 2019, che ha riportato l’acqua al Ninfeo degli Spechi, cosí denominato in antico per la presenza di satiri a tutto tondo che trattenevano specchi. Il ninfeo fa parte delle fontane del grande giardino allestito dai Farnese nel XVI secolo, e subí, nei secoli a seguire, la stessa sorte di abbandono. Gli scavi condotti da Giacomo Boni nel 1914 riportarono alla luce il Ninfeo ormai in stato di rudere, sotto strati di terreno. Anche qui il principio cardine, come in tutti i progetti curati dalla scrivente, è il rispetto del manufatto storico: le installazioni si adagiano nello stato di fatto protetto da uno strato preparatorio. Il sistema dell’acqua è sempre a ricircolo: gli zampilli che fuoriescono da una corona di tubi adagiati sulla sommità a ricreare la sottile pioggia d’acqua che cadeva dalla perduta copertura, sono raccolti nell’invaso in acciaio corten per poter essere rimessi in circolo. L’unica concessione allo «spreco» è lo scherzo d’acqua, cosí in uso nei giardini della «Rinascenza», che bagna ogni ora a tradimento! Gabriella Strano
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La Fontana delle Pelte, nel cortile inferiore della Domus Augustana.
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I frutti dalla terra degli imperatori
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arte di lavorare la terra era considerata l’attività moralmente piú degna del cittadino romano, base dell’economia, della religione e dell’etica che hanno sostenuto per secoli la grandezza di Roma. Ne parla Plinio il Vecchio, autore romano del I secolo d.C., nella sua Naturalis Historia, richiamando l’attenzione sull’importanza dell’uso della terra e sulla salvaguardia dell’ambiente; un suggerimento che oggi risulta drammaticamente attuale per il decremento degli ecosistemi di diversità biologica. Per contribuire al processo di transizione ecologica il Parco archeologico del Colosseo ha dato avvio a una serie di progetti rivolti alla tutela e all’implementazione dei beni naturalistici e agricoli che furono il simbolo
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della cultura romana, indissolubilmente legati al valore culturale e storico del sito. Nel 2019 è nato il progetto «GRABees», che ha promosso l’installazione di due arnie per le api, preziosissimi insetti impollinatori oggi a rischio di estinzione a causa della perdita degli habitat naturali e dei cambiamenti climatici. Le arnie, da cui è stato possibile ricavare il miele «Ambrosia del Palatino», sono state posizionate ai piedi delle capanne romulee, uno dei punti piú tranquilli e suggestivi del PArCo, un luogo ampio e ventilato, ricchissimo di vegetazione mediterranea, non lontano dall’acqua, proprio come suggeriscono le fonti antiche: Varrone, Columella, Plinio e, seppur all’interno di un contesto poetico, Virgilio. Nel Parco archeologico del Colosseo sono
La raccolta delle olive da una delle numerose piante di olivo del Parco.
A destra una bottiglia di Palatinum, l’olio EVO ricavato dalle olive del Parco.
presenti 189 alberi di olivo, di epoche di impianto varie, dai centenari esemplari vicino l’Arco di Tito, a quelli di piú recente piantagione, perfettamente inseriti in un paesaggio di cui gli olivi hanno fatto parte fin dall’antichità. Lo testimoniano le piante sulla piazza del Foro Romano, messe a dimora per tramandare la memoria di quelle citate da Plinio nella sua opera enciclopedica, olea e vitis, cosí importanti da essere piantate vicino al ficus, la pianta legata al mito delle origini di Roma, sotto al quale si ancorò, secondo la leggenda, la cesta con i divini gemelli Romolo e Remo.
Esperienze virtuose Sono nati cosí altri due progetti cardine: la produzione dell’Olio del Palatino, Palatinum, Extra Vergine di Oliva frutto degli olivi del Parco su cui non sono mai stati attuati trattamenti fitosanitari chimici; un recupero virtuoso che ha eliminato la perdita di un bene prezioso come le olive. A questo si accompagna il progetto per la produzione del vino. Che i Romani fossero eccellenti viticoltori è cosa nota e quanto il vino fosse apprezzato nella cultura romana desta stupore, visto che ai mosti veniva aggiunta una serie di ingredienti – miele, cenere, acqua di mare, ostriche tritate, gesso, petali di fiori – che lo rendevano molto diverso da quello delle produzioni attuali. La coltivazione della vite è sempre stata di rilevante importanza per tutte le civiltà che si sono susseguite nel corso della storia ed ebbe un ruolo di spicco anche nel corso della civiltà romana. Sono state ritrovate molte tracce archeologiche di trincee della coltivazione della vite, per lo piú a filari, spesso anche ad alberello per la vite cosí detta «maritata». Il Parco archeologico del Colosseo conserva ancora nella sua toponomastica delle aree chiamate «vigna», nel senso piú esteso del termine, ovvero orti, e nelle indagini archeologiche e nelle carte storiche la presenza dei vigneti sul Palatino è ben documentata. Da qui l’idea di impiantare una piccola vigna, nell’area denominata appunto «Vigna Barberini», dall’omonima famiglia romana che ne deteneva la proprietà nel XVII secolo. Qui
sono state piantate le barbatelle di un antichissimo vitigno autoctono che Plinio chiama «uva pantastica», da cui deriva il vino Bellone, coltivato nella provincia di Roma e in quella di Latina. L’area della terrazza accoglie già delle piante da frutto, il fico sacro delle origini e altre tra le piú antiche specie. Vorrei infine evidenziare, sempre attraverso le parole di Plinio, le herbae surdae, silenziose, prive di fama, ma «utili medicamenti»: crescono sulle pendici meridionali del Palatino, tra la vegetazione autoctona naturale, con il ficus ruminalis e il cornus mas, con cui, narra Plutarco, fu forgiata la lancia di Romolo scagliata verso il colle per indicare il punto dove sarebbe sorta la nuova città. Il percorso costeggia ora una via ad alto scorrimento ed è stato scelto per piantare una barriera arbustiva formata da specie note per le loro spiccate capacità di assorbire il particolato e di eliminare gli inquinanti gassosi pericolosi per l’ambiente e la salute umana. Sono state dunque messe a dimora piante di Laurus nobilis, Quercus ilex, Eleagnus ebbingei, Photinia fraseri, Viburnum lucidum e Arbutus unedo. La presenza del verde, e il suo arricchimento, possono essere una grande risorsa per mitigare gli effetti dovuti all’inquinamento atmosferico. Gabriella Strano
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Le Curiae Veteres e le pendici nord-orientali del Palatino
L’
area delle pendici nord-orientali del Palatino compresa tra l’Arco di Tito e l’angolo del Palatino presso l’Arco di Costantino è stata indagata dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità della «Sapienza» Università di Roma a partire dal 2001, sotto la direzione scientifica di Clementina Panella. Lo scavo ha permesso di ricostruire la storia di questo importante settore urbano dalle origini all’età moderna e contemporanea. Si tratta di un grande intervento di archeologia urbana, che si è rivelato fondamentale in primo luogo per la mole di dati analiticamente raccolti e sistematicamente studiati e che ha permesso inoltre la formazione sul campo di generazioni di archeologi. Le ricerche si ponevano in continuità con le indagini che dal 1986 avevano interessato la Meta Sudans, una fontana monumentale
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di età flavia (i cui resti furono demoliti nel 1933 per permettere la realizzazione della via dei Trionfi, n.d.r.), e la pendice del Palatino estesa in antico ben oltre l’attuale recinzione del PArCo. Indagini che avevano riportato in luce le fasi eccezionalmente conservate precedenti all’incendio del 64 d.C., con la Meta Sudans del periodo augusteo e un settore collocato sull’angolo nord-est del colle costituito da un’edicola dedicata agli imperatori della dinastia giulio-claudia e un tempio ricostruito da Claudio, i cui eccezionali reperti sono oggi esposti al Museo Nazionale Romano-Terme di Diocleziano. I dati dallo scavo in questo settore e quelli poi derivanti dal settore indagato all’interno della attuale recinzione del Palatino hanno permesso di localizzare in quest’area il santuario delle Curiae Veteres, istituito secondo la tradizione da Romolo per
Ortofoto dell’area in cui si sono svolte le indagini condotte da «Sapienza» Università di Roma, con le strutture portate in luce fino al 2017. Oggi le indagini proseguono verso sud.
Qui accanto l’area delle Curiae Veteres durante gli scavi. A destra ricostruzione del portico sulla strada che delimita a nord il santuario delle Curiae Veteres (elaborazione KatatexiluxE. Brienza). In basso tegola di gronda dal santuario delle Curiae Veteres. Età tardo-arcaica, 500 a.C. circa.
ospitare i riti che i rappresentanti dei diversi distretti urbani (curiae) dovevano svolgere per riaffermare la comune appartenenza a un corpo civico unitario.
Riti di antica tradizione Alla base dell’identificazione è possibile menzionare: la posizione del luogo di culto sull’angolo della pendice collinare, terzo vertice della Roma quadrata ricordato da Tacito; l’antichità dei riti attestati dai
numerosi depositi votivi, che risalgono al tardo VII, se non già all’VIII secolo a.C.; la volontà di mantenere fermi e riconoscibili nei secoli gli spazi destinati al sacro. Le fasi piú antiche del santuario, considerando che l’esistenza di un ulteriore luogo di culto molto antico è testimoniata di fronte alle Curiae Veteres, oltre la strada che separa il Palatino dalla Velia, sono documentate dalle decorazioni fittili rinvenute, pubblicate nel volume Architetture
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Ricostruzione grafica dell’area delle Curiae Veteres con la Meta Sudans, cosí come doveva presentarsi in epoca augustea (ricostruzione M. Cante, «Sapienza» Università di Roma).
Perdute. Decorazioni architettoniche fittili dagli scavi tra Palatino, Velia e valle del Colosseo (VII-IV secolo a.C.), curato da Clementina Panella, Carlo Rescigno e Antonio F. Ferrandes ed edito nel 2021. Lo scavo ha quindi permesso di documentare una continuità di vita del santuario dalle prime testimonianze del
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periodo tardo-orientalizzante e arcaico all’età repubblicana e oltre, attraverso numerose ricostruzioni, fino alle modifiche derivanti dal nuovo piano urbanistico avviato da Nerone successivamente all’incendio del 64 d.C. In questo periodo lo spazio si articola con ampi ambienti voltati e corridoi costruiti in opera laterizia, che
L’area delle Curiae Veteres che verrà interessata dal futuro progetto di restauro e valorizzazione curato dal PArCo.
definiscono piú livelli, creando una terrazza che regolarizza i salti di quota della pendice, mentre un portico monumentale fiancheggia la strada che dalla valle si dirige verso il Foro lungo la sella che separa la Regio X Palatium dalla Regio IV Templum Pacis, vale a dire la collina della Velia.
Le insegne nascoste E ancora alle soglie dell’età tardo-antica, in uno degli ambienti voltati appartenenti al santuario, vennero nascoste le insegne, simboli del potere imperiale, attribuite grazie a uno studio approfondito all’imperatore Massenzio nel momento della sua sconfitta a opera di Costantino nel 312 d.C., oggi esposte al Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. La straordinarietà dei rinvenimenti e il nuovo paesaggio determinato dal procedere delle indagini pluriennali della «Sapienza» – che oggi proseguono in direzione sud-est sotto la direzione di Maria Teresa D’Alessio – hanno indirizzato il PArCo verso
l’elaborazione di un progetto di restauro e valorizzazione che restituisca ai visitatori la leggibilità del sito delle Curiae Veteres e dei settori limitrofi. Se nel 2018 infatti è stato restaurato e aperto al pubblico a ovest del santuario un settore delle cosiddette Terme di Elagabalo, resta ancora da intervenire sul piccolo balneum tardo-antico e sull’ampio settore delle Curiae stesse. Il progetto risponde al duplice obiettivo di tutelare le strutture archeologiche, maggiormente conservate nella fase neroniano-flavia, e, allo stesso tempo, di creare nuovi spazi espositivi: parte integrante del progetto di valorizzazione è infatti rappresentata dalla selezione dei materiali da allestire nei nuovi spazi, per la creazione di un racconto di questo importante settore della città, che integri topografia, contesto e materiali archeologici, dalle fasi piú antiche fino all’età imperiale, anche attraverso l’uso delle tecnologie e nell’ottica dell’accessibilità. Giulia Giovanetti
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lla morte di Nerone, la politica della dinastia flavia fu volta a restituire al popolo romano gli spazi che il tiranno aveva espropriato per la sua dimora esclusiva e personale. L’attività edilizia di Vespasiano e dei suoi figli e successori, Tito e Domiziano, demagogica e
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determinata a ottenere il maggior consenso, si concretizzò dunque nella realizzazione di edifici pubblici dove prima sorgevano quelli privati di Nerone: il caso piú eclatante è l’Anfiteatro Flavio, sorto nel luogo già occupato dal grande stagno della Domus Aurea. Benché risulti molto complessa, la struttura
L’Anfiteatro Flavio, piú noto come Colosseo, visto dal Tempio di Venere e Roma. Il grandioso edificio venne inaugurato nell’80 d.C.
IL COLOSSEO ANCORA OGGI, IL SIMBOLO DI ROMA STUPISCE, NON SOLTANTO PER LE SUE DIMENSIONI, MA ANCHE PER ESSERE STATO UNA PERFETTA «MACCHINA» DA SPETTACOLI, ANIMATI DA UOMINI E ANIMALI, CON CONTINUI CAMBI DI SCENA di Luciano Frazzoni
del Colosseo è riassumibile in alcuni elementi fondamentali, individuabili nel tipo di materiale utilizzato (travertino, tufo e laterizio) e nella tecnica di messa in opera. La sua realizzazione è infatti basata su tre moduli architettonici principali: il pilastro con semicolonna, l’arco e la cornice. Come ha osservato Giuseppe Lugli
(1890-1967), il Colosseo è il miglior esempio di utilizzo razionale dell’opera quadrata, realizzata a secco unendo i blocchi squadrati con perni e grappe metalliche. Tale tecnica, che permetteva il lavoro contemporaneo di almeno quattro cantieri diversi, assicurò solidità e rapidità nella costruzione.
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Sfruttando lo spazio occupato dal bacino artificiale neroniano fu realizzata dapprima una massiccia struttura di fondazione profonda 13-14 m, in calcestruzzo e pezzami di leucitite, di forma probabilmente a «ciambella». Al di sopra di questa fu stesa la superficie della pavimentazione, costituita da due platee di blocchi di travertino spesse 1 m ciascuna. Ultimata questa imponente fondazione, si proseguí costruendo una enorme ingabbiatura di pilastri e archi di travertino, in corrispondenza dei vari piani, collegati tra loro tramite volte, su cui doveva poggiare la cavea; infine vennero realizzati i muri radiali e tutte le altre strutture in laterizio legato da calcestruzzo.
I quattro ordini L’Anfiteatro Flavio è articolato all’esterno in quattro ordini architettonici. I primi tre sono costituiti da ottanta arcate, poggianti su pilastri con semicolonne. Le arcate del secondo e del terzo ordine poggiano su piedistalli aggettanti, dalla cornice liscia, che
segna il passaggio da un ordine all’altro. Il primo ordine presenta capitelli tuscanici, sui quali poggiano un architrave a tre fasce, un fregio liscio e una cornice modanata. Il secondo ordine è formato da capitelli ionici, il terzo da capitelli di tipo corinzio. Il quarto ordine è costituito da una parete piena divisa da lesene che formano ottanta riquadri sui quali si aprono, a intervalli regolari, quaranta finestre, in origine intervallate da scudi di bronzo dorato (clipei), qui collocati probabilmente da Domiziano, di cui si ha testimonianza dal Cronografo del 354 e dalle monete. Ciascun riquadro accoglieva 3 mensole, dunque in tutto 240, sulle quali venivano alloggiate le travi lignee che sostenevano il velario, inserite nelle fessure della cornice superiore. L’altezza degli archi del primo ordine è di circa 7 m, mentre quella dei due superiori è di 6,50. Le misure non sono sempre uguali, riscontrandosi differenze notevoli anche nella struttura stessa, indice della fretta con cui l’edificio è stato costruito,
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A sinistra assonometria ricostruttiva del Colosseo che ne evidenzia, anche grazie alle sezioni, le parti fondamentali: l’arena (1), la cavea (2) – nella quale sono distribuite le gradinate per gli spettatori – e i sotterranei (3), dove il personale di servizio provvedeva alla movimentazione dei macchinari scenici, delle attrezzature e degli animali.
In alto assonometria ricostruttiva delle fasi di cantiere del Colosseo; per il sollevamento dei materiali furono utilizzate tecniche diverse: paranchi sospesi su ponti lignei sporgenti poggiati sulle mensole dei pilastri; piani inclinati forniti di verricelli, o montacarichi tirati da argani multipli.
e della presenza di piú imprese operanti contemporaneamente. Delle 80 arcate (o fornici) del primo ordine, 76 erano destinate all’ingresso del pubblico; i restanti erano destinati all’ingresso/uscita dell’imperatore e delle massime autorità (fornice nord e fornice sud) e dei protagonisti degli spettacoli (a ovest e est). La cavea interna, cioè lo spazio occupato dalle gradinate (spectaculi gradus), era divisa in cinque settori (maeniana) di posti (loca), i primi dei quali, piú vicini all’arena, riservati ai senatori e ai cavalieri. I meniani erano separati tra loro da corridoi anulari con parapetti di sicurezza
(praecinctiones) e da gradinate verticali che delimitavano la cavea in spicchi (cunei); i varchi di accesso erano chiamati vomitoria. L’harena, il piano dove si svolgevano gli spettacoli, era circondata da un alto muro (podium).
Posti numerati Molto complesso era il sistema di accessi alle varie gradinate dagli ingressi; si possono distinguere cinque diversi percorsi, due diretti, riservati ai senatori e ai cavalieri, e tre indiretti che, tramite rampe di scale presenti nel II e III ordine, conducevano ai settori piú alti (maenianum secundum e summum in ligneis).
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Ogni spettatore aveva il posto assegnato, scritto sulla «tessera», corrispondente ai numeri ancora ben visibili sulle arcate del primo ordine. Tutti gli archi erano infatti contrassegnati all’esterno da un numero, costituito da grandi lettere incise al di sotto delle cornici; la numerazione iniziava dall’arcata posta a est dell’ingresso meridionale, e terminava con il numero LXXVI nell’arcata a ovest del medesimo ingresso. Solo i quattro accessi principali disposti sugli assi maggiore e minore erano privi di numero, in quanto riservati alle autorità e ai protagonisti degli spettacoli. Due ingressi disposti sugli assi minori conducevano ai palchi, di cui non rimane traccia, destinati all’imperatore e al suo seguito
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e alle massime autorità dello Stato. La monumentalità di questi ingressi era sottolineata all’esterno da due protiri, imponenti avancorpi leggermente aggettanti dal perimetro dell’edificio, costituiti da due colonne su cui si impostava un basamento su cui era una quadriga. Questi elementi, di cui si conserva qualche traccia nel pavimento della crepidine dove erano alloggiate le colonne, sono noti dalle raffigurazioni del Colosseo sulle monete e dal rilievo del sepolcro degli Haterii.
La tribuna imperiale I palchi (pulpita) riservati all’imperatore e al suo seguito, smantellati forse già in epoca tardoantica, erano probabilmente strutture rivestite
Il Colosseo in una foto aerea che evidenzia la forma ellittica conferita all’arena. Una soluzione che rispondeva non soltanto alle esigenze dei protagonisti degli spettacoli, ma anche a quelle del pubblico, offrendo a tutti una visuale completa.
da marmi pregiati e ornate da sculture. Il corridoio di ingresso a essi, per tutto il suo percorso, era riccamente decorato negli intradossi delle volte da stucchi figurati, di cui sono ancora leggibili alcuni resti, soprattutto nel settore nord. Alle estremità dell’asse maggiore, orientato in senso N-O/S-E, erano gli ingressi attraverso i quali si accedeva direttamente nell’arena. Dall’ingresso nordovest, detto Porta Triumphalis, entrava il corteo (pompa) composto dai gladiatori e dagli altri protagonisti degli spettacoli che, accompagnati da musici, facevano il giro dell’arena e rendevano omaggio all’imperatore e alle autorità. Dalla parte opposta, detta Porta Libitinaria (dalla dea Libitina, protettrice dei funerali), i combattenti uscivano, vivi o morti. Il lato est dell’asse maggiore era collegato direttamente con il Ludus Magnus, la vicina caserma dei gladiatori, da dove, grazie a un percorso sotterraneo, essi potevano arrivare direttamente nell’arena.
Una perfetta catena di montaggio I sotterranei dell’anfiteatro erano utilizzati per le attività che permettevano lo svolgersi degli spettacoli nell’arena che prevedevano cambi di scenografie, il sollevamento dei combattenti e degli animali, e tutti gli altri accorgimenti scenici previsti dalla complessa organizzazione dei giochi. In età flavia i montacarichi nei sotterranei dovevano essere 28 (corridoio B). Ogni gabbia, alta circa 1 m, poteva contenere uno o due animali di grandi dimensioni, o di piú se di dimensioni piú piccole. Probabilmente dopo l’incendio del 217, gli ascensori vennero sostituiti da 60 piattaforme o montacarichi (20 nel corridoio E nord e sud, 40 nel corridoio G nord e sud). Le fonti riportano che sull’arena comparivano contemporaneamente centinaia di animali, pertanto occorre immaginare una perfetta catena di montaggio, con cui le gabbie arrivavano, venivano aperte, poi allontanate per fare posto ad altre gabbie, e cosí via. Dato il poco spazio a disposizione, le operazioni dovevano svolgersi con estrema precisione per non compromettere la buona riuscita degli
spettacoli. Probabilmente gli animali in attesa nelle gabbie, venivano tenuti all’esterno dell’anfiteatro, nella zona dove era il Ludus Matutinus, presso l’attuale via Claudia. Con un sistema di piattaforme inclinate, di cui rimangono chiare tracce nei muri ipogei, venivano anche trasportate sul piano dell’arena le persone e le scenografie, che venivano poi assemblate dal personale addetto. Utilizzati fino al V secolo, a partire dalla seconda metà dello stesso secolo gli ipogei cominciarono a perdere la loro funzione originaria, finché non vennero quasi completamente interrati dai crolli dell’edificio nei primi decenni del VI secolo, quando anche la quota del piano dell’arena venne innalzata fino al livello del IV corridoio anulare. In questo momento, dunque, gli apparati scenici non servivano piú per il tipo di spettacoli che si svolgeva nell’anfiteatro; aboliti i combattimenti gladiatori, vi si realizzavano prevalentemente spettacoli acrobatici con animali, spesso ammaestrati, che richiedevano altri tipi di apparati scenici, raffigurati su alcuni dittici in avorio da Costantinopoli. Il piano dell’arena, del tutto perduto, era costituito da un tavolato ligneo poi ricoperto da sabbia. Sul piano dell’arena si aprivano, a intervalli regolari, le botole da cui, all’improvviso e contemporaneamente, uscivano uomini e animali, ma anche scenari (pegmata) che, durante le venationes, ricostruivano gli ambienti naturali tipici nei quali vivevano gli animali protagonisti dei giochi. Per garantire la sicurezza degli spettatori, una solida rete doveva circondare il margine dell’arena. L’area circostante l’anfiteatro, larga 17,5 m circa, era lastricata con blocchi di travertino e delimitata da cippi, anch’essi in travertino semplicemente infissi nel terreno, dei quali se ne conservano solo cinque. Tra un cippo e l’altro erano probabilmente barre metalliche, di cui si conservano ancora gli incassi per l’alloggiamento, forse, tra le varie ipotesi, destinate a delimitare lo spazio destinato ad area pedonale.
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L’arena dei gladiatori e il rinnovato spazio degli ipogei
N
el giugno del 2021 si sono conclusi, con l’apertura al pubblico, i lavori di restauro dei sotterranei del Colosseo, che costituivano il secondo dei quattro lotti di intervento parte della sponsorizzazione Tod’s. Dopo quasi 15 mesi di attività, prolungate ma mai interrotte dalla pandemia da Covid-19, sono state restituite alla completa fruizione le strutture sottostanti l’antica arena dell’anfiteatro, che si estendono su una superficie di circa 76 x 44 m e che contenevano gli spazi destinati al funzionamento degli apprestamenti di servizio per gli spettacoli. L’area ipogea del Colosseo ha subito diverse modifiche già dall’epoca della fondazione,
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dovuta ai tre imperatori della dinastia flavia, Vespasiano, Tito e Domiziano. Negli anni dell’inaugurazione dell’80 d.C., lo spazio ipogeo era completamente libero e svolgeva la duplice funzione di alloggiamento dei pilastri in legno che costituivano la complessa struttura di sostegno dell’arena, a loro volta installati su dadi in travertino, e di bacino di raccolta idrica per la realizzazione di spettacoli acquatici, noti dalle fonti. Solo successivamente iniziarono i lavori per la costruzione delle murature destinate a sostenere il nuovo piano dell’arena, quale parte del progetto di Domiziano, al quale si deve il completamento dell’anfiteatro. Durante l’epoca imperiale e sino all’età tardo-antica gli ipogei subirono frequenti
Mosaico pavimentale con gladiatori e cacciatori, dal criptoportico di una grande domus scavata nel 1834 nella tenuta Borghese di Torrenova, lungo la via Casilina. III-IV sec. d.C. Roma, Galleria Borghese.
modifiche. Alle strutture di età flavia in blocchi di tufo e peperino vennero aggiunte, affiancandole senza fondazioni, altre murature per lo piú in laterizi. Gli interventi principali sono riferibili all’età traianea, severiana e tardoantica (tra il V e il VI secolo d.C.).
Materiali diversi e spesso di recupero I sotterranei si presentano oggi articolati da strutture murarie che delimitano una serie di corridoi: 9 longitudinali e 6 anulari. I corridoi sono convenzionalmente identificati con una lettera dell’alfabeto (A, B, C, D, E, F, G, H) e con l’indicazione del settore (Nord o Sud). Il corridoio centrale, H, coincide con l’asse maggiore ovest-est. Le murature
ancora ben apprezzabili sono di diversa tipologia: in calcestruzzo romano con cortina a mattoni; murature a blocchi di tufo (tufo gabino, tufo giallo e tufo peperino) e blocchi di travertino; infine, murature miste, con ampio utilizzo di materiali di recupero (travertino, tufo, mattoni, marmo). I pavimenti antichi superstiti, realizzati in tessere di cotto con orditura a spina di pesce (opus spicatum), indicano interventi di rifacimento riconducibili ad almeno tre fasi diverse: flavia, antonina e severiana (rispettivamente nel I, II e III secolo d.C.). Dell'originaria pavimentazione flavia si conservano pochi lacerti di ridotte dimensioni; il piano d’età antonina e severiana, presente in
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gran parte dell’area ipogea, poggia infatti direttamente sulla pavimentazione flavia o, in alcuni casi, ne colma le lacune. A testimonianza dei frequenti interventi di restauro e manutenzione eseguiti già in antico, si possono notare nel corridoio centrale H, a ridosso dei muri nord e sud, gli inserimenti di mattoncini di recupero, messi in opera di taglio, o di piatto. La crisi socio-economica in cui l’impero romano versava determinò la progressiva scomparsa dei giochi dei gladiatori e, a partire dal V secolo, nell’anfiteatro divenne sempre meno necessario l’imponente apparato scenografico che in origine era movimentato negli ipogei: di conseguenza, i sotterranei non furono piú oggetto di estensivi interventi di restauro e subirono un progressivo interramento. La definitiva colmata avvenne all’indomani dell’ultimo spettacolo di venationes di cui si abbia notizia nelle fonti, allestito nel 523 dal senatore Maximus per celebrare il suo consolato.
Il restauro e le nuove acquisizioni Questo lungo racconto è oggi leggibile nei 15 000 mq di superficie che sono stati restaurati e studiati da un team multidisciplinare di restauratori, archeologi, ingegneri, architetti. La ricerca archeologica si è svolta in due fasi: dapprima sono state condotte indagini conoscitive e scavi, con la realizzazione di 40 saggi esplorativi finalizzati ad ampliare la conoscenza dell’impianto di fondazione delle strutture ipogee; in seguito, durante gli interventi di restauro, approfittando del fatto che l’intera superficie degli ipogei, pari a circa mezzo ettaro, era stata interamente ponteggiata – permettendo di visionare da vicino in tutta la loro estensione le superfici verticali murarie –, 5 archeologi, coordinati dal gruppo di lavoro del PArCo, hanno provveduto alla lettura stratigrafica degli elevati, che ha confermato la notevole complessità del contesto. Sono state riconosciute almeno 9 fasi di utilizzo fino al momento dell’interro totale, segnate da costruzioni, distruzioni e ricostruzioni
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determinati certamente da incendi e crolli, ma anche da frequenti ripensamenti con modifiche sostanziali dell’impianto, a riprova del fatto che, nel tempo, si fece ricorso a tecniche edilizie e materiali differenti, ma anche ad apprestamenti ingegneristici e strutturali che senza dubbio rispondevano ai mutamenti statici e dinamici dell’intero complesso ipogeo, nonché alle necessità funzionali della macchina scenica che nel corso dei secoli – come noto – ha visto avvicendarsi spettacoli diversi, dalle naumachie raccontate dalle fonti, alle cacce, ai combattimenti gladiatori, ognuno dei quali riflesso dei desiderata e dei gusti degli imperatori. Tutti i dati raccolti sono confluiti all’interno di un webGIS ovvero un Sistema Informativo Geografico che sarà di supporto alla gestione delle ispezioni quotidiane e degli interventi di manutenzione.
Un «monumento nel monumento» Per quanto riguarda invece gli aspetti di fruizione, per una migliore comprensione della storia di questo «monumento nel monumento» e delle sue numerose fasi di vita, è stata realizzata una passerella che non solo protegge le superfici appena restaurate, ma consente anche una migliore accessibilità. Lunga 160 m, la passerella si snoda, da est verso ovest, lungo l’assetto dei muri perimetrali anulari e rettilinei che articolano in 15 corridoi il complesso degli ipogei, seguendo la storia di questo straordinario backstage, dall’età flavia – con la prima fase dei montacarichi, di cui torna a essere visibile il modello ricostruito nel 2016 –, proseguendo lungo il filo della tracce lasciate sui muri dalle piattaforme inclinate che portavano i pegmata sull’arena, fino ad arrivare all’infilata dei 60 piccoli ascensori della fase piú tarda e alla camera di manovra occidentale. Sei punti informativi, interamente realizzati dallo staff interno del PArCo e dislocati lungo il percorso di visita, ampliano l’offerta della APP ParcoColosseo, offrendo contenuti aggiuntivi sulla storia del complesso ipogeo. Infine, due mappe tattili, con spiegazioni anche in
Uno scorcio dei resti degli ambienti ipogei del Colosseo con il nuovo percorso di visita su passerella.
alfabeto braille, situate nel punto di partenza del percorso sul lato est, aiutano il pubblico a orientarsi, illustrando in forma sintetica e semplificata le due principali fasi di vita degli ipogei, dalla costruzione al grande incendio del III secolo d.C. ricordato dalle fonti, fino alla fine dei giochi nel 523. Il percorso infine consente al pubblico di risalire dalla camera di manovra ovest e raggiungere il piano dell’arena percorrendo la
nuova porzione del corridoio di servizio sul lato nord-ovest che finalmente, congiungendosi con il corridoio del lato nordest aperto nel 2010, permette per la prima volta di passare di fronte all’edicola della via Crucis rimontata con i suoi componenti originali nel 2016, segno di una rinnovata fase d’uso e funzione del monumento. Barbara Nazzaro, Angelica Pujia e Federica Rinaldi
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Gerusalemme, il dipinto ritrovato
L’
arco di fondo della Porta Triumphalis del Colosseo, in corrispondenza dell’accesso occidentale al monumento, accolse nel XVII secolo uno straordinario dipinto murale raffigurante una Veduta ideale della città di Gerusalemme al tempo di Gesú: una testimonianza importante di una fase di vita del Colosseo meno nota di quella d’epoca romana. La città è riprodotta a volo d’uccello, in modo schematico e regolare, concepita come una raffigurazione di topografia storica unica e onnicomprensiva. Una cinta muraria rettangolare perimetra la città, delineata al suo interno da alte mura e da edifici in prospetto lungo le vie e intorno agli isolati. In modo molto dettagliato è rappresentata la grande area rettangolare del Tempio di Salomone, segnata da una serie di portici e mura concentriche. Fuori le mura, invece, compaiono scene di natura diversa: le croci in primo piano nell’angolo inferiore sinistro rappresentano il Golgota, in una sequenza temporale che racconta contemporaneamente tutte le fasi della Passione, dalla salita al Calvario, alla crocifissione, alla deposizione e resurrezione. Le altre scene extramuranee superano invece «il tempo di Gesú», e raffigurano, tra le altre, le sconfitte dei Filistei, l’accampamento dell’esercito di Erode e quello di Pompeo, l’assedio di Gerusalemme nel 70 d.C., e sono tutte rese in maniera meno particolareggiata, con pochi elementi topografici. Lo schema iconografico, reso pienamente leggibile dal restauro condotto dal PArCo e conclusosi nel 2020, cui è seguita anche una edizione scientifica, ricalca una stampa del 1584-1585, successivamente riprodotta in Italia da parte del pittore e incisore Antonio Tempesta. Il disegno, realizzato nel 1601 e conservato all’Albertina di Vienna, fornisce il termine post quem per la datazione dell’opera. Il racconto diffuso proposto dal dipinto è ulteriormente valorizzato da una installazione multimediale basata su una
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doppia modalità di fruizione, diurna e notturna; di giorno, un impianto audio spazializzato cattura l’attenzione del pubblico, incanalandola verso l’immagine di Gerusalemme, che verrà solo brevemente raccontata, con un videomapping di circa tre minuti, coadiuvato da didascalie testuali; di sera – in occasione delle visite guidate nell’ambito dell’evento «La luna sul Colosseo» – un videoracconto piú complesso, che alterna la messa in evidenza dei dettagli del dipinto e la proiezione della pianta del Tempesta e dei suoi particolari, inserisce il dipinto nella storia del Colosseo cristiano. Il dipinto si colloca all’interno di un percorso di rifunzionalizzazione idealmente compreso tra il 1349, anno del terremoto che devastò Roma, e il 1874, data dell’avvio degli scavi archeologici di Pietro Rosa nell’«arena dei gladiatori», nei secoli interrata e utilizzata per tutto il Medioevo come platea communis: la riscoperta archeologica restituí ruolo e funzione al monumento, estirpando la memoria del supplizio dei primi martiri della fede, materializzati nelle cappelle della via Crucis e nella grande croce collocata al centro dell’arena e diffusamente rappresentata nelle stampe di Piranesi.
Le molte vite di un monumento In mezzo a questi due avvenimenti scorrono poco piú di 500 anni, durante i quali il Colosseo è sia monumento pagano – «tempio di tutti i demoni» –, sia edificio cristiano, da votare al culto dei martiri. Il percorso che porta all’istituzione del Colosseo come chiesa pubblica da parte di papa Benedetto XIV nel 1756 è contrassegnato da una serie di tappe intermedie che contribuiscono alla progressiva sovrapposizione del substrato pagano con quello cristiano: la presenza continuativa di confraternite e/o compagnie che – sempre comunque con il benestare dei papi – a vario titolo occuparono, usarono, trasformarono il Colosseo da spazio di abitazione, ad area di riuso di
Nella pagina accanto la Veduta ideale della città di Gerusalemme al tempo di Gesú, il dipinto murale realizzato sull’arco di fondo della Porta Triumphalis del Colosseo, in corrispondenza dell’accesso occidentale al monumento. L’opera è databile dopo il 1601.
materiale edilizio, fino a luogo di sacre rappresentazioni in occasione del Venerdí Santo – solo per citarne alcuni –, costituisce lo sfondo entro cui collocare la commissione della Veduta ideale della città di Gerusalemme al tempo di Gesú: posto, come detto, nel punto di accesso preferenziale delle processioni da ovest, ovvero da occidente, in direzione est, ovvero verso oriente, il dipinto si colloca all’inizio di un percorso di progressiva purificazione e pentimento dei peccati che papa Clemente XII agli inizi del 1700, prima ancora di Benedetto XIV, avrebbe voluto monumentalizzare, realizzando il progetto (rimasto incompiuto) dell’architetto Carlo
Fontana. Il progetto avrebbe trasformato il Colosseo nell’«involucro» del santuario cristiano, che oggi i visitatori possono apprezzare nei disegni e nel plastico ricostruttivo, esposto al II ordine: una imponente chiesa rotonda, coperta da una cupola alta quanto l’attico, inquadrata da un portico colonnato con 40 arcate disposto lungo l’ovale dell’arena e preceduta da una fontana circolare in forma di una meta sorretta dalle allegorie di Fede, Fortezza, Costanza e Amor di Dio. Con tale visione il Colosseo doveva diventare l’ultima stazione penitenziale dei pellegrini che, partiti da S. Pietro, arrivavano al Laterano. Federica Rinaldi e Paolo Castellani
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L’arena che verrà, tecnologica ed ecosostenibile
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l progetto di realizzazione della nuova arena del Colosseo si configura come un intervento di importanza straordinaria per la valorizzazione e la migliore fruizione del monumento e dell'intera area archeologica centrale di Roma, con ricadute significative anche per l'attrattività del patrimonio culturale italiano in ambito internazionale. La visione complessiva che ha guidato il progetto si basa pertanto, da una parte, su imprescindibili esigenze di tutela e conservazione dei sotterranei e, dall’altra, sul ripristino della lettura originaria degli spazi e delle loro funzioni, migliorando l’accessibilità, la fruizione e l’esperienza di visita dell’intero monumento. Finanziato dal Ministero della cultura, l'intervento consentirà di restituire al pubblico
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l’immagine originaria dell’Anfiteatro Flavio con il piano di calpestio in legno e i numerosi ascensori e montacarichi per la predisposizione della scenografia degli spettacoli gladiatori e delle venationes. In antico, infatti, l'arena del Colosseo era costituita da un tavolato ligneo, ricoperto di sabbia. Un primo progetto, risalente agli anni dell’inaugurazione di Tito nell’80 d.C., prevedeva che il tavolato poggiasse su pilastri in legno inseriti in alloggiamenti quadrati scavati in grandi blocchi di travertino, alcuni dei quali ancora visibili, in modo da permetterne un veloce smontaggio. I sotterranei, cosí privi di strutture permanenti, potevano essere allagati per permettere l'organizzazione di naumachie, che facevano rivivere storiche battaglie navali in scala ridotta,
Nella pagina accanto rendering che mostra il futuro aspetto del Colosseo, all’indomani del completamento della ricostruzione dell’arena (Milan Ingegneria, Fabio Fumagalli, Labics, Consilium, Croma).
come riporta Marziale nel suo De Spectaculis. Con Domiziano, i sotterranei furono riorganizzati con strutture murarie con 15 corridoi, di cui 8 paralleli a un passaggio centrale corrispondente all’asse maggiore dell’ovale (est-ovest) e le naumachie furono trasferite in sedi piú idonee. A partire da Domiziano, e con interventi disposti dai successivi imperatori (dinastie degli Antonini e dei Severi), nel Colosseo venne realizzato un complesso sistema sotterraneo stabile e in muratura, altamente tecnologico, che prevedeva montacarichi, piattaforme mobili, macchinari e altri artifizi tecnologici, necessari per sollevare sul piano dell'arena e far comparire all'improvviso, uomini, scenografie e belve, con un effetto sorpresa particolarmente gradito dagli spettatori.
Il sollevamento di uomini e animali Grazie alle impronte sui muri dei corridoi, è stato infatti possibile ricostruire un sistema di montacarichi e ascensori, consistente in gabbie/cabine provviste di argani, con il quale si potevano sollevare fino al piano dell’arena non solo piccoli animali o uomini, ma anche bestie di notevoli dimensioni, come orsi e leoni. Questo sistema funzionava in modo tale che, per mezzo di un argano, la gabbia o la cabina in legno veniva sollevata fin sotto l’arena; contemporaneamente, veniva abbassata una rampa dal pavimento dell’arena tramite un contrappeso fino al fondo della gabbia/cabina; e dopo l’apertura di un cancello, l’animale o la persona poteva cosí salire sulla rampa verso il palcoscenico. Gli ascensori nella I fase flavia erano 28, mentre nella fase successiva, risalente all’età dei Severi, erano 60. Nel corridoio centrale dei sotterranei erano sistemate 20 piattaforme mobili per le scene degli spettacoli, che, attraverso un sistema di rampe con binari, venivano sollevate sul palcoscenico e con i perni centrali potevano ruotare a seconda delle esigenze sceniche. Per esempio, per le cacce venivano ricreati ambienti naturali, con grotte e alberi; in questo senso Marziale, che assiste
agli spettacoli inaugurali dell’Anfiteatro Flavio, scrive che «le rocce si spostano lí, un miracolo accorre dalla foresta…» (De Spectaculis, 21) Un primo intervento di ricostruzione parziale dell'arena, che riguarda il settore orientale in corrispondenza della Porta Libitinaria e ha un'estensione di circa 650 mq, è stato realizzato tra il 1998 e il 2000 dalla allora Soprintendenza Archeologica di Roma, che – nell’ambito delle misure di valorizzazione previste per il Giubileo del 2000 – già da alcuni anni aveva avviato con l’istituto Archeologico Germanico, approfondimenti legati agli aspetti strutturali e architettonici del monumento, indagini che proseguono fino a oggi con il Parco archeologico del Colosseo. A 20 anni da quell’esperienza, esigenze di tutela e conservazione dell’anfiteatro, nonché la volontà di volerne ristabilire la lettura integrale senza prescindere dall’apparato scenico sottostante, hanno portato a definire il progetto della nuova arena. E le soluzioni adottate hanno, quale necessario presupposto, gli studi e le ricerche archeologiche che non si sono mai interrotti, cosí come quelli sul microclima, sulla risposta sismica, sulla stabilità e potenza delle fondazioni, oltre che sulla consistenza strutturale dei setti murari degli ipogei. Questa imprescindibile mole di informazioni è stata organizzata e sistematizzata nel Documento di indirizzo alla progettazione realizzato nel dicembre del 2020 da un team di architetti, archeologi e restauratori, interno al Parco archeologico del Colosseo, costituito dal Responsabile Unico del Procedimento Cristina Collettini e dai progettisti Federica Rinaldi, Barbara Nazzaro, Angelica Pujia, con l’apporto esterno, per gli aspetti strutturali, dell’ingegnere Stefano Podestà. La gara di progettazione, pubblicata dalla Centrale di Committenza Invitalia SpA, è stata vinta dal Raggruppamento Temporaneo di Progettazione costituito da Milan Ingegneria per la parte strutturale, Fabio Fumagalli e Labics per la parte architettonica, Consilium per gli impianti e Croma per il restauro. Il nuovo piano
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dell’arena del Colosseo risponde completamente alle linee di indirizzo del PArCo: tutela e conservazione con impiego di scelte strutturali e costruttive altamente tecnologiche e finalizzate all’ecosostenibilità a lungo termine, oltre che all’accessibilità per tutti. La struttura sarà leggera e completamente reversibile e richiamerà, sia nella forma, che nel funzionamento, il piano originario di età flavia.
Una struttura leggera e duttile Il nuovo piano sarà realizzato con materiali estremamente leggeri e performanti, tali da consentire una sezione strutturale particolarmente sottile che permette l’assoluta assenza di interazione tra le nuove strutture e le emergenze archeologiche. Il piano sarà realizzato, infatti, con una struttura portante in acciaio e lamelle in carbonio rivestite in legno, che possono ruotare e traslare per permetterne
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l'apertura in diverse configurazioni a riprodurre gli spazi degli originari montacarichi, ascensori e piattaforme inclinate nelle varie epoche, in particolare nelle due principali fasi: quella flavia e la successiva dell’età dei Severi; tali configurazioni risultano gestibili da remoto e monitorate insieme ai dati ambientali, per ottimizzare i cicli di apertura e chiusura, soprattutto in funzione della gestione del microclima negli ipogei. Parapetti perimetrali dotati di cancelli permetteranno di isolare il piano in momenti prestabiliti e sistemi di sicurezza impediranno l’attivarsi delle lamelle in presenza di persone. Tali movimentazioni potranno essere realizzate senza interrompere la fruizione della visita nel resto del monumento e senza che alcuna parte delle strutture archeologiche, se non quella sommitale delle creste, venga nascosta alla vista; anzi, l’attivazione dei meccanismi
Rendering che evidenzia la possibilità di modificare la configurazione dell’arena, in particolare ruotando le lamelle dei corridoi centrali al fine di ottimizzare la gestione del microclima ipogeo (Milan Ingegneria, Fabio Fumagalli, Labics, Consilium, Croma).
produrrà nuove ed emozionanti visuali, amplificando l’impatto dell’ingresso della luce naturale negli ipogei e svelandone la consistenza al pubblico. L’ecosostenibilità sarà raggiunta grazie a due principali elementi. Il primo è che il legno utilizzato per il piano di calpestio dell'arena sarà proveniente da «foreste sostenibili» e sarà modificato con tecnologia cosiddetta Accoya: un processo di acetilazione di legni che ne aumenta resistenza e durabilità e non necessita di manutenzione. Il secondo prevede che il nuovo piano dell’arena, oltre a proteggere le strutture sottostanti dagli agenti atmosferici, assicuri anche il recupero dell'acqua piovana, consentendo un significativo risparmio del carico idrico necessario per tutte le esigenze del Parco archeologico del Colosseo. Contestualmente, per assicurare un risparmio energetico, i motori delle pompe saranno tutti a
inverter e l’illuminazione dei sotterranei, restituiti all’originaria atmosfera, sarà di ultimissima generazione, con tecnologia a led a basso consumo e lunghissima durata. Da evidenziare, tra l'altro, che il piano sarà impostato in modo da permettere la corretta relazione in tutti i punti di contatto tra l’esistente e il nuovo. Grazie a questo progetto l’estensione totale della copertura dell’arena raggiungerà circa i 3000 mq di superficie, ovvero 4 volte e mezzo quella odierna. Il nuovo piano dell’arena adempirà, in estrema sintesi, nello stesso tempo a diverse funzioni: conservare le strutture archeologiche degli ipogei, restituire l’immagine originaria del monumento e quelle assunte nei secoli, ripristinare percorsi e funzioni andate perdute nel tempo – con piena accessibilità per tutti, permettere l’uso del piano stesso per il semplice attraversamento.
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E l’esperienza di visita del monumento cambierà quindi in modo radicale, sia dalla cavea che dal centro del monumento.
Una visione completa Lo spazio del Colosseo potrà essere dunque percepito nella sua completezza e maestosità. Anche il parapetto perimetrale del piano non sarà solo un elemento di sicurezza, ma diventerà elemento architettonico – ricreando la suggestione del muro del podio – e museografico, offrendo il collocamento per i blocchi in marmo che riportano l’iscrizione in origine posta sopra il muro, cosí da riproporre,
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almeno idealmente, una lettura filologicamente piú corretta, esaltandone l’importanza e aumentandone la visibilità. Infine, la realizzazione del nuovo piano dell’arena, garantendo una superficie piana e omogenea e consentendo l’accesso in quota con la Porta Libitinaria e con la Porta Triumphalis, rappresenterà un eccellente hub in grado di raccogliere i flussi dei visitatori provenienti da diverse direzioni, redistribuendoli secondo un principio di assoluta efficacia, riducendo le minime distanze da percorrere e, soprattutto, restituendo uno spazio di visita pienamente accessibile per chiunque.
Rendering dell’asse trasversale del piano con le lamelle dei corridoi centrali ruotate e traslate al fine di restituire la visione delle strutture ipogee dall’alto (Milan Ingegneria, Fabio Fumagalli, Labics, Consilium, Croma).
Per la realizzazione del piano sono stimati due anni di lavori durante i quali le attività si svolgeranno per settori, senza mai precludere la visita del monumento e degli ipogei recentemente riaperti al pubblico, dopo due anni di restauri. La demolizione dell’attuale piano dell’arena, risalente al 2000, sarà realizzata per ultima. Sono inoltre previste le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’opera realizzata per una durata di 5 anni dal collaudo. Nei criteri relativi all’offerta migliorativa è prevista l’attribuzione di punteggi piú alti agli operatori economici che forniranno un incremento del
periodo di manutenzione e di assistenza alla Stazione Appaltante per l’utilizzo dei sistemi di gestione e controllo. Con la realizzazione della nuova arena, inoltre, sarà possibile proporre eventi artistici di altissimo livello, rivolti a un pubblico non piú fruitore passivo di uno spazio musealizzato, ma pienamente partecipe delle emozioni che la cultura, in tutte le sue espressioni, è in grado di offrire. Il Colosseo, quindi, quale sorgente vivificante della creatività contemporanea in un dialogo permanente e fecondo con i valori e le manifestazioni artistiche della classicità. Alfonsina Russo
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Il cantiere del Colosseo
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a complessa ancorché perfetta struttura dell’Anfiteatro Flavio necessita di uno sguardo multidisciplinare che spazia dall’architettura, all’archeologia, alla storia dell’arte, senza trascurare la geologia, l’idraulica, il controllo ambientale e climatico, arrivando persino allo studio dei flussi antropici e alla loro interazione con la conservazione del monumento. Qualsiasi strategia di intervento per la tutela e la valorizzazione del Colosseo non può quindi prescindere da una visione di insieme che tenga conto di queste esigenze. Le attività che il Parco archeologico del Colosseo, sin dalla sua costituzione nel 2018, sta portando avanti si sono intensificate negli anni 2020-2021, favorite dall’assenza di pubblico in conseguenza della situazione sanitaria mondiale. Gli obiettivi, che proseguiranno nel triennio 2022-2025, sono sottesi innanzitutto all’approfondimento della conoscenza, quindi alla conservazione, infine a una fruizione piú consapevole da parte del pubblico che, grazie alla comunicazione e alla disseminazione scientifica, viene aggiornato sull’avanzamento dei lavori, coinvolto, informato, e sensibilizzato. A oggi, oltre al Grande Progetto di ricostruzione del piano dell’arena, il Colosseo continua a essere interessato anche da interventi piú mirati, che intendono salvaguardarne la dimensione unitaria, in un difficile equilibrio di azioni che nello stesso tempo non devono interromperne la conoscenza e fruizione.
Un articolato piano di interventi In particolare, i progetti in corso spaziano dalle fondazioni originarie del monumento – tra cui le indagini archeologiche e il rilievo topografico del complesso sistema idraulico di cui si intende comprendere distribuzione e funzionalità – fino alle superfici murarie della controfacciata nord, interessate sin dal XIX secolo da estesi interventi di consolidamento, reintegro e restauro e ora oggetto di un programma di lavori di manutenzione straordinaria che permetteranno di interfacciare
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i dati con gli elementi conoscitivi emersi dopo i lavori delle facciate esterne sponsorizzati dal primo lotto di interventi di Tod’s spa. Gli interventi di restauro dei primi anni del XIX secolo (curati, tra gli altri, da Raffaele Stern e Giuseppe Valadier) hanno mirato a porre rimedio allo stato di rovina con interventi di consolidamento tradottisi nell’aggiunta di nuovi elementi strutturali per provvedere alla perduta continuità geometrica-costruttiva fondamentale per un buon comportamento strutturale. Anche gli interventi guidati da Gaspare Salvi
Sulle due pagine i cantieri di restauro allestiti nel Colosseo.
(1835-1849) e Luigi Canina (1850-1852) hanno inteso ricreare il miglioramento del comportamento d’insieme. Tra questi due opposti settori si collocano i diversi ambiti della cavea che saranno oggetto di interventi di consolidamento e messa in sicurezza: è il caso, a sud, del fornice V, propedeutico agli urgenti interventi di restauro delle superfici decorate in marmo, stucco e a fresco del cosiddetto Passaggio di Commodo; o, a nord, della cosiddetta galleria intermedia di collegamento tra il II e il III livello, anche in
previsione di un ampliamento della fruizione e della accessibilità per tutte le categorie di pubblico. In particolare, la galleria, aperta parzialmente al pubblico e oggetto di ricerche per la presenza di numerosi graffiti dipinti (tituli picti) riguardanti numerali, nomi propri, simboli, è stata, in passato, interessata da lavori di riqualificazione soltanto per la parte coperta. È ora in corso un articolato programma di lavori di manutenzione straordinaria, consolidamento e messa in sicurezza sia delle superfici murarie – che presentano un esteso fenomeno di
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approntare una documentazione utile a ricostruire le fasi costruttive del monumento. Le analisi delle murature saranno anche finalizzate alla lettura di come il tempo abbia «lavorato» sulle superfici del Colosseo, almeno con l’individuazione dei fenomeni di degrado e quadri fessurativi, senza dimenticare l’aspetto strutturale e, in ultima istanza, ancorché prioritaria l’analisi di vulnerabilità sismica. Il modello tridimensionale ad alta definizione costituirà dunque la base imprescindibile della banca dati del Colosseo: uno strumento di conoscenza alla base di ogni progetto di manutenzione e valorizzazione.
La riqualificazione della piazza
Sulle due pagine immagini delle impalcature montate in settori diversi dell’anfiteatro.
degradazione e alterazione anche con evidenti difetti di adesione (che interessano paramenti murari, travertini, intonaci) –, sia di quelle pavimentali in opus spicatum. Inoltre, per la prima volta, il Colosseo sarà finalmente oggetto di una estesa attività di rilievo geometrico 3D con metodologie geomatiche integrate: lo stato di conservazione dell’anfiteatro, la necessità di un monitoraggio costante della sua «salute», e quindi la necessità di una base di conoscenza «centimetrica» delle sue superfici hanno reso indispensabile inserire il monumento in una estesa campagna di rilievo tridimensionale ad alta definizione per l’intera superficie. Il rilievo avrà come finalità la mappatura dei materiali lapidei impiegati, le tecniche costruttive e la stratigrafia muraria per
Infine, nell’ambito della progettualità complessiva rientra anche l’importante impegno per la riqualificazione della «piazza del Colosseo», in realtà il settore meridionale del monumento, dove sono ancora presenti gli interri archeologici originari e dove è in programma, dopo lo scavo, una completa riqualificazione che dovrà suggerire gli anelli mancanti crollati a partire dai secoli post antichi con una nuova pavimentazione in travertino. Ma non basta. Oggi il Colosseo appare come uno scheletro privo della sua pelle. Duemila anni di uso e funzioni diverse, mutate assieme alle differenti esigenze e ai cambiamenti a cui la stessa città di Roma è andata incontro, hanno privato l’Anfiteatro Flavio dei materiali di pregio che in antico lo rivestivano: il marmo bianco per la cavea; gli intonaci dipinti, con predominanza del rosso e del bianco, per le gallerie e i passaggi interni; ancora marmi colorati per la porticus in summa cavea, ma anche i pulpita e probabilmente i palchi imperiali e i percorsi per raggiungerli coperti da volte decorate con stucchi figurati. A questo materiale di pregio sono dedicati studi di settore specifici, finalizzati anche alla catalogazione, studio e valorizzazione dei reperti mobili, indispensabili per la comprensione della forma originaria del monumento. Barbara Nazzaro, Angelica Pujia e Federica Rinaldi
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LA DOMUS AUREA LA GRANDIOSITÀ DELLA RESIDENZA DI NERONE È DIVENUTA LEGGENDARIA, MA OGGI SOPRAVVIVE SOLTANTO IN UNA PARTE DEL COMPLESSO ORIGINARIO. CHE, TUTTAVIA, OFFRE UN SAGGIO ELOQUENTE DELLA MAGNIFICENZA DI UNA DIMORA GRANDE COME «UNA CITTÀ» di Luciano Frazzoni
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Sulle due pagine ricostruzione virtuale della Domus Aurea: sulla destra è il palazzo innalzato sul Colle Oppio, la sola porzione del complesso giunta fino a noi, perché utilizzata nelle fondazioni delle Terme di Traiano. Gli edifici di questo settore della Domus digradavano verso la valle in cui Nerone fece realizzare un grande stagno artificiale, al di là del quale sorse un grande vestibolo-atrio che accoglieva la statua colossale dell’imperatore come dio Sole (ricostruzione virtuale Katatexilux).
rande dovette essere lo stupore dei primi artisti-esploratori che nel XV secolo, calandosi come funamboli dai campi sul colle Oppio attraverso le aperture praticate sulle volte degli ambienti interrati della Domus Aurea, poterono ammirare, alla luce fioca e tremolante delle fiaccole, le splendide decorazioni che ornavano la sontuosa dimora di Nerone, popolate da creature reali e fantastiche come arpie, satiri, priapi, tigri, uccelli, caproni. Sembra che il primo sia stato Pinturicchio nel 1478, anche se la data piú antica graffita sugli intonaci risale al 1495, da parte di un certo Bacio, forse l’architetto fiorentino Baccio d’Agnolo. La riscoperta di questo apparato decorativo portò all’esplosione di una vera e propria moda, quella delle «grottesche», praticata per l’intero Rinascimento e anche oltre e il cui iniziatore fu proprio il Pinturicchio. Il termine per definire queste decorazioni ispirate alle pitture della Domus Aurea deriva proprio dal fatto che gli ambienti della residenza si presentavano ai visitatori (costretti a camminare spesso carponi nelle varie stanze interrate) come vere e proprie grotte. Il sinonimo di «raffaellesche» per questo tipo di pittura si deve invece a Raffaello, che fu il primo a identificare in quelle strutture sepolte i resti della Domus Aurea di Nerone, come scrive in una lettera a Leone X del 1519.
Nove giorni di devastazione La storia di queste pitture aveva avuto inizio molti secoli prima, nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C., quando da una bottega del Circo Massimo, favorito dal forte vento caldo estivo, si sviluppò uno dei piú grandi incendi della storia di Roma, dovuto a un fatto casuale e che, in nove giorni, distrusse gran parte dei 14 quartieri in cui era divisa la città, solo quattro dei quali rimasero intatti. Benché le fonti storiche siano scarse, occorre sfatare il mito della notizia secondo cui l’incendio fu voluto da Nerone. E falso è anche l’episodio, riportato da Svetonio, Tacito e Cassio Dione, secondo il quale l’imperatore avrebbe contemplato
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DOMUS AUREA
l’incendio dagli Horti di Mecenate declamando versi sulla distruzione di Troia abbigliato con abiti scenici: quando divamparono le fiamme, il principe si trovava infatti nella sua villa di Anzio, e, anzi, appena saputo del disastro, ritornò a Roma, dove organizzò i soccorsi alla popolazione. Ciononostante, alimentata dalla superstizione del popolo romano e dai senatori contrari a Nerone, cominciò a spargersi la voce che l’incendio fosse stato causato dall’imperatore, il quale, per sviare i sospetti contro la sua persona, pensò bene di addossare la colpa sulla comunità dei cristiani. Ma questa è un’altra storia. È vero invece che Nerone approfittò della situazione, appropriandosi dello spazio urbano compreso tra Palatino, Velia, Esquilino e Celio per costruire la sua nuova e sfarzosa dimora, dato che anche la sua precedente residenza, la Domus Transitoria, era stata in gran parte danneggiata dalle fiamme.
Una residenza sterminata Con lo sgombero delle macerie degli edifici distrutti dall’incendio e il recupero dei materiali (le fonti antiche riportano che Nerone utilizzò addirittura macchine belliche per abbattere le costruzioni rimaste e liberare l’intera area), questa parte della città, prima appartenuta ai Romani, fu occupata dalla residenza esclusiva di Nerone, la Domus Aurea, di cui Svetonio fornisce una precisa immagine: «L’ampiezza della casa era tale, da includere tre portici miliari e uno stagno, anzi piuttosto un mare, circondato da edifici grandi come città. Alle spalle, ville con campi, vigneti e pascoli, boschi pieni di ogni specie di animali domestici e selvatici» (Nerone, 31). Lo stesso Svetonio riporta alcuni versi satirici scritti dal popolo per criticare la grande dimora imperiale: «Roma ormai è una sola casa. Emigrate a Veio, o Quiriti, a meno che questa casa non occupi anche Veio!». Nell’area occidentale, ora occupata dal Tempio di Venere e Roma, sorse il vestibolo-atrio della Domus Aurea, dove era collocata anche la statua colossale di Nerone come dio Sole. Da qui una serie di edifici
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terrazzati digradava verso un grande stagno artificiale scavato ex novo: di forma quadrangolare, questo stagnum era circondato da portici su tre lati, con una superficie di circa tre ettari e mezzo (quella occupata successivamente dal Colosseo è di circa mezzo ettaro). L’invaso era alimentato dall’acquedotto Claudio attraverso il ninfeo posto sul Celio, che sfruttava le sostruzioni del Tempio del Divo Claudio (le cui grandi nicchie sono ancora visibili su via Claudia). La parte orientale della valle, attualmente compresa tra via Labicana, via di S. Giovanni in Laterano, via Capo d’Africa e via dei Santi Quattro Coronati, era priva di edifici, ed era destinata a giardino della Domus Aurea.
La Sala Ottagonale, fulcro dell’intero padiglione del Colle Oppio. Con la corona dei suoi ambienti radiali, rappresenta un esempio straordinario e innovativo per concezione spaziale e arditezza costruttiva.
La sfarzosa residenza neroniana, ispirata alle dimore dei re ellenistici (in particolare al palazzo tolemaico di Alessandria), e che corrispondeva all’ideale di Nerone di vivere come un monarca orientale, occupava un’area complessiva di circa 80 ettari e si estendeva tra il Palatino, la Velia, l’Esquilino, inglobando gli Horti di Mecenate e gli Horti Lamiani, il Celio, dove il grande tempio dedicato a Claudio fu trasformato in un enorme ninfeo, e la valle in cui si trovava il grande stagno, poi occupata dal Colosseo; resti sono stati trovati inoltre presso la chiesa di S. Pietro in Vincoli. Una residenza immensa, dunque, inserita in un nucleo urbano, che racchiudeva in sé l’intero universo, con mari, boschi, campagne e anche la volta
celeste; l’unica casa, a detta dello stesso Nerone, degna di essere abitata da un uomo. Già prima dell’incendio del 64 d.C., Nerone aveva iniziato a costruire la sua residenza, la Domus Transitoria, che doveva collegare i possedimenti imperiali sul Palatino e sull’Esquilino (da qui il nome di «casa di passaggio»), ma anch’essa venne danneggiata dal fuoco (ne rimangono alcuni ambienti sul Palatino, sotto la Cenatio Iovis della Domus Flavia, noti come «Bagni di Livia»). Caratterizzata da padiglioni alternati a boschetti, fontane, ninfei, anche questa residenza si rifaceva alle regge dei sovrani orientali. L’enorme complesso della Domus Aurea si deve a due architetti, i cui nomi ci sono stati tramandati da Tacito (Annali, 15.42), Severo e Celere, mentre l’apparato decorativo costituito dalle splendide pitture si deve a Fabullus (o Famulus, Famulis, Amulius secondo altre letture), che, come ricorda Plinio (Naturalis Historia, 35.120) dipingeva indossando la toga anche quando si trovava sulle impalcature. Oltre ai rivestimenti con pregiati marmi colorati, affreschi e stucchi, la Domus Aurea presentava ambienti dalle pareti decorate con mosaici policromi, spesso con pannelli ornati da conchiglie, come nel ninfeo in cui è rappresentato Ulisse che offre il vino a Polifemo. I pavimenti erano invece rivestiti da opus sectile con marmi colorati o, in alcuni casi, da mosaici in bianco e nero. La fretta con cui gli architetti si trovarono a operare per realizzare un cosí grandioso progetto, compiuto tra il 64 e il 68 d.C., anno della morte di Nerone, portò a riutilizzare anche alcune strutture preesistenti, che hanno condizionato la pianta di alcuni ambienti. Da Cassio Dione sappiamo, tra l’altro, che nel 69 d.C. alcune parti della dimora erano ancora incompiute.
Salvo grazie al riuso Del complesso si conserva ancora oggi, ed è tornato a essere visitabile dopo accurati restauri e lavori di messa in sicurezza, il palazzo sul Colle Oppio, salvatosi dalla distruzione perché interrato e inserito nelle fondazioni delle
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DOMUS AUREA
Terme di Traiano (tra il IV e il VI secolo, in uno degli ambienti non interrati, si impianta anche un piccolo oratorio cristiano dedicato a santa Felicita e ai suoi sette figli martiri). Se il riuso ne ha permesso la conservazione, ne ha tuttavia modificato l’aspetto. Gli ambienti che oggi si presentano bui e sotterranei, e in gran parte spogliati dei loro ricchissimi apparati decorativi, dovevano infatti essere sfarzosi e luminosi. Le murature di sostegno delle sovrastanti Terme traianee, ne hanno inoltre stravolto anche la planimetria. Recenti indagini archeologiche hanno portato a modificare l’idea di una struttura nettamente divisa in due settori, cioè la parte nel lato ovest organizzata intorno a un grande cortile rettangolare, su uno dei lati brevi sul quale si apre il grande ninfeo con Ulisse e Polifemo, e la parte orientale con il cortile pentagonale (al centro del quale è la Sala della Volta Dorata) e gli ambienti disposti intorno alla Sala Ottagonale, con una disposizione «disordinata» dei muri di raccordo tra questi due settori. Si è invece accertato che, sfruttando questi muri e alcuni ambienti, facenti parte di un piú antico complesso di magazzini, gli architetti neroniani realizzarono un complesso unitario su questa parte del Colle Oppio, incentrato sulla grande Sala Ottagonale, con strutture simmetriche ai lati: su entrambi i settori occidentale e orientale dovevano trovarsi due cortili pentagonali e probabilmente due cortili rettangolari, con ambienti che si aprivano verso la valle del grande stagno. Il lungo criptoportico alle spalle del complesso di ambienti disposti nella parte centrale con l’aula ottagona fungeva da raccordo tra queste due parti laterali della grande residenza.
Alla scoperta delle «grottesche» La visita comincia da un’apertura nelle sostruzioni dell’emiciclo delle Terme di Traiano, da cui si giunge nel settore occidentale, organizzato intorno al cortile rettangolare, in origine circondato da portici su tre lati, mentre quello di fondo sul lato nord era chiuso da un criptoportico utilizzato come intercapedine e
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sostegno del terrapieno retrostante. Al centro era un bacino con funzione di fontana. Nel lato sud si dispongono due file di ambienti che si affacciano sul cortile e verso l’esterno, divisi in due da un ambiente centrale, la Sala della Volta delle Civette. Neli ambienti ai lati, tra cui la Sala della Volta Nera e la Sala della Volta Gialla, si possono ammirare le ricche decorazioni pittoriche, probabilmente dovute allo stesso Fabullus, che vennero riprodotte dagli artisti del XVI secolo, dando origine alla moda delle «grottesche». Sul lato orientale del cortile, si trova il grande Ninfeo di Ulisse e Polifemo (rappresentati su una volta entro un grande ottagono a mosaico con tessere di pasta vitrea: Ulisse sta porgendo al ciclope una coppa di vino) originariamente diviso in due ambienti, uno con affaccio sul cortile, l’altro, con una fontana a cascata sulla parete di fondo da cui l’acqua confluiva in un bacino centrale, dapprima illuminato da sei finestre, tre per lato, poi chiuse e trasformate in nicchie per statue. In un ambiente di fianco al ninfeo sono ancora
Pannello dipinto con scene tratte dal ciclo troiano nella Sala di Ettore e Andromaca.
Il pannello dipinto centrale della volta della Sala di Achille a Sciro.
presenti due delle poche statue rivenute nella Domus Aurea e appartenenti a un ciclo di muse, simbolica rappresentazione dell’amore di Nerone per le arti: Tersicore, musa della poesia lirica e, in due frammenti, Talia, musa della commedia e della poesia leggera. Si passa quindi nel settore del grande cortile pentagonale, su cui affacciano vari ambienti; quello centrale, piú ampio, è la famosa Sala della Volta Dorata, in cui si conservano oggi le decorazioni a stucco della volta, celebrata dagli artisti del Rinascimento. Proseguendo ancora verso il settore orientale, si incontra un lungo criptoportico, il cui tratto meridionale è incentrato sulla Sala ottagonale, in origine aperta sulla valle verso lo stagno. La caratteristica di questo grande ambiente, da interpretare come una sala per banchetti (anche se probabilmente non si tratta della coenatio rotunda descritta da Svetonio, la sala rotonda che ruotava giorno e notte come la terra, da collocare invece, secondo recenti scavi, sul Palatino nell’area della grande terrazza nella parte nord del palazzo dei Flavi,
dove era il tempio di Sol-Elagabalus, poi occupata dalla Vigna Barberini e dalla chiesa di S. Sebastiano) è la copertura a cupola con grande apertura centrale – come quella del Pantheon – che da otto spicchi passa, senza l’utilizzo di pennacchi, a superficie emisferica. Da questa grande sala si dipartono, disposti a raggiera, altri ambienti, che formano uno dei complessi piú originali dell’architettura romana. Al centro, sul lato nord, è la Sala Absidata, un grande ninfeo dove l’acqua giungeva sulla parete di fondo passando sopra il criptoportico. Due ambienti laterali, tra loro simmetrici ed entrambi absidati, conservano notevoli decorazioni pittoriche: sul lato ovest, la Sala di Achille a Sciro presenta sulla volta a botte un pregevole pannello con l’episodio di Achille, nascosto tra le figlie del re Licomede, smascherato da Ulisse, mentre sul versante est, nella Sala di Ettore e Andromaca, sono visibili in due riquadri altri episodi omerici, ossia l’incontro di Paride ed Elena, e l’ultimo saluto di Ettore alla moglie Andromaca.
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Luce Aurea
N
ella Domus Aurea, la smisurata reggia che l’ultimo imperatore della gens giulio-claudia si fece costruire nel cuore di Roma (e che peraltro probabilmente non riuscí mai ad abitare), la luce era molto di piú di un semplice elemento atmosferico. Nerone concepí la villa come la casa della divinità solare, di cui volle rappresentare l’immagine terrena, e il nome aurea le derivò, con ogni probabilità, dall’idea che la luce dorata dovesse penetrare all’interno degli spazi architettonici pervadendone in profondità ogni piú intimo recesso. I due architetti Severo e Celere sono noti dalle fonti antiche come magistri et machinatores, evidentemente anche per la loro capacità di manipolare la luce aurea dei giorni assolati di Roma come un vero e proprio materiale da costruzione, al pari di calce e mattoni. Fu l’architetto di Traiano, Apollodoro, a condannare all’oscurità le sale della Domus, e del padiglione del Colle Oppio in particolare, tombando gli ambienti della villa per farne strutture di fondazione delle soprastanti terme imperiali. Dalla luce piena che pioveva copiosa nelle sale della Domus si è passati al buio quasi assoluto dei rinterri traianei, spezzato soltanto, molti secoli dopo, dalle luci delle torce dei pittori rinascimentali che si calavano in quelle che pensavano fossero antiche «grotte» per riscoprire, meravigliati e attoniti, i colori «umidi e floridi» dell’antico. Nella Domus Aurea, dunque, la luce è da sempre un elemento identitario di straordinario interesse (tanto nella sua abbondanza quanto nell’assenza) al punto da rendere delicato qualsiasi approccio moderno al tema dell’illuminazione. Quando si è deciso di sostituire il vecchio impianto con lampade a scarica dei primi anni 2000, con un nuovo sistema a LED, certamente piú adeguato all’evoluzione tecnologica illuminotecnica, è emersa immediatamente la necessità di individuare una filosofia generale dell’intervento, che
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potesse essere rispettosa dei valori semantici e identitari insiti nelle modalità di illuminazione degli ambienti. Rispetto al vecchio apparato di luci, che aveva diversi problemi di gestione, oltre che un notevole impatto a livello di tutela (le elevate temperature generate, in ambienti ad alta umidità relativa, determinavano presenza di attacchi biologici e formazione di muffe e licheni in corrispondenza dei coni luminosi prodotti dagli apparecchi) si è scelto di utilizzare un impianto a LED governato da un sistema di gestione preso in prestito dalla domotica, nel quale l’accensione dei diversi scenari fosse comandato da una serie di sensori di passaggio e da pulsantiere bluetooth. L’intero allestimento, inaugurato in occasione della mostra «Raffaello e la
Un’immagine dei suggestivi effetti creati dal nuovo impianto di illuminazione della Domus Aurea.
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Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche», è stato diviso in nove settori, il cui livello di illuminamento è stato portato inizialmente a un valore molto basso, atto solo ad assicurare il minimo consentito a garantire la sicurezza. In questo modo il livello dell’esposizione, ossia il prodotto dell’illuminamento per il periodo di accensione delle lampade, è stato ridotto,
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contando di abbattere per quanto possibile i problemi legati agli attacchi biologici. Al passaggio del pubblico e delle persone in visita i sensori mandano l’impulso alla rete del settore coinvolto, che inizialmente abbassa quasi a zero il livello di illuminamento per poi portarlo ai valori studiati per la visita. L’effetto che si è voluto ricreare è quello della riscoperta: un
Uno scorcio del complesso neroniano e uno dei nuovi pannelli di supporto alla visita (ricostruzione virtuale Katatexilux).
repentino ed emotivo passaggio dall’oscurità alla luce soffusa delle torce, come dovette apparire ai pittori rinascimentali. Anche per questo la temperatura di colore scelta per l’illuminazione dal basso va dai 3000 K ai 2700 K, rimanendo quindi calda e vicina al riverbero del fuoco delle fiaccole dei primi scopritori. In alcuni ambienti specifici,
tuttavia, si è voluto provare a rispristinare gli straordinari effetti progettati dagli antichi architetti, simulando i giochi di luce naturale provenienti dalle bocche di lupo poste in radenza alle volte stuccate. Qui gli apparecchi luminosi raggiungono una temperatura di 4000 K, a simulare tono e colore della diafana luce di Roma. Il controllo con pulsantiere bluetooth permette alle guide di spegnere l’illuminazione «rinascimentale» e di accendere quella «antica» consentendo ai visitatori di cogliere quanto gli aspetti percettivi (ed emotivi) dello spazio possano modificarsi in rapporto alla qualità e alla modalità dell’illuminazione.
Come fenditure luminose Anche la pannellistica di supporto alla fruizione è stata interamente ripensata in funzione della luce. I pannelli sono stati concepiti come fenditure luminose (retroilluminate), di forma quadrata, apparentemente sospese ed emergenti dalla penombra del monumento. I supporti esili e longilinei in acciaio corten sono pensati quasi per scomparire nel buio degli ambienti, permettendo ai contenuti di affiorare dall’oscurità come immaginarie «finestre sul tempo». Tre sono stati gli aspetti che fin da subito hanno vincolato il processo di ideazione: i pannelli si sarebbero inseriti in un bene, nel quale, per assicurare la conservazione le visite erano (e sono tuttora) contingentate e guidate, accompagnando i fruitori verbalmente nella storia del monumento e il supporto doveva quindi essere piú fotografico che scritto, prediligendo un testo sintetico. In linea con gli aspetti innovativi che già caratterizzavano la visita in Domus Aurea con la realizzazione delle installazioni multimediali di videomapping e dei visori in realtà virtuale (attivi dal 2017), anche i pannelli avrebbero dovuto rispecchiare questa filosofia, fornendo un prodotto di supporto originale e specifico per il luogo.
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L’esperienza immersiva delle produzioni multimediali doveva essere riprodotta nell’impostazione del pannello, preferendo un numero limitato di immagini di grande formato. Fermo restando il supporto, progettato contestualmente e pensato per adattarsi alle molteplici necessità del luogo, e le dimensioni del formato prescelto (1 x 1 m), i pannelli sono stati ideati per due funzioni diverse: quattro elementi avrebbero rappresentato delle viste «diacroniche» e gli altri undici sarebbero stati intesi come supporto alla visita. Il primo gruppo dunque è stato caratterizzato da ricostruzioni virtuali degli spazi neroniani da specifici punti di vista scelti lungo il percorso di fruizione. Le immagini ricostruttive, elaborate dallo studio Katatexilux, hanno occupato l’intera superficie del pannello (1 mq), enfatizzando l’intento immersivo dell’idea. I punti di vista ricostruiti sono stati scelti fra quelli che avrebbero restituito maggiormente, al visitatore, il risultato dell’ingegno architettonico votato alla gestione sapiente della luce in rapporto alla matericità e ai colori delle superfici. Il secondo gruppo di pannelli doveva invece tener conto di piú variabili, conciliando sia esigenze grafiche che di contestualizzazione. L’obiettivo era quello di creare qualcosa di specifico per la Domus Aurea, qualcosa che potesse essere istallato soltanto in questo luogo. Per questo motivo nella fase ideativa si è studiato lo spazio grafico a disposizione e contemporaneamente approfondito l’analisi del contesto per poterne dedurre elementi identificativi da riprodurre, realizzando con il prodotto finale la sistematizzazione dei due «ingredienti». Come già detto, il pannello avrebbe dovuto accogliere immagini di grandi dimensioni, ma anche con differenti rapporti di forma. L’amministrazione aveva a disposizione un nutrito archivio fotografico, frutto di un grande lavoro di catalogazione eseguito in passato, che testimoniava uno stato di
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conservazione in molti casi a oggi non visibile. Come si può tuttavia immaginare, questo archivio si componeva di file di diversa natura, derivanti dalle varie tecnologie di ripresa succedutesi nel tempo (foto analogiche digitalizzate e immagini native digitali); ciò ha determinato la presenza di varie risoluzioni e diversi formati, che la progettazione avrebbe dovuto ricondurre a un format unitario.
Rapporti geometrici «Si prende un quadrato, per esempio, e ci si diverte a suddividerlo secondo le misure del Modulor. Questo gioco è senza limite». Cosí scriveva nel 1948 Le Corbusier a proposito del suo concetto di «modulo» e
Sulle due pagine altre immagini del nuovo impianto di illuminazione della residenza di Nerone e dei pannelli installati per agevolarne la fruizione.
questo è stato anche il gioco che ha guidato la combinazione grafica dei pannelli. In questo caso si è scelto che la suddivisione fosse il frutto dell’applicazione continua e reiterata della costruzione della Sezione Aurea. Ma perché tale formula non venisse considerata un elegante «gesto» geometrico privo di uno specifico legame con il monumento, era necessario identificarne uno specifico rapporto identitario con qualche elemento della Domus. La ricerca è partita da quegli ambienti voltati dove la maglia compositiva di affreschi e stucchi è ancora ben apprezzabile. In particolare ciò avviene nella Sala di Achille a Sciro, in quella di Ettore e Andromaca e nella sala cosiddetta della Volta Dorata. Nell’ultima, la griglia compositiva si avvale, a differenza delle altre due, di linee rette, ma anche curve, e rappresenta un punto focale dell’intero monumento. Già a un primo sguardo, questa composizione geometrica si sposava molto bene con l’eterogenea suddivisione
spaziale di cui il pannello aveva bisogno e straordinario è stato individuare nella stessa griglia i rapporti della proporzione aurea, perfettamente sovrapponibili con l’originaria idea progettuale. L’utilizzo mirato e caratterizzante del tondo, elemento curvo inscritto nel quadrato che occupa l’angolo della volta stessa, avrebbe dunque reso specifico l’intervento e arricchito l’angolo del pannello; accogliendo al suo interno tutte le informazioni dovute: denominazione dell’ambiente, numerazione progressiva dei pannelli, key plan, loghi istituzionali e una sintetica didascalia in due lingue. La restante parte, piú flessibile, avrebbe incorniciato le varie immagini. Infine, nell’ottica di rendere l’accessibilità al monumento completa e attenta alle disabilità visive, si è lavorato sulla calibrazione dei valori di contrasto fra le coppie di colori contigue, per garantire un livello di accessibilità «AA», in base alle linee guida «Web Content Accessibility Guidelines» (WCAG 2.0). Stefano Borghini e Livia Colopardi
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ITINERARI DI VISITA
GLI AUDITORIA DI ADRIANO NEL SOLCO DELLA RISISTEMAZIONE URBANISTICA AVVIATA DA TRAIANO PER REALIZZARE IL SUO GRANDIOSO FORO, IL SUO SUCCESSORE DISPOSE LA COSTRUZIONE DI UN COMPLESSO PUBBLICO, CON AULE DESTINATE AD ATTIVITÀ ORATORIE, GIUDIZIARIE, MA ANCHE DI INSEGNAMENTO di Antonella Rotondi
L’
area archeologica recintata compresa fra le odierne piazze della Madonna di Loreto e Venezia circoscrive i resti murari in laterizio di un monumentale complesso pubblico, costituito originariamente da tre aule collegate e prospicienti una strada o un percorso incluso nell’area del Tempio del Divo Traiano, risalente al II secolo d.C. Del complesso si possono ora riconoscere solo i resti di due aule, in quanto la terza si trova sotto il Palazzo delle Assicurazioni Generali e fu rinvenuta all’inizio del Novecento. I due vani ora
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visibili, maggiormente indagati dagli scavi condotti in occasione dei lavori per la realizzazione della Metro C a partire dal 2007, sono a pianta rettangolare con gradonate interne affrontate, divise da un corridoio centrale. L’aula meglio conservata è larga 12,80 m e lunga 22,30 e presenta resti del corridoio in lastre di granito grigio e giallo antico, delle balaustre e delle gradonate rivestite in marmi bianchi, anch’essi di importazione. Per motivi di conservazione le gradonate e il corridoio centrale sono stati coperti con tessuto non tessuto traspirante e sabbia di
In alto i resti delle aule degli Auditoria di Adriano. Nella pagina accanto ricostruzione virtuale che mostra la posizione degli Auditoria (in rosso) rispetto alle strutture del Foro di Traiano (in bianco; Progetto Katatexilux).
fiume setacciata, al fine di preservare sia le lastre conservate, sia le impronte che esse hanno lasciato sulla malta, divenute visibili per via della loro asportazione o distruzione, avvenute già in epoca antica. Quest’aula conserva anche, in evidente stato di crollo (dopo il forte sisma che colpí Roma dell’847), una parte della volta a botte di copertura, che presuppone l’esistenza di un piano sovrastante e, forse, di uno ulteriore a terrazza. In un mattone bipedale, che compone la ghiera di un suo arcone di scarico crollato a terra, è presente un bollo circolare orbicolato con la seguente legenda: MYRTILUS DOM LUCILL DE LICIN PAETIN ET APRON COS, riconducibile al 123 d.C., anno di consistente produzione di mattoni durante il principato adrianeo, nel consolato di Paetino e Aproniano. Le altre due aule presentano un identico schema compositivo, con gradonate in lastre e balaustre marmoree; dalle testimonianze di scavo, documentazione bibliografica e di archivio, il corridoio centrale era però differentemente rivestito: in lastre di portasanta e pavonazzetto, nell’aula
meridionale, e in lastre di portasanta e listelli di ardesia in quella settentrionale. Tutte avevano rivestimento parietale in marmi policromi e volte a botte cassettonate in stucchi policromi.
Alla maniera di Atene Il complesso monumentale può essere identificato con ampie sale pubbliche polifunzionali a vocazione culturale o giuridica, destinate a consessi, declamazioni, processi giudiziari, lectiones; viene pertanto definito Auditoria e, in base ai bolli laterizi (datati dal 123 al 125 d.C.), è stato attribuito all’attività edificatoria monumentale dell’imperatore Adriano, nell’ambito della piú vasta sistemazione dell’area già realizzata dal predecessore Traiano con la costruzione della Basilica Ulpia e della Colonna in luogo della collina della Velia. Realizzati in prossimità degli archivi e delle biblioteche della Basilica, gli Auditoria possono essere identificati con la Schola Traiani, o, molto piú probabilmente, con l’Atheneum, il ludus ingenuarium artium (Aur. Vitt., Caes., 14, 2-3), una sorta di università e/o di accademia che Adriano volle costituire in
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AUDITORIA DI ADRIANO
Ricostruzione virtuale dell’interno di una delle sale degli Auditoria, elegantemente decorata con stucchi e marmi policromi (Progetto Katatexilux).
Roma come spazio (o anche piú spazi) dedicato ad attività oratorie, di insegnamento o giudiziarie/politiche, ecc. a imitazione di quello di Atene. Ultima attestazione dell’utilizzo del sito come Auditorium pubblico nella seconda metà del V secolo è stato il rinvenimento di 2 basi di statua (una ancora in situ e una esposta al Colosseo) con iscrizioni dedicatorie da parte del Praefectus Urbi Fabius Felix Passifilus Paulinus (carica che ricoprí dal 450 al 496). Occupato nel corso del VI secolo da un’officina metallurgica per la fusione delle leghe di rame, divenne area sepolcrale nel VII e VIII, poi nel IX secolo, in seguito a un forte sisma, venne abbondonato e, nel XII-XIII, sulla rasatura dei crolli, vennero impiantate alcune calcare. Intorno al 1564, nell’ambito di una generale opera di ricostruzione del quartiere, sul sito delle aule sorse l’ospedale della Confraternita dei Fornari, demolito nel 1871 durante le sistemazioni della piazza legate agli espropri del nuovo Regno d’Italia con la successiva edificazione del Vittoriano, e al suo posto viene poi creata una sistemazione ad aiuola. Le aule visibili si sono conservate in modo almeno leggibile a causa della loro occupazione prima del chiostro/cortile dell’ospedale e poi dell’aiuola nell’ambito della sistemazione a verde della via dell’Impero (poi via dei Fori
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Imperiali) da parte dell’architetto paesaggista Raffaele De Vico negli anni 1931-32.
In accordo con l’orografia del sito La collocazione delle aule adrianee e la loro quota pavimentale (16,30 m slm), la loro vicinanza al Foro di Traiano e alla Platea Traiani – citata da Simmaco (Epist. VI, 37), ma ancora non ben definita nella sua specifica funzionalità e recentemente individuata sotto Palazzo Valentini (15,33 m slm) – la quota delle tabernae individuate lungo l’asse della via Flaminia sotto l’attuale piazza Venezia (da 14,30 a 13,60 m slm) possono far pensare all’edificazione di complessi coerenti con l’orografia del sito, ma anche, piuttosto, a una specifica pianificazione urbanistica. Quest’ultima, impostata già da Traiano, avrebbe previsto lo spianamento della Velia, ma anche la sistemazione urbanistica del complesso forense rispetto al prospiciente quartiere commerciale. Il complesso monumentale traianeo (Basilica, Colonna e Tempio) viene infatti concluso sul lato nord-occidentale, verso la via Flaminia, con un emiciclo monumentale composto da tre aule radiali con viabilità anulare a servizio, che, richiamando architettonicamente gli emicicli preesistenti della Basilica e dei Mercati, sembra contenere
Rendering che mostra lo sviluppo in elevato di una delle aule degli Auditoria a partire dai resti riportati alla luce nel corso degli scavi (Progetto Katatexilux).
e concludere, come un temenos, l’area del tempio. La cesura tra spazio commerciale e pubblico, all’interno di un piú vasto programma urbanistico iniziato da Traiano e perfezionato dal suo successore Adriano, sembra essere stata ulteriormente enfatizzata dalla mancanza di riempimenti e/o livellamenti nel punto di giunzione tra il muro di fondo occidentale degli Auditoria e la sottostante via Flaminia. Il differenziale di quote tra il piano delle aule e quello della strada con tabernae è di 2,50/2,70 m circa, che rappresenta infatti l’altezza del muro di fondo delle aule conservato. Esso veniva cosí a delimitare anche fisicamente lo spazio pubblico aulico forense posto piú in alto, sulla citata Platea, da quello piú basso propriamente commerciale. La restituzione 3D e la ricostruzione virtuale con contenuti multimediali degli Auditoria, frutto del rilievo ortofotogrammetrico e laser scanner, dell’analisi dell’apparato murario, architettonico, del rivestimento marmoreo, nella loro consistenza attuale, della storia del sito, dell’analisi delle fonti, dei dati d’archivio e bibliografici, dei reperti ivi rinvenuti, propone oggi con la esattezza scientifica del dato rilevato, l’originaria consistenza volumetrica, decorativa e di antica fruizione. Nel luglio 2021, in conferenza di servizi indetta
da Metro C e Roma Metropolitane, è stato presentato e approvato da vari enti interessati il progetto della Stazione Venezia della Metro C: delineato con il Parco archeologico del Colosseo, la Soprintendenza ABAP e il Vittoriano, condiviso anche con la Sovrintendenza BB.CC. di Roma Capitale, prevede dall’atrio della Stazione Venezia la possibilità di accedere direttamente a Palazzo Venezia e al Vittoriano mediante corridoi interrati e la fruizione anche degli Auditoria (a copertura dei quali verrà ricostituita l’aiuola sulla piazza della Madonna di Loreto) in un percorso conoscitivo e di adito che potrà condurre il visitatore, mediante un tunnel, a fuoriuscire nella Basilica Ulpia a nord della Colonna Traiana. Si potrà poi eventualmente proseguire la visita dei Fori imperiali fino al Foro di Cesare e al Foro Romano-Palatino-Colosseo, arricchendo un percorso unitario di fruizione, senza limiti territoriali di competenza statale e comunale, già possibile infatti dal Foro Romano al Foro Traiano/Basilica Ulpia. Nell’atrio della Stazione Metro Venezia verranno anche esposti reperti e strutture rinvenute nell’ambito dello scavo di piazza Venezia e degli altri corridoi a collegamento della Stazione con il Palazzo Venezia e il Vittoriano, oltre che inserita specifica pannellistica informativa.
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Monitoraggio e manutenzione per proteggere il patrimonio
N
egli ultimi decenni, nonostante i progressi volti alla protezione del patrimonio culturale in tutto il mondo, supportati dallo sviluppo delle tecnologie, molti siti di eccezionale valore hanno subito danni, a volte irreversibili, a causa di processi naturali, accelerati dal cambiamento climatico, o indotti dall’uomo, con insorgenza rapida o lenta. Per questo motivo è fondamentale anticipare, pianificare e ridurre il rischio di perdita dei beni culturali per proteggere piú efficacemente il patrimonio culturale e rafforzarne cosí la resilienza. E proprio in questo aspetto l’osservazione della Terra grazie alle immagini satellitari può svolgere una funzione di supporto, non solo per il controllo del territorio su vasta scala, ma anche perché, grazie all’evoluzione delle tecniche di interpretazione dei dati satellitari, è possibile identificare eventuali «trend deformativi pre-collasso» a fini predittivi, utili per le attività di conservazione e di manutenzione dei monumenti. Infatti, analizzando la differenza tra due immagini acquisite in due momenti differenti, è possibile stimare le eventuali misure di spostamento dei punti catturati dai satelliti, ossia i Permanent Scatterers (PS), anche combinati con i Distributed Scatterers (DS), e quindi mappare le aree interessate da fenomeni di dissesto o modifiche del terreno e individuare i cambiamenti che hanno influenzato il paesaggio, ottenendo cosí l’identificazione
Una schermata del sistema informativo SyPEAH (System for the Protection and Education of Archaeological Heritage): il monitoraggio multiparametrico (elaborazione grafica dell’autore).
delle pericolosità incidenti sui beni culturali. La tecnica utilizzata è l’interferometria SAR satellitare, ossia Synthetic Aperture Radar o radar ad apertura sintetica: in particolare, la tecnica interferometrica A-DinSAR, ossia Advanced Differential Synthetic Aperture Radar, grazie alla combinazione di informazioni da molte immagini, consente di ricostruire serie temporali di oggetti in movimento sul terreno chiaramente visibili dal satellite nell’intero periodo analizzato. Con lo studio dei dati satellitari è possibile quindi quantificare l’estensione e la frequenza dei fenomeni osservati, sia storici, sia attuali, che possono influenzare la stabilità del bene; la classificazione dei rischi che ne consegue permette di definire le azioni necessarie a mitigarne gli effetti. Grazie alla costante acquisizione delle immagini satellitari, un sistema di monitoraggio cosí attuato permette l’aggiornamento continuo dell’evoluzione del rischio osservato e consente di determinare se le misure adottate siano davvero efficaci. Il principale vantaggio dell’applicazione dell’analisi satellitare, infatti, è la possibilità di interpretare i dati rielaborandoli su base mensile. L’osservazione della Terra cosí intesa, applicata già da anni sui beni culturali, sebbene in progetti specifici, può contribuire alla definizione di una procedura che consenta di attuare una gestione sostenibile dei beni archeologici, prevenendo le situazioni emergenziali, attraverso strategie di mitigazione per diminuirne la vulnerabilità o ridurne al minimo il rischio di perdita. L’obiettivo è quello di intervenire sul bene archeologico prima che il fenomeno possa incidere negativamente su di esso.
Conoscenza e partecipazione Tenendo conto delle esperienze già maturate in questo ambito e partendo dalla consapevolezza che sia necessario ripensare i piani di conservazione dei siti archeologici per innovare non solo dal punto di vista tecnologico ma anche nelle pratiche di gestione, è stato ideato un sistema, in corso di realizzazione, capace di
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cogliere e semplificare la complessità delle problematiche di conservazione, affrontando e mitigando gli effetti del cambiamento climatico, ma anche capace di diventare uno strumento di conoscenza in un processo di democratizzazione partecipata della cultura. La sua denominazione è System for the Protection and Education of Archaeological Heritage, ovvero SyPEAH, concepito come un sistema informativo costruito con software open source. Basato sul monitoraggio, esso mira a creare un modello predittivo del rischio di perdita del bene archeologico e della conservazione preventiva attraverso la manutenzione programmata, implementato anche con tecniche interferometriche di osservazione dallo spazio. Sui differenti layers a cui sono agganciate le informazioni si possono sovrapporre i PS, ossia i dati satellitari, esito di una campagna di rilevamento realizzata per dedurre l’evoluzione temporale dei processi deformativi, già in parte individuati nel 2009-2011 in occasione di una breve esperienza sull’area archeologica centrale di Roma. La cartografia ha un’organizzazione multilayer in grado di porre in relazione i dati raccolti su differenti cartografie tematiche, come la carta geologica. Al fine di valutare il ruolo dei dati satellitari all’interno del sistema informativo del Parco e di individuare un protocollo operativo nell’ambito della conservazione e della tutela, è stata avviata una sperimentazione con lo scopo preciso di verificare le eventuali anomalie evidenziate dai dati satellitari e comprenderne le cause e gli effetti: come area di ricerca è stato scelto l’Anfiteatro Flavio, che ha caratteristiche geometriche e materiche tali da renderlo particolarmente adatto a essere monitorato con le tecnologie di osservazione della Terra, soprattutto attraverso immagini ad alta risoluzione come quelle acquisite dai sensori in banda X della costellazione COSMOSkyMed. La sperimentazione ha avuto come esito la messa a punto di un sistema per la validazione a terra dei dati satellitari e il tipo di strumentazione diagnostica piú idonea a
In alto l’analisi storica satellitare sull’Anfiteatro Flavio. Qui sopra una mappa satellitare elaborata dal SyPEAH (elaborazioni grafiche dell’autore).
questo fine, in modo da poter definire un protocollo replicabile, almeno in alcuni aspetti, su piú larga scala, agevolando le successive attività previste nell’ambito del sistema di monitoraggio. Attraverso l’implementazione di un Decision Support System (DSS), SyPEAH è in grado di gestire non solo i dati satellitari, ma anche le altre informazioni presenti sulla piattaforma, come immagini, dati IoT, dati di programmazione, ecc.
Sistematizzare le informazioni Fase fondamentale per il funzionamento del sistema web è infatti la messa a sistema di tutte le informazioni raccolte sullo stato di conservazione dei monumenti anche per mezzo dell’attività ispettiva di supporto alla schedatura e al rilevamento operato nell’ambito dell’attività di monitoraggio. Per questo si è ritenuto necessario individuare protocolli di attività sul campo sia per il monitoraggio, sia per la manutenzione, ed è stata elaborata una scheda di monitoraggio speditiva molto semplice e intuitiva, gestibile da smartphone o da tablet attraverso una app che consente di gestire le segnalazioni su
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eventuali criticità riscontrate. Nella piattaforma la visualizzazione del monumento può essere bidimensionale ovvero integrata con la nuvola di punti dell’area archeologica ottenuta da laser scanner, in modo da avere un’immagine tridimensionale sulla quale posizionare gli eventuali fattori di degrado messi in evidenza. Una volta creata una segnalazione, intesa come un processo interattivo, il sistema la recapita automaticamente all’utente responsabile della validazione. Quest’ultimo infatti, per le proprie competenze, trasformerà la segnalazione in notifica, garantendo tale status agli eventi effettivamente negativi. In questo modo, SyPEAH costituisce uno strumento di gestione del patrimonio archeologico intuitivo e facile da usare, che riferisce al laboratorio di monitoraggio istituito nel Parco archeologico, e dotato di un centro informatico appositamente progettato e dedicato a questo scopo. La app progettata per il sistema di segnalazione e notifica, facile e intuitiva, può avere sviluppi anche per l’attività di valorizzazione. Da questo punto di vista, la valorizzazione diventa l’obiettivo del processo di ricerca garantito dalla tutela.
Una cabina di regia per il patrimonio L’esperienza maturata ha consentito di avviare la progettazione di un sistema di monitoraggio plurisistemico anche nell’ambito del «progetto nazionale di monitoraggio e manutenzione programmata del patrimonio artistico e monumentale», di cui il Parco archeologico del Colosseo è capofila e che coinvolge i Parchi archeologici di Ostia Antica, Paestum, Pompei, Ercolano, Campi Flegrei come partner con cui realizzare una cabina di regia per il monitoraggio satellitare del patrimonio archeologico. In questo ambito il sistema di monitoraggio in corso di sviluppo si basa sull’interferometria SAR satellitare e il telerilevamento ottico abbinati alla strumentazione diagnostica a contatto sulle strutture selezionate, utilizzando sistemi di acquisizione e trasmissione dati. I parametri di specifico interesse che saranno monitorati
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sono: le deformazioni del suolo e delle strutture; la mappatura e la classificazione della vegetazione infestante e la stima dello stress vegetazionale; l’individuazione e la caratterizzazione di processi erosivi; la localizzazione di attività di scavo (naturali o clandestine); l’individuazione di abusi edilizi. L’obiettivo perseguito è quello di creare un modello di approccio alle problematiche relative al monitoraggio e alla manutenzione programmata, importante per altri siti archeologici e monumenti nazionali e internazionali. Percorrendo il sentiero tracciato da SyPEAH, che dalla tutela, attuata anche grazie all’Osservazione della Terra, arriva alla democratizzazione della cultura attraverso la sua diffusione e la sua accessibilità, il sistema di azioni finalizzate a una maggiore resilienza dei beni culturali diventa mezzo di comunicazione fondamentale e quindi di trasmissione. Questa è una condizione essenziale per lasciare un patrimonio cosí grande alle generazioni future, risorsa «non rinnovabile unica, non sostituibile e non intercambiabile». Irma Della Giovampaola
Dall’alto mappa geologica con sovrapposizione di dati satellitari e mappa satellitare con il dettaglio delle informazioni elaborate dal SyPEAH (elaborazioni grafiche dell’autore).
Un codice per il Fundraising
S
in dalla sua istituzione, il Parco archeologico del Colosseo si è dotato del Servizio Fundraising e Sviluppo, volto a organizzare e promuovere un rapporto diretto, trasparente e costruttivo con tutti gli stakeholders. Il Servizio è direttamente in capo al Dirigente, scelta che rafforza la volontà del PArCo di sviluppare progettualità, costruire partnership e, al contempo, misurare il sentiment dei differenti portatori di interessi. Lo sviluppo del Servizio è inoltre funzionale a incoraggiare le imprese e i cittadini nella salvaguardia del patrimonio culturale che appartiene a tutta la comunità, trasmettere il valore etico e il senso civico che questa azione implica. Sostenere il PArCo significa sostenere tutto il sistema economico del Paese. Un patrimonio culturale ben tenuto e valorizzato porta reddito e occupazione, con evidenti ricadute sull’economia anche delle imprese. La politica di inclusione del PArCo con la comunità si fonda sul principio che le azioni di responsabilità sui beni culturali possano essere proficuamente condivise fra pubblico e privato, in una dimensione nella quale le capacità scientifiche, organizzative e strategiche di ciascuno si miscelano per generare frutti positivi e obiettivi comuni. La condivisione del sapere è alla base del nostro concetto di fundraising e la costante attenzione rivolta alle relazioni sociali, portata avanti dal PArCo mediante un’ampia gamma di attività, ha contribuito a radicare e sviluppare ancor di piú l’appartenenza alla comunità e la sua partecipazione. Ne risultano la cura e la divulgazione nel mondo di un patrimonio che rappresenta l’Italia intera. Il Parco archeologico del Colosseo, grazie alla costante attenzione per le relazioni sociali, ha stretto accordi di partenariato con diverse aziende, attraverso contratti di sponsorizzazione che, tra il 2018 e il 2021, hanno permesso di sottoscrivere partnership per circa quattro milioni di euro e che hanno sostenuto il PArCo in tutte le sue attività. Nelle best practices del PArCo rientrano le donazioni per una buona causa, incoraggiando
chi lavora insieme all’Istituto ad aiutare le strutture che operano nell’ambito del sociale, al fine di favorire la filantropia verso organizzazioni del territorio. Per garantire al massimo la trasparenza, il PArCo sta lavorando per dotarsi di un Codice Etico specifico sul fundraising. Attento a preservare il proprio ruolo istituzionale, il PArCo ha ben chiari quali debbano essere gli standard di riferimento per le attività del Servizio Fundraising e Sviluppo: il Codice Etico costituirà una solida base di principi generali che dovranno essere condivisi nella costruzione dei progetti con i partner, un insieme di principi etici e di linee guida che saranno alla base di tutto il processo di costruzione del progetto fino al conseguimento degli obiettivi che, per essere raggiunti, dovranno essere compartecipati da tutti gli attori coinvolti. Ines Arletti La cura del PArCo è stata resa possibile anche attraverso il fondamentale apporto di aziende, associazioni e singole persone. Tra il 2018 e il 2021 il contributo dei privati (tra sponsorizzazioni, donazioni e raccolta fondi per azioni filantropiche) è stato di € 3.299.300,00, che si aggiungono alla sponsorizzazione Tod’s. 2018: € 456.000,00 • Illuminazione Horti Farnesiani. Valorizzazione beni culturali - Sponsor: Acea •R estauro affreschi Domus Aurea - Sala Achille a Sciro. Tutela e valorizzazione beni culturali Sponsor: Fondazione Baechi •N uovo ascensore Colosseo. Valorizzazione beni culturali - Sponsor: Associazione Culturale Orchestra Italiana del Cinema •R estauro e allestimento 12 statue collezione Farnese. Tutela e valorizzazione beni culturali Sponsor: Mondadori libri SPA 2019: € 2.540.000,00 •R estauro del Tempio di Venere e Roma. Tutela e valorizzazione beni culturali - Sponsor: Fendi •R estauro di parte degli affreschi del «Tempio di Romolo» Tutela e valorizzazione beni culturali - Sponsor: Ligamina • L ’Ambrosia del PArCo: api e miele al Palatino. Valorizzazione del patrimonio naturalisticopaesaggistico del PArCo - Sponsor: Comitato Mura Latine 2020: € 64.000,00 • Olio Palatinum: Manutenzione olivi e produzione olio del PArCo. Valorizzazione del patrimonio naturalistico-paesaggistico del PArCo - Sponsor: Coldiretti Lazio - Unaprol •M anutenzione Arco di Tito. Tutela e valorizzazione beni culturali - Sponsor: Società Tempus et Opera S.r.l. •A pplicazione per dispositivi mobili tricentenario della nascita Piranesi. Progetto di valorizzazione beni culturali - Sponsor: Kuwait Petroleum Italia 2021: € 104.000,00 •P rogettazione di videogioco. Valorizzazione beni culturali - Sponsor: Caracal Games Studio SRLS • I mpianto vigna e produzione vino del PArCo. Valorizzazione del patrimonio naturalisticopaesaggistico del PArCo - Sponsor: Cooperativa vinicola Cincinnato • I naugurazione Mostra Boni. Progetto di valorizzazione beni culturali - Sponsor: Kuwait Petroleum Italia Donazioni € 20.300,00 Raccolta fondi 2018-2021: € 115.000,00
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La Carta del Rischio per la tutela di mosaici e pavimenti marmorei
C
on piú di 200 superfici pavimentali, l’area archeologica del Palatino e del Foro Romano racchiude quasi dodici secoli di storia. In questo numero sono comprese pavimentazioni destinate ora a umili vani di servizio, rivestiti da resistenti ma poco eleganti cocciopesti, ora a sontuosi ambienti di rappresentanza, decorati sia da superfici in tessellato bianco e nero, sia da policromi sectilia pavimenta, rivestimenti costruiti ad arte grazie all’accostamento di marmi colorati, ben riconoscibili, per esempio,
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nei giardini e nelle stanze dei Palazzi imperiali. Sono questi i pavimenti piú fragili, perché sottoposti allo stress termico delle alte temperature estive e del gelo invernale e al calpestio dei turisti che ogni giorno visitano e «passeggiano» in questo straordinario compendio di storia, archeologia e architettura, non sempre percependo di camminare all’interno di uno spazio di rappresentanza, di un corridoio, di un porticato frequentato in antico da semplici cittadini romani o imperatori. Per mantenere in situ e rendere anche piú
leggibile questo patrimonio – indicatore di status, di funzioni ma anche di mode e abitudini dipese dai gusti dei «padroni di casa» –, il Parco archeologico del Colosseo nel triennio 20182021 ha incrementato le azioni di tutela e, partendo dalla mappatura di tutti i pavimenti noti, già realizzata negli anni Sessanta del secolo scorso da Maria Luisa Morricone Matini (1967) e in anni recenti aggiornata con l’ausilio di piattaforme digitali (http://tess.beniculturali. unipd.it), ha progettato un intervento di conservazione e valorizzazione di piú ampio Uno dei mosaici del Paedagogium, il collegio destinato all’istruzione e alla formazione dei paggi imperiali, situato sulle pendici meridionali del Palatino.
respiro che, nell’ottica di operare tenendo conto degli indirizzi e degli obiettivi della Carta del Rischio Nazionale elaborata dall’ISCR (Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro), si è rivolto specificamente a quei mosaici e pavimenti marmorei che con i loro disegni e cromatismi abbellivano le domus repubblicane e i palazzi imperiali del Palatino, ma anche i grandi complessi pubblici del Foro Romano.
Un patrimonio aperto a tutti Il progetto «Carta del Rischio dei pavimenti del Parco archeologico del Colosseo», affidato a un team multidisciplinare di archeologi, architetti, restauratori e informatici, coniuga il monitoraggio prolungato nel tempo e la manutenzione ordinaria e/o straordinaria di tutti i pavimenti decorati del PArCo, attraverso il controllo diretto di operatori specializzati, con il supporto informatico di un webGIS, a questo scopo realizzato, all’interno del quale vengono registrati tutti i dati delle attività quotidiane. L’obiettivo a lungo termine del progetto, che si appresta a entrare in un nuovo ciclo triennale di azioni (2022-2024), oltre alla conoscenza sistematica e puntuale di ogni superficie pavimentale decorata, è quello di raccogliere una serie di dati continuamente aggiornabile, che permetta di redigere periodicamente prescrizioni dettagliate degli interventi conservativi, senza trascurare, nel contempo, anche a livello didattico, una migliore comprensione e presentazione al pubblico di ogni singolo pavimento antico. A questo proposito, dal webGIS è stata ricavata e quindi pubblicata e resa accessibile a chiunque (all’indirizzo http://cdrweb.parcocolosseo.it) la mappa interattiva delle superfici pavimentali: si tratta di un supporto alla visita e alla conoscenza del patrimonio di mosaici e marmi che consente di seguire un percorso di visita all’interno del perimetro del Parco archeologico del Colosseo, visualizzando sullo schermo del proprio device la scheda illustrativa del pavimento (in lingua italiana e inglese) e la gallery delle immagini. Federica Rinaldi e Alessandro Lugari
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LA COLONNA TRAIANA
Uno scorcio dei resti del Foro di Traiano, con, al centro la colonna voluta dall’imperatore per celebrare le vittoriose campagne condotte tra il 101 e 106 d.C. in Dacia (l’odierna Romania). Le imprese sono narrate dal fregio spiraliforme che corre per l’intero fusto del monumento.
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IL MONUMENTO VOLUTO DA TRAIANO PER CELEBRARE LE VITTORIOSE CAMPAGNE DACICHE FA ORA PARTE DEL PATRIMONIO DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO. CON L’IMPEGNO A ESALTARNE IL VALORE POLITICO E SIMBOLICO di Luciano Frazzoni
È
un editto del Senato di Roma del 26 marzo 1162 a darci la possibilità di continuare ad ammirare la Colonna Traiana, uno dei monumenti e dei documenti storici piú importanti dell’antichità, opera di quel «Maestro delle Imprese di Traiano» che l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli definí «il piú grande artista romano e uno dei piú grandi di tutti i tempi». Durante una controversia tra un certo prete Angelo e la badessa di S. Ciriaco a proposito della chiesa di S. Nicola presso la colonna stessa, il Senato romano stabilí infatti che «la Colonna Traiana non dovrà mai essere abbattuta, né danneggiata, ma dovrà restare cosí com’è eternamente, per l’onore dell’intero popolo romano, intera e incorrotta finché il mondo duri. Se qualcuno attenterà all’integrità della Colonna, sia condannato a morte e i suoi beni incamerati dal fisco». La stessa sorte non è toccata alle altre due colonne istoriate di Costantinopoli, di Teodosio e Arcadio, abbattute dai sultani turchi. La decisione presa dal Senato romano, in un momento di incertezze e di sistematica demolizione dei monumenti antichi visti come cave per materiale da costruzione, dimostra quanto la Colonna Traiana fosse considerata una delle piú alte eredità pervenuteci dal mondo antico. Il piú importante monumento della scultura ufficiale romana, inaugurato il 12 maggio del 113 d.C., venne innalzato nel cortile compreso tra le due biblioteche (greca e latina) e la
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COLONNA TRAIANA
Un particolare del fregio della Colonna Traiana. Si tratta di un’opera di eccezionale pregio, attribuita a un autore convenzionalmente definito «Maestro delle Imprese di Traiano».
Basilica Ulpia, che costituiva uno dei lati (in direzione nord-ovest) della piazza del Foro di Traiano. Oltre il cortile della colonna si ergeva il tempio dedicato all’imperatore, divinizzato dopo la sua morte (117 d.C.). Il monumento è concepito come un enorme volumen, un rotolo di papiro o di stoffa, su cui si snodano a spirale le immagini legate agli avvenimenti piú importanti delle due campagne militari condotte dall’imperatore per la conquista della Dacia (odierna Romania), nel 101-102 e nel 105-106 d.C. Alta 100 piedi romani (29,58 m) la Colonna Traiana custodiva al suo interno, in una camera ricavata nel basamento, l’urna d’oro con le ceneri dell’imperatore e di sua moglie Plotina. L’alto basamento a dado, da cui si accede all’interno del monumento tramite una porta, è decorato su tutti i lati da rilievi su cui sono raffigurati trofei con armi dei Daci sconfitti. Sopra la porta, tra due Vittorie alate, vi è l’iscrizione con la dedica all’imperatore da parte del Senato e del Popolo Romano; il testo ricorda anche che, secondo la vulgata, l’altezza della colonna è uguale a quella della sella montuosa, originariamente situata tra il colle Quirinale e il Campidoglio, sbancata per
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spianare il terreno per la realizzazione del Foro di Traiano, come a evidenziare la grandiosità dell’opera. Tra la porta e l’iscrizione si notano le tracce del tetto di una struttura di passaggio tra la colonna e la cappella di S. Nicola de Columna, distrutta nel XVI secolo, e che ha in parte danneggiato l’iscrizione. Una scala a spirale all’interno del fusto, composta da 185 gradini, conduce alla sua sommità, dove era collocata una statua in bronzo di Traiano, scomparsa forse già nel Medioevo e sostituita nel 1588 da papa Sisto V con una statua di san Pietro, tuttora in situ.
Armi e utensili in bronzo Benché oggi il monumento si presenti isolato, in origine si poteva osservarne la parte piú alta dalle terrazze della Basilica Ulpia e delle due biblioteche. Ancora irrisolta è la questione della possibile policromia del fregio, ora del tutto scomparsa e di cui, a oggi, i restauri e le attività di manutenzione non hanno trovato traccia; erano invece in bronzo e risplendevano alla luce del sole alcune delle armi e degli utensili impugnati dai vari personaggi, ugualmente perduti. L’autore del fregio, il già ricordato Maestro delle imprese di Traiano, è identificato
La Colonna Traiana vista dall’alto: sulla sommità si trova oggi una statua di San Pietro, fatta collocare nel 1588 da papa Sisto V, mentre in origine svettava una statua in bronzo dell’imperatore.
da alcuni nel famoso architetto Apollodoro di Damasco, al quale si deve la realizzazione dell’intero complesso del Foro e dei Mercati di Traiano. In ogni caso, siamo al cospetto del piú grande esponente dell’arte romana ufficiale, in cui si fondono elementi ellenistici e della tradizione artistica romana. Il fregio della Colonna Traiana rappresenta il racconto piú completo delle vicende delle due campagne daciche. Per quanto riguarda le fonti letterarie, infatti, disponiamo dell’epitome, scritta a Costantinopoli dal monaco Giovanni Xifilino nella seconda metà dell’XI secolo, dell’Historia Romana di Cassio Dione Cocceiano, mentre sono andati completamente perduti i Commentarii, cioè la descrizione in prosa degli avvenimenti delle due guerre daciche, scritti dallo stesso Traiano sull’esempio del De Bello Gallico di Cesare. Ugualmente perduto è il diario di guerra scritto dal medico personale dell’imperatore, Tito Statilio Critone, che lo accompagnò nelle due campagne, e la descrizione di Apollodoro di Damasco del ponte sul Danubio costruito a Dubreta (di cui la Colonna Traiana e alcune monete riportano l’immagine). Altre fonti figurate, in qualche modo connesse con le
campagne daciche, sono i rilievi di Villa Borghese, di Villa Medici, del Louvre, i grandi fregi traianei e le otto statue di Daci in pavonazzetto sull’Arco di Costantino, le statue di prigionieri daci che ornavano il Foro di Traiano, mentre legato a una fase della prima campagna è il trofeo di Adamclissi, nella Mesia inferiore (nell’odierna Romania), che commemora la vittoria su Decebalo nella battaglia del 101 d.C. In questa carenza di informazioni, la Storia Romana di Cassio Dione, benché lacunosa, permette di comprendere meglio alcuni degli avvenimenti, che in qualche caso presentano notevoli analogie (anche se non mancano le divergenze) con le scene narrate nel fregio della Colonna. Come ha sottolineato Bianchi Bandinelli, la Colonna Traiana è un’invenzione del tutto originale dal punto di vista tipologico, benché forse ispirata alle raffigurazioni delle pitture trionfali, il cui scopo è essenzialmente di carattere celebrativo e di propaganda per il consenso imperiale. La raffigurazione si articola in schemi abbastanza ripetitivi, quali la partenza per la campagna militare (una delle prime scene rappresenta l’attraversamento del Danubio su un ponte di barche), la
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COLONNA TRAIANA
COSÍ ROMANA, COSÍ EUROPEA
S
campata agli effetti del tempo e all’azione umana, la Colonna Traiana costituisce l’unico monumento del Foro di Traiano giunto a noi pressoché integro, catturando per secoli l’attenzione di una cerchia ben piú ampia di quella ristretta degli addetti ai lavori per l’imponenza delle forme e il valore artistico che la contraddistingue. La riorganizzazione del Ministero della cultura e la definitiva assegnazione della Colonna Traiana al Parco archeologico del Colosseo costituiscono la giusta condizione per proseguire e, se possibile, ampliare le azioni di conoscenza e studio del monumento, oggetto di ricerche specialistiche anche in anni recenti, mantenendo sempre la massima attenzione sulle attività di manutenzione e monitoraggio delle superfici e della loro integrità. E nel solco di questa tradizione di studi il
Parco archeologico del Colosseo sta lavorando per esaltare il ruolo politico e la funzione simbolica della Colonna che dal Medioevo – ovvero dall’editto del 1162 del Senato romano che ne vietava il
danneggiamento, pena la morte – fino all’età contemporanea, non ha mai smesso di affascinare i monarchi delle principali corti europee (e in forma diversa, ma uguale nella sostanza, i papi), che nel valore di
I NUMERI DI UN CAPOLAVORO 26,44 m l’altezza del fusto 29,58 m (100 piedi romani) l’altezza totale del monumento con toro, fusto e capitello alla sommità 17 i rocchi di marmo lunense che formano il fusto 200 m circa la lunghezza totale del rilievo, che si svolge in 23 giri 155 le scene figurate, cosí suddivise: - I campagna: scene 1-50, anno 101; scene 51-77, anno 102 - scena 78: figura di Vittoria che separa le due campagne - II campagna: scene 79-97, giugno 105-inverno 106; scene 98-155, estate-autunno 106
185 i gradini della scala a chiocciola interna 40 le feritoie lungo il fregio che danno luce alla scala 58 le volte in cui Traiano compare nel fregio
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Traiano, l’imperatore scelto per «meriti personali» e non per successione dinastica, e delle imprese che lo condussero alle vette della fama universale, cercarono di identificarsi con campagne di riproduzione, disegno e calchi di pregevole esecuzione e accurata fedeltà. Sintesi della cultura mediterranea da cui prende le mosse la nostra storia, la Colonna Traiana rappresenta oggi un fil rouge che si dipana sino nel cuore dell’Europa, esposta nei principali musei europei di Francia, Inghilterra, Olanda, Romania, oltre che Italia, come intera riproduzione o come disiecta membra del suo fregio. A questa dimensione paneuropea il Parco archeologico del Colosseo intende collegarsi nei prossimi anni di attività con accordi di studio, valorizzazione e anche di miglioramenti della fruizione, costruendo su radici illustri una rete di relazioni culturali che proseguano e traghettino la fortuna della Colonna nelle prossime generazioni. Federica Rinaldi e Angelica Pujia
Nella pagina accanto la sezione del fregio nella quale compare la Vittoria alata che scrive su uno scudo i successi ottenuti da Traiano e dalle sue truppe. In alto prospetto della Colonna Traiana in scala 1:50 (Marco Di Lieto srl).
costruzione di strade e strutture fortificate da parte dei soldati romani, le scene di sacrificio da parte dell’imperatore per il buon esito della guerra, i discorsi del principe alle truppe (Traiano compare per la prima volta seduto mentre tiene il primo consiglio di guerra con i suoi collaboratori, tra cui Lucio Licinio Sura); seguono immagini di assedi, battaglie, saccheggi, che culminano con la sottomissione dei nemici vinti. In molte scene Traiano compare mentre partecipa alle battaglie in mezzo ai soldati.
Le vittorie sullo scudo La narrazione delle due campagne è interrotta dalla grande figura della Vittoria alata che scrive su uno scudo i successi dell’imperatore e dell’esercito romano. Il culmine della seconda campagna vede la fuga del re dei Daci, Decebalo, che si suicida tagliandosi la gola con un coltello mentre sta per essere
raggiunto dalla cavalleria romana; la sua testa e la sua mano destra, su un piatto sorretto da due ufficiali, vengono presentati alle truppe in un campo fortificato, segno inequivocabile della vittoria. Dopo aver domato le ultime resistenze e catturati gli ultimi prigionieri, la narrazione si conclude con i veterani che vanno a occupare le colonie nella nuova provincia della Dacia, la deportazione dei Daci verso i territori a loro assegnati, con una fila di armenti verso le nuove terre da abitare. È da notare che in tutte le raffigurazioni di battaglie, sono rappresentati i Daci caduti, ma mai i morti romani, anche se nel racconto di Cassio Dione entrambi i contendenti subiscono gravi perdite; solo in un episodio sono raffigurati due Romani feriti, a cui i medici militari prestano le loro cure. A tal proposito, è da ricordare l’aneddoto di Cassio Dione sull’imperatore che taglia il proprio mantello per sopperire alla mancanza di bende per i feriti.
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MONOGRAFIE
n. 48 aprile/maggio 2022 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Questa Monografia di «Archeo» si è avvalsa dei contributi forniti dal Parco archeologico del Colosseo, nelle persone di: Martina Almonte, funzionario archeologo; Roberta Alteri, funzionario archeologo; Ines Arletti, assistente tecnico; Francesca Boldrighini, funzionario archeologo; Stefano Borghini, funzionario architetto; Paolo Castellani, funzionario e storico dell’arte; Francesca Cesari, archeologo collaboratore esterno; Fulvio Coletti, assistente tecnico archeologo; Livia Colopardi, architetto collaboratore esterno; Irma Della Giovampaola, funzionario archeologo; Fiorangela Fazio, funzionario resaturatore; Giulia Giovanetti, funzionario archeologo; Alessandro Lugari, assistente tecnico restauratore; Barbara Nazzaro, funzionario architetto; Angelica Pujia, funzionario restauratore; Federica Rinaldi, funzionario archeologo; Antonella Rotondi, funzionario archeologo; Alfonsina Russo, direttore; Maddalena Scoccianti, già funzionario architetto; Arianna Santelli, archeologo collaboratore esterno; Gabriella Strano, architetto paesaggista; Sabrina Violante, assistente tecnico archeologo. Hanno inoltre collaborato: Maria Grazia Filetici, direttore della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone e Latina; Luciano Frazzoni, archeologo. Illustrazioni e immagini Shutterstock: copertina e pp. 6/7, 8/9, 18/19, 20-25, 124/125, 126 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 6, 26/27, 27, 30-37, 51, 68-75, 79, 88-91, 98-101, 108-113, 122/123; Electa/disegno Carlo Stanga: pp. 12/13; Archivio Fotografico Storico: pp. 16, 17, 26; Simona Murrone: pp. 38/39, 40 (basso), 41, 52/53, 54; S. Murrone-B. Angeli: pp. 42/43, 44-49; Daniela Borgese: p. 55; B. Angeli: pp. 114/115; Di Lieto Srl: p. 127 – Doc. red.: pp. 14/15, 28/29 (basso), 57, 58-65, 80-87, 104-107 – Mondadori Portfolio: Electa/Bruno Balestrini: p. 19; AKG Images: pp. 28/29 (alto); Album: pp. 56/57 – Archivio «Sapienza» Università di Roma: pp. 76, 77 – da: C. Panella, C. Rescigno, A.F. Ferrandes, Architetture Perdute. Decorazioni architettoniche fittili dagli scavi tra Palatino, Velia e valle del Colosseo (VII-IV secolo a.C.), Napoli 2021: p. 77 (basso) – Cippigraphix: cartina alle pp. 10/11. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
In copertina: veduta aerea del Foro Romano e del Colosseo.
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