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Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
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ITTITI UNA CIVILTÀ RISCOPERTA N°49 Giugno/Luglio 2022 Rivista Bimestrale
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ITTITI UNA CIVILTÀ RISCOPERTA
a cura di Stefano de Martino, Massimiliano Marazzi e Clelia Mora
IN EDICOLA IL 28 GIUGNO 2022
ITTITI UNA CIVILTÀ RISCOPERTA testi di Silvia Alaura, Metin Alparslan, Andrea Balletta, Paolo Andrea Bartorelli, Stefano de Martino, Massimiliano Marazzi, Nicolò Marchetti, Clelia Mora, Hasan Peker, Andreas Schachner, Giulia Torri e Gokhan Yazgı
6. Presentazioni 6. Türkiye, un museo a cielo aperto 10. Un «ufficio» per l’archeologia italiana all’estero 14. La storia Il paese dei Grandi Re 28. Le immagini del potere Il potere scolpito nella roccia 40. L’organizzazione dello Stato In nome del dio della Tempesta 50. La lingua e la scrittura Cosí parlavano (e scrivevano) nella «terra di Hatti» 74. La mitologia e la magia C’era una volta un’ape... 82. Sacerdoti, esorcisti e rituali magici 86. Hattusa Nascita di una metropoli 96. Il concetto di «capitale» secondo gli Ittiti 102. Il santuario di Yazılıkaya Al cospetto degli dèi 114. Karkemish Una capitale sull’Eufrate 124. La riscoperta Il popolo che non c’era
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Hattusa. La «Porta del Re» o «del Guerriero».
Türkiye, un museo a cielo aperto di Gökhan Yazgı, Direttore Generale per i Beni Culturali e Musei del Ministero della Cultura e Turismo della Repubblica di Türkiye
G
razie alla sua posizione geografica e geopolitica durante il corso della storia, la Türkiye è stata la culla di numerose civiltà. Si è pertanto configurata come un museo a cielo aperto, con abbondanti tracce lasciate nel corso del tempo da questi insediamenti. Gli studi che mettono in luce il patrimonio culturale locale, comune al patrimonio dell’umanità, sono proseguiti in Anatolia da quasi due secoli, a cura di studiosi sia turchi che stranieri. La Türkiye si sta avviando verso una fase di trasformazione, che consente di gestire al meglio il suo potenziale culturale. Oggi, gli studi scientifici, avviati nel XIX secolo in Anatolia, sono sfociati in scavi scientificamente istituzionalizzati e ricerche con approccio multidisciplinare e interdisciplinare condotte tra il XX e il XXI secolo. In Türkiye, che è tra i Paesi con i migliori scavi archeologici al mondo dal Paleolitico al periodo turco-islamico, solamente nello scorso anno sono state portate avanti ben 670 attività archeologiche. Le prime tracce degli Ittiti risalgono al 1800 a.C. La civiltà ittita si è formata con la costituzione dell’Antico Regno ittita che stabilí il suo dominio in Anatolia. Dopo la battaglia di Kadesh tra Ittiti ed Egizi venne firmato il Trattato di Kadesh, il primo in forma scritta della storia. Le iscrizioni ittite sono tavolette cuneiformi e geroglifici riportati alla luce
grazie a scavi archeologici, specialmente nella città di Hattusa, capitale degli Ittiti. Ci sono documenti su civiltà quali Accadi, Sumeri, Hurriti, Luvi, Palaici e Ittiti nelle 30mila tavolette cuneiformi e nei frammenti di tavolette rinvenuti durante gli scavi nella sola capitale Hattusa. Oltre a Boghazkale, anche a ÇorumOrtaköy, Tokat-Zile, Mashathöyük, Alacahöyük, Sivas- Kushaklı, Samsun-Vezirköprü Oymaaghaç, Kırıkkale-Karakeçili, Büklükale, e Hatay-Tel Açana sono stati rinvenuti altri scritti cuneiformi appartenenti agli Ittiti. Mentre la maggior parte delle tavolette ha un contenuto religioso, altre contengono anche documenti politici, testi legali, narrativa mitologica, inventari, missive e informazioni di carattere medico. Nel territorio degli Ittiti – Çorum-Ortaköy, Alacahöyük, Eskiyapar, Samsun Oymaaghaç – gruppi di ricerca scientifica hanno condotto scavi e indagini archeologiche su 12 mesi a sostegno degli Studi Ittiti della regione. Oltre a ciò, gruppi di ricerca internazionali stanno portando avanti scavi soprattutto relativi al periodo ittita a BogazköyHattusa, Malatya-Arslantepe, KırıkkaleKarakeçili Büklükale, Hatay-Tel-Açana, Gaziantep Dülük e Karkamısh. Già nel 2001 le Tavolette Ittite di BogazköyHattusa sono state incluse nel Patrimonio mondiale dell’UNESCO. L’archeologia turca, che ha un grande potenziale di promozione della Türkiye all’estero, sta
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costantemente migliorando la sua performance sugli studi ittiti, e il nostro prestigio nell’ambito del mondo accademico sta ulteriormente crescendo. Inoltre il «Protocollo congiunto tra il Ministero della Cultura e del Turismo della Türkiye e il Rettorato dell’Università di Ankara per il Supporto alla Lettura delle Tavolette Cuneiformi Ittite» è stato firmato dal nostro Ministero e dal Rettorato dell’Università di Ankara ed è entrato in vigore il 28 dicembre 2021. Grazie all’utilizzo dell’intelligenza artificiale, questo progetto unico fornirà un contributo decisivo al mondo accademico attraverso la lettura, lo scanning e la digitalizzazione delle tavolette cuneiformi ittite. Come Ministero, continueremo a lavorare per comprendere, valutare e trasferire alle future generazioni i beni culturali, sia mobili sia immobili.
INFO Maggiori informazioni sulle destinazioni turistiche della Türkiye possono essere richieste a: Ufficio Cultura e Informazioni dell’Ambasciata di Türkiye Roma, piazza della Repubblica 55-56 tel. 06 4871190 e 4871393; e-mail: turchia@turchia.it www.turchia.it
In alto cartina della moderna Repubblica di Türkiye. In evidenza, le località che l’UNESCO ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità e i siti archeologici citati nel testo. Nella pagina accanto in basso una veduta dei resti di Hattusa, capitale del regno ittita. A destra un tipico paesaggio della Cappadocia, nei pressi di Nevsehir.
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UN «UFFICIO» PER L’ARCHEOLOGIA ITALIANA ALL’ESTERO L’attività della Direzione Generale per la diplomazia pubblica e culturale del MAECI di Paolo Andrea Bartorelli e Andrea Balletta
L
a ricerca archeologica rappresenta uno dei cardini all’interno di una complessa agenda culturale, che, da parte italiana, viene messa in pratica e portata avanti, su scala internazionale, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI). I rapporti tra Italia e Turchia, basati su legami storici duraturi all’interno di un comune contesto mediterraneo, si sono nel tempo consolidati grazie a un proficuo dialogo politico e a relazioni economico-commerciali sempre piú strette. Si tratta di uno sviluppo delle relazioni diplomatiche consolidato nel tempo e che risale ufficialmente al 1856 quando Roma, Milano e Napoli furono designate come sedi principali delle Missioni diplomatiche turche e continuato, successivamente, con la nascita della Repubblica di Turchia (Türkiye Cumhuriyeti) nel 1923. Le Missioni archeologiche italiane in Turchia rappresentano uno dei molti asset nelle relazioni culturali bilaterali tra i due Paesi. Frutto di una collaborazione iniziata piú di sessant’anni fa, hanno contribuito in modo significativo al recupero e alla promozione del vasto patrimonio culturale turco, avvalendosi della grande esperienza e competenza degli archeologi italiani. Nel 2022 MAECI ha finanziato tredici Missioni archeologiche in Turchia, organizzate da alcune tra le piú prestigiose istituzioni italiane del settore.
L’Italia riscopre gli Ittiti Come noto, l’ittitologia, ovvero lo studio della lingua, della cultura e della civiltà degli Ittiti, è la denominazione applicata dagli studiosi moderni in riferimento alla realtà politica che occupava la cosiddetta «Terra di Hatti» nell’Anatolia centro-settentrionale tra l’età del Bronzo Medio e Tardo (XVII-XII sec. a.C. circa).
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In alto la Porta dei Leoni di Hattusa. A destra i resti del karum di Kanesh, oggi Kultepe.
Tale designazione fu assegnata sulla base della supposta identificazione, sviluppatasi nel corso del XIX secolo, tra gli abitanti della cosiddetta «Terra di Hatti» e gli Ittiti attestati nelle fonti bibliche (definiti anche Etei) e conosciuti anche dalle minuziose testimonianze egiziane. L’identificazione della regione di questa civiltà affascinò gli studiosi degli ultimi anni del XIX secolo, tra cui l’egittologo italiano Luigi Schiaparelli. L’orientalista italiano Cesare Antonio De Cara suggerí varie interpretazioni (1894, 1902), pur avendo riconosciuto quali ittiti i siti di Boghazköy e Yazılıkaya. Solo a seguito della spedizione del francese Ernest Chantre a Boghazköy, la capitale ittita, nell’Anatolia centrale (150 km a est di Ankara) nel 1893-94, fu possibile ottenere maggiori informazioni. Attualmente opera a Hattusa la Missione congiunta (italo-turco-tedesca), che vede impegnate le Università Federico II e «Suor Orsola Benincasa» di Napoli per parte italiana. Dall’inizio del XX secolo, la disciplina dell’ittitologia si sviluppò notevolmente in Germania, oltre che in Inghilterra e Francia. In Italia, invece, l’ittitologia e gli studi anatolici in genere furono insegnati dapprima nelle Università di Pavia e di Firenze, grazie, rispettivamente, a Piero Meriggi (1899-1982), che contribuí ad attribuire la lingua lidia alla famiglia indoeuropea e alla comprensione del luvio e del licio, e Giovanni Pugliese Carratelli (1911-2010), di cui si ricordano, tra gli altri, i contributi nel campo degli studi minoici e micenei, e loro successori. Nel 1968 è stato fondato, anche grazie al contributo dei due studiosi, il Centro di Studi Micenei ed Egeo-Anatolici del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), dal 2013 unitosi all’Istituto di studi sul Mediterraneo antico. Oggi la cattedra di ittitologia è presente in cinque università italiane: Torino, Pavia, Firenze, «Sapienza» Università di Roma e Napoli (L’Orientale e Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici «Suor Orsola Benincasa»/Università Vanvitelli) con approfondimenti, workshop e seminari presso diversi altri atenei. Gli archeologi italiani sono operativi in diversi siti anatolici, che mostrano stratigrafie e tracce materiali di epoca ittita. Tutte queste Missioni mostrano un approccio multidisciplinare e interdisciplinare all’archeologia, con una costante collaborazione di specialisti, tra cui geologi, chimici e fisici. Ciò è chiaramente espresso in diverse pubblicazioni, per esempio per quanto riguarda lo studio dei rilievi rupestri di Yazılıkaya, un santuario ittita situato 2 km circa a nord-est di Hattusa/Boghazköy. L’Ufficio VI-DGDP (Direzione Generale per la diplomazia pubblica e culturale), nel
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A sinistra una veduta dei resti dell’antica Hierapolis, nei pressi dell’odierna Pamukkale. Nella pagina accanto in alto veduta dall’alto del sito archeologico di Arslantepe (Malatya), indagato dalla Missione archeologica della «Sapienza» Università di Roma.
rispetto e mutuo riconoscimento dei diversi ruoli tra i qualificati rappresentanti del mondo accademico e quello istituzionale del MAECI, ha sempre fatto tesoro delle nozioni e delle informazioni derivanti dalla ricerca archeologica, per una migliore promozione nel campo dell’ittitologia. A tal fine, la Sezione archeologica si adopera per promuovere un continuo e fruttuoso scambio di nuove informazioni di derivazione specialistica, tali da poter contribuire poi a rendere l’Ufficio stesso capace di valutare in modo piú funzionale e consapevole i dati delle Missioni nella fase di assegnazione dei contributi. In generale, nel piú ristretto contesto del contributo italiano agli Studi anatolici, alla Preistoria e Protostoria del Vicino Oriente e all’Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico, la collaborazione e i contributi dell’Ufficio VI sono evidenti per quanto riguarda, per esempio, le pubblicazioni scientifiche (News from the Land of the Hittites 2020/2021) o l’assegnazione di patrocini a eventi (come per la 67ma edizione della Rencontre Assyriologique Internationale, RAI, svoltasi a Torino nel 2021).
L’importanza del confronto Inoltre, la DGDP punta a promuovere eventi di confronto specialistico e di divulgazione in stretta collaborazione con l’Istituto Centrale per l’Archeologia (ICA), ufficio dirigenziale della Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero della Cultura (MiC). A tal proposito, si prospettano intense attività di collaborazione nell’ambito dell’integrazione delle informazioni relative alle Missioni archeologiche italiane operanti all’estero con quelle già registrate per le Missioni archeologiche che si svolgono in
I SITI UNESCO DELLA TURCHIA 1. L’area storica di Istanbul (1985); 2. la cittadella di Safranbolu (1994, provincia di Karabak); 3. Hattusa (capitale ittita, 1986, provincia di Çorum); 4. la Grande Moschea e l’Ospedale di Divrighi (1985, Provincia di Sivas); 5. il sito di Nemrut Dagh (1987, sull’Alto Eufrate, con la tomba-santuario del re Antioco I di Commagene (69-36 a.C.); 6. il sito di Xanthon-Letoon (1988, in Licia, con il santuario di Latona); 7. il sito archeologico di Troia (1988); 8. la Moschea Selimliye e il suo complesso sociale (2011, vicino a Edirne); 9. il sito neolitico di Çatal Höyük (2012, Konya); 10. i centri di Bursa e Cumalıkızık (2014), la cui storia risale al periodo di fondazione dell’Impero Ottomano; 11. Pergamo e il suo paesaggio culturale multistrato (2014); 12. il Parco Nazionale di Göreme (provincia di Nevshehir) e le grotte della Cappadocia (1985) e 13. il sito di Hierapolis-Pamukkale (1988, nella regione storica della Frigia). Le ultime due località rappresentano siti di interesse sia culturale che naturalistico. Oltre a questi, l’elenco contiene: 14. il sito dell’antica città greca di Efeso (2014); 15. la fortezza di Diyarbakır e il paesaggio culturale dei giardini di Hevsel (2015); 16. il sito medievale di Ani (2016, Provincia di Kars, al confine con l’Armenia); 17. il sito di Afrodisia (2017, regione storica di Caria); 18. il sito di Göbekli Tepe (2018), con strutture monumentali in pietra datate al Neolitico Preceramico; 19. il sito di Arslantepe (2021).
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Rilievo scolpito con figure di demoni ad Arslantepe, presso Malatya.
Italia. Il risultato atteso sarà un database georeferenziato comprensivo, nella forma di portale/sito web, accessibile sia agli specialisti che agli utenti comuni. Accogliendo volentieri l’invito del direttore della rivista «Archeo» Andreas M. Steiner e del professor Stefano de Martino a contribuire a questa pubblicazione (fortemente voluta e commissionata dall’Ambasciata di Türkiye-Ufficio Cultura e Informazioni, n.d.r.), l’Ufficio VI-DGDP desidera sostenere iniziative volte a promuovere l’attività degli archeologi italiani all’estero, cosí come pubblicizzare e far conoscere sempre piú l’archeologia italiana e il sostegno governativo italiano. L’ittitologia, cosí come l’archeologia, la storia e la storia dell’arte del Vicino Oriente antico, rappresentano argomenti di considerevole interesse da pubblicizzare anche presso i non specialisti. E la partecipazione a un così notevole sforzo editoriale rappresenta un primo passo verso la realizzazione di un’agenda più strutturata e convincente, basata sulla promozione integrata delle peculiarità culturali nel campo della ricerca archeologica italiana. INFO Contatti: archeologia@esteri.it Portale archeologia del MAECI: https://archeologia.esteri.it UNESCO World Heritage Centre: https://whc.unesco.org/
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IL PAESE DEI GRANDI RE La parabola ittita si snoda nell’arco di circa sei secoli, nel corso dei quali la terra «di Hatti» si struttura dapprima come regno e poi come un vero e proprio impero. Sempre all’insegna di un assetto sociale fortemente assolutistico di Stefano de Martino
N
ei primi secoli del II millennio a.C. l’Anatolia era divisa in potentati indipendenti e spesso in lotta fra loro, ognuno dei quali controllava un territorio di estensione limitata. In alcuni di essi si erano stabiliti empori commerciali gestiti da famiglie assire. Uno dei centri principali era la città che gli Assiri chiamavano Kanesh e che è stata parzialmente riportata alla luce presso il sito moderno di Kültepe: ha un’estensione di circa trenta ettari, per quanto riguarda l’area del palazzo reale e della città anatolica, mentre la città bassa, dove si trovava l’emporio commerciale assiro, è molto piú vasta. A Kanesh sono state distinte fasi principali – II (1970-1835 a.C.) e I (1835-1700 a.C.) – e soprattutto dalle rovine della fase II proviene una ricca documentazione testuale
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relativa alle attività dei mercanti assiri, che fornisce importanti notizie anche sull’assetto politico dell’Anatolia del Medio Bronzo. Alla fine del XVIII secolo a.C. Pithana, re della città di Kussara, si impadronisce di Kanesh e ne assegna il governo a suo figlio Anitta. Una tavoletta conservata nelle collezioni di testi ittiti celebra le campagne militari condotte da questo sovrano, che conquista molti centri in Anatolia settentrionale e sud-orientale dando vita al primo regno di grandi dimensioni dell’Anatolia del II millennio a.C. Kanesh diventa residenza e centro direzionale di Anitta, ma i testi ittiti chiamano Nesa questa città. Entrambi i toponimi, Kanesh e Nesa, sono verosimilmente la resa, rispettivamente in accadico e in ittita, del nome originario del sito, che era Knesh. Anitta e Nesa restano nella
Resti dell’insediamento di Kanesh, presso l’odierno Kültepe. Qui gli Assiri crearono un centro commerciale il cui scavo ha restituito notizie preziose per ricostruire il contesto storico dell’Anatolia nel Medio Bronzo, alla vigilia dell’avvento degli Ittiti.
memoria culturale degli Ittiti che si definivano proprio «popolo di Nesa» e chiamavano la loro lingua «lingua di Nesa», evidentemente riconoscendo in questa città il nucleo da cui si è sviluppato il loro regno.
I primi sovrani Non abbiamo notizie certe sui successori di Anitta: conosciamo il nome del re Zuzzu, ma non sappiamo se Huzziya I gli succeda direttamente, o se vi siano stati altri sovrani prima di lui. I documenti ittiti riconoscono in Huzziya I il fondatore della dinastia regia di Hatti. A lui succede Labarna, il cui nome diviene poi titolo regio nella forma l/tabarna. Moglie di Labarna era Tawananna e questo nome proprio è anche il titolo che indica la regina di Hatti. Labarna designa come suo
successore il figlio del fratello della regina sua consorte. Tale successione indiretta rientra nella volontà della casa reale di Hatti di coinvolgere diversi clan familiari nella gestione del potere, nell’ottica di trovare alleanze in una situazione ancora di generale instabilità politica. Sale dunque al trono Hattusili I, che era stato il re della città di Kussara, e quindi discendente piú o meno diretto della dinastia di Anitta. Il suo nome significa «quello di Hattusa» e ciò conferma l’ipotesi che questa città fosse divenuta la sua residenza regia, anche se verosimilmente essa aveva svolto una funzione importante già al tempo di Huzziya I e Labarna. Questo re promuove l’adozione del sistema grafico cuneiforme di tradizione paleobabilonese, presumibilmente attraverso la mediazione di scribi siriani. Con Hattusili I
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LA STORIA
iniziano dunque ad apparire i primi testi in lingua ittita e, in realtà, questo sovrano ci ha lasciato una ricca documentazione. Possiamo cosí ricostruire alcuni dei principali eventi del suo regno. Hattusili I porta avanti un processo di unificazione e centralizzazione del regno di Hatti che trova però una forte resistenza da parte delle élite che fino ad allora avevano governato in maniera autonoma i propri territori. Il sovrano deve condurre una serie di spedizioni militari per reprimere ribellioni e spinte centripete sia in Anatolia settentrionale che centro-occidentale. Gli Annali di Hattusili I, che ci sono giunti in una redazione bilingue in ittita e accadico, celebrano le sue principali conquiste. Per affermarsi sul piano politico ed economico, il regno di Hatti aveva necessità di espandersi verso la Siria e controllare le vie commerciali che collegavano l’Anatolia a questa regione, ai porti del Mediterraneo e alla via fluviale dell’Eufrate. Hattusili I deve annientare vari
potentati, quali Hahhu (presso il sito di Lidar Höyük), Hashshu (forse presso Oylum Höyük) e Urshu (sito nell’area della moderna città di Gaziantep). Molti potentati della regione di cerniera tra Turchia e Siria erano retti da dinastie di tradizione hurrita e i testi ittiti del tempo di Hattusili I enfatizzano la forte opposizione dei Hurriti all’espansione ittita verso il Sud-Est. In Siria le realtà politiche principali erano il regno di Yamhad, con capitale Aleppo, e il regno di Ebla (Tell Mardikh). Hattusili I non riesce a conquistare Aleppo, ma attacca Alalah (Tell Atchana), un importante centro di questo regno.
Grande come Sargon
Ai successi ottenuti da Hattusili I, che amplia i confini del regno di Hatti ben oltre la barriera naturale delle catene montuose del Tauro e dell’Anti-Tauro, aveva contribuito la situazione internazionale di instabilità, dovuta al frazionamento politico dei potentati hurriti e alla debolezza del regno di Babilonia che iniziava a risentire della pressione esercitata da gruppi di Cassiti nelle regioni orientali del paese. Gli Annali celebrano le vittorie di Hattusili I, il cui acme è visto nell’attraversamento dell’Eufrate. Il sovrano ittita si paragona a Sargon, re di Akkad, che la tradizione mesopotamica considerava come il piú grande sovrano dell’età precedente. Nel caso di Hattusili I, come anche di tutti i suoi successori, la guerra non è solo il mezzo per espandere i confini di Hatti, ma anche lo strumento attraverso il quale acquisire Tavoletta cuneiforme recante il testo ricchezze. I territori di una lettera inviata da Hattusili I al conquistati sono re Tunya di Tigunani. sistematicamente
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Sulle due pagine carta geopolitica dell’Anatolia ittita.
depredati dei loro beni, oro, argento, bestiame e anche prigionieri che vengono impiegati come forza lavoro nei latifondi e nei centri produttivi statali. Se Hattusili I è stato sicuramente un grande condottiero, il suo potere era, però, contrastato da rivalità e conflitti all’interno della famiglia reale. Ne siamo informati da un testo di carattere singolare, noto nella letteratura secondaria come Testamento di Hattusili I. In questo documento, giuntoci, come gli Annali, in una redazione bilingue in ittita e in accadico, il sovrano dice di trovarsi a Kussara, dove, essendo malato, detta le sue ultime volontà e designa il suo successore. Sappiamo cosí dei tentativi di ribellione nei quali erano stati coinvolti un figlio e una figlia del sovrano; pertanto, Hattusili I designa come suo erede Mursili, che è considerato in genere come suo nipote.
Mursili I continua la politica di espansione del suo predecessore, conquista Aleppo e verosimilmente si deve a lui la distruzione di Ebla (vedi anche alle pp. 74-81). Mursili I si spinge oltre e compie un raid nel cuore della Mesopotamia arrivando a saccheggiare la città di Babilonia. Questo successo militare, che fu ottenuto forse grazie anche al supporto di milizie e mercenari cassiti, decreta l’affermazione del regno di Hatti sul piano internazionale facendolo uscire dalla marginalità politica dell’età precedente. Le lacerazioni intestine e le lotte tra le grandi famiglie anatoliche, tuttavia, continuano. Mursili I viene ucciso e sale al trono Hantili I. Nella tradizione ittita, forse promossa da questo stesso re, la morte violenta di Mursili I è vista come conseguenza dell’attacco a Babilonia, presentato come una manifestazione dell’arroganza del sovrano che gli ha fatto credere di potersi opporre all’ordine costituito. Sebbene la documentazione ittita di età
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LA STORIA
successiva lo presenti come un periodo di decadenza, il regno di Hantili I non era tale, se è stato proprio questo sovrano a promuovere l’edificazione della cinta muraria di Hattusa.
Una fase di recessione politica Qui non abbiamo lo spazio per esaminare nel dettaglio gli eventi occorsi durante il regno dei successori di Hantili I: Zidanta I, Ammuna e Huzziya II. Essi regnano in un periodo di recessione politica e nel quale Hatti perde il controllo di alcuni territori. Particolarmente grave è la perdita di Kizuwatna, regione posta in Anatolia sud-orientale, grosso modo nell’area della Cilicia di età classica. Inoltre l’emergere in Siria del regno hurrita di Mittani riporta Hatti all’interno dei confini anatolici. Tra la fine del XVI e l’inizio del XV secolo a.C. sale al trono Telipinu, un usurpatore che prende il potere in quanto marito della sorella di Huzziya II, dopo l’eliminazione dei successori diretti di quest’ultimo. Telipinu è l’estensore di un decreto regio che definisce una serie di aspetti importanti della vita politica del regno. La parte normativa è preceduta da una lunga introduzione che presenta gli eventi principali di Hatti partendo da Labarna. La narrazione segue un modello ben preciso; Telipinu, in parte alterando la realtà storica, descrive l’età di Labarna, Hattusili I e Mursili I come un’epoca di grande splendore grazie alla coesione della
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I sovrani di Hatti Huzziya I Labarna Hattusili I Mursili I Hantili I Zidanta I Ammuna Huzziya II Telipinu Alluwamna Hantili II Tahurwaili Zidanta II Huzziya III Muwatalli II
ANTICO REGNO prima metà del XVII secolo a.C.
fine del XVI o inizio del XV secolo a.C.
ETÀ PRE-IMPERIALE Tuthaliya I Arnuwanda I Tuthaliya II/III Suppiluliuma I
ETÀ IMPERIALE sale al trono alla metà del XIV secolo a.C.
Arnuwanda II Mursili II sale al trono negli anni Venti del XIV secolo a.C. Muwatalli II battaglia di Qadesh, 1275 a.C. Mursili III (Urhi-Teshub) Hattusili II Tuthaliya IV Arnuwanda III Suppiluliuma II collasso del regno negli anni Ottanta del XIII secolo a.C.
Resti della città di Ebla (Tell Mardikh), in Siria.
famiglia reale e della corte; diversamente, le rivalità del tempo dei successori di Mursili I avrebbero portato al collasso del regno, finché Telipinu non prende il potere e con le sue riforme dà vita a una nuova era. L’abilità di questo sovrano sta nel riuscire a presentarsi come colui che ha posto fine alla catena di delitti e ha riportato l’ordine nel paese, facendo cosí passare in secondo piano la sua condizione illegittima. L’editto di Telipinu definisce la modalità di successione al trono, normando quella che già era la consuetudine seguita da molti sovrani suoi predecessori. L’erede al trono, cosí, deve essere uno dei figli che il re ha avuto dalla sua consorte ufficiale; in assenza di un figlio di primo rango, il trono potrà passare a un figlio nato da una delle donne dell’harem. Se non vi sono figli, diviene re il marito di una figlia nata dalla regina. L’editto, dunque, permette al re di scegliere tra i suoi figli chi sembra essere il piú capace e il piú adatto a succedergli. La terza possibilità è conforme a una pratica già attuata dalle famiglie anatoliche; essa aveva lo scopo di conservare grandi patrimoni all’interno di un nucleo familiare privo di eredi maschi, facendo entrare un genero nel casato della moglie.
Organi collegiali Si deve a Telipinu anche la riorganizzazione amministrativa del regno, con la creazione di numerosi centri amministrativi, presso i quali vi erano strutture per lo stoccaggio di generi alimentari e altri beni. Nella fase piú antica della vita del regno, e anche al tempo di Telipinu, sono attivi due organi collegiali, il panku e il tuliya. Il primo era composto da funzionari di livello medio, mentre del secondo facevano parte personaggi della corte di alto rango. Il panku controllava l’operato dei piú alti dignitari, funzione che Telipinu ribadisce nell’ottica di limitare il potere di quella parte della corte che poteva contrastare le decisioni regie. Il tuliya, invece, aveva competenze prevalentemente giudiziarie nell’ambito di delitti commessi da membri della famiglia reale. Entrambi gli
organi non sono piú attivi in età successiva, quando il re assume un controllo piú stretto sullo Stato e al tempo stesso la macchina amministrativa viene riorganizzata. Telipinu stipula inoltre il primo trattato internazionale che sia giunto fino a noi: sigla infatti un accordo diplomatico con il re di Kizuwatna, Ishputahshu, stabilendo relazioni amichevoli con questa parte dell’Anatolia. Ancora una volta facciamo un salto cronologico e ci limitiamo a menzionare i successori di Telipinu, che sono Alluwamna, Hantili II, Tahurwaili, Zidanta II, Huzziya III e Muwatalli I. Sia Tahurwaili che Zidanta II stipulano trattati con Kizuwatna. L’accordo siglato da Zidanta II con il re Pilliya di Kizuwatna sembra indicare una subordinazione di quest’ultimo agli Ittiti. Tuttavia, altri documenti suggeriscono che Kizuwatna tornò poi nella sfera politica di Mittani. Possiamo immaginare che i re di Kizuwatna, per quanto formalmente sudditi di Mittani, cercassero anche l’alleanza di Hatti, forse nell’ottica di essere partecipi del circuito economico anatolico.
Prima dell’impero Huzziya III viene assassinato in una congiura ordita da Muwatalli, che prende cosí il potere, ma anche questi viene a sua volta ucciso da due personaggi di nome Himuili e Kantuzili. Sale al trono il re Tuthaliya I, figlio di Kantuzili. Tuthaliya I è contemporaneo del re Saushtatar di Mittani che possiamo identificare come il rivale del faraone Thutmosi III nella battaglia di Megiddo (1457 a.C.). La documentazione sul regno di Tuthaliya I fa intravedere uno scenario di lotte interne alcune delle quali fomentate dalla corte di Mittani. Tuttavia, Tuthaliya I riesce a consolidare il suo potere e riprende la politica espansionistica dei suoi piú antichi predecessori. Guida spedizioni militari in Anatolia occidentale, sulla costa della quale iniziano ad arrivare i primi mercanti micenei, genti che le fonti ittite chiamano Ahhiya(wa). Il sovrano deve anche affrontare i raid che erano condotti in territorio ittita dalle tribú dei Kaska stanziatesi lungo la costa del Mar Nero.
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LA STORIA
Infine, approfittando della debolezza del regno di Mittani, impegnato nel conflitto con l’Egitto, Tuthaliya I compie spedizioni in Siria riconquistando Aleppo. Tuttavia, l’evento di maggiore rilevanza politica del suo regno è l’annessione di Kizuwatna. Si parla di annessione, perché nessun documento ittita menziona una campagna militare contro questo paese. Forse per evitare un’invasione militare, la casa reale di Kizuwatna aveva concluso un accordo con Tuthaliya I, promuovendo la fusione tra i due paesi, che si concretizzava in un matrimonio tra il sovrano ittita e la principessa Nikkal-madi, verosimilmente appartenente alla famiglia reale kizuwatnea. Vi è stato forse anche un secondo matrimonio tra un principe di Kizuwatna e la sorella di Tuthaliya I. L’annessione di Kizuwatna significa per Hatti un’espansione territoriale verso la regione siriana e il controllo di importanti vie commerciali. Inoltre, Kizuwatna, che per un certo tempo era stata sotto la sovranità di Mittani e aveva fortemente risentito della sua influenza culturale, aveva assorbito molti elementi della tradizione hurrita come anche di quella mesopotamica filtrata attraverso Mittani. La presenza di una principessa kizuwatena alla corte ittita favorisce la diffusione della lingua, della cultura e della religione hurrita che, pur limitata all’interno della famiglia reale, determina la redazione di molti documenti in hurrita. Inoltre, per la prima volta, alcuni membri della famiglia reale portano nomi hurriti, come Nikkal-madi e sua figlia Ashmu-Nikkal. Tuthaliya dà in sposa la propria figlia AshmuNikkal ad Arnuwanda, designato come erede al trono e associato in co-reggenza con il suocero. Questa successione appare anomala, perché Tuthaliya aveva figli maschi. Possiamo ipotizzare che il matrimonio tra la principessa, figlia di Nikkal-madi, e un membro dell’aristocrazia anatolica, che portava un nome appartenente a questa tradizione culturale, servisse a rinsaldare le due anime della società ittita del tempo, quella dell’Anatolia centrosettentrionale e quella kizuwatnea.
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Tuthaliya I e Arnuwanda I insieme, e poi il secondo da solo, si trovano a dover contenere la presenza di genti micenee in Anatolia che non rappresentavano certo un pericolo militare, ma determinavano situazioni di instabilità presso le comunità sotto il controllo politico ittita. Ben piú grave, invece, è la minaccia dei Kaska. Alcune tribú nord-anatoliche, che le fonti ittite identificano come kaskee, si impossessano della città di Nerik (nel sito moderno di Oymaaghaç), sede di un importante santuario del dio della Tempesta che diviene cosí inaccessibile ai sacerdoti ittiti. Ad Arnuwanda I succede Tuthaliya II/III. In realtà, si tratta del secondo sovrano con questo nome, poiché l’esistenza di un re Tuthaliya II prima di Arnuwanda, ipotizzata in precedenza, si è dimostrata infondata. Tuthaliya II/III è il primo sovrano ittita che porta anche un nome hurrita, Tashmi-Sharri. A lui si deve l’edificazione di una grande residenza regia, Sapinuwa (presso l’odierna Ortaköy), nel cui palazzo è stato rinvenuto un archivio con numerose tavolette, molte delle quali in lingua hurrita, segno tangibile dell’interesse di Tuthaliya II/III e della regina Puduhepa per la tradizione culturale hurrita. Tuthaliya II/III deve contenere l’espansione del regno di Arzawa, in Anatolia occidentale e con capitale Apasa (Efeso), e cerca di arginare la pressione hurrita sul fronte orientale nella regione di Ishuwa, a est del fiume Eufrate. Nonostante le fonti ittite di età successiva ne dipingano il regno come un’età di grave crisi, questo re ha saputo mantenere saldo il timone del potere e ha iniziato a condurre spedizioni verso la Siria occidentale in funzione anti-mittanica.
L’età imperiale La corte viene di nuovo lacerata da un altro conflitto. Suppiluliuma, genero di Tuthaliya II/III per averne sposato la figlia Henti, uccide l’erede al trono Tuthaliya il Giovane e manda in esilio a Cipro i fratelli di questo. Suppiluliuma godeva presumibilmente dell’appoggio dell’esercito essendo stato a capo di numerose spedizioni militari anche insieme al suocero.
Disegno ricostruttivo di un carro ittita che si lancia contro le truppe egiziane nel corso della battaglia di Qadesh (1275 a.C.).
Inoltre, era forse governatore di una qualche regione dell’Anatolia. Suppilulima I, che prende il potere intorno alla metà del XIV secolo a.C., è considerato il fondatore dell’impero e, in effetti, con reiterate campagne militari, riesce a impadronirsi di gran parte della Siria. Scopo principale delle sue spedizioni militari è la conquista del regno di Mittani, che si trova in una situazione di debolezza politica a seguito di complotti all’interno della corte. La strategia di Suppiluliuma I prevedeva la conquista delle regioni nord-orientali dell’Anatolia attraverso le quali l’esercito ittita avrebbe poi puntato sulla città di Washshukanni, capitale di Mittani. Dunque, il re entra nella regione di Hayasa e la rende soggetta agli Ittiti stipulando un trattato di subordinazione con il signore di questo potentato. A lui Suppiluliuma I dà in moglie la propria sorella suggellando l’accordo con un matrimonio inter-dinastico.
Matrimoni inter-dinastici A partire da Suppiluliuma I i sovrani ittiti concedono spesso principesse della famiglia
reale a sovrani subordinati. Gli accordi presi con questi ultimi, tuttavia, prevedono che la principessa ittita sia la consorte ufficiale e la madre dell’erede al trono. Anche il matrimonio inter-dinastico è uno strumento di potere, perché faceva sí che le dinastie locali sotto il controllo di Hatti assimilassero la lingua e la cultura ittita nel giro di due generazioni. L’esatta successione delle campagne militari di Suppiluliuma I non può essere ricostruita con certezza, sebbene sia documentata da svariate fonti, come le Gesta del sovrano redatte da suo figlio Mursili II, le introduzioni dei trattati conclusi con i sovrani siriani assoggettati, le lettere scambiate tra i re levantini e il faraone, rinvenute nell’archivio egiziano di Tell el-Amarna, e le tavolette di Qatna. Alcuni territori furono presi con la forza delle armi, mentre altri si sottomisero spontaneamente a Hatti, come fecero Ugarit e Amurru, quest’ultimo suddito egiziano. Riteniamo che Suppiluliuma I non avesse originariamente il proposito di occupare regioni che erano dominii dell’Egitto; tuttavia, la presenza dell’esercito ittita e la conflittualità latente tra molti dei
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LA STORIA
Sulle due pagine Tebe (Egitto), Ramesseum. Particolari dei rilievi incisi su uno dei piloni d’ingresso in cui è raffigurata la celebre battaglia di Qadesh. Secondo la cronologia tradizionale, lo scontro si combatté nel 1275 a.C. e vide fronteggiarsi le truppe del faraone Ramesse II e quelle del re ittita Muwatalli II.
potentati della zona avevano innescato fenomeni di paura e scelte di opportunità che portarono appunto alcuni di questi a passare dalla parte ittita. Il faraone Amenhotep IV non rimase inerme e truppe egiziane e ittite si scontrarono nella regione di Amka, nell’odierno Libano. I soldati egiziani fatti prigionieri contagiarono le truppe ittite che contrassero una grave malattia epidemica. L’epidemia rimase attiva per circa vent’anni, mietendo molte vittime tra la popolazione ittita. Dopo aver assediato ed espugnato Karkemish, una fortezza di Mittani sull’Eufrate, Suppiluliuma I poté lanciarsi alla conquista di Mittani. Il re di Hatti aveva accolto un principe della casa reale di Mittani di nome Shattiwaza nel quale intravide il futuro sovrano di quel regno. Alla fine delle molte campagne militari, Suppiluliuma I conquista vasti territori; a capo di alcuni di questi il re ittita pone membri della casa reale di Hatti, mentre lascia sul trono di altri potentati quei sovrani che si erano volontariamente sottomessi a lui. Cosí pone suo figlio Telepinu a capo di Aleppo, sede di un importante santuario del dio della Tempesta, e
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designa un altro suo figlio, Piyassili, quale sovrano del regno di Karkemish, che diviene una nuova realtà politica, intesa a rafforzare il controllo ittita in Siria. Regni subordinati a Hatti divengono Ugarit, il principale porto e hub commerciale del Mediterraneo orientale, Amurru, Nuhhashshe e Qadesh, che si trovava sul confine tra Hatti e l’Egitto. Anche il regno di Mittani, che perde la sua indipendenza, viene affidato a Shattiwaza. Con ognuno di questi sovrani Suppiluliuma stipula un trattato internazionale, e ci sono pervenuti alcuni di questi documenti.
Divide et impera Alla morte di Suppiluliuma I sale al trono il figlio Arnuwanda II, che però muore dopo poco. Entrambi cadono vittime dell’epidemia trasmessa dai prigionieri egiziani nella spedizione condotta nel territorio di Amka. Il regno passa nelle mani di un altro figlio di Suppiluliuma I, Mursili II, il quale porta a termine un progetto che suo padre aveva forse immaginato, ma non intrapreso e cioè la conquista del regno di Arzawa, in Anatolia
occidentale. Mursili II riesce nell’intento e, temendo che questo territorio potesse ancora ribellarsi agli Ittiti, per indebolirne le capacità offensive, lo fraziona in tre potentati, il regno del fiume Seha (corrispondente alla regione tra i fiumi Ermo e Caico), il regno di Mira e Kuwaliya, lungo il corso del fiume Meandro, e il regno di Hapalla, piú a oriente. Mursili II stipula un trattato con ciascuno dei sovrani di questi tre potentati che sono obbligati a rispettare i confini territoriali imposti a ognuno di essi, oltre che rimanere fedeli a Hatti. A Mursili II succede il figlio Muwatalli II, che consolida il controllo ittita in Anatolia occidentale e stipula un trattato con il nuovo sovrano di Wilusiya, toponimo che si riferisce all’insediamento di Ilios/Troia.
Il trasferimento della capitale Muwatalli II è il re che decide di abbandonare Hattusa e porta la capitale in Anatolia meridionale a Tarhuntassa, la cui esatta localizzazione non è ancora nota. Doveva trovarsi nella regione della moderna città di Konya e recentemente è stata avanzata l’ipotesi
che si trovi presso il sito di Türkmen Karahöyük. Non sappiamo quali motivazioni abbiano portato Muwatalli II a rompere in maniera cosí radicale con la tradizione, lasciando una città che da secoli era capitale del regno. Indubbiamente Hattusa si trovava in una posizione ormai fortemente decentrata in un impero che si estendeva su gran parte della Siria ed era anche difficilmente connessa al Mediterraneo lungo il quale si muovevano commerci e contatti politici. Inoltre, l’Anatolia settentrionale era stata sovrasfruttata nei secoli precedenti e forse non riusciva piú ad assicurare le risorse necessarie a sostenere una grande capitale. Tuttavia, un elemento decisivo dev’essere stato il ripresentarsi dell’epidemia che aveva ucciso Suppiluliuma I. Le molte preghiere elevate da Mursili II agli dèi per scongiurare la fine del contagio facevano intravedere la disperazione del sovrano, che lo percepiva come una punizione divina. Muwatalli II può aver ritenuto che Hattusa fosse una città maledetta dagli dèi e che fosse dunque necessario fondare una nuova capitale dedicata proprio al dio della Tempesta. E il nome di questa capitale,
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LA STORIA
Tavoletta recante il testo di una lettera inviata da Naptera, una delle mogli di Ramesse II, a Puduhepa, consorte di Hattusili III, a proposito della pace tra i loro due Stati, da Hattusa. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.
Tarhuntassa, significa appunto «quella (= la città) del dio Tarhunta». Tarhunta è il nome luvio del dio della Tempesta, a cui Muwatalli II era particolarmente devoto. L’evento piú significativo del regno di Muwatalli è il grande scontro con l’Egitto, che si consuma nella piana di Qadesh nel 1275, secondo la cronologia tradizionale. Il faraone Ramesse II era desideroso di riconquistare i territori che Suppiluliuma I aveva strappato all’Egitto e cosí, nel quinto anno del suo regno, muove con un ingente esercito alla volta della Siria. Gli Ittiti si trovano questa volta a dover condurre una guerra di difesa, dopo che per secoli erano stati gli aggressori in regioni dominate da altre realtà politiche. Purtroppo, non ci sono giunte fonti ittite sulla battaglia di Qadesh e abbiamo a
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disposizione solo la documentazione egiziana, il Poema e il Bollettino. Si tratta di testi propagandistici volti a esaltare la figura di Ramesse II e quindi non offrono una presentazione oggettiva degli eventi. Nonostante dichiarino che la battaglia si concluse con una grande vittoria egiziana, trapela l’insoddisfazione del faraone per l’incapacità dell’intelligence egiziana di prevedere la strategia ittita e per l’inefficienza dei suoi generali nell’affrontare la battaglia. Resta comunque il fatto che gli Ittiti non perdono nessuno dei loro territori e anche Amurru, che Ramesse II aveva occupato, torna sotto il controllo ittita. Dopo la battaglia di Qadesh Hatti e l’Egitto interrompono le relazioni diplomatiche per quindici anni.
Il successore di Muwatalli II è suo figlio, Mursili III, che riporta la capitale a Hattusa: una decisione forse motivata dalla volontà di riprendere il controllo della parte settentrionale del paese che Muwatalli II aveva affidato al fratello Hattusili. Tra Mursili III e lo zio Hattusili sorge presto una rivalità, che porta a un conflitto aperto, conclusosi con la vittoria del secondo sul primo. Hattusili prende il potere ed è noto nella letteratura secondaria come Hattusili III, anche se in realtà vi sono solo due sovrani con questo nome, dal momento che l’esistenza di un ipotetico re Hattusili II, successore di Tuthaliya I, si è rivelata infondata. Mursili III viene esiliato, prima in Siria, poi in Anatolia occidentale e infine di nuovo in Siria; egli trova sostegno presso Ramesse II che lo supporta in funzione anti-ittita.
A patti con il faraone In quanto usurpatore, Hattusili III ha bisogno di riconoscimento sia all’interno del suo paese, sia a livello internazionale. Promuove, dunque, la conclusione di un trattato di pace con l’Egitto, che viene siglato nel ventunesimo anno di regno di Ramesse II, cioè sedici anni dopo lo svolgimento della battaglia. Il trattato era paritetico e pertanto redatto in accadico in due versioni, una di parte egiziana e una di parte ittita, ma con identiche clausole. Era stato inciso su due tavole di argento che non ci sono pervenute, ma delle quali si parla nelle lettere scambiate tra la corte faraonica e quella ittita. Inoltre, il testo di questo importante documento di politica internazionale è tramandato da copie su tavolette di argilla rinvenute a Hattusa e dalla sua traduzione in egiziano conservata su due stele, una a Karnak e una nel Ramesseum. Queste ultime redazioni danno anche notizia su chi fossero i messaggeri ittiti che avevano portato la tavola d’argento al faraone. La conclusione del trattato fu anche sancita dal matrimonio tra una figlia di Hattusili III e il faraone. La diversa visione che i sovrani ittiti avevano del matrimonio tra due membri di case reali rispetto a quella del faraone
determinò una lunga trattativa matrimoniale, in parte condotta dalla regina ittita Puduhepa. Hattusili III chiedeva che il faraone assicurasse alla principessa ittita un rango elevato, a differenza di quanto spesso accadeva alle figlie di altre case reali asiatiche andate in spose al faraone. Si raggiunge un compromesso e il matrimonio viene finalmente concluso. Dell’intensa attività del «Foreign Office» di Hattusili III sono prova le lettere inviate alla corte babilonese nell’ottica di rafforzare le relazioni diplomatiche con questo paese, anche in considerazione del fatto che i rapporti di Hatti con l’Assiria erano divenuti tesi. Infatti, verosimilmente durante il regno di Muwatalli II, l’Assiria si era impadronita di Mittani. Hattusili III conduce anche una complessa trattativa diplomatica con il paese di Ahhiyawa, che offriva supporto a un personaggio di nome Piyamaradu. Questi era molto probabilmente un membro della famiglia reale di Arzawa che conduceva spesso raid sulle coste anatoliche. Un lungo testo, la terza tavoletta di un memorandum per i messaggeri ittiti, menziona anche la fine dell’ostilità tra Hatti e Ahhiyawa per il controllo sulla città di Wilusiya/Troia. Una delle decisioni piú significative di Hattusili III è la creazione di una nuova realtà politica, il regno di Tarhuntassa in Anatolia meridionale. A capo di questo regno viene posto UlmiTeshub/Kuruntiya, figlio di Muwatalli II. Riteniamo che Hattusili III volesse cosí tacitare le legittime aspirazioni di Kuruntiya al trono imperiale che era stato di suo padre. Inoltre, questa designazione assicurava al re di Hatti, un usurpatore, il supporto di quella parte della corte che non aveva visto di buon occhio la sconfitta di Mursili III e il suo esilio.
Un nuovo regno Il trattato concluso tra Hattusili III e Kuruntiya era scritto su una tavola di ferro non pervenutaci, ma è comunque conservato su una tavoletta preparatoria di argilla. Nonostante questo trattato, come anche il successivo siglato da Tuthaliya IV con Kuruntiya, descrivano in dettaglio i confini del regno di Tarhuntassa, la
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LA STORIA
sua esatta estensione è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi. Esso doveva coprire la parte meridionale della piana di Konya e raggiungeva il mare. Tuttavia, sembra da escludere che il porto di Ura, localizzabile a Silifke, fosse fuori dal controllo diretto ittita, trattandosi di un importante hub commerciale. A Hattusili III succede Tuthaliya IV, uno dei figli nati dal matrimonio con Puduhepa, a cui si deve l’estensione di un nuovo trattato con Tarhuntassa, giuntoci nella sua redazione originale su una tavola di bronzo. Nel trattato il re di Hatti concede a Kuruntiya ulteriori territori, esenzioni da tributi e dal fornire un esercito. Si tratta di concessioni volte ad acquisire il supporto di Kuruntiya, anche se forse la demilitarizzazione del paese aveva lo scopo di rendere inoffensivo un personaggio che avrebbe potuto rivendicare il trono. Tuttavia, l’ipotesi di un colpo di Stato compiuto da Kuruntiya, che lo avrebbe portato al potere, anche se per poco tempo, non è, in realtà, supportata da solide evidenze documentarie. Al tempo di Tuthaliya IV i rapporti tra il regno assiro e quello ittita divengono critici e si verificano scontri militari nelle regioni di confine tra i due paesi. Inoltre, il trattato internazionale siglato da Tuthaliya IV con Shaushgamuwa di Amurru documenta l’obbligo da parte di quest’ultimo paese di osservare l’embargo commerciale imposto da Hatti all’Assiria. Altre fonti, tuttavia, ci dicono che i paesi siriani sotto controllo ittita continuarono ad avere relazioni economiche con l’Assiria e, dunque, dev’essersi trattato di una misura di breve durata.
Il collasso del regno Figlio di Tuthaliya IV, Suppiluliuma II è l’ultimo sovrano della dinastia ittita a noi noto. Conduce una campagna militare navale contro l’isola di Cipro, Alashiya, che è documentata da una tavoletta cuneiforme e da un’iscrizione monumentale in luvio geroglifico incisa sul pendio del picco roccioso di Nishantash, nella Città Alta di Hattusa. Questa spedizione è la prova che il regno ittita era ancora vitale e
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capace di intraprendere azioni militari impegnative. Al tempo stesso, è un indizio dell’instabilità che si andava creando nel Mediterraneo orientale e che presumibilmente aveva reso non piú regolari le forniture di rame che Hatti acquisiva da centri dell’isola. Le testimonianze archeologiche supportano l’ipotesi che Suppiluliuma II, a un certo punto del suo regno, abbia abbandonato Hattusa portando via beni di lusso e anche i documenti ritenuti necessari allo svolgimento degli affari di Stato altrove. Non sappiamo, però, dove Suppiluliuma II e la corte si erano diretti, né siamo in grado di conoscere le motivazioni che spinsero il re a questo nuovo trasferimento della capitale, né quali fossero le sue aspettative. In realtà, il regno di Hatti attraversava da tempo una fase di crisi. La situazione economica del paese non era florida, soprattutto perché, in seguito alle espansioni territoriali compiute da Suppiluliuma I e Mursili II, i confini di Hatti erano rimasti stabili e non vi erano piú territori ricchi da conquistare e saccheggiare. Le guerre erano state per secoli lo strumento attraverso il quale il regno ittita aveva acquisito ricchezze e forza lavoro grazie alle deportazioni di prigionieri e schiavi. Diversamente, Hatti aveva dovuto sostenere un grande sforzo bellico di pura difesa a Qadesh contro l’Egitto, che aveva avuto un costo notevole, anche di vite umane, senza portare vantaggi economici. L’epidemia, diffusasi alla fine del regno di Suppiluliuma I, aveva sicuramente causato la morte di una parte della popolazione, diminuendo cosí il numero dei lavoratori agricoli e costringendo Mursili II a compiere massicce deportazioni dall’Anatolia occidentale verso le aree centrali e settentrionali del paese. Richieste di acquisizioni di cereali trasportati dalle navi mercantili di Ugarit suggeriscono che si fossero verificate situazioni di scarsità di beni alimentari, anche se non vi sono indizi nelle fonti su una vera e propria carestia. Il succedersi di colpi di Stato, e in particolare quello compiuto da Hattusili III, aveva minato il carisma della monarchia e della casa reale ittita. L’incapacità di Hatti nel difendere Mittani
Frammento di un rilievo di produzione egiziana nel quale compare il profilo di un personaggio convenzionalmente identificato con il re ittita Muwatalli II: Parigi, Museo del Louvre.
dall’aggressione assira aveva mostrato ai paesi sudditi che l’ombrello protettivo militare ittita non era piú efficace. Dunque, il re di Ugarit aveva iniziato a manifestare segnali di insofferenza nell’eseguire gli ordini del Gran Re di Hatti, e una ribellione all’autorità ittita avvenne sia nel paese di Seha, sia a Wilusiya. I re dei paesi subordinati, cosí come gli alti dignitari, si attribuivano titoli e simboli del potere che fino ad allora erano stati esclusivi
del re di Hatti e questo è un segnale della debolezza del potere centrale. Inoltre, la crisi dei potentati micenei, che avevano fino ad allora assicurato una sorta di controllo sulle vie marittime dell’Egeo, determinò movimenti di popolazione per terra e per mare che destabilizzavano le comunità costiere dell’Anatolia e della Siria.
I Popoli del mare Le fonti egiziane del tempo di Ramesse III documentano scontri che l’esercito egiziano avrebbe avuto contro una coalizione di genti definite «Popoli del mare». La presenza di gruppi di popolazione che raggiungevano la costa per mare è segnalata anche dalle tavolette ittite e da quelle di Ugarit. Si verificarono sicuramente episodi di conflittualità tra questi nuovi arrivati e le comunità locali; tuttavia, la crisi di Hatti non è imputabile esclusivamente alla penetrazione dei «Popoli del mare». Le ultime testimonianze sul regno di Hatti si datano nel secondo decennio del XII secolo a.C. e dopo questa data il regno ittita cessa di esistere. Alcuni abitanti risiedono ancora a Hattusa, ma le porte monumentali della Città Alta vengono tamponate e molte aree del sito abbandonate. In pochi anni non si produce piú ceramica fatta al tornio, ma solo manufatti in argilla realizzati a mano: un segno dell’impoverimento della comunità che risiedeva in questa città e della scomparsa dei centri produttivi attivi fino ad allora. L’effetto scatenante che ha determinato la fine della casa reale ittita potrebbe essere stata la morte del sovrano e dei suoi figli, forse per una nuova ondata della malattia epidemica che tormentava il paese da un secolo. Se Hatti come realtà politica scompare, e con esso l’uso della lingua ittita in caratteri cuneiformi, tuttavia un’eco della cultura ittita sopravvive nel regno di Karkemish (vedi anche il capitolo alle pp. 114-123), come anche presso le case reali dei potentati che si sviluppano in Siria e Anatolia nel corso dei primi secoli del I millennio a.C.
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IL POTERE SCOLPITO NELLA ROCCIA Sigilli realizzati seguendo precisi canoni decorativi e, soprattutto, spettacolari rilievi rupestri: ecco come i sovrani ittiti esaltavano – e comunicavano – il proprio status regale di Clelia Mora
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Fraktin (Anatolia centro-meridionale). Il rilievo rupestre con iscrizione geroglifica nel quale sono rappresentati il re Hattusili III e la sua consorte Puduhepa nell’atto di offrire una libagione di fronte alle immagini del dio della Tempesta e alla sua paredra.
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LE IMMAGINI DEL POTERE
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ino all’inizio del XIII secolo a.C. il re ittita si occupava degli affari di Stato, di conquiste militari, dell’amministrazione del paese e di importanti celebrazioni religiose. Non ci sono rimaste testimonianze – almeno in base alle nostre conoscenze attuali – di iscrizioni pubbliche, immagini, simboli o altri mezzi che potessero diffondere il suo nome e le sue imprese nei territori marginali. Anche i sigilli reali, fino ad allora, erano piuttosto sobri se si eccettua l’introduzione, già nel XIV secolo a.C., del simbolo del sole alato, dapprima minuscolo, poi sempre piú allargato per coprire tutta la parte superiore del tradizionale campo circolare (vedi disegno a destra, in alto). A quanto risulta fino a oggi, ad avviare una nuova fase di «pubblicizzazione» della figura e del ruolo del sovrano è stato il re Muwatalli II. Il rilievo che lo rappresenta a Sirkeli, nella zona sud-orientale della penisola anatolica, (vedi disegno a destra, in basso) è infatti il primo esempio a noi noto di un nuovo modo di interpretare il proprio ruolo da parte dei re ittiti. Il rilievo si trova su una parete rocciosa verticale posta lugo il corso del fiume Ceihan (l’antico Pyramos): il re è rappresentato con il tradizionale abito lungo e il copricapo a calotta, tipico delle cerimonie religiose, e regge con la mano sinistra il bastone con estremità inferiore ricurva; all’altezza della testa, sulla destra, una breve iscrizione in caratteri geroglifici riporta il nome e i titoli del re. Un altro rilievo che rappresenta un altro re in abbigliamento analogo è stato scoperto successivamente sulla stessa parete rocciosa, a distanza di pochi metri: nuove ricerche hanno stabilito trattarsi del figlio e successore Mursili III. Considerata la collocazione nella zona meridionale dell’Anatolia, il rilievo raffigurante Muwatalli è stato messo in relazione con i grandi eventi che hanno caratterizzato il suo regno: lo spostamento della capitale a Tarhuntassa (non localizzata, ma certamente da collocare nella regione meridionale) e lo scontro militare con l’Egitto, in Siria. Lo stesso re Muwatalli ha introdotto
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Restituzione grafica di un sigillo reale di Suppiluliuma I in cui il simbolo del sole copre tutta la parte superiore del campo circolare. XIV sec. a.C.
Restituzione grafica di un rilievo rappresentante il re Muwatalli II scoperto a Sirkeli, nei pressi del villaggio omonimo.
un’importante novità anche per le raffigurazioni sui sigilli: compaiono ora sul grande sigillo reale figure umane e divine. La tipica scena in cui il dio della Tempesta (divinità tutelare del re) cinge il sovrano in un abbraccio protettivo, caratterizza in particolare questa nuova tendenza (vedi disegno qui a sinistra). Questi «nuovi» sigilli potevano avere dimensioni notevoli: in base alle impronte conservate, alcuni esemplari avevano un diametro superiore ai 5 cm. Il ritrovamento di alcune impronte di questi sigilli nei depositi di cretule della capitale ittita dimostra che un cambiamento rispetto alla tradizione era già in atto prima del trasferimento della capitale nella nuova sede a sud.
Nuove strategie di comunicazione
Restituzione grafica di un sigillo di Muwatalli II nel quale compare la scena del dio della Tempesta che abbraccia il sovrano.
Sigillo reale in cui compare il dio della Tempesta alla guida di un carro trainato da due tori e seguito da un attendente vestito come lui.
A partire dal regno di Muwatalli II i re ittiti affiancano alle tradizionali incombenze politiche, militari, religiose, anche quella comunicativa: anche i re successivi, infatti, si lasciano ritrarre in varie fogge su rilievi rupestri o arricchiscono i loro sigilli con scene complesse e di pregevole esecuzione. I motivi di questo cambiamento di strategia si possono solo immaginare: forse, non potendo assicurare una sua presenza periodica nei territori del regno, che aveva assunto ormai dimensioni «imperiali», il re ittita cercava di ovviare attraverso la diffusione di immagini scolpite oppure con la circolazione del suo sigillo, sempre piú elaborato e spettacolare. Inoltre, i rapporti piú frequenti con altre realtà statali che tradizionalmente utilizzavano il medium visuale per presentare e promuovere la figura del re (si pensi all’Egitto faraonico) hanno certamente giocato un certo ruolo. Il figlio e successore di Muwatalli, Urhi-Teshub/ Mursili III, riprende il tema dell’abbraccio divino sui sigilli reali, ma alcuni esemplari introducono anche una nuova scena particolarmente elaborata, che rappresenta il dio della Tempesta alla guida di un carro trainato da due tori e seguito da un attendente abbigliato come il dio (vedi foto qui a sinistra). Il motivo è collegato al culto del dio della Tempesta di Aleppo (un centro sotto controllo
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Tavoletta iscritta con caratteri cuneiformi, al centro della quale è impresso un sigillo del re Tuthaliya IV, del quale viene proposta, qui accanto, anche la restituzione grafica, da Ugarit (Siria). XIII sec. a.C. Damasco, Museo Nazionale.
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ittita dall’epoca del re Suppiluliuma I) e ha una notevole fortuna: lo ritroviamo, come vedremo, su un rilievo rupestre (Imamkulu), e anche in epoca successiva sia a Malatya, in Anatolia, che in Siria, tra gli ortostati scolpiti che decoravano appunto il tempio del dio della tempesta di Aleppo, datato al X secolo a.C. Il re Hattusili (III), fratello e secondo successore di Muwatalli, che ottenne il trono spodestando il nipote Mursili III, non sembra proseguire la linea dei predecessori per quanto riguarda le decorazioni dei sigilli (almeno di quelli di cui si è conservata traccia). Forse in un’ottica di «restaurazione», le impronte di sigilli di questo re conservate negli archivi della capitale ittita presentano soltanto nome e titoli del sovrano, sotto l’emblema «del disco solare alato», che, a partire da questo periodo, diventa una presenza costante. È tuttavia importante ricordare che alla fine del trattato di pace tra Egitto e regno ittita, siglato tra il faraone Ramesse II e il re Hattusili alcuni anni dopo la battaglia di Qadesh, sono descritti – nella versione in geroglifico egiziano del trattato stesso – i sigilli della coppia reale ittita che siglavano il testo: in base a questa testimonianza, sul sigillo del re ittita era rappresentato il re abbracciato dal dio della Tempesta, mentre sul sigillo della regina Puduhepa, moglie di Hattusili, era rappresentata la regina stessa cinta dall’abbraccio della dea Sole di Arinna.
Scene di libagione Lo stesso re Hattusili III è stato probabilmente il «promotore» di uno dei piú interessanti rilievi rupestri ittiti. Il rilievo di Fraktin è collocato anch’esso su una parete rocciosa perfettamente verticale (vedi foto alle pp. 28/29). In una nicchia rettangolare poco profonda ricavata nella parete sono state scolpite scene di libagione. L’intera raffigurazione occupa una superficie di 3 m di lunghezza e di 1 m circa di altezza, ed è collocata a metà circa della parete rocciosa. Una seconda nicchia, immediatamente a destra della precedente e di dimensioni piú
Hattusa, santuario di Yazılıkaya, camera B. Rilievo che raffigura il re Tuthaliya IV abbracciato dal dio Sarruma, a indicare che egli si trovava sotto la protezione divina e che il suo operato era guidato dal dio.
ridotte, ospita una breve iscrizione in scrittura geroglifica anatolica, anch’essa in rilievo. La scena rappresenta il re Hattusili (identificato in base all’iscrizione in caratteri geroglifici) mentre offre una libagione a una divinità, da cui lo separa un altare; è interessante osservare che l’abbigliamento del dio e quello del re sono molto simili. Nella parte destra della scena è invece rappresentata la regina Puduhepa, moglie di Hattusili, nell’atto di offrire una libagione a una divinità seduta davanti a un altare. L’iscrizione geroglifica che si trova nella nicchia piú piccola a destra della scena principale indica tra l’altro la terra di origine della regina. Poiché le figure sono scolpite in rilievo molto basso e poco modellate, è stato supposto che l’opera fosse incompiuta, ma
Restituzione grafica di un sigillo reale di Tuthaliya IV, nel quale, oltre a immagini consuete, come quella del simbolo solare alato, si vedono motivi nuovi, l’aquila bicipite e i grifi che reggono altre figure.
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forse, piú probabilmente, era in origine dipinta e l’effetto di rilievo piatto è stato anche prodotto dalla perdita del colore. Che la rappresentazione del re e della regina non avesse soltanto l’intento di «pubblicizzare» le loro figure e i loro nomi al di fuori della capitale è indicato da un paio di dati: nella base superiore orizzontale della roccia su cui si trova il rilievo sono stati ritrovati alcuni incavi di forma circolare (aventi un diametro di 20 cm circa) che molto probabilmente servivano per attività di culto; inoltre, il rilievo si trova perfettamente in asse con la cima del monte Erciyes, la vetta piú alta della regione, che ha la cima innevata per gran
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parte dell’anno. Considerata l’importanza che gli Ittiti riservavano al culto delle montagne, la collocazione e l’orientamento del rilievo non erano probabilmente casuali: politica, religione e potere sono molto spesso correlati nella storia e nella cultura ittita, ed è per noi spesso difficile decodificare le poche tracce che si sono conservate.
Una scenografia monumentale Il figlio e successore di Hattusili, Tuthaliya IV, è stato promotore di numerosi e importanti monumenti. Il cosiddetto «santuario rupestre» di Yazılıkaya, poco a nord-est della capitale ittita Hattusa, è una monumentale
Eflatun Pınar (Anatolia centromeridionale). Facciata scolpita ad altorilievo con figure che rappresentano le piú importanti divinità del pantheon ittita, sormontate da un doppio disco solare. XIII sec. a.C.
scenografia tra le rocce, a cielo aperto, suddivisa in due vani o «camere» (vedi anche alle pp. 102-113). Nella camera principale sono rappresentate in rilievo le divinità piú importanti del pantheon ittito-hurrita, in due cortei (maschile e femminile) che si incontrano nel punto centrale. Oltre i cortei delle divinità si trova il rilievo raffigurante il Grande re Tuthaliya, in abito lungo sacerdotale, che poggia su due montagne e regge con la mano destra i segni geroglifici indicanti il suo nome e la sua titolatura. Nella seconda camera si trovano: un’altra rappresentazione dello stesso re, questa volta nella scena dell’abbraccio con il dio «personale» Sharruma (vedi foto a p. 33, in
alto), il rilievo rappresentante il cosiddetto «diospada», divinità degli inferi, e l’impressionante sfilata dei «12 dèi», in movimento veloce e sincrono verso destra. Si noti che tutte le figure del «santuario» di Yazılıkaya sono a rilievo molto alto, a differenza di alcuni rilievi su roccia descritti in precedenza. Il complesso di Yazılıkaya, che comprendeva anche una parte in muratura di cui sono rimaste tracce soltanto nei resti delle fondamenta, è da collocare nel XIII secolo a.C., probabilmente nella seconda metà, e il re Tuthaliya ha avuto sicuramente un ruolo nell’edificazione e nella sistemazione dell’opera. È probabile, tuttavia, che il progetto
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sia stato avviato dal re Hattusili e che l’ultima parte (la seconda «camera») fosse una sorta di monumento funebre in memoria di Tuthaliya, fatto edificare dal figlio Suppiluliuma (II). I sigilli di Tuthaliya IV sono molto interessanti, sia sotto l’aspetto «politico» della manifestazione del potere, che per l’introduzione di alcune innovazioni. Per esempio, la scena dell’abbraccio divino sui sigilli di Tuthaliya presenta una novità: la figura minore (il re) è rappresentata con lo stesso abito e copricapo del dio (vedi disegno a
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p. 32, in basso). Molti sigilli, inoltre, mostrano un incremento di elementi figurativi e decorativi, tra i quali spiccano i motivi dell’aquila bicipite e dei grifi che reggono altre figure (vedi disegno a p. 33, in basso). Una simbologia complessa, che, in questa fase, sembra raggiungere l’acme, era sicuramente intesa a esaltare la regalità e il nome del re: si noti che del sigillo qui raffigurato (che misurava 7 cm di diametro!), e anche di altri simili, sono conservate impronte su cretule d’argilla in quantità molto superiori rispetto ad
Sulle due pagine l’iscrizione monumentale di Suppiluliuma (II) nella cappella ipogeica («Camera 2 di Südburg») della Città Alta di Hattusa.
A destra altare con il simbolo solare alato e un’iscrizione che nomina il re Tuthaliya IV, da Emirgazi. Istanbul, Museo Archeologico.
altri sigilli reali, a testimonianza di una circolazione molto diffusa. Su altri sigilli dello stesso re, invece, era privilegiata l’iscrizione cuneiforme, arricchita con epiteti insoliti accostati al nome del re, come «re della totalità/dell’intero mondo». In questo caso il nuovo titolo reale è probabilmente da attribuire al periodo della contesa con il re d’Assiria.
Via dalla capitale L’ultimo Grande Re ittita conosciuto, Suppiluliuma II, non ha lasciato una documentazione abbondante, forse perché, con molta probabilità, in un certo momento del suo regno ha guidato l’abbandono della capitale verso una destinazione a noi ignota. Risale però al suo periodo di regno una delle testimonianze piú interessanti, la cosiddetta «Camera 2 di Südburg» (tedesco per «fortezza meridionale»; vedi foto a sinistra, sulle due pagine), ricavata nel terrapieno di un bacino costruito nella parte sud (la «Città Alta») della capitale ittita. Questo vano, di piccole dimensioni, presenta sulle tre pareti: a. un’immagine a rilievo di re abbigliato come una divinità (gonnellino corto, arco e lancia, copricapo a punta con corna, tipico delle divinità) e con l’indicazione del nome «Suppiluliuma» in caratteri geroglifici; b. la rappresentazione della divinità solare, sormontata da disco del sole alato, sulla parete di fondo (ugualmente a rilievo molto basso); c. una lunga iscrizione geroglifica sui blocchi di pietra della parete di destra. Si discute sull’identificazione del re sulla parete di sinistra (secondo alcuni studiosi potrebbe rappresentare il re-antenato Suppiluliuma I, divinizzato dopo la morte), mentre non sembrano sussistere molti dubbi sull’epoca di esecuzione di tutto il complesso, da attribuire all’ultimo re ittita. Un’opera non collocabile con sicurezza in un determinato periodo di regno, ma molto probabilmente risalente al XIII secolo a.C., e attribuibile a uno degli ultimi re ittiti, è il complesso monumentale di Eflatun Pınar, nella parte centro-meridionale della penisola
anatolica. La parte piú spettacolare è costituita da una grande facciata scolpita che chiude un lato di un bacino, sugli altri lati del quale erano probabilmente collocate altre sculture rinvenute nei pressi. L’imponente facciata presenta figure in altorilievo sormontate da un doppio disco solare alato: le piú importanti e imponenti rappresentano le divinità principali degli Ittiti, il dio della tempesta e la dea del Sole; intorno a loro, divinità minori, geni, personificazioni delle montagne che sorreggono e arricchiscono la scena principale. È possibile che la zona fosse sede di manifestazioni religiose importanti, considerati il lavoro e la spesa necessari per erigere un’opera di queste dimensioni (vedi foto alle pp. 34/35). Considerata la particolarità di molte delle opere descritte, alcune ricerche hanno cercato una relazione con il territorio naturale in cui sono inserite, per comprendere i motivi della scelta di un determinato sito, o i condizionamenti imposti dal paesaggio. È stata anche avanzata l’ipotesi che alcuni monumenti potessero rievocare manifestazioni o «apparizioni» («vere» o presunte) di divinità particolarmente venerate da popolazioni locali. Rimane in ogni caso
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sostanzialmente valida la distinzione tra rilievi con finalità religiose-cerimoniali (quelli piú «nascosti» e inaccessibili) e opere che si possono interpretare come «manifesti» di propaganda da parte dei detentori del potere.
Le iscrizioni geroglifiche A partire dal regno di Tuthaliya IV si sperimentano anche altri modi per
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pubblicizzare il nome e il potere del re in carica: attraverso il medium della scrittura geroglifica, che utilizza molti segni e simboli di tipo figurativo, i re appongono il loro marchio a diverse opere collocate in diverse zone. Si tratta di opere con finalità «pubbliche» (come bacini per la raccolta dell’acqua) o religiose, molte delle quali attribuibili allo stesso re Tuthaliya IV (il bacino di Yalburt, gli altari di Emirgazi, il blocco di pietra iscritto di Karakuyu, ritrovati in zone diverse della penisola anatolica; vedi foto a p. 37). Tutte queste testimonianze presentano lunghe iscrizioni in scrittura geroglifica, nelle quali i segni indicanti il nome e la titolatura del re sono particolarmente enfatizzati: nell’iscrizione di Yalburt, per esempio, costituita da una ventina di blocchi iscritti collocati sui tre lati di un grande bacino rettangolare, il primo blocco si apre con il nome e i titoli del re posti sotto al grande simbolo della regalità (il sole alato); a seguire, i nomi dei predecessori, ma di dimensioni sempre piú ridotte, in modo che risultasse chiaro chi deteneva il potere in quel periodo (vedi foto in questa pagina, in alto). Allo stesso re Tuthaliya risalgono alcune stele iscritte con il suo nome – prive di immagini, ma ricche di segni e simboli – ritrovate nella capitale: secondo alcune interpretazioni potrebbe trattarsi di rappresentazioni simboliche e aniconiche del re stesso (vedi foto qui a sinistra). Anche l’ultimo re ittita, Suppiluliuma II, è autore di due lunghe iscrizioni geroglifiche,
In alto uno dei blocchi dell’iscrizione di Yalburt, nel quale compaiono il nome e la genealogia di Tuthaliya IV.
Nella pagina accanto, in basso stele del re Tuthaliya IV. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. In basso rilievo scolpito su un masso a Imamkulu. La raffigurazione comprende immagini di divinità e principi i cui nomi, a oggi, non sono attestati in altre testimonianze coeve (XIII sec. a.C.).
una su roccia (Nishantepe), l’altra su blocchi di pietra (Südburg), entrambe collocate nell’area meridionale della capitale ittita, la cosiddetta «Città Alta». La prima iscrizione è oggi purtroppo molto danneggiata a causa dell’usura del tempo, ma quanto rimane è sufficiente per un’attribuzione sicura a questo sovrano e per poterla mettere in relazione con un interessante testo cuneiforme, conservato su tavoletta negli archivi della capitale, che parla delle imprese militari del padre, Tuthaliya IV. La seconda iscrizione, già citata, si trova sulla parete a destra dell’entrata nella «camera»ricavata nel terrapieno che supporta il bacino di Südburg. Nel testo sono elencate alcune imprese militari vittoriose del re. La diversa collocazione delle due iscrizioni è certamente significativa: non solo l’iscrizione sulla roccia di Nishantepe era visibile e forse (almeno nella parte iniziale) anche comprensibile da un vasto pubblico, ma rappresentava la parte piú esposta, all’ingresso
di una rampa, di un contesto architettonico – forse un santuario – che si trovava al di sopra della roccia stessa. La «camera» incastonata alla base del bacino di Südburg, invece, era probabilmente poco accessibile già nell’antichità, ma poteva essere in collegamento con celebrazioni che forse si svolgevano nello spazio aperto antistante.
I rilievi dei «principi» Alcuni rilievi rupestri sparsi nel territorio anatolico raffigurano principi (o, in un caso, un sovrano locale), non sempre identificabili attraverso altre fonti. La qualifica di «principe» (o «re») è chiaramente indicata dai segni in caratteri geroglifici che si trovano accanto ai nomi. Il personaggio a cui è intestato il monumento è in genere raffigurato in posa di guerriero, con abito corto e arco in spalla. In alcuni casi la rappresentazione è limitata alla figura del «principe» e alla relativa iscrizione, ma in altri casi (rilievi di Hanyeri e Imamkulu) la raffigurazione è molto piú elaborata, includendo anche figure di divinità, un secondo nome di principe e, forse, riferimenti a narrazioni mitologiche. La testimonianza di Imamkulu è molto particolare, perché, a differenza delle altre, non si trova su una parete rocciosa, ma su un enorme masso adagiato su un leggero pendio (il rilievo misura 3,6 m di larghezza per 2 di altezza; vedi foto qui a sinistra). I nomi dei principi rappresentati non sono identificabili con principi noti da altre testimonianze del XIII secolo a.C. (epoca a cui si fanno in genere risalire queste testimonianze). Si è ipotizzato che si tratti di personaggi che avevano un certo prestigio in sedi decentrate e che forse, approfittando della debolezza del regno centrale alla fine del XIII secolo a.C., rivendicavano i territori sui quali esercitavano il loro potere. Occorre tuttavia considerare i costi di queste opere, che richiedevano non solo abilità non comuni per la loro esecuzione, ma anche dispendio di mezzi e di lavoro: quanti, non collegati alla famiglia reale, avrebbero potuto permetterselo?
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IN NOME DEL DIO DELLA TEMPESTA Un Grande Re, destinato a diventare divino egli stesso, coadiuvato da una pletora di príncipi e funzionari, specializzati nelle piú diverse discipline amministrative: ecco come funzionava la «macchina» dell Stato ittita di Clelia Mora
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«I
l Tabarna, il re, sia caro agli dèi. Il paese appartiene al dio della Tempesta; il cielo, la terra, gli uomini appartengono al dio della Tempesta. Egli ha fatto il re suo amministratore e a lui ha affidato tutto il paese di Hatti». Questo passo di un famoso testo d’epoca antico-ittita, ma anche altri testi, delineano l’ideologia della regalità ittita: il re esercita il potere affidatogli dalla divinità suprema (il dio della Tempesta, a cui si affiancherà, secondo altri documenti, anche la dea del Sole di Arinna). La conferma del potere regale da parte della divinità, e la conseguente protezione accordata dagli dèi al sovrano, collocava la figura del re in una speciale posizione rispetto agli
altri umani: come vedremo, nella cultura ittita il re diventa dio solo dopo la morte, ma per tutto il periodo di regno mantiene un rapporto privilegiato con la divinità. Il re era capo religioso, sovrintendeva alle festività e ai riti piú importanti celebrati nel corso dell’anno ed era assistito dalla divinità anche nelle sue funzioni di capo militare: nei resoconti annalistici di battaglie è frequente il riferimento, da parte del re, al «dio che cammina davanti a me», per aprire la via e favorire la vittoria. Anche per aumentare il livello di protezione divina, i re di epoca piú tarda godevano della protezione di divinità specifiche, «personali», citate nei testi e talvolta anche raffigurate, sui rilievi rupestri o sui sigilli, mentre cingono in un abbraccio il re. Il sovrano ittita si occupava ovviamente in prima persona anche della politica estera, Hattusa. Il tratto delle mura della Città Bassa ricostruito in età moderna per mostrare il probabile aspetto originario della fortificazione.
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intrattenendo rapporti con i re suoi «pari» o sottomessi attraverso relazioni diplomatiche (scambi di corrispondenza, stipula di trattati o di accordi commerciali). Nel periodo detto «imperiale» (seconda metà del XIV-XIII secolo a.C.), durante il quale il regno ittita era una delle grandi potenze, il «Grande Re» intratteneva un fitto scambio di lettere, di doni preziosi, e talvolta anche di principesse date in matrimonio, con gli altri «Grandi Re» dell’epoca (il faraone egiziano, i re di Babilonia e di Assiria, il re del regno di Mittani), chiamati «fratelli». Questi rapporti da «Belle Époque» avvenivano in tempo di pace; in caso di situazioni conflittuali, o comunque di rapporti non proprio amichevoli, anche le relazioni diplomatiche cambiavano tenore, o cessavano del tutto. Dal punto di vista piú strettamente politico-diplomatico, erano i trattati a formalizzare il rapporto con gli altri Stati: si stipulavano trattati di subordinazione se l’altro Stato era un piccolo regno controllato dal Grande Re ittita; con re di pari rango si stipulavano invece trattati paritetici, preceduti da fitti scambi di corrispondenza e da missioni diplomatiche preparatorie, che potevano durare anche anni.
Il sovrano dev’essere puro In questo scenario, la purezza e la non contaminazione del re erano requisiti fondamentali da preservare, sia per consentire la normale prosecuzione delle attività dello Stato, sia perché un re «impuro» (sotto ogni punto di vista) non poteva godere del favore degli dèi. Si sono conservati, in proposito, testi che riportano indagini oracolari svolte al fine di rendere inefficaci azioni negative (vere o presunte) condotte da nemici del re. Occorre aggiungere, al riguardo, che la pratica degli accertamenti oracolari era molto diffusa presso la corte ittita e, in una certa misura, condizionava la vita dei sovrani e del loro entourage: accertamenti «preventivi» si effettuavano prima di campagne militari, mentre indagini accurate erano condotte per comprendere, per esempio, le cause di una pestilenza o di un altro evento
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Frammento di una tavoletta cuneiforme con impresso il sigillo reale di Tuthaliya IV, da Ugarit. 1250-1220 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
infausto. Come nelle altre regioni del Vicino Oriente (e a differenza dell’Egitto), il re ittita non era quindi divinizzato in vita, ma soltanto dopo la sua morte, con lunghi e complessi rituali. In epoca tardo-imperiale (XIII secolo a.C.) alcuni indizi sembrano però alludere a tentativi di divinizzazione del re ancora in vita, forse con l’intento di rinsaldare una dinastia che si andava indebolendo. Anche la regina (parliamo ovviamente della sposa di primo rango del re) ricopriva importanti ruoli istituzionali, oltre a quello di madre dell’erede al trono. Alcune regine assistevano il re nello svolgimento di numerose attività ufficiali ed erano dotate di propri sigilli, usati anche per le funzioni amministrative; alla morte del re, la regina-madre conservava una posizione importante a corte e, talvolta – come nel caso della vedova del Grande Re Suppiluliuma I –, poteva diventare piuttosto «ingombrante».
L’erede al trono, chiamato nei testi tuhkanti, era designato dal re in carica, scegliendolo possibilmente tra i figli di primo rango. In qualche caso, soprattutto nelle fasi piú antiche, sembra che il sistema di successione non fosse ancora stabilizzato, dando adito a lotte intestine (non del tutto sopite neppure in epoca piú recente, a dire il vero).
La corte, i principi e gli alti funzionari Già da alcuni testi risalenti alla fase piú antica del regno si possono trarre informazioni sia sulle cariche importanti all’interno della corte ittita, sia sul sistema di governo del territorio controllato dal sovrano. Questa seconda incombenza, di ordine sia civile che militare, era affidata ai «figli del re», termine che in senso stretto indicava certamente i principi di sangue reale (figli del re in carica o di altri membri della famiglia reale a lui imparentati), ma che poteva in certi casi riferirsi anche ad altri personaggi, esterni alla famiglia reale, che il titolo l’avevano acquisito in altro modo, per esempio per matrimonio. I piú alti dignitari di corte erano indicati con titoli particolari, che in molti casi probabilmente richiamavano ruoli un tempo collegati con le mansioni connesse al funzionamento del palazzo: il «Capo dei coppieri», il «Capo dei cuochi», il «Grande del vino», il «Capo degli araldi», il «Grande della guardia del corpo», il «Capo dei servitori del Palazzo», ecc. Se queste designazioni potevano in origine avere una certa corrispondenza con le mansioni effettivamente svolte, nel tempo se ne staccarono sempre piú, mantenendo tuttavia un collegamento con ruoli-chiave nell’amministrazione e affiancandosi ad altre cariche che si rendevano necessarie per sopperire alle necessità di una corte (e di uno Stato) in espansione. Anche se stiamo parlando di una società antica di migliaia di anni, in fondo possiamo fare un paragone con alcune monarchie moderne che, per tradizione o spirito di conservazione, hanno mantenuto, per alcune funzioni dell’amministrazione statale, denominazioni arcaiche oggi talvolta difficilmente comprensibili.
Tavoletta ittita con testo in caratteri cuneiformi, da Mashat Höyük/ Tapikka.
Si sono conservati alcuni testi (chiamati «Istruzioni» dagli studiosi moderni) in cui sono elencati i compiti e i comportamenti richiesti ad alcune categorie di funzionari: per esempio, «Istruzioni» per il personale del tempio, per i governatori di distretti provinciali, per gli amministratori e custodi delle città (un ruolo corrispondente grosso modo al nostro «sindaco» o, forse meglio, al «borgomastro/ capo della città»), per le guardie del corpo del re, per il personale del palazzo, ecc. Tra queste categorie di personale, uno dei compiti piú complessi spettava ai governatori che si occupavano di province ai limiti del territorio ittita, che dovevano non solo predisporre difese contro eventuali incursioni nemiche, ma anche occuparsi di vari aspetti organizzativi legati al territorio, tra cui l’agricoltura e l’accantonamento delle derrate alimentari, i rapporti con l’élite locale, la
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manutenzione degli edifici – religiosi e civili – piú importanti. Per capire quanto fossero impegnativi i compiti (e le responsabilità) di questi governatori è di grande interesse un gruppo di testi, per lo piú lettere, risalenti alla prima metà del XIV secolo a.C. e ritrovati nel corso dello scavo archeologico sul sito di Mashat Höyük (il cui nome antico era Tapikka), un centinaio di chilometri circa a est della capitale ittita. Tapikka si trovava ai limiti del territorio dell’Anatolia settentrionale controllato dalle tribú chiamate nei testi ittiti Kaska, che spesso organizzavano razzie e scorribande nei territori ittiti confinanti. Al «governatore» locale quindi, oltre alle consuete mansioni, spettava il compito di monitorare continuamente la situazione alla frontiera e di prendere provvedimenti in caso di incursioni nemiche, per impedire la penetrazione dei nemici verso il cuore del regno. In numerose lettere ritrovate a Tapikka, inviate dal re ittita al «governatore», si chiedono espressamente informazioni e attenzione a questo tipo di problema. Di tenore diverso sono invece le «Istruzioni per le guardie del corpo del re», una sorta di complesso e dettagliato cerimoniale in cui vengono descritti, tra l’altro, il comportamento che dovevano tenere le guardie quando il re usciva dal palazzo e la loro posizione nel corteo che accompagnava il re. I dettagli minuziosi con cui vengono descritte le diverse azioni da compiere, e quelle a cui dovevano attenersi anche altri addetti che partecipavano alla cerimonia, fanno pensare da un lato a una attenzione meticolosa per la protezione del re, dall’altro a una «cerimonia coreografica» particolarmente fastosa, che aveva probabilmente anche lo scopo di far risaltare la figura del sovrano. Ecco un esempio: «Il re esce dal palazzo mentre il capo del palazzo lo tiene per mano. Il re si siede sul carro leggero. I lancieri di alto rango si inchinano, poi corrono e camminano davanti marciando con l’uomo con la lancia d’oro. Quando le guardie marciano, due guardie camminano davanti, tengono le lance, e sono allineate. Le guardie e gli inservienti di
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palazzo marciano in tre file: due file di guardie e una fila di inservienti di palazzo». Un’altra tipologia di strumenti aventi la stessa finalità – quella cioè di stabilire un legame difficilmente scindibile tra il sovrano e le numerose categorie di funzionari o singoli dignitari – erano i «giuramenti», documentati sino alla fine del regno ittita. Tramite questi strumenti, molti dei quali si sono conservati su tavolette scritte, il re chiedeva esplicitamente a gruppi di funzionari (anche di basso livello come, per esempio, il personale di cucina), ma anche a «tutta la popolazione del paese di Hatti», di prestare un giuramento di fedeltà.
Una professione prestigiosa È ovvio che, tra le numerose categorie di dignitari e funzionari che affiancavano la famiglia reale nel compito di far funzionare la macchina dello Stato, un posto di rilievo spettava agli scribi, che dovevano redigere i documenti e le lettere, leggere la corrispondenza in arrivo e tenere in ordine gli archivi dei documenti che dovevano essere conservati e consultati. Conosciamo i nomi di diversi scribi e capi-scribi, talvolta anche di intere famiglie di scribi, che si tramandavano la professione di padre in figlio. In epoca tarda, a partire dal regno di Tuthaliya IV, nella seconda metà del XIII secolo a.C., si avvertono segnali di cambiamento nel tradizionale sistema di conduzione del regno. Emergono infatti, a una lettura attenta di alcuni testi cruciali, segnali di crisi del sistema di potere «familiare». Alcuni documenti reali lasciano trasparire un senso di insicurezza e di sospetto nei confronti di alcuni membri della famiglia allargata, alcuni dei quali avrebbero addirittura rivendicato il trono. Si trattava evidentemente di una conseguenza della presa di potere da parte del re Hattusili III, che aveva estromesso il sovrano in carica (figlio del re Muwatalli, fratello dello stesso Hattusili). Il successore (e figlio) di Hattusili III, il re Tuthaliya, cercando di porre rimedio a questa situazione, aveva interrotto la tradizione «familiare» della monarchia
Altorilievo raffigurante un dio della guerra, particolare della decorazione della Porta del Re di Hattusa.
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affidando incarichi importanti, tra i quali anche la protezione della sua persona, a un corpo di funzionari scelto, a quanto pare, al di fuori della cerchia dei familiari e indicato nei testi con l’ideogramma LÚ.SAG, di difficile interpretazione. Probabilmente per la prima volta nella storia ittita emergeva un gruppo di potere composto da persone selezionate dallo stesso re in base alla lealtà e alle capacità. Nelle «istruzioni» a loro rivolte il re conferisce incarichi delicati ai membri di questa «corporazione», che non mostrano mai il titolo «principe», attribuito invece alla maggior parte dei dignitari influenti a corte fino ad allora. L’analisi prosopografica di alcuni di questi personaggi ha mostrato che avevano talvolta accumulato anche piú di una carica e, probabilmente, anche diversi beni.
Le liste di testimoni Alcuni tra i pochissimi documenti ufficiali di tipo amministrativo che si sono conservati contengono liste di alti dignitari in funzione di testimoni, con indicazione delle rispettive cariche. Si tratta di alcune decine di testi di epoca piú antica, risalenti al periodo pre- o proto-imperiale, e di 4 documenti databili all’epoca imperiale piú avanzata o finale. I primi testi documentano concessioni di terreni e di beni da parte del re, come ricompensa ad alcuni personaggi meritevoli nei confronti della corona, e sono caratterizzati da una forma particolare, bombata, della tavoletta, sulla quale era impresso, al centro del lato anteriore, il sigillo reale. Tra i documenti del secondo gruppo, uno è un trattato relativo al regno del re Muwatalli, mentre gli altri sono testi piú tardi e risalgono ai periodi di regno di Hattusili III e Tuthaliya IV (due sono testi di trattati con altre entità statali, il terzo riporta una serie di concessioni a un alto dignitario). I tre documenti hanno uno straordinario interesse storico e permettono anche di comprendere meglio l’organizzazione amministrativa del regno, e i rapporti tra le diverse cariche dello Stato, in un’epoca cruciale per la storia ittita. Un’analisi dell’ordine dei testimoni nelle liste
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dei diversi documenti (spesso, trattandosi di periodi cronologici molto vicini, sono presenti gli stessi nomi) sembra indicare che l’elenco non è stilato in base all’importanza della carica ricoperta (o non soltanto). Si è quindi supposto che gli elenchi stilati dagli scribi di corte facessero riferimento a una sorta di protocollo di corte, cioè alla posizione che assumevano i piú alti dignitari durante le riunioni ufficiali alla presenza del re. Secondo questa interpretazione si potrebbe «gettare uno sguardo» nelle stanze piú segrete della corte, quando i membri piú influenti si riunivano per
Grandi vasi per derrate (pithoi) a Hattusa.
Una delle cretule, con impronta di sigillo reale, ritrovate nel grande deposito di Hattusa. Boghazköy, Museo.
ascoltare (e forse discutere? ma su questo abbiamo qualche dubbio) le decisioni del re.
Una scoperta eccezionale Nel corso degli scavi sul sito della capitale ittita negli anni 1990-91 sono stati ritrovati, nella parte sud della città (la cosiddetta «Città Alta»), i resti di un edificio che conteneva circa 3400 cretule sigillate (cioè piccoli oggetti di argilla essiccata recanti le impronte di sigilli appartenenti a re, principi e alti funzionari del regno). Oltre alle cretule, nei vani dell’antico edificio erano conservate anche alcune decine di tavolette contenenti testi di donazione di terreni e beni immobili (vedi sopra). Si tratta di un ritrovamento di grande valore storicoarcheologico, che può gettare luce su alcuni aspetti dell’amministrazione e della conservazione dei beni nel regno ittita, dato che un numero cosí importante di cretule era probabilmente collegato a documenti o beni che dovevano essere controllati o certificati. La mancanza di qualsiasi testimonianza, anche minuta, dei documenti o dei beni a cui potevano essere state attaccate le cretule richiederebbe tuttavia una spiegazione: alcuni studiosi pensano che il ritrovamento fosse soltanto un deposito di cretule dismesse, non piú in uso, mentre altri hanno avanzato l’ipotesi che questi oggetti avessero sigillato documenti in materiale deperibile (per esempio tavolette di legno cerate), che non si sono conservati. Si può anche ipotizzare una relazione tra gli «archivi di cretule» (nella capitale ittita ne sono stati ritrovati anche altri, contenenti però un numero molto inferiore di cretule sigillate) e i cosiddetti «testi di inventario»: si nota, infatti, una interessante coincidenza tra i nomi di alcuni dignitari di alto livello citati in questi testi come «controllori» di beni pregiati in entrata nel palazzo e i nomi che compaiono su alcuni gruppi di cretule. Questi depositi potrebbero quindi avere avuto la funzione di «uffici» di primo controllo e registrazione di beni in arrivo, inventariati su documenti in materiale deperibile (sigillati con le cretule), che poi sono andati perduti. Trattandosi di un ritrovamento
abbastanza recente (per quanto riguarda il deposito nella «Città Alta»), sono ancora in corso studi e analisi per risolvere l’enigma. A prescindere dalla questione della funzione, certamente non marginale, rimane in ogni caso l’eccezionale interesse della scoperta. Oltre ai sigilli reali, troviamo infatti su queste cretule anche i sigilli (e quindi i dati «di riconoscimento») di una moltitudine di principi e funzionari, attivi in gran parte nel XIII secolo a.C., l’ultima fase del regno ittita. Le impronte visibili sulle cretule riportano infatti, in scrittura geroglifica anatolica, il nome del proprietario
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L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO
del sigillo e la sua funzione o professione, accompagnati talvolta da rappresentazioni di figure di divinità o elementi e simboli augurali. Si è supposto inoltre che la figura umana non caratterizzata come divinità, che spesso si trova rappresentata al centro del sigillo, potesse in qualche caso rappresentare lo stesso proprietario. È come se avessimo a disposizione le «carte d’identità» del personale di palazzo di piú di tremila anni fa! L’analisi delle informazioni fornite dai sigilli ha permesso di raggruppare i dati secondo le diverse categorie di personale. Erano rappresentati, per esempio, principi o dignitari di alto livello (il cui titolo è accompagnato dall’indicazione «Grande»), funzionari amministrativi (quali «scribi/contabili» e addetti a diverse mansioni di tipo «civile»), personale dei ruoli militari, personale addetto alle attività religiose/templari. Una piccola percentuale di sigilli apparteneva a personale femminile, in genere di alto livello (regine, principesse).
Gestire l’acqua e le attività produttive A differenza delle regioni sud-orientali (Mesopotamia e Siria), il territorio anatolico disponeva (e dispone) di numerose fonti d’acqua sorgiva e di piovosità media annua in genere sufficiente per un certo tipo di agricoltura, che era quindi di tipo pluviale. L’acqua doveva tuttavia essere raccolta e conservata, sia per usi particolari, sia per mantenere disponibili e fruibili le necessarie riserve: numerose testimonianze, sia archeologiche che testuali, ci informano dell’importanza che alcuni sovrani attribuivano alle attività di costruzione e di mantenimento di bacini idrici. La coltivazione di cereali aveva un ruolo molto importante, come documentano numerosi riferimenti nei testi; l’orzo in particolare era prevalente, e veniva utilizzato anche per le bevande. A queste coltivazioni si aggiungevano quelle di legumi e ortaggi, vite, alberi da frutto. Una importante scoperta nel sito della capitale ittita ha rivelato la presenza di due grossi depositi per la conservazione dei cereali, il piú grande dei quali collocato proprio
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al centro della città, tra le due aree settentrionale e meridionale. Questo complesso era costituito da una serie di vani di dimensioni analoghe, nei quali venivano conservati i cereali (di cui sono rimaste alcune tracce che hanno potuto essere analizzate). Oltre a questi complessi a grandi dimensioni, che avevano evidentemente una valenza «cittadina», sono documentati contenitori in ceramica a forma di pithoi che venivano collocati nei magazzini dei palazzi o dei templi (molto numerosi e capienti quelli ritrovati nei magazzini del Tempio principale della capitale). Sul territorio del regno si trovavano, secondo quanto apprendiamo dai testi, centri amministrativi di raccolta e di redistribuzione, che probabilmente facevano da tramite tra il governo centrale e i villaggi agricoli. Allevamenti di bovini, e soprattutto di ovini, erano diffusi nelle zone agricole; mandrie di bovini e ovini erano spesso acquisite anche mediante razzie nel corso di operazioni militari, come descritto nei resoconti annalistici. La tassazione dei beni fondiari era uno dei mezzi per ottenere le risorse necessarie per il funzionamento della macchina dello Stato (e per mantenere le grandi quantità di dipendenti del palazzo, che si possono quantificare almeno in alcune centinaia). Ai tributi, che probabilmente non erano sufficienti a coprire tutte le necessità, si potevano affiancare i proventi delle operazioni militari, a patto – ovviamente – che fossero vittoriose. Attraverso le guerre – e relativo bottino – i sovrani ittiti potevano acquisire risorse importanti, anche in termini di prigionieri e persone deportate, che rappresentavano un bene importante per sopperire alla mancanza di manodopera. Con le guerre di conquista si acquisivano anche nuove terre e nuovi territori subordinati che potevano fornire tributi, differenziati in relazione al tipo di patto stipulato. Alcuni accordi stipulati con il regno di Ugarit, dopo la conquista ittita nel XIV secolo a.C., prevedevano non soltanto il versamento del tributo, ma anche di beni/ doni speciali destinati, oltre che al Grande re
Nella pagina accanto coppa in argento in forma di pugno chiuso. Regno di Tuthaliya III, XIV sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts. Per la forma e per l’attuale luogo di conservazione, lo splendido manufatto è noto anche come «Pugno di Boston». Sul bordo corre un fregio raffigurante un corteo di musici.
ittita, anche ai membri della famiglia reale e ad alcuni alti dignitari ittiti (esplicitamente citati nell’accordo, con i loro titoli). Negli elenchi di questi doni ricorrono frequentemente stoffe pregiate e coppe o altri contenitori per liquidi di metallo pregiato. Oltre che tramite tributo, molti beni preziosi venivano acquisiti tramite scambi di doni con altre corti, in segno di amicizia e di buoni rapporti: alcune lettere scambiate tra la corte ittita e quella egiziana riportano elenchi di beni, inviati o ricevuti, di quantità e livello tale da farci capire perché le carovane che li trasportavano venivano spesso assalite da predoni nel corso del lungo viaggio.
Un elenco di doni Gli elenchi di doni che accompagnavano alcune delle famose «lettere di el-Amarna» (un archivio di corrispondenza reale ritrovato in terra egiziana e risalente al XIV secolo a.C.), per esempio, descrivono minuziosamente, in centinaia di righe di testo, i doni preziosi inviati da una corte all’altra (per esempio: carri da guerra, cavalli, finimenti per cavalli in cuoio incrostati di pietre preziose, pugnali, archi e frecce, stoffe pregiate, stoviglie in metalli preziosi, profumi, ecc.). Come in tutte le società dell’epoca, anche nel regno ittita era diffuso l’accumulo di beni preziosi, una parte dei quali veniva probabilmente conservata in «camere del tesoro», con la doppia funzione di aumentare il prestigio del re e di rassicurare sulla ricchezza e le capacità economiche del regno. Testi relativi a cerimonie religiose ci informano di redistribuzione di risorse alla popolazione in occasione di eventi speciali, come ricorrenze o feste, che potevano durare anche diversi giorni. Attività di redistribuzione – forse talvolta per scopi di semplice affidamento di materiale per lavorazione – sono documentate anche dai cosiddetti «testi di inventario» (che abbiamo già ricordato), in cui si elencano materiali, spesso di metallo, assegnati a persone o comunità e si fa riferimento ad artigiani specializzati.
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
COSÍ PARLAVANO
(E SCRIVEVANO) NELLA
«TERRA DI HATTI» Una «geografia linguistica» di estrema complessità, un universo di iscrizioni rupestri, sigilli e tavolette cuneiformi rimasti, per lungo tempo, muti e incomprensibili. Ma sarà proprio l’enigma della scrittura a segnare la riscoperta stessa della civiltà ittita... di Massimiliano Marazzi
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S
otto il profilo linguistico, l’Anatolia del II millennio a.C. rappresenta un’eccezione nel panorama delle varianti, prevalentemente semitiche, diffuse nel Vicino Oriente antico. Essa appare infatti caratterizzata da popolazioni linguisticamente appartenenti alla famiglia detta «anatolica». Si tratta di un ramo della grande famiglia linguistica indoeuropea che presenta però, sia sotto il profilo morfologico che sintattico, tratti particolarmente arcaici; un fatto, questo, che ha portato la maggioranza dei linguisti comparatisti a ipotizzare un
Kültepe (Anatolia centrale). Resti del karum, una sorta di centro-mercato, installato dagli Assiri, all’epoca in cui l’insediamento era noto come Kanesh. La creazione di simili impianti favorí la diffusione della scrittura cuneiforme.
distacco precoce di questo gruppo dalla grande famiglia indoeuropea. Tempi e modi dell’arrivo e stabilizzazione in Anatolia di queste popolazioni rimangono oggetto di diverse ipotesi.Tuttavia, il fatto che le diverse varietà del gruppo anatolico fossero stanziate sul territorio già nel corso dei primi decenni del II millennio a.C., è indirettamente testimoniato dall’onomastica e da alcuni particolari termini di carattere giuridico-amministrativo che ricorrono nei documenti paleoassiri provenienti dai piú importanti centri politici dell’epoca. La varietà ittita diviene lingua del potere politico
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
e, come tale, medio dominante su tutto il territorio del regno all’indomani del processo di unificazione politica, che si compie nel corso del XVII secolo a opera di una dinastia ittitofona affermatasi originariamente nel centro di Kanes/ Nesa (odierna Kültepe, nella regione della Cappadocia) e che vede la collocazione della capitale a Hattusa (odierna Boghazkale/ Boghazköy), nel cuore del plateau anatolico. Va a tal proposito ricordato che la varietà che noi chiamiamo convenzionalmente «ittita» di fatto era definita dagli Ittiti stessi «lingua di Nesa» (nesili/nesummili) e che la definizione moderna di lingua ittita/Ittiti deriva dalla collocazione geografica della capitale: essa si trova infatti nel cuore della «terra di Hatti», una regione conquistata dai re di Nesa e abitata originariamente da una popolazione parlante una lingua di tipo agglutinante, definita modernamente lingua hattica (si definiscono cosí quelle lingue che impiegano principalmente l’agglutinazione, ovvero con le parole costruite dall’accostamento di piú morfemi che ne formano il significato, n.d.r.). Lo stesso nome della capitale, Hattusa, è il risultato della tematizzazione in –a dell’antico toponimo Hattuš. Lo scenario della geografia linguistica in Anatolia, a cominciare dall’epoca della fondazione del regno, si presenta pertanto particolarmente complesso. Va a tal proposito premesso che tale scenario si basa in primis sui testi (principalmente in scrittura cuneiforme) provenienti soprattutto dai depositi e dagli archivi della capitale.
Altre lingue del gruppo anatolico Accanto alla varietà dominante, quella «ittita» (ma faremmo meglio a chiamarla «nesita»), convivono almeno altre due varietà di tipo indoeuropeo appartenenti al gruppo anatolico: il luvio (articolato al suo interno in diversi dialetti, e per questo spesso chiamato anche «gruppo luvico») e il palaico. Per quanto riguarda il luvio, occorre innanzitutto puntualizzare che la ricerca piú recente ha distinto al suo interno diverse varianti dialettali da collocarsi fra l’Anatolia
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centro-meridionale e sud-orientale. Dialetti di tipo luvio dovevano probabilmente essere parlati anche nella regione dell’Anatolia sudoccidentale (la terra dei Lukka, la Licia del I millennio a.C.) e in alcune aree dell’Anatolia occidentale (le terre di Arzawa). Gruppi parlanti luvio dovevano all’origine essere certamente presenti anche in area piú propriamente ittitofona, e proprio questa forma di luvio deve aver assunto, nel corso del tempo, una rilevanza sempre maggiore a livello della comunicazione quotidiana. Accanto al gruppo luvio è attestata la varietà comunemente chiamata «palaica». Essa ci è tramandata da un numero relativamente limitato di testi conservati negli archivi della capitale, che, come quelli luvî, appaiono essere di carattere essenzialmente rituale e fondamentalmente inseriti in una cornice linguistica (piú o meno ampia) di carattere ittita. Al pari del luvio, il palaico deriva il suo nome, «palili», dalla regione nella quale tale gruppo
Tavoletta con iscrizione in caratteri cuneiformi da Kültepe. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.
Carta geolinguistica dell’Anatolia attorno al XIX sec. a.C., con la possibile individuazione delle diverse aree di distribuzione delle varietà linguistiche appartenenti al cosiddetto gruppo anatolico e le principali città-stato.
linguistico era originariamente stanziato: la terra che gli Ittiti chiamavano Pala, la regione centro-settentrionale dell’Anatolia. Due elementi portarono alla sua caduta in disuso già in una fase relativamente antica della vita del regno: la dominanza linguistica e culturale che in quest’area deve aver avuto il sostrato hattico e le vicende geopolitiche che, già dalla fine del XVI e gli inizi del XV secolo, toccano quest’area. Essa, infatti, caratterizzata all’epoca da ampi tratti boscosi e dalla morfologia impervia, fu occupata, a cominciare dal XVI secolo a.C., da tribú seminomadi organizzate su base clanica, prive di unità politica. La loro lingua (si hanno solo pochi e insicuri riferimenti di carattere onomastico), al pari della loro terra d’origine, rimane interamente sconosciuta; nelle fonti ittite essi sono ricordati come «quelli che abitano/ provengono dalla terra di Kaska» (da cui la nominazione moderna di «Kaskei»). Di difficile controllo da parte di uno Stato, quale quello ittita, aduso al confronto «convenzionalizzato» con Stati territoriali suoi pari, questi gruppi
rimarranno, durante tutto lo svolgersi della storia del regno, una pericolosa incognita. Quelli «della terra di Kaska» renderanno le regioni centro-settentrionali un’area di insicuro confine e le cui razzie metteranno costantemente in serio pericolo i centri urbani settentrionali, fra i quali la città santa di Nerik, di antica tradizione religiosa hattico-ittita.
Hattico e hurrita Ancora due importanti lingue, entrambe non indoeuropee, sono attestate negli archivi della capitale: il hattico e il hurrita. Entrambe hanno una notevole rilevanza sotto il profilo della storia culturale del regno, anche se nessuna delle due può definirsi (ciascuna per diverse ragioni) lingua di ampia diffusione. Si tratta in entrambi i casi di forme di comunicazione specialistica, interrelate con motivazioni di display politico e/o religioso. La creazione di uno Stato territoriale ittita unitario, con la lingua ittita quale espressione politicamente dominante, avviene nell’area centrale del plateau anatolico, quindi in una
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
regione già caratterizzata sotto il profilo geopolitico come «la terra di Hatti», con una sua tradizione linguistica: quella del hattico. È quindi evidente come la lingua e la cultura di sostrato, appunto quella hattica, abbiano giocato un ruolo fondamentale, specialmente nelle prime fasi di sviluppo del regno ittita. Di questa lingua, certamente non indoeuropea, ma la cui affiliazione risulta difficile da determinare, abbiamo un corpus per lo piú di carattere religioso, non particolarmente ricco in termini quantitatvi, ma interessante sia per quanto riguarda la tipologia tematica (mitologhemi, canti, rituali, ecc.), sia per quanto riguarda la tipologia testuale. Questa, infatti, non appare limitata a «intesti» (cioè a formule piú o meno lunghe inserite all’interno di una cornice testuale ittita), ma abbraccia veri e propri testi autonomi e, fatto di particolare interesse, testi bilingui.
Comunicazione specialistica Gli studi sul hattico hanno conosciuto in questi ultimissimi anni un grande revival, anche sulla base del ritrovamento di testi hattici (con strette connessioni rispetto a quelli venuti alla luce nella capitale) in almeno un centro diverso rispetto a Hattusa; molte convinzioni di carattere socio-linguistico alternative rispetto a
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quelle tradizionali – che volevano il hattico lingua morta già nel corso dell’Antico Regno – si sono fatte mano a mano strada. Tenuto conto che la testualità hattica non appare limitata alla sola fase piú antica del regno e che alcuni testi di epoca imperiale non devono essere necessariamente interpretati quali copie di manoscritti piú antichi, si va sempre piú affermando l’idea che – almeno in alcune cerchie di carattere religioso della capitale –, il hattico, seppure scomparso a livello di lingua di comunicazione diffusa, fosse ancora compreso e fatto oggetto di stesura scritta; si tratterebbe, insomma, di una sorta di «lingua specialistica» rimasta ancora viva fra una ristretta cerchia di religiosi «letterati». A livello di tradizione e trasmissione testuale (mitologhemi, canti, formule rituali, ecc.), inoltre, va certamente considerata l’esistenza – alla base della stesura di molti testi – di una soggiacente e forte componente orale, conservata, di generazione in generazione, in ambito religioso. Come il hattico, anche il hurrita ha giocato un ruolo non indifferente nell’ambito della tradizione scrittoria del regno ittita. Questa lingua, di tipo agglutinante, le cui origini vanno con verosimiglianza riportate a gruppi seminomadi provenienti dalle regioni montane
Tavoletta recante un’iscrizione nella quale il re ittita Arnuwanda e sua moglie Ashmunikal si lamentano con gli dèi per il saccheggio subito dalla terra di Hatti a opera delle genti di Kaska e li implorano di schierarsi al loro fianco. Fine del XV-inizi del XIV sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico.
Tavoletta relativa a una concessione di terre/unità agricole effettuata dal re Arnuwanda (I) e dalla sua sposa, la regina Ashmunikal. Fine del XV-inizi del XIV sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico.
a nord-est dell’area mesopotamica, entra in contatto con il mondo anatolico ittita probabilmente già durante le fasi iniziali del regno, ovvero quando gli Ittiti si confrontano, nel corso delle guerre di conquista delle regioni anatoliche sud-orientali e nord-siriane, con formazioni politiche hurrite stabilizzatesi in area nord-mesopotamica e nord-siriana. Tuttavia, è dai primi decenni del XV secolo che inizia un costante processo di penetrazione della lingua e delle tradizioni religiose hurrite all’interno del mondo ittita. Questo fenomeno è strettamente connesso con la stabilizzazione di un vasto Stato territoriale, quello di Mittani, avente il proprio nucleo nell’area del Khabur, ma che si estende fino alla Siria settentrionale e all’area del golfo di Adana (regione di Kizuwatna). Nella
corte di Mittani il hurrita rappresentava, assieme all’accadico, la lingua dominante.
Mutamenti significativi A seguito della conquista di Kizuwatna da parte del re Tuthaliya I e del suo matrimonio con una principessa hurrita proveniente da questa regione, un lento processo di hurritizzazione investe la corte ittita. Ed è proprio in stretta connessione con questi cambiamenti geopolitici che una serie di testi hurriti, abbraccianti vari ambiti della vita politica, ma soprattutto religiosa, fanno il loro ingresso negli archivi e nelle biblioteche della capitale Hattusa. Possiamo immaginare che questi processi di trasmissione siano avvenuti grazie alla presenza diretta di scribi kizuwatnei a corte, attraverso lo spostamento di documenti hurriti dagli archivi dei centri di Kizuwatna e nord-siriani a quelli della capitale, dove venivano ricopiati e, talvolta, affiancati da una redazione in lingua ittita; sia, infine, attraverso la ricopiatura in situ di testi per gli archivi della capitale. Sotto il profilo socio-linguistico sono significativi di questo processo da un lato una serie di rituali in lingua hurrita, redatti in primis per la coppia reale di Hattusa (dove anche il successore di Tuthaliya, Arnuwanda I, appare sposato con una principessa hurrita), e alcuni testi di carattere politico redatti sempre in hurrita, segno che nella corte di quel tempo questa lingua era utilizzata a livello di comunicazione interpersonale; dall’altro, il rinvenimento, presso una biblioteca templare della Città Alta di Hattusa, di una serie di tavolette contenenti una grande composizione epico-sapienziale redatta tanto in lingua hurrita quanto in lingua ittita, segno di una probabile attività «gomito a gomito» di scribi ittiti e hurriti. D’altra parte, comincia ad affermarsi a quest’epoca anche l’uso, fra le personalità della corte, di portare nomi hurriti che vanno ad affiancare, nel caso dell’erede al trono, il nome di trono che permane nella scia dell’onomastica anatolica. Una conferma del fenomeno di «hurritizzazione» della corte regia a cominciare da Tuthaliya I è data anche dalla comparsa di
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
Tavoletta recante il testo, nella versione ittita, del trattato di pace stipulato fra Egiziani e Ittiti all’indomani della battaglia di Qadesh, combattuta nel 1269 a.C. Istanbul, Museo Archeologico.
testi hurriti nei due centri di Samuha (odierna Kayalıpınar) e Sapinuwa (odierna Ortaköy), entrambi nell’area centrale dell’Anatolia, che le fonti indicano come sedi secondarie della corte di Hattusa proprio a quest’epoca. Una seconda «ondata» hurrita è certamente da collocare all’epoca di Hattusili III, attorno alla metà del XIII secolo. Nel suo matrimonio con la figlia di un sacerdote della regione di Kizuwatna, Puduhepa, va certamente visto un rinnovato
interesse per i testi rituali e altre composizioni religiose propri di quest’area, come testimoniano d’altra parte le fonti cuneiformi dell’epoca. Le stesse fonti cuneiformi, ma anche l’onomastica presente nelle iscrizioni in scrittura geroglifica sui sigilli e sulle cretule, testimoniano non solo della continuazione di una onomastica hurrita nell’ambito della famiglia reale, ma anche una sua diffusione in ampi strati della «middle class» dell’epoca. Quanto tuttavia la lingua hurrita rimanga ancora a quest’epoca mezzo di comunicazione, almeno in ambiti ristretti della corte, resta oggetto di speculazione, soprattutto a fronte di una sempre maggiore incidenza, a diversi livelli socio-linguistici, della variante luvia sviluppatasi nella capitale quale lingua di comunicazione diffusa.
Una lingua franca: l’accadico Un discorso a parte merita l’accadico (definizione moderna, derivata dalla famosa città di Akkad, da collocarsi nella Mesopotamia centro-meridionale, con la quale vengono individuati i diversi dialetti semitici correnti nella Mesopotamia a cominciare dal III millennio a.C.). L’accadico (nelle sue varianti assira e babilonese), infatti, è da un lato la lingua che sottende alla recezione del sistema scrittorio cuneiforme in Anatolia; dall’altro rappresenta, a cominciare dal XVI secolo, nelle sue varianti antico e medio-babilonese, la lingua franca nella quale vengono redatti tutti i documenti di rilevanza internazionale: lettere e trattati/accordi che la corte ittita scambia e stringe con le corti straniere. A cominciare già dalle prime fasi del regno ittita, certamente in stretta connessione con il lento affermarsi di una cultura scribale, ma in primis in conseguenza delle imprese militari nell’area nord-siriana, dobbiamo immaginare che un flusso di composizioni in lingua accadica (babilonese) abbia raggiunto o abbia cominciato ad affermarsi in diversi modi nella capitale (inizialmente gestito attraverso la presenza o l’acquisizione di scribi provenienti da ambiente siro-mesopotamico, successivamente a seguito della formazione di una classe di scribi
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locali con capacità bilingui). Questa iniziale influenza dell’accadico si fa chiaramente palese in tutta quella produzione, in parte bilingue (accadico-ittita), risalente certamente a epoca pre-imperiale, di carattere aneddotico, storicoepico e storico-politico, giunta fino a noi purtroppo in forma molto frammentata e, tranne pochi casi sporadici, in redazioni tarde e spesso in traduzione ittita. Alla base di molti testi in lingua accadica che, a cominciare dalla fine dell’antico regno, ritroviamo negli archivi della capitale (di carattere essenzialmente religioso: si tratta di preghiere, inni, rituali) è certamente da vedere un particolare interesse nell’acquisizione di pratiche (soprattutto magico-rituali) volte a garantire lo stato di salute di personaggi di corte e, inannzitutto, della coppia reale. Tale patrimonio, spesso connesso con la presenza a corte di specialisti del settore (esorcisti, «fisici», specialisti nelle pratiche omenologiche, ecc.), diviene nel corso del tempo oggetto di conservazione e di studio in ristretti ambienti scribali (una sorta di «scribi intellettuali»). A questa cerchia vanno certamente riportati anche quei testi che, nella tradizione mesopotamica, facevano parte del bagaglio culturale che doveva accompagnare l’avviamento scolastico alla professione scribale: vocabolari mono-, bi- e plurilingui, composizioni in sumerico, raccolte di omina, ecc. A parte, quindi, il suo uso per la
comunicazione internazionale con le corti dell’epoca (una sorta di inglese del tempo) e fatto salvo il periodo iniziale del regno ittita, nel quale la lingua accadica sembrerebbe restare per un certo periodo ancora soggiacente al processo di introduzione e sviluppo della scrittorietà, l’accadico come lingua di comunicazione scritta, rimane tutto sommato marginale e ristretto a pochi ambienti scribali altamente specializzati.
Le varietà del gruppo indoeuropeo anatolico e la loro dislocazione sul territorio dell’Anatolia.
Gli Ittiti imparano a scrivere Quando si analizza un sistema scrittorio, cioè un sistema di notazione grafica utilizzato in uno specifico ambito culturale al fine di esprimere una lingua, ci si muove su tre piani distinti: quello degli aspetti di carattere storicodiacronico, relativi al «dove» e al «quando» esso fa la sua comparsa, quindi alla sua origine/ parentela o derivazione da altro ambiente culturale; quello relativo al suo sviluppo nel tempo presso la società che lo ha in uso, quindi la sua diffusione spaziale e sociale e alle sue mutazioni di carattere formale; infine quello relativo al tipo di scrittura del sistema in sé, che,
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
se non è frutto di una «invenzione indigena», comporta l’analisi del suo adattamento, attraverso una serie di convenzioni stabilite dai suoi adattatori/utilizzatori, per esprimere la
PERIODO DEI CENTRI COMMERCIALI ASSIRI IN ANATOLIA
lingua che si intende rappresentare.La scrittura che caratterizza tutta la vita economico-politica, religiosa e culturale della società ittita è quella cuneiforme, di antica tradizione mesopotamica.
1950 a.C.
1750 a.C. circa nuova dinastia a Kanesh: regno di Anitta
Introduzione della scrittura cuneiforme e della lingua paleoassira in Anatolia. Kanesh/Nesha (Kültepe) centro principale.
Stabilizzazione di uno Stato territoriale unitario con capitale Hattusa
Prima metà del XVII sec. a.C. Inizio del cosiddetto Antico Regno.
Hattusili I (1650 a.C. circa) Mursili I Hantili I
Introduzione del sillabario cuneiforme paleobabilonese attraverso i centri nord-siriani coinvolti nelle guerre di conquista.
Telepinu (1550 a.C. circa)
Primi documenti sicuramente databili redatti nel sillabario cuneiforme elaborato a Hattusa e inizio dello sviluppo di una literacy in lingua ittita.
Tuthaliya I/II
Fine del XV-inizi del XIV sec. a.C: Parziale hurritizzazione della corte ittita, sviluppo di nuovi generi testuali e inizio di una serie trasformazioni del ductus del sillabario ittita. Inizio della glittica regia con iscrizioni in geroglifico accanto a quelle in cuneiforme.
Suppiluliuma I (1350 a.C. circa)
Dal regno di Suppiluliuma si fa convenzionalmente iniziare il cosiddetto Periodo Imperiale. Il regno ittita si afferma come potenza internazionale, con una sua cancelleria e uno stabile apparato burocratico; si delinea parallelamente l’organizzazione degli archivi (e biblioteche) della capitale. Il sillabario ittita assume una sua configurazione, che lo differenzia rispetto a quello dell’Antico Regno. Karkemish diviene sede del vicereame.
Arnuwanda Il Mursili Il
Muwatalli Il Mursili III (Urhitesup) Hattusili II/III
Tuthaliya III/IV Arnuwanda III
Suppiluliuma Il
XIII sec. a.C. Sia il sistema di scrittura cuneiforme, sia quello geroglifico mostrano imperanti sviluppi. Il primo subisce influssi da ambienti hurriti e assiri che portano all’affermazione di nuove forme di alcuni segni; il secondo dà vita alle prime forme di scrittura monumentale, fortemente caratterizzate da composizioni araldiche nelle quali segno scrittorio e decorazione scultorea si fondono in schemi artistici. Il corpo scribale della capitale va articolandosi in vere e proprie scuole/cerchie con funzioni e caratteristiche peculiari. Hattusa, dopo un periodo di relativo decadimento, dovuto allo spostamento della capitale nel Sud-Est dell’Anatolia, a Tarhuntassa durante il regno di Muwatalli, riprende il suo ruolo di capitale. Parallelamente all’affermarsi della variante luvia di area centro anatolica quale lingua di comunicazione diffusa, la scrittura geroglifica subisce un processo di linearizzazione e trova impiego nella realizzazione di una serie di iscrizioni monumentali regie di carattere celebrativo in lingua luvia. Il processo di linearizzazione della scrittura geroglifica porta, verosimilmente, negli stessi decenni anche al suo impiego nella quotidianeità per la stesura di documenti su supporto ligneo (tavolette cerate), fino a quest’epoca utilizzato per il cuneiforme in specifici ambiti.
FINE XIII-INIZI XII SEC. A.C. ABBANDONO DEFINITIVO DA PARTE DELLA CORTE REGIA DI HATTUSA
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Tavola cronologica degli sviluppi scrittorî e di genere testuale in relazione alle principali fasi di sviluppo del regno ittita.
La scrittura cuneiforme ittita; esempio dal testo degli Annali di Mursili II, con evidenza delle convenzioni di traslitterazione; i sillabogrammi che formano una unità di parola ittita sono segnati in minuscolo corsivo e legati fra loro con trattino; le parole accadiche (di solito avverbi e/o preposizioni) sono segnate in maiuscolo corsivo e i sillabogrammi che le compongono egualmente uniti da trattino; i logogrammi sono segnati in maiuscolo tondo e indicati per convenzione per mezzo della corrispondente espressione sumerica (che gli scribi ittiti, quando leggevano il testo ad alta voce, pronunciavano usando la corrispondente parola ittita); i determinativi (che non venivano pronunciati dal lettore, ma servivano semplicemente come indicatori semantici) vengono indicati come i logogrammi, ma segnati in apice.
Semplificando, si può dire che si tratta di un sistema scrittorio fonetico a base sillabica, che fa uso, però, anche di segni con valenza logogrammatica (un segno per indicare un’intera parola) e di segni con funzione di determinativi, segni cioè che individuano specifiche categorie semantiche (nomi di città, regioni, esseri umani maschili o femminili, divinità, ecc.) e che preposti (o, talvolta, posposti) alla sequenza sillabica o al logogramma che indica una parola, ne sottolineano l’appartenenza (senza quindi tradursi in linguaggio articolato; vedi tabella a p. 61). Il processo di trasmissione di questo sistema di trascrizione alla lingua ittita non appare essere stato, però, cosí chiaro e lineare come si potrebbe pensare.
La scrittura compare in Anatolia In effetti, la scrittura cuneiforme fa la sua comparsa per la prima volta in Anatolia già in età immediatamente precedente a quella della costituzione del regno ittita, sotto la forma di
sillabario cuneiforme assiro esprimente testi in tale lingua. Sillabario e lingua sono, infatti, strettamente connessi con l’intensa frequentazione e creazione di veri e propri centri-mercato (i cosiddetti karu) da parte di mercanti assiri presso le città-stato che caratterizzavano il mosaico geopolitico anatolico fra il XIX e il XVII secolo a.C. Si tratta, quindi, di una scrittura «specialistica», utilizzata, cioè, non solo in specifici ambiti socio-politici (essenzialmente giuridico-commerciali), ma anche «semplificata» nei segni che la compongono (una sorta di «stenografia cuneiforme»). Essa venne sviluppata essenzialmente per rendere semplice la gestione scritta (lettere fra le diverse imprese commerciali, atti relativi a prestiti, eredità, transazioni di beni, ecc.) della rete dei centrimercato sviluppatisi su tutto il territorio anatolico e aventi nel karum costituito presso Kanesh/ Nesa il polo coordinatore. Questa scrittura rimane indissolubilmente legata alla lingua
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LA LINGUA E LA SCRITTURA I colonna
II colonna
I colonna
Recto
II colonna
Recto
il testo è scandito nelle sue componenti dall’incisione di linee orizzontali di paragrafo
Intercolumnio Linee orizzontali di paragrafo
le colonne sono distinte da un intercolumnio per mezzo di incisioni verticali
IV colonna
III colonna
il testo può superare i limiti dello spazio della colonna e continuare nell’intercolumnio o sul margine destro della tavoletta al termine della redazione della colonna Il del recto, Verso ribaltamento della tavoletta ruotandola sull’asse orizzontale e continuazione della scrittura sulla colonna lII del verso Colofone, di norma alla fine del testo, separato da questo per mezzo di doppia linea orizzontale di paragrafo
Linee verticali interne di delimitazione colonna
Linea orizzontale di margine inferiore del recto IV colonna
III colonna
Verso Linea orizzontale di margine superiore del verso Linee orizzontali di paragrafo Intercolumnio Doppia linea orizzontale di fine testo Area riservata al colofone Linea orizzontale di margine inferiore del verso
assira, anche quando viene utilizzata dalle corti delle città-stato anatoliche e dai mercanti locali, sia nelle loro interazioni con le imprese commerciali assire, sia, e questo è l’aspetto piú interessante, per gestire i rapporti politici e amministrativi interni alle città-stato anatoliche. Solo indirettamente, attraverso i nomi che ricorrono in questi documenti e alcuni termini tecnici di carattere giuridico presi a prestito dalle lingue locali, essi ci confermano che la popolazione dell’epoca era già composta da parlanti ittita, luvio, hurrita e, naturalmente, hattico; ma non vi è un solo documento che in qualche modo possa indicarci che la scrittura sia stata effettivamente fatta propria dalle élites locali in forma diffusa e per redigere testi nella propria lingua. Con il collasso della rete commerciale assira, legato ai mutamenti geopolitici che portarono verso la metà del XVII secolo all’unificazione dell’Anatolia sotto una dinastia «ittitofona» insediata a Hattusa, la scrittura (e con essa la lingua) assira scompare.
Il caso del sillabario babilonese La reintroduzione dello strumento scrittorio coincide con le guerre di conquista che Hattusili (I) e suo nipote, Mursili (I) condussero, tra la
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fine del XVII e gli inizi del XVI secolo a.C., verso i floridi centri delle piane nord-siriane, come Alalah, Aleppo e Karkemish, di antica tradizione culturale mesopotamica. Questa volta, però, si tratta di un sillabario di tradizione babilonese e le ragioni della sua adozione sono legate, almeno inizialmente, a fattori di prestigio politico piú che a strette necessità economico-commerciali. Ma quando e come questo sillabario cuneiforme siriano (di tipo babilonese corsivo) fu adattato alle necessità di esprimere la lingua del regno ittita? E, soprattutto, quando si formò il primo nucleo di una vera e propria cancelleria ittita, non piú caratterizzata dalla presenza di scribi stranieri, ma composta da «letterati» ittitofoni in grado di interagire con i loro colleghi siriani e di redigere documenti in ittita e fissare per iscritto testi religiosi nell’antica lingua hattica e nella diffusa lingua luvia? Il processo di effettiva appropriazione del sillabario cuneiforme di origine babilonese nella sua variante corsiva (cioè non monumentale) – e del suo adattamento e trasformazione in un sillabario ittita – deve essere stato non semplice e soprattutto deve essere avvenuto sotto lo stimolo derivante dalla gestione di un
A sinistra esempio di autografia di tavoletta ittita standard a 4 colonne (2 sul recto e 2 sul verso) con evidenza delle convenzioni di impaginazione usate dagli scribi ittiti, la procedura di rotazione al momento di iniziare la compilazione delle colonne del verso, la partizione del testo in linee di paragrafo. A destra rappresentazione schematica dello spazio scrittorio e dell’impaginazione di una tavoletta standard a 4 colonne.
regno ormai sovraregionale, con le sue necessità di amministrare le sfere del politico, dell’economico e della vita religiosa. È probabilmente verso la metà del XVI secolo (durante il regno del re Telepinu o del suo immediato predecessore) che possiamo con una certa sicurezza ipotizzare sia l’avvenuta creazione di un sillabario cuneiforme piú propriamente ittita, sia il consolidamento di una cancelleria «anatolica»: formata non piú soltanto da scribi provenienti da ambienti linguistici siro-mesopotamici, ma anche da redattori «ittitofoni» in grado di usare lo strumento scrittorio in tutti gli ambiti della vita socio-politica, economica e religiosa.
Racconti dal sapore mitico È probabilmente anche a cominciare da quest’epoca che dobbiamo immaginare l’inizio di un processo di fissaggio attraverso la scrittura di tutta una serie di racconti, dal sapore mitico-epico, relativi alle origini del
SEGNI STANDARDIZZATI
regno (un po’ come avviene a Roma dall’età repubblicana in poi), di miti e rituali di tradizione hattica, di pratiche magiche derivate dagli ambienti di tradizione dialettale luvia, fino a questo momento affidati al medio della trasmissione orale. Con il passare del tempo, la produzione scritta ittita diventa sempre piú ricca e articolata: dall’originario nucleo della cancelleria regia si sviluppano, nel tempo, vere e proprie cerchie scribali specializzate facenti capo a una rete di archivi, e finanche veri e propri nuclei bibliotecari, che portano la «scrittorietà» ittita ai livelli delle grandi formazioni statali dominanti in questi secoli nel panorama del Vicino Oriente: quella babilonese e quella egiziana in primis (vedi pianta a p. 64). La salita al trono, a cominciare dalla fine del XV secolo, di una serie di dinasti legati attraverso matrimonio o imparentati con famiglie nobili di origine hurrita, coincide con un triplice processo che diventerà determinante per
LOGOGRAMMA (lettura sumerica)
VALORE SEMANTICO E FUNZIONE DI DETERMINATIVO
DINGIR
«Dio», det. dei nomi divini
SÍG
«Lana», det. dei nomi indicanti stoffe e tessuti
NA4
«Pietra», det. per nomi di rocce, minerali, ecc.
LÚ «Uomo», det. dei nomi di persona maschili, di popolazioni, di categorie di lavoratori/amministratori maschili, ecc.
I principali segni cuneiformi ittiti con valore di logogrammi e determinativi/ classificatori.
URUDU
«Rame», det. di oggetti metallici
DUG
«Vaso/contenitore», det. per tutti i nomi di contenitore
GÍS
«Legno», det. per tutti gli oggetti/tipi di legno, tipi di alberi, ecc.
É
«Casa», det. per tutti i nomi relativi a edifici
URU
«Città», det. per tutti i toponimi relativi a centri abitati
MUNUS
«Donna», det. dei nomi di persona femminili
KUR
«Terra/Regione», det. per i nomi di regione/territorio
HUR.SAG
«Montagna», det. per i nomi di monti/catene montuose, ecc.
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
l’«alfabetizzazione» anatolica. Da un lato, l’afflusso verso la capitale di composizioni di carattere religioso (soprattutto rituali) e miticoepico, derivate dagli ambienti siromesopotamici hurritizzati, darà nuova linfa alla produzione scrittoria della capitale, influendo al contempo sul sillabario cuneiforme: sotto l’influsso di scribi legati agli ambienti hurritofoni, i segni del sillabario vengono sottoposti a un parziale processo di modifica (con la lenta formazione di un nuovo ductus). Dall’altro, la dinamicità mostrata dai nuovi dinasti, che porta alla ripresa dell’espansione territoriale, determina anche una fase di espansione della scrittorietà: sul territorio anatolico vengono fondati nuovi centri urbani, altri si ampliano, e in ognuno di essi si sviluppano archivi e cancellerie decentrate, ma strettamente legate a quella della capitale. In alcuni casi questi centri rappresentano anche il luogo dove il re, con la sua corte e i suoi amministratori, si sposta per trascorrervi periodi piú o meno lunghi (vedi cartina in questa pagina e tabella alla pagina accanto). Il nuovo assetto geopolitico che il regno va progressivamente assumendo si riflette, d’altra parte, anche nella produzione di nuovi generi testuali, finalizzati sia alla gestione del potere geopolitico, sia alla celebrazione di questa nuova fase di dinamicità militare.
La scrittura, un «affare» di Stato Si assiste, in sostanza, a una diffusione su ampia scala della scrittura; a tale diffusione spaziale non corrisponde, però, una diffusione «sociale»; la scrittura rimane, e rimarrà per tutto il corso della storia ittita, un «affare di Stato», cioè uno strumento limitato alle cancellerie e agli archivi statali; non vi è scrittorietà privata (come è il caso, invece, di altri ambienti coevi, e in primis, quello mesopotamico). Questo ci porta al terzo punto importante dei cambiamenti che si verificano nel corso del XV-XIV secolo: quello dei mutamenti in seno alla lingua ittita stessa. La varietà ittita documentata dai testi piú antichi si presenta estremamente complessa,
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soprattutto per quanto concerne la flessione nominale, la caratterizzazione del genere, che concorre con la classe semantica dell’animatezza, e il sistema dei riferimenti spazio-temporali. La sua sempre maggiore diffusione come strumento regolatore della vita religiosa ed economico-amministrativa gestita dal potere politico innesca un processo di semplificazione tale da renderla di piú semplice utilizzo. Si sviluppa cosí quella varietà linguistica ittita che gli studiosi chiamano «ittita recente» («junghethitisch» nella letteratura scientifica) e che rimane alla base di tutta la produzione testuale fino alla fine della vita del regno.
Dall’apogeo al declino Le vicende che, a cominciare dalla salita al trono di Suppiluliuma (I), portano il regno ittita a diventare, da potenza regionale, un vero e proprio impero (con i suoi domini che si allargano alla Siria e all’area dell’alto Eufrate, con un vicereame collocato a Karkemish e una serie di mini-Stati vassalli a ovest, nell’Anatolia occidentale, e a sud, verso la Siria meridionale), si svolgono di pari passo a un processo di sempre maggiore complessizzazione dell’uso e della gestione della scrittura. Vere e proprie cerchie scribali organizzate gerarchicamente, e un sistema di archivi collocati in punti strategici della capitale, si accompagnano alla nascita di piccoli nuclei «bibliotecari» associati spesso
I principali centri anatolici, oltre alla capitale Hattusa, dove si sono rinvenute testimonianze epigrafiche in scrittura cuneiforme ittita.
NOME ODIERNO
NOME ITTITA
NUMERO FRAMMENTI/ TAVOLETTE*
Ortaköy
Sapinuwa
4000 circa
La documentazione si concentra soprattutto a cominciare dalla fine del XV-inizio XIV secolo (hurritizzazione della corte di Hattusa)
Kayalıpınar
Samuha
122 circa
Anche Samuha, come Sapinuwa, fiorisce fra la fine del XV e gli inizi del XIV secolo, con documentazione testuale che arriva fino al periodo imperiale
Mashat Höyük
Tapigga
112
Kusaklı
Sarissa
46 circa
Il centro è una fondazione ex novo che risale alla fine dell’Antico Regno e continua nel periodo imperiale. Significativa è l’ampia tipologia documentaria e la presenza delle cosiddette «etichette»
Oymagaaç
Nerik
9
La documentazione testuale è essenzialmente di epoca imperiale
Usaklı
Zippalanda (?)
7
La documentazione testuale, pur limitata, va dalla fine dell’Antico Regno all’epoca imperiale. L’identificazione con la città di Zippalanda è incerta
Kussaray
-
5
La documentazione testuale è essenzialmente di epoca imperiale
Büklükale
-
Alaça Höyük
-
Eskiyapar
-
1
Documentazione fine XV inizi XIV sec.
lnandıktepe
-
1
Prima metà XV sec.
Yassihöyük
-
1
Periodo imperiale
4 2
TIPOLOGIA TESTUALE
NOTE
Centro importante di confine con i Kaskei, contemporaneo ai centri di Sapinuwa e Samuha
Documentazione fine XV-inizi XIV sec. Documentazione XIV-XlII sec.
Tabella che elenca i principali luoghi di ritrovamento di testimonianze epigrafiche in cuneiforme ittita (* i dati sono aggiornati all’autunno 2021); laddove possibile, si riferiscono alle tavolette (quindi ricostruite attraverso l’unione di piú frammenti); laddove invece il numero dei frammenti/tavolette ha valore indicativo, la cifra è seguita da circa. • la tipologia testuale presenta piú o meno lo stesso spettro (anche se in valori numerici inferiori) rispetto a quella della capitale. Se in questi casi è presente altresí il genere delle cosiddette «etichette» (supporti di argilla collegati all’ordinamento dei testi negli archivi): + ; se sono presenti testi in lingua hurrita (rituali, miti etc.) + , sumero-accadica (omina, miti, vocabolari, preghiere) + , hattica + ; • Altri simboli: lettere; inventari relativi alla celebrazione dei culti locali (celebrazioni di feste, edifici di culto, personale, ecc.); documenti di carattere amministrativo (liste di beni, personale etc.); feste, rituali legati alla celebrazione di festività; testi relativi a rituali; composizioni epiche/mitiche; indagini oracolari, reports relativi a indagini oracolari; donazioni/ assegnazioni di terre; testi di carattere storico/giuridico-storico.
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
istribuzione degli archivi amministrativi, possibili scriptoria e scuole scribali, raccolte di carattere D «bibliotecario» nella capitale Hattusa: complesso degli archivi, scriptoria e scuole scribali presenti nella cosiddetta «Città Bassa»: 1. nell’ambito dei vani magazzino circondanti il Grande Tempio; 2. presso gli edifici amministrativi subito a sud del Grande Tempio; 3. presso il complesso amministrativo sul pendio del versante occidentale dell’acropoli (cosiddetta «Haus am Hang»). c omplesso del quartiere dei templi situato nella valle centrale della cosiddetta «Città Alta»: associati con le strutture templari si sono rinvenuti nuclei di archivi di carattere amministrativo (indiziati dalla presenza di cretule sigillate), raccolte di carattere «bibliotecario» contenenti composizioni letterarie in lingua hurrita e ittita, testi riferibili alla tradizione scribale mesopotamica. raccolte testuali presso strutture templari decentrate. a rchivi di carattere prettamente amministrativo, caratterizzati (particolarmente in 2) dalla presenza di cretule sigillate legate al movimento di beni e a possibili liste registrate su dittici lignei, da documenti «storici» di assegnazioni di terre a personalità del regno 1. presso l’edificio del comandante della guardia regia; 2. nell’edificio posto sul lato occidentale del Nishantepe (cosiddetto «Westbau»). c omplesso degli archivi regî, collocati negli edifici dell’Acropoli, di carattere storico-politico, amministrativo (legati anche alla presenza di depositi di cretule sigillate), e religioso.
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alle numerose strutture templari che occupano la parte «alta» della capitale (la cosiddetta «Oberstadt»; vedi pianta alla pagina precedente). Alla classe degli scribiamministratori è demandata la gestione economico-politica che dalla capitale si irradia su tutto il territorio del regno: il controllo e la gestione dei centri produttivi e religiosi, la redazione di liste di personale, la distribuzione dei beni alimentari in occasione delle grandi e piccole feste, il controllo dei culti associati con i nuclei templari periferici, la stesura di protocolli in occasione di processi intentati nei confronti di funzionari corrotti, ecc. Anche se molti di questi documenti di carattere strettamente amministrativo non sono giunti fino a noi, dato il loro carattere effimero, quanto conservato ci mostra l’esistenza di un apparato complesso, nell’ambito del quale, soprattutto per la stesura di minute o di documenti destinati al trasporto, alla tavoletta d’argilla si affianca quella lignea cerata iscritta in caratteri cuneiformi, probabilmente in forma di dittico, come sarà piú tardi in uso nell’antica Roma.
I nuovi «intellettuali» Dalle informazioni contenute nei colofoni di una serie di testi relativi alla tradizione dei culti e delle feste religiose, accanto agli scribiamministratori emerge però una categoria di scribi che si potrebbe definire «intellettuale». A questi personaggi, che spesso occupano posti di particolare riguardo nell’ambito della corte regia (specialisti nel settore giuridico, delle pratiche rituali di purificazione, della mantica, nella redazione di testi di antica tradizione mesopotamica), sono demandate la cura e la trasmissione, spesso attualizzata attraverso una rinnovata redazione, di testi essenziali per la memoria culturale e identitaria del regno. Tra questi figurano testi relativi alle liturgie festive in onore delle divinità del complesso pantheon ittita – antichi culti spesso caratterizzati da passaggi o intere composizioni in hattico –, luvio e hurrita, documenti riferibili alla memoria storica e storico-giuridica, composizioni epiche e mitiche, testi di
preghiera, raccolte di testi sapienziali e religiosi di tradizione sumero-accadica. A essi dovevano far capo cerchie scribali specializzate, scriptoria nell’ambito dei quali venivano formate le future generazioni di scribi, uffici preposti al monitoraggio, raccolta in liste e archiviazione di documenti di particolare rilevanza in relazione al patrimonio delle conoscenze dell’epoca.
Stranieri e bilingui Infine nella cancelleria regia, cosí come negli scriptoria, dovevano continuare a essere attivi anche scribi stranieri, o quanto meno bilingui: si pensi soltanto all’intensa corrispondenza internazionale che la corte ittita intratteneva in babilonese con le corti straniere. Questo mondo complesso, che i testi cuneiformi scoperti dagli scavi archeologici rivelano e che ruota attorno all’uso della scrittura, entra in uno stato di crisi negli ultimi decenni del XIII secolo: la pressione dell’Assiria a est, quella dei Kaskei a nord, una serie di tendenze politiche centrifughe che caratterizzano le regioni occidentali e sudorientali e, non da ultimo, gli sconvolgimenti causati da gruppi marittimi seminomadi che mettono a ferro e fuoco le coste del Mediterraneo orientale, uniti al verificarsi di carestie, incidono profondamente sull’assetto geopolitico dell’impero. D’altra parte, vi è una serie di indizi che lascia pensare come la stessa «lingua di Stato», cioè l’ittita, proprio in questa fase finale di vita del regno sia ormai relegata alla sola comunicazione scritta, e abbia lasciato il posto, nella comunicazione orale quotidiana, a una varietà di luvio che si è andata sempre piú diffondendo nell’Anatolia centromeridionale fino alla Siria settentrionale. Gli scavi archeologici indicano che la capitale Hattusa non fu invasa o distrutta, bensí mano a mano abbandonata, fino a che anche la corte, con parte dei suoi archivi e del suo apparato burocratico, dovette spostarsi, forse a Karkemish nel sud o a Malatya verso l’est: non lo sappiamo con certezza. All’impero si sostituirono tanti mini-Stati, che mantennero la memoria del glorioso passato
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
imperiale e ne conservarono anche la scrittura, ma non piú quella cuneiforme e nemmeno la lingua ittita (propria di un apparato burocratico ormai dissolto). Si dovranno attendere gli scavi francesi di Ernest Chantre del 1893 e poi, a cominciare dal 1905, quelli regolari della Deutsche Orient-Gesellschaft e del Deutsches Archäologisches Institut, e infine la decifrazione compiuta da Bedrich Hrozný nel 1917 della lingua celata dietro alle migliaia di tavolette cuneiformi nel frattempo riportate alla luce, per riscoprire il patrimonio storico e culturale affidato dalle élites ittite alla tradizione scritta.
Tipologia dei sigilli in uso in ambiente ittita con indicazione delle forme degli stampi.
Oltre il cuneiforme In effetti la storia della scrittura in Anatolia presenta caratteri particolarmente eccezionali. Durante lo svolgimento del regno ittita assistiamo, infatti, all’uso contemporaneo di due scritture (un fenomeno che si ripete in ambiente mediterraneo orientale solo nella Creta minoica dell’inizio del II millennio a.C.). Questa coesistenza è dovuta al fatto che i due sistemi, quello cuneiforme e quello convenzionalmente chiamato «geroglifico», trovano applicazione durante tutta la storia del regno in ambiti diversificati della vita economico-politica e religiosa della società ittita. Ma che cos’era questa scrittura che, per le sue somiglianze (non certo dovute a una derivazione) con i segni della scrittura egiziana, chiamiamo appunto «geroglifico»? La storia e lo sviluppo di questa scrittura vanno di pari passo con le fasi storiche che hanno caratterizzato l’Anatolia dai primi decenni fino all’ultimo secolo del II millennio a.C. e si differenziano profondamente rispetto agli eventi che portarono all’acquisizione della scrittura cuneiforme. Per comprenderne la genesi dobbiamo partire da quei sistemi amministrativi che, in mancanza di (o parallelamente all’uso della) scrittura, si fondano sulle complesse procedure legate alla sigillatura di cretule apposte sulle chiusure di contenitori di beni o di porte d’accesso agli spazi che li contenevano (vedi disegno in questa pagina). Nell’Anatolia degli inizi del II millennio a.C., nelle diverse città-
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stato che formavano il mosaico geopolitico dell’epoca, sistemi di questo genere, basati sulla raccolta delle cretule sigillate – di volta in volta separate dall’oggetto su cui erano apposte e conservate per permettere il controllo e il computo delle operazioni di apertura e chiusura – erano ampiamente diffusi, come testimoniano i numerosi ritrovamenti archeologici. Le superfici dei sigilli usati per «stampare» il «marchio di garanzia» di chi era preposto al controllo delle operazioni, erano caratterizzate da decorazioni e segni organizzati per lo piú in composizioni «araldiche». A parte gli elementi meramente decorativi (come fasce di motivi geometrici per lo piú correnti lungo il contorno della superficie sigillante), i segni contenuti nella parte centrale del sigillo (spesso con forte valenza iconica: raffigurazioni stilizzate di figure umane, di animali, di oggetti) dovevano assumere, per convenzione, la funzione di indicatori del ruolo o dell’identità del funzionario, o del tipo di bene o le sue eventuali caratteristiche geografiche. Fondandosi su un processo di rinvio semantico convenzionalizzato, è chiaro come i sistemi segnici potessero variare in ragione delle diverse formazioni geopolitiche (vedi tavola alla pagina accanto). Con la creazione di uno Stato territoriale
1
2 La glittica ittita con la presenza di «glifi» convenzionalizzati, a cominciare dai prototipi relativi al periodo della dinastia di Kanesh fino alla prima fase di sviluppo durante l’antico regno (fra la prima metà del XVII e la metà circa del XVI sec. a.C.): 1. (prima metà del XVII sec. a.C.): a. da Kanesh; b. da Hattusa; c. da KarahöyükKonya. 2. (seconda metà del XVII sec. a.C.: a. da Büklükale; b. collezione Tyskievicz; c. da Eskiyapar; d. Hattusa; e. Hattusa. 3. (fine XVII prima metà XVI sec. a.C.: a. da Tarsus; b. da Hattusa; c. da Hattusa.
3
unitario con capitale Hattusa assistiamo, nei decenni che vanno fra la fine del XVII e almeno fino alla metà del XVI secolo a.C., al seguente fenomeno: ricorrono segni (o gruppi di segni) simili su cretule o sigilli provenienti da diverse regioni anatoliche. Si tratta della manifestazione che, verosimilmente, all’unità geopolitica dell’Anatolia sia corrisposto un contemporaneo processo di uniformizzazione del segnario utilizzato per le procedure di sigillatura (un fatto comprensibile se si pensa ai processi di unificazione messi in atto dal potere centrale soprattutto per quanto attiene alla sfera economico-amministrativa).
Un valore fonetico per ogni segno Si tratta certamente di un sistema che possiamo già definire «scrittorio», ma che non si fonda, come siamo abituati a concepire modernamente, su segni a base fonetica. È, invece, una scrittura i cui elementi grafici fortemente caratterizzati sotto il profilo iconico, rimandano (certamente attraverso rinvii metaforici) a quella che doveva essere l’enciclopedia conoscitiva della cultura dell’epoca. Non si tratta, pertanto, di un rudimentale sistema pittografico, bensí di significati evocati dalla stilizzazione e convenzionalizzazione della forma dei glifi.
Questa capacità di comunicazione rimarrà una fondamentale caratteristica di questa scrittura, anche quando, nel corso del tempo, verranno attribuiti valori fonetici ai singoli segni. Tuttavia, a causa del suo alto grado di convenzionalizzazione, essa risultava limitata per la gestione economica di un apparato statale quale quello che si andava configurando nel corso del XVI secolo. Non è, quindi, un caso che, sul finire del XVI secolo, con l’acquisita capacità di esprimere la lingua ittita (e al contempo anche il hattico e il luvio) attraverso un sistema di scrittura cuneiforme – derivato dall’ambiente siriano ma adattato quanto a scelta dei segni e della funzione fonetica a essi attribuita –, cominci a verificarsi anche nell’ambito della scrittura geroglifica su sigillo un doppio processo: da un lato, sotto il profilo formale, la stabilizzazione di un segnario adeguato alle nuove necessità economico-amministrative (che quindi attinge solo parzialmente al patrimonio dei segni-simbolo preesistente); dall’altro, sotto il profilo fonetico e semantico, l’attribuzione di valenze fonetiche di carattere sillabico (in alcuni casi con vocale alternante a/i) a un set di segni base e la determinazione semantica di tutta una serie di glifi (in parte nuova, rispondente essenzialmente alle
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IL SIGILLO DI MUWATALLI
LA LINGUA E LA SCRITTURA
Ma il gioco plurilingue degli scribi ittiti si amplia ulteriormente con il processo di «hurritizzazione» che gli ambienti intellettuali della corte subiscono dalla fine del XV secolo. Segni portatori di specifici valori semantici (come, per esempio, «re», «dare», «sopra», ecc.) possono, a questo punto, essere letti in In alto il sigillo di Muwatalli II, che sceglie due opzioni per scrivere in geroglifico il suo nome. La prima (in alto) esprime il morfema muwa- «forza vitale» attraverso una composizione del toro (a figura intera), a cui fa seguire i segni sillabici /ta/ e /li/; la rappresentazione del toro assume un triplo significato: da un lato serve a esprimere il primo morfema muwa-, impersona la forza vitale e la potenza di cui il dinasta fa sfoggio e, infine, è al tempo stesso epifania teriomorfa del dio della Tempesta, divinità protettrice del re. La seconda opzione (in basso) affianca al nome di trono Muwatalli, quello hurrita di principe SharriTeshub (che significa Teshub è re); a tal fine usa due «giochi scribali plurilingui»: nel primo affianca semplicemente i due logogrammi per «dio della Tempesta/Teshub» e «Gran Re» da sciogliere in lingua hurrita; nel secondo esprime la prima parte del nome per mezzo del logogramma che indica «verso l’alto», la cui lettura è in ittito-luvio sara/i- e che viene usato come base meramente fonogrammatica per esprimere il suono / sharri/ («re» in hurrita); a esso fa seguire un diverso simbolo per esprimere «dio della Tempesta» (una sorta di «ascia sacrificale?») unito al segno per /pa/ (rappresentato dalla silhouette di un vaso) che ha funzione di disambiguare foneticamente la lettura del segno precedente indicandone la parte finale /-b/p(a)/.
necessità di individuare mestieri, funzioni amministrative, cariche politiche, specifiche strutture edilizie, ecc.) che vengono ad assumere, di conseguenza, valenza di logogrammi e/o di determinativi. Il processo sotteso a questo fenomeno innovativo si basa sull’iconicità dei segni (un’iconicità che non è mera trasposizione grafica di una realtà oggettiva, ma percezione e rappresentazione in chiave ittita dei realia), e quindi il loro valore semantico intrinseco: il valore sillabico viene per lo piú determinato in base alla prima sillaba della parola che esso evoca (il cosiddetto principio dell’abbreviazione acrofonica); l’elemento interessante risiede nel fatto che la parola sulla quale appare essere ricavata la valenza sillabica, in molti casi non è ittita, ma luvia, a conferma dell’ambiente linguistico scribale quanto meno bilingue nell’ambito del quale il processo va collocato.
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Generazione di varianti attraverso trasformazioni metonimiche e metaforiche di glifi iconici in relazione alle necessità iconografiche e araldiche delle composizioni su glittica; A. la parte vs. l’intero; B. l’iconico vs. l’aniconico; C. la singolarità vs. la reduplicazione.
A
B
C
A
ripetizione giustapposta direzioni di lettura
direzioni di lettura
direzioni di lettura
direzioni di lettura direzioni di lettura (direzione di lettura)
B
C
La/e titolatura/e racchiudono il nome
I segni di buon augurio
Le iconografie riprendono i teonimi
L’elemento onomastico
Il nome si «sdoppia» e va a formare una composizione araldica
Schemi compositivi dei glifi: l’organizzazione dei segni si orienta sempre in rapporto al centro ideale del cerchio o dell’ellisse del campo sigillante; per esso passa tanto un asse verticale, rappresentato generalmente dal nome del proprietario, quanto quello orizzontale su cui si svolge di norma il titolo ripetuto simmetricamente ai due lati del primo (B.a-b, C.a-b, f); al titolo si possono sostituire, nella stessa posizione, anche formule beneauguranti (C.c); in alcuni casi è il nome che si sdoppia, sempre secondo due assi verticali contrapposti, tangenti al centro (B.e, C.e). Altre possibili combinazioni, connesse con la selezione di varianti di grado più o meno iconico, possono essere rappresentate dal nome che invade l’intero campo secondo, ad esempio, un disegno a croce (B.d, dove gli spazi rappresentati dai quattro spicchi in cui il campo viene ad essere sezionato sono occupati da formule beneauguranti), oppure, nel caso di teonimi, dove l’iconografia della divinità specifica che compone il nome va a occupare l’intero campo centrale verticale, spostando ai due lati, sempre su assi verticali opposti, il nome espresso foneticamente e il titolo (B.c)
diverse lingue e spesso la catena fonica, desunta da una lettura ittita, luvia o hurrita, può dar origine a nuovi fonogrammi anche bisillabici. Infine, la valenza iconica di un segno, come quello per «toro» (che ha valore fonetico
wa(wa), ma che è anche epifania teriomorfa del dio della Tempesta) può entrare a far parte della composizione di un nome, sottolineandone, accanto alla lettura fonetica, la vicinanza della persona alla sfera divina (il nome del re
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LA LINGUA E LA SCRITTURA
RILIEVO RUPESTRE DI IMAMKULU
RILIEVO RUPESTRE DI KARABEL
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SIGILLO DI MURSILI III ICONOGRAFIA DEL DIO DELLA TEMPESTA SU CARRO: 1 da sigillo 2 su rilievo rupestre
SIGILLO DI DIGNITARIO
ICONOGRAFIA DEL PRINCIPE GUERRIERO CON ARCO: 1 da sigillo 2 su rilievo rupestre
La scrittura geroglifica dal sigillo al rilievo rupestre: strategie di magnificazione dei segni a formare elementi iconografici portanti, in rapporto ai quali si dispongono gli elementi piú propriamente geroglifici-scrittorî (sulla base dei confronti con i rilievi di (a) Karabel, (b) Imamkulu, (c) Fraktin).
Processo di «linearizzazione» delle iscrizioni geroglifiche monumentali (dall’alto in basso): nel caso della rappresentazione dei due «Gran Re» Muwatalli (II) e suo Figlio Kurunta (rilievi di Sirkeli e Hatip) la figura del sovrano espressa a tutto campo è allo stesso tempo rappresentazione scultorea incedente e soggetto della titolatura e genealogia espressi da glifi ordinati in forma lineare nel senso contrario a quello della direzione verso cui il personaggio si muove; nelle due basi di stele da Hattusa il personaggio incedente e la rappresentazione della stele diventano glifi ed elementi iconografici allo stesso tempo, orientati in senso contrario alla lettura dell’insieme dei glifi che vanno a formare una vera e propria iscrizione lineare.
Muwatalli in geroglifico; vedi tavola a p. 68, in alto). Il «gioco» della doppia lettura (e quindi del doppio messaggio: l’uno visivo, l’altro fonetico) fa sí che nel caso di un certo numero di segni (soprattutto quelli iconicamente piú significativi) nascano nel tempo le varianti, ciascuna caratterizzata da maggiore o minore iconicità e stilizzazione o individuante una parte specifica dell’intero glifo (vedi tavola a p. 68, a destra). Insomma, la stesura della leggenda geroglifica sulla superficie del sigillo (la diposizione dei segni, la scelta della variante, la reduplicazione in forma araldica di un segno) non risponde a criteri di linearità propria delle scritture fonetiche, bensí a principi di composizione iconografica (come è proprio, per esempio, dell’araldica medievale), che farà sí che l’incisore di sigillo si avvicini, fino a identificarsi, con il lapicida delle decorazioni scultoree (vedi tavola a p. 69). Proprio per queste sue concomitanti potenzialità iconografiche, simboliche e linguistiche, la scrittura geroglifica, parallelamente al consolidamento a Hattusa della nuova dinastia hurro-ittita, compie il suo primo salto qualitativo, ampliando il suo ambito di applicazione: da sistema originariamente limitato alla sigillatura a fini economicoamministrativi, diviene elemento caratterizzante della glittica regia che ne farà allo stesso tempo, con le sue composizioni iconografiche, strumento di controllo economico e di esibizione politica (vedi tavola qui accanto).
Nuove forme di narrazione Il XIII secolo a.C., che vede dapprima una serie di cambiamenti geopolitici determinati – sotto il regno di Muwatalli – dallo spostamento della capitale a Tarhuntassa, nel Sud-Est dell’Anatolia, e dallo scontro a Qadesh con l’Egitto di Ramesse II; poi – con l’inizio del regno di Hattusili –, il riavvicinamento fra le due potenze internazionali, segna un ulteriore e decisivo ampliamento dell’uso del geroglifico. Di fatto, fino a questo momento il regno ittita non aveva avuto una sua forma di scrittura monumentale, né una produzione scultorea a
questa connessa. Probabilmente anche sotto l’influsso del paradigma egiziano, a cominciare dal regno di Muwatalli si diffusero su tutto il territorio del regno grandi rilievi rupestri caratterizzati da composizioni che vedono elementi artistici (essenzialmente rappresentazioni di principi, re vassalli e dello stesso sovrano) strettamente intrecciati con elementi piú propriamente scrittorî. Anzi, si potrebbe arrivare a dire che i segni geroglifici a piú forte valenza «pittorica» fossero stati eletti, attraverso un processo di «magnificazione», a elementi scultorei, confermando ancora una volta lo stretto legame fra incisori di sigillo e scultori. A livello compositivo si possono identificare due diverse tendenze. La prima potrebbe essere vista come la diretta trasposizione delle composizioni glittiche su scala monumentale: le raffigurazioni umane o divine assumono
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LA LINGUA E LA SCRITTURA Direzione di lettura fonetica dei segni a formare un testo Andamento bustrofedico delle linee che formano il testo Organizzazione spaziale delle righe a formare una narrazione visiva: a. Nome del sovrano b. Divinità protettrici c. Città/regioni conquistate I gruppi di segni che formano le unità semantiche si organizzano in stringhe verticali
A
B
C
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Nella pagina accanto le iscrizioni geroglifiche lunghe degli ultimi sovrani del regno; (a) Iscrizione di Suppiluliuma II (fine del XIII secolo a.C.) sulla parete della Cappella A (Hattusa, area nord della Città Alta): foto della cappella, foto, modello da ortofotogrammetria e autografia dell’iscrizione; (b) Iscrizione sulla parete rupestre del Nishatepe (Hattusa, area nord della Città Alta) dello stesso sovrano (foto e modello 3D della parete iscritta); (c) Iscrizione del re Tuthaliya IV (seconda metà del XIII secolo a.C.) corrente sugli ortostati che chiudono il bacino sacro di Yalburt (foto del complesso sacrale, immagine dell’ortostato contenente l’incipit dell’iscrizione e autografia dello stesso); (d) Iscrizione, dello stesso re Tuthaliya IV, corrente su uno degli altari iscritti dal complesso sacro di Emirgazi (foto dell’altare e autografia dell’iscrizione geroglifica).
posizione centrale e i segni geroglifici si compongono, in forma di «fumetto», davanti alle figure al fine di disambiguarne l’identità. In alcuni casi, però, esse superano la staticità «araldica» delle composizioni su glittica, sviluppando un vero e proprio racconto. È quanto avviene nel rilievo di Fraktin, raffigurante una scena di sacrificio della coppia reale Hattusili (III) e Puduhepa (vedi tavola a p. 70), e, in maniera eclatante, nel fregio della Camera A del santuario rupestre di Yazilikaya, con la rappresentazione delle processioni divine, maschile e femminile, incedenti sulle due pareti lunghe, che terminano sulla parete di fondo nella scena che vede l’incontro fra il dio della tempesta, Tešup, e la sua paredra Hepat (vedi anche il capitolo alle pp. 102-113). Nel secondo tipo di iscrizioni la figura incedente si pone all’inizio della composizione e il suo nome in geroglifico, accompagnato anche dalla genealogia, lo segue immediatamente dopo in forma lineare. Si ottiene cosí l’effetto che la lettura dell’iscrizione corre nella direzione opposta a quella dell’incedere del personaggio e il personaggio stesso viene a fungere, per cosí dire, da soggetto dell’iscrizione. Questo effetto di linearizzazione della lettura e della rappresentazione scenica al tempo stesso, orientate in direzioni opposte, raggiunge la sua massima espressione sulla superficie di due basi di stele provenienti dal versante dell’acropoli di Hattusa che porta alla cosiddetta «Città Bassa»: qui è rappresentata la scena del dedicante davanti alla raffigurazione del monumento stesso; tutti gli elementi sono riprodotti piú o meno nella stessa scala e le due raffigurazioni, del dedicante e del monumento, svolgono allo stesso tempo funzione di glifo e di elemento scultoreo: entrambi indicano l’atto della dedica, significandolo in una direzione in forma di scrittura fonetica, nell’altra in forma di percezione visiva. È questo l’ultimo e il definitivo «salto» della scrittura geroglifica: a cominciare dal successore di Hattusili (III), Tuthaliya IV (di fatto penultimo re dell’impero) si diffondono nella capitale e presso luoghi di
rilevanza religiosa, lunghe iscrizioni geroglifiche, spesso svolgentisi su piú righe, con andamento bustrofedico, o correnti su un’unica riga lungo gli ortostati delimitanti un’area sacra.
L’organizzazione delle righe Si tratta di veri e propri testi, con una loro sintassi compiuta, nei quali i segni che compongono le unità semantiche (nomi, verbi, preposizioni, ecc.) continuano però a riunirsi in gruppi di stringhe verticali, alla maniera delle iscrizioni su sigillo (vedi tavola alla pagina accanto); anzi, in alcuni casi, come avviene per l’iscrizione geroglifica nella cappella ipogeica fatta edificare dall’ultimo sovrano ittita nell’area settentrionale della cosiddetta «Città Alta» di Hattusa, l’organizzazione verticale delle righe va a creare composizioni che danno luogo a una «lettura verticale» fondata sulla percezione visiva degli eventi parallela a quella fonetica dell’andamento testuale. Queste iscrizioni narrano in forma concisa le imprese belliche e gli atti di fondazione religiosa del sovrano, un tipo di composizione che si era andata affermando nella letteratura cuneiforme già dall’epoca di Hattusili (III); la lingua, però, non è piú quella ittita, bensí luvia, appartenente a quella varietà che da tempo doveva essere preminente nella vita quotidiana del regno. Vi sono, inoltre, chiari indizi, come il ritrovamento di stili particolari, ben diversi da quelli usati per incidere i caratteri cuneiformi sulle tavolette d’argilla, che il geroglifico, ormai divenuto a tutti gli effetti una scrittura lineare fonetica, doveva trovare la sua applicazione anche sulle tavolette cerate, soppiantando il cuneiforme e probabilmente anche l’ittita nella testualità amministrativa corrente. Il regno ittita collasserà qualche decennio piú tardi, ma nelle città-stato che emergeranno al suo posto (i cosiddetti Stati neo-ittiti) il geroglifico sarà ormai l’unica scrittura in uso e il luvio la lingua ufficiale. E proprio il ritrovamento di queste iscrizioni da parte dei viaggiatori europei dell’Ottocento segnerà anche la riscoperta della civiltà ittita.
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C’ERA UNA VOLTA UN’APE... Poemi declamati per assicurare pioggia e fertilità, «invocazioni» rivolte a ottenere benevolenza e protezione divina: il ricco patrimonio mitologico degli Ittiti tramandatoci dalle tavolette iscritte, si avvale di protagonisti d’eccezione, tra cosiddetti «nomi parlanti» e animali abilissimi, reali e fantastici di Stefano de Martino
L
e collezioni di testi cuneiformi rinvenute nella capitale e in altri siti del regno ittita documentano svariate narrazioni di carattere mitologico. Quella che noi chiamiamo la civiltà ittita è il risultato dell’incontro e dell’interazione tra popoli di lingue e culture diverse, gli Ittiti e i Luvi, di origine indoeuropea, i Hattici, la popolazione di adstrato accanto a cui le comunità ittite
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hanno convissuto in Anatolia settentrionale nei primi secoli del II millennio a.C. e i Hurriti che risiedevano in Anatolia orientale e nel vicino regno di Mittani, con il quale Hatti ha avuto intense relazioni. Le composizioni mitologiche tramandate dagli scribi ittiti riflettono l’eterogeneità del mondo ittita e l’eclettismo culturale della corte che costituiva l’audience di queste narrazioni.
Nella pagina accanto scene del mito di Kumarbi sulla coppa in oro rinvenuta a Hasanlu (Iran). Teheran, Museo Nazionale.
Dunque, possiamo distinguere tra opere a carattere mitologico di tradizione anatolica, che in gran parte risalgono al patrimonio culturale hattico, e composizioni di origine hurrita, che ci sono giunte in redazioni in ittita e in hurrita. Le traduzioni di opere in lingua straniera che venivano fatte dagli scribi anatolici non sono mai letterali, come si fa oggi nel tradurre un romanzo da una lingua all’altra, ma erano redazioni che adattavano il racconto ai gusti e alle conoscenze degli ascoltatori. Ovviamente non poteva essere ignorato dagli scribi ittiti il «best seller» del Vicino Oriente del II millennio a.C, cioè il Poema di Gilgamesh. Il nucleo di questa lunga composizione è stato concepito nella Mesopotamia di tradizione sumerica del III millennio a.C., ma le redazioni in accadico della prima metà del II millennio hanno goduto di una grossa fortuna nelle corti non solo della Mesopotamia, ma anche dell’Anatolia, Siria ed Egitto, tanto da essere tradotte in altre lingue, quali il hurrita e l’ittita. Gli Ittiti arrivano a conoscere il Poema di Gilgamesh prima nella sua traduzione in hurrita e poi anche in versioni in accadico. Le narrazioni mitologiche quali quelle di tradizione hurrita e il Poema di Gilgamesh erano note in Anatolia attraverso le tavolette cuneiformi e anche attraverso bardi itineranti che declamavano questi testi. L’apporto della tradizione orale, dunque, è stato fondamentale nella trasmissione di questo patrimonio culturale e cosí si spiegano anche le diversità riscontrabili tra redazioni differenti della stessa opera.
Feste propiziatorie Tra queste narrazioni possiamo distinguere due filoni che avevano finalità diverse. Uno è rappresentato da composizioni che venivano recitate nel corso dello svolgimento di cerimonie religiose, e altre che avevano lo scopo di chiedere l’aiuto di divinità ed erano definite dagli scribi ittiti con il termine mugawar, «invocazione». Al primo gruppo appartengono due composizioni declamate nel corso della festa di tradizione hattica chiamata
purulli. Questa festa veniva celebrata all’inizio della primavera e doveva assicurare la fertilità dei campi e l’arrivo della pioggia cosí da avere raccolti sufficienti a sfamare la popolazione. Come leggiamo nelle tavolette che conservano queste narrazioni, esse furono trasmesse attraverso le parole di un sacerdote di nome Kella che era attivo nel tempio del dio della Tempesta di Nerik, città dell’Anatolia settentrionale, le cui rovine sono state riportate alla luce nel sito di Oymaaghaç. Tema centrale di queste narrazioni è lo scontro tra il dio della Tempesta e un drago, o serpente, che lo ha sconfitto e reso incapace di svolgere le sue funzioni, principalmente quella di assicurare la pioggia, indispensabile in Anatolia dove l’agricoltura era di tipo pluviale, non essendoci grandi fiumi, a differenza dell’Egitto e della Mesopotamia. Questo drago o serpente è chiamato Illuyanka, nome che significa appunto «serpente, rettile». Tratto caratteristico delle opere mitologiche vicino-orientali è l’attribuzione di «nomi parlanti» ai vari protagonisti della storia che si presentano cosí all’ascoltatore con caratteri ben definiti fino dalla loro prima menzione. In entrambe le narrazioni il dio della Tempesta, in un primo tempo vinto dal nemico, riesce poi a prevalere su di lui. Nella prima versione il dio riceve l’aiuto di un’altra divinità di nome Inar, che, con la collaborazione di un uomo, riesce ad attirare il serpente in una trappola. Questi, infatti, viene invitato a un banchetto, fatto ubriacare, cosí da renderlo inoffensivo, e ucciso dal dio della Tempesta. Tema centrale di questa narrazione è la cooperazione tra divinità e uomini, indispensabile per la sopravvivenza del paese, anche se viene ribadita la sostanziale disparità tra il mondo divino e quello umano. Nella seconda versione il serpente ha non solo vinto il dio della Tempesta, ma gli ha anche strappato gli occhi e il cuore, rendendolo cosí del tutto inerme. Il dio della Tempesta concepisce, allora, un piano di vendetta complesso. Concede il proprio figlio
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in matrimonio alla figlia del serpente e le nozze vengono celebrate secondo una consuetudine anatolica, diversa da quella piú frequentemente praticata, che prevedeva l’ingresso dello sposo nella famiglia della moglie. Questo accordo matrimoniale veniva concluso quando la famiglia della donna possedeva ingenti patrimoni che dovevano restare nell’ambito familiare di appartenenza.
Il dio trionfa e il paese prospera Com’è consuetudine in questo tipo di unioni, la sposa offriva un dono al futuro suocero, e il dio della Tempesta chiede come dono la restituzione dei suoi occhi e del suo cuore. In questo modo il dio può di nuovo affrontare in duello il serpente e ucciderlo. Il figlio del dio della Tempesta, sentendosi ormai un membro della famiglia del suocero non lo tradisce, e si fa uccidere con lui. Il trionfo del dio della
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A sinistra tavoletta detta «di Yozgat», da Hattusa. 1400-1300 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Reca un testo contenente invocazioni al dio del sole e a Telipinu. In basso ortostato raffigurante il drago Illuyanka, da Arslantepe (Malatya). Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.
A destra stele in basalto raffigurante il dio hurrita della Tempesta, Teshub. IX sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Tempesta assicura la pioggia e la sopravvivenza del paese e della casa reale ittita. Tra le narrazioni definite come «invocazione», quella che ha goduto di maggiore fortuna è relativa al dio Telipinu, una divinità della natura e della vegetazione di tradizione hattica. Tali narrazioni erano inserite all’interno della celebrazione di rituali che avevano appunto lo scopo di assicurare la benevolenza e protezione delle divinità. Nelle varie versioni della narrazione relativa a Telipinu, questo dio scompare e va a nascondersi in un luogo remoto. La scomparsa del dio provoca un improvviso arresto del ciclo regolare della vita, le messi non crescono, gli animali non si riproducono e tutto sembra destinato a morire. Le divinità allora decidono di mandare qualcuno a cercare Telipinu; il Sole invia un’aquila, animale forte e capace di volare in alto nel cielo, ma la sua missione fallisce. Quando nessuno sembra in grado di identificare il luogo dove Telipinu si è nascosto, viene proposto di inviare un’ape. Questo suggerimento è ridicolizzato dal dio della Tempesta, che considera l’ape incapace di volare a lungo alla ricerca di Telipinu. Tuttavia, l’ape riesce a portare a termine il compito affidatole, trova il dio e lo punge, costringendolo ad alzarsi. Il fatto che proprio un’ape riporti Telipinu ai suoi doveri non è casuale. L’ape era un animale molto noto alla popolazione anatolica e la produzione di miele rappresentava una risorsa alimentare importante. Inoltre, l’ape era il simbolo dell’unità e della collaborazione tra le due diverse realtà del mondo ittita, la campagna, dove le api volavano alla ricerca di pollini, e le città, dove il miele veniva acquistato e utilizzato. Le narrazioni sulla scomparsa di una divinità e i rituali a esse relativi erano legate a momenti di difficoltà economica del paese, indipendentemente dal fatto che fossero dovuti a periodi di siccità o a crisi politiche.
Composizioni di tradizione hurrita Due sono le piú note composizioni di tradizione hurrita, il Canto della liberazione e Il Poema di Kumarbi. Si tratta di opere molto diverse tra di
loro per contenuto e funzione; tuttavia, entrambe erano classificate dagli scribi ittiti che le hanno messe in forma scritta come «canti», termine reso dalla parola sumerica SÍR. Il Canto della liberazione ci è giunto in una versione bilingue in ittita e in hurrita che risale alla seconda metà del XV secolo a.C. Tuttavia, elementi contenutistici e osservazioni di carattere linguistico sul testo hurrita ci dicono che la composizione originaria risaliva all’inizio del XVI secolo a.C. Si tratta di un’opera che cerca di spiegare le motivazioni della caduta della città di Ebla. Questa città, le cui rovine sono state riportate alla luce dall’archeologo italiano Paolo Matthiae presso il sito siriano di Tell Mardikh,
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è stata un centro ricco e potente nel corso del III e della prima metà del II millennio a.C. Essa fu attaccata e distrutta da uno dei sovrani ittiti dell’Antico Regno, Hattusili I o, piú verosimilmente, Mursili I, durante le campagne militari condotte in Siria all’inizio del XVI secolo a.C. La definizione Canto della liberazione, posta dagli scribi alla fine delle tavolette che ne tramandano il testo, allude al fatto che tema centrale della narrazione è la liberazione dei prigionieri che Ebla ha catturato nel corso di precedenti conquiste militari e ha reso schiavi impegnandoli in svariate attività produttive.
Sei tavolette per un canto Il Canto della liberazione era scritto su almeno sei tavolette. La prima conserva un proemio nel quale si dice esplicitamente che questa opera intende celebrare il dio della Tempesta hurrita Teshub, la dea dell’oltretomba Allani e la divinità siro-hurrita Ishhara. Questa e la tavola successiva sono relative a consultazioni fatte tra le divinità su quale sorte debba toccare alla città di Ebla. Nonostante la frammentarietà del testo, sembra che sia la dea Ishhara a chiederne la caduta. Nella terza tavola sono elencati i sovrani di Ebla che hanno regnato prima di Megi, il re della città al momento della sua distruzione. Megi è un nome parlante, perché esso, di etimologia semitica occidentale, significa appunto «re». Aspetto interessante in questa tavola è la menzione di alcuni dei sovrani di Ebla che portano nomi hurriti; si tratta, infatti,
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di un indizio della presenza di Hurriti tra i membri delle élite in Siria già nella prima metà del II millennio a.C. In questa parte della narrazione viene enfatizzato il duro lavoro compiuto da diverse categorie di lavoratori al servizio dei re di Ebla. Alla fine della terza tavola e nella successiva il dio della Tempesta appare al re Megi e chiede la liberazione degli schiavi catturati da Ebla; tra questi vi è Purra, di cui si dice che abbia servito alla corte di ben nove re della città. Anche Purra è un nome parlante e deriva dalla parola hurrita che significa «schiavo». Purra è presentato come un personaggio dai tratti eccezionali, la cui durata della vita supera di gran lunga quella di un uomo normale avendo vissuto durante il regno di ben nove sovrani di Ebla. Il dio Teshub promette a Megi che farà di Ebla la città piú potente e ricca del suo tempo se gli schiavi verranno liberati. In caso contrario, il dio interverrà personalmente per distruggere la città radicalmente, dall’acropoli alla cinta muraria. Megi si reca di fronte al consiglio degli anziani di Ebla, un organo che evidentemente aveva funzione decisionale, e riferisce quanto Teshub gli ha detto. Il consiglio degli anziani delega Sazalla, il suo membro piú autorevole, a dare una risposta al re Megi. E Sazalla, che aveva fama di grande oratore, pronuncia un discorso di notevole efficacia retorica. Egli dice che se fosse il dio della Tempesta a trovarsi in una situazione di necessità, o perché oppresso da debiti, o affamato, o senza vestiti, o con la pelle
Frammenti di intarsi in marmo raffiguranti alcuni guerrieri, dalla sala L del Palazzo Reale di Ebla (Tell Mardikh, Siria). 2400 a.C. circa. Idlib, Museo Archeologico.
seccata dal sole, tutti sarebbero disposti a fornirgli aiuto. Il dio, però, non chiede niente per se stesso, ma esige la liberazione degli schiavi. Questo, aggiunge Sazalla, non è possibile, perché senza gli schiavi non ci sarà piú nessuno per preparare il cibo, lavare le stoviglie o tessere le stoffe. L’orazione si conclude con l’invito rivolto a Megi a liberare i suoi schiavi, se proprio vuole. A Megi non resta altra scelta che riferire al dio della Tempesta la risposta negativa di Sazalla in rappresentanza del consiglio degli anziani, affermando però di non avere alcuna responsabilità in questa decisione. Dal momento che la tavoletta è frammentaria, non è conservata la reazione del dio, ma possiamo immaginare che abbia mantenuto la sua minaccia e distrutto Ebla. L’ultima tavoletta conservata narra di una visita di Teshub nel mondo infero governato dalla dea Allani che prepara per lui un grande banchetto di benvenuto. Il dio della Tempesta, adirato con gli abitanti della terra che avevano rifiutato di assecondare il suo desiderio, aveva abbandonato il paese. Come nel caso di Telipinu, che andando a nascondersi in un luogo remoto aveva provocato effetti disastrosi
sulla vita della popolazione, ugualmente Teshub, recandosi nell’oltretomba, lasciava la terra senza protezione. Verosimilmente, il bardo autore del «Canto della liberazione» doveva vedere la Siria, dopo la devastazione lasciata dagli eserciti ittiti in anni di guerre, come una terra abbandonata dalle divinità.
L’arroganza punita Il Canto della liberazione contiene un messaggio di carattere fondamentalmente etico. Gli anziani di Ebla hanno mostrato un atteggiamento arrogante, rifiutando di seguire la volontà degli dèi. Essi hanno commesso un atto che si può definire con la parola greca hybris «tracotanza» e pertanto sono stati puniti. Questo è un tema che è alla base di alcuni meccanismi narrativi anche della tragedia greca, come per esempio nei Persiani di Eschilo, dove è il re persiano Serse a commettere un atto di hybris e di conseguenza viene sconfitto a Salamina. Il Poema di Kumarbi è un ciclo narrativo composto da una serie di narrazioni tutte relative al conflitto tra il dio Kumarbi e Teshub. Il primo è un dio hurrita che appartiene alla tradizione piú antica di questo popolo, mentre il
Rilievo in basalto raffigurante un sovrano (o un alto funzionario) nel suo ruolo di sacerdote, seduto davanti a una tavola di offerte sulla quale sono poggiati pani consacrati, dal Tempio B1 di Ebla (Tell Mardikh). Età del Bronzo Medio. Damasco, Museo Nazionale.
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Placca in bronzo raffigurante il dio Teshub in piedi sopra il suo animale simbolo, il leone, e una donna che si rivolge a lui in atteggiamento adorante, dall’Urartu. Parigi, Museo del Louvre.
secondo è una divinità emersa tra i Hurriti del II millennio a.C. in area siro-anatolica. Kumarbi era venerato in particolare nell’antica città di Urkesh, riportata alla luce presso il sito di Tell Mozan nella regione dell’alto fiume Khabur. Questa regione costituisce l’epicentro dal quale è emerso il primo e piú antico nucleo di Hurriti. Aspetto caratteristico dei racconti che fanno parte del ciclo è l’assoluta mancanza di confine tra realtà e fantasia. Personaggi e situazioni appartengono a un mondo fantastico nel quale tutto è possibile. Ciò costituiva probabilmente il fascino maggiore dell’opera
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per gli ascoltatori del tempo, cioè trovarsi di fronte a continui colpi di scena che suscitavano stupore e tenevano desta l’attenzione. Il primo canto del Poema porta il titolo di «Canto della nascita» perché racconta la nascita prodigiosa di Teshub. Il dio nasce da Kumarbi, ma in modo del tutto singolare. Nel canto viene ripercorsa la vita di Kumarbi; era stato il coppiere del dio Anu, che aveva soppiantato Alalu quale re del cielo. Desideroso di prendere il potere, Kumarbi aveva affrontato Anu in un combattimento. Nella lotta Kumarbi aveva addentato e
ingoiato i genitali di Alalu, privandolo cosí della sua virilità e sconfiggendolo. Alalu, però, prima di lasciare a Kumarbi la regalità nel cielo, lo aveva avvisato che anch’egli sarebbe stato spodestato. E colui che avrebbe sostituito Kumarbi nella regalità era proprio un figlio che Alalu, con il suo seme, aveva impiantato nel corpo del suo rivale. Cosí Kumarbi portava dentro di sé Teshub e i suoi fratelli, cioè la nuova generazione di divinità destinate a prendere il suo posto. Essendo Kumarbi di sesso maschile, si pone il problema di come partorire. La soluzione viene suggerita da Ea, dio mesopotamico della saggezza. Si decide, cosí, di aprire il cranio di Kumarbi per far uscire il primo figlio, il dio Teshub. Kumarbi cerca di uccidere il neonato, ma il dio Sole prontamente sostituisce il bambino con un sasso.
Nato dal cranio, come Atena Questa narrazione presenta forti analogie con opere letterarie della Grecia arcaica, come la Teogonia di Esiodo, in cui la successione di divinità, Alalu, Anu e Kumarbi può essere paragonata alla successione delle divinità greche Urano, Crono e Zeus. Inoltre, la tradizione greca tramanda che Atena fosse nata prodigiosamente dal cranio di Zeus, un aspetto confrontabile con la nascita di Teshub dal cranio di Kumarbi. Una volta adulto, Teshub diviene il re del cielo e a Kumarbi non resta altra scelta che cercare in ogni modo di riprendere il potere. I vari canti del ciclo sono tutti relativi a questi falliti tentativi. Ne menzioniamo qui soltanto due, il «Canto di Hedammu» e il «Canto di Ullikummi». Il protagonista del primo è un drago, o un grosso serpente, che Kumarbi ha generato dalla figlia del dio Mare. Hedammu è una creatura di grande voracità e divora tutto quello che trova privando gli uomini del loro sostentamento. Per cercare di eliminarlo, Teshub chiede aiuto alla sorella, la dea Shaushga, una divinità con caratteri simili a quelli della dea mesopotamica Ishtar. Shaushga si reca sulla riva del mare dove
Hedammu viveva e versa nell’acqua sostanze inebrianti; quindi, si apre la veste e mostra al serpente il suo corpo nudo. Hedammu, ebbro ed estasiato dalla bellezza della dea, esce dall’acqua, ambiente che lo proteggeva da qualsiasi attacco, e viene ucciso da Teshub. Il «Canto di Ullikummi» è l’ultima narrazione del ciclo. Questa volta Kumarbi cerca di mettere contro il suo rivale qualcuno che sia inattaccabile dalle armi di Teshub e indifferente alle manovre seduttive di Shaushga. Per farlo, decide di generare un figlio con una montagna. E cosí nasce Ullikummi, una creatura fatta di pietra. Il suo nome hurrita è programmatico, in quanto significa «distruggi (la città di) Kummi!», cioè la residenza del dio della Tempesta. Per evitare che il Sole, alleato di Teshub, veda questo bambino di pietra, Kumarbi lo pone sulle spalle di Ubelluri, una divinità antica che si erge dalle profondità del mare e sostiene il cielo sulle sue braccia. Nessuno si accorge di Kumarbi, finché questo resta nelle profondità del mare, ma poi crescendo emerge dall’acqua. Il Sole lo vede e ne è terrorizzato. Teshub, avvisato dell’esistenza di questa mostruosa creatura, tenta di vincerlo in battaglia, ma invano. Shaushga cerca di ricorrere allo stesso stratagemma con il quale aveva ingannato Hedammu, ma Ullikummi è fatto di pietra, non ha occhi, né orecchie e resta insensibile di fronte alla bellezza della dea. Ancora una volta, viene chiesto un consiglio al dio Ea e questi suggerisce che, per rendere inoffensivo Ullikummi, occorre staccarlo dal corpo di Ubelluri. Gli dèi riaprono allora il magazzino nel quale era conservato il coltello impiegato all’origine del mondo per separare il cielo dalla terra. Questo è un importante accenno alla visione cosmogonica dei Hurriti, che immaginavano l’origine del mondo e della vita come conseguente al taglio di una materia primordiale indistinta, dalla quale derivarono terra e cielo. A questo punto Ullikummi perde la sua forza, è reso inoffensivo ed è vinto da Teshub, che finalmente diviene l’indiscusso re del cielo e capo di tutte le divinità.
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SACERDOTI, ESORCISTI E RITUALI MAGICI
di Giulia Torri
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on il termine «magia» è possibile identificare nel mondo ittita tutte le azioni che mirano a controllare la vita umana, la salute, il benessere e il successo di una persona. Gli Ittiti utilizzavano una serie di pratiche rituali per curare varie malattie, sia fisiche che psichiche, guidare il corso della vita umana attraverso passaggi importanti, come la nascita e la morte, e intervenire sul mondo circostante, che poteva in certi casi rivelarsi ostile, come in caso di guerre o epidemie. Essi ritenevano che la causa di questi problemi potesse essere ricercata sia nell’ira di una divinità, adirata per i comportamenti sbagliati degli esseri umani, sia nell’intervento ostile di avversari. Le malattie potevano, inoltre, essere attribuite a situazioni accidentali per le quali un essere umano diveniva impuro. Spesso le cause erano imputate alla stregoneria (alwanzatar), associata alla cattiva impurità (idalu papratar), alle cattive lingue (idaluš lalaš), al malocchio (idalu šakuwa), al fatto di sangue (ešhar), alla colpa (waštul) e allo spergiuro (lingaiš). Tali situazioni venivano risolte attraverso l’esecuzione di rituali di purificazione. Dalla capitale ittita Hattusa ci sono pervenuti numerosi rituali magici tramandati su tavolette di argilla, che gli Ittiti definivano attraverso il termine sumerico SISKUR «rituale» (SÍSKUR, in ittita aniur ma anche mukeššar, «rituale di invocazione»). A differenza delle feste (EZEN4) che avevano una cadenza ricorrente, i rituali magici erano eseguiti in emergenza e ogni volta in cui fosse necessario trovare rimedio a situazioni inaspettate. La società ittita faceva una netta distinzione tra rituali legali, eseguiti da un officiante specializzato, e pratiche illegali, cioè rituali non eseguiti da maghi professionisti, e per scopi non accettati dalla società. Questo è ben illustrato da esempi nella raccolta delle leggi ittite in cui sono riportati atti magici proibiti: secondo il paragrafo 44 delle leggi, mettere i resti di un rito di purificazione nella casa di qualcuno, invece di bruciarli nelle discariche di incenerimento, è considerato un atto di stregoneria. Un secondo esempio si trova nel paragrafo 111, in cui si descrive come l’argilla è modellata in forma di una persona per eseguire su di essa pratiche nocive. Un terzo caso è quello illustrato nel paragrafo 170, in cui è fatto divieto di uccidere un serpente mentre si pronuncia il nome di una persona. Tutti questi casi prevedevano per il colpevole la pena capitale.
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Sulle due pagine vaso in argento in forma di cervo, decorato sull’orlo da un fregio raffigurante cerimonie religiose (vedi foto alla pagina accanto). Produzione ittita, XIV-XIII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
I rituali erano stati raccolti nelle biblioteche della capitale probabilmente a beneficio della famiglia reale. Talvolta, infatti, è proprio il re, in certi casi insieme alla regina, il destinatario di tali pratiche. Piú spesso, tuttavia, il paziente viene definito attraverso l’espressione generica EN.SISKUR (letteralmente «signore del rituale» in sumerico): colui che, oltre a essere il paziente, deve procurare i materiali e le offerte utili allo svolgimento del rito. Raramente compaiono nei testi ittiti nomi propri di sovrani e, ancora piú raramente, i nomi propri di persone senza alcun titolo. Un’interessante eccezione è il rituale eseguito per purificare la coppia reale Tuthaliya e Nikalmati (XV secolo a.C.) dall’ira della divinità della Tempesta e della divinità solare del sangue, indotta dalle cattive lingue della sorella del re, Ziplantawiya. Gli esecutori dei rituali magici ittiti sono sacerdoti esorcisti, chiamati con termine sumerico LÚAZU (in accadico ašipu e in ittita purapši-), o figure femminili denominate, sempre con termine
sumerico, «vecchie donne» MUNUSŠU.GI (forse corrispondente alla parola ittita hašawa-). Con questo termine si intendeva soprattutto una persona saggia ed esperta di tali pratiche, che spesso agiva anche come ostetrica nei rituali di nascita, ma partecipava allo svolgimento di riti di purificazione e ai funerali reali. In alcuni rituali agiscono come officianti anche l’indovino (LÚHAL), l’augure (LÚMUŠEN.DÙ) o il medico (LÚA.ZU). A differenza della Mesopotamia, dove il rituale è la parola del dio Ea, nell’Anatolia ittita i rituali magici non solo vengono eseguiti da questi sacerdoti o sacerdotesse, ma essi ne sono anche esplicitamente i creatori, come viene dichiarato
nelle prime righe dei testi. Il rituale ittita si apre molto spesso con parole come queste tratte dal rituale di Maštigga, donna di Kizuwatna, contro le liti in famiglia: «Cosí parla Maštigga…». Solo in un rituale magico, eseguito per rimediare agli anni travagliati, l’officiante Hantitaššu afferma nel corso dell’esecuzione di una pratica magica sul paziente: «Queste non sono le mie parole, sono le parole del dio Sole e di Kamrušepa». In questo caso, la divinità solare maschile, di origine luvia, è associata alla dea Kamrušepa, una figura che nei testi mitologici viene spesso rappresentata mentre esegue rituali magici che possano risolvere situazioni di crisi per gli dèi e gli uomini e può, dunque, essere interpretata come una dea ittita della magia. Nelle righe iniziali dei testi magici gli esecutori dei rituali sono spesso definiti attraverso il loro nome e la loro provenienza: Maštigga, la donna di Kizuwatna, Ašhella, uomo della regione di Hapalla, Palliya, re di Kizuwatna, Allaiturahhi, donna di Mukiš, sono solo alcuni esempi dei molti nomi
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tramandati dalla tradizione magica ittita. Si ritiene che non si trattasse di persone realmente esistite ma di mitici fondatori di determinate pratiche magiche che nei testi gli venivano attribuite. Gli Ittiti erano consapevoli di aver importato alcune delle loro pratiche rituali da altri paesi. Probabilmente essi attribuivano a certe popolazioni conoscenze magiche particolarmente efficaci: molti dei rituali portati a Hattusa dalla regione di Arzawa, un’area dell’Anatolia occidentale, avevano lo scopo di guarire la popolazione dalla diffusione di un’epidemia, fatto che a quanto pare afflisse il territorio di Hatti con particolare virulenza nel corso del regno del sovrano Muršili II. In effetti la tradizione magica ittita si forma nel corso del II millennio a.C. attraverso la sovrapposizione di numerose tradizioni culturali: quelle delle popolazioni di lingua indoeuropea, gli ittiti in Anatolia centrale e i luvi stanziati nell’Anatolia occidentale e meridionale, che si innestano nell’ambiente culturale e religioso della popolazione indigena che sappiamo chiamarsi hattica. Attraverso l’alta Siria e la Mesopotamia settentrionale gli Ittiti invece ricevono e rielaborano in maniera originale le influenze culturali della cultura hurrita, siriana e mesopotamica. Che non si tratti di una passiva ricezione lo comprendiamo dal modo in cui i testi magici sono composti e strutturati attraverso un assetto schematico che tende a essere costante. Oltre al nome dell’esecutore e la sua origine, i testi magici conservavano nelle prime righe anche la ragione per la quale era necessario praticare il rituale e una lista dettagliata degli ingredienti, degli animali da sacrificare e degli utensili che erano necessari per il suo svolgimento. Se il paziente fosse stato un uomo povero, animali di argilla avrebbero potuto essere utilizzati al posto di quelli veri. La scelta di tali animali inoltre dipendeva dal sesso del paziente: si sceglievano mucche e pecore per le donne, tori e montoni per gli uomini. La porzione principale del testo magico è composta da una serie di istruzioni. Alla parte descrittiva si alternano recitazioni e incantesimi, pronunciati dall’officiante, che possono essere sia in lingua ittita che in altre lingue. L’ittita e una seconda lingua (hurrico, luvio, hattico o accadico) possono essere presenti contemporaneamente nel
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testo. Tali recitazioni all’interno dei rituali magici sono molto varie: si tratta di formule magiche, scongiuri, brevi preghiere o narrazioni mitologiche, finalizzate a ottenere la guarigione del paziente attraverso l’allontanamento del male e delle cause della sua impurità. Il rituale di breve durata o articolato su piú giorni si conclude con l’eliminazione di tutti gli strumenti e i materiali utilizzati nel corso del suo svolgimento. Tra le pratiche impiegate dagli Ittiti durante l’esecuzione dei rituali troviamo esempi di magia analogica o magia persuasiva che consiste nel combinare parole e azioni per realizzare in maniera imperativa il trasferimento di certe qualità di una sostanza manipolata a un recipiente, sia esso il paziente da purificare o il male da eliminare. Cosí, per esempio, in un rituale eseguito dall’augure Huwarlu per purificare il re e la regina da cattivi presagi si legge: «Poi egli prende la polvere della pianta del sapone e la schiaccia, la stende e poi ne fa un unico impasto. Egli lo preme su tutte le Nella pagina accanto statua in basalto raffigurante un re sacerdote (o una divinità), dalla Siria settentrionale. Inizi del XVII sec. a.C. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. In basso frammento di tavoletta con il rituale della maga Zuwi di Durmitta. XIII sec. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.
membra del re e della regina, contro i quattro angoli della casa, contro il gradino e l’architrave della porta, contro il legno del chiavistello e dice nel modo seguente: “come questa polvere di pianta del sapone pulisce i panni macchiati e li rende splendenti, allo stesso modo pulisca i corpi del re, della regina e dei figli del re e il palazzo!”». I sacerdoti ittiti attingevano da una sapienza popolare, basata sulla conoscenza dell’ambiente circostante e l’osservazione di tecniche quotidiane. Per esempio, in un rituale di giuramento volto a ottenere la fedeltà dell’esercito verso il sovrano, la magia si realizza facendo leccare ai soldati un pezzo di lievito madre. Poi il sacerdote dice: «Che cos’è questo? Non è forse lievito? Come si prende un po’ di questo lievito e questo viene impastato nella pasta, come la pasta viene fatta riposare per un giorno finché cresce, colui che rompe questi giuramenti e tende trappole al re di Hatti e si rivolge in modo ostile verso il paese di Hatti, che questi giuramenti lo afferrino! Possa egli essere consumato dalle malattie e possa avere una brutta morte!». In alcuni casi la purificazione del paziente si ottiene passandone il male alle membra di un piccolo animale, le cui parti del corpo sono paragonate a quelle del malato. Ecco, per esempio, la tecnica adottata in un rituale eseguito per curare il re Labarna: «La sua forma corrisponde alla sua forma, la sua testa corrisponde alla sua testa, il suo naso corrisponde al suo naso, i suoi occhi corrispondono ai suoi occhi, il suo orecchio corrisponde al suo orecchio, la sua bocca corrisponde alla sua bocca, la sua lingua corrisponde alla sua lingua, la sua gola corrisponde alla sua gola, il suo collo corrisponde al (suo) collo, la sua schiena corrisponde alla (sua) schiena». Questi sono solo alcuni esempi delle pratiche magiche raccolte e trascritte nel corso dei secoli dagli Ittiti per intervenire sul mondo naturale, influenzarlo e pacificarlo nei confronti degli uomini malati e fragili di fronte ai casi della vita. I testi magici ittiti, nella loro varietà di contenuto, scopo e tradizione costituiscono uno degli insiemi piú originali tra i generi letterari di Hattusa e sono una fonte inesauribile di informazioni su come l’individuo si rapportasse con la natura e l’ambiente che lo circondava, utilizzando pratiche e conoscenze che circolavano tra le varie popolazioni dell’Anatolia e del Vicino Oriente.
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NASCITA DI UNA METROPOLI Hattusa prende forma attorno alla metà del XVII secolo a.C. come capitale del nascente regno ittita. Già cento anni piú tardi il suo volto cambia radicalmente e la città si trasforma in uno dei centri urbani piú vasti del mondo allora conosciuto. Dotandosi di fortificazioni, templi, quartieri residenziali e di un affascinante santuario rupestre di Andreas Schachner
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a storia dell’insediamento di quella che diventerà la capitale ittita inizia già alla fine del VI millennio a.C. Gli scavi condotti in quest’area, e segnatamente a Yarıkkaya, Büyükkaya e Çamlıbel Tarlası, forniscono informazioni sulla situazione in questa regione dell’Anatolia. I piccoli insediamenti, di breve durata, erano
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situati su altipiani fino al III millennio a.C., per lo piú collocati nelle valli laterali. Al contrario, nelle regioni piú meridionali dell’Anatolia centrale, i villaggi si erano già trasformati in centri urbani nel corso di questo millennio. A Boghazköy, il nucleo dell’insediamento che si sviluppò nella città del periodo ittita apparve per la prima volta alla fine del III millennio a.C.
Veduta generale, verso nord, dell’antica Hattusa, capitale del regno ittita. Il sito si trova presso l’odierna Boghazkale/ Boghazköy, 150 km a est di Ankara.
Mar Nero Istanbul
Ankara
Hattusa Kız ılır ma k
Tokat Sivas
Kayseri N
Antalya
NO
NE
SO
SE
O
Mar Mediterraneo
Diverse caratteristiche geografiche sono state decisive per la scelta di quest’area. Una catena montuosa separa la regione intorno a Boghazköy dalle steppe dell’Anatolia centrale, dove dominavano gruppi di potenziali concorrenti. D’altra parte, la conformazione topografica della zona rappresenta una protezione naturale del sito di Hattusa. La città,
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infatti, si estende su un pianoro delimitato dai corsi d’acqua Budaközü a est e Yazır a ovest, cosí da farne un rifugio sicuro. Queste caratteristiche resero il sito ideale per la fondazione di un centro abitato che controllava un importante snodo di due vie che correvano da sud a nord nella rete economica che si espandeva attraverso l’Anatolia centrale nella
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seconda metà del III millennio a.C. Questa posizione è anche la ragione principale per cui il sito fu intensamente utilizzato nell’età del Ferro e nel periodo romano. Come avvenne anche in altri luoghi dell’Anatolia, mercanti provenienti dalla città di Assur, nella Mesopotamia settentrionale, si stabilirono a Boghazköy nei primi secoli del II millennio a.C. Attraverso i testi cuneiformi assiri, ritrovati nelle case dei mercanti qui
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messe in luce, siamo informati sulle vie commerciali, i beni scambiati (stagno e materiali preziosi dal sud-est in cambio di rame, oro e argento dall’Anatolia), i nomi delle città piú importanti (per esempio Boghazköy/Hattus o Kültepe/Kanesh/Nesa), ma anche sui conflitti interni all’Anatolia, fra le diverse formazioni politico-territoriali. Secondo una tradizione tramandata dai testi cuneiformi ittiti di epoca piú recente, Anitta di Nesa (dopo il 1730 a.C.)
Sulle due pagine la Porta delle Sfingi, una delle cinque che si aprono nella cinta muraria di Hattusa.
A destra carta topografica dell’area di Hattusa. L’abitato si articola in tre nuclei principali: la «Città Vecchia» (o«Città Bassa»), la «Città Nuova» (o «Città Alta») e l’Acropoli (Büyükkale).
lanciò una maledizione sulla città di Hattush dopo la sua conquista per impedirne la rinascita per i tempi a venire. Tuttavia, appena 100 anni dopo, il primo re ittita storicamente attestato da fonti dirette, Hattusili I, scelse questo luogo come sua capitale e del toponimo Hattus(a) fece il suo nome reale (Hattus-ili «l’uomo di Hattusa»). Contrariamente alle ricostruzioni storiche del passato, che consideravano la tradizione testuale come
attendibile, i ritrovamenti archeologici nell’area della cosiddetta «Città Bassa», cosí come la continuità del nome, indicano una ininterrotta continuità della vita dell’insediamento, la cui scelta quale capitale del regno e quindi il suo sviluppo risultava utile per l’ambizioso sovrano. La tradizione potrebbe quindi essere intesa come una forma di fondazione mitica comune nell’antico Vicino Oriente. Lo sviluppo edilizio della città nel XVII secolo
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HATTUSA
a.C. non avvenne con l’intenzione di costruire qui il centro di un impero sovraregionale. L’ascesa da centro locale di carattere anatolico a una delle piú importanti città residenziali della regione del Mediterraneo orientale avvenne parallelamente allo sviluppo sociale e politico del regno in un grande impero attivo a livello internazionale. Le aspre e complesse caratteristiche geomorfologiche dell’area da esso occupata hanno in qualche modo contribuito a determinare il carattere tipico della città attraverso il modellamento attivo del paesaggio e lo sviluppo di forme architettoniche originali.
Una città grande e complessa Al momento della sua massima espansione, tra il 1530 e il 1180 a.C. circa, si può fare una distinzione tra la «Città Antica» - la cosiddetta Città Bassa (oltre, naturalmente, all’acropoli – Büyükkale) – e la «Città Nuova – la cosiddetta Città Alta – una divisione che si ritrova anche nei testi ittiti. Hattusa non è solo piú grande di tutti gli insediamenti dell’Anatolia di epoca precedente o successiva; è anche la città socialmente piú complessa e presenta
numerose tipologie di costruzione che non si trovano in altre città ittite dell’Anatolia centrale. La Città Antica si sviluppava tra due poli: l’Acropoli (Büyükkale) e la Città Bassa. In un testo composto tra il XVII e il XVI secolo a.C., il re Hantili I rivendica la costruzione di mura difensive, dato che può essere collegato alla datazione al radiocarbonio della sezione sudest della fortificazione, detta anche «muraglia delle posterule» («Poternenmauer»). Numerosi edifici monumentali segnano lo svolgimento nel tempo di un programma di costruzione su vasta scala, la cui pianificazione in continuo sviluppo rivela le ambizioni dei governanti. Mentre per l’epoca pre-ittita sull’acropoli di Büyükkale sono stati scoperti solo edifici residenziali, gli strati archeologici della successiva epoca ittita indicano numerosi cambiamenti: le fortificazioni ai piedi dell’altura creano una separazione rispetto alla città; i terrazzamenti al nord e al centro e i complessi di edifici individuali al sud suddividono il pianoro di forma trapezoidale. Il paesaggio, articolato in livelli, fu utilizzato per separare le aree. Questo sviluppo continua nel periodo detto «imperiale» (dal 1350 al 1180 a.C. circa), quando l’intero A sinistra la Porta dei Leoni, che si apre lungo il lato occidentale del perimetro urbano.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Veduta della Città Bassa, con, in primo piano, la ricostruzione delle mura di fortificazione dell’abitato.
altopiano fu riservato agli edifici pubblici. In contrasto con i palazzi mesopotamici, disposti a formare un unico complesso edilizio le cui diverse funzioni corrispondevano all’interno con le partizioni in diversi ambienti, il complesso di Hattusa rivela una struttura originale: le funzioni del palazzo erano assunte da edifici separati, raggruppati intorno a cortili. Anche la «Città Bassa» subí cambiamenti nel corso del tempo: inizialmente presentava ancora un assetto che risaliva alla fine del III millennio a.C., caratterizzato da strade strette tra case di diverse dimensioni con pianta irregolare; già tra la fine del XVII e gli inizi XVI secolo a.C. cambiò radicalmente il suo aspetto. Similmente a quanto avvenne sul Büyükkale, questo cambiamento può essere visto come lo sviluppo da un insediamento tradizionale, cresciuto organicamente, a una metropoli pianificata di importanza internazionale.
Infatti, con la costruzione di un imponente edificio templare, il cosiddetto «Grande Tempio», circondato da magazzini e da vari edifici amministrativi a esso afferenti, il carattere del quartiere cambiò da zona dominata da edifici residenziali ad area occupata da edifici pubblici. Furono creati nuovi assi stradali orientati verso l’acropoli, sede della corte regia; l’architettura monumentale prese il posto degli edifici privati. Intorno al XV secolo a.C., apparve inoltre un nuovo tipo di abitazione la cui struttura, intorno a un ambiente centrale rettangolare di grandi dimensioni, testimonia un cambiamento d’uso: questo nuovo tipo di edificio serviva probabilmente ai suoi abitanti per forme di vita rappresentative nel quadro di una società urbana piuttosto che per attività di tipo economico. La «Città Alta» comprende le aree racchiuse dalle mura della città a sud della cosiddetta
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«muraglia delle posterule». La piú antica documentazione dell’attività ittita proviene dalla zona di uno sperone roccioso, dove un silos per lo stoccaggio di grandi quantità di grano – probabilmente sementi – appare essere stato costruito al piú tardi intorno alla metà del XVI secolo a.C. Le aree pianeggianti che nei decenni successivi formano il cuore della piú tarda «Città Alta» erano probabilmente utilizzate ancora in questo periodo come aree per lo sfruttamento agricolo. Tuttavia, nel corso del XVI secolo a.C., il silos per il grano fu sostituito da cinque grandi serbatoi d’acqua, che furono in uso per circa 150 anni. Altri bacini d’acqua artificiali si trovano in varie zone dentro e fuori la città. Piú o meno nello stesso periodo, le prime tracce di occupazione insediamentale si possono rilevare a ovest di Sarıkale e sulla sommità di varie formazioni rocciose che si ergono in tutta l’area. In contrasto con la «Città Antica», con i suoi vicoli e la disposizione lungo il loro tracciato delle case con planimetrie
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irregolari, edifici quadrati o rettangolari di moduli spaziali pre-pianificati sono situati lungo strade che si incontrano ad angolo retto. In questo assetto è riconoscibile una precoce volontà di ordine spaziale nell’ambito della storia dell’urbanistica orientale antica.
L’acqua, un bene essenziale Non è un caso che l’inizio delle attività edilizie nella «Città Alta» e la costruzione di grandi strutture idriche siano contemporanei: solo i serbatoi d’acqua, che compensavano la carenza d’acqua estiva e fornivano acqua sufficiente per le mandrie di bestiame, costituendo la spina dorsale dell’economia ittita, potevano rendere possibile lo sviluppo territoriale, non solo a Hattusa, ma sull’intero altopiano anatolico. Dalla fine del XVI secolo a.C., il sistema insediativo dell’Anatolia centrale è caratterizzato dalla scelta di luoghi completamente nuovi, precedentemente non occupati, su altipiani e in montagna, per la fondazione di strutture urbane regolarmente
Il terrapieno facente parte delle fortificazioni del recinto meridionale.
pianificate. Il fenomeno rappresenta una rottura con le tradizioni insediative piú antiche fondate sull’occupazione di rilievi collinari (i cosiddetti höyük/tell) che furono quasi tutti abbandonati nel periodo imperiale (1530-1180 a.C. circa). La «Città Alta» di Hattusa acquisisce cosí una sua ben precisa struttura topografica ed edilizia. Il centro naturale è formato da una conca, che si affaccia a nord verso Büyükkale, in cui sono stati portati alla luce ben 28 templi. Le loro piante si svilupparono nel corso dei secoli XVI-XV a.C. da impianti irregolari a complessi simmetrici a pianificazione lineare. Anche se è difficile collegare lo sviluppo di questo quartiere templare con dati storici, ci sono alcune prove che, parallelamente all’impianto dei serbatoi d’acqua, una serie di importanti terrazze fossero già occupate da strutture templari del tipo piú antico alla fine del XVI secolo a.C. I santuari piú recenti erano allineati con quelli piú antichi. Allo stesso tempo è riconoscibile un’organizzazione degli edifici templari lungo una rete stradale regolare e attorno a una piazza centrale. Dal momento che le opere di fortificazione corrispondono allo schema planimetrico messo in atto a cominciare dalla fine del XVI secolo a.C., è probabile che una cinta muraria esistesse fin da questo periodo; risulta infatti improbabile che a quest’epoca fossero fuori dal sistema difensivo tanto i serbatoi d’acqua, quanto questo innovativo quartiere rappresentativo della città. Cinque porte, in forma di portali in blocchi monumentali, si aprono nella cinta muraria della «Città Alta». Quattro hanno una facciata caratterizzata da una forma che risulta unica nel mondo antico. La quinta porta si trova all’estremo sud, sul bastione artificiale di Yerkapı, che domina la città e i suoi dintorni, ed è visibile quasi da ogni punto. L’alto bastione e le mura della città impediscono il contatto visivo con la campagna circostante che si estendeva a sud, cosí che allo spettatore nella città veniva suggerito un mondo artificiale creato dal potere ordinatore dei re ittiti. Lo sviluppo della Città Alta permise di
raddoppiare l’area di Hattusa e l’insediamento si trasformò finalmente da una città anatolica tradizionale a una metropoli con forme del tutto nuove di urbanistica esclusivamente rappresentativa. Singole zone della Città Alta continuarono a servire come quartieri residenziali e artigianali, ma non c’è traccia di un aumento della popolazione che avrebbe potuto riempire questa enorme area urbana. Edifici pubblici rappresentativi hanno dominato l’immagine della città fino al XIII secolo a.C. La disposizione complessiva con Yerkapı, le porte urbiche e i templi, alcuni dei quali a esse collegati, esprime una volontà progettuale ideologica di vasta portata, dietro la quale si rivela una concezione del potere che si mette in scena in un’architettura indipendente e un paesaggio urbano consapevolmente progettato. L’uso della morfologia topografica naturale per enfatizzare le funzioni degli edifici ha giocato un ruolo decisivo: il paesaggio non è stato utilizzato solo per migliorare gli assetti edilizi, ma è divenuto parte della rappresentazione.
Nuovi scenari Sulla base del confronto tra gli strati 3 e 2 della Città Alta, diventano chiari i cambiamenti funzionali che rappresentano un profondo mutamento sociale: la città continuò ad esistere, ma da un certo punto in poi la maggior parte dei templi cadde in disuso e molte aree furono destinate ad accogliere atelier attivi nella produzione artigianale. A questo stravolgimento, certamente significativo sotto il profilo storico-culturale, deve aver corrisposto un evento drastico. Dalla tradizione storica, solo il trasferimento della capitale da parte di Muwattalli II nel primo quarto del XIII secolo a.C. è noto come un evento di dimensioni adeguate; infatti il re spostò la sua capitale – come egli sottolineò espressamente – «con gli dèi di Hatti e i Mani» a Tarhuntassa. Questo evento rappresenta l’unica cesura nella storia della capitale ittita che, secondo i testi, riguardò anche i culti, e potrebbe quindi essere la spiegazione della trasformazione della Città Alta, dal momento
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HATTUSA
Veduta del Nishantepe da rilievo ortofotografico via drone con evidenza della parete iscritta (nel riquadro, la parete iscritta).
che solo un evento di tale portata potrebbe giustificare l’abbandono dei templi. Già sotto il regno del suo successore, Mursili III, la capitale fu spostata nuovamente a Hattusa; probabilmente perché il nuovo re dovette riconoscere che la città, al di là della sua funzione di residenza regia, aveva un’importanza decisiva come centro culturale, politico e religioso per la formazione dell’identità nella società ittita e per la legittimazione del potere regale. Proprio perché questi aspetti ideologici non potevano essere trasferiti in un altro centro, dovette risultare impossibile abbandonare la città, collocata in una posizione strategica vista la sfavorevole situazione geopolitica del XIII secolo a.C.
La fine Nel corso del XIII secolo a.C., cioè dopo il riacquisito ruolo di capitale, un nuovo complesso cultuale fu costruito nell’area della
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Città Alta, immediatamente a sud dell’Acropoli, includendo il complesso di Nishantepe, le cappelle ipogee 1 e 2 e il tempio 31. Questa riprogettazione si rese necessaria perché, dopo il trasferimento della capitale tre o al massimo quattro decenni prima, il vecchio assetto topografico-cultuale non risultava ormai piú significativo. La costruzione di questi edifici rappresenta l’ultimo programma edilizio della capitale ittita. Secondo le fonti scritte, ebbe luogo in un momento di crisi interna ed economica che evidenziò i primi segni di dissoluzione del regno. Il «sistema ittita», che era riuscito a superare gli svantaggi ecologici dell’Anatolia centrale per piú di quattro secoli, non poteva piú essere sviluppato in questo periodo in modo tale da resistere ai problemi interni, ai cambiamenti climatici (siccità), al sovrasfruttamento delle risorse naturali e al crollo dei partner commerciali sulle coste
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
meridionali (per esempio Ugarit). Sebbene la regalità ittita fosse stata in grado di superare singole crisi nei secoli precedenti, tra la fine del XIII e l’inizio del XII secolo a.C. i fattori negativi interni ed esterni portarono al collasso dell’impero. Mentre sull’Acropoli, a Büyükkale, si continuava a costruire, le aree desolate della parte orientale della città ne testimoniano il declino. Nel complesso, le evidenze indicano una graduale dissoluzione del fragile tessuto economico e sociale ittita nel giro di pochi decenni. Anche se, sulla base dei ritrovamenti effettuati nell’area di Büyükkaya, non si può piú ipotizzare una cessazione violenta dell’attività insediativa, la scomparsa di tutte le caratteristiche della cultura ittita (urbanistica, edifici monumentali, uso della scrittura cuneiforme, arte monumentale, ecc.) rende chiaro come la cultura centralizzata dello Stato ittita e delle sue élite, nonostante la loro apparente omogeneità, non abbia potuto penetrare di sé l’Anatolia centrale al punto da cambiarla strutturalmente con effetto duraturo.
La parete di destra della cappella ipogeica della Città Alta con l’iscrizione monumentale di Suppiluliuma (II) e il modello della stessa derivato da scansione dinamica a luce strutturata.
La scoperta a Hattusa di edifici deputati allo stoccaggio dei beni, l’impianto degli stessi serbatoi d’acqua, oltre alle fonti testuali e ai reperti archeologici, rivelano la ricchezza delle diverse funzioni economiche giocate dalla città. La stessa parola ittita happiriya, «città», applicata anche a Hattusa, ha la sua origine etimologica in contesti economici, designando dal punto di vista ittita un luogo, inteso in senso letterale, dove si svolgevano affari e commerci. Tutto ciò può essere ancora vero per la prima fase di sviluppo. Ma al piú tardi con le radicali trasformazioni della città nel corso del XVI secolo a.C., il suo enorme significato ideologico e religioso diventa tangibile attraverso il nuovo assetto urbanistico. Vaste aree infatti, a cominciare da quest’epoca, assumono una caratterizzazione esclusivamente pubblica deputata alla creazione di un’identità religiosa e politica delle élite prima sconosciuta. Questo sviluppo in termini prevalentemente cultuali e rappresentativi sotto il profilo statale risulta unico nello scenario storico dell’Anatolia ittita.
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IL CONCETTO DI «CAPITALE» SECONDO GLI ITTITI
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hiunque abbia qualche nozione sugli Ittiti sa che la loro capitale si chiamava Hattusa ed era situata nell’Anatolia interna, piú precisamente nella provincia di Çorum. È però meno noto che esistevano altre capitali e residenze dei re ittiti. Ancor meno sappiamo in merito alla funzione della capitale all’interno dell’impero ittita e su ciò che gli Ittiti associavano a essa. Purtroppo, i testi cuneiformi ittiti spesso non forniscono informazioni dirette su questi argomenti, anche se oggi molti aspetti ci sono meglio conosciuti. Prima della fondazione del regno ittita, l’Anatolia, topograficamente articolata in molte regioni diverse, sembra essere stata anche politicamente
In basso pendente in oro raffigurante una dea seduta in trono con un bambino, probabilmente identificabile con Arinna, divinità solare ittita. XIV-XIII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto veduta aerea dei resti del palazzo reale sull’Acropoli (Büyükkale) di Hattusa.
di Metin Alparslan
divisa in tanti piccoli regni. Alcuni di essi saranno stati certamente governati da re imparentati tra loro, anche solo alla lontana. Dal cosiddetto «testo di Anitta» apprendiamo che Pithana, il re della città di Kussar(a), conquistò la piú importante città commerciale dell’Anatolia interna del tempo, Kanesh/Nesa. Suo figlio, l’Anitta autore del testo menzionato, divenuto il re di Nesa, riuscí a sconfiggere la città di Hattush (la successiva Hattusa). Egli stesso lo riferisce in toni eroici: «E nella notte l’ho presa [la città di Hattusa] con la forza, e al suo posto ho seminato erbacce». Se dovessimo credere ad Anitta, saremmo ormai alla fine della storia degli Ittiti; storia che in realtà non è ancora iniziata. In effetti, sul sito di Hattusa non è possibile rilevare archeologicamente alcun tipo di interruzione nello sviluppo dell’insediamento; al contrario, la storia della città sembra essere continuata senza particolari interruzioni. Il primo re di Hattusa storicamente identificabile è Hattusili I, che è quindi anche considerato il fondatore del regno ittita. Il suo nome di nascita era Labarna, un nome che fu poi usato anche come titolo reale, cosí come il titolo di «Cesare» deriva dal nome Iulius Caesar. Il nome di trono «Hattusili», che significa «che viene da Hattusa», sembra voler sottolineare la sua appartenenza a questa città. E questo attaccamento alla capitale tradizionale rimarrà vivo fino alla fine dell’impero ittita. Nonostante il suo legame con Hattusa, egli sottolinea anche la sua discendenza dalla città e dalla casa reale di Kussara definendosi «uomo di Kussar». Anche altri re ittiti fanno riferimento a questa città, la cui esatta ubicazione non è stata determinata fino a oggi. Essa, sembra, tuttavia, in seguito aver perso la sua importanza quale centro urbano, perché non è quasi mai ricordata nei testi successivi. È probabile che questa antica capitale non sia piú esistita nel periodo del cosiddetto «impero», pur rimanendo viva nell’immaginazione degli Ittiti quale elemento centrale in una sorta di mito di fondazione. Ma che cosa intendevano gli Ittiti con il termine «capitale»? Nell’ambito dei molti brevi passaggi che troviamo in proposito nei testi cuneiformi ittiti, alcuni appaiono importanti per rispondere a questa domanda. Uno di essi testi è rappresentato dalla cosiddetta «Apologia di Hattusili III» (metà del XIII secolo a.C. circa). In questo testo, Hattusili riferisce del trasferimento della capitale da
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Hattusa a Tarhuntassa ordinato dal suo predecessore e fratello Muwatalli II, una città che non è stata ancora localizzata con certezza, ma che si dovrebbe collocare nell’Anatolia sudorientale. Anche se il ruolo di capitale fu di nuovo attribuito a Hattusa al tempo del figlio di Muwatalli II, cioè Mursili III, questo testo mostra comunque quali priorità si applicavano nel trasferimento della capitale: «Allora egli [Muwatalli] prese le immagini degli dei di Hatti e i Mani [che si trovavano a Hattusa] e li portò giú a Tarhuntassa dove prese dimora». In un altro testo lo stesso Hattusili III ricorda ancora una volta lo spostamento della capitale: «Mio fratello, però, prese [le immagini degli] dèi di Hatti e quelli di Arinna, e prese anche gli dèi di Kizuwatna e li portò a Tahuntassa che rese capitale». In un testo di preghiera lo stesso Hattusili III arriva a dubitare che lo spostamento della capitale avesse rispettato effettivamente il volere divino e cerca di distanziarsi da questo atto apparentemente sacrilego: «Che l’aver trasferito gli dei della terra di Hatti [e i Mani] sia avvenuto secondo il tuo volere,
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divinità del sole di Arinna, o contro il tuo volere: sei tu, divinità del sole di Arinna, mia signora, a saperlo. Io, non ho preso parte in alcun modo, tuttavia, a quella decisione di trasferimento; io ero solo un sottoposto costretto a seguire questo comando; e sebbene egli [Muwatalli] fosse il mio signore, il trasferimento delle divinità non è avvenuto per mio volere: a fronte di quel comando io ho provato timore». Come si può dedurre dai passaggi citati, due fattori appaiono essere stati rilevanti per una capitale ittita: la presenza delle divinità ittite (e cioè le loro immagini oggetto di culto), e quindi del culto di
Nella pagina accanto, in basso resti delle strutture del tempio 1 adibite a magazzini, con grandi vasi per la conservazione delle derrate e, in alto, un disegno ricostruttivo che ne mostra l’utilizzo.
In alto assonometria ricostruttiva del complesso del tempio 1 con i suoi tre nuclei principali: in arancione, il tempio vero e proprio; in giallo, i magazzini; in verde, il quartiere meridionale.
Stato, e la presenza del culto degli antenati. La religione degli Ittiti comprendeva un gran numero di divinità, che dovevano essere venerate con culti appropriati. Trascurare questi culti era una grave offesa che poteva comportare una punizione divina. Non sorprende quindi che fosse importante avere questi culti con le corrispondenti immagini nella capitale ittita.
appropriati per questi culti. Poiché il re ittita era anche il piú alto sacerdote dello Stato, la componente religiosa giocava un ruolo fondamentale. Cosí come concepita dagli Ittiti, la capitale, quindi, non era solo il centro politico, ma anche religioso del regno. Uno Stato cosí ben organizzato come quello ittita necessitava naturalmente anche di tutti gli apparati politici e organizzativi. Si può supporre che, oltre alla cancelleria di Stato, con i suoi impiegati e servitori, una gran parte degli archivi doveva trovarsi proprio nella capitale. Nuovi trattati di Stato, per esempio, si basavano su quelli già stilati in precedenza; i testi liturgici legati alla celebrazione dei rituali necessitavano di copie d’archivio; la corrispondenza epistolare abbisognava dei corrispondenti dossier. Tutto questo era parte essenziale dell’organizzazione statale, il cui centro era naturalmente rappresentato dalla capitale. Si può pertanto supporre che quando la capitale fu spostata, sia stato trasferito anche l’archivio di Stato funzionale alla gestione di queste attività. Che tale circostanza non venga esplicitamente
Un’altra componente importante della capitale era il culto degli antenati. Questi ultimi, vale a dire i defunti re ittiti e altri membri della famiglia reale, venivano regolarmente venerati e la loro presenza era di conseguenza indispensabile. Sembra che fossero una sorta di simbolo della tradizione della famiglia reale ittita. Le pratiche di sepoltura dei re ittiti sono relativamente ben documentate dai cosiddetti testi di culto funerario ittita: i sovrani defunti venivano cremati e le loro ceneri conservate in un recipiente deposto in un mausoleo. Il trasferimento della capitale poteva quindi comportare il trasferimento di queste urne. Naturalmente, un centro avente funzione di capitale doveva anche disporre degli edifici
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Rilievo raffigurante una divinità seduta, con un copricapo di forma conica, che tiene una coppa in una mano e un uccello nell’altra, da Kayalıpınar, centro che è stato identificato con Samuha.
menzionata nel testo citato può essere spiegato dal fatto che, avendo il culto statale la maggiore rilevanza, tutti gli altri aspetti fossero semplicemente dati per scontati. La capitale ittita era anche il centro economico dello Stato. Gran parte dell’esercito e dei funzionari erano quindi probabilmente situati nella capitale o nelle immediate vicinanze. Tutti questi dipendenti dovevano essere pagati e nutriti, per cui era naturale avere a disposizione gli spazi e le strutture per l’immagazzinamento dei beni e dei mezzi di sostentamento. A Boghazköy-Hattusa è stato possibile portare alla luce un certo numero di silos e di edifici finalizzati allo stoccaggio.
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Dai testi ittiti non si conoscono ulteriori spostamenti della capitale. Tuttavia, si deve ricordare che alcuni re ittiti spesso trascorrevano lunghi periodi di tempo in altre residenze. Naturalmente, questo non significava un effettivo spostamento della sede della capitale. A tal proposito si ricorda che il re Tuthaliya II (prima metà del XIV secolo a.C.) è noto per aver soggiornato a lungo a Samuha, una città situata circa 240 km a est di Hattusa, vicino alla moderna Sivas. Tuthaliya, tuttavia, sembra essere stato almeno in parte costretto a eleggere Samuha come residenza provvisoria a causa delle razzie condotte a quest’epoca fino nel cuore del territorio della capitale dalle tribú seminomadi
dei Kaska, che vivevano nelle impervie regioni dell’Anatolia settentrionale. Un altro centro che si ritiene abbia, almeno temporaneamente, svolto funzione di «capitale» è la città ittita di Sapinuwa, vicino alla moderna Ortaköy, 90 km circa a est di Hattusa. Dal gran numero di tavolette cuneiformi ivi venute alla luce, soprattutto una fitta corrispondenza regia sia in ingresso che uscita, risulta chiaro che il già ricordato re Tuthaliya II debba avervi soggiornato per un lasso di tempo relativamente lungo. Sebbene non sia stato ancora possibile identificare con certezza Sapinuwa come una vera e propria capitale, bisogna ammettere che questa città ne possedeva tutte le caratteristiche. Gli scavi hanno portato alla luce edifici sacri e amministrativi, nonché magazzini e laboratori. L’intera area occupata dall’impianto urbano non è stata ancora determinata con certezza, ma sembra aver avuto dimensioni maggiori rispetto alla media degli altri centri ittiti. In conclusione si può dire che la capitale ittita rappresentava innanzitutto il centro religioso degli Ittiti. Si può supporre che molti edifici
all’interno della capitale avessero tale funzione. Non sorprende che ben 31 templi siano stati messi in luce finora a Hattusa. Luoghi aventi funzione di mausoleo sono altresí documentati. Hattusa offriva uno spazio sufficiente per il culto dello Stato e degli antenati. D’altra parte, Hattusa aveva anche molti edifici amministrativi. Il palazzo reale sull’Acropoli, a Büyükkale, era un complesso architettonico di dimensioni straordinarie per l’epoca (vedi foto a p. 97 e ricostruzione in questa pagina). Importanti edifici con funzione amministrativa sono stati scoperti anche nella Città Alta. La cosiddetta «Casa del Comandante delle guardie del corpo reale», è un buon esempio in tal senso. Un gran numero di silos, depositi e magazzini, d’altra parte, sottolineano al contempo la rilevanza economica di Hattusa. Hattusa conservò di fatto ininterrottamente il suo status di capitale tradizionale degli Ittiti: né il trasferimento per in limitato lasso di tempo della capitale a Tarhuntassa, né le residenze temporanee di Sapinuwa o Samuha, sembrano aver inciso su questo stato di fatto. La tradizione della capitale Hattusa continuò sino alla fine del suo regno.
Plastico ricostruttivo del palazzo reale sull’Acropoli (Büyükkale) di Hattusa. Si trattava di un complesso architettonico assai articolato ed eccezionalmente vasto rispetto agli standard dell’epoca.
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La teoria delle dodici divinità «ctonie» decoranti la parete occidentale della Camera B del santuario di Yazılıkaya.
AL COSPETTO DEGLI DÈI Pochi chilometri a nord-est di Hattusa, fu ricavato nella roccia il santuario di Yazılıkaya. Un monumento eccezionale, riccamente decorato da figure a rilievo comprendenti tutte le principali divinità del pantheon ittita di Massimiliano Marazzi
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no dei complessi monumentali piú suggestivi della civiltà ittita è senza dubbio il cosiddetto santuario rupestre di Yazılıkaya (in turco, «roccia iscritta»). Esso, infatti, racchiude in sé, allo stesso tempo, le manifestazioni piú interessanti dell’arte scultorea, di quella
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scrittoria e della ideologia religiosa del regno. La storia della sua scoperta è, d’altra parte, strettamente connessa con quella di Hattusa e del regno ittita in generale. Posto a 5 km circa a nord-est della capitale e ricavato all’interno delle stanze naturali di un complesso roccioso che emerge imponente sul paesaggio
Mar Nero Istanbul
Ankara
Yazılıkaya Kız ılır ma k
Tokat Sivas
Kayseri N
Antalya
NO
NE
SO
SE
O
Mar Mediterraneo
circostante, attrasse subito l’attenzione del viaggiatore-archeologo francese Charles Texier, il quale, nel 1833 scoprí per la prima volta le rovine di Hattusa. Le decorazioni scultoree, che si svolgono sulle superfici rocciose delle pareti che racchiudono il maggiore dei due grandi ambienti naturali (chiamati oggi dagli studiosi
E
S
Camera A e B), furono infatti accuratamente disegnate dalla missione francese. Le tavole grafiche composte e pubblicate nel 1839 nell’ambito del volume Description de l’Asie Mineure (vedi immagine a p. 106, in basso), pur tradendo, nella rappresentazione delle figure e nei dettagli delle iscrizioni che le
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accompagnano, un certo gusto influenzato dall’esperienza classica dominante nell’ambiente archeologico dell’epoca e ben lontano dai tratti di un’arte, quale quella ittita, ancora interamente sconosciuta, ebbero il grande merito di portare all’attenzione del pubblico europeo della prima metà dell’Ottocento, un tesoro culturale (oggi patrimonio UNESCO) unico nel suo genere. L’importanza della scoperta si diffuse negli ambienti intellettuali dell’epoca e, fra i diversi viaggiatori-archeologi che visitarono nei
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A sinistra modello 3D del complesso del santuario con evidenza delle Camere A e B, delle pareti scolpite e delle strutture edilizie antistanti (sulla base del modello tridimensionale dell’archivio della Missione di cooperazione italotedesca a Hattusa). In basso le fondamenta degli edifici antistanti le Camere A e B di Yazılıkaya (elaborazione sulla base della planimetria in Kurt Bittel [a cura di], Das hethitische Felsheiligtum Yazılıkaya, 1975). Nella pagina accanto le possibili diverse fasi delle strutture antistanti le Camere A e B di Yazılıkaya e i relativi accessi (elaborazione sulla base delle planimetrie in Jürgen Seeher, Gods carved in Stone. The Hittite Rock Sanctuary of Yazılıkaya, 2011).
I decenni susseguenti il santuario, come George Perrot e Ernest Chantre, eseguendo parziali scavi degli interri ancora presenti nelle camere e documentando accuratamente sculture e le iscrizioni, un posto particolare spetta a Carl Humann, famoso all’epoca per i suoi scavi e le ricerche condotte nella città greca di Pergamo, con il suo meraviglioso Altare, oggi conservato nell’omonimo museo di Berlino.
II III
I calchi trasportati dai muli Humann, infatti, fece approntare sul posto una serie di calchi in gesso degli elementi scultorei piú rilevanti; trasportati a dorso di mulo fino a Istanbul e poi fatti giungere fino a Berlino, trovarono esposizione già sul finire dell’Ottocento nel Neues Museum di Berlino, da poco inaugurato in quella che oggi prende il nome di «Isola dei Musei» e finalmente nel Pergamon-Museum, dove ancora oggi si possono ammirare in una delle sale adiacenti alla altrettanto famosa Porta di Ishtar. Nel 1934, curata dall’archeologo tedesco Kurt
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Bittel, fu per la prima volta presentata un’edizione scientifica completa del complesso monumentale; successivamente, nel 1941 e poi nel 1975, sempre sotto la guida dello stesso studioso, che d’altra parte aveva preso la direzione degli scavi di Hattusa, furono editi due corposi volumi (che valgono ancora oggi quali edizioni par excellence), nei quali si illustravano tutti gli aspetti, architettonici, artistici ed epigrafici di questo monumento. Pur essendo stato fino a oggi il monumento forse piú studiato dalla comunità scientifica degli ittitologi, il santuario rupestre di Yazılıkaya presenta ancora, sotto molti aspetti, una serie di problemi insoluti. Che esso fosse, fin dagli inizi del regno ittita, luogo di culto certamente legato alla sua stessa conformazione naturale, è stato accertato dagli scavi archeologici che hanno messo in luce le strutture antistanti gli accessi alle sue camere naturali (vedi planimetria a p. 104). Appartenente a una prima fase della sua utilizzazione è una struttura muraria che, svolgentesi sul fronte occidentale, chiudeva l’accesso diretto sia alla Camera A che a quella B, creando uno spazio recintato a esse antistante con funzione cultuale (Fase I).
L’avvio del programma scultoreo Nel corso del tempo una serie di nuovi fabbricati eretti su questo lato dettero vita a un vero e proprio complesso templare (simile a quelli presenti nella capitale) nell’ambito del quale la cella divenne lo spazio rappresentato dalla Camera A (Fasi II-III; vedi planimetrie a p. 105). In questa fase della vita del santuario dovette probabilmente prendere vita il programma scultoreo che, partendo dalla decorazione delle pareti lunghe, trova il proprio fulcro nella scena rappresentata sulla parete di fondo. Tale programma rappresenta sotto innumerevoli punti di vista un evento innovativo tanto nello sviluppo dell’arte della scultura rupestre, quanto nella celebrazione del potere politico attraverso il medio iconografico di carattere religioso. Iniziamo dunque col vedere i contenuti delle
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Nella pagina accanto, in alto il grande rilievo del re Tuthaliya IV nella Camera A. Nella pagina accanto, in basso lo stesso rilievo nel disegno di Charles Texier nella sua opera Description de l’Asie Mineure, pubblicata a Parigi nel 1939. A destra la Camera A di Yazılıkaya con la disposizione delle decorazioni scultoree (in evidenza la grande rappresentazione del re Tuthaliya IV sulla parete di destra; elaborazione sulla base planimetrica in Seeher 2011).
rappresentazioni scultoree. Sui due lati lunghi della Camera A si svolgono due processioni divine, sulla sinistra quella delle divinità maschili, sulla destra quella delle divinità femminili. In entrambi i casi le figure sono rappresentate come incedenti verso il fondo
della Camera. Qui si fronteggiano, alla testa di ciascuna processione, le due massime divinità del pantheon hurro-ittita: rispettivamente il «dio della Tempesta» Teshub e la sua paredra Hebat (vedi foto e disegni alle pp. 108-109). Nello stesso pannello di fondo, immediatamente
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dietro alla coppia divina, e al pari di questa, poggianti su picchi montani divinizzati o su animali simbolicamente legati alle forze della natura e al potere regio, sono presenti i piú stretti accoliti della famiglia divina, compreso il figlio prediletto della dea Hebat, il dio Sharruma, il quale, proprio in virtú di questo suo ruolo, è rappresentato immediatamente dietro alla madre. Le divinità, singolarmente o secondo gruppi, sono individuate attraverso brevi iscrizioni in caratteri geroglifici poste al di sopra del braccio proteso in avanti, all’altezza del volto dei personaggi. I segni non sempre indicano il nome del dio secondo una sequenza fonetica; in alcuni casi, glifi caratterizzati da una forte valenza iconica, rinviano attraverso
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processi di carattere metaforico al nome: cosí una «mano con coltello» rinvia al dio della guerra, una «spiga di grano» alla divinità preposta all’ordine della natura, ecc.
Il rapporto fra gli dèi e i regnanti Elemento caratterizzante tutto il pantheon divino raffigurato è il fatto che esso si riferisca essenzialmente a quello strato di divinità proprie dell’ambiente hurro-ittita che caratterizza strettamente, in termini linguisticoculturali, la corte regia a cominciare dal periodo immediatamente pre-imperiale (con i matrimoni di principesse hurrite) e che, sotto il regno di Hattusili (III), riceve nuova linfa attraverso il suo matrimonio con la principessa
Sulle due pagine una delle processioni divine scolpite sui lati lunghi della Camera A. Alla testa del corteo si riconoscono le due massime divinità del pantheon hurro-ittita: rispettivamente il «dio della Tempesta» Teshub e la sua paredra Hebat.
In alto, a destra la scena principale sulla parete di fondo della Camera A. In alto, riproduzione grafica (da Seeher 2011); in basso, il modello 3D della stessa scena generato da scansione a luce strutturata dinamica (archivio della Missione di cooperazione italotedesca a Hattusa).
Puduhepa, proveniente egualmente da ambiente religioso hurrita. La narrazione messa in scena sulle pareti della Camera A di Yazılıkaya non è quindi riconducibile al costrutto di un pantheon panittita, ma ha il suo diretto riferimento nella dinastia al potere e nell’ambiente culturale della corte. In questo senso la scena centrale presente sulla parete di fondo potrebbe essere intesa come la trasposizione sul piano divino della famiglia regia. Non a caso, la monumentale rappresentazione del re Tuthaliya IV (sotto il cui regno può essere riferita la parte principale della messa in opera del progetto sculturale, già probabilmente iniziato durante la parte finale del regno di suo
padre, Hattusili III) nella Camera A è collocata nella parte iniziale della parete di destra, dove questa fronteggia proprio quella di fondo (vedi tavola a p. 107 e foto a p. 106, in alto). Se le sculture, e lo spazio nel suo insieme, della Camera A possono essere intesi come esposizione e celebrazione del pantheon dinastico, per quanto riguarda la Camera B decorazioni e funzione si intrecciano con la problematica del suo assetto originario in rapporto agli edifici antistanti. L’ultima fase edilizia delle costruzioni che formano l’accesso alla Camera A (Fase III) si caratterizza, infatti, per un ampliamento (con parziale modifica dell’orientamento del corpo aggiunto) finalizzato alla creazione di un ingresso da
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ovest alla Camera B, attraverso uno stretto passaggio che conduce direttamente nella sua parte terminale piú ampia. Si dovrebbe quindi immaginare che fino a questo momento, cioè durante tutta la Fase II, l’ingresso alla Camera B avesse luogo da sud (indipendentemente rispetto alla Camera A), dove, d’altra parte esiste un corridoio naturale di accesso verso l’esterno. Ciò sembrerebbe confermato dalle stesse decorazioni scultoree presenti nella
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Camera B le cui raffigurazioni incedono da sud verso nord (vedi ancora la tavola a p. 55, con la distribuzione delle decorazioni scultoree). Infine, lungo la parete di fondo a nord gli archeologi hanno messo in luce un basamento collegabile con l’originaria presenza di un altare (o di una stele) che verrebbe a costituire il punto focale della Camera. Oggi questo ingresso è occluso da una parte dell’originaria parete rocciosa scivolata verosimilmente in un
Sulle due pagine la Camera B di Yazılıkaya vista da nord. Sullo sfondo, il blocco roccioso che ha chiuso l’accesso da sud.
A destra uno dei due rilievi di demoni a guardia dell’ingresso da ovest alla Camera B.
momento dell’uso di questa parte del santuario (vedi foto in basso). Quando effettivamente ciò sia avvenuto e se l’occlusione dell’accesso da sud sia stata accidentale o voluta, al fine di «sigillare» un accesso dall’esterno e creare un nuovo ingresso comune a quello della Camera A, resta irrisolto. Ciò che si può dire con certezza è che nell’ultima fase di vita del santuario la Camera B doveva rappresentare un’area di particolare rilevanza cultuale,
Planimetria della Camera B, con evidenza delle decorazioni scultoree. In rosso, i tratti delle pareti originariamente integrati attraverso la messa in opera di ortostati verosimilmente decorati; in blu (e la corrispondente silhouette), il nuovo rilievo (83bis) di recente individuato sulla parete orientale (elaborazione sulla base planimetrica in Seeher 2011).
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accessibile soltanto dal complesso templare antistante, a guardia del cui nuovo ingresso furono messe in opera due sculture di demoni alati (vedi foto qui accanto). Qualcosa sulla sua particolare destinazione possono suggerire le sculture che ne decorano le due pareti lunghe. La parete occidentale ripropone le 12 divinità ctonie (o antichi re divinizzati) che apre anche la processione maschile nella Camera A (vedi foto in apertura, alle pp. 102/103). Certamente altre raffigurazioni dovevano seguire verso nord, ma gli ortostati che in questo punto dovevano essere in opera per formare l’angolo di accesso da ovest (o, nella fase precedente, la continuazione della parete fino al muro di fondo) sono purtroppo andati perduti. Sulla parete opposta la sequenza scultorea comincia con la raffigurazione del re Tuthaliya IV (vedi foto in alto) abbracciato e «condotto» dal suo dio protettore Sharruma (lo stesso dio egualmente rappresentato nella scena di fondo della Camera A) verso la parete di fondo, dove è presente il basamento sopra ricordato. Immediatamente a seguire è una grande rappresentazione del «dio spada» (vedi foto alla pagina accanto), da identificare
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con il dio Nergal, dio della guerra ma anche dell’oltretomba, egualmente raffigurato nella teoria maschile della Camera A. La parete che segue, purtroppo, è profondamente segnata, nella sua prima parte, dal dilavamento delle acque e nella parte a seguire interrotta da una fessurazione naturale, certamente chiusa all’origine da ortostati verosimilmente decorati, oggi andati perduti; gli studiosi sono però di recente riusciti a individuare, nella prima parte fortemente dilavata, le tracce di una figura femminile, anch’essa incedente verso la parete di fondo (indicata con il n. 83bis nella tavola a p. 107).
Il re e il «dio spada» Chiude, sull’ultima porzione di parete, l’aedicula con il nome dello stesso Tuthaliya IV. La prosecuzione, dopo la rappresentazione del «dio spada», della decorazione su questa parete potrebbe quindi essere quella di una scena di almeno due personaggi incedenti verso la parete di fondo, dei quali il primo sarebbe certamente femminile, il secondo il re Tuthaliya identificato dalla sua aedicula ancora presente. Anche a fronte di queste oggettive difficoltà, si può immaginare che la Camera B
A destra il cosiddetto «dio Spada» sulla parete orientale della Camera B: accanto alla foto l’elaborazione del modello 3D sulla base del calco di Carl Humann. Nella pagina accanto il rilievo del re Tuthaliya IV «abbracciato» dal dio Sharruma sulla parete orientale della Camera B.
fosse destinata, a cominciare dai cambiamenti che caratterizzano la terza fase edilizia del santuario, a un culto (post mortem) dedicato al sovrano «fondatore» del complesso sacrale di Yazılıkaya (culto che alcuni testi cuneiformi riferibili al regno del suo successore, Suppiluliuma II, sembrerebbero documentare): la decorazione scultorea che vede, in un contesto legato all’oltretomba, proprio questo sovrano come principale «attore» accompagnato dalla sua divinità protettrice, la necessità di rendere particolare l’accesso a questo spazio (legato a un avancorpo di carattere templare, simile e in aggiunta a quello relativo alla Camera A) e di sottolinearne il
controllo attraverso le due figure di demoni messe a guardia della stretta fenditura nella roccia che ne permette l’ingresso, sostengono questa interpretazione. Sulle pareti della Camera B si aprono, d’altra parte, una serie di nicchie, ad altezza d’uomo, che potevano fungere sia da ricettacolo di parafernalia connessi con il culto del sovrano divinizzato, sia addirittura da alloggiamento dell’urna che ne poteva contenere le ceneri. Infine, questa interpretazione legata al culto dinastico ben si armonizza con la celebrazione del pantheon proprio della corte regia testimoniato dalle splendide sculture che ornano le pareti della camera principale.
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KARKEMISH, UNA CAPITALE SULL’EUFRATE La plurimillenaria storia della città fiorita su uno dei grandi fiumi della Mesopotamia comprende un’importante fase ittita. Su cui stanno gettando una luce sempre piú intensa le ricerche della missione turco-italiana di Nicolò Marchetti e Hasan Peker
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li scavi archeologici inglesi condotti nel sito di Karkemish tra il 1878 e il 1920 hanno riportato alla luce importanti monumenti che vengono spesso citati nella letteratura scientifica; tuttavia, la loro cronologia e la relativa comprensione funzionale devono essere profondamente rivisti a seguito delle recenti indagini archeologiche, iniziate nel 2011 e ancora in corso, a opera della missione archeologica turco-italiana delle Università di Bologna, Istanbul e Gaziantep, supportata dal Ministero Italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, da quello dell’Università e Ricerca, come anche dalla Sanko Holding. La missione Ortostato in basalto con due grifoni, rinvenuto nel 2017, appartenente alla decorazione del Herald’s Wall edificato da Katuwa. Ffine del X sec. a.C.
Mar Nero Istanbul Çorum
Ankara Kız ılır ma k
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KARKEMISH
archeologica turco-italiana ha avviato in maniera sistematica ricerche sulla topografia, allo scopo di conoscere le diverse aree funzionali della città, cosí come sulla cronologia del sito nell’ottica di ricostruirne la sequenza di occupazione. Indagini geofisiche e di telerilevamento hanno inoltre ampliato enormemente la nostra comprensione dell’impianto della città esterna. Un programma articolato di indagini multidisciplinari di bioarcheologia – tra antropologia, zooarcheologia e paleobotanica – ci permette ora di avere un quadro integrato della vita di questa città sull’Eufrate attraverso tre millenni. Le analisi archeometriche ci danno inoltre informazioni approfondite sulla cultura
In basso mappa topografica di Karkemish e Yunus. Nella pagina accanto, in alto le cretule del Bronzo Tardo IIB dagli scavi del 2019 nell’Area C.
materiale e l’organizzazione della produzione. Infine, il nostro progetto di archeologia pubblica è tuttora attivo e si fonda su un approccio dinamico e continuo con la produzione di materiali informativi analogici e digitali, oltre che di installazioni di arte contemporanea, come nel caso dell’opera Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto inaugurata nell’aprile del 2022 all’ingresso del parco archeologico.
Le molte stagioni del sito Il sito ha una lunghissima storia, che inizia nel periodo di Halaf, nel VI millennio a.C., ma presentiamo qui solo alcuni risultati riguardanti il periodo ittita imperiale. In seguito il sito divenne la capitale di un importante regno neo-
Karkemish
Missione archeologica turco-italiana 2019
Tombe G. 1703-9192 Tomba G. 1200
Età imperiale ittita Età neo-ittita Età romana Età abbaside
Acropoli
Lower Palace Area urbana interna Tombe G. 457-461
Casa A
Casa D
Area urbana esterna
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Installazioni militari moderne Monumenti rilevati solo da Leonard Woolley
Eufrate
ittita, poi provincia assira, villaggio achemenide e, infine, città ellenistica, tardo-romana e tardoantica, prima di tornare allo stato di villaggio in epoca abbaside. In epoca moderna, dal 1920, il sito è stato occupato da una base militare posta sul nuovo confine tra Turchia e Siria. Dopo la conquista di Karkemish da parte del re ittita Suppiluliuma I verso il 1330 a.C., che saccheggiò la città bassa, ma non osò colpire i templi dell’acropoli, la città divenne una capitale regionale. Il governo di questo regno fu affidato al figlio del sovrano ittita, Piyassili, che, una volta asceso al trono, prese il nome hurrita di Sharri-Kushuh. Nelle campagne di scavo degli anni 2017-2021 in uno strato archeologicamente datato al KARKEMISH Piyassili I Sharri-Kushuh
HATTI Suppiluliuma I Arnuwanda II Mursili II Muwattalli II
Shahurunuwa
Mursili III Urhi-Teshub Hattusili III
Ini-Teshub I
Tuthaliya IV Arnuwanda III
Talmi-Teshub Ricostruzioni 3D del complesso del «Hilani» nel Ferro II (in alto) e degli edifici dell’area del Lower Palace nel Ferro II.
Suppiluliuma II
Kuzi-Teshub Qui sopra tabella nella quale sono elencati i re di Karkemish e i Grandi Re di Hatti nel Bronzo Tardo II (seconda metà del XIV-prima metà del XII sec. a.C.).
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KARKEMISH
Le cretule del Bronzo Tardo IIB dagli scavi nell’Area C (2017).
Bronzo Tardo IIB dell’area C Est nel Lower Palace, sono state rinvenute piú di 500 cretule in argilla, la gran parte con impronte di sigilli dell’età imperiale ittita, verosimilmente del regno del sovrano di Karkemish Ini-Teshub I. Lo studio di questi ritrovamenti ci ha consentito di identificare 100 diversi sigilli appartenenti a 90 funzionari. Particolarmente interessante è la cretula che conserva l’impronta dei sigilli, rispettivamente, di Tiya, Sunaili e Ewri-Teshub; infatti, un’impronta prodotta dallo stesso sigillo di Ewri-Teshub è documentata su una tavoletta di Emar. I funzionari che appaiono tra i piú attivi sono Paya (pa’e), Taya (Ta’e) e Zinni. Paya, il cui nome è scritto nella forma pa-i(a) su un sigillo, porta il titolo, in caratteri luvio geroglifici, VIR2.FINES2 che può essere inteso come «il responsabile (dell’area) del confine». Un’interpretazione meno letterale del termine porta a ritenere che questo funzionario fosse preposto al controllo e/o registrazione di beni ricevuti dall’estero, in forma di doni o tributi. Taya il cui nome è scritto tá-i(a) sul suo sigillo a cilindro come anche su quello ad anello, ha il titolo di «Auriga di Kubaba». Questo titolo è
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reso in geroglifico anatolico in forma diversa sui sigilli di questo personaggio, sia come AURIGA2 (DEUS)Ku+AVIS, che come (DEUS) Ku+AVIS AURIGA2. Questo titolo, se reso in scrittura cuneiforme, sarebbe LÚIŠ ŠA/ŠÁ dKuba-ba, un titolo attestato qui per la prima volta in area ittita. Zinni (zi/a-ni o zi/a-ní BONUS2 VIR2) è documentato su sigilli a cilindro e ad anello; egli sembra aver iniziato la sua carriera come un semplice membro della «nobiltà» (=BONUS2 VIR2), ma poi fu promosso alla carica di «Signore del Sigillo» (SIGILLUM. DOMINUS, sul suo sigillo a cilindro). La legenda cuneiforme sul suo sigillo a cilindro recita: «Sigillo di Zinni, Signore del sigillo, ispettore del magazzino del Re».
Un’organizzazione collaudata Le cretule rinvenute nell’area C, datate al regno di Ini-Teshub (metà del XIII secolo a.C.) offrono evidenza conclusiva sul fatto che, nel corso del regno di questo sovrano, Karkemish possedeva una struttura amministrativa imperiale che si fondava su centri di stoccaggio gestiti da ranghi di funzionari di livello elevato.
Vista del palazzo di Bronzo Tardo II sull’acropoli (Area AA).
Al tempo di Ini-Teshub, Karkemish aveva esteso il suo potere sulla Siria ed era divenuto il centro principale dell’amministrazione ittita in questa regione. La creazione di magazzini nelle province di nuova istituzione sembra essere stata parte della politica imperiale ittita, come è documentato dalla menzione del «magazzino di Kizzuwatna», al tempo di Hattusili III, e da quello di Karkemish durante il regno di Ini-Teshub. Indubbiamente, la distribuzione spaziale delle tecniche amministrative nelle regioni periferiche della parte sud-orientale dell’impero indica un alto livello di interazione interregionale e la volontà da parte del governo centrale di esercitare un controllo diretto. La documentazione, testi e glittica, di Ugarit, Emar e Hattusa mostra che alcuni alti dignitari di Karkemish avevano un ruolo attivo nell’amministrazione delle province siriane in varie forme. Molti «principi» e funzionari di Karkemish si muovevano all’interno del Paese
e all’estero per svolgere funzioni di tipo amministrativo, giuridico e diplomatico. È interessante rilevare che questi alti funzionari erano anche coinvolti nella gestione dei magazzini reali di Hattusa, soprattutto durante la seconda metà del XIII secolo a.C. Numerose impronte di sigilli appartenenti a «principi» di Karkemish sono stati trovati a Hattusa e in particolare nel complesso del Westbau a Nishantepe, che era forse una «casa del sigillo».
Archeologia... «militarizzata» Nel Bronzo Tardo II, l’impianto della città subí una profonda trasformazione. La missione turco-italiana ha iniziato a indagare il limite occidentale dell’acropoli di Karkemish, ora in gran parte occupato dalla base militare turca. Le precedenti indagini in questo settore, condotte dalla spedizione del British Museum tra il 1911 e il 1920 avevano rinvenuto una
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struttura monumentale che chiamarono tempio di Kubaba e che fu datata all’età del Ferro. La costruzione della base militare, avvenuta intorno al 1998, ha comportato la rimozione di gran parte dei livelli dell’età del Ferro. Quindi, appena sotto la superficie, gli scavi turco-italiani hanno portato alla luce (area AA) un edificio ampio e ben conservato, con elevati in mattoni crudi conservati fino a un’altezza di 1,50 m e databile al Bronzo Tardo II sulla base dei pochi materiali ceramici a esso associati. Sono state rilevate due fasi di occupazione, ma la funzione precisa di questa struttura non è facile da determinare per la scarsità di reperti mobili, anche se essa è stata certamente un edificio pubblico. L’edificio occupa l’intera area terminale nord-occidentale dell’Acropoli: i muri interni principali hanno uno spessore di 3 m e sono orientali nord-ovest/ sud-est. Essi dividono l’edificio in tre settori a loro volta frazionati in molti ambienti di medie e piccole dimensioni. Le evidenze stratigrafiche suggeriscono che l’edificio è stato vuotato, abbandonato e poi livellato.
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La fortezza Pw (livelli 7-6), verosimilmente collegata a una vicina porta dal momento che la porta nell’area N fu bloccata da un muro in mattoni durante questo periodo, sembra aver avuto anch’essa funzione amministrativa, anche se apparentemente periferica, dal momento che le impronte di sigilli qui rinvenute vengono da sigilli cilindrici anepigrafi e di stile siriano, invece che ittita a stampo.
Un visir per il magazzino centrale L’area del Lower Palace sembra avere avuto una funzione ufficiale già dal tempo della rifondazione della città bassa all’inizio della dominazione ittita nel Bronzo Tardo II. Infatti, abbiamo portato alla luce parte di un complesso amministrativo di questa epoca con elevati in mattoni preservati fino all’altezza di 1,1 m. Il magazzino centrale era sotto la responsabilità del visir (AGRIG). La complessità delle operazioni di sigillatura da parte dei funzionari statali e i frequenti controlli dei beni immagazzinati mostra che l’amministrazione centrale ittita di Karkemish operava seguendo
Le cretule del Bronzo Tardo IIB dagli scavi del 2017 nell’Area C.
In alto la stele di basalto di Suhi dall’acropoli. Inizi del X sec. a.C. A destra tabella nella quale sono riportati i Re (se solo conosciuti nelle fonti cuneiformi assire, in corsivo), i Grandi Re (in rosso) e i Signori del paese di Karkemish.
le procedure attive in tutto l’impero. Inoltre, lo studio sistematico del retro delle cretule ci ha permesso di identificare la natura dei beni che erano posti sotto il controllo amministrativo e venivano sigillati. L’edificio esplorato a partire dal 2017 nell’area C mostra una planimetria regolare. Esso ha restituito piú di 500 cretule (descritte sopra) rinvenute in due strati successivi. Riteniamo che si tratti della «casa del sigillo» menzionata nei documenti della cancelleria ittita, come anche in un’impronta di sigillo che reca il titolo di un funzionario e che proviene da questo stesso edificio. Nella città bassa i templi A e B vennero costruiti in questo periodo in accordo con la tipologia architettonica locale ed essi sono rimasti in uso sino alla fine del Ferro II; il tempio, detto hilani, nell’area B conserva anche tracce dell’originaria decorazione scultorea architettonica. Quest’ultimo problema non è facile da risolvere; gli scavi di età romana hanno infatti gravemente danneggiato queste
Ini-Teshub II
1100 circa
Piyassili II? Tuthaliya I? Sapaziti
1000 circa
Ura-Tarhunza
Suhi I Astuwalamanza
Tuthaliya II? Ninuwi?
Suhi II Katuwa Suhi III?
900 circa
Sangara Isarwilamuwa Kuwalanamuwa
800 circa
Astiru(wa) I Kamani
Yariri Sastura Astiru II Pi(yas)siri III
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La stele di basalto, completata dal ritrovamento della testa nel 2015, della dea Kubaba fatta erigere da Kamani. Inizi dell’VIII sec. a.C.
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strutture e nessuna scultura è stata ritrovata in situ, con l’unica parziale eccezione della parte inferiore di un ortostato che rappresenta un uomo-toro stante rivolto verso destra. Nonostante la collocazione originaria del rilievo non possa essere stabilita con precisione, sembra verosimile che esso sia stato rimosso dalle immediate vicinanze e che fosse parte della decorazione dell’edificio. Questo rilievo può essere messo in relazione con un frammento di basalto, ritrovato dalla nostra missione di fronte al portico e che conserva la raffigurazione di due mani, quasi certamente di un uomo-toro, rivolto verso sinistra e con in mano un elemento verticale. Possiamo anche confrontare un terzo ortostato, rinvenuto da Leonard Woolley a nord del Hilani; quest’ultimo rappresenta un uomo-toro stante che tiene un fiore di loto. Questi tre rilievi condividono caratteri comuni, sia dal punto di vista iconografico che stilistico: sono leggermente piú piccoli e incisi con maggiore accuratezza degli altri ortostati decorati trovati nelle vicinanze; inoltre, gli uomini-toro tengono la pianta con entrambe le mani e non con una sola. Se confrontiamo questa situazione con i ritrovamenti del tempio del dio della Tempesta della cittadella di Aleppo, ci sono paralleli stringenti: qui i due rilievi del Bronzo Tardo II con uomini-toro (ai due lati del grande rilievo del dio della Tempesta) sono piú piccoli e mostrano dettagli eseguiti meglio che nella serie piú tarda della fine del X secolo a.C. Quindi, i tre rilievi del Hilani di Karkemish possono essere attribuiti anch’essi al Bronzo Tardo II. Essi devono essere stati motivi minori che fiancheggiavano un elemento maggiore ora andato perduto. Non è possibile dire dove si trovassero in origine: la cella conserva ancora ortostati non decorati in situ e, cosí, l’ipotesi piú verosimile è che fossero collocati di fronte al Hilani, a meno che non siano stati scartati dopo una prima fase di uso. Il Hilani, allora, sembrerebbe aver seguito,
anche se in scala minore, la tradizione di edifici arcaici quali quelli di Aleppo e ‘Ain Dara, costruiti e abbelliti nel corso del Bronzo Tardo II e poi ancora piú sontuosamente decorati fino all’inizio del Ferro II.
Continuità di occupazione e di funzioni Dopo il crollo dell’impero ittita, i sovrani di Karkemish presero il titolo di Grande Re e regnarono su un’area abbastanza vasta, che arrivò a includere anche Malatya. La transizione sul sito mostra una completa continuità di occupazione e anche di funzioni (con il complesso amministrativo che restò tale). È con il X secolo a.C. che il sito conobbe una nuova sistemazione monumentale. Con la riapertura degli scavi turco-italiani nel 2011, sul pendio sud-ovest del monticolo è stata rinvenuta una stele con un’iscrizione luvio-geroglifica. Si tratta della piú antica iscrizione monumentale trovata a Karkemish dell’età del Ferro. Oltre a questa stele, dedicata da Suhi I attorno al 975 a.C., particolarmente interessante è il ritrovamento di un’altra stele che è stata interpretata dalla nostra missione come menzionante un personaggio di nome
Suhi (III), l’ultimo membro della dinastia suhide. In tal modo, siamo adesso in grado di ricostruire una cronologia ininterrotta per il regno di Karkemish attraverso tutto il X secolo a.C e oltre (vedi tabella a p. 121). Una ricostruzione cronologica completa per i secoli IX e VIII a.C. è stata infatti resa possibile dalla scoperta, nel 2015, del frammento superiore della stele inscritta di Kubaba, raffigurante il capo della dea; questo frammento ha anche un alto valore simbolico per la storia della decifrazione del sistema grafico geroglifico: la parte inferiore infatti era stata copiata da George Smith nel 1876. Questa iscrizione è anche il primo e unico documento che menzioni il re Sangara e che provenga dal suo regno, dal momento che fino a ora lo si conosceva solo dalle fonti assire. Nelle stagioni di scavo dal 2011 al 2020, abbiamo rinvenuto, nella casa della missione dei vecchi scavi del British Museum, piú di 230 frammenti di iscrizioni geroglifiche databili all’età del Ferro, mentre quasi 70 altri pezzi iscritti sono stati ritrovati nei nuovi scavi. Le iscrizioni geroglifiche degli scavi degli anni 2011-2020 possono essere suddivise in tre
gruppi: (1) quelle appartenenti alle iscrizioni scavate e pubblicate precedentemente, in gran parte provenienti, ma non solo, dalla vecchia casa della missione inglese; (2) quelle che erano già state rinvenute, ma rimaste inedite, tutte dalla casa della missione; (3) quelle riportate alla luce nei nostri scavi. Le iscrizioni che sono state pubblicate hanno dato un contributo importante negli studi sul mondo luvio, dal punto di vista cronologico, per la ricostruzione della storia di Karkemish, per lo studio dell’onomastica, con nuovi nomi sconosciuti prima, e per le analisi paleografiche.
In alto un ortostato con uno stambecco alato antropocefalo proveniente dal settore orientale del Palazzo di Katuwa. Fine del X sec. a.C. In basso ortostati scolpiti nel Palazzo di Katuwa. Fine del X sec. a.C.
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LA RISCOPERTA
IL POPOLO CHE NON C’ERA Sebbene menzionati nella Bibbia, l’esistenza stessa degli Ittiti è stata a lungo messa in discussione e le grandiose testimonianze monumentali ed epigrafiche attribuite ad altre civiltà. Fino al 1879, quando un reverendo inglese rivela al mondo la realtà di una «nuova» civiltà, con una sua distinta cultura artistica e una propria scrittura geroglifica. È l’inizio di una grande avventura archeologica… di Silvia Alaura
L
a riscoperta degli Ittiti e la formazione dell’ittitologia costituiscono un capitolo affascinante della storia del XIX e XX secolo. Esse sono dovute a viaggi avventurosi, imprese archeologiche pionieristiche e studi filologico-linguistici
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pazienti e minuziosi, tutti profondamente influenzati dalle vicende politiche dei loro tempi. I testi greci e latini danno molte informazioni su Assiri, Babilonesi, Persiani ed Egizi, ma non menzionano gli Ittiti, piú volte citati invece nell’Antico Testamento, insieme ad altri popoli
Nella pagina accanto la Porta del Guerriero di Hattusa in una foto scattata nel 1907, in occasione della campagna di scavo a Boghazköy , condotta da una missione tedesca. In basso moneta commemorativa emessa nel 2015 dalla Repubblica Ceca, in occasione del centenario della conferenza con cui Bedrich Hrozný annunciò d’essere riuscito a decifrare la lingua ittita.
che gli Israeliti trovarono entrando nella Terra Promessa. La storia dell’ittita Uria, leale generale dell’esercito israelita mandato a morte dal re Davide per poterne sposare la moglie Betsabea di cui si era invaghito, è uno degli episodi biblici che hanno contribuito a far conoscere gli Ittiti nel periodo in cui la loro vera identità restava avvolta nel mistero. Fino alla prima metà dell’Ottocento, infatti, gli studiosi ritenevano che gli Ittiti fossero una tribú minore della Palestina.
Erodoto non aveva ragione In realtà, imponenti testimonianze archeologiche ed epigrafiche della civiltà degli Ittiti sono sempre rimaste visibili e sono state descritte anche dagli storici greci e romani, che però le attribuivano erroneamente ad altri popoli. Cosí il rilievo rupestre del Karabel, presso Smirne, fu considerato da Erodoto una raffigurazione del faraone Sesostri. Oggi sappiamo dalla sua iscrizione in geroglifico anatolico che si tratta invece di Tarkasnawa, re del paese di Mira, vassallo del regno ittita. Numerosi altri monumenti ittiti, visitati con ammirazione e stupore da viaggiatori ed esploratori fra Sette e Ottocento non furono compresi correttamente. Cosí, quando Charles Texier, nell’estate del 1834, percorrendo a dorso d’asino l’Anatolia, arrivò alle misteriose rovine archeologiche nei pressi del villaggio di Boghazköy (oggi Boghazkale), successivamente identificate con i resti della capitale ittita Hattusa, pensò che si trattasse di Pteria, il luogo della famosa battaglia tra il sovrano persiano Ciro il Grande e Creso, il re di Lidia noto per la sua leggendaria ricchezza. Gli
splendidi disegni delle rovine di Boghazköy e del vicino santuario rupestre di Yazılıkaya che Texier realizzò durante la sua breve visita suscitarono un grande interesse e aprirono la strada ad altri viaggiatori. Nel 1861 Georges Perrot realizzò le prime straordinarie fotografie dei rilievi di Yazılıkaya e, nel 1882, Carl Humann ne fece calchi per i Musei Reali di Berlino. Un passo decisivo nella comprensione di chi fossero veramente gli Ittiti si deve agli studiosi dell’Inghilterra vittoriana, impegnati a dimostrare che le nuove scoperte archeologiche nel Vicino Oriente confermavano la veridicità della Bibbia. Fu infatti il reverendo anglicano Archibald H. Sayce a sostenere per primo che l’impero ittita – caratterizzato da una sua distintiva cultura artistica e una propria scrittura in caratteri geroglifici – aveva dominato l’Anatolia dall’Egeo al fiume Halis (l’attuale Kızılırmak), giungendo a estendersi fino alla Siria. Egli presentò la sua proposta nel 1879 all’Athenaeum Club di Londra, che vantava fra i suoi membri, oltre ad artisti, politici e letterati, anche i piú influenti orientalisti del momento, fra i quali Henry Austen Layard, lo scopritore di Ninive. Sayce, al quale si deve una delle prime monografie sugli Ittiti, dedicò gran parte della sua lunga vita allo studio delle civiltà anatoliche, e infatti il primo ministro William Gladstone lo soprannominò «il grande sacerdote degli Ittiti».
Esplode l’«ittitomania» La prima impresa archeologica ufficiale a Boghazköy fu condotta dai Francesi. Nel 1893/1894 l’antropologo Ernest Chantre, insieme alla moglie e al filologo Alfred Boissier, intraprese sondaggi di scavo a Boghazköy, trovando frammenti di tavolette cuneiformi. Alcuni di questi testi erano scritti in accadico, all’epoca ormai comprensibile, altri invece in una lingua allora sconosciuta, che piú tardi si sarebbe rivelata ittita. In Francia lo studio degli Ittiti divenne una vera e propria moda, come dicevano in modo antipatizzante gli orientalisti tradizionalisti, preoccupati per l’ascesa di una nuova disciplina nel panorama degli studi sul Vicino Oriente antico. Nel 1898 un ittitologo
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LA RISCOPERTA
pigro e squattrinato compare fra i protagonisti del romanzo Fiancée d’Avril di Guy Chantepleure, che ebbe un enorme successo. Alla fine, tuttavia, furono i Tedeschi ad aggiudicarsi il permesso di scavo a Boghazköy, grazie alla stretta collaborazione politica ed economica tra l’impero prussiano e quello ottomano, testimoniata dell’amicizia personale del Kaiser Guglielmo II con il sultano Abdul Hamid II.
Migliaia di tavolette Gli scavi a Boghazköy furono condotti fra il 1906 e il 1912 dall’assiriologo berlinese Hugo Winckler, affiancato da Theodor Makridi, conservatore del Museo di Istanbul. Nel 1907 vi partecipò una missione dell’Istituto archeologico tedesco di Berlino, guidata da Otto Puchstein. Durante queste campagne vennero rinvenuti migliaia di frammenti di tavolette cuneiformi. Sulla base dei testi in accadico, Winckler capí che l’imponente sito era la capitale dell’impero ittita, l’antica
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Hattusa. Fu una scoperta sensazionale, che ebbe vastissima eco. Dovettero però passare alcuni anni per arrivare alla comprensione della lingua ittita, in cui erano scritti la maggior parte dei testi lí ritrovati. La svolta si deve al filologo ceco Bedrich Hrozný, il quale, riuscendo a dedicarsi allo studio dei testi di Boghazköy nonostante lo scoppio della prima guerra mondiale, capí che l’ittita era una lingua indoeuropea. Alla fine del 1915, Hrozný tenne a Berlino una memorabile conferenza dall’eloquente titolo «La soluzione del problema ittita», introdotta dal grande storico Eduard Meyer. Il dibattito fra i presenti proseguí fino a tarda notte, e il giorno dopo la notizia fu commentata in modo sensazionalistico nella stampa tedesca. Per questo motivo il 1915 è considerato l’anno di nascita dell’ittitologia e nel 2015, in occasione del centenario, la Repubblica Ceca ha emesso una moneta commemorativa dedicata a Hrozný. L’ittitologia fu pesantemente condizionata dalla guerra, che pose fine al fecondo rapporto di collaborazione fra studiosi di differenti nazionalità e portò la competizione culturale all’esasperazione in senso nazionalistico. Gli avvenimenti politici degli anni Venti e Trenta ebbero conseguenze di vasta portata per lo sviluppo degli studi ittitologici. In Germania un gruppo di brillanti studiosi, alcuni assai giovani, si dedicò strenuamente allo studio e alla pubblicazione delle tavolette di Boghazköy, concesse in prestito da Costantinopoli a Berlino durante la guerra. Emil Forrer, Hans Ehelolf, Johannes Friedrich, Ferdinand Sommer e Albrecht Götze possono essere considerati i padri fondatori dell’ittitologia. Contrario al regime nazionalsocialista, Götze sarebbe poi
A sinistra il reverendo anglicano Archibald H. Sayce, che fu il primo a sostenere l’esistenza dell’impero ittita. Al centro la copertina della monografia sugli Ittiti pubblicata da Sayce.
Sulle due pagine Thomas Edward Lawrence (a sinistra) e Leonard Woolley posano ai lati di un rilievo neo-ittita rinvenuto dall’archeologo inglese negli scavi da lui condotti a Karkemish tra il 1912 e il 1914.
emigrato negli Stati Uniti, divenendo professore all’Università di Yale, dove rimase per il resto della sua vita.
Una questione di orgoglio nazionale In Turchia, Mustafa Kemal Atatürk si stava intanto impegnando a dare una nuova identità culturale alla neonata Repubblica da lui istituita nel 1923, in discontinuità con la tradizione ottomana. Cosí, nel contesto del
forte impulso dato da Atatürk allo studio delle antiche civiltà anatoliche, gli Ittiti godettero di grande fortuna. Ad Ankara, la nuova capitale, la Facoltà di Lingue, Storia e Geografia fu concepita come uno dei principali centri per lo studio delle culture antiche della Turchia. Qui inizialmente insegnarono studiosi tedeschi che, a partire dal 1933, furono costretti a emigrare dalla Germania a causa delle loro origini ebraiche. Fra questi vi era il giovane
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filologo Hans Gustav Güterbock, il quale, prima di stabilirsi definitivamente a Chicago, avviò all’ittitologia molti studenti turchi. A questi anni risale anche l’istituzione del Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara, in un complesso formato dall’antico bazar e dal caravanserraglio della città. Il Museo fu concepito per presentare in sequenza i reperti archeologici dalla preistoria all’età romana, creando una narrazione storica mirata a enfatizzare la sostanziale continuità culturale dell’Anatolia antica. Atatürk favorí anche l’archeologia anatolica: gli scavi tedeschi a Boghazköy, ripresi nel 1931 da Kurt Bittel, portarono a nuove epocali scoperte, comprese oltre 4500 tavolette cuneiformi. Il progetto piú importante realizzato da archeologi turchi fu lo scavo di Alaca Höyük, condotto da Hamit Zübeyr Koshay alla metà degli anni Trenta. Un congresso e una grande mostra furono organizzati a Istanbul nel 1937 per presentare i risultati delle nuove indagini e i reperti archeologici dei siti piú significativi per l’antica storia turca.
Pitture e francobolli L’importanza attribuita a questi due eventi dalla Turchia kemalista è confermata dall’emissione di francobolli commemorativi, come sarebbe accaduto anche successivamente, per esempio, per il 25° anniversario della fondazione della Facoltà di Lingue, Storia e Geografia di Ankara. Nella produzione filatelica turca si è fatto spesso ricorso alle antichità preclassiche del paese non solo per promuovere il turismo, ma anche con l’intento politico di mostrare i fondamenti culturali dell’identità nazionale. La civiltà degli Ittiti costituisce tuttora, in Turchia, un
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In alto un’opera d’ispirazione ittita del pittore e poeta turco Bedri Rahmi Eyüboghlu. In basso francobolli emessi dalla Turchia per commemorare la fondazione della Facoltà di Lingue, Storia e Geografia di Ankara e gli scavi di Alaca Höyük.
elemento di questa identità, com’è mostrato dalla ricorrenza dell’uso del termine turco designante gli Ittiti, «Hitit», per attività culturali ed economiche di ogni genere. La seconda guerra mondiale rappresentò una cesura nella storia dell’ittitologia. Gli scavi archeologici furono interrotti e il deterioramento delle relazioni politiche tra Germania e Turchia mise i professori tedeschi emigrati in una posizione delicata. Un nuovo assetto istituzionale prese forma dopo la fine della guerra, quando la maggior parte degli studiosi tedeschi lasciò la Turchia. Una vivace attività di scavo in Anatolia caratterizza gli anni del secondo dopoguerra, quando una missione turca riportò alla luce un importante sito di epoca neo-ittita a Karatepe. Gli anni Cinquanta e Sessanta hanno anche visto una significativa valorizzazione del patrimonio culturale della Turchia, in modi nuovi e originali, compresa una fiorente produzione documentaristica. Artisti turchi, fra i quali il pittore e poeta Bedri Rahmi Eyüboghlu, hanno fatto grande uso di motivi ittiti nelle loro opere. Questi artisti, insieme a intellettuali e archeologi, compresa Halet Çambel, fondarono il movimento Anatolia Blu, che considerava gli Ittiti assai significativi per la storia del Paese. Nel 1952 Bittel riprese le indagini a Boghazköy, proseguite poi senza interruzione da Peter Neve, Jürgen Seeher e Andreas Schachner, attuale direttore della missione. Per la straordinarietà dei suoi ritrovamenti, Boghazköy nel 1986 è stata inserita dall’UNESCO fra i siti Patrimonio dell’Umanità e, dal 2001, gli archivi di testi cuneiformi lí rinvenuti sono stati iscritti nel Memory of the World Register dell’UNESCO.
Gli sviluppi piú recenti L’ultimo cinquantennio dell’ittitologia è caratterizzato da continue scoperte straordinarie che hanno permesso di ricostruire in modo puntuale aspetti storici, politici, culturali e religiosi di questa antica civiltà anatolica ormai assurta allo stesso rango di quelle fiorite nell’Egeo, in Mesopotamia, nel Levante e in Egitto. Hattusa era rimasta a lungo l’unica città ittita conosciuta e scavata in Anatolia, ma, a partire dagli anni Settanta, residenze palatine e città sante di primaria importanza con archivi cuneiformi sono state scoperte a Mashat Höyük, presso Tokat, a Ortaköy, presso Çorum, e a Kayalıpınar, presso Sivas, rispettivamente le antiche Tapikka, Sapinuwa e Samuha. Nell’ultimo decennio sono anche ripresi a Jerablus, sull’Eufrate, gli scavi dell’antica Karkemish, principale centro ittita nella Siria settentrionale, dove la missione turco-italiana (vedi il capitolo alle pp. 114-123) ha aperto un parco archeologico e ha creato un progetto di visualizzazione 3D dei contesti archeologici. L’ittitologia è ormai una disciplina articolata e fiorente, autonoma e originale, con un’identità propria nel contesto degli studi sul Vicino Oriente antico. Oggi essa è diffusa praticamente in tutto il mondo. Pur essendo
Ankara. Particolare del monumento di Mustafa Nusret Suman che riproduce, in dimensioni colossali, uno stendardo in bronzo e argento in forma di cervo (III mill. a.C.), da Alaca Höyük, conservato presso il Museo delle Civiltà Anatoliche della capitale turca.
ancora fortemente legata all’orientamento tradizionale che le è stato impresso dai suoi fondatori, l’ittitologia ha conseguito una dimensione interdisciplinare, si avvale della collaborazione di esperti di nuove tecnologie, ed è cosí pienamente proiettata nel futuro. La realizzazione del portale ittitologico di Magonza (https://www.hethport.uniwuerzburg.de/HPM/index.php) – che insieme a numerose altre risorse offre la digitalizzazione dei testi ittiti e la loro traslitterazione – è sicuramente l’esito piú eloquente dell’attuale punto di arrivo di questo lungo percorso, che ha portato all’entusiasmante riscoperta della civiltà degli Ittiti.
Informazioni bibliografiche Un recentissimo lavoro collectaneo aggiornato su tutti gli aspetti della civiltà ittita: Stefano de Martino (a cura di), Handbook Hittite Empire, Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston 2022. Un quadro aggiornato di tutti gli scavi italiani di epoca ittita in Anatolia è offerto nel volume delle News from the Lands of the Hittites, 3-4, 2019-2020, a cura di Stefano de Martino, Massimiliano Marazzi e Clelia Mora, Mimesis Edizioni, Milano. In particolare Sulla storia ittita: Stefano de Martino, La civiltà degli ittiti. XVII-XII secolo a.C., Carocci Editore, Roma 2020; sulla mitologia e la produzione letteraria di tipo storico: Franca Pecchioli Daddi e Anna Maria Polvani (a cura di), La mitologia ittita, Paideia Editrice, Firenze 2000; Giuseppe F. Del Monte (a cura di), L’annalistica ittita, Paideia Editrice, Firenze 1993; sulla scrittura geroglifica degli Ittiti: Massimiliano Marazzi, Scrittura, percezione e cultura: qualche riflessione sull’Anatolia in età hittita, KASKAL, Rivista di storia, ambienti e culture del Vicino Oriente Antico, Volume 7 (2010); su Hattusa e Yazılıkaya: Jürgen Seeher, Gods Carved in Stone: The Hittite Rock Sanctuary of Yazilikaya, Ege Yayinlari, Istanbul 2011; Andreas Schachner, Hattuscha. Auf der Suche nach dem sagenhaften Großreich der Hethiter, Beck München 2011; su Karkemish: Nicolò Marchetti, Karkemish. An Ancient Capital on the Euphrates, Ante Quem, Bologna 2014.
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MONOGRAFIE
n. 49 giugno/luglio 2022 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Silvia Alaura è ricercatore presso il CNR, Dipartimento Patrimonio Culturale. Metin Alparslan è professore all’Università di Istanbul, Dipartimento di Lingue e Culture Antiche. Andrea Balletta è funzionario per la promozione culturale dell’Ufficio VI (Settore Archeologia), Direzione Generale per la diplomazia pubblica e culturale (DGDP), MAECI. Paolo Andrea Bartorelli è consigliere Ufficio VI-Cooperazione culturale in ambito multilaterale, missioni archeologiche MAECI. Stefano de Martino è professore ordinario presso l’Università di Torino, Dipartimento di Studi Storici. Massimiliano Marazzi è professore ordinario presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Dipartimento di Scienze Umane. Nicolò Marchetti è professore ordinario presso l’Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà. Clelia Mora è professore ordinario presso l’Università di Pavia, Dipartimento di Studi Umanistici. Hasan Peker è professore all’Università di Istanbul, Dipartimento di Lingue e Culture Antiche. Andreas Schachner è direttore degli scavi di Hattusa, Istituto Archeologico Germanico di Istanbul. Giulia Torri è professore associato presso l’Università di Firenze, Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo. Gökhan Yazgı è Direttore Generale per i Beni Culturali e Musei del Ministero della Cultura e Turismo della Repubblica di Türkiye Illustrazioni e immagini Shutterstock: copertina e pp. 6/7, 8, 9, 10-13, 14/15, 18/19, 33 (alto), 34/35, 36/37, 40/41, 45, 46-47, 54/55, 56, 98 (basso), 108/109, 129 – Doc. red.: pp. 11, 16, 27, 28/29, 43, 49, 54-55, 74, 76/77, 86/87, 90-95, 100, 126/127 – Bridgeman Images: p. 21 – Mondadori Portfolio: Album/Prisma: pp. 22-23, 56; AKG Images: pp. 24, 77, 78; Erich Lessing/Album: pp. 32 (alto), 37, 42, 76 (alto), 79, 80 – da: Die Siegel der Grosskönige und Grossköniginnen auf Tonbullen aus dem Nişantepe-Archiv in Hattusa (Bo-Ha23), 2011: pp. 30 (alto), 31 (alto), 33 (basso) – da: Götter, Herrscher, Inschriften. Die Felsreliefs der hethitischen Großreichszeit in der Türkei, 2005: pp. 31 (basso), 38 (alto), 38/39 – da: Hattuša. Stadt der Götter und Tempel, 2003: p. 31 (basso) – da: Ugaritica III, 1956: p. 32 (basso) – Clelia Mora: p. 38 (basso) – Cortesia Massimiliano Marazzi: pp. 53, 57, 62, 66-71, 72, 102/103, 104-107, 109, 110-113 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 82-83 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: p. 84 – Cortesia Giulia Torri: p. 85 – Cortesia Andreas Schachner: pp. 88/89 – Cortesia Metin Alparslan: pp. 96-97, 98 (alto), 99, 101 – Cortesia Nicolò Marchetti e Hasan Peker: pp. 114/115, 116-123 – Cortesia Silvia Alaura: pp. 124-125, 126, 128 – Cippigraphix: cartine alle pp. 8/9, 16/17, 87, 103, 114. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Hattusa. Particolare della Porta delle Sfingi. Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 - Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI)
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