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I BRONZI DI RIACE
MERAVIGLIE DAL MEDITERRANEO N°50 Agosto/Settembre 2022 Rivista Bimestrale
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I BRONZI DI RIACE
a cura di Luigi Fozzati e Alessandra Ghelli
IN EDICOLA IL 16 AGOSTO 2022
I BRONZI DI RIACE
MERAVIGLIE DAL MEDITERRANEO testi di Barbara Barbaro, Andrea Camilli, Pippo Cappellano, Massimo Capulli, Daniele Castrizio, Giuseppina Carlotta Cianferoni, Maria Raffaella Ciuccarelli, Angelina De Laurenzi, Stefano Gennaro, Alessandra Ghelli, Luigi Fozzati, Carmelo Malacrino, Flavia Marimpietri, Stefano Mariottini, Piera Melli, Francesca Oliveri, Davide Persico, Christos G. Piteros e Fabrizio Sudano
6. Presentazioni 10. Archeologia subacquea La disciplina che non c’era 36. Dopo la scoperta Le ricerche subacquee 38. Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria Storie millenarie nella casa degli eroi 44. Il racconto della scoperta Una mattina d’agosto 48. «Lettura» e identificazione Un elmo da re e quello sguardo carico d’odio 72. Argo Nella città dei bronzisti 78. «Nel mare degli antichi» Filmare la storia 84. Fortuna moderna dei Bronzi Nascemmo guerrieri... e non moriremo pecore 92. Il proembolon dal porto di Genova Cinghiali d’assalto
98. I Bronzi della Meloria Antichi, ma non troppo 102. L’Atleta di Fano L’arroganza di un campione 104. L’anfora di Baratti Argento per dèi ed eroi 106. Il relitto del Pozzino Un luminare della medicina 108. L’Apollo di Piombino «Lampadario» o statua di culto? 110. Bronzi da mari di Sicilia Di elefanti, satiri e altre storie 116. Il «tesoretto» di Rimigliano Caracalla contro la crisi economica 118. La spada di Martignano Un cavaliere in Adriatico 120. Lago di Bolsena Echi di un antico rito 124. Fiume Po I fossili delle alluvioni
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Il Bronzo di Riace A. Metà del V sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.
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uesta monografia racconta la storia del piú spettacolare ritrovamento di archeologia subacquea del Mediterraneo, nonché di uno dei piú straordinari rinvenimenti dell’archeologia del Novecento tout court. Coordinate da due «addetti ai lavori» che vivono la loro professione con grande passione e competenza (Luigi Fozzati – esponente della prima generazione di archeologi subacquei, nata in seguito alle imprese pionieristiche di Nino Lamboglia, tra i padri fondatori della disciplina – e una studiosa di nuova generazione, Alessandra Ghelli), le pagine seguenti riuniscono le voci dei principali protagonisti che all’avventurosa riscoperta dei Bronzi rinvenuti al largo di Riace hanno dedicato anni di ricerche: a partire da quella del loro scopritore, Stefano Mariottini, cui quell’immersione in una mattina d’agosto di 50 anni fa ha cambiato la vita per sempre (e in positivo, naturalmente!), per proseguire con le indagini circa l’identità dei due personaggi, documentata con affascinante perizia da Daniele Castrizio e che ci invita a rileggere uno dei piú complessi e drammatici episodi della mitologia greca: la tragedia dei figli di Edipo, re di Tebe, maledetti dal proprio padre e destinati – a conclusione di una disastrosa lotta di successione – al reciproco annientamento. Alla vicenda dei Bronzi di Riace si accompagna la cronaca dei principali rinvenimenti archeologici nelle acque italiane dal 1500 ai giorni nostri. I lettori troveranno cosí un motivo in piú per conoscere – e apprezzare – l’importanza dell’archeologia subacquea come disciplina scientifica. Come sottolinea Luigi Fozzati «mari, laghi, fiumi e lagune sono gli ambienti che hanno conservato tracce importanti della presenza dell’uomo nell’area mediterranea» e sono oggetto, oggi, di attenzione da parte di una disciplina ancora giovane in Italia, dove la Soprintendenza per il Patrimonio Culturale Subacqueo è stata istituita dal Ministero della Cultura solo da poco tempo. E – ricorda ancora lo studioso – «i reperti piú famosi che ammiriamo nei nostri musei sono solo la punta di un iceberg, al di sotto della quale si nascondono dati antropologici ed ecostorici importantissimi, tali da rendere di fatto l’archeologia subacquea un ambito di ricerca interdisciplinare». La monografia, infine, vuole essere un invito alla visita degli «Eroi di bronzo» conservati al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Solo la loro percezione diretta, infatti, è in grado di suscitare – come notava lo storico dell’arte Paolo Moreno – quell’«autentico stupore di fronte all’ineguagliabile superiorità dell’antico». Andreas M. Steiner | BRONZI DI RIACE | 7 |
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L’estremità meridionale della penisola italiana: appare ben riconoscibile la Calabria, «punta» dello stivale, bagnata dalle acque del Mar Tirreno e dello Ionio.
on i suoi 780 chilometri di coste, la Calabria è la quarta regione italiana per lunghezza del tratto di mare: a fronte di una superficie di 15 222 kmq, possiede oltre 35 000 kmq di fondale marino di potenziale interesse archeologico e, piú in generale, culturale. Il Segretariato Regionale, a partire dal mio incarico e grazie alla presenza in organico di un funzionario archeologo subacqueo, si è posto il problema di tutelare questo spazio immenso e in gran parte sconosciuto. Un cambiamento di politica che ha significato abbandonare un atteggiamento passivo, di attesa di notizie, informazioni di ritrovamenti, per organizzare un’azione puntuale, organica, preventiva direttamente sui fondali marini. Le scoperte degli anni precedenti, dal relitto di Porticello con la testa del Filosofo ai Bronzi di Riace, hanno mostrato come sia importante promuovere una politica di tutela archeologica subacquea che parta direttamente dal Ministero della Cultura: in questo senso il Segretariato si è dato obiettivi chiari, tempi di lavoro appropriati, modalità di difesa e tutela dei siti sommersi nuovi, contraddistinti dalla tempestività degli interventi in acqua con il supporto logistico e operativo del Nucleo Carabinieri Subacquei di Messina, competenti per territorio. Si è quindi passati da una politica di attesa, di dipendenza dal caso a una vera e propria archeologia preventiva, che ha portato a passare da aree archeologiche interdette dalle Capitanerie di Porto attraverso ordinanze, peraltro benemerite per tutta la collaborazione che continuano a dare, all’istituzione di vincoli veri e propri. In questo modo si costruisce un potente deterrente nei confronti di chi ancora vede nei fondali marini la possibilità di facile arricchimento, seppure clandestino e fuori legge. La svolta impressa dal Segretariato in collaborazione con gli uffici delle singole Soprintendenze territoriali in materia di tutela archeologica subacquea è la migliore risposta al rinvenimento, 50 anni fa, dei due Bronzi di Riace: due capolavori piovuti dal cielo e casualmente ritrovati in acqua. In acqua, il caso significa il piú delle volte la perdita del contesto archeologico, del «chi, dove, come, quando, perché» è successo ciò che ha portato alla luce per esempio reperti in bronzo. Siamo convinti che occorra passare dal caso alla ricerca scientifica: ci stiamo provando. Salvatore Patamia Segretario Regionale MIC Calabria
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ono passati esattamente cinquant’anni da quel memorabile 16 agosto 1972, quando un giovane chimico romano, Stefano Mariottini, fu protagonista di una delle piú straordinarie scoperte dell’archeologia subacquea: il ritrovamento di due magnifiche statue in bronzo, risalenti alla metà del V secolo a.C. e oggi a tutti note con il nome di Bronzi di Riace. Cinquant’anni in cui questi due «eroi venuti dal mare» sono diventati tra le sculture antiche piú celebri al mondo, capaci di attrarre folle estasiate di ammiratori. Lunghi e accurati progetti di restauro, condotti subito dopo il loro rinvenimento e, poi, tra il 1992 e il 1995 e, ancora, tra il 2009 e il 2013, hanno contribuito alla conoscenza di tante novità sui modi in cui gli artisti greci realizzarono capolavori di questo tipo, meravigliosi in ogni loro dettaglio. Dalla resa delle piú sottili vene sottocutanee all’uso del rame per distinguere cromaticamente particolari anatomici come le labbra e i capezzoli, fino ai denti in argento e agli occhi in calcite, con l’iride bordata in pietra nera e finanche la caruncola lagrimale in pietra rosacea. Eppure sui Bronzi di Riace restano tanti misteri. Chi li ha creati? Chi rappresentavano? Facevano parte di un gruppo o fu il destino ad associarli? E poi, come finirono sui fondali della Calabria ionica, a Riace? Li stavano trasportando dalla Grecia verso Roma o dall’Italia verso i nuovi centri del potere imperiale? Probabilmente alcune domande resteranno per molto tempo ancora senza risposta, al centro di studi e dibattiti fra gli studiosi. Di certo, le due statue sono oggi «icone» di un intero territorio, la Calabria. Una regione che quest’anno vuole festeggiarli con un programma diffuso di eventi, per far scoprire tanti aspetti della sua cultura millenaria: arte e paesaggio, borghi e identità enogastronomiche, minoranze linguistiche e tradizioni artigianali. Un’occasione unica per raggiungere il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria ed emozionarsi di fronte a questi due «capolavori del Mediterraneo». Carmelo Malacrino Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria
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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA
LA DISCIPLINA CHE NON C’ERA Il ritrovamento dei Bronzi di Riace rappresenta un episodio eccezionale, ma non si tratta di un caso isolato. Prima e dopo l’agosto del 1972, i mari e le acque interne della Penisola sono stati infatti teatro di altre importanti scoperte. Solo in anni recenti, tuttavia, le indagini subacquee hanno finalmente ottenuto il loro riconoscimento ufficiale di Luigi Fozzati
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La bocca del Bronzo di Riace denominato A. Insieme alla statua B, furono rinvenuti il 16 agosto 1972 e, alla luce degli studi condotti nell’arco di cinquant’anni, è stato possibile datarli alla metà del V sec. a.C.
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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA IN ITALIA
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lle ore 11,00 del 16 agosto 1972 gli occhi di un subacqueo vedono qualcosa di strano in acqua, qualcosa che esce dal fondo sabbioso e si protende verso l’alto. Non sappiamo cosa abbia pensato di preciso in quell’istante l’uomo immerso nelle acque di Riace Marina, nello Ionio, ma sta di fatto che torna indietro a verificare, tocca quello che sembra ora a tutti gli effetti un braccio: di un morto? Meglio approfondire: strofina il guanto da sub sulla superficie che si rivela dura, consistente, impossibile appartenga a un annegato. Basta, occorre fermarsi e vedere bene: sposta la sabbia con i guanti e appare una statua, pinneggia attorno e compare una seconda statua. Sono passati 20 minuti, 20 minuti che hanno scritto una pagina di storia straordinaria: lui è Stefano Mariottini, d’ora in poi «lo scopritore», chimico romano in vacanza a casa della suocera a Monasterace; loro sono due statue di bronzo, d’ora in poi i «Bronzi di Riace» (si legga l’intervista a Stefano Mariottini a 50 anni di distanza dalla storica nuotata, alle pp. 44-47). La scoperta dei Bronzi di Riace il 16 agosto 1972 desta scalpore e riempie le pagine dei quotidiani italiani per piú giorni: una data memorabile. Archeologi, storici dell’arte e antropologi s’immergono nell’evento: per capire, rispondere, spiegare, raccontare. Una prima ondata di carta si avventa sulle due statue di Riace. Poi cala il silenzio. Dimenticare i Bronzi di Riace diviene, sorprendentemente, qualcosa di periodico. Non è un fenomeno isolato, capita a tutti i bronzi riemersi dal mare. Il restauro è una storia nella storia: un primo intervento ha luogo presso il laboratorio del museo di Reggio Calabria tra il 1972 e il 1975; quindi dal 1975 al 1980 a Firenze nelle mani di Renzo Giachetti e Edilberto Formigli; successivamente, tra il 1992 e il 1995, di nuovo presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Prima della sistemazione nel rinnovato Museo di Reggio avviene l’ultimo intervento, tra il 2010 e il 2013, questa volta presso Palazzo Campanella, sede del Consiglio
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Regionale, che funge da deposito temporaneo, a cura del gruppo di lavoro coordinato da Paola Donati e formato da tecnici dell’ICR e della Soprintendenza. A Firenze, al termine del restauro presso il laboratorio della Soprintendenza Archeologica della Toscana, avviene la seconda scoperta dei due Bronzi: è consuetudine del laboratorio di Firenze organizzare un’esposizione del materiale restaurato, cosí i due Bronzi vengono per la prima volta esposti al grande pubblico: dal 15 dicembre 1980 al 24 giugno 1981.
Code chilometriche Il successo è immediato, la gente affluisce per giorni e giorni alla sala del Nicchio all’interno del Museo Archeologico Nazionale, i giornali tornano a parlare dei due capolavori, questa volta in termini entusiastici, che a volte sfiorano un’euforia patologica: le fotografie dell’epoca sono testimoni di questo avvenimento coronato dall’affluenza di 400 000 visitatori. Interviene di persona l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che fa trasferire la mostra a Roma nella sua stessa dimora: il Palazzo del Quirinale. Dal 1° luglio al 12 luglio, in soli 12 giorni, 300 000 persone accorrono sul colle. Le foto delle lunghissime code conservano ancora oggi il fascino dell’eccezionale attrazione esercitata dai due eroi nudi rinvenuti nel mare di Riace. Della stagione fiorentina rimangono le splendide fotografie in bianco e nero conservate nell’archivio fotografico e la targa del premio «Campione d’Italia per la promozione della Cultura e dell’Arte» (settembre 1981). La RAI non si tira indietro e decide di confezionare un filmato che ricostruisca la storia della scoperta: viene incaricato il miglior fotocineoperatore subacqueo italiano, Pippo Cappellano, assistito da un’équipe scientifica composta da Sabatino Moscati e Piero Alfredo Gianfrotta. Per l’occasione vengono eseguite le copie in vetroresina dei due Bronzi. Il filmato realizzato sarà una delle 7 fortunate e seguitissime puntate della serie «Nel mare (segue a p. 16)
Foto satellitare della Penisola italiana sulla quale sono indicate le località in cui hanno avuto luogo le piú importanti scoperte subacquee, dal XVI sec. a oggi.
MARANO LAGUNARE
FIUME PO
GENOVA FANO MELORIA RIMIGLIANO BARATTI LAGO DI BOLSENA
SALERNO
OROSEI
SANTA MARIA DI LEUCA
RIACE
ISOLE EGADI
PORTICELLO
MAZARA DEL VALLO GELA
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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA IN ITALIA
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Due immagini del Bronzo di Riace B. Come nel caso della statua A, si tratta di un originale greco ed entrambi sono attribuibili al medesimo artista.
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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA IN ITALIA
degli antichi»: ce ne parla lo stesso Pippo Cappellano alle pp. 78-81. Dopo Riace, è a Firenze e Roma che avviene la seconda scoperta dei Bronzi.
Un patrimonio dell’umanità A sottolineare questo intervallo tra evento e silenzio è uno dei maggiori studiosi delle due statue, Paolo Moreno: «I Bronzi di Riace sono tra quelle memorie di assoluta bellezza che appartengono al mondo, prima che ai cultori dell’antico. Dobbiamo la loro iniziale salvezza non a un’esplorazione regolare, ma all’onestà di un cittadino, Stefano Mariottini, che li scoprí durante una nuotata subacquea al largo della costa calabra nell’agosto 1972, segnalandoli alle autorità. Nell’ottobre furono presentati agli specialisti, in occasione di un convegno sulla Magna Grecia, come originali di età classica, con una relazione che fu edita l’anno seguente (Foti 1973), ottenendo scarso seguito nella letteratura archeologica. Poi venne l’impegno dei restauratori presso il Museo Nazionale di Reggio Calabria e nel Laboratorio della Soprintendenza Archeologica per la Toscana (1975-1980), che ha ridato ai bronzi la miracolosa vitalità. La percezione della suprema tempra delle statue si fece strada allora nell’opinione pubblica, avanti che tra gli studiosi. Nell’autunno del 1980 si ripetè, ingigantito oltre ogni dire, il fenomeno di spontanea ammirazione che aveva accompagnato la prima notizia: una riscoperta popolare, l’autentico stupore di fronte all’ineguagliabile superiorità dell’antico, quali avevano segnato il ritrovamento del Laooconte al principio del Cinquecento» (Paolo Moreno, I Bronzi di Riace, Electa, Milano 1998, p. 7). La popolarità raggiunta insospettisce
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Nella pagina accanto, in alto il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ammira il Bronzo A, esposto al Palazzo del Quirinale, a Roma. Nella pagina accanto, in basso una fase dell’allestimento dell’esposizione dei Bronzi di Riace nel Palazzo del Quirinale, dove furono portati per volere dello stesso Presidente Pertini.
giustamente le autorità calabresi, allertate dal dubbio, sollevato dai giornali, sull’eventualità che analoghe folle potessero radunarsi anche a Reggio Calabria: si teme una «fuga» dei due Bronzi e parte la richiesta pressante di un ritorno a casa. E le due statue fanno ritorno nella terra da dove sono partite per il restauro: vengono accolti trionfalmente nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, dove, per l’occasione, viene predisposta e inaugurata la sezione di archeologia subacquea. Si apre una breve ma tormentata fase di riflessione sulla potenzialità attrattiva della nuova sede per le eventuali masse di turisti. Polemiche inutili che non portano a nulla: si dovranno aspettare 28 anni per adeguare il museo reggino a ospitare degnamente i due capolavori della scultura greca conservati nello Ionio per quasi duemila anni. I lavori di riordino e restauro del Museo iniziano nel 2009, con Simonetta Bonomi, Soprintendente per i Beni Archeologici della Calabria, e terminano 7 anni piú tardi. Il 30 aprile 2016 il Museo viene riaperto al pubblico: la sala dei capolavori è pronta, i Bronzi sono finalmente esaltati in una sistemazione architettonica attraente e, soprattutto, a prova di tutela e di conservazione: si legga, in proposito, l’intervento di Carmelo Malacrino, direttore del Museo, alle pp. 38-43. La scoperta dei Bronzi di Riace apre un’ennesima porta sulla storia del Mediterraneo, aggiungendo il terzo incomodo ai due settori fino a pochi anni fa interessati ai bronzi dell’antichità: agli archeologi e agli storici dell’arte antica si affianca prepotente il magico mondo del mare con i suoi cantori, i nuovi studiosi e ricercatori che lavorano sotto le acque del Mediterraneo, gli archeologi subacquei. A sfogliare i cataloghi di musei e mostre in cui la presenza di bronzi antichi è accertata come un capitolo importante dell’esposizione, ci si accorge dell’assenza quasi assoluta di quell’ambiente liquido che ha da sempre conservato questi capolavori: il mare. La perdita d’importanza del Mediterraneo non la
si scopre oggi e non è solo archeologica, ovviamente. Oggi, però, si punta finalmente il dito su chi avrebbe dovuto occuparsene e non lo ha fatto: la politica innanzitutto e un vasto settore della cultura. Per chi amministra l’Italia su mandato dei propri cittadini, il mare semplicemente non esiste. La stessa rivista di geopolitica liMes pone questo problema nel numero dell’ottobre 2020 (L’Italia è il mare). Lo stesso fenomeno avviene per la tutela e la ricerca del nostro passato conservatosi sotto l’acqua: fino a non molti anni fa l’archeologia subacquea non esisteva né nelle università, né al Ministero per i Beni e le Attività Culturali (oggi Ministero della Cultura). Fa eccezione la Regione Siciliana, dove, nel 2004 su proposta di Sebastiano Tusa viene istituita la prima Soprintendenza del Mare d’Italia.
Nasce la Soprintendenza Nazionale Si deve al ministro Dario Franceschini l’istituzione della Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo. La data storica è il 2 dicembre 2019, grazie all’art.37 del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 169; successivamente, dopo un interpello, viene nominata la prima Soprintendente nella persona di Barbara Davidde. «L’archeologia subacquea – commenta il Ministro – è uno dei settori di ricerca piú importanti del nostro Paese. Siamo un paese circondato dal mare e abbiamo un ricco patrimonio culturale sommerso che va ancora studiato, salvaguardato e valorizzato. Con la nomina della Soprintendente Davidde, a cui faccio gli auguri per l’importante compito che è chiamata a svolgere, le operazioni di tutela e le attività di ricerca troveranno nuovo impulso e nuovo slancio». Purtroppo, la prima generazione di archeologi subacquei dell’Italia contemporanea aveva sperato che proprio i Bronzi di Riace facessero il miracolo: grande è stata la delusione, poiché si sono dovuti attendere ben 47 anni per squarciare il fitto silenzio che avvolgeva l’archeologia subacquea italiana. (segue a p. 20)
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Due immagini del Bronzo di Riace A.
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Questo ritardo s’inserisce nella storia del rapporto quasi perverso, possiamo dire, tra il Mediterraneo e i suoi abitanti. Quattro capolavori storiografici hanno illustrato cosa sia stato il Mare Nostrum nel corso del tempo: ci ha provato per primo il francese Fernand Braudel con un’opera diventata subito un autentico classico (1949, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi 1953); successivamente ben tre storici inglesi: David Abulafia (2010, Il grande mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori 2013), Peregrine Horden e Nicholas Purcell (2000, The Corrupting Sea) e, infine, l’archeologo sempre inglese Cyprian Broodbank con il ponderoso Il Mediterraneo. Dalla preistoria alla nascita del mondo classico (2013, tradotto in italiano e pubblicato nel 2015 da Einaudi). Si avvicinano di piú a capire il ruolo del Mediterraneo come spazio geografico di essenziale importanza per le popolazioni rivierasche Horden e Purcell, continuatori della ricerca braudeliana, ovvero di un metodo storiografico innovativo che coinvolge l’intero ecosistema marino e non la sola presenza dell’uomo: Braudel aveva sorvolato il Mediterraneo con un piccolo aereo per comprenderne la geografia e il rapporto terra-mare. Purtroppo a oggi questo «mare che corrompe» non ha trovato in Italia un editore che si assuma l’onere e l’onore di tradurlo nella nostra lingua. È comunque significativo che i grandi storici del Mediterraneo siano tutti nati lontano dalle sue sponde e nessuno sia italiano.
Gli insegnamenti universitari
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Tuttavia, se il Ministero per i Beni e le Attività Culturali risponderà parzialmente e solo in ritardo, nel 1986, con l’istituzione del Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (Stas), responsabile della prima carta archeologica subacquea di almeno una parte dell’Italia con i progetti Archeomar 1 (Campania, Basilicata, Calabria e Puglia) e Archeomar 2 (Lazio e Toscana), grazie all’interessamento dell’allora Direttore Generale Francesco Sisinni, le Università non saranno da meno. Si deve a Piero
Alfredo Gianfrotta l’apertura di un corso triennale di laurea in archeologia subacquea all’Università della Tuscia a Viterbo: è l’anno accademico 2002/2003 ed è il primo corso del genere attivato in Italia. Negli stessi anni vengono atttivati insegnamenti alle Università di Venezia, Catania, Napoli (Suor Orsola Benincasa), Foggia, Palermo, fino alle attuali 13 sedi universitarie: Udine, Venezia, Padova, Genova, Milano, Pisa, Napoli, Foggia, Bari, Palermo, Sassari (Scuola di specializzazione a Sassari e Oristano), Bologna, Reggio Calabria. Nell’ottobre del 2000 parte invece a Trapani il primo corso in Europa di archeologia navale: diploma universitario della durata di tre anni. La storia della scoperta dei Bronzi di Riace s’inserisce in quella che possiamo definire straordinaria e nello stesso tempo sensazionalistica serie di recuperi subacquei di «tesori» (sull’uso e sulla fortuna dei Bronzi riflette Stefano Gennaro, funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Provincia di Vibo Valentia alle pp. 84-91). Giornali, riviste e libri sono periodicamente ridondanti di resoconti avventurosi, ai limiti della credibilità; ma vendono. I tesori, purché subacquei si vendono entusiasticamente in tutto il mondo, a prescindere dall’epoca del naufragio e della località del rinvenimento. È al riguardo significativo che il libro di George F. Bass, uno dei padri dell’archeologia subacquea contemporanea, abbia visto il titolo originale, Archaeology Beneath the Sea, tradotto in italiano nel 1981 con Tesori in fondo al mare. Tutto ciò ha portato il mondo della cultura a maturare un senso di disagio e poi a costruire un paracadute per quella disciplina mai nata che era l’archeologia subacquea. Nonostante i silenzi dell’allora Ministero dei Beni Culturali, nonché delle università, prima e dopo i Bronzi di Riace si sono succedute numerose scoperte, spesso avvolte dal mistero, fonti di polemiche, di domande senza risposta, di ricerche per lo piú senza risultati. Questa Monografia di «Archeo» ne presenta (segue a p. 24)
Il Bronzo di Riace B.
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La statua A in due immagini che evidenziano la cura nella resa dell’anatomia del personaggio.
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alcune, che certo non esauriscono la prospettiva di un futuro di altre scoperte e recuperi clamorosi, importanti per la storia delle civiltà del Mediterraneo e di quelle terre lontane dal mare ma ricche di laghi e di fiumi, anch’essi ambienti di importanti rinvenimenti.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Un cinghiale nel porto di Genova La nostra rassegna comincia addirittura alla fine del Cinquecento. È il 1597, infatti, quando viene scoperto e recuperato un controrostro in bronzo in forma di cinghiale nel porto di Genova durante lavori di dragaggio per aumentare la profondità del fondale: ce ne parla l’archeologa genovese Piera Melli, già funzionaria della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, alle pp. 92-97. Nel 1722, al largo di Livorno, nei fondali della Torre della Meloria, vengono rinvenute quattro teste di bronzo, ora conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Benché in un primo tempo ritenute originali provenienti dalla Grecia, sono state poi datate come rinascimentali, riprese da copie romane di originali greci rappresentanti Omero, Sofocle, Eschilo e un personaggio ignoto. L’area del rinvenimento purtroppo non rientra oggi nell’Area Marina Protetta Secche della Meloria, costituita da un banco roccioso con profondità compresa tra 2/3 m fino a 30, esteso su una superficie di 30 chilometri quadrati: in quasi 300 anni, quella «secca» si è del tutto interrata. La città di Livorno, intanto, gradirebbe che le teste facessero ritorno a casa. Ce ne parla Giuseppina Carlotta Cianferoni alle pp. 98-101. Nel 1930 viene recuperata nel Golfo di Salerno la bellissima testa di Apollo in bronzo, oggi al Museo Archeologico Provinciale. Alta 51 cm, di produzione tardo-ellenistica databile alla prima metà deI I secolo a.C., la testa fu scoperta da un pescatore il 2 dicembre 1930 e consegnata al museo cittadino, del quale divenne l’emblema. Il bronzo venne considerato opera dell’artista di nome Pasiteles, attivo a Napoli e Roma. Giuseppe Ungaretti, visitato il museo di Salerno, il 5 maggio 1932 scrisse il breve racconto La pesca miracolosa. Restaurata nel
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La testa in bronzo raffigurante il dio Apollo rinvenuta nel 1930 nelle acque del Golfo di Salerno. Prima metà del I sec. a.C. Salerno, Museo Archeologico Provinciale. Nella pagina accanto due immagini della Torre della Meloria, nelle acque antistanti Livorno. Qui, nel 1722, furono rinvenute quattro teste in bronzo oggi conservate a Firenze (vedi alle pp. 98-101).
(segue a p. 26)
1933 da Giulio Raccagni, la testa fu poi sottoposta a nuovi interventi di pulitura e restauro presso il Centro di Restauro di Firenze dal 30 maggio al 4 agosto 1989. Grande successo ha riscosso nelle mostre organizzate a Firenze presso Palazzo Strozzi dal 13 marzo al 21 giugno 2015; a Los Angeles, presso il J. P. Getty Museum, dal 28 luglio al 1 novembre 2015 e a Washington alla National Gallery of Art dal 6 dicembre 2015 al 13 marzo 2016. La fortunata mostra italiana ha viaggiato oltreoceano, dove sono conservati numerosi nostri tesori archeologici in attesa di fare ritorno in patria come l’Atleta di Fano. Ecco la descrizione di Ungaretti: «È già quasi notte, e in fila tornano in porto i pescatori d’alici. Raccogliendo le reti, una sera, a un maglio restò presa non la gola d’un pesciolino, ma a un cernecchio, una testa d’Apollo. Fu allora alzata in palmo d’una mano rugosa e, tornata a dare vita alla luce
sanguinando per le vampe del tramonto – al punto del collo dove la recisero – a quel pescatore parve il Battista. L’ho veduta al Museo di Salerno, e sarà prassitelica o ellenistica, poco importa: ma questo volto, che per piú di duemil’anni fu lavorato dal mare nel suo fondo, ha nella sua patina tutti i colori che oggi abbiamo visto, ha conchigliette negli orecchi e nelle narici: ha nel suo sorriso indulgente e fremente, non so quale canto di giovinezza risuscitata! Oh! Tu sei la forza serena e la bellezza. Quale augurio non ci reca quest’immagine che, fra gli ulivi, è finalmente tornata fra noi» (da Viaggio nel Mezzogiorno). Il 14 agosto 1964 viene accidentalmente ripescata al largo di Fano una statua in bronzo poi denominata l’Atleta di Fano o Atleta vittorioso o Atleta di Lisippo. Databile tra il IV e il II secolo a.C., la scultura resta nascosta, mai denunciata dallo scopritore, passata di mano in mano e, forse, finita prima in Brasile, quindi in Germania e poi negli Stati Uniti, finché viene acquistata nel 1977 dal Getty Museum di
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Malibu. È tuttora in corso una contesa giudiziaria tra lo Stato italiano e il Getty Museum per la sua restituzione. Ce ne parla l’archeologa Maria Raffaella Ciuccarelli della Soprintendenza ABAP alle pp. 102-103. Nel 1968, impigliata nelle reti del pescatore pugliese Gaetano Graniero, viene recuperata nel Golfo di Baratti (Piombino) l’anfora d’argento, capolavoro d’arte tardoantica orientale che assumerà il nome di Anfora di Baratti. Ce ne parla Andrea Camilli, direttore del Museo delle Navi
Antiche di Pisa, alle pp. 104-105, insieme ad altre, importanti scoperte nello stesso specchio di mare.
Un filosofo nello Stretto Nel 1969 alcuni pescatori scoprono nello Stretto di Messina il relitto di Porticello, a nord di Villa San Giovanni, in località Porticello. Non fu data comunicazione alla Soprintendenza Archeologica della Calabria e il relitto subí un’autentica spoliazione. L’intervento della Soprintendenza consentí di recuperare, oltre ad anfore di varia tipologia, anche frammenti di tre statue in bronzo: in particolare, due fianchi destri a grandezza naturale di individui nudi di sesso maschile e la straordinaria «Testa del Filosofo» sempre in bronzo. Dei reperti trafugati, per lo piú – si crede – finiti all’estero, è stata recuperata un’altra testa bronzea denominata «Testa di Porticello B» o «di Basilea». Ritrovata in Svizzera, presso il Museo di Antichità di Basilea, è stata restituita all’Italia nel 1993. Carmelo Malacrino, attuale direttore del Museo di Reggio Calabria, ha giustamente scritto: «Alla dottoressa Simonetta Bonomi va il merito non solo dell’esposizione di tutti i frammenti di statue provenienti dal relitto, ma anche quello di restituire alla cosiddetta Testa di Filosofo le altre parti del corpo
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finora rimaste chiuse nei depositi. Si tratta di un’operazione di grande rilevanza espositiva, che necessiterà di qualche riflessione relativa all’ulteriore valorizzazione di questi straordinari reperti» (Maurizio Paoletti, Salvatore Settis, Sul buono e cattivo uso dei Bronzi di Riace, Donzelli editore, Roma 2015, p. 74). Il 16 agosto 1972 Stefano Mariottini scopre i Bronzi di Riace in località Porto Forticchio, a 300 m dalla spiaggia e a 5 di profondità. Successivamente si alternano varie campagne di ricerca subacquea, delle quali ci parlano, alle pp. 36-37, Fabrizio Sudano, soprintendente ABAP per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Provincia di Vibo Valentia, e Alessandra Ghelli, archeologa subacquea del Segretariato Regione MIC della Calabria. Alla metà dell’estate del 1982 giunge al Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (Stas) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) la segnalazione di un carico di bronzi nelle acque del porto di Santa Maria di Leuca, frazione di Castrignano del Capo (Lecce). La scoperta e la sollecita segnalazione allo Stas si devono al tecnico subacqueo professionista Francesco Boaria di Vicenza. Il Direttore Generale Francesco Sisinni dispone di recarsi immediatamente sul posto per verificare e nel caso intervenire in accordo con la competente Soprintendenza Archeologica. Claudio Mocchegiani Carpano, Direttore dello Stas, organizza la missione subacquea che porterà al recupero di parte del carico di bronzi della nave romana naufragata a poca distanza dalla costa, ma ancora non rinvenuta. I materiali – piccoli reperti in bronzo, frammenti di statue – vengono consegnati al Museo Archeologico Provinciale di Brindisi. Successivamente verrà organizzata dalla Soprintendenza una seconda campagna subacquea. Nel 1997-1998 vengono recuperati i due elementi che costituiscono il capolavoro bronzeo della statua del Satiro Danzante.
Sulle due pagine immagini della statua di Satiro Danzante recuperata, in due fasi, nelle acque di Mazara del Vallo e ora conservata nel museo appositamente realizzato nella città siciliana.
Anche in questo caso il ritrovamento è una storia lunga e appassionante perché si tratta di un doppio avventuroso recupero. Sebastiano Tusa, primo Soprintendente del Mare e Assessore dei Beni Culturali della Regione Siciliana, tragicamente scomparso nell’incidente aereo di Bishoftu (Etiopia) il 10 marzo 2019, ci ha lasciato un’eccezionale testimonianza sul doppio recupero del Bronzo del Satiro Danzante di Mazara del Vallo: «Nella vita di ogni uomo vi sono
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Veduta frontale e veduta posteriore del Bronzo di Riace B.
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momenti che rimangono fissi nella memoria, anche se dell’evento si è stati semplici testimoni e non protagonisti. È il caso del giorno della “rinascita” del Satiro per il sottoscritto. Era il 5 marzo del 1998; nella notte il motopesca “Capitan Ciccio” entrava nel porto di Mazara del Vallo recando sulla poppa il frutto di quella che si sarebbe rivelata la “pesca” piú fruttuosa della sua attività. (…) Quel giorno rimane impresso nella mia vita poiché si trattava di una scoperta “annunciata” che aspettavo con ansia. Ero stato, infatti, partecipe circa un anno prima – il 29 marzo del 1997 – della consegna della gamba sinistra del Satiro e ricordo con chiarezza la sensazione di stupore quando per primo la vidi su un freddo tavolo del Centro Polivalente di Mazara del Vallo. Mi resi conto immediatamente di essere di fronte a un primo indizio di una di quelle che, nella lunga storia dell’archeologia, possono definirsi grandi scoperte» (I mille volti del Satiro Danzante, Libridine Editrice, Mazara del Vallo 2004). Oggi il Satiro, dopo il restauro diretto da Roberto Petriaggi dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, è esposto in un museo tutto suo a Mazara del Vallo. Ce ne parla l’archeologa Francesca Oliveri della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana alle pp. 110-115. Nell’agosto del 2002, nelle affollate acque della spiaggia di Rimigliano in Comune di San Vincenzo (Livorno), viene recuperato un ammasso di monete d’argento di età romana imperiale: le successive ricerche subacquee non forniscono altri dati relativi a un relitto naufragato col suo carico. La casistica di rinvenimenti isolati si arricchisce di un nuovo capitolo, ancora senza risposte: ce ne parla l’archeologa Angelina De Laurenzi della Soprintendenza Speciale ABAP di Roma alle pp. 116-117. Iniziano nel 2005 – e sono tuttora in corso – le campagne archeologiche subacquee nella vasta area della Battaglia delle Egadi. Dirette da Sebastiano Tusa con la partecipazione anche di équipe internazionali, le ricerche consentono l’individuazione il recupero a oggi di 24 rostri, di cui 4 cartaginesi, e 22 elmi. Ce ne parla sempre l’archeologa Francesca Oliveri alle pp. 110-115.
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In alto una delle monete recuperate dal relitto rinvenuto nelle acque di Orosei (Sardegna) e, a sinistra, la sua ricostruzione virtuale.
Nel 2011, due pescatori, i fratelli Adriano e Angelo Milocco, rinvengono nei bassi fondali del versante a mare dell’Isola di Martignano (Marano Lagunare, Provincia di Udine) un esemplare di spada medievale in ferro che consegnano alla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia. Ce ne parla Massimo Capulli dell’Università di Udine, che ha studiato la spada, alle pp. 118-119.
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Tra il 2017 e il 2018, nel corso di due campagne subacquee organizzate dalla Soprintendenza del Mare vengono scoperti e recuperati, tra altri reperti, due elmi corinzi. L’area del rinvenimento sono i fondali marini di Contrada Bulala (Gela, Caltanissetta). Gli elmi sono ora esposti al Museo Archeologico di Gela. Ce ne parla ancora Francesca Oliveri alle pp. 110-115. Un subacqueo tedesco in vacanza in Sardegna,
Nella pagina accanto, in basso e in questa pagina alcuni esemplari delle monete trovate a bordo del relitto di Orosei. Si tratta di pezzi databili tra il XVI e il XVIII sec.
Martin Klimach, all’inizio di giugno del 2019 segnala il rinvenimento di 4 monete d’oro e 8 d’argento che consegna pochi minuti dopo la scoperta ai Carabinieri. Il 14 giugno 2019 avviene il primo sopralluogo in acqua con la scoperta, nell’area segnalata dal turista tedesco, di un timone in legno perfettamente conservato. 10 giorni dopo, 24-26 giugno, ha
luogo una prima campagna subacquea, diretta dall’archeologo subacqueo della Soprintendenza di Sassari Francesco Carrera, che porta al rinvenimento di altre monete: 28 monete d’oro e 1 d’argento. Il ritrovamento porta in definitiva a un totale di 42 monete antiche, di cui 27 in oro di conio spagnolo (segue a p. 34)
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Sulle due pagine il piede destro e la bocca del Bronzo di Riace B.
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risalenti al periodo XVI-XVIII secolo, 3 mezzi luigi d’oro di Luigi XIV, 2 doppie d’oro di Carlo Emanuele II del 1675, e 10 in argento, di cui l’unica riconosciuta è un mezzo soldo della Repubblica di Genova. È probabile che il rinvenimento sia dovuto al naufragio di un’imbarcazione, avvenuto non prima del 1712, ovvero la data piú recente di tutte le monete che hanno un arco cronologico compreso tra il 1556 e il 1712, quest’ultima probabilmente identificabile nel rinvenimento, negli anni Settanta del secolo scorso, di due cannoni di bronzo con stemma spagnolo. Nel convegno romano Verso il futuro (IV Incontro «Medaglieri Italiani», presso la Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio, 7-8 giugno 2022), Francesco Carrera dà notizia al mondo scientifico della scoperta eccezionale nelle acque di Orosei di un naviglio spagnolo, quasi sicuramente da guerra, probabilmente da mettere in relazione con il tentativo di riconquista da parte di Filippo V, nel 1717, dell’isola di Sardegna. Nell’agosto del 2021, durante la campagna di scavi del Servizio di Archeologia Subacquea della Soprintendenza ABAP dell’Etruria Meridionale, viene scoperta nel Lago di
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Bolsena una statuetta in bronzo di eccezionale valore culturale. L’archeologia lacustre ha restituito moltissimi reperti in bronzo e, piú raramente, anche in oro: reperti conservati sul fondo dei laghi, dove lo scavo condotto scientificamente può riportare alla luce capitoli di preistoria importanti. Sul reperto del sito sommerso del Gran Carro nel Lago di Bolsena interviene, alle pp. 120-123, l’archeologa subacquea Barbara Barbaro della Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana e la Provincia di Rieti. La secca dei fiumi italiani della primaveraestate del 2022 porta alla luce una pluralità di siti e reperti paleontologici e archeologici: dai fossili ai relitti della seconda guerra mondiale. L’abbassamento del livello di portata riguarda ormai tutti i corsi d’acqua italiani, nell’alveo all’asciutto o in acque poco profonde: dal grande fiume Po all’Adige, dall’Oglio al Volturno: imbarcazioni e siti portuali dall’epoca romana al Medioevo, imbarcazioni dal Medioevo alla seconda guerra mondiale, ceramiche e fornaci dal Rinascimento al XVIII secolo. Un inventario complessivo renderebbe un’idea quasi precisa di cosa possano rappresentare i nostri fiumi per l’archeologia. L’eccezionale secca della
Una fase di uno degli interventi di restauro condotti sui Bronzi di Riace.
Particolare dell’occhio di una delle statue di Riace, realizzato in calcite.
primavera-estate 2022 ha portato alla ribalta l’altro grande contenitore d’acqua dell’Italia: il Po, il piú importante fiume italiano. Mediterraneo e Po sono i grandi dimenticati dell’Italia fisica, della nostra geografia delle acque. Delle eccezionali scoperte paleontologiche ci parla Davide Persico dell’Università di Parma alle pp. 124-129.
La «terza» scoperta dei bronzi Non sembra vero, ma questi 50 anni dalla scoperta dei Bronzi di Riace ci lasciano un’eredità ancora tutta da godere pienamente: l’Italia è ricca di beni culturali, anche subacquei. Perché allora non esiste un grande museo di archeologia subacquea nazionale? Dopo l’istituzione della Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale subacqueo; dopo la felice invenzione della Capitale culturale del Mediterraneo a rotazione tra i Paesi costieri, proposta arrivata a conclusione dei due giorni di summit che ha riunito a Napoli 30 ministri della cultura dell’area mediterranea: «In questi due giorni – dice il Ministro Dario Franceschini – Napoli ha già dimostrato di essere una grande capitale culturale, adesso definiremo regole e modalità ma Napoli ha tutte le carte in regola». Dopo il rinnovato, splendido Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, che sta celebrando la terza scoperta dei Bronzi di Riace grazie ai nuovi studi, alle piú innovative ipotesi, si avverte la nuova sfida che proprio i due Bronzi lanciano all’Italia: costruire il Museo Nazionale di Archeologia Subacquea, né piú né meno di quanto hanno già fatto la Spagna con il Museo Nacional de Arqueologia Subacuatica (ARQUA) a Cartagena, nel 2008; la Francia con il Musée de l’Ephèbe et d’archéologie sous-
marine a Cap d’Agde (inaugurato nel 1985); la Turchia con il Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum, che ha piú di 300 000 visitatori all’anno ed è il piú antico museo di archeologia subacquea del mondo, inaugurato nel 1961 e dal 2004 inserito nella lista dei Musei Nazionali, o il piú recente China National Museum of Underwater Archaeology. Per comprendere appieno il messaggio delle splendide statue rinvenute nel 1972 nel mare di Riace, occorre allargare l’orizzonte a tutto il Mare Nostrum, al rapporto tra questo mare di 2,51 milioni di kmq e i suoi 46 000 chilometri di coste. L’archeologia subacquea ha dimostrato in tutti i Paesi del mondo che dissociare i reperti archeologici dall’ambiente che li ha conservati e li ha riconsegnati alla storia è un errore: lo studio del contesto è fondamentale e troppo spesso, in mare, come nei laghi e nei fiumi, l’importanza strettamente archeologica del reperto prevale su tutto. Le domande che ancora suggeriscono i Bronzi di Riace trovano risposta nello studio di quel Mar Mediterraneo che Peregrine Horden e Nicholas Purcell hanno interpretato come un luogo nel quale esiste l’interazione tra tre elementi fondamentali: la frammentazione, l’incertezza e la connettività. Ci viene qui in soccorso Cyprian Broodbank, che indica agli archeologi il loro compito: «Ancora oggi milioni di persone che vivono nel Mediterraneo e oltre ritengono le sue antiche vestigia e ciò che rappresentano di grande importanza. Questa storia remota ha risonanza nel presente, a volte in modo anche appassionato, e cercare di comprenderla al meglio è pertanto una seria responsabilità» (Il Mediterraneo, Einaudi, Torino 2015, p.21). I cinquant’anni dalla scoperta dei Bronzi di Riace diventano l’occasione di una festa che si propone da subito come giornata annuale dell’archeologia subacquea italiana: un modo per tenere viva la memoria dei tanti ritrovamenti nelle acque di mari, laghi, fiumi e lagune, dei quali i Bronzi diventano l’emblema, ma anche per stimolare e motivare un’attenzione piú consapevole per il Mediterraneo e le nostre acque interne.
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DOPO LA SCOPERTA: LE RICERCHE SUBACQUEE
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na scogliera sommersa parallela alla costa; rocce e massi di grandi dimensioni che, oggi tra 3 e 6 m di profondità, poggiano su un fondale di sabbie bianche, affiorando, in parte, dalle acque con sfumature azzurre; questo è il contesto, l’ambiente marino che ha custodito, conservato e restituito due capolavori della bronzistica greca, i Bronzi di Riace. A partire dal 16 agosto del 1972, il tratto di mare antistante la frazione marina di Riace, piccolo Comune della Locride, è stato oggetto, a piú riprese, di campagne archeologiche subacquee mirate a individuare e recuperare una qualsiasi traccia tangibile di un passaggio, di un naufragio, o altra testimonianza correlabile ai Bronzi. Ma, a oggi, quelle acque, dimora per un tempo immemore dei Bronzi, hanno restituito solo labili tracce di un passato, piú o meno remoto. La Soprintendenza dell’epoca, avvalendosi di varie collaborazioni – archeologi subacquei, società specializzate, istituti di ricerca, università –, a partire dal novembre 1972 ha favorito la ricerca subacquea, sia con metodi tradizionali che con indagini strumentali. A oggi, le uniche campagne di ricerca subacquea che abbiano restituito tracce archeologicamente rilevanti, concrete e tangibili sono: la campagna archeologica subacquea condotta, nel periodo agosto-settembre 1973, dal Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina di
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Albenga, diretto dal professor Nino Lamboglia, nel corso della quale, sono stati recuperati 28 anelli in piombo, per velatura di nave e 1 «frammento di impugnatura dello scudo della Statua A, che risultava mutila e mancante. Nessuna traccia dello scudo che fu evidentemente staccato o prima o durante il naufragio, data la profondità dell’attaccatura da due piccoli fori, per la ribattitura di chiodi o ganci»; la successiva campagna di prospezioni e ricerche subacquee eseguite dall’Aquarius-Cooperativa interdisciplinare per l’Archeologia e la Ricerca subacquea, nel periodo ottobre-novembre 1981, con il recupero di alcuni frammenti ceramici, un «coperchio in piombo» molto deformato e un frammento ligneo pertinente a una porzione di «chiglia di nave romana». Successivamente al 1981, altre campagne di indagine subacquea (2004, 2007, 2016) hanno interessato sia il fondale dove sono stati recuperati i bronzi, sia i fondali in un tratto di mare piú ampio e ad alte profondità, superiori ai 200 m, ma senza alcun esito archeologicamente rilevante. Nel maggio 2020, la Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia d’intesa con il Segretariato regionale per la Calabria, con proprie
di Fabrizio Sudano e Alessandra Ghelli risorse finanziarie, hanno programmato e avviato una nuova campagna di prospezioni subacquee strumentali, con ausilio del Side Scan Sonar e del ROV (Remotely Operated Vehicle) Pluto, per le ordinarie attività di monitoraggio dei fondali volte alla tutela del patrimonio culturale subacqueo. Espletate di concerto con i reparti di specialità dell’Arma dei Carabinieri, Nucleo Carabinieri subacquei di Messina, Centro Addestramento Carabinieri subacquei di Genova e Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza, le attività operative hanno interessato anche i fondali antistanti Riace Marina; al momento, non è stata riscontrata alcuna presenza di interesse archeologico. Ma la tutela e la salvaguardia del patrimonio culturale subacqueo non si fermano; per questo la Soprintendenza ABAP per le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia, d’intesa con il Segretariato regionale per la Calabria, grazie alla presenza nei propri ruoli del Funzionario archeologo subacqueo, e il fondamentale supporto tecnico operativo dei reparti di specialità dei
Carabinieri, hanno avviato, inserendole nella propria programmazione ordinaria, attività periodiche di controllo e monitoraggio dei siti culturali subacquei noti e di ricerca scientifica, avvalendosi anche delle nuove tecnologie non invasive e degli specialisti di settore.
Sulle due pagine immagini delle attività operative condotte dalla Soprintendenza ABAP per le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia avvalendosi della collaborazione dell’Arma dei Carabinieri e dell’impiego del ROV (Remotely Operated Vehicle) Pluto. Nella foto in basso si riconosce un’ancora che giace sul fondale marino.
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CAPITOLO
STORIE MILLENARIE NELLA CASA DEGLI EROI I Bronzi di Riace sono oggi la maggiore attrazione del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Ma la sua collezione è, in realtà, ancora piú ricca, con reperti distribuiti nelle sale dell’edificio ideato da Marcello Piacentini che permettono di ripercorrere l’intera, plurisecolare, vicenda della regione calabrese. Com’era, del resto, negli auspici del grande archeologo Paolo Orsi, il primo a riconoscere la necessità di dare vita a un istituto capace di comporre il mosaico delle culture e delle genti succedutesi nella «punta» dello stivale d’Italia di Carmelo Malacrino
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l Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria è un luogo capace di coniugare una ricchissima collezione di reperti, provenienti da tutta la regione, con un allestimento dalle linee contemporanee, nel quale la luce esalta e impreziosisce l’esposizione. È un polo culturale inclusivo e dinamico, in cui molteplici figure professionali operano quotidianamente per proporre un’offerta ampia e diversificata.
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Dopo sette anni di lavori, il MArRC è stato riaperto al pubblico il 30 aprile del 2016, completamente ristrutturato e rinnovato nei percorsi di visita. Oggi il Museo guarda al futuro, con le grandi potenzialità di un luogo nel quale tutti si sentano protagonisti di un’esperienza unica. Uno spazio non piú rivolto solo agli specialisti e agli «addetti ai lavori», ma aperto a tutti, nel quale immergersi nella storia di una regione posta nel cuore del
Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, ospitato nell’edificio progettato da Marcello Piacentini, la cui costruzione ebbe inizio nel 1932.
Mediterraneo, con una cultura millenaria testimoniata da migliaia di reperti esposti.
Uno scorcio della sala che accoglie i Bronzi di Riace, con la statua A in primo piano.
Tutta la Calabria in un Museo La storia della Magna Grecia è caratterizzata da un continuo susseguirsi di culture e processi culturali che diedero vita a una delle civiltà piú originali e affascinanti del mondo antico. La Calabria costituí il fulcro, non solo geografico, di questo fenomeno: dalle popolazioni indigene dell’età dei metalli all’incontro tra queste ultime e i coloni greci (apoikoi) che, nell’VIII secolo a.C., giunsero in Occidente, mirando al controllo strategico dello Stretto; dal potente impero di Sibari, esteso su quattro popoli e venticinque città (come ricordava Strabone) all’espansione locrese sul Tirreno, che portò alla conquista dell’emporion indigeno-calcidese di Metauros (l’attuale Gioia Tauro) e alla fondazione delle subcolonie di Hipponion e Medma (oggi rispettivamente Vibo Valentia e Rosarno); dalla prima legislazione di Zaleuco a Locri all’espansionismo crotoniate e alla filosofia pitagorica, fino alla tirannide reggina di Anassilaos, solo per fare qualche esempio. Senza dimenticare i Lucani, i Brettii e i Mamertini, il passaggio di Annibale, il nuovo assetto dei Romani, la diffusione del cristianesimo e la presenza ebraica. Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria fu concepito sin dall’inizio per raccontare questa storia complessa e meravigliosa, da quando il grande archeologo trentino Paolo Orsi immaginò la realizzazione, sulla sponda peninsulare dello Stretto, di un grande Museo Nazionale della Magna Grecia, unificante di tutte le realtà territoriali e storiche calabresi. Da quell’idea derivò la fusione tra le collezioni civiche reggine e i materiali provenienti dagli scavi condotti dalla Soprintendenza calabrese, avvenuta negli anni successivi grazie all’attività di Soprintendenti, tra cui Edoardo Galli, Paolo E. Arias e Alfonso De Franciscis, entrati nella storia dell’archeologia italiana. Si creò cosí una delle collezioni archeologiche piú ricche della Magna Grecia, che fu esposta, a partire dal 1954, nel
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nuovo edificio progettato da Marcello Piacentini qualche decennio prima. Il palazzo fu tra i primi in Italia a essere concepito appositamente con il fine di ospitare un’esposizione museale, articolato in grandi ambienti illuminati da ampie vetrate, che consentono un itinerario di visita continuo. Per rimarcare il ruolo di Museo Nazionale della Magna Grecia le facciate dell’edificio furono decorate con grandi tondi in travertino che riproducono i tipi monetali delle principali città magno-greche. Il Bronzo di Riace B. V sec. a.C. A destra, in alto kouros in marmo pario con tracce di policromia. 500 a.C. circa.
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Quattro livelli espositivi Il Museo oggi propone un allestimento permanente che conta ben 220 vetrine e si sviluppa su quattro piani, per presentare, in una narrazione continua, tutta la storia della Calabria, dalla preistoria all’età romana.
L’esposizione segue un criterio cronologico e tematico, che inizia dal piano piú alto (Livello A), dedicato alla preistoria e alla protostoria della regione. Tra i contesti esposti spicca la grotta del Romito di Papasidero (Cosenza), uno dei capisaldi stratigrafici del Paleolitico Superiore italiano, con le sue sepolture bisome, l’industria litica epigravettiana e soprattutto la celebre testimonianza di arte rupestre rappresentata dal graffito del Bos primigenius. Seguono le testimonianze dell’età del Bronzo e del Ferro: dal prezioso idoletto in avorio di produzione minoica rinvenuto a Punta Zambrone (Vibo Valentia) fino alle ceramiche con decorazioni euboicocicladiche provenienti dalle necropoli locresi di Canale e Janchina, che testimoniano gli intensi contatti intercorsi durante la prima età del Ferro avanzata tra gli indigeni della Calabria meridionale e il mondo egeo. Il livello B è dedicato alle città e ai grandi santuari di età greca, con l’esposizione di alcuni dei contesti sacri piú importanti della Calabria arcaica e classica. Sono presentate le ceramiche di importazione corinzia provenienti dall’Athenaion di Francavilla Marittima, nella Sibaritide, cosí come i reperti provenienti dalle aree sacre urbane di Hipponion e Medma, tra cui le splendide terrecotte ieratiche, uniche in tutta la plastica fittile magno-greca di età arcaica per tipologia e sintassi compositiva. Seguono le magnifiche terrecotte architettoniche policrome che ornavano le facciate dei templi di Locri, Kaulonia e Hipponion, nonché il celebre gruppo statuario dei Dioscuri che decorava il tempio locrese di contrada Marasà. Infine il celebre Persephoneion locrese scavato da Paolo Orsi sul colle della Mannella, in assoluto il santuario piú famoso d’Italia (secondo Diodoro Siculo), con i suoi ricchissimi ex voto bronzei, le preziose importazioni ceramiche da Corinto e da Atene, e, soprattutto, i caratteristici pinakes, i quadretti votivi in terracotta policroma legati al culto di Kore-Persefone. Al livello C l’esposizione continua con gli aspetti tematici della vita quotidiana: poesia,
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
A destra testa maschile in terracotta dal santuario di Calderazzo a Medma. V sec. a.C. In basso terrecotte ieratiche provenienti anch’esse dal santuario Calderazzo a Medma V sec. a.C.
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MUSEO ARCHEOLOGICO DI REGGIO CALABRIA
Il capolavoro rimpatriato
Tre immagini della testa in bronzo rinvenuta nelle acque di Porticello e detta «di Basilea», perché, all’indomani del recupero, venne acquisita illegalmente dall’Antikenmuseum della città elvetica, che l’ha restituita all’Italia nel 1993. Caratterizzata da una fitta barba e da una benda tra i riccioli dei capelli, è databile alla metà del V sec. a.C.
musica e teatro; le abitazioni; le attività artigianali. Seguono i corredi funerari della necropoli indigena di Metauros e della necropoli di contrada Lucifero a Locri. Il piano si chiude con il settore dedicato alla Calabria ellenistica, dove si possono ammirare sia la celebre panoplia in bronzo che corredava la ricca sepoltura del guerriero lucano di Marcellina (Cosenza), sia la preziosa coppa in vetro e oro con scena di caccia reale da Varapodio (Reggio Calabria). Il livello D è dedicato alla storia di Rhegion, l’odierna Reggio Calabria, dalla fondazione
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All’ambiente, con microclima controllato, si accede dopo una breve sosta in una sala prefiltro e poi nella sala filtro vera e propria, dove un sistema di aerazione riduce al minimo gli agenti contaminanti veicolati dai visitatori. L’attesa viene resa gradevole e proficua da un apparato video e audio che illustra gli aspetti relativi al ritrovamento, ai restauri e al dibattito scientifico sulle due statue.
Non solo spazi espositivi
La Testa di Filosofo, da Porticello. Potrebbe trattarsi del ritratto di un letterato o di un pensatore. V sec. a.C.
calcidese della fine dell’VIII secolo a.C. all’età tardo-romana. Spiccano, tra le opere esposte, il kouros in marmo pario con la sua rara policromia e la celebre lastra di Griso Laboccetta, con scena di danza, capolavoro della plastica fittile di età arcaica. Conclude il percorso la sala dedicata ai superbi Bronzi di Riace e alle due teste di Porticello.
Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, con l’autonomia istituita dalla riforma del 2014, è un museo moderno in linea con gli standard internazionali dell’ICOM. Alla ristrutturazione si deve la realizzazione non solo di un ampio spazio espositivo posto al livello interrato E, destinato alle mostre temporanee, ma anche della magnifica terrazza che domina lo Stretto. Oltre 25 mostre temporanee hanno arricchito l’offerta espositiva negli ultimi cinque anni, proponendo allestimenti su grandi temi del mondo antico. Esse sono state affiancate da convegni, seminari, attività didattiche e pubblicazioni che hanno consentito di raggiungere i piú svariati tipi di pubblico attraverso lo studio di sempre nuovi metodi di comunicazione e valorizzazione dell’antico. Ma il MArRC è anche un luogo di ricerca. Al suo interno si investe quotidianamente nello studio e nella catalogazione delle ricche collezioni, non solo archeologiche. Nel laboratorio di restauro si opera con professionalità e dedizione per preservare ogni singolo reperto, mentre nella biblioteca, aperta al pubblico nel 2017, si conducono ricerche scientifiche e conoscitive necessarie alla tutela e propedeutiche a qualsiasi attività divulgativa e di valorizzazione. Tutto ciò ha concorso a consolidare il ruolo del MArRC come principale attrattore culturale del territorio, facendogli assumere un ruolo primario nella valorizzazione del patrimonio culturale di tutta la Calabria e dell’area dello Stretto in particolare, grazie anche alla profonda sinergia che intercorre con le istituzioni, le università, gli altri enti e le numerose associazioni.
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IL RACCONTO DELLA SCOPERTA
UNA MATTINA D’AGOSTO La storia moderna dei Bronzi di Riace ha inizio nel 1972, quando un sub romano esce per una delle sue abituali battute di pesca in apnea... Ecco, nel suo ricordo il racconto di quell’impresa straordinaria incontro con Stefano Mariottini, a cura di Flavia Marimpietri e Andreas M. Steiner
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ra il 16 agosto 1972 quando un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, si immerse nel Mar Ionio, al largo di Riace Marina. Durante la discesa in apnea, fu attratto da qualcosa che emergeva dalla sabbia del fondale: sembrava un braccio. Non si sbagliava. Da quel momento cambiò la sua vita, ma anche la storia dell’archeologia greca e romana. Perché Mariottini aveva trovato, per caso, due statue oggi considerate tra i capolavori assoluti della scultura classica, rari originali greci del VI secolo a.C.: i Bronzi di Riace. A cinquant’anni dalla scoperta, lo abbiamo intervistato per farci raccontare un rinvenimento del tutto fortuito e straordinario, che sarebbe il sogno di ogni archeologo. Che cosa prova Stefano Mariottini, oggi, pensando a quel giorno e a quello che trovò immergendosi nelle acque di Riace? «Non ho avuto fortuna solo io nel trovare i Bronzi di Riace, ma l’ha avuta l’umanità intera, che ora ne può godere! Sono passato in quel punto del mare per caso, è vero, ma ho capito subito che quello che sporgeva dalla sabbia non era un sasso». Ci racconti gli attimi emozionanti in cui si
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rese conto che laggiú, sott’acqua, c’era qualcosa di insolito… «Sono passati cinquant’anni, ma sono legato come ieri a questo avvenimento sorprendente. Nel 1972 ero in vacanza a casa dei suoceri, a Monasterace: ero solito andare a pesca subacquea nelle acque di Riace poiché c’erano scogli molto pescosi, circondati da un mare cristallino. A un certo punto, nell’acqua trasparente, al centro di un gruppo di scogli isolati, notai una cosa che mi sembrò la spalla di un uomo… Usciva solo quella, dal fondo del mare. Non lo sapevo ancora, era il Bronzo “B”. Quel giorno ho vissuto l’emozione di trovarmi di fronte a un reperto antico e la sorpresa della scoperta, anche se in modo fortuito». Quindi per prima cosa vide una spalla e poi? «Ho pensato che fosse un morto, ma il corpo aveva contorni molto precisi, non poteva essere un cadavere… Ho fatto una capriola per immergermi, sono sceso a circa 6-8 m di profondità, e ho visto che l’oggetto era di colore verde: allora ho capito che era un bronzo. Ero già laureato in chimica, dal 1966, conoscevo i materiali. Ero anche responsabile di settore nell’azienda per cui lavoravo, ho saputo riconoscere che era bronzo. Iniziai a spolverare l’oggetto per levare la sabbia… per
In alto 16 agosto 1972. Stefano Mariottini (al centro della foto) accanto alla statua B di Riace, dopo il recupero. Nella pagina accanto Stefano Mariottini oggi.
circa un’ora. Facevo pesca subacquea, ero allenato. In una mano avevo il fucile, con l’altra spolveravo quella spalla, che col passare del tempo è diventata un avambraccio, poi gomito, con tanto di “imbracciatura” per lo scudo. Ho continuato a spolverare i fianchi, le cosce… ma erano infilati profondamente nella sabbia. Usciva solo il profilo sinistro del corpo, dalla testa fino alle gambe. Il torace e la schiena erano sotto la sabbia. Del capo vedevo i riccioli e la “tenia”, la fascetta che il guerriero porta sulla fronte. Infilavo la mano nella sabbia per sentire il viso, ma non riuscivo a vederlo». Dev’essere stato emozionante scoprire a poco a poco, scavando nella sabbia a mani nude, i resti di un guerriero di bronzo
adagiato sul fondo del mare da millenni… «Sí, è stata un’emozione incredibile. Anche se in quel momento non avevo realizzato: avevo capito che era una statua, ma non immaginavo fosse uno dei capolavori piú importanti dell’arte classica. Continuavo a spolverare, ma non vedevo il viso. L’emozione era cosí grande che mi levava l’aria. Per poter scavare andavo su e giú in apnea, rimanendo senza fiato. Muovendo le pinne, poi, un metro e mezzo piú in là, ho scoperto un ginocchio e un alluce…». Era la gamba della seconda statua che affiorava dalla sabbia: il Bronzo di Riace A... «Esatto. Ho pensato che fosse un’altra statua e ho iniziato a spolverarla: era riversa su un fianco. Sarà passata una mezzoretta. Giaceva
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IL RACCONTO DELLA SCOPERTA
supina, coperta da un velo leggero di sabbia, leggermente inclinata verso il basso. L’ho spolverata tutta… quello è stato il momento piú emozionante. A un tratto, è emersa una testa che sembrava quella di Pericle. Avevo visto il kouros di Capo Artemisio al Museo di Atene. Del secondo Bronzo di Riace si vedeva la cuffia lavorata, con gli incassi per l’elmo. Si notavano i capezzoli e le labbra di colore piú roseo rispetto al resto del corpo, le vene sulle mani, le dita “da manicure”, con unghie perfette, i muscoli dei polpacci perfettamente tesi e definiti. Dalla sabbia era uscita una figura umana intera, pulita. L’avrò spolverata 400 volte, fino a delineare tutto il contorno. Ho visto anche delle “cose” di piombo sotto il piede, ma non sono sicuro, perché i ricordi talvolta diventano fantasie…». E che cosa ha pensato, di fronte a quel profilo coricato sul fondo del mare? «Mi sono detto “questa è una statua”, ma non sapevo fosse antica di secoli. Non conoscevo l’età di quelle opere: ho pensato fossero pupazzi di Carnevale». E invece non erano pupi dell’Opera siciliana… «Erano statue antiche. Comunque lasciai la prima statua, per dedicarmi alla seconda: immergendomi vedevo la gamba sinistra e le due braccia aperte. Dopo un paio di ore che facevo su e giú, ho deciso di tornare a terra per avvertire i familiari. Mi sono chiesto come avrei fatto a ritrovare il punto? Ho legato la sagola del pallone sub al braccio di uno dei due Bronzi (quello della statua A). Tornato a casa, ho raccontato della scoperta, ma nessuno mi credeva. Ho portato i due cugini di mia moglie sul posto, ho indicato loro il punto esatto del rinvenimento e ho pensato di segnalare la scoperta. Era il 16 agosto 1972. Dopo aver avvertito la Soprintendenza Archeologica della Calabria, sono tornato a coprire di sabbia le statue. La sera è stato rintracciato l’allora Soprintendente, Giuseppe Foti. Il giorno successivo ero al Museo di Reggio Calabria per la segnalazione». Prima di allora, aveva avuto precedenti
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La spiagga di Riace, al largo della quale Mariottini scoprí le due statue.
contatti con l’archeologia, oppure la scoperta di Riace è stata «la prima volta»? «In precedenza mi ero immerso nelle acque di Monasterace, dove andava un collega dell’Università. Qui facevamo immersioni in quello che poi sarebbe stato vincolato come Parco Archeologico di Caulonia, che comprende un’area terrestre e un giacimento archeologico sommerso. All’epoca, tra gli anni Sessanta e primi anni Settanta, il sito non era vincolato: ci immergevamo in mezzo ai blocchi di colonna antichi, ai capitelli, ai resti sommersi dell’antica città magno-greca. Andavamo a pesca tra blocchi di marmo e colonne antiche… I resti archeologici erano noti alla Soprintendenza dal 1930, le colonne visibili sulla spiaggia già nel 1964. Io, però, non avevo fatto altre scoperte prima di trovare i Bronzi di Riace: la mia “prima volta” è stata quella. Da quel momento, è iniziata la collaborazione
con la Soprintendenza Archeologica della Calabria. Ho collaborato alla prima campagna di scavo con l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, fondato da Nino Lamboglia, che effettuò prospezioni di ricerca dei metalli e saggi di scavo. Le uniche cose rinvenute all’epoca furono il maniglione dello scudo dei due bronzi, composto da una fascia metallica chiamata “flangia” e da una testa cilindrica, che viene impugnata con la mano, e circa 24 -25 anelli di piombo, forse appartenenti alle vele della nave. L’imbarcazione che trasportava le statue non venne mai trovata. Gli archeologi parlarono di un naufragio avvenuto in epoca antica, forse in un altro punto del mare, dopo che i marinai avevano gettato in acqua, altrove, il carico. Non si rinvenne fasciame della barca, né nessuna traccia dello scafo. Le statue poggiavano sul letto di ghiaia del fondo marino. Nessun frammento ceramico appartenente al carico è stato rinvenuto, a eccezione di una decina di frammenti di pochi centrimetri, non significativi (senza orlo o fondo del vaso). Si trattava, forse, di una nave di guerra che tornava da una spedizione in Grecia: questo era il suo prezioso bottino». Come è cambiata la sua vita pubblica, da quando è diventato lo «scopritore» dei Bronzi di Riace?
In alto, sulle due pagine la spiaggia di Riace Marina. Stefano Mariottini (a sinistra) con Pippo Cappellano, autore di un documentario nel quale, con la collaborazione del sub romano, ricostruí la scoperta dei Bronzi di Riace (vedi alle pp. 78-81).
«Io ero un chimico, mi ero laureato presso l’Università “La Sapienza” di Roma nel 1966. Lavoravo nei laboratori della Selenia dal 1970: costruivamo radar e missili. Prima avevo lavorato a Milano, nel settore dell’energia nucleare. Ho fatto sempre lo stesso lavoro, fino alla pensione, come dirigente nell’azienda. Nel privato, ho avuto il tempo per i miei hobby, tra cui la pesca subacquea. L’allora Soprintendente Foti, dopo la scoperta dei Bronzi di Riace, iniziò a chiamarmi sempre piú spesso per il riconoscimento di reperti archeologici subacquei, nel caso di segnalazioni nell’area di Locri. Per quarant’anni ho collaborato con la Soprintendenza Archeologica della Calabria come subacqueo. Ho realizzato tutta la documentazione fotografica subacquea del sito archeologico di Monasterace, fino a quando, nel 1982, fu avviato un progetto di ricerca diretto da Elena Lattanzi, allora Soprintendente Archeologa della Calabria, che voleva indagare sott’acqua in corrispondenza dei siti archeologici o delle cave a mare. Ho collaborato con l’archeologa Maria Teresa Iannelli a diversi progetti di ricerca subacquea in tutta la Calabria. Ho fondato un’associazione culturale di volontari, chiamata Kodros (come l’antico ateniese che partecipò alla battaglia di Maratona, nel 490 a.C.), che ha realizzato progetti con la Soprintendenza fino al 2020. I volontari dell’associazione lavoravano gratis come subacquei». Una scoperta «rivoluzionaria» per l’umanità, ma anche per la sua vita, quella dei Bronzi di Riace… «Direi di sí. Il mio hobby e la mia passione – le immersioni – sono diventate la mia vita, tra ricerche, convegni e attività di divulgazione. Eppure ho continuato a lavorare come chimico fino alla fine». Non le chiedo qual è il suo sogno, poiché pare che lo abbia già realizzato… «In effetti sí. Sognavo di non smettere mai di fare immersioni: l’ho fatto. Il prossimo passo è mettere a posto l’archivio fotografico dei siti archeologici sommersi a cui ho lavorato, che conta migliaia di immagini uniche».
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«LETTURA» E IDENTIFICAZIONE
UN ELMO DA RE E QUELLO SGUARDO CARICO D’ODIO... Sull’identità dei guerrieri venuti dal mare sono stati versati, letteralmente, fiumi d’inchiostro. Ma è attraverso l’osservazione attenta dei dettagli che si arriva alla soluzione dell’enigma di Daniele Castrizio, con elaborazioni grafiche di Saverio Autellitano
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el corso del cinquantennio appena trascorso, le ipotesi scientifiche sull’identificazione dei Bronzi di Riace sono state molteplici, tutte piú o meno basate sulle evidenze dei dati disponibili. La cosa sorprendente, però, è la quasi totale assenza di attenzione, tranne pochissime eccezioni, alla lettura dei segni ancora presenti sulle due statue, testimoni degli attributi che esse recavano in antico, al momento della loro realizzazione, e che permettevano ai fruitori di poter riconoscere i personaggi rappresentati. La lettura iconografica della statuaria antica, da sempre marginale nella storia degli studi di settore, può offrire spunti che avvicinano alla reale comprensione delle due statue.
Elaborazione grafica della testa del Bronzo A che mostra la posizione del perduto elmo, la cui presenza è indiziata dal tassello triangolare posto all’altezza delle tempie, che combacia con la giuntura fra paragnatidi e paraguance negli elmi corinzi del V sec. a.C.
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Il primo elemento andato perduto nel corso dei secoli, ma che può essere reintegrato con certezza, è un elmo di tipo corinzio sulle teste di entrambe le statue: sul Bronzo A la sua presenza è provata da molti segni rimasti nel metallo, utilizzati per fissarlo in modo piú saldo alla calotta cranica, ricoperta di capelli. Il tratto distintivo che identifica sicuramente tale elemento come un elmo corinzio è una sorta di tassello di forma triangolare posto all’altezza delle tempie, proprio sulla fascia che ne avvolge la testa; tale elemento combacia perfettamente con la giuntura tra paragnatidi e paranuca sugli elmi di tipo corinzio della metà del V secolo a.C., e permette di poter fissare il copricapo in posizione rialzata sulla fronte (vedi l’immagine alla pagina accanto). È degno di nota che sperimenti e tentativi di fare combaciare tutti i segni presenti sulla testa di A con elmi corinzi di diversa datazione hanno dato esiti completamente negativi. Oltre ai due tasselli, non può essere trascurata una base di appoggio presente nell’area della nuca della statua, realizzata allo scopo di permettere il posizionamento del paranuca dell’elmo: si tratta di un particolare estremamente evidente, tale da permettere di escludere in maniera
Altre immagini della testa del Bronzo A che confermano la presenza di elementi destinati all’appoggio dell’elmo: oltre ai tasselli triangolari sulle tempie, si nota una base nell’area della nuca.
definitiva che il Bronzo A non portasse un elmo (vedi foto in questa pagina). Se poi si osserva la resa dei capelli, si deve notare come essi siano realizzati in maniera innaturale, con due sporgenze che dovevano servire ad aumentare la superficie di contatto tra la testa e l’elmo, per renderlo piú stabile. Ciascun ricciolo, fuso a parte e saldato sulla testa, presenta punti di fissaggio per il casco, accrescendo i punti per fissarlo saldamente (vedi foto alle pp. 50/51).
Fusioni singole per ciascun ricciolo La presenza stessa della capigliatura sotto l’elmo non deve stupire, giacché dai fori per gli occhi e dalla parte anteriore del copricapo corinzio, con il paranaso intagliato, era possibile osservare parte della calotta cranica, da varie posizioni e con prospettive diverse. Del resto, si tratta dello stesso artista che ha realizzato le orecchie del Bronzo A, per poi occultarle sotto i riccioli fusi singolarmente. Da ultimo, come dimenticare il perno posto alla sommità della testa? In effetti, si tratta di due perni: il piú antico, realizzato con cura, si dovette rompere in antico, per cui fu tagliato e martellato nella parte sommitale, per renderlo non visibile. Accanto al perno originario fu aperto un altro foro, in modo assolutamente
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«LETTURA» E IDENTIFICAZIONE
grossolano, al fine di fissare un’ulteriore sbarra, il cui unico scopo doveva essere quello di sostenere l’elmo. Tutta la serie di accorgimenti per tenere saldo il copricapo sembra indicare la preoccupazione costante, da parte del bronzista, per una esposizione della statua al vento e alle intemperie. Per i motivi di stabilità sopra esposti, nel Bronzo B si pensò a deformare preventivamente la calotta cranica, per renderla adatta ad accogliere l’elmo corinzio senza bisogno di perni di rinforzo e di altri incastri; rispetto all’altra statua, del resto, non c’era la necessità di mostrare la capigliatura, poiché sotto l’elmo era prevista la presenza di una cuffia con paranuca a ricciolo, paraorecchie e sottogola (vedi l’immagine nella pagina accanto, in basso).
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Per far intuire la presenza di tale cuffia, all’altezza dei fori per gli occhi fu realizzato un rettangolo in rame rosso, fissato sulla testa entro un apposito incavo, con tracce di picchiettature ottenute mediante colpi di martello, una convenzione iconografica per indicare la pelle conciata e il cuoio. Sulla fronte, analogamente, fu posta una sorta di triangolo in rame, con analoghe picchiettature, visibile al di sotto delle paragnatidi, che rivestiva anche la funzione pratica di bloccare la parte anteriore dell’elmo. Per fissare la cuffia, invece, furono poste tre alette in bronzo proprio sotto la parte posteriore dell’elmo: servivano da supporto al paranuca a ricciolo, che doveva essere in rame; la parte alta delle orecchie, invece, non è stata rifinita, e presenta un foro per
Sulle due pagine elaborazione grafica della testa del Bronzo A che evidenzia la funzione di sostegno svolta dai riccioli della capigliatura, ciascuno dei quali venne fuso singolarmente. A destra elaborazione grafica della testa del Bronzo B che mostra, oltre all’elmo, la sottostante cuffia con paranuca a ricciolo, paraorecchie e sottogola.
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A destra le tracce osservabili sul braccio destro di entrambi i Bronzi, che provano come, in origine, impugnassero una lancia. In basso e nella pagina accanto, a sinistra elaborazioni che mostrano la posizione degli scudi tenuti con le braccia sinistre grazie al porpax (imbracciatura) e all’antilabè (impugnatura).
un chiodo, utile per fissare il paraorecchie da ciascun lato; nella barba, infine, si vede una traccia evidente di dove dovesse essere alloggiato il sottogola, probabilmente realizzato in cuoio e non in metallo.
Armati di lancia e scudo Piú facile è il riconoscimento degli altri attributi iconografici delle due statue. Nonostante le ipotesi contrastanti, grazie ai segni presenti sulle braccia delle due statue (vedi l’immagine in alto), è certa la presenza di una lancia nella mano destra dei due Bronzi. Nessun dubbio, infine, c’è sulla presenza di scudi oplitici nel braccio sinistro di entrambi i Bronzi. Essi sono testimoniati dal porpax (imbracciatura) nella parte alta dell’avambraccio di ciascuna statua, e dall’antilabè (impugnatura) nella mano sinistra (vedi le immagini qui accanto e nella pagina accanto, a sinistra): il bracciale serviva per reggere il peso dello scudo e per poterlo manovrare in battaglia, mentre una sorta di maniglia di corda permetteva di impugnarlo con facilità; uno dei due antilabè è stato ritrovato, e imita perfettamente nel bronzo una corda di tessuto. Un discorso a parte merita la cuffia con paranuca a ricciolo e paraorecchie che abbiamo individuato sulla testa del Bronzo B, posta al di sotto dell’elmo corinzio. Si tratta di un elemento presente in centinaia di raffigurazioni
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A destra particolare di un vaso figurato e monete che mostrano personaggi con elmi poggiati sul capo nella stessa posizione che si deve immaginare per il Bronzo B, nonché la presenza della cuffia. In basso il Bronzo B con la ricostruzione della posizione dello scudo imbracciato dal guerriero.
del mondo greco e, in parte, romano. Dal punto di vista numismatico, essa caratterizza una grande quantità di tipologie che rappresentano la testa di Atena elmata, ma si ritrova anche su tipi monetali relativi ad Ares o Marte, ed è un attributo di molti eroi greci (vedi foto in alto); mai riconosciuta dagli storici dell’arte greca, tale cuffia si ritrova sulla ceramica di epoca classica e su molte statue, anche se le repliche in marmo di originali in bronzo presentano l’obiettiva difficoltà del renderla in un materiale cosí fragile, per cui il paranuca a ricciolo viene mostrato quasi sempre ripiegato sotto la parte posteriore dell’elmo corinzio. L’identificazione di tale elemento è avvenuta tramite lo studio di fonti letterarie e iconografiche, il cui punto di svolta è stata la descrizione della cuffia da parte di Erodoto, che ci fornisce l’appellativo di korinthie kynê. La ricerca tra le fonti antiche ha permesso di riconoscere nella cuffia con paranuca a ricciolo un segno di comando militare e politico tipico
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del mondo dorico nel V secolo a.C. e serve iconograficamente a identificare chi è dotato del comando supremo: grazie a centinaia di confronti, si può affermare come la presenza della cuffia con paranuca individui sempre uno stratego, un ecista, un re, un tiranno. Continuando la «lettura» dei segni, notiamo come la statua A è caratterizzata dalla presenza di denti in argento fissati tra le labbra in rame rosso (vedi foto in alto) che, in modo consono all’immaginario del mondo antico, sono un mezzo iconografico per mostrare un uomo che guarda al suo avversario in modo ostile: secondo gli etologi, a partire da Konrad Lorenz, l’atto animale di mostrare la dentatura rappresenta una minaccia, tipica dei carnivori. La volontà di rappresentare un uomo che odia chi gli sta di fronte ed è pronto ad aggredirlo è ulteriormente rafforzata dalla fissità dello sguardo della Statua A, che ben si confà a chi è completamente in preda all’odio (vedi l’immagine a destra, sulle due pagine).
Un approccio iconografico Uno dei grandi problemi della conoscenza del mondo antico è il nostro approccio modernista nei confronti dell’immaginario greco e romano: perduta appare la comprensione delle iconografie antiche, che servivano ai nostri antenati per riconoscere i vari personaggi e per comprendere le scene che vedevano illustrate sulle monete, nella statuaria, nei rilievi, nella
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In alto particolare dei denti in argento del Bronzo A. Sulle due pagine elaborazione grafica realizzata allo scopo di rendere l’espressione aggressiva con la quale il Bronzo A «guardava» il Bronzo B.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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ceramica, nei pinakes, nei mosaici, nelle gemme e su qualunque altro supporto. Il mondo greco-romano è immerso nelle figurazioni, con un sistema di decodifica che permetteva agli utenti di capire fino in fondo i messaggi morali, ideologici, propagandistici e di qualsiasi altra natura legati all’iconografia; data questa premessa, si rende necessaria una considerazione generale sulle statue da Riace, che ci permetta di comprenderle nel loro contesto. Proprio perché non si tratta di «fotografie», i Bronzi sono mostrati nella loro «nudità eroica», che identificava dèi ed eroi, compresi gli eroi contemporanei, quali i vincitori negli agoni panellenici: solo queste categorie, nel mondo greco, avevano diritto a essere rappresentate nude, mentre i ritratti di comuni mortali dovevano essere realizzati con i loro vestiti o le loro armature. Assodato questo aspetto, e quindi che i due Bronzi raffigurino due eroi, per le convenzioni iconografiche del tempo il loro status di guerrieri passava dalla presenza indispensabile di elmi, scudi e lance. Entrambe le statue da Riace, che rappresentavano due guerrieri, brandivano le armi tipiche della metà del V secolo a.C. (vedi le immagini nella pagina accanto, a sinistra e in
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A sinistra e nella pagina accanto, a destra elaborazioni grafiche delle due statue, con la ricostruzione del loro equipaggiamento consistente in armi (elmo, scudo, lancia) tipiche della metà del V sec. a.C.
In basso, sulle due pagine in entrambe le statue, la caruncola lacrimale è stata resa con estrema accuratezza, inserendo piccoli tasselli in pietra rosa: una soluzione a oggi esclusiva dei Bronzi di Riace.
questa pagina, a destra). Un’altra notazione riguarda la posizione degli elmi corinzi, rialzati sulla fronte: è facile dimostrare come non sia fisicamente possibile restare a lungo con l’elmo in tale posizione, né, tanto meno, camminare o combattere, giacché il copricapo cadrebbe immediatamente o altrimenti occorrerebbe una mano impegnata per sorreggerlo. Si tratta anche in questo caso di una mera convenzione iconografica, ideata nei primi decenni del V secolo a.C., e che rapidamente si diffuse in tutto il mondo greco: la finalità è quella di mostrare il volto dell’eroe, altrimenti completamente nascosto dall’elmo corinzio, che riparava interamente la testa del guerriero.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Un unico artista Sebbene numerosi specialisti abbiano affermato che esista una distanza temporale di un ventennio tra la realizzazione delle due statue da Riace, forse occorrerebbe, dopo cinquant’anni di studi e ricerche, fare il punto di ciò che conosciamo e dei dati che sono stati acquisiti, sui quali non si discute piú a
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Nella pagina accanto elaborazione che, affiancando fotograficamente le due metà dei Bronzi, mostra come le statue abbiano le medesime dimensioni e proporzioni. A sinistra confronto tra l’elaborazione grafica che mostra il volto del Bronzo A con il perduto elmo e un’immagine dell’originale della statua.
livello accademico. Per prima cosa, le analisi al carbonio 14 hanno dimostrato che i Bronzi vennero realizzati intorno alla metà del V secolo a.C.: questo dato viene confermato anche dalla foggia degli elmi compatibili con i segni che sono ancora visibili in A e in B, e che sono esclusivi del periodo intorno al 450 a.C.; in secondo luogo, le tre analisi internazionali della «terra di fusione» hanno dimostrato che il luogo di produzione dei Bronzi fu Argo, nel Peloponneso. Mediante una semplice analisi autoptica, poi, si nota che le dimensioni e la posizione dei Bronzi sono estremamente simili tra di loro; di piú, esperimenti grafici hanno dimostrato che i due volti e persino i due corpi possono essere accostati e presentano identiche dimensioni e proporzioni (vedi foto sulle due pagine). Inoltre, nonostante differenze di montaggio degli occhi e delle labbra sulle due statue, che sono indizio solo di diverse maestranze all’opera contemporaneamente su un gruppo statuario, occorre notare come alcuni particolari, quali la caruncula lacrimalis realizzata con una pietra rosa e fissata negli occhi di A e B, siano esclusivi delle statue da Riace (vedi foto alle pp. 56/57). Anche l’identica divisione nei vari pezzi per realizzare la colata del bronzo fuso e l’esecuzione a parte del terzo dito dei piedi di entrambe le statue attestano l’opera di una sola bottega, e la guida tecnica di un maestro.
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UNA PROPOSTA DI IDENTIFICAZIONE
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el percorso di identificazione dei Bronzi, occorre tenere preliminarmente ben presente come i tentativi di trovare confronti nella ceramica attica e, in generale, nella cultura figurativa ateniese, abbiano dato i loro esiti: le statue da Riace non appartengono all’immaginario di Atene, perché nel periodo classico e in quello ellenistico le opere si trovavano ad Argo, lontane dal repertorio di immagini degli Ateniesi. Assenti da Atene, confronti archeologici compatibili con i Bronzi sono però ben presenti a Roma, dal I secolo fino alla fine del III d.C. La traccia di ricerca che ci ha guidati è rappresentata dalla caratteristica facilmente rintracciabile in tutte queste opere: l’espressione di ostilità, che abbiamo colto sul volto del Bronzo A, si ritrova su molte opere artistiche romane, identificate da molti studiosi come echi dei Fratricidi di Pitagora di Reggio, il quale, insieme al suo maestro Clearco e all’allievo Sostrato, fa parte della scuola bronzistica reggina, su cui finora gli studi non
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sono riusciti a fare luce, nonostante le tante attestazioni di eccellenza della loro produzione artistica presenti nelle fonti antiche. Nei vari confronti relativi al gruppo dei Fratricidi, tutti peraltro provenienti da Roma o dalle sue vicinanze, si riscontrano due caratteristiche peculiari: il centro della scena è occupato dalla madre di Eteocle e Polinice, che è mostrata nel tentativo di fermare il duello dei figli; uno dei due fratelli è ritratto con una espressione di aggressività sul volto, colta da tutti gli artisti che hanno realizzato tali opere, e trova un preciso riscontro iconografico solo nel Bronzo A, permettendoci di identificare le statue da Riace come Eteocle e Polinice, colti nel momento in cui la loro madre compie l’estremo tentativo di impedirne la morte violenta. Nell’ambito dei raffronti rintracciati, notiamo come un sarcofago attico del II secolo, oggi conservato a Villa Doria Pamphilj, ci mostri il gruppo di Pitagora nella sua interezza (vedi l’immagine in alto, sulle due pagine): si riconoscono cinque personaggi, disposti in
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Disegno della fronte di un sarcofago sul quale, sulla sinistra, è rappresentato il gruppo dei Fratricidi di Pitagora. L’originale, databile al II sec. d.C., è oggi conservato a Roma, a Villa Doria Pamphilj.
modo tale da fare ipotizzare il loro posizionamento originario su un’esedra semicircolare, con la madre posta al centro ed Eteocle e Polinice alle due estremità, mentre gli spazi intermedi sono occupati da una figura maschile barbata, colta nell’atto di accostare al mento il pugno chiuso, e da una giovane donna stante, facilmente interpretabile come Antigone, sorella dei due guerrieri (vedi l’immagine a p. 63, in basso). Valorizzando questo confronto, si può ipotizzare che i Bronzi di Riace fossero due statue del celeberrimo gruppo dei Fratricidi di Pitagora di Reggio.
La questione delle origini Le analisi archeometriche sulla terra di fusione dei Bronzi indicano Argo come luogo di produzione: ma perché Argo? Perché un mito tebano dovrebbe trovare spazio nell’Argolide? Sul versante delle leggende, non si deve dimenticare, in primo luogo, che la vicenda dei Sette a Tebe vide coinvolto il re di Argo, Adrasto, e che cinque degli eroi erano argivi, tutti tranne Polinice e Tideo. Ma c’è di piú: secondo una versione del mito, la partenza dei sette guerrieri da Argo fu funestata dalla morte
di Ofelte, chiamato anche Archemoro, figlio del re di Nemea, causata dalla disattenzione della balia Ipsipile, colpevole di aver lasciato incustodito l’infante per indicare una fonte di acqua dolce ai sette guerrieri assetati, che marciavano attraverso il bosco dove si trovava. Il figlio del re, indifeso, venne ucciso dal morso di un serpente, e Polinice non poté fare altro che indire giochi in onore del defunto Archemoro, dando inizio alle gare di Nemea, celebrate fino alla tarda antichità. Istituite in seguito alla morte di Archemoro, le Nemee vennero sempre considerate degli agoni funebri, talché gli agonisti indossavano vesti a lutto e il vincitore, oltre al tradizionale ramo di palma, riceveva anche una corona di apio, il selinon legato alla celebrazione dei funerali. Fin dal VI secolo a.C. la direzione degli agoni fu esercitata dalla città di Cleone, ma, dal 460 a.C. circa, essa passò ad Argo, almeno fino agli inizi del IV secolo a.C. La supremazia argiva viene spiegata dagli studiosi in relazione alla «prima guerra del Peloponneso» (460-445 a.C.), combattuta tra la Lega del Peloponneso, guidata da Sparta, in cui un ruolo preminente fu giocato da Tebe, contro la Lega di Delo, guidata
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da Atene, con il supporto di Argo. Una alleanza tra Ioni e Dori poteva sembrare sorprendente, ma il mito forniva un precedente ab antiquo proprio nella vicenda dei Sette a Tebe: dopo la sconfitta degli Argivi, solo l’intervento di Teseo, re degli Ateniesi, permise la degna sepoltura dei caduti. Di fatto, verso la metà del V secolo a.C. si era venuta a creare una situazione di alleanze militari che vedeva Argo e Atene contro Tebe, come all’epoca del mito dei figli di Edipo. In questa temperie culturale, il gruppo dei Fratricidi commissionato a un celebre bronzista, quale certo era Pitagora Reggino, trova la sua giusta collocazione storica, nonché una congrua giustificazione politica. Tornando alla sistemazione delle statue a Roma, vi è da dire che la presenza nell’Urbe di questo gruppo durante l’età imperiale è confermata dalla preziosa testimonianza del retore cristiano Taziano il Siro, che cosí rimprovera i pagani: «Come non è difficile (credere) che teniate in onore il fratricidio, voi che, vedendo le figure di Polinice e di Eteocle, non le ponete in una fossa insieme al loro autore Pitagora, cancellando il ricordo di tale delitto!». La fonte dice espressamente A sinistra quadretto ad affresco raffigurante il mito di Archemoro, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso elaborazione grafica del gruppo dei Fratricidi cosí come rappresentato sul sarcofago di Villa Doria Pamphilj: in viola e giallo, Eteocle e Polinice.
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«vedendo», confermando la reale presenza del gruppo statuario a Roma, dove Taziano scrisse il suo Discorso ai Greci, prima di tornare in Siria nel 172 d.C.
L’indizio decisivo A nostro avviso, però, la «prova regina» che i Bronzi di Riace si trovassero a Roma è data dalla Tebaide di Publio Papinio Stazio, poeta epico dell’epoca di Domiziano, che, nell’XI libro del poema, descrive il tentativo di Giocasta di fermare il duello dei figli, recandosi di persona sul luogo dello scontro. La descrizione della madre in pena si trova nei versi 315-320: «Ma appena la genitrice ebbe, fuori di sé, con terrore la notizia della sorte funesta, e non tardò a credervi, andava scompigliata nei capelli e nel volto, e nuda nel petto coperto di graffi, immemore di essere una donna e della sua dignità»; come si vede, la descrizione si
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Sulle due pagine ricostruzione della possibile collocazione del gruppo dei Fratricidi su un’esedra semicircolare, con i Bronzi di Riace, alias Eteocle e Polinice, alle estremità della composizione.
attaglia perfettamente alla madre, raffigurata in tal guisa nelle immagini del gruppo statuario, nei sarcofagi e nelle urne cinerarie. Di piú, quando i due fratelli si incontrano, Stazio dimostra di conoscere bene i Bronzi di Riace, poiché, ai versi 396-399, cosí descrive Polinice: «Cosí guardando in modo ostile il fratello; infatti brucia nel profondo del cuore per gli innumerevoli compagni, per l’elmo regale, per il cavallo coperto di porpora e per lo scudo che manda bagliori per il fulvo metallo»; in questi versi, non solo il poeta descrive con esattezza il volto del Bronzo A (hostile tuens fratrem), ma spiega la sua ostilità per la visione dell’elmo del re (regia cassia) sul capo del fratello, oltre che per gli altri segni del potere regale. Regia cassia: l’unico elmo del re che conosciamo nel mondo antico è la combinazione tra elmo corinzio e cuffia con paranuca a ricciolo che abbiamo riconosciuto sulla testa del Bronzo B.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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Per la comprensione del gruppo dei Fratricidi abbiamo la possibilità di poter usufruire della probabile fonte letteraria che ha ispirato il gruppo: alludiamo al Papiro di Lille, da quasi tutti i filologi classici ritenuto parte della Tebaide di Stesicoro di Metauro. Il testo pervenutoci è mutilo, anche se una prima parte appare leggibile: la madre, con la premessa costituita dalla profezia dell’indovino Tiresia, secondo cui, in caso di scontro, nessuno dei due fratelli sarebbe sopravvissuto, propone un sorteggio per appianare la questione, nel quale il vincitore avrebbe avuto la signoria su Tebe, mentre il soccombente sarebbe stato padrone degli armenti, ma, in cambio, avrebbe rinunciato a qualunque pretesa sul trono della città e si sarebbe allontanato in un esilio volontario e definitivo. La parte del papiro facilmente leggibile si chiude con le parole: «I due furono d’accordo». Per parte nostra, abbiamo tentato di legare tra loro i frustuli rimasti, dando loro una coerenza
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logica, e provando a comprendere il senso dei discorsi. Dopo l’accordo fra i fratelli, nel testo prende la parola Tiresia, che ritiene inconcepibile che Polinice possa prendere parte al sorteggio, perché ha portato la guerra contro la sua stessa patria. «Prenditi gli armenti e va’ via», dice Tiresia, facendo allusione al fatto che Polinice sarebbe diventato re di Argo; altre asserzioni smozzicate fanno riferimento alla grande paura che attanaglia la città, e dicono apertamente che l’incontro sta avvenendo davanti alle mura di Tebe. L’ultima frase rimasta fa riferimento a Polinice, che si sarebbe adirato, ascoltando le parole dell’indovino (!). Seguendo questo episodio del mito illustrato dal Papiro di Lille, il momento da rappresentare, scelto da Pitagora per il gruppo scultoreo dei Fratricidi, è quello della madre che offre la soluzione del sorteggio, avendo al suo fianco Tiresia, che poi sarà artefice del fallimento della proposta, e la figlia Antigone, protesa nello sforzo di calmare Polinice (vedi le immagini alle
Sulle due pagine particolari dei modelli delle statue realizzati dall’équipe giapponese di Koichi Hada sui quali sono state effettuate prove di colorazione mirate a restituire il verosimile aspetto originario dei Bronzi.
pp. 64-65). Ai lati dell’immaginario palcoscenico abbiamo i due fratelli, che sono stati ritratti in una posa quasi identica, ma che portano, dipinti sui volti, atteggiamenti completamente diversi: Eteocle, che reca sulla testa la cuffia con paranuca tipica del tiranno, vero oggetto del contendere dell’intera vicenda, appare con lo sguardo rivolto verso il basso, con un’espressione mista di consapevolezza della propria colpa e di accettazione del fato incombente; Polinice, invece, colmo di hybris, appare sprezzante, con lo sguardo fisso sul suo nemico e fratello, con una espressione di aggressività, che non si riscontra soltanto nella bocca che mostra i denti in segno di ostilità, ma anche negli occhi, in cui non si legge alcuna possibilità di perdono e di pietà.
Il colore delle statue Le fonti letterarie possono offrire un contributo decisivo sulla colorazione originaria dei Bronzi. In questa opera siamo stati agevolati dal
progredire delle ricerche e dai nuovi dati provenienti dall’équipe giapponese, guidata dal professor Koichi Hada, che hanno imposto un ulteriore supplemento di indagine sulla colorazione originaria dei Bronzi, che ha seguito l’approfondimento delle fonti antiche sul modo di proteggere e colorare le statue in bronzo. Gli studi sul colore originario delle statue antiche sono ancora all’inizio, ma, relativamente ai Bronzi di Riace, ci siamo potuti avvalere della sperimentazione su campioni di bronzo che hanno la medesima percentuale di rame e stagno delle due statue: le percentuali sono state ricavate dagli studi di Edilberto Formigli, ripresi in modo sperimentale da Koichi Hada e dall’artista giapponese Takashi Matsumoto, che hanno portato alla realizzazione di modelli, mediante antiche tecniche di esecuzione, simili a quelle del mondo greco. Il risultato di queste prove mostra una colorazione dorata del bronzo, grazie a una percentuale di stagno di gran
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A sinistra le differenti tonalità che il bronzo può assumere in funzione delle diverse percentuali di stagno utilizzate nella lega. Nella pagina accanto elaborazione grafica del possibile aspetto dei Bronzi di Riace che, come quelli detti «di Corinto», sarebbero stati caratterizzati dal colore nero lucido.
lunga maggiore a quella normalmente utilizzata (vedi l’immagine in alto). Questa lega inusuale, peraltro molto piú cara a causa del prezzo elevato dello stagno, ha come inconveniente una maggiore debolezza del bronzo risultante, che viene, però, controbilanciata dalla splendida colorazione dorata. La policromia dei Bronzi è, del resto, assolutamente certa, come è dimostrato dalle labbra e dai capezzoli, resi rossi dall’uso del rame, oltre che dagli occhi in calcite e pasta vitrea, dalla piccola pietra rosa per riprodurre la caruncola lacrimale e, nel caso del Bronzo A, dai denti bianchi in argento. La colorazione
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dorata del bronzo, allora, sembra essere stata scelta perché i due eroi erano immaginati con i capelli e le barbe bionde, come nella quasi totalità dei reperti che hanno conservato tracce del colore originario. Per quanto riguarda il colore della pelle, grazie a prove empiriche sperimentali, realizzate dall’artigiano Domenico Colella utilizzando il «fegato di zolfo» – una miscela di solfuro di potassio e di polisolfuro di potassio ancora oggi utilizzato per brunire il bronzo –, si possono presentare i Guerrieri da Riace con un colore abbronzato non molto scuro (vedi le immagini alle pp. 66-67), confortati dalla
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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patina di zolfo presente su quasi tutto il corpo e il volto dei Bronzi, rilevata dalle analisi di Giovanni Bucculieri. Sempre a proposito del colore delle due statue, va osservato che Koichi Hada aveva notato consistenti tracce di uno strato di nero lucido. L’idea, molto persuasiva, è che si sia trattato di un metodo utilizzato a Roma dopo il restauro di età imperiale delle due statue, dando loro l’aspetto dei «bronzi di Corinto», caratteristici per la loro colorazione nero lucida (vedi l’immagine a p. 69). Non va dimenticato, infatti, che il braccio destro e l’avambraccio sinistro di B sono stati realizzati in epoca romana: come intuito da Massimo Vidale, questa operazione
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ha utilizzato un calco delle membra originarie. Un’ultima notazione va fatta sulle percentuali di stagno presenti nei vari riccioli dei capelli e della barba della statua A, fusi a parte e saldati uno per uno, con variazioni che vanno dal 4 al 7% di stagno, che può essere spiegata con la volontà di variare cromaticamente i circa venti elementi realizzati a parte, con un colore che si mostra tanto piú tendente al rosso, quanto meno stagno è stato impiegato nella lega. Prove empiriche hanno dimostrato anche come i Bronzi vadano ammirati sotto una potente luce, dell’intensità pari a quella solare, per poter apprezzare i giochi di ombre, soprattutto nella barba e nei capelli di A. Esperimenti condotti
Sulle due pagine la spiaggia di Porto Forticchio, a Riace, di fronte alla quale, il 16 agosto del 1972, Stefano Mariottini scoprí i Bronzi.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
con luce soffusa si sono dimostrati nocivi per la fruizione dei due capolavori.
Il naufragio L’archeometria ci ha permesso di seguire la storia dei Bronzi dalla loro realizzazione ad Argo, nel Peloponneso, fino al loro trasporto a Roma, al loro restauro e alla lunga esposizione al pubblico romano. Al volgere del IV secolo d.C., però, i Bronzi sembrano sparire dall’immaginario romano, sprofondando in un oblio che terminerà solo il 16 agosto del 1972, quando furono segnalati sul fondo marino in un’area prospiciente o vicina a Porto Forticchio, nel comune di Riace, in Calabria.
La datazione della parete anforacea, trovata tra il polso destro e l’anca destra del Bronzo A, databile nella prima metà del IV secolo d.C., ci permette di formulare un’ipotesi, collegata con il II libro dell’Anthologia Palatina, composto da Cristodoro di Copto nel VI secolo, che riporta la descrizione delle statue del ginnasio pubblico di Costantinopoli, detto di Zeuxippos, trasportate da Roma antica alla Nuova Roma da Costantino il Grande e da suo figlio Costanzo II. La nostra impressione è che il gruppo dei Fratricidi, insieme a tante altre statue di proprietà dell’imperatore che si trovavano a Roma, furono imbarcate per essere condotte via mare fino a Costantinopoli, salvo incidenti...
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ARGO
NELLA CITTÀ DEI BRONZISTI Ad Argo, una delle polis piú importanti della Grecia, operavano botteghe nelle quali si realizzavano magnifiche statue. E l’analisi della terra di fusione di una delle sculture ha rivelato inaspettati legami con i guerrieri di Riace, facendo luce sulle loro origini di Christos G. Piteros
A
rgo, città senza tempo, una delle piú forti della Grecia antica, sorse e si sviluppò su due colline: una, Larissa, occupata fin dall’età micenea, e l’altra, piú in basso, sede dell’oracolo di Deiras.
L’abitato si trovava a ovest della fertile pianura argolica, che Omero, nell’Iliade, definí «mammella della terra» appunto per la sua feracità. La polis si trova nel Peloponneso, incastonata tra Micene, Tirinto, Epidauro e
Golfo di Corinto
ATTICA
ATENE Corinto Pireo
Canale di Corinto
Salamina
Golfo Saronico
Agistri Micene
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Argo Tirinto
Epidauro
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A sinistra cartina dell’Argolide e dell’Attica che mostra la posizione di Argo rispetto ad alcune delle piú importanti città dell’antica Grecia.
Poros Trezene
Golfo Argolico
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In alto la statua rinvenuta ad Argo, nella bottega di un bronzista, subito dopo il suo ritrovamento.
Sparta, ed è stata una delle piú rilevanti protagoniste delle vicende storiche che interessarono la regione dall’epoca micenea in poi. Con la sua conformazione naturale unica a forma di anfiteatro circondato da alte montagne, ma anche con le basse colline che ospitarono le cittadelle micenee e i santuari, la vallata dell’Argolide ha una superficie totale di 240 kmq. La valle era bagnata e resa fertile dal mitico Inaco e dal Caradro, che circonda la città a nord e a est, e le cui acque rendevano il sito adatto all’insediamento umano.
Durante il Medio Elladico (1900-1750 a.C.), Argo fu il centro principale dell’Argolide, il luogo dal quale provenivano le eroiche tribú micenee in cui fu suddiviso il regno del leggendario quindicesimo re della città, Abante: Acrisio, suo figlio, governò Argo, Preto, fratello gemello di Acrisio, fortificò Tirinto con le mura ciclopiche e Perseo, nipote dei due, fortificò Micene, capitale micenea al tempo degli Atridi, quando Agamennone era il capo incontrastato degli Achei nella guerra di Troia. In età storica, il sovrano argivo succedette a
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ARGO
Il settore meridionale della bottega di bronzista riportata alla luce nel corso degli scavi.
quello di Micene e annetté gradualmente al suo regno gli altri centri dell’Argolide, che furono riuniti sotto un’anfizionia religiosa collegata all’Heraion di Argo, santuario della dea Hera, protettrice della polis, posto al centro della pianura argolica sotto il monte Eubea, dove pascolavano indisturbate le vacche sacre. Al tempo di Omero, i nomi Argo e Argivo designavano indistintamente tutti i Greci della guerra di Troia. Tuttavia, oltre a essere una cittàstato potente, Argo è stato un importante centro artistico fin dall’epoca geometrica e poi in quella arcaica. La città divenne una delle culle della scultura greca antica, grazie ad Agelada, che fu maestro di Fidia e Policleto e che, prendendo a modello la natura, riprodusse in modo mirabile il corpo umano, plasmando statue di bronzo che possedevano uno stile destinato ad affrmarsi come il linguaggio artistico comune dell’antica arte greca.
Un legame significativo A cinquant’anni dalla scoperta dei guerrieri di Riace, che esaltano il plasticismo dell’arte argiva di Agelada e Policleto, un ritrovamento di assoluto rilievo è all’origine di questo
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contributo che si ricollega alla storia di Argo. Nel 1991, dunque a poco meno di vent’anni dal ritrovamento dei Bronzi di Riace, in un terreno a sud-est della Argo moderna, a 130 m dal tracciato delle mura urbiche – ma all’esterno dell’area abitata in antico –, lo scavo condotto in un terreno privato ha portato al rinvenimento di un’area destinata alla produzione di statue in bronzo, che è stata attiva in epoca ellenistica e poi in età romana. Il laboratorio è costituito da uno spazio rettangolare, dalle dimensioni interne di 5 x 5,50 m, con ingresso principale a sud durante la prima fase ellenistica. Lo spazio era suddiviso in due vani, ciascuno dei quali misura 1,5 x 4,75 m. Nell’angolo orientale è stata rinvenuta sul pavimento una vasca di forma ellissoidale, dalle dimensioni di 1 x 0,65 m, realizzata in gesso, che è stata utilizzata per la lavorazione dell’anima in argilla (la cosiddetta terra di fusione) su cui veniva stesa la cera d’api per fondere le statue in bronzo secondo il metodo della «cera persa». A causa della limitata estensione dell’area indagata, non è stato possibile individuare il forno per la fusione del bronzo. In uno strato inferiore della struttura, sotto la
la statua dal punto di vista iconografico, si rileva che l’himation appare piegato nella parte destra sotto il braccio, lasciando scoperta la parte destra della spalla, mentre, a sinistra, l’orlo della veste scende dalla spalla verso il basso, con le caratteristiche pieghe scanalate.
Planimetria della bottega di bronzista.
Di poco piú grande del vero
parete ovest, è stata ritrovata la parte piú bassa di una fornace circolare, avente un diametro di 0,50 m, databile alla prima età classica e apparentemente appartenente a un’altra e piú antica bottega di bronzisti che occupava il medesimo spazio. A sud dell’officina è stato rinvenuto un muro obliquo, che corrisponde al tracciato di un’antica strada. A sud-est dell’officina, accanto a un deposito circolare, è venuto alla luce un pozzo di epoca bizantina, del diametro 1,20 m. A meno di mezzo metro da questo pozzo, a est dello stesso, è stata rinvenuta una statua in bronzo che ritrae un uomo anziano vestito con un himation. La scultura giaceva in una fossa a una profondità di 1,20-2,10 m, con il tronco, che si conserva in frammenti, orientato verso nord. Della statua è parzialmente conservato il corpo principale, ovvero il tronco dalla spalla alla coscia della veste, lungo 1,65 m, per una larghezza di 0,90 m. La parte anteriore del corpo e il fianco destro non si sono conservati, salvo una piccola porzione del braccio (lunga 33 cm) e della spalla destra. Lo spessore medio del bronzo è di 4-5 mm, che salgono a 9-10 mm nelle parti delle pieghe della veste. Analizzando
Quanto alle proporzioni, il ritratto risulta di dimensioni leggermente maggiori del vero. La scultura segue l’impostazione classica, con il peso sostenuto alla gamba sinistra, mentre la destra si presenta leggermente spostata rispetto all’asse del corpo. Alcuni particolari aggiunti dopo la fusione provano che la statua era stata ultimata e che doveva essere perciò stata esposta all’aperto in un luogo pubblico, ovvero all’interno di un edificio. In seguito, in epoca romana, dovette verosimilmente danneggiarsi e fu quindi trasportata all’esterno dell’officina e collocata in una fossa, come testimoniano le ceramiche d’età romana raccolte in situ. Sembra altamente probabile che la testa con il collo, le braccia, gli arti inferiori e la parte anteriore della veste siano stati rifusi per realizzare altre opere all’interno della bottega. Tutto intorno alla statua, durante le ricerche archeologiche, è stato infatti raccolto un gran numero di piccoli frammenti in bronzo, tutti appartenenti al medesimo reperto. Nel corso trasferimento al Museo Archeologico di Argo, la statua, che presentava evidenti incrinature, è stata divisa in tre parti: la parte superiore del tronco, con il lato superstite destro (che misura 0,98 x 0,60 x 0,25 m); la porzione sinistra superstite del fianco destro con le pieghe verticali (le cui dimensioni sono pari a 1,19 x 0,30 x 0,25 m); la parte inferiore triangolare posteriore dell’himation (0,91 x 0,46 x 0,15 m). Al momento del rinvenimento, il bronzo presentava ancora al suo interno tutta la terra di fusione, con la griglia metallica posta per sostenerla, consistente in due barre di sezione quadrata, di circa 1,5 cm di lato, poste in corrispondenza delle gambe della statua. Nella parte superiore del tronco la griglia è
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ARGO
unita a un’asta. Come nel caso dei Bronzi di Riace, che presentavano i medesimi accorgimenti tecnici, la terra di fusione e le sbarre metalliche venivano conservate al loro posto anche dopo la realizzazione della statua in bronzo, per conferire una maggiore stabilità al manufatto montato sulla sua base. Si tratta dunque di un raro caso di conservazione in buono stato del modello interno, grazie al quale si possono ottenere importanti dettagli relativi alla tecnica di realizzazione delle statue in bronzo, con la tecnica della «cera persa», probabilmente con il metodo di lavorazione «diretto». Dopo il completamento delle analisi principali, prenderanno il via il restauro e lo studio sistematico della statua, da cui si attendono interessanti novità sulla statuaria in bronzo di epoca classica. È interessante segnalare che nella parte principale superiore del tronco della statua si conservano chiare tracce della costruzione del modello in argilla mediante
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strati sovrapposti (mantelli), aventi uno spessore compreso tra 1,2 e 3,5 cm. Un campione di questo modello in creta del Museo di Argo fu prelevato da Massimo Vidale per conto dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, nell’ambito delle ricerche di laboratorio sulle statue di Riace. Le analisi delle argille dei Bronzi hanno evidenziato la provenienza argiva delle terre di fusione e la relazione con Argo si è subito imposta come un elemento di particolare interesse scientifico.
Un uso prolungato nel tempo Riguardo alla storia del sito indagato, si può affermare che il laboratorio artigianale per la costruzione di statue in bronzo dovette essere in uso già in epoca protogeometrica, per poi proseguire la sua attività in età geometrica e in epoca arcaica, periodo, quest’ultimo, al quale appartiene un raro reperto di trabeazione trovato nel corso degli scavi. Dopo l’età ellenistica e romana, l’area fu frequentata
Sulle due pagine altre immagini della statua in bronzo, subito dopo il ritrovamento e la prima pulitura. La scultura ritrae un uomo vestito di un himation e, come si può vedere, se ne è conservata soltanto parte del tronco.
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ancora in epoca bizantina, quando i resti della bottega furono danneggiati dallo scavo del già citato pozzo a una distanza di soli 40 cm dal muro del laboratorio: solo per un caso la statua fu risparmiata da danni in questo periodo. Analizzando la storia degli scavi condotti in aree private di Argo, è apparso chiaro che le officine di statue di bronzo si trovavano fuori le mura a sud-est e a sud della cinta muraria antica. La scoperta del laboratorio ci ha permesso di avere un collegamento diretto con la tecnica di documentare la tecnica di realizzazione delle statue in bronzo della grande scuola della plastica di Argo, che, come detto, annoverò Agelada, Policleto e molti altri grandi bronzisti. La magica lega di rame e stagno, il bronzo cosí caro ai Greci, cattura e anima il corpo umano meglio del marmo, permettendo un maggior numero di particolari e di giochi di ombre e luci. E il suono grave che una statua di bronzo emette ancora oggi quando la si picchietta leggermente con il palmo e, secondo l’antica terminologia greca, «trema», ci avvicina agli antichi bronzisti.
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«NEL MARE DEGLI ANTICHI»
FILMARE LA STORIA A dieci anni dalla scoperta, l’avventura cominciata nelle acque di Riace fu rievocata e fedelmente ricostruita a beneficio delle cineprese. Ne scaturí un documentario suggestivo, per il quale furono anche realizzate due repliche perfette delle statue originali di Pippo Cappellano
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iviamo in un Paese ricco di cultura e di storia e, per chi va sott’acqua, i siti archeologici sommersi sono moltissimi e famosi in tutto il mondo. C’è ancora cosí tanto da riportare alla luce da far venir voglia di inseguire il sogno di ogni archeologo: ritrovare un sito, un relitto, un pezzo del nostro passato non ancora inquinato da mani bandite, mani che possono stravolgere la possibilità di ricostruire la storia o addirittura cancellarla per sempre. Per chi come noi, che raccontiamo per immagini quanto riportato alla luce dal meticoloso lavoro degli archeologi, una scoperta rappresenta un film ancora non scritto su cui puntare l’obiettivo della nostra telecamera. Quando si racconta l’archeologia, subacquea in particolare, attraverso la cinematografia, il lavoro è particolarmente complesso: ci si trova davanti a oggetti statici, frammenti, spesso incomprensibili al grande pubblico televisivo, e allora spetta a noi trasformare le immagini in un linguaggio comprensibile a chiunque, ascoltando le testimonianze, verificando con gli storici la veridicità di quanto si ricostruisce e traducendo il tutto in qualcosa che catturi l’attenzione e aiuti a capire l’importanza del nostro passato. Nel 1981 mi sono trovato a dirigere per RAI UNO una serie di 7 puntate da 52’ dal titolo «Nel Mare degli Antichi». Si trattava di realizzare una carrellata sui cantieri in opera e su alcune scoperte che hanno segnato la storia complessa e travagliata delle rotte attorno al nostro stivale. Ho avuto al fianco
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due consulenti d’eccezione: Sabatino Moscati, che a quei tempi presiedeva l’Accademia dei Lincei, e Piero Alfredo Gianfrotta, archeologo subacqueo e professore all’Università della Tuscia.
Un compito impegnativo Quando in scaletta fu inserito l’argomento Riace, a dire il vero, ho vissuto un momento di smarrimento: immergerci nelle acque in cui è avvenuto il ritrovamento del secolo non era cosa da poco e ricostruirne la storia era una vera sfida. Stavamo parlando di due statue in bronzo considerate tra le testimonianze piú significative dell’arte greca classica. Il materiale raccolto raccontava una storia importante, ma il luogo del ritrovamento e la mancanza di altri reperti sollevavano qualche quesito e rendevano difficile una narrazione che a tratti si tingeva di giallo. Erano passati dieci anni da quel giorno e non avevamo materiale di repertorio che supportasse il ricordo di quegli eventi. Dopo lunghe riflessioni, decidemmo di ricostruire il ritrovamento sulla base della testimonianza di Stefano Mariottini, protagonista di quella storica giornata. Rimettere in acqua i bronzi era cosa impensabile, di stampanti 3D ancora non si parlava nemmeno, quindi non restava che affidarsi ai laboratori di Cinecittà per la ricostruzione in vetroresina di due copie identiche agli originali. Il risultato del lavoro di quelle maestranze fu perfetto. Guidati dalle parole di Stefano Mariottini, ci trovammo
La sequenza del documentario dedicato alla storia della scoperta dei Bronzi di Riace, diretto da Pippo Cappellano, nella quale viene ricostruito il recupero di una delle statue.
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DIVULGAZIONE
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Nella pagina accanto Pippo Cappellano fra le repliche delle due statue. A destra particolare della replica in vetroresina del Bronzo B, realizzata nei laboratori di Cinecittà.
anche noi a immergerci in quelle acque tornando indietro con emozione a Riace Marina in quella giornata del 1972. Il sole splendeva alto in un’ora non certo ideale per la pesca subacquea. Mariottini aveva comunque deciso di fare qualche giro lungo la costa non lontano dalla spiaggia e poi tornare a riva. Era in apnea, la profondità non superava gli 8 m, a ogni riemersione manteneva lo sguardo verso il basso. A un tratto scorse una macchia scura sulla sabbia, come un particolare che emergesse dal fondo e che, a uno sguardo piú attento, appariva come una spalla umana. Fu una questione di secondi, dapprima pensò si trattasse di un corpo, nel dubbio, scese di nuovo a toccare quanto affiorava dalla sabbia, aveva la consistenza del metallo e il colore faceva pensare al bronzo. Abbandonò il fucile e affondò le mani nella sabbia per saggiare la forma sepolta. Pian piano ricostruí al tatto una figura umana sdraiata sul fianco destro. Provò a scavare a mani nude tenendosi a quel
braccio che ormai affiorava per intero dalla sabbia. Tra un’apnea e l’altra, volse lo guardo d’attorno e si accorse che con il movimento delle pinne avevo scoperto qualcos’altro, a circa 2 m di distanza: un ginocchio e la punta di un alluce. Si rese conto allora trovarsi al cospetto di due statue, a grandezza naturale e apparentemente integre. Mentre filmavo queste scene mi trovai avvolto in un’atmosfera carica di emozione al solo pensiero di documentare, per quanto in una ricostruzione con copie, il momento in cui un pezzo del passato tornava alla luce dopo secoli. Infine avemmo l’onore di filmare le statue originali, all’Istituto di Restauro di Firenze. Nella penombra di una sala che emanava un odore di alcool e resine, distesi su due barelle, come in una sala di terapia intensiva, i due bronzi, che sapevano ancora di mare, si preparavano a uscire dall’oblio e tornare a essere un patrimonio pubblico. Per me e la troupe che ha lavorato al progetto sono stati momenti che non dimenticheremo mai.
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CAPITOLO
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NASCEMMO GUERRIERI... E NON MORIREMO PECORE Fin dalla prima esposizione pubblica, i Bronzi di Riace furono richiesti in tutto il mondo, ma, dichiarati intrasportabili, non hanno mai lasciato l’Italia. Di qui nacque l’idea di «clonarli», ma il progetto suscitò polemiche infuocate e non è mai divenuto realtà di Stefano Gennaro
Nella pagina accanto le repliche dei Bronzi di Riace nell’interpretazione proposta da Vinzenz Brinkmann. In basso la pecora Dolly, esito della clonazione realizzata nel 1996 in Scozia.
T
ra i momenti piú significativi della metà degli anni Novanta del Novecento, tra la fine della guerra in Iugoslavia (1995) e l’inizio della saga di Harry Potter (1997), il mondo fu scosso dalla notizia della nascita di una pecora. Nel luglio del 1996, gli scienziati scozzesi del Roslin Institute di Edimburgo annunciarono il successo di un esperimento a cui stavano lavorando con molte difficoltà e da tanto tempo: finalmente, dopo svariati tentativi, era venuta alla luce Dolly, il primo mammifero clonato della storia. La notizia fece il giro del mondo, rendendo la piccola pecora, il cui corpo impagliato è conservato ed esposto al museo di Edimburgo, l’animale piú famoso del mondo. Il successo della ricerca, assolutamente inatteso, aprí la strada a studi che nei decenni successivi valsero anche il Nobel per la medicina nel 2012 a Shinya Yamanaka per la ricerca sulle cellule staminali riprogrammate, ma destò anche polemiche e numerosi interrogativi di carattere bioetico, legati in primis all’eventuale possibilità di giungere alla clonazione di un essere umano. Ma se vi state chiedendo che cosa accomuni la pecora Dolly e i Bronzi di Riace sappiate che la risposta è molto facile: anche i Bronzi furono oggetto e soggetto di un criticatissimo progetto
di «clonazione». Proprio nell’anno successivo all’annuncio della clonazione della pecora Dolly, il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, rappresentato dalla Soprintendente della Calabria, Elena Lattanzi, firmò un’apposita convenzione con la Regione Calabria, rappresentata dal Presidente Giuseppe Nisticò. L’oggetto dell’accordo era proprio «la riproduzione di una copia in bronzo, in scala 1:1, dei Bronzi di Riace con l’impiego di tecnologia di rilevazione di altissimo livello, di comprovata innocuità per l’integrità degli originali, verificata e certificata dall’Istituto Centrale del Restauro». L’idea aveva una lunga
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genesi, dal momento che il presidente Nisticò aveva già annunciato due anni prima, nel 1996, che le due statue sarebbero state al centro di un progetto, definito «Bronzi di Riace nel mondo», legato alla lotta contro l’Aids. Dell’idea iniziale poi non se ne fece nulla, ma, con una delibera del dicembre 1997, la Giunta regionale si era impegnata a finanziare la clonazione dei Bronzi con un esborso di circa un miliardo delle vecchie lire; il denaro sarebbe servito per la creazione di copie delle statue e per la loro circolazione nel mondo per fini culturali e promozionali. Alle elezioni del 1999 Nisticò fu eletto al Parlamento europeo, e il suo successore alla guida della Calabria, il catanzarese Giuseppe Chiaravalloti, non chiuse in un cassetto l’idea e, anzi, anche su suggerimento dell’Assessore alla Cultura Saverio Zavettieri, nel 2002 approvò la convenzione stipulata nel 1998, dando formalmente avvio al progetto di riproduzione.
Questa clonazione non s’ha da fare Agli occhi di chi aveva dato avvio al progetto, la riproduzione di copie dei Bronzi di Riace avrebbe dovuto servire un duplice scopo; da un lato, infatti, avrebbe risolto definitivamente il problema delle ricorrenti richieste di prestito degli originali per esposizioni all’estero, sempre bloccate dalla Soprintendenza nonostante fosse stato desiderio del Presidente della Repubblica Sandro Pertini vedere i Bronzi alle Olimpiadi di Los Angeles 1984, le prime dopo la conclusione del grande restauro fiorentino; dall’altro avrebbe permesso l’acquisizione di nuova documentazione e di numerosi dati scientifici in grado di far compiere un deciso passo in avanti nella conoscenza delle statue. Quello che però nessuno aveva previsto era la forte opposizione che sarebbe nata per fermare l’iniziativa. Già nel gennaio 2003, non appena la notizia della riproduzione giunse agli organi di stampa, l’Associazione Amici del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria condannò l’iniziativa, lamentando lo sperpero di denaro pubblico a fronte di nessun serio investimento economico per il museo reggino.
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In basso et utem net laut quam La facient replica et della fugiae testa delofficae Bronzo A ruptatemqui nell’interpretazione conseque vite es di Vinzenz sae quis deris Brinkmann, rehenis aspiciur affiancata dall’elmo seque con disincte tipo corinzio che et qui lanusam statuafugit doveva in bernateindossare. laborest, ut origine ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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Iniziò cosí una vera e propria battaglia legale, politica e culturale che sarebbe durata per diversi anni. Negli stessi giorni sui quotidiani nazionali e locali apparí per la prima volta l’espressione «clonazione dei Bronzi», fino a quel momento assente nei documenti ufficiali. La pagina reggina del principale quotidiano locale, la Gazzetta del Sud, titolò «Li stanno clonando, la città è contro»; nell’articolo si leggeva che «dunque i due Bronzi dovrebbero trasformarsi in due commessi viaggiatori in giro per il mondo a pubblicizzare la nostra terra. Un’idea, francamente, difficile da accettare».
Un fronte compatto e stravagante L’ondata di dissenso coinvolse anche la politica reggina, naturalmente schierata contro la clonazione. L’allora sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti, pur provenendo dalla medesima area politica (ma da un altro partito) del presidente della Regione, si definí assolutamente contrario al progetto e altrettanto fecero anche politici di opposto schieramento. Cosí, all’interno di questo fronte abbastanza compatto e stravagante, che andava dall’amministrazione comunale di centro-destra, ai sindacati e agli esponenti di centro-sinistra della città fino alle numerose associazioni culturali, la clonazione dei Bronzi divenne il simbolo di una scelta politica ben precisa, che mirava ad affossare sempre piú la città di Reggio. L’opposizione nasceva sia da una visione romantica dell’arte (le repliche non trasmetteranno mai le stesse emozioni degli originali), sia dal timore che l’esposizione dei cloni avrebbe fortemente limitato il flusso turistico verso il Museo Nazionale. La mancata realizzazione della terza corsia nel tratto reggino dell’Autostrada A3, il malfunzionamento dell’aeroporto cittadino costituivano le prove evidenti di un complotto contro la città, a cui si voleva fare l’ultimo torto privandola dell’unicità dei Bronzi. Arrivò quindi un no bipartisan, che riuscí a cancellare il finanziamento regionale grazie a un
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Sulle due pagine altre immagini delle repliche dei Bronzi di Riace nell’interpretazione proposta da Vinzenz Brinkmann.
emendamento presentato alla regione da un consigliere dei Comunisti Italiani e all’appoggio di una maggioranza trasversale. Inoltre, era già nato un comitato di difesa dell’identità dei Bronzi («Comitato contro il trasferimento e la clonazione dei Bronzi»), e fu impugnata davanti al TAR la prima delibera regionale che aveva dato avvio al progetto di clonazione.
Democrazia partecipata Nei mesi successivi l’irrigidimento delle due posizioni portò a violenti scontri verbali; se il presidente catanzarese Chiaravalloti lamentava il campanilismo e la permalosità dei Calabresi, l’agguerrito fronte del «NO» non soltanto fece presentare un’interrogazione parlamentare, ma organizzò un referendum popolare grazie all’attivismo dei sindacati, CIGL e CISL su tutti. Nonostante l’afa estiva di fine giugno, furono oltre 30 000 i Reggini che, dai quindici anni in su, affollarono i seggi allestiti per una settimana in ben quindici circoscrizioni per rispondere alla semplicissima domanda: «Siete favorevoli alla riproduzione dei Bronzi di Riace?».
Un referendum consultivo, probabilmente un originale laboratorio di democrazia partecipata e diretta in cui, va sottolineato, soltanto 186 persone votarono per il «SI». Due settimane dopo, il fronte del «NO» collezionò, grazie al pronunciamento del TAR, quello che sembrò essere il punto decisivo. Il tribunale reggino, infatti, annullò sia per questioni squisitamente procedurali, sia da un punto di vista sostanziale la delibera regionale. L’operazione, considerata dai giudici una «vera e propria clonazione», non rientrava nell’ambito delle attività connesse alla tutela, ma tra quelle connesse alla valorizzazione. Il progetto, secondo il TAR, era lesivo degli interessi, in primo luogo turistici, della comunità reggina con cui, tra l’altro, la Regione Calabria non aveva avviato alcuna forma di coordinamento. In realtà, quello che sembrava essere un successo fondamentale si rivelò una vittoria di Pirro, perché la sentenza fu ribaltata dal Consiglio di Stato, presso il quale il Ministero aveva presentato appello. Al contrario di quanto riteneva il TAR, secondo i giudizi del supremo organo di giustizia
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amministrativa l’iniziativa rientrava a pieno titolo nell’ambito delle attività di tutela, come per altro sottolineato anche da alcune lettere dell’Istituto Centrale per il Restauro. Non c’era, quindi, «alcuna «clonazione di opera d’arte, ma solo un’attività di tutela che lo Stato, in qualità di proprietario del bene, ha legittimamente posto in essere avvalendosi della collaborazione della Regione Calabria» (dalla sentenza del Consiglio di Stato, 2004). Nonostante la vittoria della linea ministeriale, vale la pena ricordare come l’allora ministro dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, sostenitore del progetto di clonazione, ricorse a una delle piú efficaci formule assolutorie impiegate in politica e non solo («a mia insaputa»), dichiarando di non essere a conoscenza del ricorso, poi rivelatosi vittorioso, presentato dal suo Ministero. Contestualmente, fece presente la necessità di avere piú tempo a disposizione per valutare l’idea, sostenuta da molti, della partenza dei Bronzi per le Olimpiadi di Atene. A onor di cronaca, va annotato che Urbani, per non scontentare nessuno, propose che un Bronzo partisse (quale dei due?) e l’altro rimanesse a Reggio.
La fine del progetto Per quanto paradossale possa sembrare, la vittoria del «SI» alla clonazione con la sentenza del Consiglio di Stato decretò, in realtà, la fine del progetto cosí concepito quasi un decennio prima. La politica sembrò voler dimenticare e archiviare la vicenda della clonazione, complice anche la nomina del nuovo ministro dei Beni Culturali, Rocco Buttiglione. Bastò, però, nel 2005 l’invio per una mostra a Catanzaro del celebre kouros, la statua in marmo esposta proprio nella sala che precede quella dei Bronzi, per far ripiombare la città nella paura di dover subire l’ennesimo furto culturale. Evitando ogni clamore, quasi 10 anni piú tardi, tra il 2013 e 2016, fu finanziata dalla Fondazione Prada e con il sostegno del Ministero e della Soprintendenza la riproduzione a grandezza naturale di 3 copie: prima la testa del Bronzo A, poi l’intera figura e infine l’altra statua.
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A portare a termine l’impresa è stato il professore Vinzenz Brinkmann, tra i massimi studiosi di policromia del mondo antico. Sfruttando uno scanner 3D ad altissima risoluzione, utilizzato dal professor Lorenzo Campana, furono stampate repliche in bronzo sulle quali fu poi applicata una patina che potesse ricreare la policromia originaria perduta. In questo caso, non ci troviamo di fronte a un processo di clonazione, perché le statue hanno copricapi e armi plasmati secondo l’ipotesi ricostruttiva formulata dallo stesso Brinkmann.
Un successo planetario Al di là della fondatezza dell’identificazione proposta, le opere hanno sicuramente catturato e catalizzato l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori; il Bronzo A è stato esposto in occasione della mostra che ha inaugurato gli spazi della nuova Fondazione Prada a Milano nel 2015. In seguito, entrambe le ricostruzioni sono state valorizzate, diventando gli oggetti piú richiesti in numerose mostre internazionali svoltesi soprattutto in Germania, negli Stati Uniti e anche in Italia (una). Il successo internazionale delle statue di Brinkmann chiarisce bene quali potenzialità divulgative abbiano le copie delle opere d’arte. D’altronde, a ogni nuova manifestazione internazionale, si è sempre ripresentato lo spauracchio della partenza dei Bronzi originali per renderli ambasciatori della bellezza italiana e moltiplicatori del turismo italiano; cosí doveva essere per diverse edizioni delle Olimpiadi, per il G8 de La Maddalena o per l’Expo 2015 a Milano. Con una saggia decisione e per evitare cicliche polemiche numerologiche legate a paragoni azzardati tra flussi di visitatori di luoghi diversi d’Italia o del mondo, il ministro Franceschini decise pochi anni fa di istituire una commissione tecnica per valutare la «trasportabilità» dei Bronzi. Gli esperti si riunirono e al termine dei lavori il parere fu negativo, non potendo escludere «un pregiudizio alcuno per la loro integrità e conservazione». Statue troppo fragili, rischi
Nella pagina accanto Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, olio su tavola di Raffaello. 1518. Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina ed Appartamenti Reali.
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troppo alti e, nonostante le accuse di un verdetto politico, capitolo per sempre chiuso.
Un ritratto e la sua copia Racconta Giorgio Vasari che il duca di Mantova Federico II si innamorò di un’opera di Raffaello, il Ritratto di Leone X con Giuliano de’ Medici e Luigi de’ Rossi, al punto da chiederlo in dono a papa Clemente VII. Ottaviano de’ Medici, però, non volendo cedere la preziosa opera architettò uno stratagemma e chiese al pittore Andrea del Sarto di realizzarne una copia perfetta. Cosí al duca di Mantova fu consegnato il quadro, ritenuto un originale e lodato perfino da uno dei discepoli di Raffaello, Giulio Romano. Sarebbe stato soltanto Vasari, recatosi a Mantova, a rivelare che l’opera non era un originale ma soltanto una copia, peraltro assai apprezzata dal Duca anche dopo la rivelazione. L’aneddoto è soltanto uno dei tanti che si possono citare a proposito del rapporto tra originale e copia/clone. Si tratta di un tema in cui si intrecciano riflessioni estetiche, filosofiche ed economiche e che affonda le sue radici già nell’arte antica, dove le copie erano viste sicuramente con molto meno sospetto rispetto ai nostri tempi. Basti pensare alla quantità di copie che, raggiungendo ogni città dell’impero romano, contribuiva a veicolare le idee e i valori della propaganda ufficiale. Senza questa vastissima produzione la nostra conoscenza della statuaria greca si limiterebbe ai pochissimi originali giunti a noi. Quasi 90 anni dopo il celebre saggio di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, il progresso tecnologico ha reso possibile la creazione di repliche talmente simili agli originali da risultare difficili da distinguere anche agli occhi allenati di critici d’arte e specialisti. Non si contano davvero piú le riproduzioni di opere d’arte, principalmente statue ma anche dipinti o addirittura complessi monumentali come una grotta paleolitica francese, che catturano l’attenzione di turisti e visitatori. Oltre mezzo milione di persone ha recentemente visitato a Città del Messico «Una muestra imposible», dove erano riunite
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sole le copie delle opere di Leonardo, Caravaggio e Raffaello. Dalla copia del gruppo in bronzo dorato raffigurante l’imperatore Marco Aurelio a cavallo collocata sulla piazza del Campidoglio dal 1997 fino al clone del David inviato a Dubai nel 2021 per rappresentare l’Italia all’Expo, sono trascorsi oltre 20 anni. In questo arco cronologico è nata una diversa percezione delle opere d’arte antiche e delle loro riproduzioni.
Nessun rischio di confusione Questo non sembra valere, però, per Reggio Calabria e per i suoi Bronzi, come testimonia la perplessità con cui la comunità reggina ha accolto l’esposizione al Metropolitan di New York delle copie in bronzo create da Brinkmann per la mostra «Chroma: Ancient Sculpture in Color»; da segnalare come il Ministero, per celebrare l’importante anniversario, abbia scelto di esporre a Roma, per circa una settimana, anche la riproduzione della testa del Bronzo A. Eppure, trattandosi di copie interpretate e caratterizzate anche da vivaci effetti policromi, nessun visitatore le scambierebbe per gli originali, saziando cosí il desiderio di vedere i «veri Bronzi» a Reggio Calabria. Al netto di un campanilismo piú o meno latente, di rivendicazioni politiche, di promesse tradite e di evidenti e conclamate situazioni paradossali, il rapporto quasi religioso, a metà tra il taumaturgico e il teosofico, che lega i Bronzi alla città che ha il dono di custodirli è assolutamente unico. Si ha l’impressione che la comunità reggina sia
Il santuario dei Ss. Cosma e Damiano a Riace.
Un’immagine della festa durante la quale Riace rende omaggio a Cosma e Damiano, santi medici.
convinta che i Bronzi proteggano la città e che, qualora dovessero partire per una mostra all’estero, la città possa essere inghiottita dalle pericolose acque dello Stretto. Una situazione che ricorda, con le dovute proporzioni, la famosa profezia fatta dal monaco benedettino Beda nell’VIII secolo d.C. che lega la distruzione del Colosseo e di Roma alla consequenziale inevitabile fine del mondo.
Un’ipotesi suggestiva Non deve sorprendere, in quest’ottica, che proprio mescolando tradizioni religiose e considerazioni di natura archeologica, il professor Giuseppe Roma avesse proposto per i due guerrieri l’identificazione con Castore e Polluce, di cui Cosma e Damiano, i protettori del comune di Riace, sarebbero il corrispettivo cristiano. Non un naufragio ma un seppellimento rituale avvenuto sarebbe stato alla base del rinvenimento fortuito di cinquant’anni fa e che si ricollega proprio ai luoghi in cui si svolge la processione marina dei due santi medici. Sebbene i due guerrieri siano difficilmente collegabili alla polis calcidese di Rhegion – al massimo un legame si può trovare nell’ipotesi che siano l’opera dello sculture Pitagora di Reggio – e che esse siano state trovate a oltre 100 km di distanza dalla città, i due Bronzi si sono, quasi immediatamente, trasformati nell’emblema del riscatto di una comunità tante volte offesa e che adesso ha voglia di essere conosciuta in tutto il mondo per i suoi lati migliori. È evidente che Reggio, da ormai 50
anni, costituisca per molteplici aspetti un caso eccezionale e peculiare di archeologia pubblica ante litteram. I temi che riguardano i Bronzi hanno prodotto e continuano a produrre ancora oggi un coinvolgimento e una partecipazione che vanno oltre la piccola cerchia degli specialisti del settore per investire l’intera cittadinanza, che manifesta curiosità, passione e attaccamento alle due opere d’arte. Non si spiegherebbero in altro modo tutte le iniziative dal basso come la partecipazione popolare al referendum sulla clonazione, i cortei per strada, le tantissime lettere, adesso conservate presso l’Archivio Storico della Soprintendenza, che contengono suggerimenti sull’allestimento, proposte sull’identificazione delle due figure, poesie, anche in dialetto, dedicate ai Bronzi. Data l’importanza anche simbolica che noi Italiani diamo al cibo, è da menzionare anche la creazione per l’occasione di un gusto di gelato che ricorda nell’aspetto la colorazione delle due statue. In generale, i Bronzi hanno conquistato uno spazio nell’immaginario e nell’identità della città di Reggio senza che particolari meriti vadano ascritti agli archeologi nel loro ruolo di mediatori del bene archeologico. Va considerato un vero miracolo dei due guerrieri ripescati dal mare l’aver tramutato in fatti e azioni quanto sarebbe stato scritto decenni dopo negli articoli della Convenzione di Faro sull’eredità culturale per la società, firmata in Portogallo nel 2005, ma ratificata dall’Italia nel 2020. La Convenzione spinge al passaggio da una concezione passiva a una attiva del valore del bene culturale, in grado di creare esternalità positive per l’intera comunità, una comunità in cui un ruolo primario è attribuito alle persone che la compongono, fondamentali nell’individuazione delle risorse ereditate dal passato. Se, parafrasando Giorgio Gaber, «Archeologia è partecipazione», l’intera parabola della partecipazione della cittadinanza reggina ai destini dei Bronzi rappresenta un modello magari non perfetto e non da clonare tout court, ma quanto meno da apprezzare e approfondire.
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CINGHIALI D’ASSALTO Il proembolon dal porto di Genova
N
el 1597 i magistrati preposti alla cura del porto di Genova, i Padri del Comune, per garantire un migliore pescaggio del bacino, resosi ormai necessario per il crescente tonnellaggio delle navi, avviarono lavori di escavazione dei fondali marini tra il Ponte Spinola e la Darsena, secondo una procedura già ben collaudata in precedenza in altre zone del porto. L’area destinata al dragaggio fu chiusa da una palizzata in tavole di legno con incastri, conficcate nel fondo marino, rinforzate da pali e assi trasversali e calafatate per renderle impermeabili. Dopo aver prosciugato il bacino stagno asportando l’acqua rimasta all’interno con secchi azionati da gru a bilanciere («cicogne»), analoghe a quelle in uso nei pozzi, si procedette allo scavo manuale dei detriti, della melma e dei rifiuti accumulati nel tempo, che raccolti in ceste e coffe, furono riversati nelle barche all’esterno o caricati nelle some dei muli. L’impresa, per la quale furono impiegati centinaia di lavoratori (falegnami, maestri antelami, muratori, ferrai, operai, barcaioli, facchini, mulattieri, subacquei, senza contare fornai, tavernieri e fornitori di candele e lanterne) fu immortalata – come le altre che l’avevano preceduta – in un dipinto a olio, ora conservato al Galata Museo del Mare. Nel luglio di quell’anno, cioè all’inizio dei lavori, un pontone portò in luce un oggetto in bronzo costituito da un elemento troncopiramidale cavo con terminazione piena conformata a testa di cinghiale stilizzata, lungo 73 cm per 26 di altezza massima, descritto nei documenti del tempo come «morro (= muso, grugno) di porco o morro di tosino».
I confronti con le monete La scoperta suscitò grande interesse negli eruditi locali: nel 1614 lo storico Odoardo Ganducio lo menzionò in un suo libro («quel rostro di Apro, o sia Sperone di nave in bronzo (…) ritrouato gli anni passati, con altre cose antiche, nel nettare che si fece il ponte de’ Spinola»), proponendo confronti con prue di
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A sinistra lo stemma del Comune di Genova.
di Piera Melli
Sulle due pagine Escavazione del fondo marino tra i ponti Spinola e Calvi, olio su tela di Cristoforo Grassi. 1597. Genova, Galata Museo del Mare.
nave raffigurate su monete di età repubblicana. I Padri del Comune fecero murare l’oggetto sopra la porta dell’Arsenale di terra, posto nel Palazzo Ducale, all’interno di una cornice modanata in marmo corredata da un’epigrafe in latino che lo definiva «rostro» e lo dedicava all’«eccelsa gloria degli antichi nell’arte nautica». In quella sede divenne una delle maggiori attrazioni per i visitatori della città, che nel corso del Settecento e dell’Ottocento lo
descrissero diffusamente e ritrassero in numerose memorie di viaggio e guide turistiche. In parallelo, si accese un vivace dibattito sulla reale natura dell’accessorio navale, di volta in volta identificato, con abbondanza di argomentazioni, da parte di storici, studiosi di architettura navale e archeologi, come rostro, controrostro o «xistus», una sorta di ariete che sarebbe stato sospeso all’albero maestro delle navi da
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guerra, benché già Bernard de Montfaucon, archeologo e paleografo francese, che aveva visitato Genova nel 1698 prima del 1702, avesse illustrato il «rostro» nel supplemento alla sua opera enciclopedica L'antiquité expliquée et représentée en figures, edito nel 1724, correttamente accostandolo alle riproduzioni di rilievi in marmo con prue di navi da lui viste a Roma, nei quali erano in evidenza rostri secondari a protome ferina.
Dall’Arsenale alla Galleria d’Armi Entrata ormai Genova a far parte del Regno Sabaudo con il Congresso di Vienna, il prezioso cimelio fu trasferito d’autorità nel 1844 a Torino, insieme a gran parte dei reperti
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dell’Arsenale genovese e fu destinato, per decisione del re Carlo Alberto, alla Galleria d’Armi inaugurata pochi anni prima. Nel 1845 furono realizzate due copie del «rostro», una delle quali, inviata a Genova, rimase nell’Arsenale fino al 1898, quando il Comune la acquistò dalla Direzione di Artiglieria destinandola al Museo di Palazzo Bianco, dove fu esposta, insieme alla cornice originale, fino al 1928. Da allora, con lo smembramento delle collezioni per la creazione di musei tematici, copia e cornice migrarono prima nella sezione romana del Museo Civico di Archeologia Ligure alla Villetta Di Negro e, dal 1933/36, nella parete dell’atrio del Museo Archeologico di Villa Durazzo Pallavicini a Genova-Pegli, da dove in seguito il bronzo fu distaccato per essere mostrato nella sua interezza. L’originale restò invece nell’Armeria reale di Torino, dove è tuttora esposto su un supporto in legno conformato a colonna rostrata, opera dell’architetto e artista di corte Pelagio Palagi. È interessante notare che due protomi di cinghiale, copie fedeli di quella del proembolon, sono raffigurate in posizione speculare alla base dello stemma di Genova concesso alla città da Umberto I con le Regie Patenti del 19 dicembre 1897. Il quesito circa la reale funzione dell’accessorio navale fu definitivamente e convincentemente risolto da Luca Cavazzuti in un contributo presentato in occasione del II Convegno di Archeologia subacquea del 1996: sulla scorta di numerosi confronti iconografici il manufatto è stato riconosciuto come controrostro o rostro secondario (in greco proembolon/ proembolion), la protezione metallica che fasciava l’estremità dell’asse di chiglia sporgente al di sopra del rostro di una nave da guerra romana, probabilmente una trireme. Oggetti simili, con protomi di animali selvatici (lupo, cinghiale o ariete) che sormontano il rostro di navi da guerra, sono raffigurati su monete, stele funerarie, in numerosi rilievi in marmo e in un mosaico a Cirta (Tunisia) che si
A sinistra il proembolon descritto e disegnato nella prima edizione dell’opera Reise durch die französische Schweitz und Italien di Heinrich Matthias Marcard. 1799.
Il proembolon (controrostro) di nave romana dai fondali del porto di Genova montato su un supporto in forma di colonna rostrata disegnato da Pelagio Palagi. Torino, Armeria Reale.
ritiene rappresentassero la battaglia navale di Azio, nonché sull’arco di Orange (l’antica Arausio, in Francia). Il proembolon era un elemento caratteristico di navi ellenistiche e romane: è stato suggerito che la sua funzione principale, oltre a quella decorativa, fosse la corazzatura della parte terminale dei corsi di cinta al disopra del rostro (embolos), anche se poteva rivelarsi utile nello speronamento per spezzare i remi
della nave avversaria e frenare la penetrazione del rostro sottostante nel fasciame della nave nemica, evitandone il distacco.
Una tipologia poco diffusa Mentre si conosce un certo numero di rostri, come quelli rinvenuti nel corso di indagini subacquee nel mare di Levanzo, dove si svolse la battaglia navale delle Egadi (vedi la scheda alle pp. 110-115), e alcuni esemplari di
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proembola con decorazioni a punte di lance stilizzate, in un caso con un fallo al centro di un crescente lunare, dal Reno presso Colonia (Bonn, Rheinisches Landesmuseum), i rostri secondari a forma di animale sono molto rari. Oltre a quello di Genova, ne sono noti uno dal golfo di Fos (Francia) e un secondo, piú piccolo, rozzamente modellato, dal golfo di Corinto, ora nel Museo Canellopoulos di Atene, che raffigura un mostro marino (un ketos?) o forse un coccodrillo (come quello che compare sul rilievo con nave da Palestrina), con semplici buchi per occhi e narici, una minacciosa bocca
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con denti di tre diverse forme e incisioni che imitano le pieghe della pelle. Per la lavorazione che ricorda la piccola plastica ellenistica e la forma compatta, la testa di cinghiale genovese è stata attribuita a maestranze etrusco-italiche e datata al III secolo a.C., senza escludere una possibile oscillazione fino al I a.C., che tiene conto della ripetitività delle attrezzature navali, mentre quella di Fos-sur-Mer, piú realistica e di migliore qualità artistica, sembra rispondere a esigenze decorative piuttosto che funzionali, come piú tardi le teste di fiere che ornavano le estremità
Sulle due pagine rostri e altri elementi facenti parte dell’armamento delle navi raffigurati in uno dei fregi dell’arco romano di Orange (Francia).
A destra il proembolon di Genova messo a confronto con rilievi in marmo raffiguranti prue di navi in due tavole de L’antiquité expliquée et représentée en figures di Bernard de Montfaucon, edita nel 1722.
delle travi nelle navi di Caligola affondate nel lago di Nemi, ed è stata datata tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. La spessa lamina della parte cava (sipho) del proembolon di Genova è strappata e accartocciata: si è perciò supposto che esso sia stato perduto a causa di un impatto violento, forse in occasione del naufragio della stessa nave, ipoteticamente collegato, fin dal momento del suo ritrovamento, alle vicende della seconda guerra punica, quando Genua fu assalita e conquistata dai Cartaginesi al comando del fratello di Annibale, Magone, approdato in Liguria con una flotta di «quasi trenta navi rostrate» (Livio XXVIII 46,7: 205
a.C.) con le quali avrebbe potuto speronare eventuali navi in rada. Non si può escludere che nel corso delle escavazioni del 1597 siano stati raccolti altri oggetti di epoca romana (le «altre cose antiche» citate da Ganducio), di cui si è persa memoria. Il braccio di mare dove fu recuperato il controrostro sembra infatti coincidere con un’area posta al centro del bacino portuale, utilizzata fin dal VI secolo a.C. per l’ancoraggio di navi alla fonda, perché meglio protetta dalle traversie dei venti, recentemente identificata nel corso di indagini di archeologia subacquea, che hanno restituito una mole considerevole di materiali.
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ANTICHI, MA NON TROPPO I bronzi della Meloria
I
l tratto di mare della Meloria rappresenta da sempre un punto critico per la navigazione, essendo caratterizzato da scogli e da bassi fondali che non scendono oltre gli 8 m: non è un caso che, dal 1154, Pisa vi abbia eretto una torre per segnalare il pericolo ai naviganti. Ecco perché non sono pochi i materiali che vi sono stati recuperati nei secoli, a testimonianza delle molte navi che lí sono affondate. E, in alcuni casi, si tratta di pezzi eccezionali: risale al febbraio del 1722 il ritrovamento di quattro ritratti bronzei, noti come Omero, Eschilo, Sofocle, oltre a un quarto personaggio non identificato con certezza, convenzionalmente designato come Apollonio Rodio/Democrito. I ritratti vennero esposti nella Galleria degli Uffizi, dove rimasero fino al 1890, quando entrarono a far parte delle Collezioni del Museo Archeologico di Firenze. La letteratura archeologica li aveva sempre ritenuti antichi: copie di età romana di originali greci di epoche diverse, realizzate per una di quelle «gallerie» di ritratti, di poeti e di pensatori, spesso presenti in case, ville e biblioteche del mondo romano. L’unico dubbio sulla loro antichità era stato espresso nel 1782 da Luigi Lanzi, allora aiuto conservatore della Galleria degli Uffizi, e proprio partendo da queste perplessità, alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, la studiosa Maria Grazia Picozzi ha dimostrato che le quattro teste non sono antiche, bensí fusioni moderne di celebri monumenti antichi, probabilmente provenienti da Roma.
Opere da collezione Sulla base di confronti puntuali con le repliche in marmo dei relativi archetipi, è stato possibile stabilire che i modelli dei bronzi della Meloria appartenevano alle collezioni romane fiorenti nei primi decenni del XVII secolo. Le teste dovevano far parte di una serie di copie bronzee di «uomini illustri» greci eseguita, presumibilmente nei primi decenni del XVII secolo o, al massimo, alla fine del
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di Giuseppina Carlotta Cianferoni Nella pagina accanto e a destra due immagini dell’Eschilo, una delle quattro teste in bronzo recuperate nelle secche della Meloria nel 1722. Inizialmente ritenute opere di età antica, le sculture, sulla base di studi recenti e analisi di laboratorio, si sono rivelate essere frutto di fusioni realizzate nel corso del XVII sec.
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A destra la testa in bronzo della Meloria identificata con un ritratto del poeta Omero. Nella pagina accanto il ritratto non identificato con certezza, ma convenzionalmente designato come Apollonio Rodio/ Democrito. Dopo essere stati conservati nelle Gallerie degli Uffizi, i bronzi della Meloria sono entrati a far parte delle collezioni del Museo Archeologico di Firenze.
secolo precedente, anche in questo caso per decorare ambienti di rappresentanza o biblioteche. Anche le analisi tecniche della lega, effettuate presso il Centro di Restauro dell’allora Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana in occasione dell’ultimo restauro dei monumenti, hanno confermato che le fusioni ebbero luogo nel corso del XVII secolo. Dalle secche della Meloria proviene anche un altro monumento straordinario, il candelabro di bronzo a forma di albero, acquistato per il
Museo Archeologico di Firenze nel 1873. Il pezzo, di cui colpisce la resa naturalistica, con il piccolo serpente che esce da una cavità del tronco, è caratterizzato da un fusto contorto e nodoso, da cui si dipartono quattro rami di forma arcuata ai quali dovevano essere sospese le lucerne, tramite catenelle. Databile al I secolo d.C., rientra tipologicamente in una serie di portalampade bronzei a struttura fitomorfa, assai diffusi nel mondo romano, soprattutto nei centri vesuviani.
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L’ARROGANZA DI UN CAMPIONE L’Atleta di Fano
L’
Atleta di Fano è una scultura a tutto tondo in bronzo raffigurante un atleta adolescente in nudità eroica, con il braccio destro sollevato e il sinistro disteso, leggermente ripiegato, con capigliatura a ricci fra i quali si intravedono segmenti di una corona di ulivo. Alta 1,49 m e mancante dei piedi e parte dei polpacci, fu ripescata nel 1961 in acque marchigiane da pescatori di Fano e sbarcata a terra senza venire segnalata alle autorità. Dopo una complessa vicenda, fatta di vendite illegali, passaggi di mano e di un'esportazione illegale, nel 1977 la statua fu acquisita dal Paul Getty Museum ove è attualmente conservata. Nel 2018 il Tribunale di Pesaro ordinò la confisca della scultura e successivamente la Cassazione la confermò, bocciando il ricorso del Getty Museum. Fin dalla sua prima comparsa sulla scena artistica nel 1978, la scultura, per via della tecnica di realizzazione e dei ripensamenti (che ne fanno un capofila e non una copia), fu giudicata un’opera originale greca del IV secolo a.C. e attribuita alla produzione del celebre Lisippo. Fra le varie caratteristiche dello stile che concorrono in modo sostanzialmente incontrovertibile a questa attribuzione, si segnala in primo luogo la ponderazione. L’impianto della struttura corporea della figura con il peso interamente poggiante su una gamba, la destra (schema classico della ponderatio o ponderazione) è, nel caso dell’Atleta di Fano, reso piú complesso dalla contrapposizione fra il lato destro tutto in tensione e il lato sinistro tutto in riposo, un modello sostanzialmente diverso da quello dalla ponderatio classica, che presenta tensione e movimento incrociati fra gli arti in modo bilanciato ed equilibrato Questo elemento di innovazione nella ponderazione, imperniata su un unico asse, viene appunto introdotto da Lisippo ed è tipico del suo linguaggio: con l’impressione di un
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di Maria Raffaella Ciuccarelli movimento in potenza si introduce infatti nella perfezione classica un dinamismo controllato che arricchisce e rende l’opera piú accattivante. La scultura potrebbe essere stata realizzata intorno al 340 a.C., quando Lisippo si trovava alla corte di Filippo il Macedone e aveva avuto occasione di conoscere il giovane Alessandro e i suoi compagni, all’inizio dell’epopea della dinastia e prima dell’avvio dell’avanzata verso Oriente. Fra i giovani compagni di Alessandro potrebbe quindi celarsi il personaggio ritratto nella scultura, che secondo gli studiosi è un ragazzo di circa 15 anni.
La corona esibita La statua è stata definita anche Atleta che si incorona, ma, in realtà, le prime tre dita della mano destra, tese, non sembrano rappresentare il gesto di portare alla testa una corona. Questa, peraltro, è già indossata dal giovane, perché risulta in parte conservata, in segmenti, nella capigliatura, che presenta un’acconciatura a riccioli ricadenti sulla fronte e parzialmente fermati all’indietro. Il giovane, quindi, non sembra intento a incoronarsi, ma al contrario a togliersi la corona, sollevarla ed esibirla al pubblico reggendola con le tre dita. La mano sinistra della statua, invece, trattiene, molto probabilmente, una palma rovesciata e appoggiata alla coscia. Si tratterebbe quindi di un atleta vincitore raffigurato dopo la vittoria. L’espressione quasi arrogante e tracotante, per certi versi regale, e il portamento del soggetto sembrano richiamare, secondo molti studiosi, alcuni aspetti del carattere del giovane Alessandro Magno e, piú in generale, l’ideologia di cui era intrisa, secondo le fonti, la cerchia dei suoi compagni (etairoi), che con Alessandro condividevano l’esperienza di una società fondata sulla regalità e lo status aristocratico molto diversa rispetto al contemporaneo mondo della polis. L’iconografia dell’Atleta di Fano risulta molto diffusa in Oriente e in Asia Minore dall’età tardo-ellenistica fino all’inizio dell’età imperiale romana; a Roma, invece, appare molto meno presente almeno fino al II secolo d.C., quando
Sulle due pagine l’Atleta di Fano, statua in bronzo recuperata nel 1961 in acque marchigiane e ritenuta un originale greco del IV sec. a.C., assegnato a Lisippo, uno dei grandi maestri della scultura antica.
si diffonde soprattutto su alcune classi di sarcofagi. È stato quindi ipotizzato che la statua fosse conosciuta nel mondo romano occidentale solo attraverso cartoni poiché l’originale non era stato trasportato a Roma nel corso delle razzie del I secolo a.C., ma probabilmente era sempre rimasto in Oriente. Da qui, secondo una suggestiva ipotesi, Settimio Severo avrebbe fatto inviare la statua a Bisanzio e, da Bisanzio, i Veneziani avrebbero tentato di trasportarla in Occidente nel 1200 durante la riconquista di Costantinopoli. L’Atleta sarebbe quindi naufragato lungo un itinerario ipoteticamente diretto a Venezia, simile a quello attraverso il quale arrivarono in laguna nel XIII secolo i cavalli di San Marco.
ARGENTO PER DÈI ED EROI L’anfora di Baratti
S
ono passati quasi cinquant’anni dal giorno in cui un peschereccio che aveva calato le reti nelle aqcue antistanti il golfo di Baratti (Livorno) rinvenne tra il pescato una strana fiasca metallica, ammaccata e piena di concrezioni. Dopo alterne vicende, felicemente conclusesi anche per il pescatore, che ricevette un congruo premio di rinvenimento, il reperto fu sottoposto a complessi restauri, che ne ripristinarono la forma e lo splendore originario.
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A destra il golfo di Baratti (Livorno). In basso l’anfora di Baratti, rinvenuta nelle acque del golfo omonimo da un peschereccio. IV sec. d.C. Piombino, Museo Archeologico del Territorio di Populonia.
Da piú di vent’anni, l’anfora di Baratti è il simbolo iconico del Museo Archeologico del Territorio di Populonia, a Piombino. Realizzato in argento sbalzato probabilmente in Asia Minore, il vaso, come dice il nome stesso, è un’anfora, originariamente a due anse (andate perdute), dal peso di oltre 7 kg. Alta 61 cm, è una splendida opera di argenteria della avanzata età romana imperiale. Il corpo del vaso è decorato a punzoni rifiniti a bulino con una serie di medaglioni ovali, disposti in file parallele, contenenti raffigurazioni organizzate in un ben preciso significato simbolico. Le serie della metà superiore, apprezzabile sia con la classica vista laterale, sia dall’alto come centri concentrici dalla inconfondibile simbologia cosmogonica, sono quelle meglio caratterizzate, mentre quelle della metà inferiore sono per lo piú ripetizioni delle serie superiori. Partendo dall’alto, due serie di sei medaglioni, sul sottile collo dell’anfora, raffigurano volti giovanili, alcuni con la capigliatura sciolta, alcuni con il berretto frigio: l’interpretazione corrente le legge come raffigurazione dei mesi. Una fila di perline separa i primi due registri dal terzo, di otto medaglioni, recanti il rilievo di altrettanti busti, evidentemente ispirati alle
di Andrea Camilli
raffigurazioni del dio Mitra. Le figure sono state variamente interpretate: le quattro potrebbero raffigurare le stagioni, mentre altre quattro probabilmente raffigurano le quattro parti del mondo (Europa, Africa, Persia e India). Una elaborata corona floreale sull’espansione del collo separa i medaglioni da una ampia fascia liscia. Le raffigurazioni riprendono sulla spalla, con sedici danzatori e suonatori, che trasportano oggetti rituali, ma anche legati al simposio e alla consumazione del vino.
Il corteo dionisiaco Il registro inferiore, il secondo del corpo, è molto meglio caratterizzato; su sedici medaglioni si snoda un corteo dionisiaco, composto da satiri, menadi, suonatori, danzatrici. Il terzo registro del corpo è il piú evidente, ed è quello che richiama immediatamente l’attenzione, con 16 medaglioni di grandi dimensioni, raffiguranti principalmente divinità, organizzate in gruppi. Cominciano la serie le tre divinità primordiali, Urano, Gea e Titano, seguiti da un terzetto identificabile come la coppia divina di Dioniso e Arianna accompagnati da un satiro. Il terzo gruppo è composto dalla coppia divina di Cibele e Attis tra due coribanti (danzatori
In basso e nella pagina accanto, in basso particolari della ricca decorazione dell’anfora di Baratti. Sul corpo del vaso, realizzato in argento massiccio, corrono teorie di medaglioni nei quali sono rappresentate divinità, eroi, partecipanti a un corteo dionisiaco e altre figure, alcune delle quali non identificate con certezza. Il prezioso manufatto venne probabilmente realizzato in Asia Minore nel corso del IV sec. d.C.
armati); Seguono la coppia divina di Marte e Venere, seguiti probabilmente da Adone e Giacinto, Apollo e Dafne. Anche il quarto registro, analogo al precedente per dimensioni e rilevanza, ospita un corteo divino: le prime tre figure, di incerta raffigurazione, sono forse Paride, Enone e Corito. Seguono Diana, Niobe e Apollo, seguite da Elena, Leda e i Dioscuri. Il mito di Paride è ripreso nel gruppo successivo, che vede la raffigurazione del principe troiano seguita da Giove, Giunone, Venere e Minerva. I tre registri successivi sono di interesse minore, in quanto ripetono tematiche già affrontate nei registri superiori; il quinto riporta un corteo dionisiaco, il sesto una fila di suonatori e danzatori, il settimo una serie di figure ripetute di Eros e Psiche. Ma come spiegare la funzione e la storia di questo oggetto straordinario? I dati che abbiamo a disposizione non sono molti, ma consentono di avanzare suggestive ipotesi sulla sua storia. Non ci sono molti confronti; un’anfora analoga, seppure con diverse raffigurazioni, è conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, e proviene dalla Moldavia; un’altra, comparsa nel mercato antiquario alla fine dell’Ottocento e attualmente irreperibile, proviene dal Libano. Si tratta verosimilmente di vasi realizzati per scopi rituali (le dimensioni riportano alla capienza dei vasi rituali in terracotta), come sembrerebbe confermare anche la complessa raffigurazione, che rimanda ai culti dionisiaci, seppure rivisitati con il tipico sincretismo religioso tardo-antico. L’oggetto fu probabilmente realizzato in Asia Minore nel corso del IV secolo d.C., forse proprio in connessione con l’effimera rinascita pagana del regno di Giuliano l’Apostata. Cosa abbia portato un reperto cosí prezioso nel golfo di Baratti, non ci è dato di sapere. Il presunto luogo di rinvenimento non ha restituito fino a ora resti di relitti di cronologia compatibile con il reperto. Resta quindi aperta la possibilità che possa trattarsi di un reperto isolato, forse oggetto di un «butto a mare», offerta rituale propiziatoria o necessità di alleggerimento del carico, in un possibile imminente naufragio.
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UN LUMINARE DELLA MEDICINA Il relitto del Pozzino
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l braccio di mare compreso tra la costa tirrenica e l’arcipelago toscano, sia per l’intenso traffico marittimo che lo ha interessato sin dalla remota antichità, sia per la storica attenzione assicuratagli dagli enti preposti alla tutela della cultura e del paesaggio, è senz’altro uno dei piú ricchi di relitti documentati. Le acque antistanti il promontorio di Piombino (dove si ergeva l’etrusca Populonia, con il suo retrostante porto lagunare) ha restituito numerosi relitti, uno dei piú interessanti dei quali è quello denominato «del Pozzino», dal nome di una piccola insenatura della costa. Il relitto fu individuato nel 1974, in seguito a una campagna di prospezione promossa dal Centro di Archeologia Sperimentale di Albenga; la scoperta comportò l’immediato intervento del Nucleo Subacqueo della allora Soprintendenza Archeologica della Toscana, che portò al recupero di alcuni materiali, tra cui alcuni strumenti chirurgici (una ventosa per salassi e una lama ricurva), che già allora fecero supporre l’originaria presenza di un medico a bordo. Altre due campagne di ricerca, nel 1989, portarono alla documentazione del relitto e ad alcuni rinvenimenti veramente eccezionali. I materiali del corredo di bordo sono quelli che si potrebbero trovare in un qualsiasi relitto di età medio-repubblicana. Lo scafo, che si è conservato solo nella parte centrale, è riferibile a un relitto lungo tra i 15 e i 18 m, con chiglia e paramezzali in legno di quercia, alcuni elementi In alto il recupero dei materiali ritrovati a bordo del relitto del Pozzino, nel Golfo di Baratti (Livorno). In basso una delle pissidi in stagno riferibili al bagaglio del medico che viaggiava sulla nave naufragata.
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in noce tra cui la scassa, e fasciame in legno di abete. Due splendidi bozzelli di grandi dimensioni, testimoni di una velatura di tutto rispetto, perfettamente restaurati, fanno oggi bella mostra di sé (insieme agli altri elementi del corredo) nelle vetrine del Museo Archeologico del Territorio di Populonia, a Piombino.
Suppellettili di pregio Anfore rodie, ceramica pergamena e a vernice nera, testimoniano una provenienza del relitto dalle coste greche dell’Asia; alcune belle coppe in vetro e una lussuosa lucerna in argento, fanno supporre la presenza a bordo di un personaggio di rango; i materiali recuperati comunque collocano l’affondamento del relitto tra il 140 e il 130 a.C., in un momento di forte rinascita del territorio costiero tirrenico, già stremato dal secolo di sfruttamento «industriale» intensivo per sostenere lo sforzo bellico delle guerre puniche. Una rinascita che, nonostante l’effimera ripresa della vicina Populonia, vede sorgere numerose grandi ville marittime, rivolte allo sfruttamento delle risorse ittiche e del territorio retrostante. Proprio all’approdo di una di queste
Qui sopra una campana per salassi, rinvenuta insieme ad altri strumenti che provano la presenza di un medico a bordo della nave colata a picco presso Populonia.
di Andrea Camilli A destra coppa in vetro di produzione siro-palestinese. A destra una compressa oftalmica. In basso ricostruzione del relitto del Pozzino nel Museo Archeologico e del Territorio di Populonia a Piombino.
ville era prossima la nave, con il suo sorprendente corredo. Nel corso degli scavi infatti vennero rinvenuti numerosi contenitori di piombo delle forme piú disparate (barattoli, pissidi, brocchette), raggruppati come se fossero contenuti in una cassa lignea, e che, a loro volta, custodivano centotrentasei piccoli barattoli in legno di bosso, nei quali erano conservate pastiglie impilate di composti medici. Analisi coordinate dai laboratori della Soprintendenza, che hanno
coinvolto numerosi istituti di ricerca italiani e stranieri, hanno identificato le componenti delle compresse, composte per l’80 % circa da carbonati di zinco (elemento con notevoli proprietà antibatteriche, batteriostatiche e probabilmente anche antivirali, ancora oggi usato in dermatologia, nelle creme contro l'arrossamento della pelle e in oftalmologia), oltre a varie componenti di origine vegetale e con proprietà mediche, quali ibisco, erba medica e Achillea millefoglie, ma anche carota, ravanello e sedano. Le componenti di un gruppo di pastiglie su cui sono state effettuate indagini piú approfondite hanno rivelato che il composto corrisponde sorprendentemente a una ricetta di collirio tramandataci da Plinio il Vecchio; d'altronde la stessa forma delle pastiglie (o meglio, delle compresse), circolari e schiacciate, in greco antico viene chiamata kollura, da cui il termine moderno di collirio. Al momento del naufragio, quindi, il nostro relitto trasportava verosimilmente un medico con il suo corredo di strumenti e medicamenti; e chissà se l’illustre luminare, vista la vicinanza dalla riva, sia riuscito, insieme con l’equipaggio della nave, a scampare al disastro che ha affidato alla custodia delle acque il suo prezioso bagaglio.
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«LAMPADARIO» O STATUA DI CULTO? L’Apollo di Piombino
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al mare circostante il promontorio di Populonia proviene un altro storico rinvenimento subacqueo «di eccezione», anch’esso recuperato fortuitamente tra le reti di un pescatore quasi due secoli or sono: si tratta del celebre, quanto discusso, Apollo di Piombino, che oggi fa bella mostra di sé nelle sale del Museo del Louvre di Parigi, che lo acquistò regolarmente nel 1834. Se ne ignora l’esatto punto di rinvenimento (la localizzazione tradizionale del rinvenimento a Punta delle Tonnarelle è priva di qualsiasi supporto), ma la
sua provenienza nel braccio di mare compreso tra Piombino e l’Isola d’Elba è certa. La statua, in bronzo, rappresenta un giovane nudo in piedi di dimensioni inferiori al normale (misura 115 cm) nella caratteristica posa dei kouroi, con le braccia piegate in avanti (a sorreggere arco e faretra?), e una accurata capigliatura a riccioli e codino. Realizzata in bronzo con dettagli anatomici in rame (labbra, sopracciglia, capezzoli), non ha conservato gli occhi, probabilmente in avorio o pasta di vetro. L’opera è stata originariamente attribuita su basi stilistiche agli inizi del V secolo a.C., ipotizzandone una provenienza magno-greca, ma anche al IV secolo, o se ne è ipotizzata una rilavorazione in età romana, mentre alcune particolarità tecniche e di stile hanno mosso in passato l’ipotesi che si potesse trattare addirittura di un falso; l’antichità del ritrovamento e, soprattutto, alcune campagne di analisi hanno permesso di fugare qualsiasi dubbio in tal senso.
La dedica ad Atena Le braccia piegate in avanti e la posizione delle mani hanno portato a identificare la statua come Apollo (da cui la denominazione comunemente impiegata), anche se una dedica (molto rovinata), ad Atena, incisa su una gamba, per alcuni contrasta singolarmente con questa attribuzione. In realtà, la cosa stupisce solo se si ipotizzasse una realizzazione della scultura espressamente commissionata, mentre l’offerta alla divinità di un oggetto prezioso già posseduto, sul quale apporre una dedica anche incongruente, è tutt’altro che rara nell’antichità. Anche l’iscrizione, realizzata con insersioni di argento su incisioni, presenta problemi, essendo stata a piú riprese datata tra il V secolo e l’età ellenistica. Altra discussione riguarda gli autori dell’opera: una sua sommaria pulizia interna, effettuata nel 1841, portò alla scoperta di una lamina in piombo, oggi non piú conservata, che recava un’iscrizione mutila, ma integrabile come «Menodotos di Rodi fece», che ci riporta a Menodotos, artista originario di Tiro e operante
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L’Apollo di Piombino, frutto di un rinvenimento fortuito effettuato nelle acque circostanti il promontorio di Populonia. Variamente datato fra il V e il I sec. a.C., il bronzo è oggi conservato a Parigi, nel Museo del Louvre.
di Andrea Camilli La testa dell’Apollo di Piombino. Secondo una delle varie ipotesi a oggi formulate, la scultura, di squisita fattura, potrebbe essere stata utilizzata come portalampade, sul modello di un esemplare analogo rinvenuto a Pompei nella Villa di Giulio Polibio.
a Rodi tra II e I secolo a.C., noto anche da una iscrizione rinvenuta a Lindos. La coesistenza di queste caratteristiche contrastanti e di cronologie concorrenti, all'apparenza incongrua, in realtà, si spiega proprio grazie a questa datazione e alle significative similitudini con un’opera analoga per genere e dimensioni,
rinvenuta a Pompei nella Villa di Giulio Polibio, utilizzata come sostegno per un vassoio portalampade; in questo caso, si tratterebbe di una copia in stile, o di un pastiche arcaizzante, realizzato nel I secolo a.C. per un ricco committente romano nella tradizione dei lussuosi portalampade (lychnouchoi).
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DI ELEFANTI, SATIRI E ALTRE STORIE Bronzi dai mari di Sicilia
«A
bbaglia la sala grande di bronzo. Sfoggio in tutta la casa d’elmi lucenti / un bianco di criniere dai cimieri oscilla, onore di guerrieri / il bronzo di gambiere lucenti cela i chiodi, riparo da violenza di strali»: cosí il poeta greco Alceo (VII-VI secolo a.C.), descrive la propria armatura. Le sue parole confermano come la bronzistica di età classica avesse raggiunto livelli di maestria cosí alti da produrre capolavori estetici notevolissimi e potenti armi di distruzione, tecnologicamente avanzate. Una maestria che, al contempo, permise di infondere grazia ed eleganza anche negli oggetti di uso comune. Le coste siciliane si sviluppano per una lunghezza di circa 1650 km, e, con la loro grande variabilità di caratteristiche fisiografiche e ambientali, disposte sui versanti,
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settentrionale, tirrenico, orientale ionico, meridionale, mediterraneo, ben si prestano a custodire esemplari di questi tesori dispersi durante antichi e sfortunati viaggi. Nelle pagine che seguono si presenta dunque una rassegna dei piú significativi reperti in bronzo ritrovati nelle acque siciliane tra la seconda metà del XX e il XXI secolo. Nell’estate del 1994, Nicolò Siragusa, un ex ferroviere con la passione per la pesca di prossimità, recuperò dal fondale antistante Triscina di Selinunte una grande stadera, una bilancia basata sul principio delle leve,molto usata nei commerci. Lo strumento giaceva a una cinquantina di metri dalla battigia e alla profondità di circa 2/3 m, insieme a concentrazioni di pietrame di medie dimensioni, alcuni frammenti di legno, chiodi e numerosi frammenti di vasellame e anfore da trasporto, materiali databili al V secolo d.C.
di Francesca Oliveri sgabello o panchetta, di un tripode, di alcune klinai (letti da banchetto), e di sostegni per mobili, risalenti al III secolo d.C.
A destra l’archeologo Sebastiano Tusa (1952-2019) esamina un rostro recuperato dalle acque di Levanzo. Nella pagina accanto un rostro scoperto nell’area che fu teatro della battaglia delle Egadi (241 a.C.) viene issato a bordo della nave oceanografica Hercules. In basso ancora un’immagine di un rostro rinvenuto nelle acque di Levanzo: a oggi, sono stati recuperati 24 esemplari di questo micidiale strumento da guerra.
Una pesca davvero «miracolosa»
La stadera consiste in un’asta, il giogo e staffa dell’apparato di sospensione, sette anelli di bronzo e otto segmenti di catena per la sospensione del carico. Ma il pezzo piú rilevante, sotto il profilo artistico, è il contrappeso mobile configurato a busto di Atena/Minerva-Roma. Potrebbe aver fatto parte del carico di una nave, partita dal Nord Africa e diretta in Sicilia per raggiungere e rifornire di mercanzie la rete di piccoli scali marittimi locali, come quello presso la foce del fiume Modione a Selinunte o anche i grandi porti limitrofi di Mazara e di Sciacca. Nello stesso anno, dopo una mareggiata, nella baia di Camarina, sulla costa ragusana, sono comparsi il relitto di una nave romana con un servizio da tavola in bronzo, di vasa escaria (da portata) e vasa potoria (per liquidi). Ma sono stati ritrovati anche altri oggetti di arredamento, come i resti di un piccolo solium, cioè uno
Un’opera di insuperabile bellezza fu rinvenuta nel 1998: è la statua bronzea del Satiro di Mazara del Vallo (vedi le immagini alle pp. 26-27). Recuperata nel Canale di Sicilia, a 400 m circa di profondità, nel corso di una battuta del peschereccio Capitan Ciccio di Francesco Adragna di Mazara del Vallo (Trapani), la scultura raffigura un personaggio maschile nudo, con testa rivolta all’indietro, lunghi capelli fluenti a grosse ciocche, orecchie a punta, avorio o osso nell’orbita oculare e una vibrante forza plastica che erompe dalle possenti forme del corpo, che si avvitano in un grande movimento di torsione. Priva delle braccia e delle gambe (la parte inferiore della gamba sinistra era stata ripescata precedentemente), la statua si conserva per un’altezza di circa un metro e mezzo e doveva essere di grandezza maggiore del vero. La figura rientra nelle varianti note del tipo del satiro, essere mitologico facente parte del corteo orgiastico del dio greco Dioniso. Vari studi sulla datazione (condotti da Sebastiano Tusa, Paolo Moreno e Salvatore Settis) collocherebbero l’opera tra il IV e il II secolo a.C. Sempre dal Canale di Sicilia proviene un frammento di scultura in rilievo raffigurante, a grandezza quasi naturale, la zampa di un elefante, resa realisticamente dall’ignoto bronzista, che ha voluto imitare minuziosamente l’aspetto della pelle dell’animale caratterizzata da fitte striature, riproducendo perfino le grosse venature degli arti. L’assenza delle unghie e il rigonfiamento dello zoccolo potrebbero indicare un «coprizampa», indossato dal pachiderma in situazioni particolari quali la caccia o la guerra. È probabile che non si trattasse di statua a tutto tondo, bensí di un altorilievo agganciato a una lastra di pietra, da collocare in un luogo pubblico e, quindi, che avesse una funzione celebrativa. Le caratteristiche tecnico(segue a p. 114)
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In alto l’avvistamento del rostro poi denominato «Egadi 12» sui fondali di Levanzo, a 80 m di profondità. In basso e sulle due pagine rostri provenienti dalle acque di Levanzo esposti nell’ex Stabilimento Florio di Favignana. Nella pagina accanto, in alto operazioni di documentazione di un rostro utilizzato da una delle navi che presero parte alla battaglia delle Egadi.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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A sinistra gli elmi corinzi recuperati nelle acque di contrada Bulala (Gela). La loro tipologia permette di datarli fra il 650 e il 450 a.C. In basso la stadera rinvenuta nel fondale antistante Triscina di Selinunte (Castelvetrano, Trapani). Per via dei materiali associati, è possibile datarla al V sec. d.C.
decorative potrebbero indicare un ambiente artigianale punico, ma non si può escludere una produzione romana. L’elefante fu infatti un «mezzo» bellico di grande rilevanza e per questo venne spesso rappresentato sia in ambiente punico (soprattutto nelle monete intorno alla fine del III secolo a.C.), sia in ambiente romano come importante trofeo di guerra dopo le vittorie sui Cartaginesi. Nel 2017-2018, nel corso delle campagne di indagine effettuate dalla Soprintendenza del Mare in collaborazione con la Guardia di Finanza ROAN di Palermo, la Capitaneria di Porto di Gela e il subacqueo gelese Francesco Cassarino, sono stati recuperati, tra altri reperti, due elmi corinzi provenienti dai fondali di contrada Bulala: si tratta di due oggetti molto simili tra di loro, inquadrabili nella tipologia dell’elmo diffuso in Grecia tra il 650 e il 450 a.C. Sono costituiti da un’ampia calotta con paranaso rettangolare allungato e da due ampie paragnatidi. Una fila di piccoli fori presenti lungo tutto il bordo serviva per il fissaggio di fodere in cuoio all’interno. Gli elmi possono essere datati nell’arco del VI secolo a.C.
Una battaglia leggendaria La storia della battaglia delle Egadi (241 a.C.) è stata ricostruita sia rileggendo attentamente le fonti alla luce della conoscenza dei luoghi, sia recuperando importanti testimonianze archeologiche grazie a una sistematica e
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accurata ricerca archeologica subacquea, che va avanti ininterrottamente dal 2005, frutto della preziosa collaborazione tra la Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana e la RPM Nautical Foundation, a cui si sono negli anni aggiunti i subacquei altofondalisti della Global Underwater Explorers e, in seguito, quelli della SDSS-Society for Documentation of Submerged Sites. Nel corso delle ricerche, condotte con l'ausilio della nave oceanografica Hercules, sono stati scoperti migliaia di target, che vanno ad arricchire il ricco database costruito nel corso degli ultimi anni. I 24 rostri navali recuperati, di cui 4 cartaginesi – micidiali strumenti da guerra, montati sulla prua
Armi di pregio Gli elmi del tipo Montefortino rinvenuti nelle acque di Levanzo subito dopo il recupero e nel laboratorio in cui sono stati sottoposti a TAC (Tomografia Assiale Computerizzata). Due esemplari, che si distinguono per una fattura particolarmente raffinata, potrebbero aver fatto parte dell’equipaggiamento di graduati delle truppe romane impegnate nella battaglia delle Egadi.
delle navi per speronare le imbarcazioni nemiche – rappresentano la prova evidente che i fondali di Levanzo, sono certamente il teatro della battaglia navale che sancí la fine della prima guerra punica, con la vittoria della flotta romana su quella cartaginese. Oltre ai rostri, sono stati recuperati oltre 22 elmi del tipo Montefortino (cosí chiamati dall’esemplare rinvenuto in una tomba celtica dell'omonima località delle Marche, n.d.r.); un gruppo di 12 paragnatidi, protezioni laterali in metallo applicate all’elmo, atte a proteggere il volto dei soldati; una corta daga; una spada in metallo, della lunghezza di circa 70 cm con una lama larga 5 cm,
appartenuta probabilmente ai soldati di uno dei due eserciti. Tra gli elmi individuati e recuperati, sempre nello stesso areale, alla profondità di 80 m, due esemplari del tipo Montefortino, di fattura pregiatissima, presentano una particolare decorazione con forma di animale (leontè per l’uno, grifone per l’altro) nella parte sommitale, e potrebbero quindi essere appartenuti a graduati dell’esercito romano. Un’altra pagina di storia continua a essere svelata e aggiornata attraverso la sistematica collaborazione tra storici e archeologi, con l’apporto ormai indispensabile della tecnologia elettronica e oceanografica.
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CARACALLA CONTRO LA CRISI ECONOMICA Il «tesoretto» di Rimigliano
N
el 2002 sulla spiaggia di Rimigliano (Livorno) un giovane «Gastone» incappa in un ammasso metallico tra le rocce: si trattava di un blocco di monete abbandonato probabilmente da subacquei clandestini. Verifiche condotte dall’allora Soprintendenza Archeologica della Toscana (Nucleo Tutela Subacqueo) hanno portato a supporre che la metà mancante del blocco fosse finita effettivamente nelle mani dei saccheggiatori, che lo avrebbero sottratto da un vicino relitto, individuato al largo di San Vicenzino, per poi abbandonarne una parte presso la scogliera di Rimigliano a causa del peso o perché colti sul fatto. Si tratta di un gruzzolo di monete (il termine «tesoretto» è moderno e, utilizzato solo in ambito archeologico, risulta improprio, come vedremo, per questo ritrovamento) di circa 3500 antoniniani (monete d’argento caratterizzate dall’effigie imperiale con la corona «radiata»), emessi nell’arco di un trentennio, tra il 238 e il 269 d.C. Tra questi sono presenti anche 2 denari piú antichi, uno coniato da Caracalla e uno da Lucio Vero. La presenza di monete di Postumio (258-268) permette di datare a quest’epoca la formazione del gruzzolo. Le analisi strumentali e le indagini condotte in laboratorio durante lo smontaggio di una parte del blocco hanno permesso di stabilire che le monete erano raggruppate a formare pilette avvolte in fogli forse di pergamena o carta vegetale (papiro?). Le pilette cosí organizzate erano state quindi inserite in sacchetti di
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stoffa, che, a loro volta, erano collocati all’interno di una cesta, come ancora ben evidente dalla forma del blocco. Si tratta, probabilmente, del «capitale» di un commerciante che si apprestava a comprare le merci o che tornava da un lucroso viaggio: il proprietario doveva provenire dalla Gallia, come testimonia l'ingente presenza di monete provenienti dalle zecche galliche, generalmente piuttosto rare in Italia, e dalla presenza di altrettanto rare monete dell’usurpatore Postumio, anch’esse coniate in Gallia.
Un accumulo non improvviso Tuttavia, la presenza di monete anche di zecche italiane, cosí come dei due denari piú antichi, fa ritenere che si tratti di una selezione di monete accumulata in un certo periodo di tempo e non di un nascondimento veloce (come la definizione stessa di tesoretto sembrerebbe invece suggerire). Le monete conservate erano infatti quelle di maggior pregio e spendibilità. Cosí i due denari, piú vecchi di 60 anni rispetto alla ipotizzata datazione del tesoretto fanno pensare che questi siano stati conservati per il loro valore intrinseco, piuttosto che per il valore nominale, ormai interamente sostituito dall’antoniniano. L’antoniniano venne introdotto da Caracalla in un momento di grande crisi economica, finanziaria e di instabilità politica. L’emissione di questa nuova valuta, del peso di un denario e mezzo e dal supposto valore di due denari, viene solitamente salutata come un tentativo di ristabilire il valore nominale della
Sulle due pagine la spiaggia di Rimigliano (San Vincenzo, Livorno), teatro della scoperta fortuita di un ammasso di monete coniate fra il 238 e il 269 d.C.
di Angelina De Laurenzi
Le monete che compongono il «tesoretto» di Rimigliano, dopo il recupero. Il reperto è attualmente conservato in un acquario refrigerato nel Museo Archeologico del Territorio di Populonia a Piombino.
monetazione in argento, creando inflazione, ma salvando l’economia statale romana da un possibile default. Si tratta quindi di una moneta che si presta subito alla tesaurizzazione, ma che non sfugge alla sorte di progressiva perdita del contenuto di argento già toccata al denario. Tuttavia, questo ritrovamento, oltre a dimostrare che questa moneta continua a essere un bene di rifugio per lungo tempo dopo la sua introduzione, con la compresenza dei due pesi (denario e antoniniano) nelle stesse pilette, muove il sospetto che il valore delle due monete
fosse equivalente, e che quindi la manovra di Caracalla di emettere monete in lega di argento dal peso superiore sia rivolta a rafforzare il valore reale della moneta di argento, con un’operazione di deflazione del segno opposto di quello finora supposto. Per motivi di conservazione della concrezione che lo ingloba (e che contiene le tracce evidenti dei contenitori delle monete) il tesoretto è sottoposto a un lungo processo di desalinizzazione, ed è attualmente esposto in un acquario refrigerato presso il Museo Archeologico del Territorio di Populonia, a Piombino.
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UN CAVALIERE IN ADRIATICO La spada di Martignano
L’
energia delle onde muove di continuo i fondali delle isole che separano l’alto Adriatico dalla laguna di Marano (Udine). Capita cosí che, nelle acque antistanti il versante marino dell’isola di Martignano, durante una delle quotidiane battute di pesca, nel rastrello dei fratelli Adriano e Angelo Milocco finisca una concrezione la cui forma richiama inequivocabilmente quella di una spada. Al momento del recupero, il reperto si presentava come un conglomerato di sabbia compatta, parzialmente ricoperto da gusci di conchiglia, dal quale solo il certosino lavoro condotto da Giovanni Pasini del Museo Nazionale di Aquileia, con l’aiuto di una microfresa, ha consentito di liberare il particolare ritrovamento. Grazie alla protezione offerta dall’incrostazione sabbiosa, che, formandosi rapidamente, ha impedito all’acqua salata di «divorarla», la spada si è potuta serbare in tutte le sue componenti. Oltre alla lama e codolo, sono visibili anche l’impugnatura e il composito fodero con puntale. La spada presenta una lama in ferro della lunghezza di 81 cm e una larghezza compresa tra i 6 cm e i 3 cm della punta, che qui è di tipo arrotondato (tipo Xa Oakeshott). La lama è inoltre percorsa sul lato piatto da una lunga scanalatura, larga circa 1,5 cm, detta sguscio. Questa aveva lo scopo di aumentare la flessibilità della spada, alleggerendone la struttura e, al contempo, di facilitarne l’estrazione. Ricavata dalla stessa barra di ferro della lama è anche l’estremità superiore della spada, ovvero il codolo. Esso costituisce l’anima della impugnatura e qui si presenta piatto, largo e rastremato verso l’estremità superiore su cui è fissato il pomo. Si tratta di un accorgimento necessario per assicurare il bilanciamento dell’arma, nonché a migliorarne la presa. In questo caso il pomo (7 x 4,5 cm), mostra una forma caratteristica che prende il nome di «Noce del Brasile» (tipo A Oakeshott). Il guscio ha consentito la perfetta conservazione anche del fusto, il rivestimento
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posto sul codolo per rifinire l’impugnatura e che qui è costituito da due valve di legno, a loro volta rivestite di cordini posti non solo per legare le valve al codolo, ma anche per migliorarne la presa. Per proteggere la mano dai colpi che potevano scivolare lungo la lama, prima di arrivare al codolo, troviamo due bracci laterali: l’elso. Lungo circa 22 cm e di sezione quadrangolare (stile 1a Oakeshott), presenta qui una leggera asimmetria, verosimilmente dovuta a un colpo violento ricevuto durante il suo utilizzo. La spada non doveva essere invece in uso quando si inabissò, dal momento che è stata trovata con la lama all’interno del fodero. Quest’ultimo è costituito da due valve lignee, ricoperte all’esterno da cuoio e forse foderate internamente da una sorta di feltro, funzionale alla pulizia e alla conservazione della lama, chiuse sulla punta in un rinforzo in ferro decorato su entrambi i lati con un motivo ad anelli. Dalla lettura morfo-tipologica, condotta con Alessandra Milocco, è possibile datare la spada tra la metà del X e l’inizio del XII secolo; il pomo a «noce del Brasile» è attestato dalla fine del X alla metà del XIII secolo, ma la tipologia della
di Massimo Capulli lama consente di restringere questo arco cronologico. Si tratta di un momento storico in cui le coste dell’alto Adriatico erano controllate da Venezia, che in questo periodo era ancora subordinata all’impero di Bisanzio, e si stava aprendo la sanguinosa stagione delle crociate.
Dalla Renania all’Europa L’ampia diffusione di questa tipologia di spada, a cavallo tra la fine dell’Alto e l’inizio del Basso Medioevo, non consente di ricondurre l’arma a una particolare popolazione o precisa area geografica, né, tanto meno, al suo possessore. Secondo alcuni studiosi (Oakeshott, Edge, Paddock), le lame sarebbero tutte riconducibili a una unica zona di produzione che corrisponde alla Renania, ma da qui venivano esportate come prodotto semilavorato in tutto il resto d’Europa, nonché nel bacino del Mediterraneo, per essere poi rifinite secondo gli stili locali. Non bisogna inoltre dimenticare che l’oggetto spada viaggiava con il suo cavaliere e che quindi il luogo di rinvenimento non coincide necessariamente con chi in quei luoghi viveva. Ciò premesso, come e perché è finita in questo tratto di mare? Sulle due pagine, da sinistra la spada rinvenuta nelle acque antistanti l’isola di Martignano (Udine), dopo il recupero, ancora coperta dalle incrostazioni; durante il restauro; dopo l’intervento di rimozione delle concrezioni, che ha permesso di analizzarne la tipologia. In particolare, la fattura della lama ha consentito di inquadrarla tra la metà del X e l’inizio del XII sec.
Innanzitutto, considerato il fatto che è stata trovata nel fodero, bisognerebbe escludere la possibilità che si tratti di un gesto volontario di tipo cultuale o apotropaico, come quello che nell’età del Bronzo veniva praticato nelle acque interne, per esempio nel vicino fiume Stella. Sempre a causa della presenza del fodero, è sicuramente da eliminare la eventualità che sia caduto in mare durante un combattimento. Dal momento che una spada costituiva un oggetto di grande valore, ma di non piccole dimensioni, è assai improbabile anche che sia andata persa. Resta aperta invece la possibilità che non si tratti di un reperto isolato, ma che faccia parte di un piú ampio contesto archeologico: un naufragio. Tuttavia, anche questa possibilità, pur rimanendo la piú verosimile, non ha trovato conferme nelle prospezioni geofisiche che la Soprintendenza ha avviato nella zona del rinvenimento. Le faune cementate nella concrezione sono compatibili con un ambiente di spiaggia. Ciò potrebbe indicare che la spada è sempre stata nella zona in cui è stata poi trovata, ma anche piú semplicemente in una fascia di mare basso. L’eventuale naufragio sarebbe potuto avvenire piú al largo e, nel corso dei secoli, l’azione del mare potrebbe aver coperto e riscoperto i resti del vascello, smembrato e sparpagliato il suo carico. Finché, dopo mille anni, una pagina di questa storia, che sembrava perduta per sempre, è stata riconsegnata alla memoria di questa parte di Adriatico.
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ECHI DI UN ANTICO RITO Lago di Bolsena
A sinistra veduta dall’alto della struttura di forma ellittica, da sempre nota ai pescatori del lago di Bolsena e localmente chiamata Aiola, che recenti ricerche hanno permesso di interpretare come un’area di culto in uso già in epoca protostorica.
T
ra i rinvenimenti piú rilevanti avvenuti di recente, vi è certamente quello di una figurina in bronzo fuso che si inserisce eccezionalmente nel patrimonio finora conosciuto della plastica figurativa protostorica dell’Etruria meridionale. Si tratta di un ritrovamento unico non soltanto per la foggia, ma, soprattutto, per il contesto di provenienza, ovvero un luogo di culto, recentemente riconosciuto nell’insediamento sommerso della prima età del Ferro del Gran Carro di Bolsena (Viterbo). Noto dal 1959 a seguito della scoperta di un abitato su palafitta inquadrabile tra la fine del X e il IX secolo a.C., il complesso è attualmente oggetto di indagini condotte dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale in collaborazione con i subacquei specializzati del Centro Ricerche Archeologia Subacquea del Lago di Bolsena. Le recenti ricerche hanno messo in evidenza
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un complesso insediativo piú ampio e articolato di quanto finora conosciuto: è stata infatti indagata, per la prima volta, la monumentale struttura ellittica in pietrame a secco, localmente chiamata Aiola, da sempre nota ai pescatori locali e visibile anche dalle vedute aeree, in stretta relazione topografica con l’area della palafitta, ma del quale era fino a oggi sconosciuta la funzione.
Un tumulo imponente Alla luce delle evidenze emerse grazie allo scavo stratigrafico, il monumento sembrerebbe poter essere interpretato come un’area dedicata al culto, formatasi nel tempo, probabilmente da un nucleo centrale piú antico almeno già dall’età del Bronzo Finale, che si è espansa, proprio per la natura dei riti svolti, fino a formare un enorme tumulo delle dimensioni di 60 x 80 m circa e un’altezza di 2,5 m circa. La presenza di sorgenti di acqua calda, piú volte menzionate anche in passato, ha forse
di Barbara Barbaro Sulle due pagine operatori subacquei impegnati nella documentazione e nel recupero di materiali individuati nell’area di culto.
determinato la scelta del luogo da dedicare a divinità probabilmente ctonie. I rituali dovevano prevedere la deposizione di pietre a copertura dei resti delle pratiche eseguite, quali l’accensione di fuochi, l’utilizzo di vasi di dimensioni reali o miniaturistici, il consumo di cibo, la combustione di cereali, l’offerta di una grande quantità di oggetti metallici, spesso frammentati, probabilmente appositamente defunzionalizzati – tra cui fibule, anellini, spilloni in bronzo, rotelle a raggi – e molti altri oggetti, come fusaiole – anche finemente decorate –, perline di vetro azzurro o bianco oppure in osso, ovvero oggetti che sembrano in qualche modo riconducibili alla sfera femminile. È stato inoltre documentato il seppellimento di
vere e proprie offerte tramite deposizioni di vasi, soprattutto biconici – riempiti di resti vegetali bruciati e resti di cibo rappresentati da ossa animali –, coperti da scodelle a orlo rientrante, a loro volta ricoperti di pietre, richiamando per certi aspetti il rituale delle tombe a incinerazione villanoviane.
La cura dei particolari Tra i manufatti metallici rinvenuti tra le pietre, certamente associata a materiali ascrivibili alla prima età del Ferro, vi è una figurina antropomorfa, di piccole dimensioni, accuratamente dettagliata nei particolari, forse parte di un oggetto piú complesso. Leggermente deformata a causa del peso delle pietre da cui era ricoperta, la figurina si
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
In alto un operatore mostra un reperto appena recuperato. A sinistra vasellame individuato nell’area di culto, ancora in situ.
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In alto, a destra la figurina antropomorfa in bronzo fuso recentemente scoperta nel corso delle indagini condotte nel sito del Gran Carro di Bolsena.
presenta composta da vari elementi, che, separatamente, possono richiamare la bronzistica nuragica, come la stilizzazione del viso con i grandi occhi e il naso che emerge al centro, la nuca che riproduce trecce fissate da fermatrecce, la goliera cordonata, le mani ben disegnate. Sembrerebbe invece essere unico l’elemento di filo bronzeo ritorto che forma il corpo, l’anello nella parte posteriore forse funzionale a un qualche tipo di fissaggio e le lunghissime ed esili braccia, che reggono un copricapo scanalato con espansioni laterali, formate da cerchi concentrici, di funzione non chiaramente interpretabile.
L’unicità del manufatto ne rende ancora misteriosa l’origine oltre che la funzione. La figurina potrebbe essere stata infatti prodotta localmente pur richiamando stili come quello nuragico o del geometrico greco, o essere stata importata da regioni esterne all’Etruria meridionale e quindi prodotta altrove. Analisi archeo-metallurgiche sono ancora in corso e solo attraverso un attento studio delle componenti si potrà forse svelare l’origine di tale manufatto, rivelando importanti aspetti sugli scambi culturali oltre che commerciali tra l’entroterra mediotirrenico e la costa del Mediterraneo.
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I FOSSILI DELLE ALLUVIONI Fiume Po
A
lla base di tutto c’è sempre l’acqua. Acqua che scorre, erode, trasporta, disseta e unisce. Per questo le piú grandi civiltà sono sorte sulle rive dei fiumi, e dal susseguirsi di queste grandi civiltà derivano i nostri saperi, la nostra cultura. Civiltà millenarie hanno indagato il loro passato erigendo poi, esse stesse, monumenti, palazzi, archivi e tombe per essere tramandate e ricordate nelle memorie future, le nostre. Questo periodo si chiama storia. Ma chi può dirci qualcosa a riguardo dei tempi che precedono questa rivoluzione umana? Quali indizi possiamo ricercare affinché si possa tentare di ricostruire il passato delle
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A destra veduta dall’alto di una barra fluviale dall’alto: particolare con tronchi fossili e ossidi di ferro. In basso, sulle due pagine una barra fluviale in località Motta Baluffi (Cremona).
di Davide Persico
A sinistra cranio ed emimandibola di bisonte (Bison priscus).
specie, della Pianura Padana o addirittura del nostro Pianeta? A simili interrogativi risponde il libro della crosta terrestre, milioni di anni di informazioni incluse negli strati sedimentari. Per la Pianura Padana, a indagare l’archivio geologico, contribuisce Eridano (nome di un
fiume mitologico che la maggior parte degli autori antichi identificava con il Po, n.d.r.), lo stesso fiume che Tolomeo portò a scorrere nel cielo in analogia col fiume piú grande d’Italia, che ancora oggi scorre generando e rimodellando la propria pianura.
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In alto megacero o Cervo gigante (Megaloceros giganteus). A sinistra emimandibola di leone delle caverne (Panthera leo spelaea). In basso, sulle due pagine la barra fluviale di Isola Pescaroli (Cremona).
Ed è proprio grazie al Po se antiche memorie di ciò che ha preceduto l’uomo riemergono portando altra conoscenza sulla nostra preistoria. Queste memorie si chiamano fossili.
Resti animali, vegetali e conchiglie I fossili sono generalmente resti, tracce o impronte di organismi vissuti in epoche preistoriche, ma, nel Po, l’accezione del termine si restringe quasi esclusivamente al solo ambito osteologico, quello cioè di ossa e denti fossili. È comunque importante sapere che nei sedimenti del fiume le ossa e i denti antichi non sono gli unici resti paleontologici. Si possono infatti ritrovare anche vegetali carbonificati (tronchi, frutti, semi), tronchi pietrificati e conchiglie marine, queste ultime testimoni dell’antico golfo adriatico che nel PlioPleistocene occupava l’attuale Pianura Padana. Conosciuti fin dai tempi di Ludovico Sforza e comuni sulle barre di meandro, i fossili del Po vengono denominati «delle alluvioni» e risultano di straordinario interesse nella ricostruzione dell’associazione faunistica evolutasi con la Pianura Padana nel periodo Quaternario (2,58-0,0117 milioni di anni fa). Il Quaternario è caratterizzato da intense variazioni climatiche, le fasi glaciali. Questi
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cambiamenti, intervallati da periodi interglaciali, hanno spinto a migrare, fino in Pianura Padana, mammiferi provenienti prevalentemente dall’Asia, ma anche dall’Africa. Le fasi climatiche glaciali e interglaciali del Quaternario sono state volano di immigrazioni e di emigrazioni, di estinzioni e anche di spostamenti altitudinali di specie che oggi troviamo sia viventi sull’arco alpino, come anche, e soprattutto, nei frammentari resti ossei e dentari sedimentati nelle alluvioni del Po. Negli ultimi decenni, il fiume è profondamente mutato a causa di scellerati lavori di bacinizzazione realizzati negli anni Sessanta del Novecento e al mutamento climatico in atto, capaci di abbassare il livello dell’alveo i primi e di prosciugarne il letto il secondo. In una geomorfologia fluviale alterata
dall’azione antropica, il fiume Po si trova oggi a subire tutti gli effetti di un clima in perenne surriscaldamento, tali da ridurne drasticamente la portata mettendo a nudo enormi distese alluvionali all’interno di ogni meandro: le spiagge o barre fluviali. L’azione erosiva e di trasporto del fiume, soggetto nel suo medio tratto a una pendenza inferiore al 2‰, determina disseppellimento e risedimentazione di reperti fossili importanti, oltre che di reperti archeologici costituiti prevalentemente da materiale fittile di differenti epoche, dal Paleolitico fino all’epoca moderna. I resti ossei fossili rinvenuti in questo ultimo decennio, con picchi recenti nel numero di ritrovamenti a opera di appassionati o di comuni frequentatori del fiume, vengono generalmente consegnati al Museo
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Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (Cremona), ente che ne cura la conservazione e lo studio. Essi sono rappresentati da ossa sempre disarticolate e crani di mammiferi di grandi dimensioni. Si annoverano in particolare, tra gli erbivori, resti di rinoceronte di Merck (Stephanorhinus kickbergensis), elefante antico (Elephas antiquus), mammut (Mammuthus primigenius), bisonte (Bison priscus), ippopotamo (Hippopotamus amphibius), megacero o cervo gigante (Megaloceros giganteus), alce (Alces alces), cervalce (Cervalces latifrons), stambecco (Capra ibex) e, tra i carnivori, il leone delle caverne (Panthera leo spelaea), il leopardo (Panthera pardus), la iena maculata (Crocuta crocuta), l’orso bruno (Ursus arctos) e il lupo (Canis lupus), oltre a numerosi resti umani (Homo sapiens) e a un raro frammento cranio di Homo neanderthalensis.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
Specie «calde» e «fredde» Tuttavia, come si intuisce dalle specie che la compongono, questa complessa mammalofauna fossile padana non è del tutto coeva, ma caratterizzata da sub-associazioni faunistiche di tipo climatico. Esse rappresentano cioè le faune a mammiferi che hanno abitato le ultime tre fasi dell’evoluzione climatica della Pianura Padana negli ultimi 180 000 anni. Specie «calde», come l’ippopotamo e l’elefante antico, fanno da contraltare a specie tipicamente glaciali, come il megacero, l’alce o il mammut, che progressivamente hanno lasciato spazio a una fauna piú temperata e tipica dell’ambiente A sinistra l’attracco di Isola Pescaroli e Ponte «Verdi» (San Daniele Po, Cremona).
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In alto cranio di lupo (Canis lupus) e osso parietale di Homo sapiens sulla spiaggia Boschi Maria Luigia, presso Coltaro (Parma).
moderno in cui viviamo e che si riconosce ancora oggi come residua fauna glaciale nella moderna fauna alpina. Il prolungato stato di magra a cui è assoggettato il Po dall’autunno 2021 a oggi ha contribuito fortemente all’incremento di questi ritrovamenti paleontologici, senza però aggiungere nuove specie alle già elencate e ritrovate nel decennio precedente. L’eccezionale siccità padana del 2022, determinata da prolungate condizioni di
alta pressione sul Nord Italia, è comunque, dal punto di vista paleontologico, un evento eccezionale da cogliere per gli studiosi al fine di incrementare le conoscenze preistoriche della regione ma anche un monito a comprendere i segnali allarmanti di un cambiamento climatico che dovremo fronteggiare in analogia con quelli che hanno coinvolto le specie di mammiferi che sono migrate o che si sono estinte nella regione Padana nel corso del tempo.
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MONOGRAFIE
n. 50 agosto/settembre 2022 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Barbara Barbaro è funzionario archeologo subacqueo della Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma e per la Provincia di Rieti. Andrea Camilli è direttore del Museo delle Navi Antiche di Pisa, Direzione Regionale Musei Toscana. Pippo Cappellano è giornalista e documentarista scientifico. Massimo Capulli è docente di archeologia subacquea e navale presso l’Università degli Studi di Udine. Eligio Daniele Castrizio è professore ordinario di numismatica all’Università degli Studi di Messina. Giuseppina Carlotta Cianferoni già direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, Direzione Regionale Musei Toscana. Maria Raffaella Ciuccarelli è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per le province di Ancona, Pesaro e Urbino. Angelina De Laurenzi è funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale ABAP di Roma. Luigi Fozzati, membro dell’Istituto Italiano di Archeologia Subacquea, già soprintendente archeologo e docente di archeologia subacquea all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Stefano Gennaro è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Provincia di Vibo Valentia. Alessandra Ghelli è funzionario archeologo e archeologo subacqueo del Segretariato Regionale MIC della Calabria. Carmelo Malacrino è Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Flavia Marimpietri è giornalista. Piera Melli è stata direttore archeologo della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria. Francesca Oliveri è funzionario archeologo della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana. Davide Persico è professore associato di paleontologia e paleoecologia all’Università di Parma. Christos G. Piteros già soprintendente per l’archeologia dell’Argolide. Fabrizio Sudano è soprintendente ABAP per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Provincia di Vibo Valentia. Illustrazioni e immagini Araldo De Luca: copertina e pp. 10/11, 14-15, 18-23, 28-29, 32-33 – Jacques Descloitres, MODIS Land Rapid Response Team: p. 8 – Shutterstock: pp. 12/13, 25, 38-39, 46/47, 96/97, 104/105, 116/117 – Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, Archivio fotografico, Pertini: p. 16 – Alamy Stock Photo: pp. 24/25, 43, 94-95 – Doc red.: pp. 26 (sinistra), 27, 34-35, 40 (sinistra), 45, 82-83, 84/85, 86-89, 102-103, 106-109 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 26 (alto) – da. Francesco M.P. Carrera, Il rinvenimento dei dobloni dal relitto di Orosei. Osservazioni preliminari, 2022: pp. 30-31 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Provincia di Vibo Valentia: pp. 36-37 – Dan Diffendale: pp. 40 (destra), 41, 42 – Cortesia Pippo Cappellano: pp. 47, 78-81 – Saverio Autellitano: elaborazioni grafiche e fotografiche alle pp. 48-51, 52, 53 (sinistra), 54-59, 63, 64-69 – Cortesia degli autori: p. 53 (alto e a destra), 60/61, 62/63, 70/71, 72/73, 74-77, 90-93, 118-119, 124129 – Museo Archeologico Nazionale, Firenze: pp. 98-101 – Museo Archeologico del Territorio di Populonia, Piombino: pp. 104, 105, 117 (alto) – Cortesia Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana: p. 114; Salvo Emma pp. 110-111, 112 (basso), 112/113, 113, 115; Richard Lundgren/GUE: p. 112 (alto) – Cortesia Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti: pp. 120-123. In copertina: i Bronzi di Riace. Metà del V sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.
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