GIULIO CESARE
L’ULTIMO DITTATORE
GIULIO CESARE
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GIULIO CESARE l’ultimo dittatore di Furio Sampoli
6. L’ascesa
L’ascesa di un predestinato 22. Guerra
e politica
Campagne militari e guerre intestine 44. La
conquista della
Gallia
La Gallia consacra l’«uomo forte» 66. La
guerra civile
«Il dado è tratto» 100. La
fine
Ventitré pugnalate
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L’ASCESA DI UN PREDESTINATO NATO DA UNA DELLE PIÚ NOBILI FAMIGLIE CAPITOLINE, LA GENS IULIA, GAIO GIULIO CESARE SI IMPONE PRESTO PER LE SUE BRILLANTI CAPACITÀ MILITARI. MA È DOPO LA MORTE DEL DITTATORE SILLA CHE LA SUA CARRIERA DECOLLA: È L’INIZIO DI UNA PARABOLA DESTINATA A FARE DEL PERSONAGGIO L’ARBITRO SUPREMO DELLE SORTI DI ROMA
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ucio Cornelio Silla, il dittatore, era stato lapidario nel giudizio: «Esultate pure e tenetevelo stretto, ma questo Cesare, che volete salvare a ogni costo, sarà un giorno la rovina dell’aristocrazia. In Cesare, vi dico, si nascondono mille Marii». Era l’anno 81 a.C. e Sulla Felix cedette alle preghiere delle Vergini Vestali e dei parenti di Cesare (fra i quali, soprattutto, il fratello della madre Aurelia), cancellandolo dalle liste di proscrizione. La guerra civile fra i popolari e l’oligarchia senatoriale, ridotta ben presto al protagonismo esasperato di Mario e di Silla, durava da sette anni. A Roma e in Italia distruzioni, campi bruciati, donne violentate, schiavi che denunciavano e uccidevano i loro padroni, e massacri e atrocità da una parte e dall’altra che si erano ripetuti secondo un rituale accettato di odio e di morte. La battaglia di Porta Collina (1° novembre 82 a.C.) chiuse le porte alla guerra guerreggiata, non al tempo delle vendette. Primo atto, l’indomani, con l’efferata carneficina degli ottomila prigionieri sanniti, ammassati
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come bestie nell’ippodromo. Per piú giorni sullo spazio grigio delle gradinate rimase sospeso quel loro ululato di bestie sgozzate. La città inondata di sangue, mentre nel tempio di Bellona, dèa della guerra, ai senatori riuniti in seduta permanente Silla, annoiato di vincere, «Che cos’è questo baccano?» diceva sprezzante. «Fateli tacere». Nell’81 a.C. nessuno a Roma, prima del riluttante perdono di Silla, avrebbe scommesso sulla vita di Cesare, meno che mai sul suo avvenire politico. Di anni ne aveva diciannove. A quindici gli era morto il padre. L’anno dopo gli viene conferita la carica di flamen Dialis, riservata ai patrizi. Lui ha abbracciato la causa dei popolari contro gli oligarchi, un gesto spavaldo di indipendenza e di tradimento politico. Rimaneva, comunque, un patrizio della gens Iulia che vantava la discendenza da Iulo, figlio di Enea, nato a sua volta da Venere, e quindi non solo la piú antica, eroica nobiltà del Lazio, ma addirittura di origine divina. Vero è che sua zia, sorella del padre, era stata la moglie di Caio Mario, un provinciale di Arpino, vincitore dei Cimbri e dei Teutoni, sette volte console, e che lui, Cesare, giovanissimo, in seconde nozze, si era unito in matrimonio con Cornelia, figlia di Cornelio Cinna, ex console e, morto Mario, capo dei popolari.
Una sfida aperta Ritornato a Roma sulla punta delle spade, Silla impone a Cesare il ripudio della moglie. Non era da Cesare inchinarsi a ordini o imposizioni. Silla, indispettito, gli toglie la carica di flamine, la dote della moglie, le eredità di famiglia. Ma Cesare non si piega. Piú che una prova di carattere o una esibizione di coraggio la sua fu una sfida aperta alla intangibilità del dittatore. Nella desolazione delle paure, adulazioni, ipocrisie e delazioni, di colpo il nome di
Due immagini di un ritratto di Giulio Cesare in scisto verde, di provenienza ignota ma probabilmente dall’Italia, datato alla prima metà del I sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlungen.
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Cesare rimbalza dai crocicchi della Suburra alle taverne del Foro, eccita le fantasie popolari. Braccato dai sicari, cambia luogo ogni notte e la volta che un centurione lo scopre, gli paga il doppio della taglia, finché – come si è detto – parenti e Vestali riescono a mitigare lo sdegno del dittatore. Scappa allora in Asia. A Roma ha lasciato la moglie Cornelia e un grande amore,
Copia in gesso di un ritratto maschile convenzionalmente identificato con Lucio Cornelio Silla. Monaco di Baviera, Gliptoteca.
Servilia, sorellastra di Catone, maritata a Marco Giunio Bruto (tribuno della plebe nell’83 a.C.), in seguito madre di Bruto. Come semplice legionario si mette agli ordini del pretore Marco Minucio Termo, si guadagna la corona civica all’assedio di Mitilene, per la sua virtus in combattimento stupisce commilitoni, come lo stesso pretore. Era, del resto, «abilissimo nell’uso delle armi e nel cavalcare e sopportava le fatiche in modo incredibile». Inviato poi da Termo andò in Bitinia dal re Nicomede per allestire una flotta. L’amicizia del re sarebbe stata con il tempo – e via via che cresceva l’incisività politica di Cesare – fonte di vituperose calunnie da parte dei suoi nemici dell’oligarchia. Niente di nuovo sotto il sole. A Roma la lotta politica era senza esclusione di colpi. Esempio illustre: le Filippiche di Cicerone, monumento di eloquenza, ma insieme di rancori, di infamie, di travisamento dei fatti. Dopo aver militato con il pretore Termo, Cesare combatté in Cilicia contro i pirati sotto il proconsole Servilio Isaurico, ma morto Silla (78 a.C.) tornò a Roma.
Uno sguardo da dominatore Velleio Patercolo dice che Cesare «era nell’aspetto il piú bello di tutti i Romani», di alta statura, come se invece che nella Suburra fosse nato (100 a.C.) nella Cisalpina o nella Narbonense. Poi asciutto, diritto, spigliato o severo a seconda delle circostanze. Ma in lui, soprattutto, colpiva il fulgore degli occhi, neri e fulminei. Occhi, come diceva Servilia che ne era innamorata, da dominatore. Al suo arrivo a Roma, Cesare trova la città in subbuglio. Scomparso Silla dalla scena del mondo, l’oligarchia senatoriale aveva cercato di riappropriarsi dei poteri, che il dittatore le aveva o negati o limitati. Ma uno dei consoli, Marco Emilio Lepido, che pure come l’altro console Catulo apparteneva alla nobiltà, con un rapido voltafaccia, le si mette contro. Già ai funerali di Silla aveva acceso la torcia della rivolta. Ora rivendicava la tribunicia potestas tolta da Silla ai rappresentanti del popolo.
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Caio Mario tra le rovine di Cartagine, olio su tela di John Vanderlyn. 1807. San Francisco, Fine Arts Museums.
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Cesare, lucido, freddo, perfetto calcolatore, si astiene perfino dall’avvicinarlo. Lepido, in realtà, era un uomo avido, corrotto, privo di convinzioni e di scrupoli ed era trasmigrato dall’una all’altra parte politica, ripetutamente, tenendo dietro al vento rapinoso della fortuna. Non passarono sei mesi che fu sconfitto da Pompeo e fuggí in Sardegna, dove gli «amici» per lettera, e regolarmente, lo tennero informato sino alla morte dei tradimenti della moglie. A Roma Cesare si era impegnato nell’aula dei tribunali, intentando un processo per concussione all’ex console Cornelio Dolabella. Come oratore era del gruppo degli «atticisti». Velleio Patercolo dice che nell’eloquenza si avvicinava a Cicerone «piú di ogni altro», sebbene piú stringato, rapido, conciso. Ma perse la causa. Andò a Rodi. Una ritirata, forse, strategica. E a Rodi frequentò le lezioni di un gran maestro d’eloquenza, Apollonio Molone.
Sull’isola dei pirati Nel viaggio per mare, presso l’isola di Farmacussa, a nord di Mileto, fu catturato dai pirati, che allora controllavano il mare con grandi flotte e un numero sterminato di navi. Plutarco è dovizioso di particolari. Cesare rimase nell’isola trentotto giorni, trattando i pirati con tale disdegno che «sembrava fosse circondato da una guardia del corpo, piuttosto che da carcerieri». Prendeva poi parte ai loro divertimenti e ai loro esercizi ginnici, e ogni tanto scherzando diceva loro che li avrebbe impiccati. Da Mileto giunse il denaro del riscatto. Appena rilasciato, Cesare equipaggiò alcune imbarcazioni e partí da Mileto alla ricerca dei pirati. Li sorprese, mentre erano alla fonda nei pressi dell’isola, e li fece prigionieri. Poi a Pergamo, contro i tentennamenti del governatore d’Asia, Giunio, li impiccò. Rivide Roma dopo due anni e fu eletto tribuno militare con voto plebiscitario del popolo. Sostenne una legge che ripristinasse la potestà dei tribuni della plebe, già presentata e miseramente abortita con Emilio Lepido, ma al momento a sostenerla erano Pompeo e
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Statua in marmo di Afrodite del tipo detto della «Venere Genitrice». Copia romana da un originale greco non piú conservato e attribuito a Callimaco, scultore ateniese attivo nel V sec. a.C. Fine del I-inizi del II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Sulle due pagine ricostruzione virtuale della città di Roma, cosí come doveva presentarsi in età repubblicana.
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Denario di Giulio Cesare: al dritto reca il ritratto di Cesare (primo esempio di persona vivente ritratta su moneta romana). Fu coniato per decreto del Senato nel 45 a.C., pochi mesi prima della morte del dittatore. Al rovescio, Venere stante che sorregge una Vittoria nella destra e impugna uno scettro nella sinistra; la legenda riporta il nome del monetiere, Macer Sepullius. Nella pagina accanto l’acropoli di Lindo nell’isola di Rodi. Cesare vi si recò per frequentare le lezioni di retorica del famoso retore Apollonio Morone.
Crasso, pupilli di Silla. Poi Pompeo fu mandato contro Sertorio, che in Spagna teneva in piedi una specie di repubblica mariana; Crasso condusse a termine sul Silaro la guerra contro Spartaco, il gladiatore, che aveva acceso la rivolta degli schiavi. Nel 70 a.C. ambedue furono consoli e costrinsero il Senato alla restaurazione della potestà tribunizia.
Discendenza divina Una dimostrazione del grande consenso popolare e della simpatia che si aveva per lui, Cesare l’ebbe nel 68 a.C. In quell’anno era questore e gli morí, a distanza breve di tempo l’una dall’altra, la zia Giulia, moglie di Caio Mario, e la propria moglie Cornelia. Per la prima fece l’elogio funebre in qualità di nipote dinanzi a una folla immensa e cosí strabocchevole che si era riempito il Campo Marzio. Durante il funerale ardí anche esporre le statue e i trofei di Mario. Fu una determinata provocazione all’oligarchia senatoriale di provenienza sillana. Ma c’è di piú: nell’elogio funebre della morta affermò perentoriamente l’origine divina della propria famiglia, e indirettamente o direttamente di lui, Caio Giulio Cesare. «La stirpe materna di mia zia Giulia discende dai re; quella di mio padre si ricollega con gli dèi immortali. Infatti mia madre trae
origini dai Marzi, che discendono da Anco Marzio; la gente Giulia, invece, discende da Venere, e la mia famiglia è un ramo di quella progenie. Confluiscono quindi nella nostra gens la sacralità dei re, che hanno potere sugli uomini, e la santità degli dèi che hanno potere sugli stessi re». Era, in realtà, la professione di fede di chi credeva, per investitura divina, di essere padrone del proprio destino, come di dominare la fortuna. Ovvero una sorta di cosciente sacralizzazione di sé quale futuro conquistatore del mondo. Lo intrigava la figura di Alessandro che, per affermare davanti ai Macedoni e ai popoli d’Asia il diritto a un dominio illimitato, si era creato figlio di Giove. Logico e lucidissimo com’era, Cesare aveva bisogno di certezze o di conferme. L’ombra incombente di Alessandro gli venne incontro a Cadice, nel tempio di Ercole. Dal 67 a.C. Cesare era questore della Spagna Ulteriore e con la delega di pretore aveva visitato in lungo e in largo la provincia per amministrare la giustizia, finché non era giunto a Cadice. Nel tempio di Ercole c’era una statua
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L’ASCESA
Ostia Antica. Particolare del monumento sepolcrale di Cartilio Poplicola. Seconda metà del I sec. a.C. Sulla destra si riconosce una scena di battaglia navale, tradizionalmente identificata con l’allusione ai meriti del defunto nella lotta contro i pirati.
famosa di Alessandro Magno. Appena la vide, improvvisamente, fu scosso da una emozione violenta. Non aveva battuto ciglio durante le stragi della guerra civile, uguale sulle mura di Mitilene o contro i pirati, ma ora pianse, anzi piú teneva lo sguardo fermo sull’effigie del giovane re macedone, piú gli scorrevano le lacrime. Piangeva di sé: aveva trentatré anni (gli anni di vita del figlio di Olimpia) e dov’erano le glorie, le conquiste? L’altro aveva vinto, occupato, soggiogato un impero vastissimo, e solo la stanchezza e il rifiuto dei soldati gli avevano impedito di spingersi ai confini del mondo. Da Cadice Cesare affrettò il ritorno a Roma. Qualche giorno dopo ebbe un sogno: sognò di violentare la madre. Interpellati, gli indovini «gli predissero il dominio del mondo,
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Le illusioni di un generale baldanzoso
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alerio Massimo definisce Gneo Pompeo Magno (106-48 a.C.) «adulescentulus carnifex» soprattutto per l’uccisione, nell’ultimo anno della guerra civile, di Marco Giunio Bruto (il padre del cesaricida), che gli si era arreso. Aveva avuto, comunque, la baldanza di non «piegare la testa» dinanzi a Silla. Rimase celebre la frase all’indirizzo di Sulla Felix: «Il sole che nasce ha piú adoratori del sole che tramonta». Il titolo di Magno, con evidente allusione ad Alessandro, glielo diedero in Oriente. I suoi legionari
avevano la voce arrochita per gridargli a ogni vittoria il titolo di imperator. Sbarcò a Brindisi nel dicembre del 62 a.C., e il viaggio fino a Roma si trasformò in un continuo vortice di entusiasmi e di glorificazione. Liberò, infine, il mare dai pirati. Convinto di essere invincibile, fu tuttavia sorpreso dalle capacità militari di Cesare in Gallia; fino allora lo aveva giudicato un politico intrigante e abile. La morte di Giulia, che pure aveva molto amato, li mise uno di fronte all’altro. Credeva ancora alla sua superiorità. Lo illudevano gli adulatori, lo
giacché, spiegavano, la madre che aveva vista giacere sotto di lui, altro non era che la terra, considerata madre di tutti».
La fine di un’epoca Rituffatosi nella vita di Roma, Cesare tenne d’occhio lucidamente le vicende politiche, le lotte interne, segrete fra gli oligarchi. La sua analisi era fredda, tagliente: si stavano sbranando fra di loro, i Metelli contro gli Emili o i Marcelli contro i Domizi, e poi Crasso, Licinio Lucullo, licenziato dalla campagna d’Oriente, e il piú arrabbiato di tutti Catone, mentre appunto in Oriente Pompeo acquistava glorie militari a basso costo contro popoli imbelli, come avevano dimostrato le precedenti campagne di Silla e dello stesso Lucullo. La scelta di campo di Cesare erano i popolari. Aveva capito che l’epoca storica della città-stato a regime oligarchico senatoriale era finita; che il Senato non era l’impero, il quale era costituito ormai da province e quindi da un complesso di energie, di forze, prima fra tutte l’esercito, che non erano socialmente rappresentate dalla classe
illuse Tito Azio Labieno, che aveva disertato dal conquistatore delle Gallie. Ma dopo la cavalcata inaspettata, fulminea di Cesare da Ravenna a Brindisi, cominciò a temerlo. A Durazzo ebbe la grande occasione, ma non volle rischiare. A Farsalo fu costretto a combattere dalle insistenze, perfino ingiuriose, di chi era con lui. Scappò dal campo molto prima della fine della battaglia. Teofane gli evitò di chiedere aiuti e asilo ai Parti. Andò in Egitto dal giovane Tolomeo, che gli doveva il regno. I cortigiani erano incerti se accoglierlo o
Ritratto di Gneo Pompeo Magno. I sec. a.C. Venezia, Museo Archeologico. Fu tra i protagonisti delle lotte civili scoppiate a Roma nel I sec. a.C. Vanitoso e superbo, era però un condottiero coraggioso, che vinse in Asia Mitridate e la guerra sul mare contro i pirati. Fu prima alleato, poi acerrimo nemico di Cesare.
dirigente repubblicana. La prima picconata all’edificio fino allora intoccabile dell’oligarchia l’avevano data i Gracchi, ma non disponevano di un esercito o di un seguito militare e furono scannati. La fazione democratica rialzò la testa con Mario; lui, però, era tanto bravo generale, quanto politicamente grezzo e incapace. La sua grande intuizione: l’arruolamento volontario dei nullatenenti nell’esercito, che sganciava quest’ultimo dall’oligarchia senatoriale, in pratica era servito al Silla politico, che l’aveva trasformato nel suo piú straordinario strumento di potere.
no, specie considerando che si sarebbero inimicati Cesare. Teodoto di Chio, maestro di retorica del giovane re, fu esplicito: accoglierlo sí, ma morto. E aggiunse: «Un cadavere non morde». Pompeo fu trafitto nella barca che dalla nave, dove erano la moglie e il figlio minore, lo portava a riva, da due centurioni che erano stati nel suo esercito. Era il 28 settembre del 48 a.C. Aveva 59 anni e il giorno prima era stato il suo compleanno.
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Anzi l’avvio allo sgretolamento dell’oligarchia senatoriale lo dette – indirettamente – proprio Silla, che pure con efferatezza, senza viscere di pietà, aveva schiacciato la parte democratica. L’esercito, con cui aveva vinto, solo di nome era della Repubblica, di fatto ubbidiva a Lucio Cornelio Silla. Questa la lezione del dittatore: l’esercito era il potere. Punto di arrivo, quindi, per Cesare il comando di un esercito. Oltre all’abilità politica di inserirsi nel gioco delle lotte interne dell’oligarchia, doveva contare sull’incondizionato consenso popolare, che poi gli avrebbe dato volontari per l’esercito.
Una sovranità fittizia Costituzionalmente il popolo era sovrano; ma consolati, proconsolati, preture, edilità, questure, perfino il tribunato della plebe erano appannaggio delle trenta o quaranta famiglie dell’oligarchia che, a turno e secondo il fluire delle vicende umane, nonché attraverso matrimoni, alleanze, amicizie di censo, si alternavano al governo della repubblica. In quanto depositario di voti, il popolo era blandito con elargizioni o spaventato e, in caso di rivolte, oppresso con eccidi di piazza. Anche i leader popolari, se si eccettua Caio Mario (provinciale di Arpino, ma cresciuto all’ombra protettiva dei Metelli e passato poi ai Giuli), provenivano dalla stessa oligarchia. Difendevano i diritti della plebe nella misura in cui la plebe serviva loro da base politica, come forza d’urto o sostegno del loro potere. Cesare si affaccia alla ribalta quale continuatore della politica di Mario. Di ritorno dalla Spagna frequenta Ritratto di un personaggio maschile convenzionalmente identificato con Caio Mario. Età augustea. Città del Vaticano, Museo Chiaramonti.
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Il decadimento degli antichi costumi
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lla metà del I secolo a.C. la libertà sessuale delle donne aveva avuto a Roma un sussulto, toccando, soprattutto fra quante appartenevano alla classe dominante, livelli addirittura impensabili per il vecchio rigorismo repubblicano. A rompere gli argini perbenistici era stato l’eccesso di ricchezza affluita a Roma dopo le conquiste d’Oriente (e con essa la
corruzione e i fastigi del lusso). Poi le guerre civili, con la vita messa all’incanto giorno dopo giorno. Il sesso per le donne divenne un rituale di salvazione, piú che un cambiamento sociale. Morale e decenza andarono a picco. Ma, tornata piú o meno la normalità, continuò il lento scivolamento dei costumi. La licenza aveva fatto del pudore un retaggio inutile e ridicolo.
Frammento di coppa in terra sigillata romana con una coppia di amanti. Arezzo, Museo Archeologico. I costumi sessuali erano divenuti molto piú liberi nel corso del I sec. a.C.
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con piú determinazione i quartieri popolari: abitava nella Suburra, non gli era difficile avere contatti quotidiani «salutando e incontrando chiunque con grande affabilità». Poi si mette a spendere denari senza ritegno fino a indebitarsi. I suoi nemici dicevano che «appena avesse cessato di spendere, anche il suo prestigio sarebbe svanito»; solo piú tardi capirono, e Cicerone fu il piú acuto, che «in tutte le iniziative e manovre politiche Cesare perseguiva un solo intento: rovesciare la costituzione dello Stato romano e crearsi una tirannide». Ma non dimenticò le donne. Svetonio scrive che era incline alla sensualità e assai generoso nei suoi amori. Cesare – dice ancora Svetonio –
«Sedusse moltissime donne di nobile nascita: fra queste Postumia la moglie di Servio Sulpicio, Lollia la moglie di Aulo Gabinio, Tertulla moglie di Licinio Crasso e anche la moglie di Gneo Pompeo, Mucia». Per lo scoperto adulterio Gneo Pompeo, appena tornato dalle campagne d’Oriente, ripudiò la moglie che era della famiglia dei Metelli e gli aveva dato tre figli; in seguito, comunque, avrebbe accettato in matrimonio proprio la figlia di colui che l’aveva costretto al divorzio. Il fatto è, annota Dione Cassio, che l’avidità di potere consente tutto e il contrario di tutto. La storia ha esaltato Cesare come freddo politico, geniale signore delle vittorie; la
Sulle due pagine le Nozze Aldobrandini, affresco rinvenuto nel 1601 sull’Esquilino e cosí chiamato perché appartenuto al cardinale Pietro Aldobrandini. Età augustea. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Raffigura, sembra, una scena nuziale (particolare nella pagina accanto): al centro, una divinità (Afrodite?) consola la sposa, colta da inquietudine virginale, prima dell’arrivo del marito nella camera nuziale; accanto, una dea (Peitho?), versa essenze odorose in una conchiglia. Il dio Imeneo (o lo sposo) è sulla soglia. A destra vi è una scena di sacrificio e a sinistra, forse, una scena rituale. Altre teorie ravvisano nel dipinto riferimenti a figure mitologiche, storiche e letterarie.
Al fianco del dittatore
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esare ebbe quattro mogli; la prima fu Cossuzia, una donna ricca alla quale il futuro dittatore venne fidanzato all’età di sedici anni. Il matrimonio durò poco. A diciotto anni Cesare convolava a nozze con Cornelia, figlia di Cinna, alter ego di Mario. Il matrimonio durò sedici anni. Cornelia lasciava
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a Cesare una figlia, Giulia, ormai adolescente. Fu poi la volta di un’altra ricca donna, Pompea, figlia di Quinto Pompeo e nipote di Silla. Pompea, piú giovane del marito di 14 anni, fu ripudiata per un tradimento che creò un grande scandalo a Roma. L’ultima moglie di Cesare fu
Calpurnia, figlia di Lucio Pisone, unione, come le altre, dettata da ragioni politiche. Tra le numerose amanti Cesare privilegiò sicuramente Servilia, discendente della gens Servilia. Il caso volle che ad assassinare il dittatore fosse nel 44 a.C. proprio il figlio di Servilia, Bruto.
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universalità degli uomini lo ha identificato con l’immagine stessa del potere; non ugualmente riconosciuta, nonostante i pettegolezzi di Svetonio, la sua propensione di impenitente e incorreggibile libertino. Giovanissimo, come si è scritto, amò Servilia e le fiamme di questo amore (quando divenne console le regalò una perla del valore di sei milioni di sesterzi) ebbero riflessi fino agli ultimi anni, in pratica fino all’arrivo a Roma di Cleopatra. Intanto Servilia aveva partorito un figlio, Marco, perduto il marito, e sposato Giunio Silano, poi consolare. Anche Cesare si risposa. La sua terza moglie fu Pompea, figlia di Quinto Pompeo e nipote di Silla. Se ne sarebbe pentito dopo appena tre anni.
Oltre ogni eccesso Nel 65 fu edile insieme con Marco Lucio Calpurnio Bibulo. Gli oligarchi lo avevano eletto proprio per contrapporlo a Cesare. Il quale offrí al popolo spettacoli di gladiatori, rappresentazioni di ogni genere, parate, banchetti pubblici, tanto che il popolo «cercava ormai di offrirgli nuove cariche per ripagarlo dei suoi benefici». Un particolare non irrilevante: tutte le attività concernenti la carica degli edili furono attribuite dal popolo soltanto a Cesare, ignorando completamente Bibulo. Lo stesso sarebbe accaduto per l’anno di pretura e peggio ancora per quello del consolato, che Cesare e Bibulo ricoprirono insieme. L’anno dopo moriva il pontifex maximus Quinto Cecilio Metello Pio. Per l’elezione vi concorrevano consolari quali Servilio Isaurico e Catulo, quest’ultimo addirittura principe del Senato. Anche Cesare si presentò al popolo, annunciando la propria candidatura. Quando venne il giorno delle elezioni, la madre Aurelia lo accompagnò alla porta di casa in lacrime; ma Cesare la baciò e disse: «Oggi, madre, vedrai tuo figlio pontefice massimo oppure bandito dalla patria». Vinse Cesare, aveva trentasei anni. La vittoria inaspettata e voluta dal popolo «fece temere al Senato e all’aristocrazia che Cesare potesse condurre il popolo a ogni eccesso».
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Mario a Minturno, olio su tela di Jean-Germain Drouais. 1786. Parigi, Museo del Louvre. L’opera si ispira alla Vita di Mario di Plutarco e ritrae il generale, seduto su uno scranno, che guarda verso un sicario che si copre il volto con il mantello.
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Affresco nel quale si immagina Cicerone mentre pronuncia la sua requisitoria contro Catilina, che ascolta, isolato, dal proprio seggio. Il dipinto fa parte del ciclo realizzato da Cesare Maccari per una sala di Palazzo Madama, a Roma, sede del Senato della Repubblica italiana. L’artista senese, che aveva vinto nel 1880 il relativo concorso, ultimò l’opera nel 1888.
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CAMPAGNE MILITARI E GUERRE INTESTINE GRAZIE AI TRIONFALI SUCCESSI BELLICI, IL POTERE DI CESARE CRESCE A DISMISURA. COSÍ COME L’INVIDIA E IL RANCORE DEI SUOI DETRATTORI E NEMICI «IN CASA»...
GUERRA E POLITICA
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i arriva alla congiura di Lucio Sergio Catilina (63 a.C.). Questi aveva giocato i dadi scandalosi della violenza, della corruzione, del ricatto. Schiacciato dalla implacabilità delle orazioni ciceroniane, fugge da Roma. Rimanevano in città i suoi complici Cornelio Lentulo Sura e Cornelio Cetego. Chiamato in Senato a esprimere il tipo di punizione da infliggere loro, Cesare disse che le leggi romane non consentivano di mandare a morte senza processo personaggi illustri, uno dei quali ex console e pretore appena dimessosi. Meglio incarcerarli e tenerli prigionieri in qualche città italiana. Contro Cesare si avventò Catone, accusandolo di intese segrete con i congiurati. Accadde che, mentre parlava, portassero a Cesare un biglietto. Per Catone era la prova irrefutabile di quanto stava sostenendo. Cesare non si scompone, con tranquillità passa il biglietto a Catone. L’altro lo apre: era un invito scollacciato di Servilia, la sorellastra, per Cesare. Amatissimo da Servilia, Cesare conobbe, però, un incidente di percorso familiare, non nuovo d’altronde nella società bene di Roma. In quell’anno (62 a.C.) era pretore urbano e la sua terza moglie Pompea si era invaghita del play boy del tempo, Publio Claudio Pulcro. Ai primi di dicembre in onore della dea Bona si celebrava una festa notturna a carattere orgiastico, alla quale potevano partecipare solo le donne. La celebrazione della festa toccò alla madre di Cesare Aurelia e alla moglie Pompea. Come pontefice massimo Cesare abitava ora nel Foro nella domus publica accanto alla Casa delle Vestali. Publio Claudio (poi Clodio) pensò di approfittare della festa per introdursi nella casa, vestito da giovane flautista. Finí, invece, col cascare nelle braccia di un’ancella di Aurelia. Tradito dalla voce, fuggí. In tribunale negò il fatto, dicendo che il giorno e la notte era in una villa di Cicerone. Il grande oratore, chiamato a testimoniare, lo sconfessò. Cesare, intanto, aveva ripudiato Pompea. Non la riteneva colpevole disse ai giudici, ma la moglie di Cesare doveva essere al di sopra di ogni sospetto. Ne uscí, insomma, con raffinata
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disinvoltura: Claudio (Clodio) era un demagogo e amato dal popolo e non era da un politico avveduto, tanto meno da Cesare rischiare di avere contrasti o divisioni fra gli stessi popolari o anche solo scalfire il proprio grande potenziale di popolarità (quindi di voti) che godeva nella Suburra, al Velabro, all’Argileto, al Quirinale e in tutti i vicoli della città.
Il rientro da vincitore Infine a Roma arrivò Pompeo, reduce dalle campagne d’Oriente. L’avevano accompagnato fiumane di gente in cori di lodi e di applausi fino da Brindisi e accodandosi via via lungo l’Appia. A Brindisi Gneo Pompeo, ligio alle regole, aveva pagato e licenziati i soldati. Non si presentava a Roma come Silla. Dopo la paura il Senato tirò un sospiro di sollievo; e poi, vergognoso della propria viltà, non gli lesinò attacchi nella Curia. A Roma rientrò anche Cesare, dopo piú di un anno di governatorato nella Spagna Ulteriore, dove aveva anticipato un saggio del suo genio militare. Aveva bruciato il tempo per porre la candidatura al consolato del 59 a.C. Le vittorie militari contro i Callaici e i Lusitani gli davano il diritto al trionfo. Il Senato (soprattutto per la pervicacia di Catone) commise l’ingenuità di metterlo al bivio: la candidatura o il trionfo. Cesare rinunciò al trionfo e portò a termine contro il Senato un capolavoro politico: rappacificare i due massimi
Uno scorcio della Casa delle Vestali, nel Foro Romano. Qui dimoravano le sacerdotesse addette a uno dei culti piú importanti dell’antica Roma e che, fra l’altro, dovevano vigilare affinché fosse sempre ardente il fuoco acceso in onore della dea. Accanto a essa era l’abitazione di Cesare, profanata da Publio Clodio, che cercava un incontro con la moglie di Cesare, Pompea, durante la festa della Bona Dea.
Una vita (e una morte) all’insegna del rigore I busti di una coppia di sposi, tradizionalmente indicati come Porzia e Catone. Città del Vaticano, Museo Pio Clementino.
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arco Porcio Catone (94-46 a.C.) non ebbe fortuna nel cursus honorum, giacché non raggiunse il vertice che avrebbe legittimato l’importanza che di fatto esercitava nella condotta della politica oligarchica. Fu tribuno della plebe, questore, pretore. Non andò oltre. Non ebbe comandi militari e quando gli furono offerti nel corso della guerra civile, li rifiutò, accampando scrupoli istituzionali. Nel 51 a.C. si presentò candidato al consolato con un programma preciso e «ringhioso»: togliere anzi tempo a Cesare il comando dell’esercito della Gallia. Non fu eletto, né ebbe altre occasioni. Furono consoli il genero Bibulo e i cognati Silano, Lucullo, Enobarbo. Di carattere era aspro, intollerante, avido di esibizionismi, come di gloria, ma incapace di conseguirla. Non ebbe miglior fortuna nella vita privata. La prima moglie Atilia gli dette due figli, ma la ripudiò per «comportamento indecoroso». Delle due sorellastre, la maggiore ripudiata da Lucullo, l’altra, Servilia, amante di Cesare. La seconda moglie, Marcia, la «prestò» a Ortensio Ortalo e se la riprese alla morte di quest’ultimo insieme con l’eredità. Il suicidio di Utica lo consacrò figura simbolo di rigore morale, di obbedienza alle leggi, di coerenza politica.
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protagonisti della potenza romana Pompeo e Crasso, insofferenti avversari dal periodo di Silla. Gneo Pompeo è all’apice della gloria e, scimmiottando Alessandro, ha preso il nome di Magno. Marco Licinio Crasso è, al momento, in disuso quanto a glorie militari. Banchiere, costruttore edile, appaltatore, creditore di mezza Roma e di mezza Italia, ha garantito per i debiti di Cesare, incalzato dai creditori prima di partire per la Spagna ulteriore. Ora Cesare li lega a sé con un patto che sorprende e sembra a tutti straordinario: il primo triumvirato. Cosciente o meno, l’oligarchia è perduta. L’intesa fra Cesare, Crasso e Pompeo partorisce il mostro della spartizione che di colpo annulla le aspettative, la linea politica della fazione aristocratica. In realtà è un potere privato che si erge al di sopra del potere legale. L’anno dopo, 59 a.C., Cesare diventa console con i voti popolari e i soldi di Crasso. Senato, patrizi, magistrati, tribuni della plebe avvertono un cappio intorno al collo. Non si è ancora spenta nelle basiliche del Foro l’eco degli atti del triumvirato, che si odono per la città le trombe e i canti matrimoniali: Giulia, la figlia nemmeno ventenne di Cesare, convola a nozze con Gneo Pompeo Magno; Calpurnia, figlia di Lucio Pisone, è invece la quarta moglie di Cesare.
La rabbia dell’oligarchia Se il triumvirato equivalse, all’interno della Repubblica, ai prodromi di guerra fra i poteri istituzionali, il consolato di Cesare fu un vero e proprio atto di guerra. Nei primi quattro mesi Cesare fece approvare una serie di leggi che limitavano l’autorità e il potere oligarchico, riaffermando per contro la sovranità popolare. Poi emanò la legge sulla riforma agraria che distribuiva le terre ai veterani di Pompeo e sistemava nell’ager publicus piú di trecentomila cittadini romani che avevano tre o piú figli a carico. Quest’ultima disposizione, come era prevedibile, sollevò la rabbia dell’oligarchia, che dalla fine dei Gracchi considerava l’ager publicus una specie di riserva di caccia a uso esclusivo dei membri del Senato. L’altro console Bibulo e Catone (del quale Bibulo
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avrebbe sposato la figlia giovanissima, Porzia), il giorno della votazione della legge, si piantano con i loro piú accesi sostenitori nel pronao e sulla scalinata del tempio dei Dioscuri e da lí inveiscono e contro Cesare e contro la legge. Dicevano che Cesare (complice Pompeo) si serviva della distribuzione delle terre per ingannare il popolo e renderlo, al momento opportuno, succube delle sue mire dittatoriali. Cesare non ci pensò due volte: fa disperdere i dimostranti e arrestare Catone. L’indomani Bibulo ebbe di peggio: «appena fu davanti al tempio e tentò di parlare, fu trascinato giú per i gradini, furono rotti i fasci e piovvero percosse e ferite sui tribuni e gli altri del seguito». Passarono due giorni e a Bibulo, appena mise piede nel Foro, alcuni scalmanati gli riversarono addosso un cestello di escrementi. Intimorito o disdegnato, Marco Lucio Calpurnio Bibulo si ritirò a casa e «non si mostrò in pubblico fino agli ultimi giorni dell’anno». A Roma il consolato del 59 a.C. (694 di Roma) era detto di Cesare e di Caio Giulio. La legge agraria ebbe anche una coda che direttamente coinvolse Cicerone. Cesare gli aveva offerto la carica di commissario di controllo in Campania per l’attuazione della legge. Cicerone rifiutò; borioso e portato com’era a sopravvalutare se stesso, dovette reputare l’incarico non conforme alla sua
In alto rilievo raffigurante un contadino intento alla mietitura. Epoca gallo-romana. Arlon (Belgio), Musée Archéologique d’Arlon. Le leggi agrarie furono oggetto di contesa in Senato tra Cicerone e Cesare. Nella pagina accanto busto di Giulio Cesare, con testa e collo in bronzo e mantello in calcare rosso del Cattaro. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Il ritratto è un’opera moderna, probabilmente attribuibile a un’officina mantovana attiva nel XVI sec., che produceva busti di personaggi illustri per i Gonzaga.
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GUERRA E POLITICA Il principe dell’oratoria
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ato ad Arpino, come Mario, Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) raggiunse i fastigi del consolato nel 63 a.C. Le circostanze lo favorirono: lui, cavaliere, ebbe l’appoggio dell’aristocrazia proprio contro uno dei suoi membri, Lucio Sergio Catilina. Poi la denuncia e la risoluzione della congiura (le Catilinarie) segnarono il punto piú alto della sua carriera politica, come sono per lui, nel tempo, un costante riferimento di autoglorificazione. Tuttavia, mandò a morte cinque cittadini romani (fra cui un ex console), senza processo e senza il voto popolare. Il che gli costò l’esilio. Non di rado si ergeva a custode,
Busto in marmo e onice raffigurante un uomo in età matura, tradizionalmente identificato con un ritratto di Marco Tullio Cicerone. Età flavia. Firenze, Galleria degli Uffizi.
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interprete fedele delle leggi e della costituzione repubblicana, ma con uguale severità era dimentico delle medesime o addirittura le stravolgeva ogniqualvolta gli avvenimenti o i cambiamenti di fortuna non concordassero con i suoi intendimenti, progetti, odi politici. Fu anche, se non il primo, certo il piú geniale e lucido artefice di un metodo di lotta politica imperniato sulla demonizzazione dell’avversario. Gli strumenti erano quelli naturali, di sempre: la suggestione della parola, la capacità di distorcere drammaticamente i fatti, cosí come di suscitare immagini, mostri, esaltazioni.
dignità. E Cesare si offese. Di lí a poco si celebrò il processo contro Gaio Antonio Hybrida, proconsole di Macedonia, accusato di concussione. Lo difendeva Cicerone. Erano stati consoli l’anno della congiura di Catilina. Nel corso dell’arringa Cicerone deplorò la situazione del momento, ricordò i suoi meriti in difesa della libertà e delle istituzioni repubblicane, poi si lasciò sfuggire chiare allusioni contro il console e contro il triumvirato, che soffocava appunto quella libertà e quelle istituzioni che lui aveva difese. Cesare ne fu informato. All’istante, per ripicca e per ripagare Cicerone della stessa moneta, tirò fuori la richiesta di Publio Claudio Pulcro per il passaggio dall’ordine patrizio a quello plebeo (da qui il cambiamento da Claudio in Clodio). In tal modo lui avrebbe potuto presentarsi all’elezione dei tribuni della plebe. Cesare, per rendere subito valida l’adozione, presiedette di persona l’assemblea senatoriale, immediatamente convocata. E poiché ci voleva la presenza di un augure, Pompeo si offrí di farne le funzioni. Tutto si compí con una sollecitudine incredibile. A mezzogiorno (ora sesta) Cicerone era ancora in tribunale, alle tre del pomeriggio (ora nona) Clodio era plebeo. Gaio Antonio Hybrida fu condannato e andò in esilio. Quando si tennero le elezioni per i tribuni della plebe, Clodio fu il primo eletto a grandissima
E Cicerone era eloquente, persuasivo, sapiente manipolatore, e s’ispirava al monumento dell’oratoria greca, Demostene. Nell’isola di Corcira, dove si erano riuniti i vinti di Farsalo, specialmente dopo che si ebbe la notizia della morte di Pompeo, Cicerone, a cui Catone intendeva affidare il comando della Repubblica, fece un discorso di pacificazione, in pratica cercando di venire a patteggiamenti con Cesare. Gneo Pompeo, il figlio maggiore del vinto di Farsalo, gli si scagliò contro con il gladio sguainato. Lo avrebbe ucciso, se non si fosse frapposto con vigore e tempestività Marco Porcio Catone.
maggioranza. Il giorno dopo l’insediamento, Clodio presenta contro Cicerone l’accusa per la sorte di cinque cittadini romani arrestati e poi fatti strangolare da lui console (dicembre 63 a.C.) senza processo. E Cicerone, prima della fine dell’anno, convinto da Catone e da Ortensio, scappa «volontariamente» in esilio.
La sottomissione della Gallia Finito l’anno di console, con l’appoggio del suocero Pisone (a sua volta console nel 58 a,C.) e del genero Pompeo, Cesare ottiene il proconsolato dell’Illirico e delle Gallie (Cisalpina e «Comata»). Per la legge Vatinia il mandato è di cinque anni. Aveva finalmente un esercito, quattro legioni, ne aggiunse altre quattro arruolandole nella Cisalpina. Gli occorreva una guerra. E con un esercito che oscillerà fra i quaranta e i sessantamila uomini sottomette la Gallia, passa due volte il Reno e due volte sbarca in Britannia. Degli oltre tre milioni di nemici, che affrontò in battaglia nell’arco di otto anni, uno fu scannato dal ferro dei suoi legionari, un altro gli si arrese. Se da console era stato un abile politico, da proconsole si rivelò agli altri e a se stesso un condottiero ineguagliabile. Plutarco, come Svetonio, sottolineano che la resistenza di Cesare ai disagi, superiore alla forza apparente del corpo, sbalordiva i suoi legionari. Anzi la chiave per capire le vittorie
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A sinistra statuetta in bronzo di cavaliere, da Orange. Età imperiale. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie Nationale. In basso statua di un Gallo incatenato, dalla fontana trionfale dell’antica città di Glanum. Età imperiale. Saint-Rémy-de-Provence, Museo Archeologico. Nella pagina accanto particolare di un rilievo di epoca gallo-romana raffigurante un manipolo di legionari, dal castrum di Saintes. Saintes, Musée Archeologique.
incredibili di Cesare, l’audacia delle sue strategie, va ricercata anche in questo: la sicurezza che egli aveva nel loro valore, come nella loro incondizionata fedeltà. Lo amavano, ne era cosciente, si identificavano con la sua fortuna, avevano la viva sensazione di essere parte attiva delle sue glorie militari. Per contro, in quattordici anni, dalle Gallie al Reno, alla guerra civile fino a Munda (17 marzo 45 a.C.), nei momenti in cui erano in bilico le sorti della battaglia, mai Cesare esitò un attimo a scendere da cavallo, imbracciare lo scudo, combattere in prima fila, gomito a gomito con i suoi legionari. Ebbe, insomma, nella genialità dei piani militari, come nel comportamento in battaglia, un solo modello o rivale che lo aveva preceduto nel tempo e che Plutarco – nelle Vite parallele – mette in contrapposizione con lui: Alessandro. Pari nell’uno e nell’altro «la sacrale deità del vincitore», non uguale l’età. C’è da aggiungere che il giovane re macedone, ribollente di fantasia, impavido, affondò la spada su un impero in dissoluzione, la Persia; Cesare vinse popoli bellicosi, generali intrepidi (Ariovisto, Vercingetorige), e gli altri, i Germani, che consideravano la guerra una occupazione permanente e il massimo degli onori; quando poi si buttò nella guerra civile, ebbe a fronte la repubblica oligarchica allo zenit della sua potenza. L’inizio delle campagne in Gallia fu folgorante: nello stesso anno (58 a.C.) gli Elvezi distrutti sull’Arar e a Bibracte (Autun); annientati nell’Alzazia superiore i Suebi di Ariovisto, che da quattordici anni imperavano nella Gallia, e i pochi scampati in fuga
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Copia del «guerriero» di Mondragon (Francia). Roma, Museo della Civiltà Romana. La statua, il cui originale è conservato nel Museo Calvet di Avignone e si data al II-I sec. a.C., raffigura un soldato che si appoggia a un grande scudo ovale; indossa un mantello a frange (sagum) e porta al fianco la spada.
disperata al di là del Reno. Era il primo proconsole di Roma che piantava le aquile delle legioni oltre i confini a nord della Narbonense per la gloria della repubblica.
Piú pericoloso dei Germani... Catone era stato inviato a Cipro, le file dell’oligarchia senatoriale cercavano di riordinarsi, ma poi dal Belgio, dal Reno, perfino dalla Britannia le vittorie di Cesare assunsero un mese dopo l’altro dimensioni incontenibili, invasero la Cisalpina, Roma, l’Italia, eccitando da un lato l’immaginazione popolare, dall’altro spaventando il Senato peggio di una piena improvvisa del Tevere nel mese di dicembre. Catone gridò allo scandalo, lo assecondava l’ex console Bibulo, ridotto ormai a suo portavoce, e poi gli Enobarbi, i Martelli, gli Scipioni, i Marcelli. Nella cecità del suo odio, Catone propone in Senato di arrestare Cesare e addirittura di consegnarlo ai popoli germani degli Usipeti e Tenteriti, che avevano passato il Reno, invaso la Gallia, e che lui, Cesare, aveva tagliati a pezzi. «Non i Germani, gridava, doveva temere Roma, ma Cesare». Già allo scadere del consolato di Cesare i pretori Gaio Memmio e Lucio Domizio Enobarbo (cognato di Catone) avevano presentato contro di lui una relazione di accuse e di condanne. In partenza per le Gallie, Cesare deferí la cosa al Senato. Non ne sortí alcuna decisione. Allora Lucio Antistio, tribuno della plebe, citò Cesare a comparire in tribunale per discolparsi. Il proconsole, ormai impegnato in azioni militari, si appellò al collegio dei tribuni «per ottenere di non essere accusato, dal momento che era assente per servizio di Stato». Dalla pervicacia quasi ossessiva con cui i suoi nemici escogitavano contro di lui sempre nuove imputazioni, Cesare si rese conto che, oltre alla guerra o
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Copia del «guerriero» di Vachères (Francia). Roma, Museo della Civiltà Romana. L’originale della statua, conservato nel Museo Calvet di Avignone, è databile all’epoca augustea. L’opera raffigura un personaggio vestito di una lunga tunica con maniche, brache e di una cotta in maglia di ferro; porta un cinturone a cui è appesa una daga e si appoggia a uno scudo ovale. La scultura rappresenta forse un capo gallico.
alle guerre da condurre, doveva provvedere alla propria sicurezza nell’ambito del governo «giudiziario» della repubblica. Per i suoi disegni di conquista aveva bisogno di tempo. Doveva combattere su un doppio fronte: quello esterno di cui era protagonista insieme con l’esercito; l’altro, interno, che non poteva controllare. Ricorse alla corruzione. In effetti, mentre era in Gallia, seguendo le vicende politiche di Roma e della Penisola, elargiva a piene mani le ricchezze accumulate con le vittorie militari, sosteneva nelle elezioni i propri adepti, comprava i deboli e gli indecisi. Cesare conosceva bene la natura degli uomini, il livello di moralità del suo tempo. Uomini che passavano per integerrimi, come Marco Catone Uticense o Marco Giunio Bruto Cepione, pativano non di rado l’auri sacra fames.
La spartizione degli incarichi Ma non bastò a Cesare legare a sé ogni anno i vari magistrati. Lucio Domizio Enobarbo, scornato da pretore, voleva riprovarci da console. Candidatosi per l’anno 55 a.C., durante i comizi ripeteva che il primo atto del suo governo consolare sarebbe stato quello di togliere il comando delle legioni galliche a Cesare. Il proconsole, di rimando, convoca a Lucca gli altri due triumviri e li convince a mettersi in competizione con Lucio Domizio. Nel contempo, si spartiscono anche gli incarichi: dopo il consolato, a Pompeo sarebbe toccato il proconsolato della Spagna, a Crasso quello della Siria e la campagna contro i Parti. A Cesare era prorogato di altri cinque anni il governo delle Gallie. Per l’anno 55 a.C. (698 di Roma) i consoli, come era prevedibile, furono Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno. In seguito Gneo Pompeo non avrebbe mai
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A destra bronzetto raffigurante un guerriero celtico. I-III sec. d.C. SaintGermain-en-Laye, Musée d’Archéologie Nationale. Nella pagina accanto scultura in bronzo raffigurante un guerriero gallo, con spada, elmetto e torque al collo, di fattura illirica. I sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlungen.
raggiunto la Spagna come gli competeva: vi mandava due suoi luogotenenti Lucio Afranio e Marco Petreio. Ma rimanendo a Roma, non poteva, in quanto titolare di un comando militare straordinario, risiedere entro le mura: cosí distribuiva il suo tempo fra la villa Albana e la casa di fronte al Teatro da lui costruito in Campo Marzio e quindi fuori del pomerio. La riluttanza a partire si diceva dipendesse dall’amore per la giovane moglie Giulia, figlia di Cesare. I suoi precedenti matrimoni rispondevano a calcoli utilitaristici: il primo legame era stato con Antistia, figlia di un pretore, incaricato di dirimere la questione della successione. Inutile aggiungere che per la sentenza favorevole aveva ottenuto intatta la fortuna paterna. Con il secondo matrimonio ottenne i favori di Silla, con il terzo sposò una Metella, Mucia, quando i Metelli erano all’apice dell’ oligarchia senatoriale. Nell’arco di tre anni Mucia gli diede tre figli; poi, partito Pompeo per l’Oriente, buttò alle ortiche la tunica di madre virtuosa e cinse intorno alla vita il serpente delle baccanti. Sempre per calcolo, Gneo Pompeo avrebbe voluto sposare una nipote di Catone, ma questi si oppose. Cesare gli offrí la figlia e lo intrigò nel letto di lei. E finché Giulia visse, Pompeo si comportò come il piú ligio dei cesariani.
Antiche maledizioni Marco Licinio Crasso, invece, aveva già abbandonato il porto di Brindisi e si apprestava a raggiungere le coste della Siria. L’idea della campagna contro i Parti l’aveva esaltato. Le speranze lo portarono alle terre dei Battri, degli Indi, all’Oceano che cinge la terra. Ebbe contro, tuttavia, il tribuno della plebe Gaio Ateio Capitone, che lo aveva atteso alla porta Capena e, mentre Crasso passava, aveva versato sopra un braciere incenso e libagioni, invocando le divinità degli inferi e scagliando antiche maledizioni. Come ogni inverno, Cesare stava nella Cisalpina. Riceveva chiunque fosse interessato a cambiare lo stato; offriva regali,
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Denario in argento. 41 a.C. Chicago, Art Institute. Al dritto, profilo di Domizio Enobarbo; al rovescio, la prua di una nave sormontata da un trofeo.
sovveniva con denaro senatori, edili, pretori, tribuni della plebe e consoli e le loro mogli. L’anno prima, quando aveva svernato a Lucca a salutarlo erano venuti duecento senatori, e centoventi fasci appartenenti a proconsoli e pretori stazionavano dinanzi alla porta dov’era alloggiato. Nella Cisalpina faceva arruolamenti. Alternava poi tribuni e luogotenenti. Tra questi ultimi figurava Quinto Tullio Cicerone, fratello dell’oratore, il cui atteggiamento nei confronti di Cesare ebbe una svolta. Quinto era stato per due anni questore in Asia, nel 57 a.C. nel Foro aveva rischiato di essere ucciso dai clodiani. Nell’anno che stava per cominciare (54 a.C.) si sarebbe comportato valorosamente a difesa dell’accampamento nella fase piú critica della campagna belgica contro Ambiorige.
Seicento imbarcazioni alla fonda Al momento Cesare, rientrato in Gallia, pensava alla seconda spedizione in Britannia. Nella precedente una tempesta gli aveva distrutto la flotta. Cesare non era uomo da abbandonare un progetto. Prima del periodo invernale aveva dato disposizioni per la costruzione di una flotta meglio attrezzata contro il pericolo delle tempeste. A porto Izio erano alla fonda seicento imbarcazioni fra grandi e piccole. Questa volta Cesare si spinse fino al Wheathampstead, ben al di là dell’enclave londinese, dove il capo britannico Cassivellauno aveva la sua capitale. Al quale, del resto, non rimase che la resa. Ma ora Cesare aveva fretta di rientrare in Gallia,
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Particolare dei rilievi dalla cosiddetta Ara di Domizio Enobarbo, raffigurante, sulla sinistra, una scena di censimento, dal Campo Marzio. Seconda metà del II sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
dove aveva lasciate tre sole legioni, non complete di ranghi e nemmeno le migliori al comando di Tito Azio Labieno. E l’approdo alle rive dei Morini non poteva essere peggiore: lo aspettavano notizie funeste. La prima e piú dolorosa, la morte a Roma di Giulia, la sua unica figlia e moglie di Pompeo. Era morta in agosto di parto (qualche giorno dopo si sarebbe spento anche il neonato) in una città boccheggiante per il caldo, tanto che Catone era comparso in Senato senza tunica. Con lei scompariva il
legame che appunto Catone rimproverava a Pompeo. Giulia era idolatrata dalla plebe, in parte per il marito (che all’inaugurazione del teatro aveva offerto spettacoli strabilianti), ma soprattutto per l’ondata di crescente popolarità che accompagnava le imprese del padre. Già due anni prima Giulia aveva perduto un figlio in seguito ad aborto, quando le avevano portato le vesti insanguinate del marito. Credendo che fosse morto, era caduta svenuta. Adesso la tragedia era definitiva. La folla immensa, accorsa ai funerali, al
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termine della cerimonia si impadroní del cadavere della giovane e, contro la volontà del console Domizio Enobarbo e dello stesso Pompeo, la volle ardere e poi seppellire in Campo Marzio nel sepolcro dei Giuli. Fu un segno fin troppo manifesto per gli oligarchi della simpatia, popolarità di cui godeva fra la plebe il nome di Cesare. Giulia era stata un pegno determinante per legare le mani di Pompeo. Le decisioni del quale passavano attraverso le tenerezze e il letto di lei. Ma morta Giulia, dimenticati i giorni del dolore, piú prepotente riemergeva l’aculeo della politica. Pompeo sarebbe stato finalmente libero, come
Il condottiero scrittore
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rima della pubblicazione dei Commentari del De bello Gallico (la data accettata è della primavera del 51 a.C.) la letteratura romana non conosceva nessuna opera di grande valore storico. C’erano, è vero, i Commentari di Lucio Cornelio Silla, ma il loro carattere era in qualche modo «personale». Con il proconsolato delle Gallie Cesare apre lo scenario militare dell’impero. La struttura, visione, testo storico dovevano essere pari al genio strategico del conquistatore. Cesare scriveva o per lo piú dettava nelle pause delle campagne militari, negli inverni della Cisalpina. La novità, comunque, nel registrare fatti memorabili dal 58 al 52 a.C. della guerra di Gallia (e del Reno, Britannia), era nella vivacità del racconto, nella purezza dello stile, nel distacco con cui Cesare, storico, domina l’intera materia. Cicerone, che pure cedeva non di rado a un linguaggio fastoso, ne rimase impressionato. «Questi libri – scrive nel Brutus – sono nudi, schietti, affascinanti, spogli di ogni retorica, come una persona della veste. Cesare volle fornire materiale a chi intendesse scrivere di storia (...) ma alle persone assennate tolse loro addirittura la voglia. Nella storia non vi è nulla di piú perfetto di una brevità limpida e netta».
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Giulio Cesare allo scrittoio, olio su tavola di Giorgio Vasari. 1560. Firenze, Palazzo Vecchio. L’artista stesso descrisse l’opera come un «un ovato dentrovij Cesare che scrive i Commentarj».
si auspicava Catone, e quindi recuperabile per l’oligarchia senatoriale contro Cesare. L’altra notizia fu la siccità nelle regioni piú fertili della Gallia. La conseguenza fu il fermento tra le varie tribú, già turbolenti per natura. Cesare sparpaglia le legioni. Inutilmente. Gli Eburoni, popolazione belga, furono i primi ad approfittare delle difficoltà romane: Ambiorige assaltò il campo di Aurunculeio Cotta e di Quinto Sabino presso Aduatuca. Respinto, ricorre all’inganno. Aveva militato sotto i
Romani come ausiliario, si proclama loro amico e convince Sabino ad abbandonare il campo e congiungersi con Labieno, accampato presso i Treviri. Ma le quindici coorti, appena furono nella piana paludosa a sud di Aduatuca, trovarono la strada sbarrata. Ambiorige aveva loro teso una trappola mortale. Dopo la strage, gli Eburoni si trascinarono dietro i Nervi; il loro esercito arrivò alla consistenza di sessantamila uomini. Cesare, la stessa notte che fu avvertito, partí con due legioni e la cavalleria e a marce forzate raggiunse il paese dei Nervi. I quali, tolto l’assedio al campo di Quinto Cicerone, si volsero subito ad affrontare Cesare. Per la rapidità della marcia, il proconsole disponeva di forze che assommavano a un settimo o un sesto di quelle del nemico. Contava sulla sorpresa, sulla propria temerarietà. Un giorno aveva scritto che in guerra molto o addirittura la metà dipendeva dalla fortuna. Ma era anche convinto che la fortuna si lasciasse affascinare da chi, temerariamente, la violentava. Cesare, dunque, sceglie una posizione favorevole, sí da
Incisione raffigurante Cesare che guida la repressione della tribú belga degli Eburoni, capeggiati da Ambiorige, da un’edizione moderna dei Commentarii de bello Gallico.
obbligare i nemici ad assalirlo. Insuperbiti dal numero, i Nervi muovono all’attacco. I legionari li lasciano avvicinare, poi a un cenno di Cesare, irrompendo da tutte le porte del campo, sono loro addosso, li travolgono e li massacrano. Fu una vittoria irripetibile e tale da reggere, per il momento, il paragone con altre piú famose che seguiranno: Farsalo, Tapso, Munda.
Un uomo di fiducia La vita politica a Roma era a un bivio. Pur lontano e impigliato in Belgio con popoli ferocemente bellicosi e infidi, Cesare dette licenza a Marco Antonio di presentarsi a Roma per l’elezione a questore. Aveva bisogno di un uomo sul quale poter contare. La madre di Antonio era una Giulia e il figlio, validissimo sul piano militare, poteva risultare ugualmente valido sulla scacchiera politica romana. La partenza di Crasso per l’Oriente, l’impossibilità di lui, Cesare, di muoversi durante l’inverno dalla Gallia, il riavvicinamento degli oligarchi a Pompeo, mettevano quest’ultimo, ora che era il solo dei triumviri in Italia, nella tentazione di (segue a p. 42)
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Ritorno di Cicerone dall’esilio, dipinto murale del Franciabigio (al secolo, Francesco di Cristofano). 1521. Poggio a Caiano, Villa Medicea.
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Cenabo (Orléans)
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Conquiste e annessioni dal 201 al 121 a.C.
Zona d’influenza di Pompeo
168 Battaglie e date
Conquiste e annessioni dal 120 al 58 a.C.
Zona d’influenza di Cesare
Alleati di Roma
Conquiste di Giulio Cesare
Zona d’influenza di Crasso
Confini del regno di Pergamo nel 133 a.C.
misurare quale spazio di influenza e di autorità avesse a Roma e in Italia. Non c’era piú Giulia a mantenere il marito leale e fedele nei confronti del padre. In piú dagli informatori risultava a Cesare che Clodio, il demagogo, era al momento imbavagliato da Milone, divenuto amicissimo di Pompeo. Per questo l’ascesa di Marco Antonio nel cursus honorum acquistava in prospettiva una rilevanza politica. Antonio era stato di Clodio amico di dissipazioni notturne, li avevano poi divisi i capelli rossi di Fulvia, moglie di quest’ultimo. Marco Antonio a Roma
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Dalla II guerra punica alla morte di Cesare Suddivisione dello Stato (56 a.C.)
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avrebbe anche avvicinato Gaio Scribonio Curione, che conosceva dall’adolescenza, oratore focoso, con molte amicizie fra gli oligarchi per via del padre. Curione conduceva una vita dispendiosa e si era indebitato. Sebbene gli fosse stato contrario nel 59 a.C., Cesare si offriva, attraverso Antonio, di toglierlo dalle grinfie degli usurai. Con l’aiuto di Cicerone, Antonio fu questore. Oltre la nomina a luogotenente in Gallia del fratello Quinto, Cicerone aveva ricevuto da Cesare ottocentomila sesterzi quale prestito
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In alto l’espansione di Roma fino all’avvento di Giulio Cesare. Nella pagina accanto resti dell’antica città di Carre, oggi Harran, in Turchia. Qui, nel 53 a.C., i Romani guidati da Crasso furono sbaragliati dai Parti di Surena.
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regalo, la sovrintendenza degli appalti per la basilica Giulia e ancora per l’acquisto del terreno per la costruzione del Foro di Cesare con il tempio dedicato a Venere.
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Non c’era da meravigliarsi per il livello di imbrogli, patteggiamenti, ricatti: il cancro di Roma era la corruzione. Un esempio lo si ebbe nella seconda metà del 54 a.C. (e si protrasse poi per alcuni mesi del 53 a.C.) con il continuo rinvio delle elezioni, ottenuto sia adducendo auspici contrari alle convenzioni, sia con l’opposizione dei tribuni della plebe. In verità, la lotta pro o contro i candidati al consolato era ingarbugliata, brutale, aggressiva e niente affatto corretta. In breve, niente di legale e tutto in vendita. Per i consoli si presentavano Gneo Domizio Calvino e Lucio Memmio, ambedue implacabili avversari di Cesare quattro anni prima e ora passati armi e bagagli dalla sua
parte. C’era Valerio Messala, voluto del Senato, e, sostenuto da Gneo Pompeo Magno, M. Emilio Scauro, nipote di Silla e marito di Mucia, sua ex moglie. A Scauro, appena candidatosi, i Sardi intentarono un processo per concussione. Lo difesero sei avvocati fra cui il grande Quinto Ortensio e i due nemici capitali Cicerone e Clodio. Scauro fu assolto da sessantadue giudici su settanta, ma perse le elezioni. Comunque i consoli del 53 a.C., Domizio Calvino e Messalla, invece che il primo gennaio entrarono in carica soltanto alla fine di luglio. Nel vuoto di potere, a Roma, l’unico magistrato in carica (proconsole) era Gneo Pompeo. La casa davanti al suo teatro e la villa sui colli Albani divennero i luoghi deputati del potere decisionale. Finché su una Roma, ancora immersa nel lungo torpore della propria potenza, piombò con la furia cieca di un tempesta la notizia del disastro di Carre e della morte di Crasso.
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
LA GALLIA CONSACRA L’«UOMO FORTE» NEL 52 A.C. LA RESA DI VERCINGETORIGE SEGNA L’EPILOGO DELLA CAMPAGNA GUIDATA AL DI LÀ DELLE ALPI. A ROMA, PERÒ, SONO IN MOLTI A CONSIDERARE IL VINCITORE DI ALESIA COME UN PERICOLO CRESCENTE... | 44 | GIULIO CESARE |
Vercingetorige al cospetto di Cesare (o Vercingetorige getta le sue armi ai piedi di Cesare), olio su tela di Lionel Royer. 1899. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier.
| GIULIO | BELLEZZA CESARE | 45 |
LA CONQUISTA DELLA GALLIA
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entre a Roma si piangeva la disfatta di Carre, in Gallia Cesare proseguiva, con lucida determinazione, nella vendetta contro i Belgi. Esternamente ne portava anche i segni, lasciandosi crescere la barba; l’avrebbe tagliata a vendetta compiuta. Seminò il terrore fra i Treviri, poi costruí un nuovo ponte sul Reno e penetrò in Germania. Motivo: i Germani avevano offerto aiuti ai Treviri e ora, forse, davano ricetto agli Eburoni e ad Ambiorige. Al suo apparire al di là del Reno, Suebi e Svevi si rifugiarono nelle selve; gli Ubi offrirono il doppio degli ostaggi. Ritornato nella Belgica, attaccò il paese degli Eburoni, ammazzando, bruciando villaggi e fattorie, svuotando i granai. Non riuscí a catturare Ambiorige che gli sfuggí dalle mani con pochi compagni. Poi concentrò
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le truppe a Durocortorum (Reims) e indisse l’annuale concilio dei Galli, distribuendo pene ed esili. Tirando un consuntivo per i primi sei anni delle campagne di Gallia, poteva dire di aver raggiunto i tre obiettivi che si era riproposto: ricacciare oltre il Reno i popoli germani (Ariovisto), schiacciare militarmente quelli passati nella Belgica (Nervi, Treviri, Eburoni, ecc.); impedire altre invasioni di gente germane, portandosi lui stesso per due volte al di là del Reno; unire la Gallia in un grande organismo federativo sotto il protettorato romano. Ma la libertà dalle invasioni germane (Svevi, Usipeti, Tenteriti) risvegliò l’orgoglio gallico: né Germani, né Romani. Cesare, che l’aveva intuito, quando a ottobre novembre arrivò nella Cisalpina, si diede ad arruolare due nuove legioni. Doveva, fra l’altro, riempire i
Il ritrovamento del cadavere di Publio Clodio Pulcro, ucciso in un agguato sulla via Appia, presso Boville, in una incisione realizzata da Ludovico Pogliaghi per la Storia di Roma di Francesco Bertolini. 1895.
Xilografia che correda il capitolo dei Commentarii de bello Gallico nel quale Cesare dà conto della conquista dei territori di Vercingetorige, da un’edizione dell’opera stampata a Francoforte nel 1575.
vuoti delle quindici coorti perdute da Sabino. Nella Cisalpina apprese anche i particolari della fine miseranda di Licinio Crasso in Mesopotamia. Miseranda per due motivi: il modo in cui era morto un proconsole romano, abbandonato dai suoi soldati e ingannato, deriso, vituperato dai nemici; lo squilibrio di potere che la sua scomparsa creava nel triumvirato, accelerando i tempi e le cause di una lacerazione interna, che prefigurava lo spettro di una nuova guerra civile.
Maledizioni e presagi nefasti A Roma poi i racconti sulla sconfitta di Carre erano tanto piú sconvolgenti e ampliati quanto piú la catastrofe aveva colto tutti di sorpresa e feriva nell’intimo la presunzione romana. Si era talmente abituati a vincere in Oriente,
qualunque fossero i nemici o il loro numero, a considerare l’Asia il serbatoio per le comodità dei Romani che dall’incredulità e dallo stupore si passò direttamente alla vendetta degli dèi per sacrilegio. Si ricordarono le maledizioni del tribuno della plebe Gaio Ateio Capitone alla porta Capena e tutti gli altri presagi infausti, le risposte negative degli indovini sulle viscere delle vittime, la tempesta di tuoni, fulmini e di venti turbinosi abbattutisi sull’esercito mentre attraversava il ponte di barche sull’Eufrate, fino all’ultimo segno il giorno stesso della battaglia che fiaccò la volontà e l’ardire dei legionari, quando cioè videro Crasso uscire dalla tenda pretoria in mantello nero invece che con quello scarlatto di comandante. Forse proprio in relazione alla morte di Crasso, durante l’inverno 53/52 a.C., Cesare avvertí
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
l’affievolirsi dei suoi rapporti personali con Pompeo, soggetto ormai alle pressioni dell’oligarchia senatoriale. Se è esatta l’informazione di Svetonio, Cesare avrebbe cercato in un colloquio segreto di riannodare con l’ex genero i loro vincoli affettivi: gli offriva in sposa Ottavia, nipote della propria sorella, e chiedeva a lui come moglie la figlia Pompea, promessa a Fausto Silla. Inutile aggiungere che a Roma, nella classe dominante, i matrimoni assumevano il valore di un’azione
politica, di una alleanza di forze, piú importante di una magistratura, piú vincolante di qualsiasi patto giurato. Ma il colloquio fra Cesare e Pompeo – se tali furono i termini – fu tiepido e non sortí alcun cambiamento dei loro rapporti familiari. Anzi di lí a poco Pompeo convolò a nozze con Cornelia, figlia di Quinto Cecilio Cornelio Metello Scipione e vedova di Publio Licinio Crasso, figlio del proconsole e morto valorosamente a Carre. Il 31 dicembre uscirono di carica i consoli Domizio Calvino e Valerio Messalla, ma non furono nominati i nuovi per i continui impedimenti del tribuno della plebe Tito Munazio Planco, spinto si diceva da Pompeo. Cesare si insospettí. A Roma disordine e corruzione imperavano. Pompeo, alla ricerca di nuove alleanze, sperava di ereditare una parte dell’influenza di Crasso in seno all’aristocrazia.
Qui accanto elmi di epoca cesariana: quello in alto, da Sisak, in Croazia, è databile al I sec. a.C.; quello a destra, da una tomba di Treviri, è databile alla metà del I sec. a.C. In basso cartina delle Gallie con la localizzazione di alcune delle principali tribú insediate nel territorio al tempo di Giulio Cesare, fra cui gli Arverni di Vercingetorige. Sono anche evidenziate Alesia e altre località che furono teatro degli eventi succedutisi nel corso della campagna militare romana.
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Improvvisamente accadde un fatto che alterò gli schieramenti politici: Publio Clodio Pulcro, il demagogo piú noto e amatissimo dal popolo, viene ucciso sulla via Appia presso Boville dagli scherani di Tito Annio Milone. Si era trattato di un agguato. Il tredicesimo giorno prima delle calende di febbraio (18 gennaio 52 a.C.). Clodio, ferito, era anche riuscito a rifugiarsi in una casa vicina, ma Milone e i suoi scherani lo raggiungono e lo trucidano selvaggiamente insieme ai pochi schiavi che aveva con sé. L’indomani la città è a rumore: i partigiani di Clodio, la moglie Fulvia in testa, portano il cadavere nel Foro, uccidono chiunque si para loro davanti, mettono a soqquadro, rapinano le abitazioni dei ricchi intorno e nei pressi della piazza, incendiano la Curia. Fu la pira piú spettacolare e insieme la vendetta postuma di chi, come tribuno della plebe, ne era stato temerario, implacabile oppositore. Lo scempio
cittadino durò alcuni giorni. Spettacoli simili a quelli dei gladiatori, alle venationes – invece che nelle arene improvvisate del Campo Marzio – si offrivano ogni giorno agli occhi di tutti nelle strade e nelle piazze di Roma, soltanto che le uccisioni avvenivano fra cittadini e al posto delle fiere si cacciavano e ammazzavano gli avversari politici. Allora il Senato chiama Gneo Pompeo, proconsole in carica: per la sicurezza dello Stato lo autorizza a levare truppe in tutta Italia. Praticamente lo rendeva arbitro della situazione politica e militare dell’intera Penisola. Cesare, terminati gli arruolamenti, raggiungeva l’acquartieramento invernale delle legioni. Dalla metà di febbraio la Gallia era in rivolta. Il fermento covava da prima dell’inverno, ma le notizie, in parte deformate, della situazione politica a Roma accelerarono i tempi, infiammarono gli animi emotivi dei Celti, l’impulso ad agire si trasformò in una specie di
La costruzione del ponte sul Reno da parte delle legioni di Cesare in un’altra incisione di Ludovico Pogliaghi, dalla Storia di Roma di Francesco Bertolini. 1895.
dovere giurato. I capi della rivolta erano certi che, trattenuto dai disordini, dal marasma politico, Cesare non sarebbe rientrato in Gallia che a primavera inoltrata. Per lui poteva essere troppo tardi: i campi invernali delle legioni attaccati separatamente da soverchianti forze celtiche e annientati. Senza Cesare i suoi luogotenenti – come si era visto ad Aduatuca con Sabino – erano imbelli, privi di iniziativa.
La Gallia in fiamme E c’era un altro punto che infondeva loro sicurezza: che i popoli celti potevano essere, anzi erano militarmente invincibili solo che si fossero uniti in una grande confraternita nazionale per la libertà della Gallia, consacrata con cerimonie religiose, giuramenti, scambio di ostaggi. Dette l’avvio alla rivolta l’uccisione dei mercanti romani nelle città della Gallia. Presto balzò fuori colui che sarebbe stato il capo del movimento, Vercingetorige, capo degli Arverni.
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
questo ebbe i colori di un’epopea. Alesia consacrò il genio militare di Cesare, come Gaugamela aveva consacrato quello di Alessandro Magno. Gaugamela, però, ebbe un’alba e un tramonto. Alesia si protrasse per giorni e giorni contro un nemico che era contemporaneamente di fronte e alle spalle, con una superiorità di numero che appare addirittura incredibile. Per avere un’idea precisa della situazione in cui venne a trovarsi Cesare, dobbiamo ricordare che i legionari erano al tempo stesso assedianti e assediati. Il vallo con il quale avevano circondato Alesia misurava quindici chilometri, quello esterno creato a protezione dagli attacchi dell’esercito confederato dei Galli, che era venuto in aiuto a Vercingetorige, ventuno.
Una vittoria schiacciante
Ora tutta la Gallia era in fiamme. L’inverno, la neve, le strade impraticabili, i fiumi ghiacciati per il gelo favorivano il propagarsi della ribellione e per contro rendevano difficile il sopraggiungere di un’armata romana in aiuto delle legioni dislocate nei vari punti della Gallia. Ma «là dove non avrebbero creduto che potesse passare neppure un corriere, videro sfilare Cesare con un’intera armata, devastando terre, abbattendo i capisaldi, radendo al suolo le città». Cesare vinse a Cenabo i Carnuti, i Biturigi a Novodiuno, conobbe un arresto a Gergovia, ma prese e distrusse Avarico («la piú bella città della Gallia Comata») sotto gli occhi di Vercingetorige, finché costrinse lo stesso a trincerarsi in Alesia. La campagna del 52 a.C., sicuramente la piú rischiosa dell’intero proconsolato, il numero dei nemici uccisi, le situazioni da cui riuscí a districarsi, la rapidità delle marce, una strategia lucida e al limite della temerarietà, ma unita alla fermezza in circostanze a volte disperate, tutto
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Armi ed elmi utilizzati nel corso della battaglia di Alesia e rinvenuti nello scavo condotto nell’area dello scontro. Saint-Germainen-Laye, Musée d’Archéologie nationale.
Le cifre dei combattenti chiariscono meglio l’intero schieramento militare. Vercingetorige ad Alesia aveva all’incirca ottantamila uomini, l’esercito venuto a soccorrerlo ammontava a trecentomila, Cesare disponeva di dieci legioni, qualche migliaio di ausiliari galli dei popoli rimasti a lui fedeli, cavalieri germani e truppe leggere sempre germane. Complessivamente poco piú di sessantamila unità. Decimato e messo in fuga l’esercito confederato dei Galli, arresa Alesia, Vercingetorige andò a prostrarsi a Cesare che lo attendeva nell’accampamento romano seduto al centro dello spiazzo davanti al pretorio. Scende e consegna il cavallo, depone le armi ai piedi di Cesare e «Uomo fortissimo, dice, tu hai vinto un uomo forte». Rimase prigioniero fino al 46 a.C. quando Cesare celebrò a Roma i quattro trionfi (Gallia, Egitto, Ponto, Africa). Fu ucciso l’indomani che era sfilato in catene al cospetto del popolo romano dietro il cocchio dell’imperator. Restavano da «punire» alcuni popoli del nordovest (Biturigi, Carnuti, Cardaci, ecc.) e della Belgica (Atrebati, Ambiani, Bellovaci) e gli irriducibili Eburoni e Treviri, germanizzati. Cesare decide di agire a colpi di maglio con (segue a p. 54)
Alise-Sainte-Reine (Borgogna,Francia). Il monumento in onore di Vercingetorige, realizzato su progetto di Emmanuel-Eugène Viollet-le-Duc e coronato dalla statua scolpita da Aimé Millet. 1865.
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
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Vercingetorige si arrende a Cesare, olio su tela di Henri-Paul Motte. 1886. Le Puy-en-Velay, Musée Crozatier.
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
rapidità, piombando di sorpresa su di loro già nella stagione invernale. Al termine della quale la Gallia è pacificata, la Belgica timorosa e stremata. Vivo Cesare, non si ebbero piú rivolte, nemmeno nel periodo della guerra civile, anche se fu giocoforza che alcune legioni seguissero Cesare in Italia e poi Spagna, Grecia, Africa e ancora Spagna per l’ultima battaglia di Munda. A Roma le vittorie di Cesare, Alesia soprattutto, ubriacarono il popolo, sacrifici nei templi per ringraziare gli dèi; perfino il Senato non poté esimersi dal plaudire al proconsole. C’era di piú: Pompeo, nel ritiro della villa albana o nella magnificenza della sua casa alle Carine, si era scoperto geloso e preoccupato delle ininterrotte vittorie di Cesare, nonché della sua devastante popolarità che a Roma, dalla Suburra al Foro, al Palatino, offuscava quella orientale di lui, Gneo Pompeo Magno. E, aizzato per di piú dal suocero Quinto Cecilio Galli
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A sinistra e nella pagina accanto, in basso restituzione grafica degli schieramenti romani e gallici e delle azioni intraprese ad Alesia. 1. primo giorno: attacco della cavalleria
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Cavalleria dei Germani Sortita
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Campo dei Galli
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Fanteria dei Galli
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Sulle due pagine, in alto modelli di macchine belliche romane: nella pagina accanto, in alto, una torre aretaria, per assedio; a destra, un ariete, che veniva utilizzato per sfondare i muri di cinta delle città assediate.
gallica; 2. secondo giorno: attacco dei Galli e risposta dei Romani; 3. notte del secondo giorno: assalto delle fanterie galliche; 4 e 5. terzo giorno: assalto finale dei Galli, respinti e battuti dai Romani.
Fanterie scelte Monte Rea
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
Metello Scipione, si buttò senza remore nelle braccia degli oligarchi. Con l’appoggio di Pompeo l’oligarchia senatoriale riprese fiato, poi si inorgoglí, si irrigidí, stimando di giocare i dadi migliori della sorte. Si era resa conto che a cominciare da Mario (che aveva aperto l’esercito ai volontari e ai nullatenenti), poi con Silla, Pompeo e ora con Cesare si era stabilito
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un rapporto diretto e interdipendente fra l’imperator e i soldati, volutamente o no scavalcando il governo (in pratica l’oligarchia senatoriale). Silla, però, aveva dato grande prova di misura quando aveva deposto la dittatura e licenziato i soldati. Lo stesso Pompeo, appena sbarcato a Brindisi di ritorno dall’Oriente, aveva pagato e licenziato
L’assedio di Alesia, olio su tela di Henri-Paul Motte. Semur-en-Auxois, Musée municipal.
i soldati. Ma Cesare in Gallia e nella Cisalpina stava attuando un’azione addirittura rivoluzionaria: legando a sé l’esercito, ogni giorno di piú lo rendeva strumento consapevole e del suo potere militare e del «diritto» alla dittatura dell’imperator. Aveva ragione Catone: non i Germani doveva temere Roma, ma Cesare. E l’esercito della Gallia era il potere di
Cesare. Per l’oligarchia senatoriale non c’era altra soluzione politica che togliergli l’esercito. Un appiglio validissimo le fu offerto quando Cesare avanzò la candidatura alle elezioni consolari del 49 a.C, per il 48 a.C. In realtà, la richiesta era perfettamente legale: dal primo consolato (59 a.C.) a questo (48 a.C.) correvano i dieci anni regolamentari. La risposta del Senato fu netta: doveva abbandonare subito la provincia e l’esercito e presentarsi a Roma come semplice cittadino. Cesare, al contrario, chiedeva di sostenere la propria candidatura rimanendo in carica come proconsole delle Gallie fino al termine del mandato (quindi assente da Roma). Per uno che aveva visto Vercingetorige in ginocchio ad Alesia e i Germani scappare nelle foreste quando due volte aveva attraversato il Reno non era accettabile tornare semplice cittadino, magari per essere subito dopo incriminato come empio sacrilego o traditore della patria, e sommerso dalla vecchia retorica di parte, come dalla demonizzazione.
Da trionfatore a nemico pubblico Il rifiuto di Cesare fu il casus belli che aspettava l’oligarchia senatoriale. I piú velenosi i Claudi Marcelli (tre consoli di seguito in tre anni 51, 50, 49 a.C.), poi Quinto Cecilio Metello Scipione e ancora Lucio Domizio Enobarbo che aspirava al proconsolato della Gallia al posto di Cesare. Cominciarono con il computo capzioso su quando doveva finire l’imperium militare di Cesare come proconsole. Loro intendevano computare la proroga dalla data del provvedimento triunvirale del marzo 55 a.C., dimenticando che il proconsolato di Cesare per la durata di un quinquennio aveva avuto inizio il 1° gennaio 58 e finiva il 31 dicembre 54 a.C. A sua volta la proroga andava dal 1° gennaio 53 al 31 dicembre 49 a.C. In breve: gli era negato un secondo consolato, o meglio doveva scegliere: la candidatura e perdere l’esercito o essere considerato hostis e di conseguenza la guerra. Già a metà del 50 a.C. una deliberazione del Senato imponeva a Cesare di lasciare entro l’anno esercito e proconsolato.
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
A sinistra ricostruzione virtuale della Curia Iulia, nel Foro Romano, con i senatori riuniti in assemblea.
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Come aveva combattuto i nemici esterni, Cesare doveva ora difendersi da quelli interni. Meno leali e lividi di risentimenti. La sua gloria militare toglieva loro il sonno; invidia, odio, paura li accecavano. Quei venti giorni di supplicazione agli dèi, decretati per la vittoria di Alesia, con le grida entusiaste e instancabili della folla nella Suburra, al Velabro, in Campo Marzio, nel Foro davanti alla Curia, erano stati per i senatori piú angoscianti dei pianti che venivano dall’Eufrate (a Carre ventimila erano
Veduta del Foro Romano. Al centro, in secondo piano, si riconosce l’edificio della Curia.
stati i morti, diecimila i prigionieri). Ma a Cesare, oltre alla simpatia popolare, era necessario avere dalla sua parte un certo numero di magistrati; poi doveva avvicinarsi il piú possibile a Roma, controllare le elezioni, sostenendo i candidati a lui vicini, corrompendo gli altri, cercando di incrinare il fronte compatto degli oligarchi. Quando arrivò nella Cisalpina, le colonie e i municipi lo accolsero con segni di deferenza e di (segue a p. 62)
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
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Una vita sui campi di battaglia La cartina mostra le campagne militari condotte da Giulio Cesare tra il 61 e il 45 a.C., evidenziando le località che furono teatro delle battaglie cruciali nel corso delle diverse imprese. N
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56 Veneti
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Cartagine Hippo Diarrhytus Carpis Rusicade (Biserta) (Henchir Panormus Utica (Skikda) Mraïssa) (Palermo) Tàbraca Lilibeo Chullu (Tabarka) Sicilia (Collo) Catana (Catania) Milieu Clupea (Mila) Citra (Kélibia) (Costantina) Syracusae Curubis (Siracusa) Nu mid ia (Courba) Neapolis Adrumeto (Nabeul) (Susa) Tisdro (El-Djemè) Ea (Tripoli)
Roma prima del consolato di Cesare 59 a.C. Accordi di Lucca 56 a.C. Province di: Cesare Crasso
Pompeo
Campagne di Cesare Spedizione di Spagna 61 a.C.
Campagna d’Oriente di Tessaglia, 48 a.C. d’Egitto, dal 48 al 47 a.C. contro Farnace II, re del Bosforo, 47 a.C.
Campagna d’Africa, 46 a.C.
Battaglie
2a campagna di Spagna, 45 a.C.
Conquista della Numidia, 46 a.C.
Colonie fondate da Cesare
Conquista della Gallia dal 58 al 51 a.C. Conquista dell’Italia 49 a.C. Ritorno verso la Spagna 49 a.C.
Stati vassalli di Roma
2a colonizzazione di Narbona
R.
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Ponto Eusino
Danubio
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Sinope Eraclea Pontina
Dyrrachium (Durazzo)
Macedonia
Brundisium Brindisi
Corcira (Corfù)
Larissa Butroto (Butrinto)
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Cappadocia
Pergamo Atene
Licaonia
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Licia
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Armenia
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48 Farsalo
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Mar Mediterraneo Gerusalemme
Cirenaica 47 Alessandria
Pelusio
47 Battaglia del Nilo
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48 Assassinio di Pompeo
Egitto
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
«grandissimo amore». Vi arrivava dopo due anni e il completo assoggettamento della Gallia. Ornate le vie, le porte delle case, i luoghi dove passava. Incontro gli andò tutta la popolazione con i figli: si immolarono vittime; templi e piazze erano pieni di mense imbandite. Finiva l’autunno e Roma era avvolta da un persistente cielo grigio, basso, in un miscuglio di vento e di polvere che minacciava tempesta. I tuoni venivano scambiati per tamburi di guerra. L’oligarchia
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senatoriale quanto piú era cosciente di essere arrivata a un bivio, tanto piú si abbandonava a impennate rancorose di superbia. In segreto, però, rivelava improvvise debolezze e finí per rifugiarsi nel segno di un capo carismatico: Gneo Pompeo Magno. Anzi, onde svalutare le gesta di Cesare (Gallia, Reno, Britannia), rivalutò le vittorie di Pompeo in Asia, anche se alla luce livida della catastrofe di Carre. Sulla fedeltà dell’esercito della Gallia a Cesare, disse che bastava togliergli la
Disegno ricostruttivo ideale del Foro Romano in epoca imperiale: da sinistra, il tempio di Cesare, la Casa delle Vestali, la statua equestre di Vespasiano, il tempio di Castore e Polluce, la basilica Giulia; sullo sfondo, i palazzi imperiali del Palatino.
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LA CONQUISTA DELLA GALLIA
provincia. Privato di questa, avrebbe ugualmente perduto l’esercito. Intanto gli si chiedevano due legioni per arginare in Siria le scorrerie dei Parti. Una delle due era di Pompeo anche se arruolata nella Cisalpina. Le due legioni non andranno mai in Asia: saranno in campo, schierate all’ala sinistra, nella battaglia di Farsalo. Al momento, sotto il comando di Pompeo, erano acquartierate a Capua. Nel campo cesariano due avvenimenti rilevanti: a settembre (50 a.C.) Cesare, radunate tutte le truppe al confine con i Treviri, le passa in rassegna in una grande parata. Fu una sorta di prova generale.
La brillante eloquenza di Curione L’altro avvenimento, la designazione a tribuni della plebe di Marco Antonio e di Quinto Cassio. La nomina di Marco Antonio risulterà decisiva nell’inizio della guerra civile, al punto che Cicerone, in parte stravolgendo i fatti, come gli era abituale, indicherà in Marco Antonio il vero fomentatore della guerra. Entrò in carica il 10 dicembre, come era nelle regole. Nondimeno un altro tribuno aveva retto la parte di Cesare fino a quella data: Gaio Scribonio Curione, amicissimo di Marco Antonio. Eloquente, simpatico, focoso e raziocinante, aveva tenuto in scacco il console Gaio Claudio Marcello che, d’accordo con Pompeo, voleva fissare al 13 novembre 50 a.C. la decadenza di Cesare dall’imperium militare. A ogni modo proprio per la malattia di Pompeo si ebbe una tregua. Nelle elezioni consolari per il 49 a.C. furono eletti due ferventi optimates: Cornelio Lentulo Crure e Gaio Claudio Marcello (cugino del console in carica, fratello di quello dell’anno precedente). Intanto Cesare nell’autunno del 50 a.C. era sceso fino a Ravenna con la XIII legione (5000 uomini) e trecento cavalieri. Per lui il proconsolato scadeva il 31 dicembre dell’anno venturo; per il Senato, come si è detto, il 31 dicembre dell’anno in corso.
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Il 1° dicembre il console Gaio Claudio Marcello propose due questioni: la prima se si dovesse togliere a Cesare il comando militare, e ottenne l’unanimità; la seconda se dovessero toglierlo anche a Pompeo, e la maggioranza fu contraria. Curione, abilissimo, non mise il veto, come gli era consentito di diritto, ma a sorpresa ne tirò fuori una terza: che ambedue i triumviri deponessero il comando. Anche il voto fu una sorpresa. Trecentosessanta favorevoli, ventidue contrari. Per i cesariani un risultato insperato, sbalorditivo. All’esterno della Curia, nel Foro, il popolo rumoreggiava a favore di Cesare e portò Curione in trionfo. Il Senato era disorientato. La tensione giunse a tale limite che non mancò il colpo di scena. L’indomani Gaio Marcello comunica al Senato una notizia fulminante: Cesare con dieci legioni stava scendendo dalle Alpi nella Cisalpina per marciare poi alla volta di Roma. Era falsa. Curione la smentí. Ma che importava? Il colpo di scena era riuscito in pieno. Platealmente il console, seguito dai senatori e dai consoli designati, lascia la Curia, si reca fuori del pomerio alla casa di Pompeo e gli offre la spada per difendere la In basso rovescio di un aureo di Giulio Cesare, con un trofeo di armi galliche e la leggenda CAESAR. 50-49 a.C. Roma, Musei Capitolini.
Nella pagina accanto testa in marmo di Giulio Cesare vista di profilo. I sec. a.C. Alessandria d’Egitto, Museo delle Antichità greche e romane. Qui sotto spada romana con fodero, da Pannerden (Paesi Bassi). Nimega, Museo G.M. Kam.
patria contro il nemico comune: Caio Giulio Cesare. Non era ancora la guerra. Curione va a Ravenna a raggiungere Cesare; Pompeo in Campania, dove erano le due legioni e la giovane moglie Cornelia. Gli storici relegano, di solito, le donne e le loro vicende sentimentali nell’aneddotica.
Cicerone come conciliatore Nel caso di Pompeo è forse un errore. Pompeo dimenticò la passione per Giulia sposando Cornelia, anche lei molto piú giovane di lui. Il sapore della giovinezza fu il pungolo del suo declinare negli anni. Sia Giulia che Cornelia influirono in maniera decisiva sulla sua condotta politica. La prima l’aveva consegnato a Cesare, la seconda lo trascinò nel grembo dell’oligarchia senatoriale. Appena entrato in carica, Marco Antonio consegnò al Senato una lettera di Cesare con nuove proposte. Il proconsole rinunciava alla Gallia «Comata», si teneva la Cisalpina e l’Illirio con una sola legione. A conciliare le parti ci provò anche Cicerone, tornato dalla Cilicia (la figura dell’arbitro sollecitava il suo bisogno di protagonismo), ma lo gelò la freddezza di Pompeo. Il 21dicembre Marco Antonio arringa il popolo contro Pompeo: che ci fanno le due legioni a Capua? Perché non vanno in Siria? Contemporaneamente Cesare manda a Roma Curione con un nuovo messaggio: le proposte non si discostavano da quelle di Antonio, ma era cambiato il tono. Cesare parlava di dignità offesa da difendere a ogni costo. Chiaro come, da una parte e dall’altra, ci si preparasse alla guerra civile.
LA GUERRA CIVILE
«IL DADO È TRATTO» ALEA IACTA EST: CON QUESTE PAROLE GIULIO CESARE, SECONDO LA TRADIZIONE, RUPPE GLI INDUGI E, ATTRAVERSATO IL RUBICONE, MARCIÒ VERSO ROMA, PRONTO A FAR VALERE LE PROPRIE RAGIONI ANCHE CON LE ARMI. MA CHE COSA LO AVEVA SPINTO A PRONUNCIARE UNA FRASE DIVENUTA ORMAI PROVERBIALE?
I
l 1° gennaio 49 a.C. entravano in carica i nuovi consoli Lentulo Crure e Claudio Marcello. Rifiutano in Senato di discutere qualsiasi proposta di Cesare. Marco Antonio salta su e le enumera una dopo l’altra. Lo subissano gli improperi e le urla dei piú scalmanati. Si va avanti per sei giorni fra veti, contumelie, insulti, finché, il 7 gennaio, il Senato decide di vestire a lutto e, dopo la sospensione, proclama il Senatus consultum ultimum ne quid respublica detrimenti capiat. Era la formula di rito con cui si affidava alle supreme cariche istituzionali la difesa della patria da un pericolo mortale. Marco Antonio e Quinto Cassio, cacciati dalla Curia «affinché, essendo tribuni della plebe e dimostratisi contrari alla deliberazione, non fosse loro usata piú grave ingiuria», trovano ad accoglierli fuori dalla Curia il popolo che tumultuava e inneggiava a loro e a Cesare e chiedeva di conoscere il contenuto delle lettere del proconsole delle Gallie. Marco Antonio, urlando, accusa consoli e Senato; dice che, oltraggiando i tribuni della plebe, si è calpestata la maestà del popolo romano. Chiamati dai consoli, arrivano i soldati di Pompeo: tafferugli, grida, feriti, imprecazioni, poi un fuggi fuggi generale.
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Nella notte, vestiti in abiti servili, Marco Antonio e Quinto Cassio escono dalla città diretti a Ravenna su un cocchio a vettura. Con gli stessi abiti e stanchi, impolverati si presentano a Cesare, che subito li porta davanti all’esercito. La loro vista, l’offesa subita come tribuni della plebe, le parole infiammate di Marco Antonio eccitano di rabbia gli animi dei legionari. Cesare aveva ora l’avallo giuridico per la guerra civile: prendeva le armi in difesa del piú sacrosanto dei diritti, quello legato alla maestà del popolo romano. In realtà la vera motivazione era un’altra: il suo onore personale, la sua dignitas. Era troppo fiero estimatore di se stesso, cosciente della «sacrale deità del vincitore», per non afferrare l’occasione che l’oligarchia senatoriale gli offriva. E passa il Rubicone.
Quel giovane molto bello... Era il confine fra la Cisalpina e l’Italia. Svetonio gli mette in bocca una frase fatidica: «Andiamo dove ci chiamano i segnali degli dèi e l’ingiustizia dei nostri nemici. Il dado è tratto», giacché mentre esitava sulla riva del fiume «gli si mostrò un segno prodigioso». Improvvisamente era apparso un giovane molto bello che
Statua loricata antica sulla quale è stata inserita una testa di Giulio Cesare di epoca moderna. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto dado in osso, dagli scavi di Aelia Capitolina, la Gerusalemme romana.
LA GUERRA CIVILE
Cesare arriva al Rubicone, olio su tela di Gustave Boulanger. 1854. Amiens, Musée de Picardie. Nella pagina accanto Rimini. Particolare di un cippo cinquecentesco, chiamato colonna di Giulio Cesare, che ricorda la tradizione secondo la quale il generale salí su una pietra per arringare i suoi soldati in occasione del passaggio del Rubicone. Il monumento si trova nell’odierna piazza Tre Martiri, una volta sede del Foro della città romana di Ariminum.
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suonava la zampogna e all’accorrere dei trombettieri della legione, aveva strappato dalle mani di uno di loro la tromba e attraversato il fiume suonando a pieni polmoni una marcia di guerra. Nel De bello civili Cesare non ne fa cenno, sottolinea invece i preparativi di guerra di Pompeo prima del Senatus consultum ultimum. «Furono richiamati da ogni parte molti soldati dei vecchi eserciti di Pompeo (...) La città si riempí di commilitoni di lui, di tribuni, di centurioni, di veterani». A favore di Cesare c’era, comunque, un elemento non previsto: la vanità di Pompeo Magno. In un certo modo l’avevano esaltato le parole di Appio: che cioè «lui, Pompeo Magno, era l’idolo dell’esercito di Cesare (...) E che le legioni della Gallia, appena fossero passate in Italia, si sarebbero dichiarate per lui». Ci credette. E ancora: a chi gli chiedeva come avrebbe difeso Roma da un eventuale attacco di Cesare, rispondeva: «Non preoccupatevene. Dovunque batterò il piede in terra, sorgeranno schiere di fanti e di cavalieri».
10 e l’11 gennaio. Come un turbine travolge la costa orientale. La metafora suggerisce l’idea di una forza violenta e distruttrice; fu piuttosto un vento rapinoso di mare che scivolava lungo la riva avvolgendo uomini e cose in una nube di sabbia. Le città aprivano le porte, le truppe pompeiane si arrendevano. Appena due mesi dopo il passaggio del Rubicone Cesare era padrone dell’Italia. Una sosta alla cavalcata l’aveva avuta a Corfinio, dove era attestato Domizio Enobarbo. Corfinio era in una forte posizione strategica e alta su un massiccio collinoso triangolare nel territorio dei Peligni. Era stata la capitale degli Italici contro Roma nel bellum sociale (90-88 a.C.). Appena a Cesare arrivarono l’VIII e la XII legione e ventidue coorti arruolate nella Gallia Cispadana, Corfinio, dove Domizio Enobarbo, aspettando Pompeo, sperava di resistere a oltranza, si arrese. Nella città c’erano trenta coorti e un numero considerevole di senatori e cavalieri, fra i quali, oltre a Domizio Enobarbo,
Formidabili capacità d’intuizione La piú stupefacente delle virtú militari di Cesare era la rapidità. E con la rapidità, la sorpresa che sconvolse i piani di Pompeo e dell’oligarchia senatoriale. Inoltre Cesare intuiva lucidamente il momento in cui la temerarietà diveniva il quid imponderabile per aggredire la fortuna, facendo pendere la bilancia dalla sua parte. Nessuno a Roma pensava che Cesare si sarebbe mosso da Ravenna, meno che mai che avrebbe marciato con forze cosí esigue (i 5000 uomini della XIII e le poche centinaia di cavalieri) lungo la fascia della costa orientale della Penisola fino a Brindisi. I distaccamenti, i presidi, disseminati nei territori del Piceno, della Marzia, dell’Etruria, della Campania erano tali e da contrastarlo validamente e dal soverchiarlo di numero. L’ipotesi piú accreditata era che Cesare si sarebbe ritirato nella Cisalpina, magari nella Gallia per radunare tutte le sue forze, e solo in un secondo momento avrebbe invaso l’Italia. Invece lui si muove da Ravenna nella notte fra il
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l’ex console Lentulo, Sesto Quintilio Varo, Lucio Cecilio Rufo, fratellastro di Silla. Cesare si concesse l’impennata di orgoglio di «umiliarli», lasciandoli tutti liberi e inaugurando quella che Cicerone avrebbe chiamato magnitudo animi. E l’avvocato in una lettera ad Attico annotava: «Che contrasto fra Cesare che salva i nemici e Pompeo che abbandona gli amici». In tutto a Corfinio Cesare si era fermato sette giorni. Quando arrivò a Brindisi, era ancora fiducioso di bloccare Pompeo, intento a imbarcare le truppe che era riuscito a raccogliere (trentamila uomini, divisi in cinquanta coorti). C’erano con lui i consoli in carica, i senatori, i magistrati partiti da Roma in una caotica, tragica fuga di massa, senza una meta precisa e in una suggestione di rancorosa paura. Ora in attesa di salire sulle navi, rimpiangevano beni, case, familiari abbandonati. Se Cesare fosse riuscito a bloccare Pompeo, forse la guerra sarebbe finita a Brindisi. Ma non aveva una flotta. Inoltre Pompeo ritrovò, nella circostanza, ardire e alacrità. Tutti lo accusavano
di aver abbandonato Roma, di non aver resistito nel Piceno, di aver spostato via via il comando da Capua a Lucera, a Brindisi. Cicerone che, titubante, era rimasto in Campania, ora gli rimproverava, nelle consuete lettere ad Attico, l’indolenza, l’incapacità militare, tanto da definirlo «impolitico e antistrategico».
Il falso rapporto di Labieno In effetti il piano di Pompeo risultò disastroso per l’oligarchia. Si basava su un altro falso rapporto, questa volta di Tito Azio Labieno, il primo luogotenente di Cesare nella Gallia, e anche l’unico a defezionare dal suo comandante («Ciò non ostante Cesare gli fece recapitare i suoi denari e il bagaglio»). Labieno aveva assicurato Pompeo che l’esercito della Gallia non avrebbe mai seguito Cesare. Le legioni, acquartierate negli accampamenti invernali, temevano le rivolte delle popolazioni celtiche, sempre turbolente e mai dome, e – nel caso si fossero mosse – l’aggressione alle spalle delle legioni
Rilievo raffigurante un suonatore di corno, dall’antica Urso (Osuna, Spagna). I sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Svetonio narra di uno zampognaro che, strappata una tromba a un legionario, aveva passato il Rubicone suonando una marcia di guerra. Il prodigio serví di sprone a Cesare e all’esercito. Nella pagina accanto resti di mausolei romani presso Corfinio, la città abruzzese nella quale Cesare fece tappa dopo aver passato il Rubicone e dove ottenne la resa di Domizio Enobarbo che lí si era asserragliato.
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pompeiane di stanza nella Spagna Citeriore. Per contro Pompeo aveva sí previsto la marcia di Cesare su Roma, ma si proponeva di chiuderlo in una morsa, attaccandolo di fianco dal Piceno e di fronte dalla Campania, dove teneva il grosso delle sue milizie. Cesare invece marciò lungo la costa, e la resa a discrezione del Piceno costrinse Pompeo a correre a Brindisi per trasferirsi in Epiro. Sfuggitogli Pompeo e vanificata la proposta di una tregua, come di un incontro fra loro due, Cesare pensò di assicurarsi le spalle, andando a combattere proprio le forze pompeiane in Spagna. La Gallia non si era ribellata; al
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contrario dava a Cesare ausiliari e cavalleria. In viaggio per la Spagna si fermò a Roma. Vi mancava da nove anni, dal marzo del 58 a.C. Era partito da proconsole, vi tornava da conquistatore. Per i suoi tenaci oppositori politici da hostis, nemico della patria. Rivide la giovane moglie Calpurnia (ventotto anni), probabilmente anche Servilia, poi i senatori che non avevano ubbidito all’ordine di fuga di Pompeo e che i tribuni della plebe, Q. Cassio e Marco Antonio, avevano radunato fuori del pomerio. Non accusò, né minacciò nessuno e, quando disse di inviare a Pompeo una delegazione per stabilire una base minima di
In basso, a sinistra Gatteo Mare (Forlí-Cesena). Il busto bronzeo moderno di Giulio Cesare sul ponte che scavalca il Rubicone, posto a ricordo del celebre episodio suggellato dalla frase «Il dado è tratto».
In basso, sulle due pagine il ponte romano a tre arcate che collega le due sponde del Rubicone a Savignano (ForlíCesena). L’opera viene variamente datata, ma secondo gli studi piú recenti, sarebbe stata realizzata in epoca repubblicana.
concordia e di pace, lo applaudirono, ma quando si trattò di trovare i nomi per la delegazione da inviare in Epiro, tutti si defilarono.
Un tempo per le leggi e uno per le armi Stanco delle loro ipocrite pantomime, Cesare si volse a riordinare il governo. I plebisciti popolari gli garantivano la legalità dei suoi provvedimenti. Attraverso la lex Roscia estese la cittadinanza romana alla Cisalpina. Nella fretta disperata di scappare, il governo oligarchico aveva lasciato intatto l’aerarium: ora Cesare si accinse a impadronirsene per le spese di guerra. Gli fu contro, ponendo il veto,
il tribuno Lucio Metello. Cesare fu deciso: «Il tempo delle armi, disse, è diverso dal tempo delle leggi. Quindi togliti di mezzo». E poiché l’altro, non trovandosi le chiavi, insisteva, Cesare alzò la voce, minacciando di ucciderlo sul posto. «E tu sai, giovincello, aggiunse, che mi costa piú il dirlo che il farlo». A Roma non si era trattenuto che otto giorni, ma per il popolo aveva provveduto e al trasporto in città del grano e a una distribuzione di trecento sesterzi a testa. In Spagna lo attendevano le truppe piú agguerrite di cui disponesse Pompeo nello scacchiere occidentale: sette legioni, piú i corpi ausiliari
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Veduta panoramica del Foro Romano, cuore della vita civile e politica dell’Urbe. In primo piano, i resti del tempio di Saturno.
dei vari popoli iberici. Cesare poteva contare nella Narbonense su tre legioni al comando di Fabio, di altre tre sotto Trebonio che avevano svernato nelle vallate della Saòne e del Rodano, oltre alla VIII, XII, XIII, con le quali nel porto di Brindisi aveva tentato di impedire a Pompeo l’imbarco dell’esercito. La celerità della marcia verso la Spagna gli fu impedita dall’atteggiamento di Marsiglia. Ambigua all’inizio, si rivelò poi ostile e nemica.
Cesare credeva di averne ragione abbastanza rapidamente, invece fu respinto. Ma non poteva ritardare la campagna in Spagna; per l’imprevisto di Marsiglia fu anche costretto a lasciare dietro di sé le tre legioni di Trebonio. Doveva affrettarsi: a Ilerda in Spagna Fabio, che l’aveva preceduto, era già in difficoltà. Lo fronteggiavano due legati pompeiani: Afranio e Petreio, quest’ultimo vincitore di Catilina nel 62 a.C. vicino a Pistoia.
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La posizione forte di Ilerda, l’esperienza militare dei capitani di Pompeo misero alle strette, e in un paio di circostanze addirittura in pericolo, Cesare. A Roma si sparse la notizia che Cesare, tradito dai soldati, isolato in una palude, stava per morire di fame. Non rispondeva a verità che in parte; Cesare comunque «non desistette mai dal provocare, bloccare Afranio e Petreio, circondandoli con fossati, finché s’impadroní con la forza e dei loro accampamenti e delle loro truppe». Afranio e Petreio riuscirono a fuggire: il primo lo ritroveremo l’anno dopo a Farsalo, il secondo in Africa a Tapso.
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In basso i resti del teatro romano di Acinipo (Spagna). La città sarebbe stata fondata dai legionari romani dopo la battaglia di Munda del 45 a.C. Nella pagina accanto la colonna terminale della via Appia a Brindisi: qui Cesare si fermò nella sua marcia trionfale attraverso la Penisola.
In quaranta giorni Cesare, che aveva perduto soltanto alcune centinaia di uomini, aveva sottratto a Pompeo cinque legioni veterane e alla repubblica senatoriale il possesso della Spagna Citeriore. Uguale sorte toccò alla Spagna Ulteriore, dove c’era un altro legato di Pompeo, Varrone, con le rimanenti due legioni. Cesare si spinse, poi, fino a Cadice.
Il dominio del mondo Gli ricordava il sogno, avuto quando vi era stato come questore della Spagna Ulteriore, e quello che gli avevano predetto allora gli indovini: il dominio del mondo. In un momento di
generosità – o di cosciente celebrazione – concede a Cadice la cittadinanza romana, ma dall’Africa piú o meno contemporaneamente gli annunciano la morte di Gaio Scribonio Curione. Gli doveva il primo atto della rottura con il Senato. Curione l’aveva seguito nella cavalcata da Ravenna a Corfinio e proprio con le truppe pompeiane di Domizio Enobarbo, arresesi e passate a Cesare, era sbarcato in Sicilia, poi in Africa. Una parabola breve ed eroica. Tutto nel giro di dieci giorni. Il 13 agosto Curione occupava Utica, tre giorni dopo vinceva un esercito pompeiano di Varo, moriva il 20 a (segue a p. 81)
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Tributo a Cesare, affresco di Andrea del Sarto realizzato intorno al 1520 e completato (con integrazioni) da Alessandro Allori nel 1582. Poggio a Caiano, Villa Medicea.
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Affresco raffigurante navi da guerra romane. I sec. d.C. Pompei. Casa dei Vettii.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Bagrada combattendo valorosamente contro le soverchianti ondate della cavalleria del re Giuba. Intanto Marsiglia si era arresa. Quando Cesare riprende la strada per l’Italia, si ferma a Piacenza: le legioni, di ritorno dalla Spagna, si sono ribellate all’ordine di recarsi a Brindisi, tappa finale per l’Epiro. È l’inizio di un ammutinamento, il primo nell’esercito di Cesare (ottobre 49 a.C.). Con l’arrogante abilità di chi conosce l’animo dei soldati, li affronta a viso aperto, riaccende in loro e il senso della realtà e la liturgia del dovere militare. La IX legione è decimata. Vergognosi e pentiti, i soldati gli chiedono di marciare e, la IX legione in testa, si dirigono a Brindisi.
Un potere assoluto e legittimo Roma lo accoglie con la nomina a dittatore. Cesare richiama dall’esilio quelli che erano stati vittime della giustizia senatoriale, e con la riduzione dei debiti mette mano al piano delle riforme politiche e sociali. E poiché la guerra era un pozzo senza fondo, con stupefacente semplicità il pontefice massimo (cioè Cesare) si appropria di tutte le offerte preziose che si trovavano nei santuari, a cominciare dal tempio di Giove, e tranquillamente le fa fondere. Poi convoca i comizi per i nuovi consoli. Eletto con Publio Servilio Isaurico, depone la dittatura. Console dal 1° gennaio 48 a.C., era ormai nella perfetta legalità e quindi, contro Pompeo e l’oligarchia senatoriale, incarnava la maestà dello Stato romano. Questa volta a Roma si è fermato undici giorni. Corre a Brindisi, dove è radunato l’esercito. Le navi sono insufficienti e allora arringa i soldati, esortandoli a lasciare in Italia schiavi e bagagli, affinché possa imbarcare di loro il maggior numero possibile. Accettano, anzi «si levò un grido unanime: comandasse quello che voleva, essi erano pronti a eseguire i suoi comandi». Non si imbarcano piú di quindicimila legionari e cinquecento cavalieri. Di notte con il favore del vento, che spirava da sud, Cesare, «con la scorta di sole dodici navi da guerra, fra le quali quattro fornite di coperta», prende il largo (4 gennaio 48 a.C.), l’indomani sbarca a Palaste,
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l’altro ancora è a Orico, poi ad Apollonia. Nel giro di nemmeno una settimana si è impadronito dell’Epiro del Nord. Li aveva colti di sorpresa. Bibulo, che Pompeo aveva messo a capo della flotta e che a Corcyra, dove era alla fonda, disponeva di centoventi navi, rimase esterrefatto. Nessuno, compreso Gneo Pompeo Magno, si aspettava lo sbarco di Cesare in Epiro: una marina insufficiente per numero, affatto priva di copertura, l’inclemenza della stagione, la potenza della flotta da guerra nemica, che nell’insieme assommava a oltre centosessanta navi. Il piano di invasione di Cesare, nella mente di Pompeo e degli altri, era previsto per terra, attraverso la Dalmazia. Insomma Pompeo, che da un anno era in Epiro, pensava di continuare ad «allenare» l’esercito (disponeva di nove legioni, altre due gliele avrebbe portate Metello Scipione, suo suocero, dalla Siria), inoltre di ricevere rinforzi dalle città della Grecia e dalla Tracia, dall’Asia, e «riscuotere grandi somme di denaro dalla stessa Asia, dalla Siria, da tutti i re, dinasti e tetrarchi, nonché dalle compagnie di pubblicani in quelle province che egli occupava».
Le certezze di Pompeo La stessa notte dello sbarco Cesare aveva rimandato indietro le navi da carico perché nel piú breve tempo possibile Fufio Caleno, a cui aveva affidato il comando, potesse provvedere al trasporto delle altre legioni e della cavalleria. Il vento non gli fu ora favorevole come all’andata. Bibulo, bruciato dallo smacco iniziale, gonfio di rabbia, si precipita al largo, raggiunge la flotta cesariana, brucia una trentina di navi, le insegue fino a Brindisi. Poi raddoppia la vigilanza sul tratto di mare dall’Italia all’Epiro. Da parte sua Pompeo, conoscendo la enorme superiorità di uomini e di mezzi rispetto a Cesare, si credeva sicuro – sempre che Bibulo e gli altri della flotta lo garantissero da qualsiasi nuovo sbarco – di venire a capo della seconda e decisiva fase della guerra quasi senza colpo ferire, giacché Cesare,
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tagliato fuori dalle comunicazioni con l’Italia, costretto a operare in una zona povera di risorse, sarebbe stato costretto o ad azioni disperate o alla resa. In effetti la situazione di Cesare era in bilico. Soltanto quella sua straordinaria capacità tattica, la rapidità degli spostamenti, la fiducia che i legionari avevano in lui, riuscivano a mascherare una potenzialità che era solo apparente. Di lí a poco morí per malattia e stroncato dalle fatiche della guerra, Lucio Marco Calpurnio Bibulo, genero di Catone e capo della flotta di Pompeo. Il suo destino di perdente si intrecciò, si può dire caparbiamente per l’intero arco della sua vicenda politica, con quello di Caio Giulio Cesare: schierati in opposti schieramenti, erano stati nello stesso anno edili nel 65, pretori nel 62, consoli nel 59 a.C. La morte di lui spinse Cesare a sollecitare Fufio Caleno a imbarcare a In basso denario d’argento con il ritratto di Giulio Cesare di profilo. Zecca di Roma, I sec. a.C.
Resti del teatro e del monumento degli Agonoteti ad Apollonia d’Illiria (oggi in Albania), città che nello scontro fra Pompeo e Cesare si schierò con il secondo.
Brindisi le restanti legioni e la cavalleria. Il legato riempie le navi e si avventura al largo. Si era appena allontanato che riceve una lettera di Cesare: i porti e tutta la fascia costiera dell’Epiro erano occupati dalla flotta nemica. Non gli restava che richiamare indietro le navi, chiudere il porto e fortificarlo. A Brindisi giunsero Marco Antonio e Aulo Gabinio. Ma il tempo e il mare erano cambiati. Gabinio confessò di avere paura ad affrontare la
traversata e con le truppe al suo comando risalí la Penisola e si portò nell’Illirico per arrivare in Epiro dal nord. Non ebbe sorte migliore. Nel contempo, la posizione di Cesare ad Apollonia era sempre piú critica: non aveva forze sufficienti per attaccare battaglia, quelle rimaste in Italia non arrivavano. Prese una decisione disperata: vestito da schiavo, all’insaputa di tutti, di notte monta su un battello a dodici remi. Ma il mare minacciava tempesta. Il capitano del
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battello rifiutava di salpare, al che Cesare, facendosi riconoscere, «Non temere, dice, tu porti Cesare e la sua fortuna». La forza del vento era, però, piú forte della volontà o dell’audacia del conquistatore della Gallia e dell’Italia, che alla fine dovette desistere. Gli venne allora in aiuto Antonio. Nemmeno lui mancava di coraggio. Imbarcò sulle navi ottocento cavalieri e ventimila legionari e prese il largo. Scoperto dai nemici, sfuggí per un cambiamento improvviso di vento.
Una sconfitta inaspettata L’indomani era in vista di Apollonia e di Durazzo; le navi, tuttavia, erano dirette contro coste rocciose e scogli a precipizio. Non avevano scampo. Inaspettata arrivò «la fortuna di Cesare», giacché dal golfo prese a soffiare un forte vento di libeccio: le navi risospinte in alto mare, le triremi pompeiane, piú leggere delle navi onerarie e non munite sufficientemente di vele, gettate a fracassarsi contro gli scogli. Dopo quasi tre mesi Cesare, grazie ad Antonio, poteva riunire l’esercito e dare alla sua strategia prospettive piú ampie e sicure. Seguí l’assedio di Durazzo. Trincerandosi fra la città e il campo di Pompeo, Cesare tentò di usare la tattica usata ad Alesia contro Vercingetorige. Quando Pompeo fu costretto a forzare il blocco, dapprima la sorte sembrò volgere in favore dei legionari di Cesare, ma un contrattacco di Pompeo colse un fianco scoperto dello schieramento giuliano e rovesciò totalmente l’esito della battaglia. I cesariani si dettero alla fuga. Cesare afferrò un’insegna e si oppose ai fuggitivi. Un legionario, grande, robusto, che fuggiva insieme agli altri, accecato dalla paura, «alzò la daga contro di lui, che gli si pareva davanti, nell’intento di colpirlo: l’avrebbe fatto se lo scudiero di Cesare non l’avesse prevenuto, troncandogli netta la spalla». Incisione raffigurante gli schieramenti e gli accampamenti sul campo di Farsalo, cittadina della Tessaglia nei pressi della quale, nel 48 a.C., Giulio Cesare sbaragliò le truppe di Pompeo. 1780.
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Sulle due pagine Alessandria d’Egitto. La Sfinge e la colonna di Pompeo. La testa di Pompeo, fuggito e ucciso dopo la battaglia di Farsalo, era stata portata a Cesare entrato ad Alessandria, dove era re Tolomeo XIV. Non aveva che dieci anni e aveva cacciato la sorella Cleopatra VII dal trono. Cesare fece guerra a Tolomeo e rimise Cleopatra sul trono, vinto dalle grazie della bellissima donna.
Per Cesare Durazzo fu un rovescio imprevisto: perse trentadue insegne e un migliaio di uomini, una parte dei quali travolti dalla fuga incontrollata dei propri commilitoni. Per i pompeiani fu una vittoria strepitosa, risolutiva: ora bisognava inseguire Cesare, non dargli tregua; i suoi legionari, si diceva, avviliti, affamati, si sarebbero arresi uno dopo l’altro. Del resto anche Cesare, come riferisce Plutarco, allontanandosi dal campo di battaglia, l’ammise ma con una punta di malignità: «Oggi i nostri nemici avrebbero colto una vittoria definitiva, se dalla loro parte avessero avuto il vincitore». L’allusione era a Pompeo, che non aveva saputo approfittare della vittoria.
Cercando la rivincita La notte non dormí. Forse aveva presunto troppo di sé, ostinandosi a combattere intorno a Durazzo, dove tutto gli era avverso, a cominciare dalla posizione della città che si apriva sul mare, e lui, privo com’era di una flotta, si era condannato e alla scarsità di rifornimenti e all’essere tagliato fuori dall’Italia. Al mattino aveva già preso la decisione. Ritornò ad Apollonia, poi costeggiando il confine fra Epiro e Macedonia, entrò in Tessaglia. Aveva due scopi: rianimare l’esercito e congiungersi con Gneo Domizio Calvino, che si trovava nella Macedonia settentrionale, tanto piú che i pompeiani avevano strombazzato la vittoria ai quattro venti e, naturalmente, gonfiandola oltre ogni limite. Il fatto che Cesare si fosse precipitato a sud, in Grecia, dava loro la conferma che era finito. Lettere di esultanza furono inviate a Roma, in Italia, in Africa insieme con le liste di proscrizione. A Durazzo Tito Azio Labieno ne aveva offerto un esempio: sbeffeggiati e derisi in pubblico i legionari prigionieri (non pochi li conosceva), poi sadicamente uccisi. Insomma Cesare era spacciato. Gomphi fu la prima città della Tessaglia che gli chiuse le porte in faccia. Fra l’altro era ricca di viveri e i cesariani ribollenti di rabbia e affamati. Senza indugi il console lasciò loro mano libera. Prima (segue a p. 90)
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La fine del triumviro Prima di diventare l’acerrimo nemico di Cesare, Gneo Pompeo Magno aveva formato con lui e Crasso il primo triumvirato, ma l’esperienza si risolse tragicamente, con la guerra civile. Qui lo vediamo, ritratto di profilo, su un denario in argento (conservato presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano) e in una incisione che ne raffigura la morte: dopo la sconfitta subita a Farsalo, Pompeo era riparato in Egitto, ma caduto in una imboscata, fu assassinato nel 48 a.C.
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del tramonto Gomphi era presa, saccheggiata e i suoi abitanti passati a fil di spada. Bastò questo a far ravvedere le altre città. Rinfrancato l’esercito, riunitosi con Domizio Calvino, Cesare aspettava Pompeo. Magari il Magno era riluttante a uno scontro decisivo in campo aperto, ma lo spingevano la massa dei senatori, ex consoli, pretori, ecc. Volevano accelerare i tempi, tornare a Roma a godersi le vendette collettive e personali. Arrivò Pompeo. Aveva un esercito di quarantasettemila uomini. Cesare, che nell’attesa si era scelto quale luogo di battaglia la cittadina di Farsalo, ne contava ventiduemila. Gli storici antichi erano talmente imbevuti dell’idea che la fortuna intervenisse nelle vicende umane che, si può dire, non c’è avvenimento straordinario che non sia anticipato da premonizioni di fenomeni celesti
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o da prodigi naturali. La notte che precedette la battaglia di Farsalo una grande palla di fuoco fu vista attraversare un ampio arco di cielo, partendo dal campo di Cesare fino agli alloggiamenti di Pompeo. Il fulgore, chiarissimo, aveva illuminato la notte, ma perse via via di fulgore fino a spegnersi nel momento in cui scomparve dietro il campo pompeiano. Gli uni e gli altri, pompeiani e cesariani, con opposte valutazioni, si dettero subito ad attribuire la vittoria alla propria parte.
Scontro fra poteri Farsalo era a nord della Grecia. Nel 48 a.C. ebbe la ventura di segnare il destino di un’epoca: la fine della repubblica senatoriale e l’inizio virtuale dell’impero romano. Nella piana ai piedi di un anfiteatro di ondulate colline erano di fronte due eserciti romani, due
Rilievo facente parte della decorazione del tempio di Hathor a Dendera (Egitto), raffigurante il faraone Tolomeo XIV, Giulio Cesare e Cleopatra. Epoca tolemaica 332-30 a.C.
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
capitani dal nome prestigioso, Pompeo e Cesare, due concezioni del potere: oligarchia e democrazia. Gli oligarchi disponevano, lo si è detto sopra, di forze soverchianti, piú del doppio di quelle avversarie; di una cavalleria numerosissima, splendente di armi, di giovani, di fastose esibizioni. Alle spalle avevano le tradizioni dello Stato, l’aristocrazia di Roma, una conclamata e arrogante legittimità costituzionale; davanti la garanzia delle ricchezze d’Oriente. C’erano poi dalla loro parte i grandi corifei del Senato, i cultori della moralità pubblica: Catone e Cicerone. Alla vigilia della battaglia gli optimates erano cosí sicuri di vincere che in anticipo si spartiscono le cariche, decretano premi e condanne, inviano emissari a Roma, riempiono le tende di festoni di mirto, tappeti, tavole imbandite. A Cesare, in effetti, rimanevano due sole speranze: l’azzardo del suo genio militare e la risolutezza dei veterani della Gallia. Gli bastarono per rovesciare le previsioni della vigilia. Afosa la giornata, la terra gialla di sole e di stoppie. Per il calendario del tempo era il 9 agosto, per quello riformato (e solare) il 29 giugno del 44 a.C. Cesare, secondo uno schema collaudato, schierò i suoi su tre linee,
ponendosi con la X legione all’ala destra. E dette come parola d’ordine Venus Victrix, che ricordava loro la sua discendenza divina. A sua volta Pompeo prese il comando dell’ala in contrapposizione a Cesare, riunendo lí tutta la cavalleria insieme con le due legioni che in Gallia (ad Alesia) erano state con Cesare. Quando la cavalleria di Pompeo si spiegò a ventaglio per prendere alle spalle lo schieramento «nemico», Cesare le contrappose una quarta linea. Repentinamente e con grande veemenza questa attaccò la cavalleria, la ricacciò indietro, poi la mise in fuga e, senza fermarsi, andò a urtare di fianco le due legioni di Pompeo. In pratica la battaglia vera e propria finí qui.
Una vittoria schiacciante Il resto fu strage, paura, disordine, polvere nel grande caldo del giorno. Pompeo, veduta la sua cavalleria respinta, decimata, umiliata, scappò nell’accampamento, depose le vesti di comandante, raggiunse Larissa, poi il mare e andò a farsi tagliare la testa in Egitto dai cortigiani del giovane re Tolomeo XIV. La vittoria di Cesare a Farsalo fu, negli esiti, addirittura mostruosa: duecentotrenta morti fra i cesariani
Il sogno di potere della regina d’Egitto
A
lla morte di Tolomeo XIII (51 a.C.) salirono al trono i figli Cleopatra VII e Tolomeo XIV, i quali, assecondando la regola in uso nella famiglia faraonica (essendo di origine divina, non potevano mescolarsi con i comuni mortali), si unirono in matrimonio. Tolomeo XIV aveva solo dieci anni. Due anni dopo, aizzato dalle méne dei cortigiani, scaccia la sorella dal regno. Nell’ottobre del 48 a.C., quando Cesare sbarca ad Alessandria, Cleopatra si trova a nord di Pelusio. Ma per lui aveva in serbo una trovata stupefacente:
si fa deporre ai piedi di Cesare avvolta in un tappeto. Ottenne molto piú di quanto si aspettava. Forse lei non era bellissima, ma raffinata, sinuosa e aveva l’intelligenza dell’inganno e della seduzione. Rimase incinta e proclamò Cesare Amon Osiride e se stessa Iside. Nel settembre del 46 a.C. è a Roma con il figlio Tolomeo Cesare. Sognava un regno romano ellenistico e il riconoscimento del figlio. Ucciso Cesare, tornò in Egitto. Nell’inverno del 42/41 a.C. raggiunse Tarso in Cilicia per
vedere Marco Antonio, reduce dalla vittoria di Filippi contro i cesaricidi Bruto e Cassio. Lo trascinò ad Alessandria. Antonio non aveva, però, la sobrietà, né tanto meno il genio militare di Cesare e nelle notti ubriache di Alessandria si giocò l’impero. Ad Azio, poi, Ottaviano gli contrappose il suo generale e amico Marco Vipsanio Agrippa. Sconfitto, in fuga, Antonio si uccise e Cleopatra ricorse al serpente per non essere ludibrio della folla a Roma nel trionfo egiziano di Ottaviano.
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(fra cui trenta centurioni «uomini fortissimi») contro sedicimila di parte avversa. Con in piú, l’indomani, ventiquattromila prigionieri. Andò a Larissa. Fra la caterva dei prigionieri c’era Bruto, il figlio di Servilia, che aveva combattuto nelle file pompeiane.
Una clemenza gravida di sospetti Bruto gli fece pervenire una lettera e Cesare lo accolse con un eccesso di benevolenza, suscitando lo stupore di Marco Antonio, Domizio Calvino, Publio Cornelio Silla (nipote del dittatore), cioè dei suoi piú stretti collaboratori e che a Farsalo avevano comandato, rispettivamente, l’ala sinistra, il centro, la destra dello schieramento cesariano. E non solo Bruto ebbe il perdono, ma il salvacondotto per l’Italia e il governatorato della Cisalpina per l’anno dopo (47 a.C.). È anche vero che prima della battaglia alla X
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Sulle due pagine Cleopatra sperimenta i veleni sui condannati a morte, olio su tela di Alexandre Cabanel. 1887. Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.
legione, la sua preferita, Cesare aveva dato un ordine preciso: «Non toccate Bruto». Perché lui solo da risparmiare? Era una promessa fatta alla sua ex amante Servilia l’ultima volta che era stato a Roma? O un tacito riconoscimento del bastardo? Nelle taverne del Foro si sussurrava – e piú tardi lo si dirà apertamente – che Bruto fosse figlio di Cesare, nato a Servilia quando piú veemente era la passione di lei per «il piú bello dei Romani». Comunque sia, allora e in seguito, Marco Giunio Bruto Cepione godette presso Cesare di un credito, di una fiducia e di un favore particolarissimo, tanto che proprio la cecità di Cesare nei suoi confronti fu la causa non secondaria del nascere e del concretizzarsi della congiura. Poi Cesare si mise all’inseguimento di Pompeo: doveva impedire che mettesse insieme un altro esercito e trovasse in Oriente le ricchezze per
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finanziarlo. Giunto ad Anfipoli, passò per l’Ellesponto in Asia, ad Efeso lo osannarono come figlio di Marte e di Venere, e il 2 ottobre (19 agosto per il calendario riformato) con le navi da trasporto e 35 galere di scorta entrava nel grande porto di Alessandria. Ma lo scopo, per cui si era mosso da Larissa, era venuto meno: Gneo Pompeo Magno era morto, ucciso dagli stessi da cui si riprometteva asilo e aiuti; per di piú pugnalato a tradimento da un suo veterano. Plotino, l’eunuco faccendiere del giovane faraone, gli fece portare l’anello e la testa. Era come dire: ecco il nemico che cercavi. Ti abbiamo risparmiato il fastidio di ucciderlo. Ora, Romano, non hai nessun diritto a restare in Egitto, tanto meno a occuparti dei nostri affari interni.
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In basso ritratti di Marco Antonio, da Patrasso (Budapest, Museo di Belle Arti) e Cleopatra, dalla Villa dei Quintili a Roma (Città del Vaticano, Museo Gregoriano Profano). Nella pagina accanto testa colossale di Giulio Cesare su busto moderno. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Secondo uno storico tedesco, Cesare in Egitto «commise la piú lunga serie di errori politici della sua carriera». Aveva iniziato sbarcando ad Alessandria con l’esibizione dei littori, come si trattasse di una colonia romana, poi si era insediato nella reggia dei Tolomei, infine si impegolò in una guerra per rimettere Cleopatra sul trono. E il destino di lei fu segnato da un tappeto deposto ai piedi di Cesare. La scelta fantasiosa del modo di presentarglisi, di notte, uscendo fuori dal tappeto srotolato in veste succinta come il frutto piú succoso del Nilo e offerta votiva al vincitore, determinò la natura dei rapporti di lei con il padrone di Roma e del mondo. Cesare a tal punto si bruciò al fuoco dei suoi incanti (Cleopatra aveva (segue a p. 98)
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LA GUERRA CIVILE La Biblioteca di Alessandria e il sapere del mondo
«I
l fuoco divampa dalle tue navi. La prima delle sette meraviglie del mondo perisce: la biblioteca di Alessandria è in fiamme». «Tutto qui?». «Tutto qui?». Vuoi passare alla storia come un soldato barbaro ignaro del valore dei libri?». «Ma Teodoto, sono anch’io un autore...». Con questo dialogo tragicomico tra Teodoto e Cesare, il commediografo irlandese Bernard Shaw descriveva nel suo Cesare e Cleopatra l’incendio della Biblioteca di Alessandria. La moderna Alessandria nasconde nel sottosuolo i resti della Biblioteca, che doveva contenere 700 000 rotuli (l’equivalente dei nostri libri). All’interno, doveva esserci una distinzione tra magazzini e sale di lettura. I rotuli erano collocati in scaffali (come si deduce da alcuni rilievi antichi) e provvisti di etichette. Il patrimonio librario di Alessandria andò distrutto in due incendi: il primo scoppiò nel corso della guerra di Cesare contro gli oppositori al trono di Cleopatra (il fratello di questa, Tolomeo XIII e alcuni funzionari di corte); il secondo incendio divampò nel VII secolo d.C., durante la conquista araba della città.
Un papiro proveniente dal Serapeo di Alessandria d’Egitto. Il monumento disponeva di una propria biblioteca, detta «secondaria» per distinguerla dalla ben piú grande e non lontana Biblioteca. Il documento riporta una parte di un trattato di astronomia elaborato da Eudosso di Cnido (408-355 a.C.). Prima metà del I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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Sulle due pagine un particolare del mosaico del Nilo di Palestrina con un banchetto sul fiume, del tipo di quelli che possiamo immaginare fosse solita imbandire Cleopatra. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto statua di Cleopatra VII, regina d’Egitto, nelle sembianze di Iside. I sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
vent’anni, lui cinquantadue) da rischiare per lei non solo il suo prestigio militare di invincibilità, ma la vita stessa. L’indomani della notte del tappeto i maggiorenti egiziani, Plotino, Achillas (capo dell’esercito) e il giovane Tolomeo videro che a fianco del console di Roma e vincitore di Farsalo c’era Cleopatra, fino a dieci giorni addietro fuggiasca e bandita da Alessandria. Non ci voleva molto a capire che da allora in Egitto il potere sarebbe stato nelle mani di Cleopatra. Fu la guerra. Difficile e piena di incognite. In Egitto Cesare si era portata la VI legione (3200 uomini) e ottocento cavalieri. Achillas disponeva di un esercito di oltre ventimila unità, la maggior parte soldati lasciati in Egitto nel 55 a.C. da Gabinio, Galli, Germani e mercenari.
Un incendio devastante Cesare si rese subito conto della precarietà della sua situazione; lasciò entrare Achillas in Alessandria, ma contemporaneamente si rinchiuse e si fortificò nel vasto recinto che comprendeva il palazzo reale, il porto grande e il teatro. In attesa dell’arrivo di Domizio Calvino con due legioni e per mantenersi libera la via del mare, appiccò il fuoco alla flotta alessandrina di settantadue navi. Nell’incendio andarono distrutte con le navi un gran numero di case, l’arsenale, la famosa biblioteca. Alla fine di marzo (Cesare resisteva ad Alessandria da novembre) arrivò in suo aiuto al Pelusio Mitridate di Pergamo. L’esercito egiziano fu costretto a lasciare Alessandria e andargli incontro. Cesare imbarca una legione e la cavalleria e lo raggiunge. Nella battaglia che seguí (25 marzo 47 a.C.) l’esercito egiziano fu totalmente distrutto: dodicimila prigionieri, ventimilacinquecento morti. Morto anche Tolomeo XIV.
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VENTITRÉ PUGNALATE IL DESTINO DI GIULIO CESARE SI COMPIE IN UN GIORNO DI FESTA, LE IDI DI MARZO, DEL 44 A.C. MA COME SI ARRIVÒ AL COMPLOTTO E QUALI FURONO LE RAGIONI CHE AVEVANO ARMATO LE MANI DEI CONGIURATI?
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Morte di Giulio Cesare, olio su tela di Vincenzo Camuccini. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Il dipinto fu commissionato all’artista nel 1793, ma venne da questi ultimato solo nel 1818.
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LA FINE
L’
Egitto esaltò in Cesare la deità del vincitore: era Cesare Amon Osiride e Cleopatra, la sposa faraonica, la dea Iside. Fu il riposo del guerriero. Si prese una vacanza sul Nilo a bordo della nave nuziale con Cleopatra. Durò due mesi. Lo riscossero le notizie dall’Asia: Farnace, re del Ponto, aveva sconfitto Domizio Calvino (indebolito dalle due legioni portate a Cesare ad Alessandria), invaso la piccola Armenia, la Cappadocia e ancora Amiso e la Bitinia. Dalle braccia della regina, che gli rivela di essere incinta e che gli avrebbe dato l’erede che gli mancava, Cesare vola in Asia. Con una parte dei soldati condotti da Alessandria, gli avanzi delle milizie di Calvino, le soldatesche inviategli da Deiotaro (a Farsalo aveva combattuto dalla parte di Pompeo),
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attacca Farnace a Zela (2 agosto 47 a.C.). Dopo quattro ore di combattimento l’esercito di Farnace non esisteva piú: annientato, sparito. E l’annuncio di Cesare a Roma fu lapidario: «Venni, vidi, vinsi». Nella via di ritorno in Italia fece scalo ad Atene. Elemosinando il suo perdono, gli Ateniesi gli dimostrarono la stessa fretta, devozione, manifestate un anno prima nel sostenere Pompeo e l’oligarchia senatoriale. Cesare, nel concederglielo, fu sprezzante: «Riuscite sempre a scampare la morte in memoria dei vostri antenati?». Piú o meno la stessa frase l’aveva pronunciata Silla, quarant’anni prima, quando conquistò Atene, che aveva accolto un generale e le truppe di Mitridate. Perdonò anche Cicerone che lo aspettava a Brindisi, dove era fuggito dopo Farsalo, e
Sulle due pagine veduta dall’alto dei resti della Basilica Giulia, nel Foro Romano (nella pagina accanto), e, in basso, una ricostruzione virtuale dell’edificio. La sua realizzazione fu promossa da Giulio Cesare e la struttura era uno dei tribunali dell’Urbe.
all’inizio di ottobre era a Roma. Vi trovò paura e incertezza. Da due anni mancava una guida di governo, e lui vi aveva fatto due soli rapidi soggiorni. Il Senato ridotto a un terzo, le persone politicamente piú importanti disseminate nei vari fronti della guerra civile dall’Africa all’Asia, alla Spagna, alla Grecia.
Una città dilaniata Il Foro teatro di scontri, morti e feriti, templi profanati, la città divisa, due cesariani in lotta fra loro: Marco Antonio, fedele e valoroso in battaglia, a cui aveva affidato il compito di riportare le legioni in Italia e, in pratica, la responsabilità di alter ego; l’altro Cornelio Dolabella, genero di Cicerone, improvvisatosi demagogo tout court, che per cattivarsi il popolo proponeva l’azzeramento dei debiti. La proposta non era nuova, nata da un altro pretore Marco Celio Rufo, già catilinario, ottimate, cesariano, che aveva insanguinato il Foro con disordini e tumulti e, scacciato dal console Servilio Isaurico, era finito in Calabria ucciso insieme con Milone. Ma Cesare, campione della parte democratica, non era un rivoluzionario. Ora impone e riporta ordine in città, poi adotta una misura fondamentale: dimezza il numero dei proletari urbani (da
320mila a 175mila), favorendo nel contempo l’emigrazione da Roma e dall’Italia di ceti proletarizzati che, nelle province sia occidentali che orientali, potevano trovare opportunità di stanziamento e di impiego. Piú di ottantamila cittadini romani, dice Svetonio, andarono in colonie d’oltremare. Ma il peggio per lui, Cesare, furono le lagnanze e il pericolo di un ammutinamento dei veterani, tanto piú che in Africa si profilava una situazione insostenibile. Vi erano confluiti tutti gli sconfitti e fuggiti dalla Grecia, da Farsalo, dalla Spagna. Catone vi aveva trasferito quindici coorti da Durazzo, poi i rimasugli di Farsalo, condotti da Afranio e da Metello Scipione, e ancora i cavalieri di Labieno, che avrebbero dovuto – secondo i piani di Pompeo – frantumare la destra di Cesare (la X legione) e vincere la battaglia a man bassa. Erano invece scappati come caprioli all’abbaiare dei cani. E c’era la massiccia cavalleria numida del re Giuba, che odiava Cesare dal 64 a.C. quando quest’ultimo nel Foro, dopo averlo pubblicamente offeso, gli aveva tirato la barba e, due anni dopo, sottrattogli dalle grinfie della vendetta il principe ribelle Masiutha. A Cesare era fin troppo chiaro che, se doveva condurre una campagna in Africa, aveva
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bisogno delle sue legioni, della decima, in breve dell’esercito di Cesare. I legionari erano radunati in Campania. Mandò loro il primo legato, Publio Silla, incaricato di condurli in Sicilia. Si rifiutarono di abbandonare l’accampamento, chiedendo e il congedo e le ricompense promesse. Il secondo legato fu Sallustio Crispo (lo storico). Lo accolsero a colpi di pietra. Mossero poi minacciosi su Roma. Cesare non si oppose alla loro marcia, anzi finse di cedere alle loro lagnanze, a condizione che deponessero le armi. Contemporaneamente chiuse la cinta dell’Urbe, sistemò alle porte i soldati della VI legione e fece defluire in Campo Marzio il flusso dei rivoltosi. Appena gli ammutinati si
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furono sparpagliati, mugugnando, gridando, Cesare si presenta loro in cotta militare, sale alla tribuna e a bruciapelo chiede che cosa volessero. «Il congedo» rispondono, vociferando. Alle spalle avevano tredici anni di ininterrotte campagne, erano stanchi, pieni di cicatrici. «Vi congedo» dice Cesare, gelido, senza scomporsi. Nel mare di teste un silenzio sbigottito, tombale. Poi aggiunge: «Quanto alle promesse, voi mi siete testimoni, sempre le ho mantenute. I compensi che vi spettano li avrete quando celebrerò il trionfo africano con altri soldati». Da esperto manipolatore, aveva toccato il loro punto debole: l’orgoglio. Gli bastò guardarli: li teneva in pugno. L’ultimo tocco fu da grandissimo attore.
A sinistra e in basso due immagini di una statua frammentaria in basalto, forse raffigurante Cesarione, il figlio di Cleopatra e di Cesare. Il Cairo, Museo Egizio.
Nella pagina accanto stele raffigurante Cesarione, figlio di Cleopatra e di Cesare, che fa offerte alle divinità egizie. 31 a.C. Londra, British Museum. In basso moneta in bronzo della città di Fulvia (Asia Minore) raffigurante la moglie di Antonio, da cui aveva preso il nome. 40 a.C. circa.
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«Quirites», cittadini, li chiamò, come se il loro licenziamento fosse un atto compiuto. Si ribellarono. Per primi quelli della decima, che insieme alla dodicesima erano stati i piú violenti ed eccitati. Poi tutti gli altri. Gridavano di essere commilitones, legionari di Cesare, e pentiti, disperati cominciano a pregarlo, si inginocchiano, giurano di seguirlo come volontari in Africa o dovunque lui decida di portarli. Fu, per Cesare, una vittoria incruenta, ma non meno determinante; anzi, considerando il momento, forse anche piú significativa di quelle ottenute sul campo di
battaglia. Sbarcò in Sicilia, poi in Africa, vicino ad Agrumeto. Ebbe non poche difficoltà all’inizio: per le avverse condizioni atmosferiche era riuscito a portare con sé in Africa solo una metà dell’esercito e, per la sproporzione delle forze, lo dettero già per sconfitto, in fuga, annientato. Appena lo raggiunse l’altra metà dell’esercito, Cesare cambiò strategia. Battaglia di Tapso, a sud di Agrumeto, 4 aprile 46 a.C. La vittoria travalicò previsioni e credibilità: accampamenti incendiati, cinquantamila caduti negli eserciti di Metello Scipione e di Giuba, nemmeno un centinaio in
Sulle due pagine uno scorcio dei resti del Foro di Cesare, a Roma (a sinistra) e una ricostruzione virtuale di come il complesso doveva apparire all’epoca in cui era in uso.
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quello di Cesare. E furono la X e la XII legione che, tagliando letteralmente in due il centro nemico, ne determinarono la strage.
Meglio la morte della fuga Catone era a Utica. Non aveva preso parte alla battaglia. In qualche modo ne aveva previsto l’esito, anche se lontano dal concepire le dimensioni con cui si era risolta. Piú volte aveva pregato Metello Scipione di non lasciarsi trascinare da Cesare in campo aperto; l’altro lo tacciò di vile. All’arrivo dei corrieri della
sventura fece con alacrità tutto quello che era possibile per mettere la città in stato di difesa. Ben presto si rese conto della vanità dei suoi sforzi. La strage invereconda di Tapso non consentiva repliche. Scipione, Giuba, Petreio, Varo, Afranio morti o suicidi. Solo Labieno era scappato. Catone non volle fuggire e, cosciente, si preparò alla morte. E fu, si può dire, il suicidio – rabbioso, disperato, condotto con una ferocia senza pari – che consacrò in maniera «altisonante» Marco Porcio Catone (segue a p. 110)
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LA FINE
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Incisione raffigurante gli schieramenti e gli accampamenti sul campo di Tapso, cittadina dell’Africa proconsolare nei pressi della quale, nel 46 a.C., Giulio Cesare ottenne la vittoria definitiva ai danni dei pompeiani e dei loro alleati. 1780.
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LA FINE
quale figura simbolo di rigore morale, d’obbedienza alle leggi, di coerenza politica. Al ritorno di Cesare dall’Africa, Roma e i senatori non sapevano quali onori conferirgli. Nel giro di quaranta mesi (dal gennaio 49 all’aprile 46 a.C.) il discendente di Venus victrix aveva cacciato pompeiani e oligarchia senatoriale dall’Italia, li aveva poi vinti a Ilerda in Spagna, umiliati a Farsalo, messi in ginocchio a Tapso. Vincitore ovunque. La fortuna era il segno tangibile della benevolenza divina. Per l’anno in corso, 707 di Roma, era dittatore per la terza volta e console con Marco Emilio Lepido. Gli toccavano ora i trionfi. E a Roma arrivò Cleopatra con il figlio Cesarione. L’accoglienza fu pari al suo orgoglio di regina. Dai crocicchi della Suburra ai banchi di vendita del Velabro, ai colonnati delle basiliche, alle botteghe degli orafi in Campidoglio correvano pettegolezzi e indiscrezioni sulla passione egiziana del «dittatore». La regina si sistemò in una villa, circondata da giardini, alle pendici del Gianicolo. Né Cesare sembra si preoccupasse molto di nascondere la sua relazione con lei, né era un segreto la paternità di Cesarione, il figlio che Cleopatra aveva avuto subito dopo il soggiorno spropositatamente lungo di lui in Egitto. Poi i trionfi.
La celebrazione delle vittorie Fra il settembre e l’ottobre (46 a.C.) Roma fu sommersa dalla marea fastosa dei suoi quattro trionfi: Gallia, Egitto, Ponto, Africa. Sembrava non finissero mai, sontuosi, immaginifici, tutta la città in subbuglio. Al loro splendore contribuirono la varietà degli apparati: nonché i cartelloni delle sue vittorie portati da improvvisati vessilliferi con i nomi delle località, delle nazioni, il numero dei nemici morti ammazzati e quello dei prigionieri, e ancora i dipinti con le varie fasi di ogni battaglia. Lui, Cesare, ritto sul carro trionfale, la corona d’alloro, la toga rosso porpora, e avanti e dietro il carro i suoi legionari che cantavano. «Cittadini, sorvegliate le vostre donne / vi portiamo il calvo adultero. / In Gallia ha dissipato con le donne il denaro / che qui ha
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preso a prestito». Nel trionfo gallico salí al Campidoglio di sera alla luce delle fiaccole che quaranta elefanti, a destra e a sinistra, portavano infisse sui candelabri. Infine a conclusione dei trionfi fece doni ai soldati, banchetti e spettacoli per il popolo. Un banchetto particolare lo offrí a tutti gli abitanti di Roma simultaneamente «tanto che trovarono posto a tavola in ventiduemila divani». Ma Cesare si era anche assunto l’impegno e il dovere di cambiare lo Stato, dargli una struttura piú rispondente alla complessità di un impero, quale era in effetti la nuova realtà dello Stato romano. Incominciò completando il Senato, largamente depauperato, creò nuovi patrizi, aumentò il numero dei pretori, edili, questori. Divise con il popolo il diritto di eleggere i magistrati. Non dimenticò neppure le opere pubbliche: le paludi pontine, e a Roma una rettifica al percorso del Tevere, la nuova Curia, la Basilica Giulia, il Foro di Cesare. Intanto, spente le ultime luminarie dei banchetti e degli spettacoli, gli occhi di tutti tornarono sulla Venere egiziana, come ormai la chiamavano dopo che la copia dell’originale poteva essere ammirata nella cella del tempio dedicato da Cesare a Venere Genitrice, da cui provenivano i Giuli. La statua era d’oro, nudo il corpo. L’artista, si diceva, aveva avuto Cleopatra come modella. Non basta: la gente del popolo si sbracciava quando la regina compariva nei Saepta di Campo Marzio o passava nel Foro, fluttuante di veli e issata al pari del simulacro di una dea su una lettiga dorata che otto energumeni neri della Nubia e lustrati come metalli reggevano sulle loro spalle. Non erano da meno senatori (fra cui Cicerone), magistrati in carica, tribuni della plebe che facevano la fila alla villa del Gianicolo per ossequiarla; e poi nella Curia non si peritavano di presentare petizioni o richieste in suo favore: che fosse riconosciuto il matrimonio di lei con Cesare avvenuto in Egitto con rito faraonico. Il che, conseguentemente, avrebbe portato a legittimare la nascita del piccolo Tolomeo Cesare. (segue a p. 114)
Giulio Cesare alla testa delle sue truppe nella battaglia di Munda (Spagna), dove, nel 45 a.C., annientò le milizie pompeiane, incisione realizzata da Juan Serra per la Historia de España ilustrada, pubblicata a Barcellona nel 1871.
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La morte di Catone a Utica, olio su tela di Guillaume Guillon Lethière. 1795. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.
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Sembrava che, dopo Tapso, i pompeiani fossero in estinzione: Invece non era finita. I due figli del Magno, Gneo e Sesto Pompeo e l’irriducibile Tito Azio Labieno, profittando della ribellione dei popoli iberici contro Quinto Cassio, messo da Cesare a capo della Spagna, ma resosi odioso per la sua avidità, ebbero in breve il sopravvento fino a mettere insieme «un esercito di proporzioni sorprendenti». Sconfitto, Quinto Cassio fuggí per mare e morí durante una tempesta. Era fratello minore di Caio Cassio, politicamente di parte contraria, di natura ugualmente rapace. Trebonio, mandato in tutta fretta a sostituirlo, peggiorò la situazione. Fu costretto a muoversi Cesare in persona. Partí alla fine di novembre, dopo che per la quarta volta l’avevano eletto console. In ventisette giorni arrivò da Roma alle colline di Cordoba e in due mesi e mezzo portò a termine la campagna contro i figli di Pompeo. Teatro dell’ultima battaglia Munda. La città in alto, trecento metri sopra la pianura. I soldati di Cesare dovevano salire sull’altura prima di venire a contatto con i nemici, schierati fuori delle mura. 17 marzo, festa di Bacco, anno di Roma 708 (45 a.C.). Delle battaglie la piú dura, efferata, sanguinosa. E senza viscere di pietà. Durò dalla seconda ora del giorno fino al
tramonto quando i pompeiani cedettero di schianto. Non avevano piú spazio dove ritirarsi o fuggire, giacché erano a ridosso delle mura e per la Decima fu come macellare le bestie la vigilia dei Saturnali o, in un gigantesco baccanale, squarciare otri di vino. I cesariani lasciarono sul campo un migliaio di uomini; i pompeiani trentatremila. Nel momento piú critico della battaglia Cesare, imbracciato lo scudo, aveva combattuto in prima linea con i legionari della Decima. «Nelle altre battaglie – disse la sera tra i fuochi della vittoria – ho combattuto per vincere, questa volta per salvarmi la vita».
Un’accoglienza trionfale Denario fatto coniare dal Senato per onorare Giulio Cesare alla fine del 45 a.C., pochi mesi prima che Cesare fosse ucciso.
Quando ritornò dalla Spagna, gli andarono incontro magistrati, Vestali, sacerdoti, tribuni della plebe e tutti i cittadini piú importanti, spingendosi a molte miglia di strada sull’Aurelia. Poi, entrato Cesare in città, onori, dignità, iscrizioni incise a lettere d’oro sulle colonne, ludi circenses, pubbliche preghiere, giorni di ringraziamenti, giuramenti in suo nome come per un dio vivente, e statue, templi e il conferimento di tutte le magistrature: dittatura, consolato, censura, potestà tribunizia, comando degli eserciti. Gli dettero anche il titolo ereditario di imperator.
Le trame dei congiurati
I
l 17 marzo 45 a.C. Cesare vinse la sua ultima battaglia a Munda. Marco Antonio, che non l’aveva seguito in Spagna, gli andò incontro a Narbona. Lungo la strada trovò Trebonio. Viaggiarono insieme e dormirono nella stessa tenda. Si conoscevano bene: in Gallia erano stati luogotenenti ad Alesia e nella Belgica. Trebonio, cesariano, ma già roso dall’invidia, sondò Antonio sulla eventualità di una congiura. Di recente, Antonio
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era stato in conflitto con Cesare per la sua vita dissipata e per non aver pagato all’erario la casa di Pompeo, che si era fatto assegnare all’asta pubblica. Trebonio parlò con cautela, ma Antonio intuí subito a che cosa l’altro stesse mirando, tuttavia fece finta di niente, né riferí mai nulla a Cesare di quei discorsi. Perché? Tanto piú che essi nascevano in seno a uomini da Cesare ritenuti a lui fedeli. La notizia è in Plutarco.
Nella seconda Filippica Cicerone la rovescia: a Narbona non Trebonio, ma Antonio progetta la congiura contro Cesare. Grande come scrittore, Cicerone non lo è da meno come manipolatore della verità. Di certo tutti i congiurati, fuori che Bruto, volevano la morte di Antonio insieme a quella di Cesare. E il giorno delle idi, all’entrata nella Curia, Trebonio si incaricò di sviare Antonio affinché non fosse a fianco di Cesare.
Busto in basanite raffigurante probabilmente Marco Antonio, da Canopo. 40-30 a.C., Wimborne, National Trust, Kingston Lacey. Luogotenente di Cesare in Gallia e nella guerra civile, Antonio pronunciò il «famoso» discorso ai veterani e al popolo in occasione dei funerali del dittatore.
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LA FINE
Li aveva stupiti con le vittorie militari, come con la magnanimità dei perdoni («simile a un dio» aveva detto Cicerone), ma il quinto dei trionfi che celebrò a ottobre con uno sfarzo inaudito non era sulla Gallia o l’Egitto o il Ponto o l’Africa, come i precedenti, ma sui figli di Pompeo e Labieno e sugli altri trentatremila romani trucidati. L’eccesso di onori, di poteri mai era stato piú rispondente al merito e alla fortuna, il rovescio della medaglia, però, era lo scempio della secolare protervia dell’oligarchia senatoriale. Poteva immaginare come e perché lo odiassero: li aveva sconfitti al di là di ogni attesa e senza misura, poi graziati della vita, umiliati e ridotti a tale supina accettazione delle loro viltà da innalzargli una statua nel tempio di Quirino con la scritta: «Al dio invincibile». «Gli uomini, scrive Machiavelli, offendono o per paura o per odio». Gli avversari di Cesare pativano l’una e l’altra passione: odio per la sua grandezza, per la sua fortuna; paura per le loro ambizioni definitivamente frustrate.
All’apice del potere E Cesare cambiò dopo Munda: affabile ma con il distacco di un dio, clemente ma con punte altezzose di disprezzo. Potevano vederlo in Senato o in teatro, assiso su una sedia curule d’oro, all’inaugurazione del tempio della Concordia o di Iuppiter Iulius o presenziare ai banchetti che dava al popolo con munificenza e insieme oculatamente, senza strafare. Perché aveva emanato anche leggi suntuarie. L’apice del potere lo raggiunse quando il Senato, prono e abbagliato, lo proclamò dittatore a vita, dictator perpetuus. Era il 14 febbraio 709 dell’anno di Roma (44 a.C.). Ventinove giorni. Tanti gli restavano ancora da vivere. L’indomani della proclamazione a dictator perpetuus cadeva la festa dei Lupercali, una antica tradizione della Roma quadrata. Marco Antonio, console insieme a Cesare, era sacerdote di un particolare sodalizio sacrale, i cui aderenti si chiamavano luperci iuliani. Nudo, con le membra spalmate di olio, Antonio corse
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
Sulle due pagine i resti della città di Utica, oggi in Tunisia. Qui si trovava Catone quando, avuta la notizia della sconfitta del suo partito, si tolse la vita. Nella pagina accanto ricostruzione ipotetica dell’armatura di un legionario di epoca repubblicana. II-I sec. a.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.
insieme con altri giovani per le strade del Palatino, ripetendo una festa di pastori ai tempi in cui si scacciavano i lupi. Alla cerimonia Cesare assisteva nel Foro, dall’alto dei Rostri, su uno scanno dorato, in abito trionfale di porpora. Uno dei giovani, che correva insieme con Antonio, giunto davanti al dittatore, depose ai suoi piedi una corona formata sí da foglie di alloro, ma intrecciate alla bianca fascia del diadema, che era il simbolo sacrale dei re. Debole l’applauso del popolo, che gremiva la piazza. Ma arrivò Antonio a forzare la situazione. Presa la corona e, gridando a voce alta in modo che tutti lo udissero «Salve, rex», fece il gesto di metterla sul capo di Cesare. La folla non mostrò entusiasmo e Cesare, con la prontezza che lo distingueva, afferrò la corona e la gettò alla folla. Marco Antonio voleva davvero provocare il popolo? L’adulazione era comune a tutti,
perfino ai congiurati. «Tanti onori si accumulavano sul capo di Cesare come le bende ornamentali su quello della vittima destinata alla morte». Il gesto di Marco Antonio fu, comunque, sufficiente per i congiurati. Anzi, divenne lo schermo dietro il quale giustificare la loro azione proditoria.
L’anima nera del complotto Fra i congiurati c’erano i graziati da lui, Cesare. Anzi l’essere stati risparmiati della vita era un aculeo, addirittura ossessivo, per volerne la morte. A capo della congiura Caio Cassio. Fu l’anima nera, come ne era stato il promotore. Livido, bilioso, giallo e consunto dal rancore di un’ambizione continuamente mortificata. («Nel nome di tutti gli dèi, di che pane si sarà mai nutrito questo Cesare per crescere tanto?»). Il suo maggior vanto militare restava la ritirata di Carre in Siria con i resti
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dell’esercito di Marco Licinio Crasso (53 a.C.). Nella guerra civile aveva comandato una squadra navale siriana. Marco Bruto ottenne per lui il perdono da Cesare, Per l’anno in corso era pretore insieme con Bruto. Anche la nomina la doveva, ovviamente, alla generosità di Cesare e proprio perché cosciente di essere due volte debitore del «dittatore» credeva di
A sinistra copia di un trofeo con armi e un prigioniero (dall’originale del I sec. d.C. conservato al Museo Archeologico di Torino). Roma, Museo della Civiltà Romana. A destra bronzetto etrusco di augure. 500-480 a.C. Parigi, Museo del Louvre. I Romani erano molto superstiziosi e lo stesso Cesare, la sera prima dell’assassinio aveva avuto un presagio funesto. Nella pagina accanto ritratto idealizzato di Giunio Bruto, opera di Michelangelo Buonarroti. 1538 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Nel Rinascimento l’uccisore di Cesare fu esaltato come il difensore della libertà repubblicana contro un despota che la voleva annientare.
avere i diritti e i privilegi del grande giustiziere. Violento, crudele, irascibile di carattere e avidissimo. Dopo la morte di Cesare, in Asia minore, offrirà di sé una prova esemplare: quella del peggiore dei grassatori, tanto da scandalizzare e irritare fortemente Bruto. Il quale fu la sua vittima e la sua copertura morale, giacché gli altri congiurati erano disposti a seguirlo a condizione che Bruto aderisse alla congiura. Ma l’animo di Cassio covava anche ingiurie private da vendicare. Di ritorno a Roma dall’Egitto e dall’Asia, Cesare
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fece aggiudicare nelle vendite all’asta vastissimi fondi e ville, a un prezzo molto basso, a Servilia, che in gioventú, come si è detto, era stata follemente innamorata di lui. Nella circostanza Cicerone tirò fuori una battuta velenosa: «L’acquisto, sappiatelo, è ancora migliore perché le è stata scontata la terza parte». Il gioco di parole aveva un doppio significato: si diceva, infatti, che Servilia avesse messo nel letto di Cesare la piú giovane delle figlie, Terzia appunto, a lei somigliantissima. Bene, Terzia, dopo l’arrivo a Roma di Cleopatra, era divenuta la moglie di Caio Cassio. Naturalmente a Bruto doveva bruciare la storia della madre e dei suoi trascorsi giovanili. Soprattutto era viva la diceria che lui fosse un bastardo di Cesare. All’indomani di Farsalo il dubbio si accrebbe per le attenzioni, le condiscendenze di Cesare (molti pompeiani furono perdonati ed ebbero cariche per l’intervento di Bruto). Si può supporre che il legame della madre con Cesare e per contro
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l’avversione feroce di Catone abbiano spinto Bruto prima a schierarsi con Pompeo, poi a entrare nella congiura. C’è di piú: la sua seconda moglie fu Porzia, figlia di Catone, sua cugina e vedova di Lucio Calpurnio Bibulo. In Porzia l’odio per Cesare era un atto liturgico della religione familiare.
Lo spettro della guerra civile Insomma l’onore, le libertà politiche erano per Bruto obblighi morali imprescindibili, schemi intellettuali, in cui annegare la colpevole e tremenda responsabilità di un’altra guerra civile che, sapeva, la morte di Cesare avrebbe scatenato? I centoventimila veterani, che avevano avuto o aspettavano la distribuzione delle terre da Cesare e credevano fermissimamente in lui, non avrebbero mai accettato di dipendere da una vecchia classe politica repubblicana che fra l’altro avevano combattuta e vinta. All’antivigilia delle idi di marzo Bruto interrogò Favonio, che era stato
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum Statua colossale tradizionalmente identificata con un ritratto di Pompeo Magno. Roma, Palazzo Spada. Vuole la leggenda che l’assassinio di Giulio Cesare si sia consumato ai piedi di questa scultura, che in origine era collocata nella Curia antistante il teatro fatto costruire dallo stesso Pompeo nel Campo Marzio. Nella pagina accanto ricostruzione virtuale del teatro di Pompeo, in prossimità del quale la tradizione colloca l’agguato mortale ai danni di Giulio Cesare.
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A sinistra denario coniato in una zecca dell’Asia Minore. 43-42 a.C. Al dritto reca il ritratto di Marco Giunio Bruto; al rovescio, i simboli del cesaricidio.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum
seguace di Catone: è lecito o no uccidere il tiranno? L’altro gli rispose senza indugio: «La guerra civile, Bruto, è molto peggio di una monarchia illegale». C’era, infine, un altro fantasma di continuo agitato da Cassio davanti agli occhi di Bruto (e che all’inizio l’aveva reso sensibile all’idea della congiura): che Cesare rendesse legittima l’unione con Cleopatra, e insieme riconoscesse Tolomeo Cesare come suo figlio. Poteva essere il preludio per fondare una dinastia giulio-tolemaica? E Roma avrebbe avuto, nel tempo, un re egiziano? I partecipanti alla congiura erano invasati dall’idea di uccidere il tiranno per restituire la Repubblica alle antiche libertà. Era un miraggio, un anacronismo. La repubblica agonizzava già prima del Rubicone. L’aspirazione al regno di Cesare era per loro nient’altro che un espediente. La dittatura a vita dava a Cesare poteri illimitati, lo sapevano bene e l’avevano votata. Ma l’accusa serviva a nascondere i veri, inconfessabili motivi, percepiti solo in parte dagli stessi propagatori della congiura. La repubblica, con le sue libertà, le sue leggi, era l’oligarchia senatoriale che godeva di un
secolare predominio, e come tale ritenuto intoccabile; erano i grandi agrari che avevano trasformato in proprietà le terre demaniali; erano i piú spregiudicati finanzieri che sfuggivano a ogni controllo. Per tutti costoro il delitto era la giusta espiazione di Cesare, reo di aver distrutto «il secolare dominio della libertà», s’intende della loro libertà di oligarchi, per salvaguardare la libertà della popolazione italica, delle province, in una parola dell’impero nel suo complesso.
Le voci si rincorrono nella Curia A stringere i tempi della congiura fu, indirettamente, lo stesso Cesare quando stabilí la data della sua partenza da Roma per la campagna partica: diciannove marzo. Dovevano affrettarsi, prendere una decisione. Della esistenza di una congiura si sussurrava con circospezione negli ambulacri della Curia: filtrò anche la notizia che vi fossero coinvolti alcuni cesariani di antica milizia. Qualcuno lo disse a Cesare, facendo i nomi dei capi: Bruto e Cassio. «Bruto, rispose il dittatore, aspetterà la fine di questa mia carne». E prima delle calende di marzo, in un eccesso di sicurezza o
Una nobiltà d’animo pagata a caro prezzo
I In alto i congiurati si avventano su Giulio Cesare nella ricostruzione dell’episodio proposta da Vincenzo Camuccini nel dipinto Morte di Giulio Cesare (vedi alle pp. 100/101).
l giorno dopo Farsalo Cesare bruciò, senza leggerli, gli archivi dell’oligarchia senatoriale rinvenuti nella tenda di Pompeo. C’erano, naturalmente, lettere, documenti di tutti i pompeiani avversi a Cesare. Fu il primo atto della sua magnitudo animi verso i nemici «armati». Una politica diametralmente opposta a quella di Silla: «solo i morti non si possono vendicare». Non è un caso, insomma, che i congiurati delle idi di marzo appartenessero ai «risparmiati» della vita da Cesare e riammessi poi dallo stesso alle cariche politiche, a cominciare dal loro capo «morale» Marco Giunio Bruto. Gli altri (in Appiano i nomi): Caio Cassio, i fratelli Cecilio e Bucoliano, Rubio Ruga,
Quinto Ligario, Marco Spurio, Sesto Nasone, Servilio Galba, Servio Sulpicio, Ponzio Aquila. Ma a Bruto e Cassio si aggregarono anche alcuni cesariani di vecchia data o perché scontenti delle prebende e dei ruoli loro assegnati o perché offuscati dalle glorie di Cesare. Questi furono: Gaio Trebonio, Minucio Basilo, Decimo Giunio Bruto (cugino dell’altro Bruto), Tillio Cimbro, Publio Servilio Casca. Degli ultimi tre: Decimo convinse Cesare a seguirlo nella Curia di Pompeo, Cimbro dette il segnale dell’esecuzione, Casca gli inferse alle spalle il primo colpo. Non molto lontano nel tempo tutti i congiurati morirono o suicidi o di morte violenta.
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per disprezzo dei suoi avversari politici, licenziò la coorte spagnola, addetta alla sacralità della sua persona.
Il sogno premonitore Il destino, scrive Plutarco, si può piú facilmente prevedere che evitare. I congiurati fissarono per le idi di marzo, nella seduta mattutina del Senato, l’assassinio del «tiranno». La vigilia delle idi Cesare cenò a casa di Emilio Lepido. C’erano Marco Antonio, Decimo Giunio Bruto, Lucio Cornelio Balbo. La sera era ventosa; poi scoppiò un temporale con lampi e tuoni. L’ira in cielo degli dèi fece scivolare il discorso dei commensali su quale morte fosse da preferire. Sdraiato a tavola, Cesare mangiava poco e firmava alcune lettere, come gli era abituale. Prima che qualcuno esprimesse un’opinione, dice a voce alta: «La morte rapida e improvvisa che non ti aspetti». Fu un presagio. Un altro l’ebbe al mattino del giorno fatidico: svegliandosi e gridando, Calpurnia gli raccontò di aver sognato che lo assassinavano. E ci furono altri: la vittima che il sacerdote trovò mancante di cuore, e ancora i responsi avversi degli indovini. Nella stessa mattina gli comunicarono che i cavalli che aveva lasciato al Rubicone e che, per suo ordine, erano liberi, rifiutavano di mangiare e piangevano. Lo turbarono quest’ultimo presagio e il sogno di Calpurnia. Lei non era superstiziosa; al contrario, ma quella mattina non smetteva di pregarlo perché non andasse in Senato e restasse a casa. Acconsentí a rimanere. Ad Antonio, che lo aspettava, disse di farsi portavoce della sua assenza in Senato. Aveva licenziato i portatori della lettiga quando lo colpí la battuta ad Antonio di Decimo Giunio Bruto, giunto in quel momento nell’atrio: «Io sono venuto alla domus publica per onorare e accompagnare Cesare e, però, a quanto pare (...) Dobbiamo aggiornarci per le sedute del Senato fino a quando Calpurnia abbia sogni fausti?». Fu quello il momento in cui la bilancia della fortuna rimase in bilico, offrendo a Cesare l’occasione che avrebbe potuto cambiare il
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L’orazione di Marco Antonio ai funerali di Cesare, olio su tela attribuito a Joseph-Désiré Court. Collezione privata.
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Particolare dei resti del tempio di Venere Genitrice, nel Foro di Cesare. A destra denario in argento con il profilo di Marco Antonio, battuto dal monetiere Barbatius Pollio. 41 a.C.
corso fatale della giornata. Lo perdette il suo orgoglio di Cesare. Decimo Giunio Bruto era passato ai congiurati ed era venuto apposta per trascinarlo, «vittima designata», davanti alla grande ara di espiazione che, nella circostanza, sarebbe stata in un’esedra del teatro di Pompeo. I congiurati non avrebbero avuto altra opportunità per ucciderlo.
Auspici di morte Le idi di marzo. Era giorno di festa e la riunione del Senato fissata all’ora quinta (le undici di mattina). Fuori del teatro la folla si assiepava per vedere Cesare, toccarlo, gridargli il suo entusiasmo, tanto che, uscito dalla lettiga, rischiò di essere travolto. Senatori e guardie urbane gli fecero argine perché potesse entrare nel quadriportico. Fra le colonne vide l’aruspice Spurinna. Si ricordò della predizione. «Le idi, Spurinna, sono arrivate» disse ritrovando la sua spavalda sicurezza. L’altro, pallido, triste in volto: «Ma non ancora passate, Cesare». Era consuetudine per i consoli pigliare gli auspici prima di entrare in Senato. Esaminate le viscere della vittima, il sacerdote riferí che gli auspici erano contrari, anzi predicevano morte. Cesare ne fu colpito. Molti senatori si erano già avviati ai banchi della Curia. «Non andare, Cesare» gli ingiunse il sacerdote, sollevando la palma della mano in atto di trattenerlo. Non lo ascoltò. «È necessario, si disse, che avvenga a Cesare quello a cui lo spinge la necessità dei fati».
Cercò nondimeno Antonio: lo vide a due passi di distanza. Gli altri lo premevano e, quando di nuovo volse gli occhi, Antonio era con Trebonio, che se lo trascinava per l’ambulacro della Curia. Entrò, allora, nell’emiciclo, mentre i senatori si alzavano in piedi, e andò a sedersi sulla sedia curule. Subito i congiurati, che erano piú di una ventina, lo attorniarono invadenti. Si mosse per primo Tillio Cimbro, prosternandoglisi, baciandogli la mano, la veste, supplicandolo per il ritorno del fratello dall’esilio. La recitazione, però, era fin troppo plateale; Cesare si infastidí e lo respinse e l’altro, allora, gli tirò giú la veste con ambo le mani (era il segnale), gridando: «A che tardate, amici?». Fu a quel grido strozzato che Cesare ebbe un lampo: la congiura! C’erano voci, gliel’avevano detto, anche i nomi, Bruto e Cassio, si era rifiutato di crederci. Ma ora, di colpo, li vide i loro occhi di odio, le loro mani omicide. Servilio Casca, che gli era alle spalle, lo colpí maldestramente sul collo. Con straordinaria rapidità Cesare riuscí a voltarsi e gli afferrò il polso, urlando: «Dannatissimo Casca, che fai?» Si era appena alzato dalla sedia curule, che i congiurati gli si buttarono addosso con feroce spietatezza, colpendolo all’impazzata. Avevano daghe o pugnali e lui niente per difendersi eccetto lo stilo strappato a Casca. Capí di non avere scampo. La temerarietà gli era sempre stata congeniale e d’istinto si slanciò contro quel turbinio bianco di toghe, gridando, correndo da un punto all’altro dell’emiciclo
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Marco Antonio in uno degli affreschi realizzati da Luigi Fioroni nella Camera Egizia del Casino Nobile di Villa Torlonia, a Roma. 1836 circa. Nella pagina accanto ritratto in marmo di Giulio Cesare. I sec. a.C. Vienna Kunsthistorisches Museum, Antikensammlungen.
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«Ma Bruto è uomo d’onore...»
«A
mici, romani, concittadini prestatemi orecchio; io son qui per seppellire Cesare, non per celebrarlo. Il male che l’uomo compie vive oltre la sua morte; il bene è spesso sotterrato con le sue ossa. Lo stesso sia per Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. E se cosí, fu una grave colpa, e Cesare l’ha espiata amaramente. E con licenza di Bruto e degli altri – poiché Bruto è uomo d’onore, tali son tutti, tutti uomini d’onore – son qui per tenere l’elogio funebre di Cesare. Egli fu mio amico, leale e giusto con me; ma Bruto dice che egli era ambizioso, e Bruto è uomo d’onore. Egli ha portato in patria, a Roma, molti prigionieri, e col prezzo del loro riscatto ha riempito le casse dello stato. Poteva ritenersi ambiziosa questa condotta di Cesare? Quando i poveri piangevano, anche Cesare versava lacrime; l’ambizione dovrebbe essere di sostanza ben piú scabra. Eppure, Bruto dice che egli era ambizioso, e Bruto è uomo d’onore. Avete tutti visto che il giorno dei Lupercali tre volte gli ho offerto la corona di re, e tre volte l’ha rifiutata. Era questa ambizione? Eppure, Bruto dice che egli era ambizioso, ed egli è sicuramente uomo d’onore. Non parlo per confutare quello che Bruto ha detto, ma io son qui per riferire ciò che so. Voi tutti una volta lo amavate, non senza ragione; quale motivo vi trattiene dunque dal piangerlo? Oh senno, tu sei riparato tra le belve brute, e gli uomini hanno perduto l’intelletto. Abbiate pazienza. Il mio cuore è lí nella bara con Cesare, e debbo fermarmi finché esso non ritorni. Solo ieri la parola di Cesare si sarebbe imposta al mondo intero; ora egli giace lí, e nessuno avverte l’umiltà di rendergli omaggio. Oh, amici! Se tentassi di istigare i vostri cuori e le vostre menti alla sedizione e allo sdegno, recherei oltraggio a Bruto, e oltraggio a Cassio, che, come è a voi tutti noto, sono uomini d’onore. Non intendo recar loro oltraggio; preferirei oltraggiare lo scomparso, oltraggiare me stesso e voi, piuttosto che oltraggiare siffatti uomini d’onore. Ma ecco una pergamena col sigillo di Cesare; l’ho trovata nel suo scrittoio; è il suo testamento. Se il popolo solo udisse le sue ultime volontà – che, perdonatemi, non intendo leggere – tutti si recherebbero a baciar le ferite sul corpo esanime di Cesare, e ad intingere i fazzoletti nel suo augusto sangue, sí, a implorare un suo capello per ricordo e, in punto di morte, farne menzione nel testamento, lasciandolo come preziosa eredità ai propri discendenti» (William Shakespeare, Giulio Cesare, Atto II, Scena II).
con loro gli assassini dietro, eccitati dal sangue, mentre tutti gli altri, i senatori sui banchi della Curia, impietriti, trattenevano il fiato, quasi assistessero a teatro alla rappresentazione di una tragedia. Giunse vicino alla statua di Pompeo. La polvere e il sole di Farsalo erano lontani. I congiurati gli erano intorno a semicerchio con lui al centro, addossato al piedistallo della statua. Sanguinava per tutto il corpo: Cassio l’aveva colpito al viso, Decimo Giunio Bruto alle spalle, altri al fianco, alla coscia, alle braccia, alla gola. Si erse nella persona, in attesa, quando gli venne incontro Marco Giunio Bruto con il pugnale spianato. Le parole «Anche tu, Bruto, figlio mio» le disse in greco. Poi con ferma dignità, si coprí il capo con la toga. Per morire da Cesare. Lo colpirono con ventitré pugnalate.
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MONOGRAFIE
n. 51 ottobre/novembre 2022 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore Furio Sampoli è stato scrittore e cultore di storia romana. Ha pubblicato numerosi saggi e romanzi storici ed è stato a lungo collaboratore della rivista «Archeo». Bibliografia Questa Monografia di «Archeo» si basa sulle testimonianze riportate, oltre che da Giulio Cesare medesimo (De bello gallico, De bello civili), dai seguenti autori: Svetonio (Le vite dei Cesari), Plutarco (Vite parallele), Velleio Patercolo (Le Storie), Dione Cassio (Storia romana), Cicerone (Filippiche, Pro Marcello), Floro (Epitome), Appiano (Storia romana). Illustrazioni e immagini Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: copertina e pp. 47, 88/89; Album/Prisma: pp. 8, 111; Erich Lessing/K&K Archive: pp. 36/37; Album/Kurnewal/Prisma: p. 39; AKG Images: pp. 66-67, 128; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 68/69, 124/125; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Paolo Manusardi: p. 88; Electa/Andrea Jemolo: pp. 120/121; Archivio Arnaldo Vescovo/Arnaldo Vescovo: p. 126; CM Dixon/Heritgae Images: p. 127 – Doc red.: pp. 6-7, 9, 10, 12-23, 25, 26-35, 36 (alto), 38, 40/41, 44/45, 48 (alto e centro), 49, 50-53, 54 (alto), 55 (alto), 56/57, 62-65, 71, 77, 78-81, 82, 84-87, 90-101, 104-105, 108/109, 112-119, 122, 129 – Altair4 Multimedia, Roma: pp. 10/11, 58, 102/103, 106/107, 120 – Shutterstock: pp. 24, 43, 58/59, 69, 70, 72-75, 76/77, 82/83, 103, 106 – Bridgeman Images: pp. 46 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 42/43, 48, 54, 55 e 60/61. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
In copertina: Morte di Giulio Cesare (particolare), olio su tela di Vincenzo Camuccini. 1793-1818. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
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