Archeo Monografie n. 52, Dicembre 2022/Gennaio 2023

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il primo imperatore

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AUGUSTO il primo imperatore di Furio Sampoli

6. Gli

esordi

I primi passi di un dominatore 22. La

scalata al potere

Tessere la tela

48. La

consacrazione

Un uomo solo al comando 78. Pubblico

e privato

Il lato oscuro della gloria 98. Apoteosi

ed epilogo

Verso il commiato


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GLI ESORDI

Particolare della statua equestre in bronzo di Augusto, rinvenuta nel 1979 nell’Egeo settentrionale. Fine del I sec. a.C. Atene, Museo Nazionale Archeologico. Nella pagina accanto sesterzio in bronzo di Augusto. 27-14 d.C. Nimega, Rijksmuseum G.M. Kam.

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PASSI DI UN DOMINATORE I PRIMI

DOPO L’ASSASSINIO DI SUO PADRE ADOTTIVO, GIULIO CESARE, ALLE IDI DI MARZO DEL 44 A.C., L’EREDE DESIGNATO OTTAVIANO DOVETTE SUBITO CALARSI NEL SUO RUOLO. AVEVA SOLO DICIOTTO ANNI MA NON SI LASCIÒ INTIMORIRE E COMINCIÒ A OPERARE PER DIVENIRE, IN POCHI ANNI, L’INCONTRASTATO SIGNORE DI ROMA

A

diciassette anni, Gaio Ottavio seguí Giulio Cesare in Spagna per l’ultima battaglia dell’imperator contro l’oligarchia repubblicana. Umiliati a Farsalo in Tessaglia, fatti a pezzi a Tapso in Africa, gli oligarchi e i seguaci di Gneo Pompeo (figlio di Pompeo Magno), addossandosi alle alture di Munda (località della Spagna meridionale, n.d.r.), ancora una volta si affidarono all’azzardo delle armi. Anno di Roma 708 (45 a.C.), 17 marzo, festa di Bacco. Si combatte dall’alba al tramonto. Lo stesso Cesare, sceso da cavallo, imbraccia lo scudo e si schiera in prima linea con i veterani della Decima. Ma, spezzato il fronte dei pompeiani, la battaglia si trasformò per loro in una immane carneficina. Le migliaia e migliaia di morti, accatastati gli uni sugli altri come fossero legna da ardere, rivelarono al giovane Ottavio il volto nudo della guerra civile. Feroce, spietata, senza pietà. Non lo avrebbe mai dimenticato. Era di natura freddo, lucido. A distanza di tre anni avrebbe ripetuto la lezione di vendetta politica in Macedonia, all’indomani di Filippi, e successivamente, in Italia, a Perugia, con piú cruda spietatezza dopo la resa degli antoniani. Rientrò dalla Spagna a ottobre dietro il carro di Cesare, che procedeva fra ghirlande, adulazioni, giuramenti di senatori e magistrati, nonché tra folle di

popolari in delirio, andati incontro al «dio invincibile» sull’Aurelia molte miglia prima di Roma. Al «dio invincibile» restavano, invece, meno di sei mesi. L’altra lezione di politica – che gli uomini uccidono o per paura o per invidia – gli sarebbe balzata agli occhi con l’assassinio proditorio di Cesare nella primavera dell’anno dopo (Idi di marzo 44 a.C.), colpevoli gli stessi senatori graziati dall’imperator e poi da lui riammessi alle magistrature repubblicane. Gaio Ottavio ebbe la notizia dell’assassinio ad Apollonia, in Epiro, dove erano acquartierate le legioni per l’imminente campagna contro i Parti. Aspettava Cesare e

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GLI ESORDI

l’avrebbe seguito in Asia, cosí come era stato con lui in Spagna contro i figli di Pompeo, Gneo e Sesto, e il «traditore» Tito Azio Labieno. Senza porre tempo in mezzo si imbarcò per l’Italia. A Brindisi venne a conoscenza del testamento del dittatore. Per l’adozione diveniva Caio Giulio Cesare Ottaviano.

L’erede designato non si tira indietro In linea di parentela gli era pronipote, essendo figlio di Azia, figlia a sua volta di Giulia, sorella di Cesare. A metà aprile era in Campania, vede la madre e il secondo marito di lei, Lucio Marcio Filippo, uomo consolare. Ambedue gli consigliano di rifiutare l’adozione e l’eredità: Roma è in subbuglio per il riacutizzarsi delle fazioni, il futuro è incerto, incombe l’ombra di una nuova guerra civile. Ma il giovane Ottavio li

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sorprende: accetta e l’adozione e l’eredità, anzi si dice impaziente di raggiungere Roma, presentarsi nel Foro e, pubblicamente, davanti al popolo e ai veterani del padre proclamarsi figlio di Cesare. Ha poco piú di diciotto anni, ma la fermezza, il piglio, l’intelligenza della «realtà effettuale delle cose» sono degne di un politico navigato. In Campania, oltre alla madre e al patrigno, vede Cornelio Balbo, banchiere, segretario del dittatore e, manco a dirlo, fervente cesariano. C’è, al momento, anche il pifferaio dei congiurati, Marco Tullio Cicerone. Un anno prima nell’orazione pro Marcello aveva salutato Cesare «pari solo agli dèi»; ma, ucciso il dittatore, con uguale sicumera e spudoratezza definiva le Idi di marzo il «giorno luminosissimo». Gaio Ottavio gli rende visita a Cuma. Nasce l’intrigo o meglio quella che si

Perugia. Una delle porte che si aprono nelle mura della città, nota come «arco di Augusto». II-I sec. a.C. Nella pagina accanto statua in marmo di Augusto con la toga. Parigi, Museo del Louvre. L’opera è in realtà frutto dell’inserimento di un ritratto dell’imperatore, verosimilmente eseguito fra il 30 e il 20 a.C., su una scultura piú antica.


potrebbe chiamare la piú abile, disastrosa seduzione politica. Seduttore il giovane Ottavio, sedotto il sessantaduenne Marco Tullio Cicerone, principe degli avvocati, consolare, con la propensione a essere arbitro e giudice inappellabile della repubblica.

Le illusioni di Cicerone Dapprima Cicerone tratta Ottavio con una qualche sufficienza; il giovane, che era abile nell’adulare, si fa umile, chiede consigli, si rimette per agire o prendere iniziative alle valutazioni del «grande consolare» sull’attuale situazione politica. Cicerone ne è lusingato. «Mi è devotissimo» scrive in una lettera ad Attico. E si butta scopertamente a proteggerlo. Crede di aver escogitato una grande trappola: spezzare il fronte cesariano, combattendo Marco Antonio attraverso Ottavio; liberatasi di Antonio, la repubblica avrebbe poi ingabbiato l’erede di Cesare. Ma Gaio Ottavio (poi Cesare Ottaviano) non era Antonio che, pur essendo console in carica, si era fatto giocare dal grande avvocato già il secondo giorno dopo le Idi con l’amnistia per i congiurati. Nella sua presunzione Cicerone non capí che era l’adolescente apollineo a servirsi di lui: gli occorreva un potere iniziale di appoggi politici

I GIULIO-CLAUDII: DA CESARE A NERONE C. GIULIO CESARE

46-44 A.C.

MARCO ANTONIO

GNEO DOMIZIO ENOBARBO

ANTONIA MAGGIORE

GNEO DOMIZIO AGRIPPINA ENOBARBO MINORE NERONE

54-68 D.C.

OTTAVIA

ANTONIA MINORE

GIULIA AZIA

SCRIBONIA

C. OTTAVIANO AUGUSTO

27 A.C.-14 D.C.

LIVIA DRUSILLA

AGRIPPA GIULIA

TIBERIO

14-37 D.C.

G. CESARE L. CESARE GIULILLA AGRIPPINA AGRIPPA MAGGIORE POSTUMO

NERONE

DRUSO

DRUSILLA

TIBERIO CLAUDIO NERONE

DRUSO

ANTONIA MINORE

GERMANICO LIVILLA CLAUDIO

41-54 D.C.

CALIGOLA

37-41 D.C.

AGRIPPINA MINORE

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GLI ESORDI

che non aveva e che gli erano indispensabili per intrigare sia nell’ambito della «concordia civile», sia nella fazione cesariana. Gaio Ottavio arriva a Roma nel momento strategicamente piú opportuno: non c’è Marco Antonio. Si guadagna subito la simpatia, l’affetto, e il plauso popolare, dichiarando in pubblico di accettare l’adozione e insieme di tener fede ai lasciti testamentari del padre in favore del popolo. L’atto di adozione comportava una procedura rituale: doveva essere sancito dai comizi curiati. Inaspettatamente, gli si oppone Lucio Antonio,

tribuno della plebe. Fu il primo scontro con i fratelli Antoni: erano tre, Marco console, Gaio pretore, Lucio tribuno della plebe. La maggior parte del popolo e i vecchi veterani si schierano con Gaio Ottavio. Di lui piacevano la giovinezza, quella risoluta disinvoltura e una consapevole temerarietà che lo indicavano degno erede di Cesare. Tornato a maggio, Marco Antonio non prese in troppa considerazione il giovane rivale. Di statura gli arrivava poco oltre l’altezza delle spalle, esile, biondiccio, perfettamente proporzionato, il viso di una bellezza apollinea, ma gli occhi, chiari, a volte sembravano lame di

Una veduta del Foro Romano, teatro dei drammatici avvenimenti delle guerre civili di Cesare e Ottaviano Augusto.


coltelli, altre animati, come dice Svetonio, «da una sorta di vigore divino». Ebbero un colloquio. Dinanzi al console e conclamato leader dei cesariani il giovane Ottavio non mostrò neppure un attimo di soggezione: pretese non solo l’eredità che gli spettava (e di cui Antonio si era appropriato), ma anche il denaro contante necessario per pagare al popolo i legati di Cesare.

Nel mese di assenza da Roma Marco Antonio era stato a Brindisi a ricevere le legioni richiamate dall’Epiro. Aveva bisogno di un esercito per insediarsi, magari con la forza,


GLI ESORDI

nella Cisalpina, che nella spartizione delle province era toccata a Decimo Giunio Bruto, uno dei capi, con il cugino Marco Bruto, della congiura. Allora il console, cui era invece toccata la Macedonia, dall’assemblea popolare e con procedura d’urgenza si era fatto assegnare la Cisalpina in cambio della Macedonia. Sobillato da Cicerone, il Senato si spaventò: di sicuro Marco Antonio alla Cisalpina contava di aggiungere la Gallia Comata, dove già stazionavano eserciti e generali antoniani: Ventidio, Planco, Asinio Pollione; insomma, avrebbe ricostituito l’area di potere avuta da Cesare prima del passaggio del Rubicone. I moderati, che al console rimproveravano la rottura del precario equilibrio faticosamente raggiunto fra cesariani e anticesariani alla fine di marzo, si misero in allarme.

Le pretese dei legionari Guai, a ogni modo, Marco Antonio li trovò anche a Brindisi: le legioni dell’Epiro, giunte in Italia, chiedevano premi speciali. Dai sogni di conquista, di bottino, sapendo di seguire Cesare in Oriente, piombavano ora nel grigiore delle lotte intestine. Marco Antonio cercò di placarle con promesse, ma non aveva soldi, almeno non abbastanza. Si ammutinarono e Marco Antonio, punto sul vivo del suo orgoglio di comandante, ordinò la decimazione. A Brindisi aveva portato con sé la moglie, Fulvia, che pare non fosse estranea al rigore punitivo e presenziasse addirittura alla decapitazione dei colpevoli (tanto da avere, dice Cicerone, la veste imbrattata di sangue). Ma il retroscena, certo determinante, fu la presenza fra i legionari di agenti del giovane Ottavio, suadenti e abili come sirene nell’adescarli. Durante il soggiorno ad Apollonia egli girava per gli accampamenti, li conosceva, con lui c’erano anche il suo coetaneo Marco Vipsanio Agrippa (sarà in seguito il genio militare dell’impero, oltre che l’artefice del primato di Ottaviano) e Quinto Salvidieno Rufo. I quali, già subito dopo la morte di Cesare, avevano prospettato a Gaio Ottavio di mettersi

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Bronzetto raffigurante un portatore di insegna, con aquila. I sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto, in alto i movimenti delle fazioni coinvolte nella guerra di Modena, scoppiata dopo l’assassinio di Giulio Cesare e che, tra il 44 e il 43 a.C. vide opporsi i seguaci di Marco Antonio e quelli di Ottaviano. Con il secondo si schierarono Decimo Giunio Bruto e Gaio Vibio Pansa.


Mutina (Modena) (occupata da Decimo Bruto) Forum Gallorum (Castelfranco Emilia)

(fine aprile 43 a.C.) accampamenti di Lepido e Planco

(aprile 43 a.C.)

Decimo Bruto

Arretium (Arezzo)

Pansa

(fine novembre 44 a.C.)

(aprile 43 a.C.)

(inizio dicembre 44 a.C.) (estate 43 a.C.)

Roma

Marco Antonio

(metà novembre 44 a.C.)

(inizio novembre 44 a.C.)

Ottaviano

alla testa delle legioni cesariane contro la setta dei congiurati. Lucido, riflessivo, perfetto calcolatore, lui aveva ritenuto non propizio, anzi avventato, il momento politico. Ma non aveva rinunciato al contatto costante con le legioni. La situazione, del resto, era incerta e stava rapidamente capovolgendosi. Intanto Caio Giulio Cesare Ottaviano, avuta coram populo la convalida dell’adozione, faceva pratica di demagogia. Vende il resto dei beni di Cesare, nonché i propri, e con il ricavato paga scrupolosamente i lasciti testamentari del padre. Poi ai Ludi Victoriae Caesaris e a quelli di Venus Victrix (a Roma si tenevano dal 20 al 30 luglio) infiamma popolo e veterani esponendo i trofei del «dio invincibile». L’entusiasmo dilaga contagioso e avvolge Roma. Interviene il console, la folla si indispettisce. Marco Antonio ha sbagliato

Brundisium (Brindisi)

tempi e circostanza: un cambiamento improvviso di vento mette la barra delle simpatie popolari, in particolare dei veterani, nella direzione dell’erede di Cesare.

Un segno del destino

Aquila romana in bronzo. II-III sec. d.C. Saint.-Germain-enLaye, Musée d’Archéologie nationale.

Ma ci fu anche un episodio che segnò la fortuna di Ottaviano – e l’avrebbe poi accompagnato negli anni, specie nei confronti di Antonio. All’ora ottava (le due del pomeriggio), mentre nel Foro perduravano i divieti di Antonio, ecco che, in una schiarita del cielo, a settentrione appare una cometa. Esultando, gridando, la folla subito la identifica nello spirito di Cesare. L’evento, piú o meno insolito, o straordinario, equivaleva alla consacrazione definitiva di Ottaviano? Con tempestività lui si impadronisce del segno celeste, lo crede indice del proprio destino, in

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GLI ESORDI

NEL SOLCO DI CESARE, FINO ALL’IMPERO 80 a.C.

T olomeo XII Neo Dioniso Aulete, padre di Cleopatra VII, ascende al trono d’Egitto.

74 a.C. Il regno di Bitinia diviene provincia romana. 69 a.C.

Nasce Cleopatra VII, forse ad Alessandria.

63 a.C. (23 settembre)

asce Ottaviano (Gaio Ottavio) a Roma, N sul Palatino.

67 a.C.

reta e la Cirenaica divengono provincia C romana.

60 a.C. «Primo Triumvirato», costituito in seguito all’accordo tra Cesare, Pompeo e Crasso. 58 a.C. Cipro è provincia romana. 51 a.C. Muore Tolomeo XII. Cleopatra VII Thea Filopatore a diciotto anni è regina d’Egitto, ed è investita del potere insieme al fratello e sposo Tolomeo XIII, di dieci anni. 49 a.C. Il 10 gennaio Cesare passa il Rubicone. Nello stesso anno assume i poteri della dittatura speciale. 48 a.C. Battaglia di Farsalo: Cesare sconfigge Pompeo che, dopo essere fuggito in Egitto, viene fatto uccidere da Tolomeo XIII. Incontro tra Cesare e Cleopatra. 48-47 a.C. Ad Alessandria, Tolomeo XIII muore in seguito allo scontro con le forze di Cesare. Il trono d’Egitto appartiene ora alla sola Cleopatra.

qualche modo ne suggestiona la folla e, puntualmente, nel tempio di Venere Genitrice fa porre una statua di Cesare con la stella sul capo. Come adolescente (era nato il 22 settembre del 63 a.C.), dimostrava un infallibile senso della realtà e una ambizione implacabile. La mossa seguente fu la piú avventurosa. Con Marco Vipsanio Agrippa e un cavaliere etrusco, Caio Mecenate, vola in Campania, nelle colonie giuliane di Calazia e Casilino, distribuisce generosamente denari fra i

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47 a.C. Nel giugno, nasce Tolomeo XV Cesare, detto Cesarione, figlio di Cleopatra e Cesare. Prima carica pubblica per Ottaviano: è nominato prefetto urbano grazie all’appoggio di Cesare. 46-44 a.C. Soggiorno a Roma di Cleopatra e del figlio Cesarione. 44 a.C. Il 15 marzo Cesare viene assassinato. Secondo le disposizioni testamentarie, Ottaviano è adottato da Cesare e viene nominato suo erede. 43 a.C. Ottaviano sposa Claudia, figliastra di Antonio.Secondo triumvirato, costituito in base all’accordo tra Marco Antonio, Ottaviano e Lepido. In luglio Ottaviano marcia su Roma e ottiene il suo primo consolato. 42 a.C. Giulio Cesare è divus. Nella battaglia di Filippi (3 e 23 ottobre) Ottaviano e Antonio sconfiggono i Cesaricidi (Bruto e Cassio). Il 16 novembre nasce Tiberio, figlio di T. Claudius Nero e Livia. Marco Antonio e Cleopatra si incontrano ad Alessandria. 41 a.C. Ottaviano ripudia Claudia. 40 a.C. Nel tentativo di mantenere saldi i rapporti con Ottaviano, Marco Antonio ne sposa la sorella, Ottavia. Ottaviano sposa Scribonia. In settembre con il Trattato di Brindisi ad Antonio vengono assegnate le province dell’Oriente romano; a Ottaviano quelle d’Occidente; a Lepido l’Africa e la Numidia.


39 a.C. Nasce Giulia, figlia di Ottaviano e Scribonia. Ottaviano ripudia Scribonia.

23 a.C. Augusto ottiene l’imperium proconsolare maius per cinque anni.

38 a.C.

16 a.C. Augusto adotta i nipoti, Gaio e Lucio, con il titolo di Cesari.

Ottaviano sposa Livia.

37 a.C. Antonio sposa Cleopatra ad Antiochia. Ottaviano assume il titolo di Imperator Caesar.

13 a.C.

Primo consolato di Tiberio.

12 a.C. Il 6 marzo Augusto è pontefice massimo. 36 a.C. Al trono d’Egitto siedono Cleopatra VII e Cesarione. 33 a.C. Marco Antonio ripudia Ottavia ad Atene. Secondo consolato di Ottaviano. 31 a.C. Terzo consolato di Ottaviano. Il senato romano dichiara guerra all’Egitto. Il 2 settembre, grazie al valido appoggio di Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano sconfigge la flotta di Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio. 30 a.C. Quarto consolato di Ottaviano. Ottaviano occupa Alessandria. Antonio e Cleopatra si uccidono e Cesarione viene giustiziato. L’Egitto diventa provincia romana, sotto il dominio diretto di Ottaviano, al quale viene conferita la tribunicia potestas a vita. 27 a.C.

ettimo consolato di Ottaviano. Il 13 gennaio S Ottaviano rende al senato i propri poteri magistratuali, per poi ricevere ufficialmente, tre giorni piú tardi, il titolo di Augustus e l’imperium provinciale per la durata di dieci anni, con il nome di imperator Caesar Augustus.

Nella pagina accanto aureo di Augusto coniato dopo la vittoria su Cleopatra VII. 27 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Al dritto, l’imperatore; al verso, un coccodrillo e la scritta Aegypt Capta (Egitto conquistato).

9 a.C. Il mese Sextilis del calendario giuliano è ora Augustus. 7 a.C. Roma viene divisa in 14 regiones amministrative, ripartite in 265 vici. 2 a.C.

Augusto è pater patriae.

3 d.C. La carica di proconsole viene rinnovata ad Augusto per dieci anni. 4 Augusto adotta Tiberio e Agrippa postumo (figlio di Giulia e Agrippa). 9 Battaglia della foresta di Teutoburgo: (9-11 settembre) Arminio infligge alle legioni di Varo una terribile sconfitta. 13

ugusto è confermato nell’esercizio A dell’imperium proconsolare per altri dieci anni. La tribunicia potestas viene assegnata a Tiberio per dieci anni.

14 Augusto scrive le Res Gestae. Il 19 agosto muore a Nola. Gli succede Tiberio. Il 17 settembre Augusto è proclamato divus dal senato.

veterani, ricorda loro le vecchie glorie, poi li trascina con sé alla volta di Roma. Un atto rivoluzionario, per di piú di un privato, da hostis, nemico, per le leggi romane reo di morte. «All’età di diciannove anni – cosí iniziano le sue Res Gestae – raccolsi di mia iniziativa, e a mie spese, un esercito con il quale ridetti libertà allo Stato, sopraffatto dal dominio di una fazione».

Fra realtà storica e autocelebrazione È la versione di un Augusto settantaseienne che, pochi mesi prima della morte, detta le Res

Gestae per la storia e i posteri. La raffinata capacità di stravolgere i fatti, insieme riducendoli a verità piú o meno omologate, era divenuta, nell’arco di oltre cinquant’anni, l’impronta simbolo del suo imperio e della sua politica. Anzi la politica, una verità concordata e adeguata ai tempi e alle situazioni. Ma della marcia su Roma dell’ottobre-novembre 44 a.C. un contemporaneo aveva all’epoca sciorinato fra i banchi della Curia una versione a dir poco stupefacente: «Grazie al suo senno e al suo coraggio incredibili e veramente sovrumani,

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GLI ESORDI

Sepolcro romano noto come «tomba di Cicerone», a Formia. I sec. a.C. Il senatore fu ucciso il 7 dicembre del 43 a.C. nei dintorni di Formia dai sicari inviati da Antonio.

senza che noi senatori lo sollecitassimo, lo pensassimo e nemmeno lo sperassimo, poiché era evidente che si trattava di cosa impossibile, mise insieme con i soldati delle invitte armate veterane un fortissimo esercito dando fondo al suo patrimonio: no, il vocabolo non è quello adatto, se è vero che al suo patrimonio non ha dato fondo, ma ha investito sulla salvezza dello Stato». Il contemporaneo, manco a dirlo, era Cicerone. Questo «fortissimo esercito» assommava appena a tremila uomini, ma aveva forse molta importanza? Cicerone puntava spudoratamente allo scontro

diretto, alla rovina dei cesariani. Lui, che salvava la repubblica a ogni pié sospinto e impartiva lezioni di costituzionalità, rompeva ora gli indugi della prudenza e dava l’avvio ai «ludi oratori» con la girandola delle Filippiche (quattordici in tutto) – che sono l’apice della sua straordinaria eloquenza, versatilità, improvvisazione letteraria, cosí come della sua abilità nel montare un «caso politico», creando ad hoc la figura di «un pazzo criminale (Antonio), il piú nefasto degli uomini, molto piú nefasto persino di colui che era stato ucciso» nella giornata delle Idi –, e contemporaneamente invitava un privato «a capo di bande armate» a entrare in città, sicuro che «tutta la plebe e anche i benpensanti lo avrebbero accolto favorevolmente». Ottaviano, dunque, entrò in città con l’esercito dei veterani e parlò al popolo nel Foro e in Campo Marzio. Per pagarli era ricorso ai suoi amici (Mecenate, il patrigno Marcio Filippo), ma anche a tutti quelli che erano stati amici del dittatore, banchieri, usurai, appaltatori, in testa ai quali c’era Lucio Cornelio Balbo.

La guerra di Modena Il figlio adottivo di Cesare non aveva il genio militare del padre o di un Alessandro (e gli anni a venire ne daranno conferma), ma sí bene quello politico della dissimulazione e l’azzardo della fortuna: gli avrebbero consentito di avere un imperio a metà per oltre dodici anni, poi totale e assoluto per quarantaquattro. Quel suo atto rivoluzionario, seppure sorretto dai denari di Lucio Cornelio Balbo, dalla munificenza di Mecenate, dall’audace, accorta lungimiranza dello stesso Ottaviano, ebbe comunque ripercussioni piú o meno immediate. Meno di venti giorni piú tardi, due delle quattro legioni, sbarcate a Brindisi (la Quarta e la «Marzia»), abbandonarono Antonio e mandarono lettere a Caio Giulio Cesare Ottaviano. In dicembre la situazione degenerò verso la guerra civile. A precipitarla lui, Cicerone, solerte patrocinatore della salus reipublicae. In condizioni di eccezionale gravità politica – tuonava dai banchi della Curia –, la

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giustificazione morale poteva e doveva sovrapporsi alla legalità istituzionale. Anche scatenando un’altra guerra civile. Cosí, sotto la sferza oratoria di Cicerone, un Senato vile, spergiuro, che, a seconda della temperie politica, cambiava colore e opinione, invalida l’imperium maius del console (un «pazzo criminale»), definisce per contro Ottaviano privatus cum imperio e gli riconosce l’esercito dei veterani. Ottaviano si rendeva conto che proprio gli ultimi provvedimenti a suo favore lo ponevano decisamente contro Marco Antonio e in difesa di Decimo Bruto. Detestava Antonio per l’arroganza, per quel suo desiderio di strapotere, ma odiava Decimo Bruto visceralmente, come il piú infame dei congiurati. D’altronde, non vedeva possibilità di combatterli tutti e due allo stesso tempo, né aveva forze sufficienti per vincerli separatamente; e comunque, se mai avesse cercato di combatterli, rischiava di gettarli l’uno nelle braccia dell’altro. Decise di assecondare gli eventi, considerando che la campagna di odio contro Antonio era già in atto e per di piú con un Senato che si proclamava il piú ostinato promotore della guerra. Con l’anno nuovo (43 a.C.) entravano in carica due nuovi consoli, ambedue cesariani, Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa, ed entrambi dirottati con Ottaviano a Modena, dove Decimo Bruto stava per cedere ai colpi di Antonio. Vincitore in una prima battaglia, Antonio è sopraffatto nella seconda e poi costretto alla fuga dagli eserciti di Ottaviano e dei consoli, che muoiono sul campo. Del comportamento di Ottaviano, Svetonio riferisce che nella prima battaglia fuggí e ricomparve solo dopo due giorni, senza mantello, né cavallo; nella seconda, al contrario, non solo assolse il suo compito di generale, ma anche di soldato: caduto il portainsegne, si caricò dell’aquila e fu di esempio ai soldati nel momento cruciale della battaglia. Aggiunge inoltre che non pochi gli imputavano le morti dei due consoli, Irzio e Pansa.

Ritratto in marmo di Marco Tullio Cicerone. Metà del I sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.

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GLI ESORDI

Testa maschile identificata con un ritratto di Marco Antonio (o Catone il Censore), dall’area del Comizio, nel Foro Romano. 80-70 a.C. Roma, Centrale Montemartini.

Cosí, dunque, vince la guerra di Modena da lui voluta contro Antonio. In assenza di consoli, la repubblica è nelle sue mani. Lo portano in trionfo al Campidoglio (21 aprile 43 a.C.). Nullum par elogium. I cesariani si sono massacrati fra loro in una crudele lotta fratricida. Contemporaneamente in Macedonia e poi in Asia, Bruto e Cassio con il mandato di proconsoli (elargito loro, prono il Senato, dal principe degli avvocati) radunano eserciti e arraffano tributi. E ora Ottaviano è chiamato addirittura a inseguire Antonio perché non raggiunga nella Gallia Comata gli altri generali cesariani: Lepido, Planco, Asinio Pollione. Nonostante l’età non gli mancavano – lo si è già detto – né il coraggio, né l’intuizione o il cinismo della politica. A determinare il rovesciamento di rotta non erano soltanto i

successi, allarmanti per la loro rapidità, di Bruto e di Cassio, ma l’aculeo del dubbio o peggio la certezza di aver combattuto, complice Cicerone, per i cesaricidi. Libera allora i prigionieri di Antonio, poi convoca i soldati: «Non avrete, dice loro, quanto vi spetta di diritto, finché la repubblica sarà in mano a chi plaude agli assassini di mio padre». E poiché, nel frattempo, l’esercito di Decimo Bruto si è disfatto, aggrega sotto i suoi vessilli molti legionari del cesaricida. Poi nella suggestione del ricordo del padre adottivo passa il Rubicone e marcia su Roma alla testa di otto legioni.

Acclamato dal popolo All’annuncio il Senato rischia di affogare nella gora di pentimenti, paure, recriminazioni reciproche. Gioca perfino la carta del ricatto, cercando di far prigioniere la madre e la sorella di Ottaviano. Non le trova, sono fuggite.

Marco Antonio, il nemico di Cicerone

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arco Antonio apparteneva alla jeunesse dorée dell’ultimo secolo della repubblica. Il vecchio ordine scricchiolava e i giovani lupi, che si affacciavano alla ribalta politica di una Roma intrisa di corruzione e di lotte sociali, erano avidi, belli, spregiudicati. Marco Antonio era nato nell’82 a.C., madre una Giulia, padre un mediocre generale, detto il Cretico per la guerra contro i pirati dell’isola di Creta. Rimasto orfano a nove anni, crebbe sotto l’ala protettiva del patrigno Publio Cornelio Sura, ex console, pretore e strangolato «illegalmente» nel carcere Tulliano per ordine di Cicerone durante la congiura di Catilina. Fu l’inizio dell’odio fra Antonio e il principe del Foro «Sotutto». Antonio fu comandante della cavalleria nell’esercito di Gabinio in Egitto (55 a.C.), dove vide per la prima volta Cleopatra allora quattordicenne. Poi andò in Gallia con Cesare. Valoroso, intrepido, ottimo comandante di settore ad

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A metà luglio Ottaviano con una scorta armata si presenta davanti alla porta Collina: il popolo gli corre incontro applaudendo. Ma finanche le tre legioni che il Senato teneva in serbo entro le mura a difesa della città, portano le loro insegne al campo dell’erede di Cesare. È la resa. Il vecchio consolare, avvezzo a ogni manipolazione politica, deve aver distolto gli occhi dalla pozza delle sue umiliazioni. Dai toni magniloquenti della sua retorica celebrativa per l’aprile «vittorioso» erano trascorsi appena tre mesi. «Questo giovane che non ha uguali e il cui naturale coraggio è meraviglioso» (le parole erano in una sua lettera ad Attico) gli chiedeva ora, senza alcuna remora, il consolato. E il 19 agosto, a elezione avvenuta, avendo come collega Quinto Pedio, nipote di Cesare, il non ancora ventenne Caio Giulio Cesare Ottaviano rientrava a Roma dalla porta Collina, ma da console. In fuga da

Alesia (52 a.C.), infine tribuno della plebe (49 a.C.) e, per Cicerone, causa della guerra civile. Trasbordò avventurosamente il resto dell’esercito di Cesare da Brindisi all’Epiro, e a Farsalo comandava l’ala sinistra dello schieramento cesariano. Mentre il «dio invincibile» rischiava ad Alessandria vita e prestigio per il letto di Cleopatra, Antonio rientrava in Italia quale unico alter ego con i veterani di Farsalo. A Brindisi trova Cicerone che, disertato il campo pompeiano, ustola un salvacondotto per Roma. Antonio tergiversa, volutamente, poi glielo nega dicendo che spettava soltanto a Cesare «concedergli il perdono». Ai vecchi odi si aggiunge per Cicerone l’umiliazione: aspetterà Cesare a Brindisi per oltre un anno. Dopo le Idi di marzo si apre il capitolo della guerra che si potrebbe definire, a ragion veduta, «personale» (vedi la guerra di Modena) fra Antonio e Cicerone. Il resto è storia narrata con riferimenti abbastanza

Modena, Marco Antonio era stato acclamato dalle truppe di Emilio Lepido non appena la sua figura, alta, atletica, si era stagliata sulla porta Pretoria dell’accampamento. Volente o nolente, Lepido accettò la volontà dei legionari. Poi, come di rito, abbracci, giuramenti dall’una e dall’altra parte. In Gallia si uní loro Planco, che pure per lettera aveva trescato con Cicerone (quest’ultimo gli aveva promesso il consolato). Quanto ad Asinio Pollione, era troppo fedele alla memoria di Cesare e all’amicizia di Antonio per rimanere in disparte. Cosí i vecchi cesariani dalla Gallia, Ottaviano da Roma – ora che era chiaro il vero nemico da battere: gli assassini di Cesare –, si incontrarono a metà strada (novembre 43 a.C.). Luogo del convegno una striscia di terra formata dall’ansa del fiume Reno, non lontano da Bologna. Protagonisti: Antonio,

puntuali nel testo. Un discorso a parte, invece, meriterebbe il comportamento non lineare di Antonio, e nella giornata delle Idi, e in quelle immediatamente seguenti. Innanzi tutto, sull’Isola Tiberina c’era una coorte pretoria di legionari, fedelissimi di Cesare: perché Antonio, console, non se ne serví? Ebbe paura? Fu l’imprevisto a causare in lui uno stato incredibile di smarrimento? Lepido, Cornelio Balbo e gli altri cesariani volevano la vendetta e assalire i cesaricidi in Campidoglio; Antonio scelse la riappacificazione. E ancora: durante i funerali di Cesare Antonio eccitò sí gli animi dei veterani, ma allo stesso modo li deluse per non avere una direttiva di azione contro gli assassini del loro imperator. Insomma, la grande ombra di Cesare non offuscava soltanto gli occhi di Bruto e di Cassio. E il popolo, confusamente, inconsciamente, lo intuí, tanto che, arrivato a Roma il giovane Ottaviano, passò dalla sua parte.

Tre denari di Marco Emilio Lepido. I sec. a.C. Mostrano, dall’alto, una facciata di tempio, il triumviro che incorona Tolomeo V Epifane e la figura equestre di Lepido con armatura ed elmo. Marco Emilio Lepido fu il terzo uomo del triumvirato, il patto stretto con Ottaviano e Marco Antonio per impadronirsi del potere a Roma, dividersi le province e portare guerra ai cesaricidi Bruto e Cassio.

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GLI ESORDI

Lepido, Ottaviano. Vi rimasero tre giorni. Stabilirono di creare un secondo triumvirato dopo quello di ventidue anni prima di Cesare, Pompeo e Crasso. Si divisero anche i compiti o meglio si spartirono le aree di potere: Africa, Sardegna, Sicilia a Ottaviano; Spagna e Gallia Narbonense a Lepido; le Gallie, Cisalpina e Comata, ad Antonio. Negli intervalli della spartizione di compiti e di territori accadde che ci scappasse anche un matrimonio, voluto principalmente dai vecchi legionari cesariani dei due maggiori contendenti, Antonio e Ottaviano, affinché il patto triumvirale – oltre che da convenienze e ragioni di parte – fosse sancito da vincoli familiari. La figliastra di Antonio, Claudia (nata da Fulvia e da Publio Claudio Pulcro), andava sposa al giovane Ottaviano. In pratica non si rispettava che la tradizione giuliana dei matrimoni politici.

Il tempo delle vendette E pieno accordo i triumviri lo trovarono nelle vendette da eseguire. Odi di parte, invidie, vecchi rancori personali, rapacità inconfessate si mischiarono con il bisogno impellente di denaro per la guerra contro i cesaricidi, ma anche la giusta punizione di misfatti si intrise con l’antica, feroce, inestinguibile libidine di sangue. All’indomani delle sue vittorie Cesare aveva preferito la magnitudo animi alla vendetta politica; in contropartita gli stessi senatori, che a lui dovevano la vita e le magistrature, lo trucidarono – vittima sacrificale alla loro rabbia di vinti – nel mattatoio della Curia di Pompeo. Meglio allora riportare alla ribalta le gelide proscrizioni di Silla, che nella Curia aveva sentenziato: «Solo i morti non si vendicano». Fra i proscritti, voluti da Antonio, Cicerone. Fuggendo, aveva vagato dall’una all’altra delle sue ville. Raggiunto, fu un centurione a tagliargli la testa (7 dicembre 43 a.C.); ma il tribuno che comandava la scorta era Popilio. Anni addietro Cicerone l’aveva difeso in tribunale in una causa di parricidio e fatto assolvere. I giudizi degli storici sulle proscrizioni sono stati

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piú o meno unanimi: «sfrenati baccanali di morte», «attuazione efferata della volontà dei triumviri», «spettacolo bestiale di carneficine», ecc. Certo è che non si risparmiarono amicizie e affetti familiari: mariti denunciati dalle mogli, padri dai figli. Avidità e rabbia, furia di rivalsa per umiliazioni e paure sopportate. E vendette familiari anche fra i triumviri: Marco Emilio Lepido mandò a morte il fratello Paolo, Antonio lo zio Lucio Giulio Cesare, fratello della madre. Quanto a Ottaviano, Svetonio dice che «iniziate le proscrizioni, le condusse piú ferocemente degli altri due». Ma finiti i «baccanali di sangue» dovettero pensare alla guerra contro Bruto e Cassio, divenuti padroni dell’Asia e in parte, controllando i mari dall’Adriatico all’Egeo, anche del sud-est europeo. La guerra richiedeva montagne di denari, invece non ce n’erano nelle casse dell’erario per pagare premi alle legioni, equipaggiare una flotta, sostenere una campagna militare che poteva essere lunga e dall’esito non scontato. Fino all’anno precedente il maggior gettito dei tributi affluiva a Roma dalle province e dagli Stati dipendenti d’Oriente, ma ora sia le province che gli Stati dipendenti erano interamente sotto il controllo dei cesaricidi. Anzi Cassio, avidissimo com’era, aveva depredato le une e gli altri peggio del piú rapace degli esattori, tanto che le due volte che in Asia, a Smirne e a Sardi, aveva incontrato Bruto, le loro discussioni sull’argomento erano state violente, fin al limite della rottura. Non bastasse questo, Sesto Pompeo con una flotta veloce, numerosa, piratesca imperversava dai porti della Spagna alla Sicilia, alla Sardegna. Per i triumviri, insomma, stretti dalla necessità di reperire denari (Cesare aveva ammonito che con un esercito si potevano avere tutte le ricchezze possibili, ma non si aveva un esercito senza ricchezze), fu giocoforza ricorrere a contribuzioni straordinarie, a prestiti forzati, alla spoliazione dei templi, persino al prelievo di tesori privati in deposito nella casa delle Vestali. Antonio e Ottaviano (Lepido era rimasto a Roma a presidio dell’Italia) traghettarono l’esercito da Brindisi a Durazzo avventurosamente, sfidando la fortuna, giacché

Il Foro romano di Filippi, in Grecia, nelle cui vicinanze si svolse la battaglia finale di Ottaviano e Antonio contro gli uccisori di Cesare, nel 42 a.C.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

il tratto di mare dell’Adriatico era dominio di Lucio Stazio Murco, passato a Cassio e da lui messo a capo della flotta «repubblicana». Raggiunsero Filippi da settentrione e si accamparono in pianura a fronte di Bruto e di Cassio. Esperto di guerra, Antonio giudicò la posizione dei cesariani in evidente svantaggio: gli altri occupavano le colline a occidente della città, era ottobre e la pianura con le piogge si poteva ridurre a una palude. «L’avarizia del tempo – disse al giovane Ottaviano – è forse il nostro nemico piú insidioso e imprevedibile». Ma gli venne in aiuto Bruto. Era impaziente di combattere. Non voleva, né poteva mancare all’appuntamento che il fantasma di Cesare – apparsogli di notte prima di attraversare l’Ellesponto – gli aveva dato a Filippi.

Un attacco travolgente La mattina del 4 ottobre le forze in campo si equivalevano. Bruto si schierò sulla destra e attaccò Ottaviano con tale impeto che ne travolse le linee, gli steccati e si impadroní dell’accampamento. Ottaviano, febbricitante, aveva lasciato la tenda un attimo prima che vi irrompessero, con le spade sguainate, i soldati del cesaricida. La battaglia, a ogni modo, ebbe due volti distinti: sulla destra Bruto rimase

vincitore di Ottaviano, sulla sinistra Antonio annientò e inseguí Cassio che, altezzoso, incapace di sopportare la sconfitta («Perché indugi? Non vuoi liberarti dalla vergogna?»), si fece trafiggere da uno schiavo. Diciannove giorni dopo la seconda battaglia. Ancora una volta Bruto è il primo ad attaccare sulla destra, ma quando si allarga per avvolgere Ottaviano, ormai in difficoltà, ecco che Marco Antonio con perfetta scelta di tempo si butta sul centro dello schieramento e lo spezza in due tronconi. Da quel momento la battaglia non ebbe piú storia. Fughe, stragi, viltà, efferatezze e atti di inutile eroismo. L’esercito di Bruto, come un animale con la schiena rotta, si contorceva nella polvere fra gli spasimi dell’agonia. La gloria di Filippi era tutta di Antonio. Per contro il giovane Cesare ne uscí umiliato e incarognito, tanto che i prigionieri «piú nobili», mandati da lui a morte con feroce impassibilità, salutarono Antonio imperatore mentre insultarono Ottaviano con gli epiteti piú infamanti. Vero è che, dimenticati gli anni, nel testamento delle sue Res Gestae fece scrivere: «Coloro che uccisero mio padre li cacciai in esilio, punendo il loro crimine con sentenze legittime e, quando mossero guerra alla repubblica, io li sconfissi due volte».

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Il teatro greco sull’acropoli di Pergamo (Turchia). II sec. a.C. Nella spartizione delle province tra i triumviri, ad Antonio vennero attribuite anche le province orientali, prima occupate da Bruto e Cassio.

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TESSERE LA TELA CON ACUME E LUNGIMIRANZA, OTTAVIANO ACCETTA DI CONDIVIDERE LE RESPONSABILITÀ DEL POTERE E ARRIVA A SPARTIRSI I DOMINI DI ROMA CON MARCO ANTONIO. FINO A QUANDO QUESTI NON GLI SI RIVOLTA CONTRO…

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LO SCALATA AL POTERE

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i divisero il mondo. Antonio ebbe la parte del leone: le province orientali, già occupate da Bruto e da Cassio; le Gallie con l’aggiunta della Narbonense, meno la Cisalpina, unita definitivamente all’Italia; infine l’Africa Vetus. Per Ottaviano la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, la Spagna, l’Africa Nova e, poiché intendeva rimanere in Italia per la sua salute cagionevole, si addossò il compito di distribuire le terre ai veterani. L’Italia, comunque, faceva parte a sé, ed era inteso che ognuno dei due vi potesse liberamente reclutare soldati. Dalla spartizione fu escluso Emilio Lepido, il terzo triumviro, gravato dal sospetto – mentre gli altri due erano impegnati in una lotta mortale contro i cesaricidi – di un’intesa o di accordi segreti con Sesto Pompeo, il figlio minore del Magno, che dalla Spagna minacciava saccheggi, sbarchi a terra nelle città costiere dell’Africa e della Sicilia. Le province d’Oriente assegnate ad Antonio

(o che lui stesso si era assegnate) erano il giusto riconoscimento all’età, alla sua maggiore esperienza militare, alla doppia vittoria di Filippi; ma rimaneva il punto cruciale: che in Oriente Antonio si era impegnato a riscattare l’orgoglio romano, caduto in ginocchio a Carre, contro il nemico piú feroce, i Parti. Era come un debito militare lasciato in eredità da Cesare. E proprio in vista della campagna partica, Antonio convocò a Pergamo monarchi, Stati dipendenti, alleati. Dispensatore di punizioni e di benefici, prese, tolse, concesse. Gratificò Rodi e i Lici, impose ad altri contributi straordinari, poi procedé attraverso la Frigia e la Misia, la Galazia asiatica e la Cappadocia, dove – arbitro di re – elevò al trono Archelao Sisenna in luogo di Ariarate. Ma Sisenna aveva una madre

Efeso (Turchia). I resti dell’Artemision, il tempio in onore di Artemide. Nella pagina accanto, in alto l’espansione di Roma fino all’età di Cesare. Nella pagina accanto, in basso denario con, al dritto, testa di Quinto Labieno e, al verso, cavallo partico armato alla leggera, con briglie e sella a cui sono appesi una faretra e un arco. 40 a.C.


bellissima, Glafira; e delle grazie di lei a letto ancora un secolo dopo parlava Marziale nei suoi epigrammi. Inebriato dal coro delle adulazioni, Antonio si dette a orge senza fine. Non conosceva la temperanza. L’Asia si inondò per lui di fiumi di incenso. Alle porte delle città lo accoglievano donne in veste di Baccanti, uomini e fanciulli in quelle di Satiri e di Pani, e incoronati di edera, precedevano il suo carro trionfale. A Efeso una folla delirante inneggiò a lui, Marco Antonio, come novello Dioniso.

La passione prima della guerra Aveva quarant’anni. Nobile e dignitoso nell’aspetto, ma a volte faceva di notte giorno, e poi libertino, impenitente scialacquatore, vanitoso, tracotante e nello stesso tempo semplice d’animo. Fu la sua debolezza piú

funesta. Non poteva ammettere, per esempio, che coloro i quali, a tavola o nei giochi di destrezza, gli parlavano con libertà, lo adulassero poi nelle faccende politiche. Infine arrivò in Cilicia e fece tappa a Tarso: e qui attese Cleopatra. Lei conosceva arti piú raffinate per adularlo e sedurlo. E Antonio rimandò la campagna contro i Parti di cinque anni. Da Filippi Cesare Ottaviano rientrò direttamente in Italia sul finire del 42 a.C. Sbarcando a Brindisi si ammalò. Lo aspettava un compito politico di difficile soluzione: dare le terre, sistemandoli in Italia, a 170 000 veterani. Le distribuzioni di terre ai veterani risalivano a

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LO SCALATA AL POTERE

piú di sessant’anni prima con Mario. Per primo aveva arruolato i nullatenenti nella campagna contro i Cimbri e i Teutoni e, a vittoria conseguita, li aveva congedati con l’assegnazione di terre. Con Silla, Pompeo, Cesare divenne una legge non scritta. Ma la disponibilità di terre coltivate diminuí progressivamente, a causa di tre guerre civili devastanti e crudelissime, la guerra sociale degli Italici per il diritto di cittadinanza, una rivolta di schiavi, capitanati da Spartaco. Neglette le colture, depauperate le risorse, campi abbandonati e resi sterili dall’incuria: questo il quadro dell’Italia di allora. Sicché, esaurite le terre dell’agro pubblico, l’unica soluzione a suo tempo ventilata da Cesare restava la creazione di colonie di veterani nelle province. Ma non l’accettarono i veterani, né lo stesso Ottaviano. I primi, freschi reduci da due anni di guerra civile, avevano preso coscienza di quanto il potere dei capi, fossero Silla

Pompeo Cesare o Antonio Ottaviano o Bruto, dipendesse allora come ora dalla loro disponibilità di soldati, come dalla loro forza e dal loro valore militare. Per questo, accettare colonie in Spagna, Africa o in Gallia e nell’Illirio significava per loro allontanarsi dal centro del potere, perdere i legami vivi con una realtà politica in continua evoluzione e, peggio, nei momenti cruciali, non essere pronti a intervenire tempestivamente, dando cosí un peso determinante alla loro azione.

Sicuro di sé e del suo destino A queste ragioni Ottaviano ne aggiunse una, personalissima. Non aveva dimenticato l’umiliazione del giorno dopo Filippi. Era stato spietato solo con i vinti. Ma la qualità, forse peculiare, di Ottaviano, era di nutrire una fiducia pressoché illimitata nel proprio destino. L’incarico di dare la terra ai veterani (anche a quelli di Antonio) – gravoso, difficile, pieno di Mosaico policromo con scene campestri, da Cesarea di Mauretania (Algeria). I-II sec. d.C. Cherchell, Musée Archéologique. Nella pagina accanto la suddivisione amministrativa dell’Italia in età augustea.

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LO SCALATA AL POTERE

rischi –, se da un lato metteva in gioco tutta la sua abilità politica, dall’altro, rimanendo in Italia, lo poneva nella condizione di avere contatti continui con loro, di ascoltare richieste, proporre ragioni. Figlio ed erede di Cesare poteva riguadagnare immagine e popolarità ovvero ipotecare la loro fiducia. Doveva soltanto restare fedele all’insegnamento del padre: che erano le legioni la vera fonte del potere. E c’era un rovescio della medaglia. Da freddo calcolatore credeva di conoscere la natura esuberante, ma sfrenata di Antonio: era troppo avido di miraggi

Bella e dannata

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uando si trovò a essere erede di due grandi famiglie dell’oligarchia romana, la gens Fulvia e la Tuditana, Fulvia era giovanissima, bella quant’altre mai, affascinante, fiera e con l’animus della politica. Sposò Publio Claudio Pulcro della gens Claudia, che era fra le piú antiche e nobili di Roma. E bello (Pulcher), eloquente, non secondo a nessuno per arroganza e audacia. Nel 58 a.C. divenne tribuno della plebe e mandò in esilio Cicerone, reo di aver condannato a morte ex consolari senza processo e senza il voto popolare. Trucidato Clodio in una imboscata a Boville alle porte di Roma (52 a.C.), Fulvia mette la città a rumore per i funerali del marito. La Curia è incendiata. In seconde nozze sposa Scribonio Curione, passato a Cesare e ai popolari. Sia Curione che Marco Antonio, ambedue tribuni della plebe, sono gli artefici dell’opposizione cesariana, in pieno Senato, all’oligarchia. È la guerra civile. Curione muore valorosamente in Africa, soverchiato dalle preponderanti forze di Giuba, alleato dell’oligarchia. Al ritorno di Cesare dall’Asia (47 a.C.), Marco Antonio pone termine alla sua vita dissipata con mime e attricette e si unisce in matrimonio con Fulvia. Secondo Plutarco, lei era già stata amante di Antonio, quando era sposata a Claudio (Clodio) Pulcro. A quest’ultimo aveva dato una figlia, Claudia; a Marco Antonio darà due figli maschi, Antillo e Jullo. Gli anni dal 47 al 44 a.C. sono i piú solari per Fulvia con il marito, per le assenze di Cesare (Africa e Spagna), quasi padrone di Roma, ha la casa di Pompeo alle Carine. Poi, improvviso, l’assassinio di Cesare e la guerra infame di Modena, scatenata contro Antonio da Cicerone, che arriva a far trascinare fuori dalla Curia e Fulvia e la madre di Antonio. Con il triumvirato e le proscrizioni la vendetta. Poi Marco Antonio si reca (42 a.C.) in Macedonia per combattere i cesaricidi Bruto e Cassio. Non lo rivedrà piú. La gloria di Filippi sarà per lei la fine dei suoi sogni come del suo matrimonio. In Oriente Antonio incontra Cleopatra; lei, con il cognato Lucio Antonio promuove la guerra di Perugia a difesa degli espropriati italici, sicura che Antonio raggiunga rapidamente l’Italia. Inutilmente. Secondo Marziale, che riporta un epigramma di Ottaviano, si offre – forse per rabbia o ripicca – allo stesso Ottaviano. «Antonio chiava Glafira, ma Fulvia / mi condanna a chiavare lei. Chiavare /Fulvia? / No certo, se ho un poco di cervello. “O tu mi chiavi – fa lei – o combattiamo”. La mia nerchia / m’è cara piú della mia stessa vita. / Suona la tromba e lotteremo». Vinta, scappa in Grecia con l’intento di raggiungere Marco Antonio. Non si incontrarono. E Fulvia muore disperata e sola nell’isoletta di Sicione.

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Nella pagina accanto Cleopatra, olio su tela di Mosè Bianchi. 1865. Milano, Galleria d’Arte Moderna. In basso Fulvia con la testa di Cicerone, olio su tela di Pavel Alexandrovich Svedomsky. 1880 circa. Pereslavl’Zalesskij (Russia), Museo di Storia, Architettura e Arte.

ellenistici per non assegnarsi l’Oriente come campo di conquista. E l’Oriente, ricchissimo di mezzi economici, moralmente corrotto, poteva diventare per Antonio una grande trappola, come lo era stata per i generali di Alessandro che ne avevano ereditato l’impero.

La lezione di Silla Un disegno lucido, lungimirante. La prima conferma Ottaviano l’avrebbe avuta a distanza di un anno a Perugia, e definitiva dieci anni dopo, ad Azio. Non aveva scelta. Terre dell’agro pubblico non ce n’erano, né lui, Ottaviano,

disponeva in proprio o attraverso il gruppo di potere economico e politico che gli stava dietro, del patrimonio necessario per comprare terre alienabili. Gli rimase la lezione di Silla: espropriare i contadini e al loro posto insediare i veterani. Era troppo intelligente per non sapere che l’esproprio di tante terre significava e la rovina individuale di centinaia di migliaia di piccoli proprietari e il rovesciamento, in misura perfino non valutabile all’inizio, dell’economia agricola dell’intera Penisola. Tanto piú che non tutti i nuovi proprietari erano adatti o volevano fare i contadini; anzi, come poi accadde, molti

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veterani pretendevano sí le terre, ma non per coltivarle di persona. Le trattative dirette con i municipi fallirono quasi subito. I veterani strepitarono, si ribellarono, passarono alla violenza. Era chiaro, in ogni caso, un punto fermo: che Ottaviano, per convinzione o necessità, era deciso ad affrontare qualunque rivolgimento, per difficile e tremendo che fosse, pur di non giocarsi il potere che gli veniva dalla loro forza militare e politica. D’accordo, i cesaricidi erano stati eliminati, ma si prospettavano altre guerre. Sesto Pompeo dominava il mare, Stazio Murco e Domizio Enobarbo, che avevano comandato le flotte di Bruto e di Cassio, raccoglievano navi e soldati. Per l’interruzione del traffico marittimo Roma era alla fame. Di notte la plebe commetteva rapine e azioni anche peggiori, impunemente. Non c’erano piú né ordine, né giustizia. Già di per sé drammatica, la situazione divenne deflagrante quando vi si inserí il conflitto di poteri fra il triumviro e i consoli in carica.

Dalla parte degli espropriati Per l’anno 41 a.C. erano Lucio Antonio e Pubblio Servilio Isaurico. Soprattutto il primo si fece interprete e difensore del malcontento o meglio del disastro, sul piano economico e sociale, degli espropriati. Sbandierò addirittura un programma antitriumvirale in nome della libertà. Sapeva che popolo e repubblicani erano dalla sua parte. Con un esercito, che «nominalmente» aveva sei legioni, occupò Roma fra gli applausi, accolto come un liberatore, ma dovette fuggire per non essere sorpreso da Marco Vipsanio Agrippa, allora ventunenne. Ci furono un paio di tentativi dei veterani per scongiurare le atrocità di un’altra lotta fratricida: non approdarono a nulla. Lucio Antonio si ritirò a Preneste, dove lo raggiunse Fulvia. Ambedue pensavano di poter contare su una schiacciante superiorità militare: Fufio Caleno e Ventidio tenevano undici legioni nella Gallia; sette Asinio Pollione nella Cisalpina. Soprattutto era prevedibile che Marco Antonio, venuto a conoscenza del fatto

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che i suoi generali, le sue truppe, suo fratello, la moglie erano impegnati nella guerra contro Ottaviano per il potere d’Italia, in realtà per il potere nel mondo, sarebbe sbarcato a Brindisi. Nell’attesa, a Preneste, Fulvia era l’anima della resistenza. Dione dice che «lei stessa cingeva la spada, dava la parola d’ordine, arringava i soldati». Poi lei e il cognato passarono a Perugia. La posizione era fortissima, e a Perugia aspettarono Marco Antonio per tutto l’inverno. Ma lui non venne: era e rimase ad Alessandria, rinvoltato nel letto di Cleopatra. Sprecò quello che Antifonte definisce «la cosa piú preziosa che si può sprecare: il tempo». Fece di peggio: si lasciò passare sotto il naso «la grande occasione» di rendersi padrone del

I resti dell’acropoli di Lindos, a Rodi. Alla vigilia della spedizione contro i Parti, Marco Antonio concesse all’isola speciali gratifiche.


mondo. Non gliene sarebbe mai capitata un’altra cosí perfetta, circoscritta e a portata di mano. Fufio Caleno, Ventidio, Asinio Pollione si erano tanto avvicinati a Perugia, che i soldati dalle mura potevano scorgere i fuochi dei loro accampamenti.

La resa di Perugia Dal meridione li aveva raggiunti Munazio Planco al comando di un esercito di veterani sovvenzionato da Fulvia. Ma di fronte si trovarono Marco Vipsanio Agrippa, deciso a sbarrare loro la strada. E Marco Antonio? Da lui neppure un messaggio che fosse per loro punto di riferimento strategico o tattico. Fu la fermezza di Marco Vipsanio Agrippa a

convincerli di non venire a battaglia. È anche vero che le continue attese, le incertezze avevano finito per instillare in loro il disgusto della guerra civile: era follia, dicevano, morire per Lucio Antonio e le classi possidenti d’Italia. Ritiratisi Ventidio, Planco, Asinio Pollione, Fufio Caleno (quest’ultimo sarebbe poi morto improvvisamente e le sue legioni passarono a Ottaviano), Perugia si arrese. Fu incendiata, e i prigionieri sgozzati come bestie alla vigilia dei Saturnali. Erano migliaia, trecento fra senatori e cavalieri. Ottaviano mostrò la faccia della crudeltà in una forma peggiore di quella esibita all’indomani di Filippi. Ma il rischio per lui era stato molto piú grande che nella giornata di Filippi e, si può dire, di quanti altri mai avrebbe affrontato nell’arco cinquantennale della sua vicenda politica. Nell’autunno del 41 a.C. tutto gli era sfavorevole: l’opinione pubblica che gli addebitava la spoliazione delle terre, la posizione strategica dei generali avversari, l’inferiorità militare, l’incubo di uno sbarco a Brindisi di Antonio, la situazione dei mari, con Sesto Pompeo nel Tirreno e nel Mediterraneo, Domizio Enobarbo nell’Adriatico che tenevano chiusa l’Italia come le chele di un granchio gigantesco. L’essere divenuto di colpo, forse insperatamente, addirittura il solo e vero padrone dell’Italia lo doveva certo alla incrollabile fiducia che aveva nel proprio destino, alla sua straordinaria capacità politica, alla fermezza di Marco Vipsanio Agrippa, ma in massima parte o soprattutto all’ignavia colpevole di Marco Antonio. Machiavelli ha, in proposito, una battuta feroce: «Chi è cagione che uno diventi potente, rovina».

Un genio della dissimulazione Non gli bastò, comunque. Impadronitosi delle legioni di Munazio Planco, come di quelle di Fufio Caleno, che del resto erano passate a lui dopo la morte del loro comandante, Ottaviano, con una rapidità sconcertante, arriva nelle Gallie e prende possesso della Narbonense e della Comata, che Caleno aveva tenuto per Antonio. La Spagna gli era toccata nella

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spartizione di Filippi, togliendola a Lepido. Insomma in meno di un anno si era impadronito di tutto l’Occidente: Spagna, Gallia, Italia e anche l’Illirio fino alla Sava. Senza vincere personalmente una battaglia. Sgretolato l’esercito d’Occidente di Antonio, contava adesso quaranta legioni. Gli rimaneva di liberarsi dell’ipoteca che Sesto Pompeo aveva messo sulle isole e sui mari. L’avrebbe riscattata con l’abilità militare del suo coetaneo Marco Vipsanio Agrippa e il beneplacito e l’aiuto di Antonio. Se il padre era stato il genio incomparabile della guerra, lui, Ottaviano, lo era della politica e della dissimulazione. Le urla esaltate dei Parti che invadevano la Jonia e la Lidia e le grida di Fulvia, scappata dall’Italia, scossero Marco Antonio dai lunghi ozi egiziani. Plutarco aggiunge che si era destato «come uno che riemerga da una notte di crapula». Partí da Alessandria, che Cleopatra era incinta. Per terra raggiunse Tiro e da qui navigando toccò Cipro, Alicarnasso, Rodi.

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E appunto a Rodi lo aspettavano le notizie piú catastrofiche: l’incendio di Perugia, il massacro spietato dei prigionieri antoniani.

Mai fidarsi delle apparenze... Ma c’era di peggio: il giovane biondiccio e febbricitante delle giornate di Filippi, ora senza colpo ferire e con una spregiudicatezza, un cinismo politico incredibile, gli aveva portato via le legioni di Caleno, di Planco, poi le province della Gallia, e ormai aveva anche l’intero possesso dell’Italia; probabilmente gli avrebbe impedito di sbarcare in un qualunque porto della Penisola, come fosse un nemico. L’aspetto «feroce» e insaziabile di quella sua ambizione adolescenziale gli balzò d’improvviso davanti agli occhi. Gli tornò a mente un giudizio di Bruto (gliel’aveva riferito Lucilio dopo Filippi): «Dietro l’esaltazione del padre adottivo questo giovane dalla faccia malaticcia di un eterno adolescente cela il vizio impietoso del tiranno. Ed è tanto peggiore

Alessandria in un’incisione di Louis Mayer (1804). Sulla destra si riconoscono le colonne in granito del portico del Canopo. Nella città egiziana Cleopatra e Antonio vissero la loro storia d’amore.


dell’altro quanto piú grande simulatore». Salpò per Atene, dove sapeva di veder la madre. Ad aspettarlo trovò anche Fulvia, gelosa, fiera di aver lottato per lui, ma risentita per l’abbandono e irriducibile nemica dell’ipocrisia di Ottaviano. Per Antonio la vista di Fulvia era come un rimprovero incarnato. L’abbandonò, diretto alla volta d’Italia. Aveva duecento navi e, imbarcati, un buon numero di legionari. Come era prevedibile, arrivò a Brindisi che il porto era bloccato. Sbarcò a nord. Ad Atene lo avevano atteso ambasciatori di Sesto Pompeo per offrirgli l’alleanza contro Ottaviano. Sul momento era rimasto incerto, ma ora l’affronto del porto lo inclinava ad accettarla. Era furente. In uno scontro di cavalleria ritrovò impeto, gagliardia fisica, ferocità combattiva. L’indomani alla sua tenda arriva Lucio Cocceio Nerva. Era amico di Ottaviano e di Antonio. Ottaviano, dice, è ammalato a Canosa, ma vuole intavolare con te serie trattative di pace. In realtà, se Antonio, perduta l’Italia, era lontano dalle basi d’Oriente, la situazione di Ottaviano si presentava piú inquietante e a lungo andare insostenibile: il blocco navale di Sesto Pompeo, impedendo il trasporto del grano dalla Sicilia e dall’Africa, teneva Roma e metà della Penisola alla fame. I colloqui di Cocceio Nerva non registravano che accuse vicendevoli di slealtà, di tradimenti, di perfidia, quando sugli opposti schieramenti, come una folgore di Giove, piomba la notizia della morte di Fulvia nella desolata solitudine di Sicione (città greca del Peloponneso, 20 km a nordovest di Corinto, n.d.r.). E poiché per uscire dall’impasse occorreva un colpevole al quale addossare tutte le responsabilità di un anno di guerra, compresi i cambiamenti territoriali, Fulvia come era stata l’anima di una politica contraria a Ottaviano, cosí ora fu il capro espiatorio della riconciliazione. Cocceio Nerva dovette preoccuparsi soltanto di fissare un incontro fra Ottaviano e Antonio, al resto avrebbe pensato il malaticcio signore d’Italia. Ottaviano possedeva l’arte di rovesciare i fatti, impraticabile per Antonio. Nel loro incontro tirò fuori, per esempio, che il

porto di Brindisi era stato sí bloccato, ma perché – oltre che come misura di sicurezza contro i «pirati» pompeiani – Antonio si era trascinato dietro Gneo Domizio Enobarbo, regolarmente condannato insieme con gli uccisori del divo Cesare, e anche distruttore della flotta giuliana nell’Adriatico (ottobre 42 a.C.). Quanto poi alle legioni di Caleno e di Planco, lui Ottaviano le aveva unite alle proprie per paura che passassero a Sesto Pompeo. Scrisse poi una lettera a Giulia, madre di Antonio e appartenente per nascita alla gens Iulia. L’ultimo colpo sapiente fu di informare, non direttamente s’intende, i veterani e coinvolgerli nelle trattative. Non erano stanchi di combattere fra di loro? In realtà i rappresentanti dei veterani non si preoccuparono tanto di dirimere le controversie, quanto di trovare un accordo, sancito, come tre anni prima alla creazione del triumvirato, da un matrimonio. Da poco era morto Gaio Claudio Marcello (console nel 50), marito di Ottavia, sorella di Ottaviano: sembrò l’occasione propizia per costringere all’amicizia i due triumviri. Avviluppato nelle mene vischiose di Ottaviano, Antonio cedette.

In due si spartirono il mondo Ottavia era giovane, molto bella, forte e saggia come doveva essere una donna romana; Antonio, da poco vedovo, in preda a vaghi rimorsi e bisognoso di fugare le immagini delle notti ubriache di Alessandria. All’annuncio le grida di esultanza dell’esercito durarono ininterrottamente per un giorno e una notte. Nella fiaccolata di tripudio i due triumviri si spartirono nuovamente il mondo: tutto l’Occidente fino alla città di Scodra (Scutari) nell’Illirio a Ottaviano, l’Oriente fino all’Eufrate ad Antonio. Lepido poteva governare l’Africa. Per il battito di ciglia della sorella, Ottaviano si era guadagnato le Gallie, Comata e Narbonense. Dell’Occidente, l’Italia gli rimaneva in condominio con il cognato; in pratica il divi Caesaris filius la considerava il terreno stabile del suo impero. A Roma le nere nuvole della carestia

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oscuravano l’orizzonte. Il popolo protestava, assaltava i magazzini. Un giorno Ottaviano, fidando nelle sue qualità demagogiche, scese nel Foro fra la gente con pochi soldati di scorta e qualche amico. Lo accolsero a sassate, lo circondarono. Lo salvò Marco Antonio con la sua guardia del corpo che, snudate le spade, si aprí la strada ammazzando, ferendo, trasformando le pietre del Foro in un viscido pantano di sangue. Per liberare il mare dalla morsa di Sesto Pompeo, a Ottaviano occorreva una flotta che non aveva, comunque non pari a quella pompeiana. Antonio, che già ad Atene aveva ricevuto ambasciatori dal figlio minore del Magno, fece richiamare dall’esilio il suocero di lui, Lucio Scribonio Libone; a sua volta Ottaviano incarica Mecenate, il suo «segretario di Stato», di richiedergli in moglie la sorella, Scribonia. Fin dall’anno precedente aveva ripudiato Claudia, restituendola alla madre ancora vergine. Considerando i due anni di matrimonio; che Claudia era bella, giovane, figlia di Fulvia e di Publio Clodio Pulcro, e nipote delle tre sorelle piú chiacchierate di Roma; conoscendo infine la spregiudicatezza di Ottaviano in politica, è da ritenere poco probabile un matrimonio non consumato.

Ritratto di Ottaviano (su busto non pertinente). 35-29 a.C. Roma, Musei Capitolini.

Fedele alla tradizione sino alla fine

«U

n prodigio di donna – scrive Plutarco di Ottavia – e dotata, oltre che di rara bellezza, di dignità e di intelligenza», tale insomma da rappresentare per tutti «un’ancora di salvezza e di concordia». In piú occasioni evitò la guerra civile fra il fratello (Ottaviano) e il marito (Marco Antonio), che il primo le aveva imposto e che lei amò e rispettò fino ai limiti dell’umiliazione. Fu anche madre prolifica, ebbe cinque figli (un maschio e quattro femmine), tre dal primo marito, due

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da Marco Antonio. Dei figli di quest’ultimo si prese cura anche se nati da altre donne (Fulvia e Cleopatra). Era nata nel 69 a.C. da Caio Ottavio e Azia, nipote di Caio Giulio Cesare. A quattordici anni la sposarono a Caio Claudio Marcello, che di anni ne aveva trentacinque o trentasei. I Marcelli appartenevano all’oligarchia senatoriale ed erano feroci avversari di Cesare. All’odio di campo (oligarchico) Claudio Marcello ne aggiunse uno personale. Nel settembre del 54

a.C. era morta Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo Magno. Cesare, impegnato militarmente in Gallia, prevedendo la spaccatura e dell’alleanza familiare e del triumvirato, chiede in moglie a Pompeo la figlia e gli offre in cambio Ottavia, la nipote della sorella, senza tenere in alcun conto la volontà o meno del marito di lei. Pompeo non accettò lo «scambio», ma la rottura fra Cesare e l’oligarchia senatoriale e i prodromi della guerra civile furono dovuti proprio a Claudio


Il braccio destro

M

arco Vipsanio Agrippa aveva un anno meno di Ottaviano ed era di Arpino, la cittadina che aveva dato i natali anche a Mario, vincitore dei Cimbri e dei Teutoni, e a Marco Tullio Cicerone. L’amicizia con Ottaviano risaliva al 45 a.C., ad Apollonia, dove Cesare

Marcello, console in quell’anno, 50 a.C. Ottavia somigliava al fratello Ottaviano, biondastra, purissimo l’ovale del volto, gli stessi grandi occhi chiari, ma non aveva lo stesso carattere. Soprattutto non conosceva le sottigliezze dell’ambizione o quelle raffinate della simulazione, indispensabili per la politica. Ottaviano l’amava profondamente, era la sua unica sorella, maggiore di sei anni, e tuttavia non si peritò – il che, del resto, era nelle regole auree della società romana – di

aveva acquartierato le legioni per la campagna partica. Cementarono il loro legame – lui diciassettenne, Ottaviano diciottenne – le profezie del matematico Teogene, che (sempre ad Apollonia) predisse ad Agrippa «grandi e quasi incredibili vicende», a Ottaviano l’impero. Da allora, come uniti da uno stesso destino, vissero, si può dire, in una perfetta simbiosi politica. In realtà si completavano a vicenda: uno impulsivo e aperto, l’altro freddo e simulatore; uno vigoroso e sanguigno, l’altro pallido e malaticcio; uno genio militare, l’altro genio della politica. Nel 41 a.C. Agrippa salvò l’Italia dalle lacerazioni di una piú cruenta guerra civile e costrinse Fulvia e Lucio Antonio alla resa di Perugia; stracciò e umiliò Sesto Pompeo a Nauloco (36 a.C.); Azio fu un capolavoro di strategia militare e la battaglia vinta, in pratica, senza colpo ferire. Al paragone di Agrippa, Antonio fece la figura del principiante.

Per Ottaviano, Agrippa riconquistò la Spagna, domò la Gallia, passò e ripassò il Reno, infranse la resistenza dell’Illirio, della Rezia, della Pannonia. Il grande progetto sulla Germania abortí prima per la rivolta in Pannonia, poi per la sua morte. Ebbe tre mogli: Cecilia Attica, la prima, figlia di Attico, banchiere e amico di Cicerone, dalla quale nacque Vipsania Agrippina, sposata poi a Tiberio; la seconda, Marcella, nata da Ottavia e dal primo marito di lei; la terza, Giuria, che gli dette cinque figli, tre maschi, tutti adottati da Ottaviano Augusto, e due femmine, Giulia e Agrippina Maggiore. Quest’ultima, a lui somigliantissima e sposata a Germanico, divenne la beniamina di Augusto. A sinistra ritratto di Marco Vipsanio Agrippa, compagno di Ottaviano e poi marito di Giulia, figlia di lui, da Gabii. Prima metà del I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

usare lei e poi le nipoti nelle combinazioni di matrimoni a esclusivo fine politico. Ma nella buona come nella cattiva sorte Ottavia rimase fedele al vecchio modello di matrona romana che, si può dire, si era ritagliata per sé e che nell’ultimo cinquantennio della repubblica trovava pochissimi altri esempi. Ritratto di Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Marco Antonio, da Velletri. I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

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Ma l’erede di Cesare aveva in mano il bastone del comando e poteva permettersi qualsiasi verità, e come tale farla accettare dagli altri. Sposò, dunque, Scribonia, piú vecchia di lui di sette o otto anni, due matrimoni alle spalle e due figli. Questo lo avvicinò a Sesto Pompeo (tanto piú che il popolo a gran voce chiedeva la pace e l’arrivo di navi cariche di grano). Non molto dopo in Campania, nello specchio del Miseno, si avviarono le trattative per un patto a lungo termine.

Il pranzo del Miseno Sesto Pompeo pensava addirittura di essere chiamato a spartirsi un terzo dell’impero, in sostituzione di Lepido. Ebbe invece Sicilia, Sardegna, Corsica, l’Acaia nel Peloponneso e una indennità per lui e per i nobili che erano in esilio e al suo seguito. Definite le rispettive aree di dominio, si scambiarono gli inviti a pranzo. Il primo a ospitare gli altri fu Sesto Pompeo. Li ricevette nell’ammiraglia, una grossa nave a sei ordini di remi, ormeggiata vicino al promontorio del Miseno. Si mettono a tavola, mangiano, bevono, fioriscono i lazzi. Menodoro, un tempo pirata, ora uomo di fiducia e luogotenente di Sesto Pompeo, gli si avvicina e gli dice all’orecchio: «Vuoi che tagli le corde delle ancore e ti renda signore dell’impero romano?». In effetti, tagliate le corde, la nave ammiraglia sarebbe stata sospinta al largo in mezzo alla flotta pompeiana, e Antonio e Ottaviano intrappolati e uccisi. Sesto Pompeo, dice Plutarco, guardò l’altro perfino con fastidio. «Menodoro – fu poi la risposta –, bisognava che tu lo facessi prima di dirmelo. Ora lasciamo le cose come stanno. Non è di un Pompeo spergiurare». Buttata alle ortiche l’unica possibilità di rovesciare la faccia dell’impero, Sesto Pompeo tornò alle isole assegnategli e che del resto già possedeva. Inciprignito con se stesso, non rimase quieto per molto tempo: la guerra di mare contro Ottaviano era solo rimandata. Intanto l’erede di Cesare doveva ricucire gli strappi nel tessuto dell’economia agricola della Penisola, causati e dagli espropri di terre e dalla

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deduzione delle colonie di veterani. E Marco Antonio, passato dal letto delle raffinatezze egiziane di Cleopatra a quello virtuoso di Ottavia, arriva con la nuova moglie ad Atene. Lo aspettava il problema dei Parti di continuo rinviato. Altro che portare la guerra oltre l’Eufrate! I Parti erano nella Ionia e nella Lidia e spingevano per giungere al mare. Dopo i patti di Brindisi e poi del Miseno a Roma tornarono proscritti ed esiliati. Fra questi ultimi Tiberio Claudio Nerone con la giovane moglie Livia Drusilla. Ottaviano la vide e la incontrò all’inizio della primavera del 39 a.C. Il freddo, lucido vincitore di Perugia, genio della politica e della dissimulazione se ne innamorò, per la prima volta si rase la barba e continuò a radersi appunto perché bruciato dalla passione per lei. Di lí a poco, per la stessa ragione, divorziò dalla seconda moglie Scribonia addirittura il giorno che gli aveva partorito una figlia, Giulia. Divorzio che non fu di secondaria importanza sul piano politico: stracciava il patto di pacificazione o

Uno scorcio dell’Odeion di Agrippa ad Atene. I sec. a.C.


almeno di «non belligeranza» con Sesto Pompeo, oltre a interrompere una linea di condotta privata coerente con la sua vita politica. Svetonio cita una lettera di Marco Antonio a Ottaviano che piú o meno dovrebbe riferirsi a quel periodo. Nella lettera Antonio, in tono ironico e con la libertà che gli era connaturale, ricorda al cognato un episodio illuminante: che cioè durante un convito e davanti a tutti, lui, Ottaviano, aveva portato via una «giovane matrona» dal triclinio del marito, l’aveva trascinata in una camera da letto e, dopo il fatto, ricondotta al convito con le orecchie rosse e i capelli in disordine. Era la moglie di Tiberio Claudio Nerone? Certo è che il 14 ottobre Livia Drusilla e il giovane ventiquattrenne e padrone di una metà del mondo, Cesare Ottaviano, si univano in matrimonio. In qualche modo fu anche una riparazione tardiva: lei era incinta di sei mesi, e – altro particolare significativo – ad accompagnarla come un padre davanti all’ara

per prendere gli auspici, il vecchio marito Tiberio Claudio Nerone. Che poi nel corso del suo cinquantennale governo della res publica l’unione con lei si rivelasse per Cesare Ottaviano la scelta di gran lunga migliore di quante altre possibili non solo sul piano dei sentimenti, ma anche su quello pratico della politica – giacché lo riconciliò con la nobiltà e nei momenti di crisi la lucidità di giudizio e di critica di Livia Drusilla mai furono impari alla necessità di interpretare e di superare l’impatto di circostanze o avvenimenti non prevedibili –, tutto questo, insomma, non cambia nulla dall’abbrivio iniziale che fu una passione dirompente, sfrenata, di corpo e d’animo. Dal precedente matrimonio Livia Drusilla aveva avuto un figlio, Tiberio (succederà nell’impero ad Augusto). Il 14 gennaio del 38 a.C., tre mesi esatti dal giorno delle nozze, dà alla luce un secondo figlio, Druso. Battute e lazzi invadono Roma. Nell’atrio dei templi si canta: «Ai fortunati i figli ci mettono solo tre mesi a nascere». Di chi era figlio Druso? La logica popolare non aveva dubbi. Che Ottaviano fosse il padre di Druso, era indirettamente confermato anche dall’atteggiamento del marito che, iniziata appena la tresca, senza perdere tempo, aveva divorziato da Livia Drusilla, lasciando campo libero al piú giovane e fortunato rivale. Entro la fine dell’anno lei era di nuovo incinta e partorí un figlio. Morto. Il suo grembo rimase sterile. Furono il cruccio e la condanna che accompagnarono Ottaviano per il resto degli anni.

Cesariani contro pompeiani Il patto – o tregua che fosse – con Ottaviano durò il tempo, mesi e giorni, che servirono a Sesto Pompeo per pigliare coscienza di quanto la proposta trappola di Menodoro al Miseno sarebbe stata risolutiva, una volta per tutte, nella guerra civile che da Farsalo metteva di fronte pompeiani e cesariani per il potere dell’impero di Roma. La rabbia e i pentimenti per la sua colpevole ingenuità politica accelerarono le operazioni militari. Il conflitto scoppiò nella primavera del 38 a.C.

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Pretesto: il passaggio del liberto Melas, capo della flotta pompeiana in Sardegna, con sessanta navi a Ottaviano. Il quale al momento non disponeva di Marco Vipsanio Agrippa, impegnato nelle Gallie e sul Reno. Divise la sua flotta in due squadre, che dovevano aggredire la Sicilia una dal Tirreno, l’altra dallo Ionio, mentre lui scendeva la Penisola con i legionari. La prima squadra fu battuta nel golfo di Napoli, ma peggiore risultato lo ebbe Ottaviano, quando prese il comando. Le flotte distrutte, lo stesso Ottaviano in grave pericolo di vita, Roma e l’Italia di nuovo alla fame e, dice Svetonio, avverse a lui, ritenuto responsabile della guerra come della carestia. Sul piano militare a salvare

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la situazione arrivò Agrippa, cambiando strategia; su quello politico Mecenate che, attraverso Ottavia, indusse Antonio a intervenire. Ottaviano aveva bisogno di navi, Antonio di legionari italici. Non molto dopo Antonio si presenta a Brindisi con trecento navi, ma il porto è bloccato. Sbarca a Taranto. È infuriato. Veniva fra l’altro da due vittorie strepitose ottenute contro i Parti, anche se la strategia e il comando sul campo erano di Publio Ventidio, al tempo della guerra di Modena chiamato con spregio da Cicerone il «mulattiere». Ottavia aveva accompagnato Antonio dalla Grecia, gli aveva dato una figlia, Antonia, ed era di nuovo incinta.

Livia alle vendemmie del Pucino, olio su tela di Cesare Dell’Acqua. 1858. Trieste, Castello di Miramare. Nella pagina accanto, in alto aureo con il profilo di Sesto Pompeo. 42-40 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


Un «pirata» di nome Sesto In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

S

esto Pompeo era il secondogenito di Gneo Pompeo Magno e di Mucia Terzia, parente dei Metelli, ma dal Magno ripudiata per «scostumatezza» al suo ritorno dalle conquiste d’Oriente. Forse Sesto era a Farsalo con il padre, lo seguí a ogni modo nella fuga in Egitto per nave e dalla nave, al Pelusio – insieme alla quarta moglie del Magno, Cornelia, e al rimasuglio di sconfitti, ex consolari, senatori –, assistette impotente al di lui assassinio da parte degli scherani del re egiziano. Nel 45 a.C. è in Spagna con il fratello maggiore. Il loro esercito raccoglie i pompeiani di tutte le battaglie: Ilerda (Spagna, 49 a.C.), Farsalo (Tessaglia, 48 a.C.), Tapso (Africa, 46 a.C.). Attestato a Cordova, Sesto fugge dopo la carneficina di Munda. Nello sfacelo seguito alla morte di Cesare (44 a.C.) comanda una flotta piratesca che imperversa nelle acque fra la Spagna e la Sicilia e che poi terrà in scacco Roma piú o meno per sette anni. In quel periodo tutti i fuggiaschi d’Italia correvano da lui. Il punto piú alto del suo potere in mare lo raggiunse durante la guerra di Perugia. Bloccate le rotte navali, Roma era alla fame. Ottaviano e Marco Antonio costretti a venire a patti. A Sesto Pompeo vengono assegnate la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, che del resto già occupava. I patti sono sanciti al Miseno, sulla nave

Pregò il marito di mandar lei dal fratello. Sapeva di essere la sola persona capace di allentare la tensione. In realtà il suo intervento, caldeggiato da Mecenate e da Agrippa, promosse il convegno di Taranto nell’ottobre del 37 a.C., presente anche Lepido.

I patti? Non sono un problema Conclusioni: il triumvirato veniva prorogato di cinque anni, Ottaviano otteneva centotrenta navi da Antonio e quest’ultimo ventimila legionari; la strategia della guerra contro Sesto Pompeo era affidata a Marco Vipsanio Agrippa. Il quale, con le navi avute da Antonio e, naturalmente, con parte delle proprie,

ammiraglia di Sesto Pompeo. Menodoro, il pirata, comandante in seconda della flotta, suggerisce a Sesto di pigliare a tradimento Antonio e Ottaviano: «Basta tagliare le gomene – gli dice – e andare al largo». Sesto Pompeo indugia e poi non accetta. Pentito, nemmeno un anno dopo ricomincia la guerra in mare. Ottaviano subisce due sconfitte una dopo l’altra, ma a Nauloco (36 a.C.) Vipsanio Agrippa distrugge l’intera flotta pompeiana. Con le sole ventotto navi rimastegli, Sesto punta all’Asia, pensando per via del padre di contare in Oriente ancora di grande popolarità. All’imboccatura dell’Ellesponto riesce a impadronirsi di Lampsaco. Progetta di servirsene come base e comincia subito a reclutare veterani, liberti, schiavi. Marco Antonio, irritato, gli invia contro Marco Tizio con un forte contingente di legionari. Fatto prigioniero mentre tentava di passare in Armenia e poi in Partia, Sesto Pompeo è portato a Mileto e giustiziato (35 a.C.).

conquista prima Lipari, poi a Nauloco (3 settembre 36 a.C.) annienta la flotta di Sesto Pompeo. Rimasto con sole ventotto navi, il figlio del Magno si rifugiò in Asia Minore. Le tre grandi isole, Corsica, Sardegna e Sicilia, erano libere; rimaneva la contropartita del patto suggellato da Ottaviano a Taranto con Antonio: i ventimila legionari italici per la campagna partica. Non arrivarono mai né in Grecia, né in Siria. D’altronde per Ottaviano non rispettare gli accordi non era un problema; cosí come stravolgere o distorcere i fatti diveniva un gioco raffinato dell’intelligenza. La sua filosofia politica aveva un punto saldo: «il mio utile è il mio giusto». Non lo diceva, naturalmente, ma

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ci credeva al punto che finí per identificare la sua persona o quello che la sua persona rappresentava, con il bene dello Stato. Riuscí a persuadere anche gli altri. Sua madre Azia gli aveva detto che, nove mesi prima del giorno in cui era nato, ella si trovava nel tempio di Apollo. Si addormentò nella lettiga e sognò di essere posseduta dal dio sotto forma di drago. Come Olimpia, la madre di Alessandro, si era trovata nel letto il serpente di Giove. Insomma Alessandro figlio di Giove, Ottaviano figlio di Apollo, Cesare discendente da Venere Genitrice. La fortuna, che lo aveva assistito in ogni frangente della vita, temerario o meno che fosse, ne era un segno. Nel libro dei Cesari, Svetonio ricorda il particolare degli occhi di Ottaviano, che sembrava fossero animati «da una sorta di potere divino». Quanto dovesse rispondere a verità, Ottaviano lo sperimentò in Sicilia, allorché si oppose alle

Una vita al fianco del princeps: ma fu vero amore?

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om’era Livia Drusilla? Giudicando dalla passione suscitata nell’animo di Cesare Ottaviano, il giovane triumviro che fino ad allora (39 a.C.) aveva dato prova di una spericolata fortuna e di non infiammarsi se non della propria ambizione, dobbiamo forse dedurre che Livia Drusilla piú che bella o bellissima, avesse attrattive segrete ovvero quel suo portamento discreto fosse non meno misterioso e nascondesse risvolti insospettati da scoprire. Le statue, i busti, le teste che ci sono tramandate hanno la solennità ieratica della Livia Augusta, moglie osannata dell’imperatore Augusto Cesare, piuttosto che la semplicità raffinata della Livia Drusilla ventenne. Capelli spartiti sulla fronte, occhi grandi, naso aquilino appena pronunciato, ovale perfetto, aspetto serio, pensoso. Al pari di Cornelia, figlia dell’Africano e madre dei Gracchi, fissata nella storia come l’immagine della matrona romana di età repubblicana, cosí Livia Augusta avrebbe dovuto

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rappresentare, e in realtà rappresenta, quella esemplare e omologata del periodo imperiale. Non tutti gli storici condividono il giudizio che il matrimonio di Ottaviano con Livia Drusilla sia stato il naturale compimento di una esplosione d’amore. Rifacendosi a Velleio Patercolo, storico piú o meno contemporaneo, Guglielmo Ferrero, per esempio (Le donne dei Cesari), è di parere opposto. «Non è inverosimile che Tiberio Claudio Nerone, considerando che la rivoluzione democratica aveva vinto, pensasse che l’antica nobiltà dovesse riconciliarsi con essa, e cosí combinasse (o facilitasse) questo matrimonio per preparare la riconciliazione». Ronald Syme si tiene a metà strada. «Una volta tanto nella sua vita Ottaviano cedette al sentimento: e ciò con vantaggio politico. Si innamorò di Livia Drusilla, giovane matrona generosamente dotata di bellezza, contraendo con una fretta disdicevole un’alleanza che soddisfece cervello


Il Vaso Portland, in vetro cammeo. Età augustea. Londra, British Museum. Particolare del lato raffigurante una donna con serpente in grembo affiancata da altri personaggi. In basso testa in basalto di Livia, moglie di Augusto. 31 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto particolare di una statua che ritrae l’imperatrice Livia in veste di Cerere o Fortuna, con il corno dell’abbondanza. I sec.d.C. Parigi, Museo del Louvre.

rivendicazioni di Lepido. Il terzo dei triumviri era sbarcato in Sicilia dal sud, secondo il piano strategico di Agrippa per la guerra contro Sesto Pompeo. Dopo Nauloco molti pompeiani si rifugiavano da lui. Arrivò a contare venti o ventidue legioni e subito avanzò la pretesa di scambiare la Sicilia (che aveva occupato) e l’Africa con la Gallia Narbonense e la Spagna. Ottaviano si fece precedere dalla propaganda, orchestrata al solito da Mecenate, e sovvenuta – come era rituale – da una non meno oculata corruzione fra le truppe; poi si presentò davanti alle legioni. Parlò, ascoltò, discusse. A poco a poco disertarono i pompeiani, infine gli stessi lepidiani. Rimasto solo, avvilito, quasi implorante, Lepido da un Cesare Ottaviano

cuore e sensi, e che durò senza scosse fino al giorno della sua morte». Si era sposata quindicenne con un uomo molto piú vecchio di lei, della gens Claudia. Suo padre, Marco Livio Druso Claudiano, era stato questore di Cesare, ma l’indomani delle Idi di marzo passa agli oligarchi e avanza in Senato la stupefacente proposta di assegnare un premio agli assassini di Cesare, si unisce poi a Bruto e Cassio, scappa dalla battaglia di Filippi e si uccide dopo la fuga. Livia Drusilla, adottata da Augusto nel testamento e quindi da allora divenuta Livia Giulia Augusta, morí dodici anni dopo Augusto, a ottantaquattro anni. Tiberio, il figlio imperatore, non assistette ai suoi funerali, anzi scrisse al Senato una lettera perché i funerali fossero modesti e privi della pompa rituale. Quanto al giudizio degli storici, quello di Tacito su di lei è lapidario: «Allo Stato funesta come madre, alla famiglia dei Cesari come matrigna».

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generoso ebbe salva la vita, ma relegato lontano da Roma in una sua villa a capo Circeo. Con la scomparsa dalla scena politica di Sesto Pompeo e successivamente di Lepido, a Ottaviano si ripresentò lo spinoso problema del congedo delle legioni: cesariane, pompeiane, lepidiane. Lo scioglimento di quelle pompeiane fu semplice e sbrigativo: la maggior parte era formata da liberti e schiavi. Di questi ultimi, quelli che non furono uccisi, vennero riconsegnati ai loro vecchi padroni, e il loro numero non fu inferiore ai trentamila. Le legioni di Lepido, invece, aggregate alle cesariane, furono avviate nell’Illirio e in Pannonia.

Verso l’avventura partica A Ottaviano si apriva l’opportunità di cimentarsi su un diverso scacchiere di guerra dopo quello sfortunato del mare di Sicilia. Fino ad allora aveva offerto lezioni superlative di arte politica, non una prova militare degna di chi teneva in mano una metà del mondo. Al contrario di Antonio, il cognato e padrone dell’altra metà: principiante in politica, ma ottimo generale. A fianco di Cesare in Gallia e nella guerra civile, si vantava di aver contribuito in maniera determinante alla giornata di Farsalo, dove comandava l’ala sinistra, era il vincitore riconosciuto (e acclamato) di Filippi e ora si accingeva a realizzare la campagna partica. Con animo di rivalsa Ottaviano andò in Illirio contro gli Japidi ai confini con la Pannonia, poi in Dalmazia. Non era solo, però: con lui Statilio Tauro, l’insostituibile Vipsanio Agrippa, Valerio Messalla Corvino. Fu ferito due volte e, quando tornò a Roma, il Senato gli votò un’ovazione e una statua nel Foro. In realtà la pacificazione e il ristabilimento del dominio romano in tutta la vasta area dell’Illirio e della Pannonia divennero via via secondari rispetto alle notizie che si rincorrevano dalla Mesopotamia. A metà primavera Antonio si era deciso, finalmente, all’avventura partica. Dalle vittorie di Publio Ventidio (le sole, fra l’altro, dei Romani contro i Parti) aveva fatto passare, per ozio o imbecillità strategica, un tempo che – sul piano militare – era infinito. Avrebbe

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dovuto approfittare dell’uccisione in battaglia di Pacoro, il figlio del re, di due eserciti trucidati, infine della lotta tra fratelli all’interno del palazzo reale. Non aveva imparato niente da Cesare. Non incolpò se stesso, c’era tempo per i pentimenti, incolpò le mene di Ottaviano che, implacabile nel perseguire il disegno di un potere unico (adesso se ne rendeva conto), ancora una volta l’aveva giocato. Fece tappa ad Antiochia, dove lo raggiunse Cleopatra. L’aveva mandata a chiamare da Corcira appena la nave di Ottavia, che tornava in Italia, era scomparsa dalla linea dell’orizzonte. Cleopatra, oltre a teorie di muli carichi d’oro, si portò dietro i gemelli nati durante la «vacanza» romana di Antonio: Alessandro e Cleopatra. Il nome del figlio era l’augurio di quello che lui, Antonio, doveva essere e che il mondo greco attendeva da tre secoli: il novello Alessandro Magno. A Zeugma fece la rassegna dell’esercito: sessantamila legionari, diecimila cavalieri, trentamila soldati dei regni alleati d’Asia, piú macchine di assedio montate su trecento carri e un ariete lungo ottanta piedi. Era maggio inoltrato. Cleopatra tornò in Egitto, era incinta, Antonio puntò sull’Armenia.

Un tratto dell’Aras (Turchia), l’antico Arasse, fiume che segnava il confine della Media con l’Armenia.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

Avrebbe attaccato i Parti da settentrione. Improvvisamente si lasciò prendere dalla fretta. Monese, il personaggio piú in vista dopo il re e scappato presso Antonio, gli prospettò una campagna facile e rapida. Era una trappola. Monese era venuto solamente per conoscere i suoi piani e l’entità delle forze romane. L’ingenuità e l’imprevidenza di Antonio rischiavano il ridicolo. Non gli bastò. Quando Fraate, il nuovo re dei Parti, richiamò Monese, Antonio – incredibilmente – gli permise di andarsene, sicché proprio Monese, messo subito a capo della cavalleria dei Parti, attaccò la retroguardia dell’esercito romano, che Antonio si era lasciato indietro per essere piú libero nella marcia (comprendeva macchine d’assedio, carriaggi, rifornimenti), e la distrusse. Fu per Antonio l’inizio del disastro. Si riscattò nella ritirata, combattendo in prima linea con i legionari, sopportando come uno qualunque di loro marce estenuanti e privazioni d’ogni genere. Un qualche respiro l’esercito romano l’aveva solo di notte. Poi all’alba i Parti spuntavano come ombre, a migliaia, evocati dalla polvere sollevata dal galoppo dei loro cavalli. Dopo ventisette giorni Antonio raggiunse il fiume Arasse, che segnava il

confine della Media con l’Armenia. L’esercito era salvo, ma negli occhi dei legionari persisteva il ricordo delle paure, sofferenze, tragedie sopportate e quello dei loro commilitoni caduti. Piú di un terzo. E Antonio? Si portava indietro i rottami di un grande sogno. Aveva fallito davanti a Roma, a Ottaviano, a Cleopatra, all’Oriente: ma soprattutto davanti a se stesso.

Lo scontro volge all’epilogo A Roma il disastro militare di Antonio ebbe due facce: sgomento e incredulità (perché inaspettato) negli antoniani, simulato rammarico nei sostenitori di Ottaviano. L’erede di Cesare, questa volta, non aveva bisogno di recitare come un attore in teatro. L’immagine del grande Antonio, del vincitore di Filippi, non esisteva piú. Scomparsa nei deserti polverosi della Persia. Scrisse anche lettere di circostanza ad Alessandria, dove era sicuro che si sarebbe rifugiato Antonio. Ormai – usciti dall’agone Sesto Pompeo e Lepido – la partita era ridotta a loro due. E lui Ottaviano l’avrebbe vinta: sapeva fin d’ora quando e come condurla, i temi di propaganda da usare; a suo tempo avrebbe scelto il luogo dove giocarla.

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Gli occorrevano ancora due anni, forse tre. E con una sorpresa: che non sarebbe stato Antonio il nemico da battere, ma la regina d’Egitto, Cleopatra. Volutamente o meno Antonio lo assecondò aggiungendo alle vecchie inimicizie e diffidenze lo spregio familiare. Appena saputo dell’arrivo di Antonio in Siria dall’Armenia, Ottavia era partita da Roma per Atene, pensando di incontrarvi il marito. Con sé portava denaro, vesti per i soldati, regali per gli ufficiali e un corpo di duemila legionari, tratti

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dalle coorti pretorie che potevano costituire la guardia personale di Antonio. Da Atene mandò lettere e altre le consegnò a Nigro, amico di Antonio di vecchia data. E Nigro con Antonio si dilungò in elogi per Ottavia: serietà e fedeltà coniugali, amore per i figli, anche quelli di lui nati da Fulvia. Furono il senso di colpa, che provava verso di lei, e la frustrazione di essere ogni volta turlupinato da Ottaviano, che portarono Antonio ad agire in modo contrario alla sua natura: accusò Ottavia di complicità,

Dendera (Egitto), tempio di Hathor. Rilievo raffigurante, a destra, Cleopatra e suo figlio Tolomeo XV (Cesarione) che offrono incenso alla dea Hathor, a sinistra, preceduta dal figlio Ihy. Età tolemaica.


voluta o accettata, con il fratello; i duemila legionari che gli portava non erano che un’altra beffa rispetto ai ventimila che Ottaviano gli doveva; lui, comunque, stava per partire per una seconda spedizione contro i Parti. Se ne ritornasse, dunque, a Roma. Ma non dette avvio a una nuova campagna contro i Parti, si buttò invece contro Artavasde, re d’Armenia, che l’aveva tradito nella guerra precedente, e lo portò prigioniero ad Alessandria a ornare il suo trionfo. Poi ripudiò Ottavia (e, atto indegno di lui, le ingiunse di abbandonare la casa delle Carine), sposò Cleopatra e, nel tempio di Osiride al Canopo, proclamò solennemente Cesarione vero figlio di Caio Giulio Cesare. Era il piú fermo attacco a Ottaviano. Se ci fosse stata la guerra – e Antonio e Ottaviano sapevano che ci sarebbe stata –, le parti erano già definite: Ottaviano, l’erede adottato, contro il legittimo, carnale figlio di Cesare, Tolomeo Cesare.

L’Italia come una cosa propria Le avvisaglie si ebbero nel gennaio del 32 a.C., quando entrarono in carica i nuovi consoli Domizio Enobarbo e Gaio Sosio, entrambi antoniani. Cauto Enobarbo, fu Gaio Sosio a lanciare accuse circostanziate a Ottaviano: che si era impadronito delle province e delle legioni di Lepido e di Sesto Pompeo; che arruolava eserciti in Italia quasi la Penisola fosse di sua esclusiva signoria, mentre apparteneva a Ottaviano come ad Antonio. Gli si oppose violentemente il tribuno della plebe Nonio Balbo, aizzando nel contempo il popolo della Suburra contro la «puttana» d’Egitto. Derisi, insultati, i due consoli, seguiti da trecento senatori, abbandonarono Roma per raggiungere Antonio. Ottaviano, a cui non mancava l’ironia, si vantò davanti al popolo di tanta liberalità. E fu l’inizio di una guerra psicologica e di propaganda, parallela a quella che poi si combatté in mare e sui campi del golfo di Ambracia. Una guerra simile non era del tutto nuova, l’aveva instaurata Cicerone con le Filippiche per giustificare la guerra di Modena contro Antonio (il «pazzo criminale»);

Mecenate, sotto la regía incomparabile di Ottaviano, la portò alla perfezione, impiantando una specie di ufficio stampa e propaganda per l’organizzazione del consenso. Agganciò anche l’«intellighenzia» del tempo: Orazio, che era scappato a Filippi; Virgilio, che aveva perduto per esproprio i campi paterni; poi Tito Livio, lo storico, e i poeti Tibullo e Properzio; non però lo storico e generale Asinio Pollione, la cui storia sulla guerra aziaca circolerà segreta e negletta. All’indomani dell’abbandono dei consoli Ottaviano raduna il Senato. Leggendo le ultime lettere giunte da Alessandria, alza via via i toni, si infiamma, poi, incapace di controllarsi (recitava meravigliosamente), si straccia le vesti e invoca gli dèi di Roma quali giudici della santità dei diritti della repubblica. Antonio, dice, ha fatto ad Alessandria scempio dell’autorità del Senato e del popolo romano: come se fosse un monarca d’Asia, ha regalato regni a Cleopatra e ai figli di lei. Con quale diritto, visto che gli sono stati revocati consolato e qualsiasi altra magistratura? Mai la dignità, la gloria, il prestigio di Roma erano caduti cosí in basso, e tutto per soddisfare le smanie di potere di una donna. La regina d’Egitto. Da consumato politico Ottaviano monopolizza la scena, conosce i tempi, le suggestioni della retorica e sposta su Cleopatra la lotta per il potere del mondo, capovolgendo la guerra civile in guerra di difesa della civiltà romana, contro la dilagante corruzione e le barbarie orientali. L’Occidente contro l’Oriente, uomini liberi contro un mondo di schiavi. Per Roma Cleopatra era la «puttana» d’Egitto, e il giuramento di Antonio su Tolomeo Cesare figlio legittimo del dittatore, davanti all’altare degli dèi ad Alessandria, testimoniava soltanto l’ennesima debolezza e confusione di un uomo, soggiogato da anni dalla malía dell’Egiziana. La guerra era, insomma, inevitabile. Tutti e due la volevano. Con maggiore determinazione Ottaviano, che credeva di avere i dadi truccati per vincere. Inoltre, sia lui che Agrippa erano convinti che l’Antonio di Filippi si era perduto nelle notti

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Il grande mosaico policromo raffigurante il Nilo e il paesaggio egiziano, realizzato a Praeneste (Palestrina) da artisti alessandrini alla fine del II sec. a.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. Scoperto agli inizi del XVII sec., costituiva in origine il pavimento dell’abside di un edificio che si affacciava sull’antica piazza del foro di Praeneste, la cosiddetta Aula Absidata.

ubriache di Alessandria. Ad avvalorare le loro certezze arrivarono a Roma, scappati da Alessandria, Marco Tizio e Munazio Planco, ambedue intimi di Marco Antonio. Tizio si era reso complice dell’uccisione a tradimento di Sesto Pompeo; Planco, personaggio esemplare del tempo (Velleio Patercolo lo definisce «traditore per morbosa predisposizione»), era espertissimo nel sapersi destreggiare con gli «accidenti» della politica, nonché nello scegliere il momento opportuno per cambiare di campo. Cesariano e anticesariano dopo le Idi di marzo, antoniano, ciceroniano, di nuovo antoniano per finire nelle plaghe adulatorie di Ottaviano. Il loro voltafaccia fu di rilevanza enorme, e per due motivi: il primo, che conoscevano i piani militari di Antonio, il numero delle navi e delle legioni, sicché Vipsanio Agrippa, a cui Ottaviano affidava il comando delle operazioni, si trovò avvantaggiato nel predisporre la strategia che l’avrebbe portato ad Azio; l’altro motivo (ancora piú determinante ai fini della

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propaganda politica) fu la rivelazione del testamento di Antonio, che sia Tizio che Planco avevano sigillato.

L’acquiescenza dei senatori Il testamento era presso le Vestali. Senza alcuna remora di ordine morale, Ottaviano se lo fa consegnare, lo dissigilla, poi convoca il Senato e lo rende pubblico. Alcuni punti erano noti: che lui, Antonio, aveva sposato Cleopatra, che da lei aveva avuto tre figli, che Tolomeo Cesare era il legittimo figlio di Cesare. La novità: nonostante la nascita patrizia, consolati e proconsolati e il triumvirato, voleva essere sepolto in Egitto accanto a Cleopatra. L’ultimo punto offrí il destro a Ottaviano di presentarlo come un rinnegato della patria e succube della regina. Né gli ci volle molto a sollevare sdegni e risentimenti tra i senatori, che dalle proscrizioni del 43 a.C. avevano dimenticato sia il significato della parola libertà sia il concetto di indipendenza di giudizio; tanto che non solo accettarono,


Particolare del mosaico nilotico di Palestrina. Sotto un elegante propileo, sfila una processione di sacerdoti, che portano una lettiga sostenente un candeliere. Seguono altri sacerdoti e un gruppo di donne cinte da corone di alloro, con tamburi, un doppio flauto e rami di palma. Alla destra del propileo, su un piedistallo, si vede la statua di un cane seduto, il dio Anubi, guida e protettore dei morti. La scena potrebbe essere la rappresentazione di una cerimonia connessa al culto di Osiride e al rituale della sua resurrezione, legato simbolicamente al ciclo stagionale connesso con la piena del Nilo.

credettero a tutto quello che Ottaviano ritenne far loro credere, ma anche alle voci che la propaganda di Mecenate aveva messo in giro e poi gonfiate ad arte. Se mai Antonio, si diceva, fosse rimasto vittorioso sul campo, la vera vincitrice sarebbe sempre stata Cleopatra e Alessandria la nuova capitale dell’impero. La lettura del testamento in Senato (ben presto portato a conoscenza anche del popolo e, s’intende, con le dovute amplificazioni) fu la piú intelligente, cinica mossa politica di Ottaviano e, si può dire, la sua prima e decisiva vittoria su Antonio.

Una processione solenne Da allora il proconsole d’Asia, battuto disastrosamente sul piano psicologico e propagandistico, perse giorno dopo giorno credito e simpatia tra il popolo, come tra le file dei veterani. Al contrario Ottaviano. Che vi aggiunse il tocco finale con la coreografia cara alle folle. In solenne processione si reca in Campo Marzio, ripristinando un vecchio rito e

brandendo la lancia, immersa nel sangue di una vittima del tempio di Bellona, la dea della guerra. E in quell’atmosfera di riti magici, di tensioni emotive, di odi nazionali scandisce alla folla il discorso di guerra contro la regina d’Egitto. Per tenerli in pugno aveva riscoperto la vecchia retorica patriottica. Né gli fu poi difficile, sull’onda dei consensi, imporre contributi in denaro, di cui aveva assoluto bisogno, ottenere il giuramento volontario degli oltre settecento senatori, di tutti i cittadini dell’Italia e delle province, dei legionari. In difesa di Roma contro la piovra della corruzione orientale e le avidità imperialistiche di Cleopatra, tota Italia si schierava a fianco di Ottaviano. L’erede di Cesare contro il falso figlio dell’imperator. Né mancarono senatori (Oppio, fra questi, un tempo amicissimo di Cesare e assiduo frequentatore della villa del Gianicolo, dove risiedeva Cleopatra) che giurarono e spergiurarono che Cesarione non era affatto il figlio di Cesare, ma di un qualunque amante occasionale che l’Egiziana si era portato a letto.

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UN UOMO SOLO AL COMANDO LA VITTORIA CONTRO MARCO ANTONIO RIPORTATA AD AZIO SPIANA LA VIA A OTTAVIANO. CHE, IN QUALITÀ DI «AUGUSTO», DIVENTA ARBITRO SUPREMO DEI DESTINI DI ROMA

Cleopatra e Ottaviano, olio su tela di Louis Gauffier. 1787-1788. Edimburgo, National Gelleries of Scotland.

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LA CONSACRAZIONE

F

orse il primitivo disegno strategico di Antonio era di portare la guerra in Italia. È probabile che non poco rispecchiasse la volontà di Cleopatra. Da mesi ad Alessandria erano rispuntate fuori vecchie profezie ellenistiche sulla conquista di Roma da parte di gente dell’Asia – profezie che facevano preciso riferimento a una donna. L’allusione era scontata. Ci credeva davvero Cleopatra? Per i suoi sogni di dominio quindici anni prima aveva puntato su Cesare, pegno il figlio nato ad Alessandria e portato a Roma. Ma il vincitore della Gallia e della guerra civile, per quanto affascinato da lei e incline a una concezione universale dell’impero, non avrebbe mai rinnegato il primato di Roma. A fronte della gelida determinazione di Ottaviano le rimaneva Antonio. Dai deserti della Mesopotamia si era forse aspettata il ritorno di un Alessandro: vide un uomo ripiegato su se stesso che non aveva neppure il coraggio di guardarla negli occhi. Si fece carico di rincuorarlo, pungolandone l’orgoglio e insieme mettendogli a disposizione tutte le forze d’Oriente. Rispetto a Ottaviano, Antonio contava su una superiorità di mezzi, soprattutto di denaro, non di uomini. Ed era in vantaggio sulla preparazione. Il guaio è che non gli apparteneva la rapidità delle risoluzioni. Ancora una volta, cosí come dilapidava ricchezze, buttò via un tempo prezioso attardandosi in Asia a Efeso, poi in Grecia ad Atene e, quando si decise ad attestarsi in Epiro, la scelta fu suicida: il golfo di Ambracia. Era largo all’imbocco non piú di mezzo miglio, protetto sí dall’una parte e dall’altra, ma all’interno insalubre, paludoso, umidissimo. Una trappola.

Una mossa geniale Intanto l’esercito di Ottaviano sbarcava indisturbato a nord del golfo e si poneva di fronte a quello antoniano, mentre la flotta di Vipsanio Agrippa si rendeva padrona del mare. E fu proprio quest’ultimo che ai primi di marzo (31 a.C.) dette l’avvio alla guerra per mare, occupando, improvvisamente e con una mossa geniale e audacissima, Methone, nella punta

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Ritratto di Augusto. Manifattura egiziana, età tolemaica. Alessandria, Museo Greco Romano.


ALBANIA Bari

Skopje

BULGARIA

MACEDONIA DEL NORD

Tirana

ITALIA Lecce

GRECIA Cosenza

Mar Ionio

Reggio di Calabria

Mar Egeo

Nikòpolis (Battaglia di Azio)

I s o l e I o n i e

TURCHIA

Atene Peloponneso

Mar Mediterraneo

A sinistra cartina della regione balcanica, con gli attuali confini politici e la localizzazione di Nikopolis, fondata sul sito della battaglia di Azio. In basso ritratto di Cleopatra VII in età giovanile, rinvenuto a Roma presso la Villa dei Quintili. Scultura forse realizzata non oltre il 48 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

C i c l a d i

estrema del Peloponneso occidentale. Methone era il caposaldo piú determinante, il punto di sutura che legava il retroterra greco all’Egitto. Caduto Methone, era perduta la via di rifornimento per la flotta e l’esercito di Antonio e Cleopatra. Fu la svolta decisiva della guerra aziaca. Ingabbiato com’era nel golfo di Ambracia, la posizione militare di Antonio divenne insostenibile a mano a mano che passavano i giorni. Incominciarono le diserzioni. Allora Antonio tentò di venire a battaglia con l’esercito di terra. Ottaviano rifiutò. Sapeva che l’altro non aveva scampo. Velleio Patercolo dice che ad Azio «la vittoria della parte cesariana era sicurissima prima che si venisse alle armi. Di qua soldati e comandante pieni di vigore, di là tutto era infrollito». La battaglia di Azio ebbe luogo il 2 settembre (31 a.C.). Iniziò tardi, all’ora sesta (mezzogiorno). Antonio schierò le sue navi, alte, mastodontiche, lente nella manovra, su una linea diritta per tutto lo spazio della

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LA CONSACRAZIONE

Fregio con un rilievo raffigurante due navi da guerra, forse da Cuma. II-I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

imboccatura del golfo, una specie di muraglia galleggiante armata di torri e di catapulte. L’idea era di aspettare l’attacco dalle navi di Agrippa, piú numerose, piú piccole, piú veloci. Ma lo svolgimento della battaglia andò in tutt’altra maniera. Gaio Sosio, che comandava la sinistra antoniana e che poi tradí, si mosse al largo contro l’ala destra avversaria. Per il movimento in avanti di Sosio tutta la linea di Antonio si disuní, perdette la sua forza reale che consisteva nella compattezza. Lo stesso accadde all’ala destra, attaccata di fianco da Agrippa. Rotta la linea del fronte, si creò un grosso vuoto al centro e su questo vuoto si buttarono, a vele spiegate, le sessanta navi egiziane di Cleopatra. Il resto non ha storia.

La fuga di Cleopatra Al contrario di quanto è stato scritto da storici dell’epoca – soggetti, inutile ripeterlo, alla propaganda di Ottaviano –, la «fuga» di Cleopatra fu il solo risultato utile conseguito dalla parte antoniana dopo il disastro tattico della battaglia. Cleopatra vi aveva imbarcato tutto il suo tesoro privato. Se Antonio doveva continuare la guerra in altre parti del mondo e in condizioni diverse dalle attuali, il tesoro dei Tolomei gli era indispensabile. Scomparsa Cleopatra dalle acque di Azio, Antonio le andò dietro. Non poterono invece inseguirla né le navi di Agrippa, né quelle di Ottaviano per il vento che, spirando dal golfo,

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gonfiava le vele egiziane. Gaio Sosio aveva tradito; Domizio Enobarbo, console dell’anno precedente, e Dellio, altro amico di Antonio, erano passati a Ottaviano alla vigilia della battaglia; le legioni, spettatrici da terra e dello scontro navale e della «viltà» di Antonio, si arresero dopo qualche giorno. Ottaviano distribuí colpe e premi ai re e alleati d’Asia con rigorosa misura e senza perdoni. A Roma lo aspettavano plausi, sacrifici di centinaia di vittime sulle are degli dèi, e ghirlande, archi di trionfo, adulazioni a non finire, ma anche – e lo sapeva bene – l’annoso problema dei veterani. Non aveva fondi per soddisfare le promesse fatte loro prima della campagna aziaca. L’Egitto, ovvero il tesoro dei Tolomei, rappresentava l’unica soluzione ai suoi impegni e guai finanziari. Aveva tempo. Per intanto Azio gli dette un potere eccezionale, personalissimo, dittatoriale nella sostanza senza esserlo nella forma. Anzi, per salvare i rimasugli di una parvenza repubblicana (e in questo era ineguagliabile), già prima di Azio si era fatto nominare console per l’anno 31 a.C. Era la terza volta; console lo sarà, poi, ogni anno fino al 23 a.C. Azio, comunque, divenne subito dopo e piú ancora negli anni non soltanto principio e simbolo perenne del suo potere, ma insieme memoria della sua gloria militare. In realtà, perfino in Velleio Patercolo, storico piú o meno contemporaneo, si legge che ad Azio «la


Cammeo in sardonica raffigurante Augusto su un carro trainato da tritoni, probabilmente realizzato all’indomani della vittoria

riportata ad Azio. 27 a.C. circa (la cornice in oro con smalti e perle è degli inizi del XVII sec.). Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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LA CONSACRAZIONE

direzione suprema della battaglia navale» era di Agrippa, «mentre Ottaviano (era) destinato ad accorrere dove le sorti del combattimento lo avessero richiesto». Nominalmente «ovunque presente», in

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pratica uno spettatore vigilante. A ogni modo l’alone della leggenda non tardò, nel coro delle adulazioni orchestrate dalla propaganda politica, a incoronare la vittoria di Azio e a suggellarla con il segno di un

Il piccolo ed elegante odeion fatto costruire da Augusto a Nikopolis.


fato glorioso. Ronald Syme, il piú acuto studioso del periodo, scrive che Azio divenne «la saga della natività nella mitologia del principato». Dal canto suo Ottaviano non fu da meno: consacrò la

vittoria ad Apollo Aziaco (con il che, indirettamente, si ricollegava alla rivelazione materna della sua nascita), dedicandogli l’indomani triremi e quadriremi, tratte dal bottino delle navi

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LA CONSACRAZIONE

catturate, e dette poi l’ordine di ingrandire, ricostruendolo, il vecchio tempio dello stesso Apollo. Non basta. «Perché il ricordo di Azio – aggiunge Svetonio – risultasse piú famoso per l’avvenire, fondò presso Azio la città di Nicopoli e vi istituí giochi quinquennali (Ludi Aziaci)». Dunque, l’Egitto. Antonio non era piú una minaccia, né aveva un esercito valido da contrapporgli. Lui e Agrippa avevano visto giusto: l’Antonio di Filippi si era giocato un impero nelle notti ubriache di Alessandria.

I legionari in tumulto La prima tappa Samo. Ma vi è appena sbarcato che deve riprendere il mare: a Brindisi legionari congedati e reduci da Azio sono in tumulto. Era inverno, il tempo meno adatto alla navigazione. Ottaviano non difettava né di coraggio, né di rapide decisioni. Parte per l’Italia, subisce due naufragi. L’imperterrita fortuna, che lo accompagna ovunque, gli consente e di arrivare sano e salvo in porto e di

sedare le rabbie e le impazienze dei legionari. Anzi, spenti i mugugni e i focolai di rivolta, senatori, esponenti del ceto equestre, popolani, veterani, arrivati in gran numero a Brindisi, finiscono per inchinarsi e tributare acclamazioni entusiastiche al divi Caesaris filius. E fu proprio la «pace sociale» ristabilita – facendogli sentire piú acuto, incombente il pericolo o timore di richieste di terre, di premi straordinari, di congedi da parte dell’esercito – a spingerlo imperiosamente al vero e solo obiettivo della guerra aziaca: l’Egitto e il tesoro dei Tolomei. Erano la preda necessaria per la sua fame di denaro. Al momento l’avrebbero messo al riparo dalle esigenze di un esercito sempre piú numeroso, per di piú costituito da volontari, e insieme l’avrebbero sottratto alle forche caudine di angariare, con tassazioni impopolari, i cittadini romani. A primavera inoltrata era in Siria, in estate al Pelusio (sulla foce orientale del Nilo). Cleopatra non si faceva illusioni sulla freddezza omicida di

L’ultima dinastia d’Egitto Tolomeo I Sotere 305 a.C.-283 a.C.sposa Euridice, poi Berenice I Tolomeo II Filadelfo 285 a.C.-246 a.C. sposa Arsinoe I, poi Arsinoe II Tolomeo III Evergete I 246 a.C.-221 a.C. sposa Berenice II Tolomeo IV Filopatore 221 a.C.-204 a.C. sposa Arsinoe III Tolomeo V Epifane 204 a.C.-180 a.C. sposa Cleopatra I Tolomeo VI Filometore 180 a.C.-164 a.C., 163 a.C.-145 a.C. sposa Cleopatra II Tolomeo VII Neo Filopatore 145 a.C.-144 a.C. Tolomeo VIII Evergete II Fiscone 170 a.C.-163 a.C., 144 a.C.-132 a.C., 124 a.C.-116 a.C. sposa Cleopatra II, poi Cleopatra III, il figlio Tolomeo Apione regna sulla Cirenaica Cleopatra II 131 a.C.-127 a.C. in opposizione a Tolomeo VIII Tolomeo IX Sotere II Latiro 116 a.C.-110 a.C., 109 a.C.-107 a.C., 88 a.C.-81 a.C. sposa Cleopatra IV, poi Cleopatra Selene; regna insieme a Cleopatra III nel suo primo regno Tolomeo X Alessandro I 107 a.C.-88 a.C. sposa Cleopatra Selene, poi Berenice III; regna insieme a Cleopatra III fino al 101 a.C. Berenice III 81 a.C.-80 a.C. Tolomeo XI Alessandro II 80 a.C. regna insieme alla moglie Berenice III, dopo averla uccisa, da solo per 18/19 giorni Tolomeo XII Neo Dioniso (Aulete) 80 a.C.-58 a.C., 55 a.C.-51 a.C. sposa Cleopatra V Cleopatra V Trifena (58 a.C.-57 a.C.) regna insieme a Berenice IV (58 a.C.-55 a.C.) Cleopatra VII Thea Filopatore 51 a.C.-30 a.C. Tolomeo XIII 51 a.C.-47 a.C. insieme a Cleopatra VII Arsinoe IV 48 a.C.-47 a.C. in contrasto con Cleopatra VII Tolomeo XIV 47 a.C.-44 a.C. insieme a Cleopatra VII Tolomeo XV Cesarione 44 a.C.-30 a.C. insieme a Cleopatra VII

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UN INCONTRO TRA GRANDI LIGNAGGI TOLOMEO XII

CLEOPATRA V ARSINOE IV

BERENICE IV

TOLOMEO XIII

TOLOMEO XIV

1

3

2

4 GIULIO CESARE

CLEOPATRA VII TOLOMEO XV CESARIONE

La discendenza di Tolomeo XII Aulete (Flautista). 1. Ritratto di Tolomeo XII. Metà del I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. 2. Il cosiddetto Cesare Chiaramonti, testa di Giulio Cesare. Età giulioclaudia. Città del Vaticano, Musei Vaticani. 3. Cleopatra VII, rilievo del tempio della dea Hathor a Dendera. Epoca greco-romana. 4. Cammeo di Marco Antonio come Alessandro Magno. Età ellenistica. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Ottaviano. Non avrebbe risparmiato Antonio, e questo era plausibile per quello che era stato; tanto meno lei, la regina d’Egitto, alla quale addebitava tutte le colpe di una guerra che lui, Ottaviano, aveva voluto e perseguito con implacabile determinazione. E aveva vinto.

In difesa dei figli La ragione stava sempre dalla parte dei vincitori. Prima da quella di Cesare, poi di Antonio, adesso di Ottaviano. Lei aveva sbagliato con Antonio: cosí vigoroso, gagliardo, eroico, spaccone, magnanimo, prodigo; per un giro di lune aveva abbagliato la sua debolezza femminile; le aveva dato tre figli. Ma infine era un Marco Antonio che aveva avuto in sorte, dopo la grande meteora di Cesare. Il suo tempo di regina era finito. Aveva ora un solo scopo: proteggere i figli. Tolomeo Cesare soprattutto. Aveva diciassette anni. Gli Egiziani dicevano che ricordava loro il «conquistatore». Sperava di salvarlo dagli artigli di Ottaviano. Un filosofo, Didimo Areo, che di recente accompagnava l’erede del dittatore romano, si

ALESSANDRO HELIOS

MARCO ANTONIO CLEOPATRA SELENE

TOLOMEO FILADELFO

era lasciato sfuggire una battuta: che non era opportuno vi fossero «molti Cesari». Consiglio del tutto superfluo per l’«adottato». Non aveva preso dal lato materno dei Giuli, aveva ereditato qualità e carattere dagli Ottavi, che non erano generali, ma banchieri e usurai. E Cleopatra si rendeva perfettamente conto come proprio Tolomeo Cesare, proclamato in piú occasioni figlio legittimo di Cesare, Ottaviano non l’avrebbe mai tollerato. Mandò il figlio a sud fino a Coptos con l’intenzione di raggiungere il porto di Berenice e da lí salpare per l’India, con la quale l’Egitto aveva rapporti commerciali. L’India era stata il punto di arrivo della stupefacente cavalcata di Alessandro. E poteva essere di auspicio per il giovane figlio di Cesare. L’altro, l’erede reale, al Pelusio non vide neppure l‘ombra di una resistenza. Gli Egiziani si arrendevano e Ottaviano arrivò alle porte di Alessandria. Per un giorno Antonio ritrovò l’antico impeto e valentía militare. Uscito dalle mura con la cavalleria, attaccò l’avanguardia di Ottaviano, la fece a pezzi fino agli steccati

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LA CONSACRAZIONE

dell’accampamento. Nei giorni che seguirono preparò un attacco simultaneo da terra e dal mare. Se non di fiducia, era acceso di orgoglio. Dall’alto della collina vide la flotta egiziana muoversi all’ora stabilita contro quella romana: ma invece di combattere, i marinai alzavano i remi in segno di resa. Fu la resa anche per Antonio. Tutti lo abbandonavano. Rientrando in città gli dissero che Cleopatra si era suicidata. Allora chiamò Eros, lo schiavo rimastogli accanto, e gli impose di rispettare il

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giuramento: ucciderlo quando gliel’avesse richiesto. Lo schiavo sguaina la spada, la solleva, ma invece di colpire Antonio trafigge se stesso da parte a parte. Per Marco Antonio fu l’ultima umiliazione. Né riuscí a colpirsi con la fermezza dello schiavo. Lo scoprirono i servi ripiegato su un fianco e rantolante e lo portarono al Mausoleo, scelto a dimora-rifugio dalla regina. E, fra le braccia di Cleopatra, Marco Antonio chiuse, abbastanza malamente, i suoi conti con la storia.

Il Faro di Alessandria nella ricostruzione dell’architetto, scultore e incisore Johann Bernard Fischer von Erlach, dal trattato Entwurf einer historischen Architektur in Abbildung. Vienna 1721.


A destra statua in marmo del dio Anubi, da Cuma. I sec. a.C.-I sec. d.C. Bacoli, Museo Archeologico dei Campi Flegrei nel Castello di Baia.

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LA CONSACRAZIONE

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Nella pagina accanto Antonio morente viene portato a Cleopatra, olio su tela di Eugène-Ernest Hillemacher. 1863 circa. Grenoble, Musée de Grenoble. Cassio Dione tramanda che, per assicurarsi la resa di Cleopatra, Ottaviano mandò alla regina il liberto Tirso con falsi messaggi, per convincerla a trattare e a tradire Antonio.

Adesso la regina d’Egitto, il fatale monstrum oraziano, era sola di fronte al cinismo inesorabile, ma ovattato, di Ottaviano. Fin dal ritorno in Egitto, dopo Azio, aveva cercato di «negoziare» con lui per i figli. Sapeva di avere una carta da barattare: il tesoro dei Tolomei.

Il tesoro nascosto L’aveva ammassato nel Mausoleo – appositamente costruito da lei – insieme con materiale infiammabile, sicché all’occorrenza poteva trasformare lo stesso Mausoleo in una gigantesca pira. Ed era quello, del resto, che temeva Ottaviano. Fu un gioco di astuzia e di intelligenza, recitato sui diversi piani dell’ipocrisia dall’uno e dall’altra. Vinse, come era prevedibile, Ottaviano. Aveva le carte migliori: l’auri sacra fames di un discendente di usurai, contro l’amore filiale di una regina. Ottaviano aveva già fatto trucidare Antillo, primogenito di Antonio e di Fulvia, strappandolo dal tempio consacrato a Cesare; meno formale l’omicidio di Tolomeo Cesare: lo scannarono direttamente nel tempio di Osiride al porto di Berenice. Con il morso dell’aspide Cleopatra evitò la beffa estrema di essere trascinata a Roma dietro il carro del vincitore fra le grida, gli insulti, il ludibrio del popolo della Suburra e del Velabro. Al ritorno di Ottaviano peana per i suoi trionfi, inchini, giuramenti di fedeltà incondizionata, ma anche vecchie e nuove avidità affocarono Roma come il sole d’agosto. La metafora è quanto mai attinente all’evento, giacché Ottaviano arrivò a Roma dall’Oriente proprio nel mese di agosto del 29 a.C. E il cielo era uno specchio concavo. Per tre giorni di seguito la capitale dell’impero assistette alla magnificenza di tre trionfi: per le campagne nell’Illirio, per la guerra di Azio, per la guerra di Alessandria. Finalmente l’Italia, Roma, le province uscivano dall’incubo di sacrificare vittime al Moloch insaziabile della guerra civile. Vent’anni, piú o meno ininterrotti: dal Rubicone, alba dell’11 gennaio del 49 a.C., al caldo mattino di Alessandria dell’ottobre del 30 a.C. E del tono o clima delle celebrazioni e delle

glorificazioni ci offre un esempio Velleio Patercolo: «Nulla possono gli uomini chiedere agli dèi, né gli dèi concedere agli uomini, nulla può essere vagheggiato con desiderio, nulla può essere realizzato con pieno successo, che non sia stato posto in opera da Ottaviano (Augusto), dopo il suo ritorno a Roma, in favore dello Stato, del popolo romano, del mondo». Per le genuflessioni di rito o le alterigie servili ormai non era piú Cesare Ottaviano, ma il divi Caesaris filius. Il coro degli elogi continua: restituí il lavoro ai campi, il rispetto alla religione, la sicurezza ai cittadini; modificò vecchie leggi e ne sancí di nuove, rivide e aggiornò numero e prestigio morale dei senatori. Il che, ovviamente, lo portò a depennarne un certo numero (centoquaranta), sostituendoli con personaggi nuovi e ligi al potere del «principe». Insomma, la pax Augusti, con la chiusura delle pesanti porte di bronzo del tempio di Giano (da piú di cento anni erano rimaste ininterrottamente aperte) e l’avvio a una nuova età dell’oro.

Tempo di pace e di corruzione Il punto è che accanto al «principe» agiva una società che, in modo tumultuoso e arrendevole, viveva il passaggio dalla repubblica all’impero. Le conquiste, le ricchezze affluite a Roma specialmente dall’Oriente (e con esse la corruzione e i fastigi del lusso), poi le guerre civili con la vita messa all’incanto giorno dopo giorno, infine la libertà sessuale delle donne avevano portato al rivolgimento dei costumi. Apogeo e decadenza morale si confondevano e si mischiavano. Roma non era mai stata cosí forte, cosí bene organizzata, ma i Romani non erano piú quelli di Scipione, di Silla, di Cesare; erano i Romani di Ovidio. Non animati dall’ambizione di farsi onore nelle cariche pubbliche, ma spinti piuttosto dall’ansia di primeggiare nella elegante e opulenta società degli affari. Né le loro energie erano volte a imprese belliche, alla conquista di mura straniere, bensí a quella delle giovani mogli dei loro amici e conoscenti. (segue a p. 64)

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LA CONSACRAZIONE

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Bassorilievo con Augusto in veste di faraone, dal tempio di Kalabsha, Bassa Nubia. I sec. a.C. Figéac, Musée Champollion.

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Questa dorata società del denaro e dei piaceri entrò nell’impero senza accorgersene, certo senza traumi. Come le giovani matrone che si lasciavano volentieri sedurre e lusingare, cosí la società si lasciò conquistare da Augusto. Non desiderava di meglio, nauseata com’era della politica, dopo un secolo di sangue e di guerre civili. Augusto fu allora l’uomo giusto al momento giusto. E tuttavia – nonostante la sua freddezza di giudizio e la volontà quasi eroica di censore dei costumi – incapace di sovvertire l’andazzo dei tempi e di districarsi dalle soffici maglie della corruzione morale, che era nelle cose e annidata nella vastità e nella prosperità stessa dell’impero.

I dubbi del vincitore Nel 29 a.C. Ottaviano ha trentaquattro anni, è malato alla gola, ne ha sofferto per tutto il viaggio di ritorno, dall’Asia alla Grecia, all’Italia. A Roma, nel lungo abbaglio dei trionfi, lo ha stordito il calore pressante della folla. Ora che non ha piú nemici da combattere, avverte perfino un certo fastidio del potere. Si isola ad Atella, volontariamente. Pensa addirittura al gran rifiuto: ritirarsi dalla vita politica. È veramente stanco e magari preoccupato della propria salute? In un politico come lui, implacabile nell’ambizione, il limite del reale e dell’immaginario era un filo teso dalla fortuna. Gli era sempre stata favorevolissima e lo sarà fino agli ultimi dieci, quindici anni di vita. Ma nella solitudine di Atella ebbe, forse, improvviso, qualche dubbio. Si precipitarono a raggiungerlo Marco Vipsanio Agrippa e Caio Cilnio Mecenate, le due colonne dell’impero. Insieme tornano a Roma e convocano il Senato. Era inverno. Consoli per l’anno 27 a.C. Ottaviano e Agrippa. Il giorno, 13 gennaio. Nella Curia si respirava un senso di frustrazione e di attesa. Infine Ottaviano si alza e comincia a parlare. Non è un oratore impetuoso come Cesare, ma piuttosto

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A destra rilievo dal mammisi («casa della nascita») fatto erigere da Augusto a File (Egitto). I sec. a.C. In basso ritratto in marmo di Augusto, rinvenuto a Sakha, nella regione del Delta del Nilo, 150 km a sud-est di Alessandria. 27 a.C. circa. Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum.


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conciso, chiaro e dal tono misurato. Riassume quello che ha fatto, le guerre combattute, gli incarichi portati a termine, parla di cifre, elenca l’inventario dei beni dello Stato. Poi, a conclusione, la frase netta e tagliente come una spada: «Depongo tutti i miei poteri, e vi rendo le armi, le leggi, i popoli soggetti». Naturalmente l’effetto fu sorprendente. Come un fulmine di Giove. L’emiciclo prima in silenzio, poi scoppia in una acclamazione incontenibile, liberatoria, sincera. Lo stesso accade fuori della Curia con il popolo. Anzi, dall’eccesso di affetto lo salvano i suoi amici e, comunque, Ottaviano è portato di

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peso fino a casa fra due ali di folla tripudiante. Come al solito, era stato abilissimo nello scandire i tempi di intervento, scegliere le parole adatte, scatenare, si può dire a comando, le emozioni. E aveva ottenuto l’effetto desiderato.

Augusto di nome e di fatto Ufficialmente, rinunciando a tutti i poteri, aveva ristabilito la «repubblica». Sarà, ora, il Senato in ginocchio a pregarlo di riprenderseli tutti: console ogni anno, censore (da quarantadue anni non ne era stato piú eletto uno), principe del Senato, imperator degli eserciti; in pratica

File (Egitto). Il dromos che dà accesso ai templi. La struttura, iniziata in epoca tolemaica, fu portata a termine in età augustea, all’indomani della vittoria di Azio.


In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

In alto il cammeo Blacas. 14-20 d.C. Londra, British Museum. Realizzato in sardonica, il monile mostra Augusto che indossa l’egida di Minerva. La corona è frutto di un rifacimento medievale, poiché in origine il capo dell’imperatore doveva essere cinto di alloro.

dittatore senza averne il titolo. Tre giorni dopo (16 gennaio 27 a.C.) Munazio Planco, o perché folgorato dalla grandezza di Ottaviano o per basso servilismo, propone in Senato di chiamare Ottaviano con il nome di Augusto. Non era un semplice attributo o riconoscimento formale. Il termine era tolto dalla terminologia sacrale e religiosa e significava conferire alla persona di Cesare Ottaviano un carattere sacro, semidivino o meglio di rappresentante della divinità in terra. Da questo momento, si può aggiungere, ha inizio l’impero. Nelle Res Gestae Ottaviano Augusto detterà: «Per questi miei meriti

(l’aver, cioè, rinunciato a tutti i poteri), con decreto del Senato ebbi l’appellativo di Augusto, la porta della mia casa fu pubblicamente ornata di alloro, e sull’entrata fu affissa una corona civica; nella Curia Iulia fu posto uno scudo d’oro che lo attesta (...) Dopo di che fui superiore a tutti in autorità, benché non avessi un potere maggiore degli altri, che (di volta in volta) mi furono colleghi nelle magistrature». La raffinata capacità di Augusto di stravolgere la realtà dei fatti (le Res Gestae furono l’ultimo documento politico) rimase fino in fondo il piú usuale e sorprendente canone della sua politica.

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ARA PACIS

IL BIANCO E I COLORI

di Orietta Rossini

Autore Autore

F

ino a qualche decennio addietro, la policromia dei marmi antichi non è stata al centro degli interessi degli archeologi italiani, o almeno non come lo è stata per quelli tedeschi tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. In Italia

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dobbiamo superare la metà del Novecento per trovare le prime notevoli eccezioni, tra le quali un saggio del 1954 di Michelangelo Cagiano de Azevedo, il cui merito principale è quello di aver sottolineato l’importanza della questione, e l’interessante ipotesi


Un altare per la pace di Augusto

L’

L’Ara Pacis cosí come si presenta oggi, musealizzata all’interno della struttura progettata dall’architetto Richard Meier e inaugurata nel 2006.

di colorazione della Colonna Traiana avanzata da Ranuccio Bianchi Bandinelli nell’ambito di un ciclo di trasmissioni curato per la RAI da Cesare Brandi. Per questo motivo è tanto piú notevole il tentativo fatto nel 1937 dall’archeologo che ricompose l’Ara

Ara Pacis Augustae («L’altare della pace di Augusto») è il monumento votato dal Senato di Roma il 4 luglio del 13 a.C. in onore dell’uomo che aveva restituito la pace ai Romani dopo anni di guerra civile. Ultimato nel 9 a.C., l’altare è composto da un recinto con due fronti di 11,63 m e due lati di 10,625 m. Sui lati esterni e interni del recinto corre il fregio decorativo, considerato un capolavoro della scultura classica. Esso intendeva testimoniare il benessere e la pace come risultati della pax Romana (la «pace di Roma») istituita da Augusto. In quanto tale, però, il monumento è anche un esempio dell’autorappresentazione pubblica e politica di un condottiero romano. In origine l’Ara era situata lungo la via Flaminia (l’odierna via del Corso) presso il Campo Marzio, dove costituiva, insieme al mausoleo e al grande orologio solare dello stesso Augusto, un’unità monumentale e simbolica. Abbandonata e dimenticata per secoli, dell’Ara Pacis furono ritrovati alcuni frammenti della decorazione per la prima volta nel Cinquecento, poi dispersi nelle principali collezioni di antichità (Villa Medici, Louvre). Nel 1903 iniziarono i primi scavi sistematici. Nel 1938 l’altare fu ricomposto e allestito in una teca di vetro nei pressi del Mausoleo di Augusto. Nel 2006 è stato inaugurato il nuovo Museo dell’Ara Pacis progettato da Richard Meier. (red.)

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Pacis, Giuseppe Moretti, per impostare su basi scientifiche la questione della policromia originaria dell’altare augusteo. Dopo aver diretto lo scavo del monumento ed estratto la «lastra dei Flamini» dal sottosuolo del Campo Marzio, nell’aprile del 1937 Moretti aveva l’accortezza, purtroppo ancora oggi rara, di prelevare un campione di una patina bruna In alto, sulle due pagine la scena di processione che corre sul lato meridionale dell’Ara Pacis. Vi partecipano i membri piú importanti della famiglia imperiale. Sulla sinistra, Augusto (vedi particolare nella pagina accanto).

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Villa Borghese Piazza del Popolo

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DOVE E QUANDO Via

ROMA

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Piazza della Libertà

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Museo dell’Ara Pacis

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Accademia Belle Arti

Piazza Cavour

Mausoleo di Augusto San Carlo al Corso Palazzo Borghese

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presente sul fondo di una patera (una coppa rituale) scolpita sulla parte interna della lastra appena estratta, per cercare di appurare sulla base di analisi fisico/chimiche quella che già era una sua convinzione, e cioè che «come sulla grandissima maggioranza dei marmi antichi scolpiti, e piú specialmente sui rilievi a carattere pittorico, il colore si aggiungesse, anche sulle sculture dell’Ara, all’effetto delle ombre». Moretti non era stato il primo a supporre la colorazione dell’Ara Pacis, perché già sul finire dell’Ottocento Eugen Petersen – primo segretario dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, autore di studi fondamentali per la ricostruzione dell’Ara Pacis da poco «riconosciuta» e in seguito promotore

MUSEO DELL’ARA PACIS Roma, Lungotevere in Augusta Orario ma-do, 9,00-19,00; giorni di chiusura: lunedí, 1° gennaio, 1° maggio e 25 dicembre Info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-22,30); e-mail: info@ arapacis.it; www.arapacis.it Come arrivare il Museo dell’Ara Pacis è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici di superficie e si trova a poca distanza dalle fermate Flaminio e Spagna delle linee metropolitane. Maggiori informazioni sui siti: www.arapacis.it o anche www.atac.roma.it


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del suo primo scavo scientifico nel 1903 – aveva rilevato e fatto notare la presenza di evidenti tracce di colore sui marmi dell’altare. Oggi della «coperta» sottile di antico colore descritta da Petersen (vedi box a p. 74) non resta piú traccia e solo ulteriori indagini sapranno dirci se, in corrispondenza delle parti indicate dall’archeologo tedesco, possono ancora essere rilevate quelle fluorescenze piú intense che di solito segnalano la sussistenza dei leganti organici impiegati come base per la stesura del colore. Per ora possiamo solo rimpiangere i troppi, inconsapevoli interventi di «pulitura» subiti Ricostruzione del probabile aspetto originario dell’Ara Pacis, arricchito da una vivace policromia (realizzazione Studio Katatexilux).

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dai rilievi, i piú antichi dei quali non hanno neppure lasciato traccia di sé, ma che dobbiamo supporre avvenuti poco dopo il 1897, quando, a seguito del dono allo Stato italiano, le lastre venivano trasferite al Museo delle Terme, e poi ancora nel 1938, in occasione della ricomposizione dell’altare voluta da Mussolini in tempi strettissimi, cosí da celebrare con la dovuta risonanza «mediatica» la chiusura del bimillenario augusteo. Dopo le sue prime osservazioni, Petersen, aggiornato sul dibattito in corso Oltralpe sulla cromia dei marmi antichi, tornò sull’argomento nel 1902, per ribadire che colori e


Lupercale Il pannello che celebra il mito della fondazione di Roma, con, al centro, la lupa che allatta i gemelli.

dorature dovevano essere ampiamente impiegati sull’Ara Pacis, che gli oggetti metallici dovevano essere dorati, che foglie e frutti dei festoni erano probabilmente dipinti con i loro colori naturali, e, inoltre, che le superfici delle figure, ruvide per l’uso della raspa, denunciavano in modo evidente la preparazione per la stesura del colore. A lui va dunque riconosciuto questo, come molti altri meriti nei confronti del monumento. Il merito di Giuseppe Moretti, invece, vero continuatore dell’opera del Petersen, fu piuttosto quello di aver raccolto quelle sparse indicazioni e, nonostante le pressioni subite e i ritmi impostigli, di non aver trascurato di inviare il campione prelevato nel 1937 presso il laboratorio diretto da Renato Mancia a Perugia, allora all’avanguardia nelle analisi scientifiche delle opere d’arte. Dalle analisi risultarono presenti «frammenti di sottile lamina d’oro evidentissimi a luce riflessa» e fu dunque subito

Sacrificio Il pannello con Enea che sacrifica ai Penati secondo la profezia di Eléno.

evidente che «la patera era originariamente dorata con oro in foglio sopra una preparazione di rosso (bolo) od altro colore derivato da ossidi di ferro idrati». Sono queste le prime analisi da cui risulta con certezza che il colore, almeno sotto forma di doratura, era un tempo presente sull’Ara Pacis. Giustamente, Moretti deduceva da questo primo risultato che, se erano dorate le suppellettili, il colore doveva essere presente anche altrove. Per esempio, immaginava che la fascia di decorazione intermedia, all’interno del recinto, fosse a palmette dorate su un fondo azzurro forte o verde, e che i festoni carichi di frutti e le bianche bende sacrificali sospese nell’aria libera con effetto illusionistico dovevano essere rappresentati su un fondo azzurro cielo, per dare l’illusione dell’orizzonte aperto su cui si stagliavano. A supporto di questa restituzione cromatica Moretti portava esempi della pittura pompeiana di secondo stile. Purtroppo la guerra e poi la morte dell’archeologo, nel 1945, chiudevano la porta di un’esplorazione appena cominciata e che tornò al centro dell’attenzione della comunità scientifica solo nell’ultimo Novecento. A partire dal 2004 gli studi promossi dalla Sovraintendenza del Comune di Roma per (segue a p. 76)

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Una «coperta» scolorita

E

ugen Petersen osservò che sulla lastra di «Enea che sacrifica ai Penati», sulla metà in cui due inservienti spingono la scrofa al sacrificio e sullo sfondo i Penati siedono dentro un tempietto, si riconoscevano «avanzi di una sottile coperta, oggi scolorita è vero, o di un tono brunastro, ma che non saprebbe esser altro che un resto dell’antica tinta. Appena

piú grossa della carta, staccandosi lascia vedere piú bianco il marmo che n’era stato sinora coperto. Ve n’è rimasta qualche cosa sulla parte superiore del tempietto e piú incerto sul nudo e sulla corona del ragazzo ritto, in tutto simile ad avanzi di colorazione trovati sopra altre sculture». Petersen scrisse di aver potuto osservare la stessa pellicola sull’Arco di

Tito, sui cavalli del rilievo con il trionfo dell’imperatore. Poiché l’archeologo pubblicava le sue osservazioni nel 1894, noteremo che la lastra in questione, recuperata nel 1859, era rimasta nel cortile di palazzo Fiano al Corso, sotto il quale giaceva ancora buona parte dell’altare, praticamente intatta per qualche decennio. O. R.

Sulle due pagine confronto fra l’aspetto attuale del pannello nel quale è scolpita a rilievo la scena di Enea che sacrifica ai Penati e la proposta di ricostruzione della sua policromia originaria.

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l’allestimento del museo progettato da Richard Meier hanno fornito l’occasione di affrontare di nuovo globalmente l’analisi dell’altare, e quindi di riaprire il problema della sua policromia. Un gruppo interdisciplinare (formato da Stefano Borghini, Raffaele Carlani, Simone Foresta, Eugenio La Rocca, Orietta Rossini e Alessandro Viscogliosi) ha proposto

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un’ipotesi di colorazione, elaborata con atteggiamento critico, e tenendo conto dei piú recenti studi in materia. Tale ipotesi è stata tradotta in un modello digitale colorato virtualmente, in base a criteri comparativi: attraverso l’esame dei colori superstiti sull’architettura e la scultura della Grecia classica, presa a modello dagli artisti dell’altare


Particolare del fregio del lato nord dell’Ara Pacis, sul quale compare una processione dei membri dei piú importanti collegi sacerdotali. Qui sono raffigurati i quindecemviri (ai quali erano affidati i Libri Sibillini) e gli àuguri.

romano; attraverso confronti con la pittura pompeiana di età augustea, come aveva fatto Moretti; valutando il colore dei mosaici tardo-antichi, come quello nel Battistero di S. Giovanni in Laterano, che denuncia la conoscenza del fregio vegetale dell’Ara Pacis. Inoltre,

per restituire il colore alle piante e ai fiori del grande rilievo a girali con criterio naturalistico, è stato utilizzato lo studio delle specie vegetali eseguito da Giulia Caneva (Facoltà di Botanica dell’Università degli Studi di Roma Tre).

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IL

LATO OSCURO DELLA GLORIA

AUGUSTO CONSOLIDA IL PROPRIO POTERE E GARANTISCE A ROMA PACE E PROSPERITÀ. NON ALTRETTANTO FELICEMENTE SI SNODA LA SUA VICENDA PERSONALE, SEGNATA DA CONTRASTI, RIVALITÀ E PIÚ DI UN TRAGICO LUTTO La trascrizione delle Res Gestae Divi Augusti incisa, in età moderna, su una delle pareti del basamento realizzato per la prima musealizzazione dell’Ara Pacis e conservata nella struttura che oggi accoglie il monumento. Il testo, un resoconto redatto dallo stesso imperatore delle imprese compiute nel corso della sua vita, ci è noto grazie alla versione in lingua latina incisa sulla parete del pronao del tempio di Augusto e Roma ad Ancyra (l’odierna Ankara, in Turchia).

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PUBBLICO E PRIVATO

S

mobilitate le legioni (erano quasi settanta, comprese le antoniane) e pagatele con il tesoro dei Tolomei, Augusto si dette a riordinare le province. Cominciò con la Gallia e la Spagna. Portò con sé Tiberio (quindicenne), primogenito di Livia Drusilla, e il nipote Marco Claudio Marcello, l’unico maschio della sorella Ottavia. Da Livia Drusilla Augusto non aveva avuto figli. La fortuna, benigna con lui in ogni campo, dal politico al militare, gli voltò le spalle nel privato. Aveva una figlia, Giulia, dalla seconda moglie, Scribonia. Druso era nato, come ho già scritto, il 14 gennaio del 38 a.C., tre mesi esatti dopo aver sposato Livia Drusilla. Ai crocicchi della Suburra e nei banchi dei cambiavalute delle basiliche del Foro dicevano che era il figlio dell’adulterio: l’attribuzione, a ogni modo, fu data al vecchio marito di Livia, Tiberio Claudio Nerone. L’unico figlio concepito da Livia dopo il matrimonio morí alla nascita. Il non avere un discendente diretto fu la tragedia segreta che Augusto visse in maniera quasi ossessiva fino agli ultimi giorni.

Morti misteriose Non ebbe migliore sorte con figli illegittimi e adottati: Druso, che aveva mostrato spiccate doti militari alla guida degli eserciti romani in Germania, morí per una caduta da cavallo a ventinove anni; i primi tre adottati perirono uno dopo l’altro, due perfino misteriosamente, a detta di Tacito; il quarto, che gli sopravvisse, fu ucciso lo stesso anno della sua morte. L’impero toccò a Tiberio. Secondo Tacito, la necessità ne determinò la scelta. In Spagna Augusto si era ammalato. Due settimane prima, sulla via di Tarragona, di notte, un fulmine aveva colpito la sua lettiga e ucciso il torciere che illuminava la strada a pochi passi da lui. Tornato a Roma e impressionato, forse, da presagi funesti, nell’autunno del 25 a.C. fa sposare la figlia Giulia con il nipote Marco Claudio Marcello. Lei ha quattordici anni, lui diciotto. (segue a p. 85)

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Tre immagini della statua funeraria e onorifica di Claudio Marcello, nipote e genero di Augusto (figlio della sorella Ottavia e marito di Giulia), dall’Esquilino. Firmata dallo scultore ateniese Cleomene, la statua, che s’ispira a un originale di Fidia raffigurante Hermes, viene datata intorno al 20 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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Marco Vipsanio Agrippa cosí come appare nel fregio del lato sud dell’Ara Pacis. I sec. a.C. Roma, Museo dell’Ara Pacis. Nella pagina accanto ritratto di Giulia, figlia di Augusto e Scribonia. 12-11 a.C. Tolosa, Musée Saint-Raymond.

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Amatissima, eppure esiliata

L’

infanzia di Giulia non fu proprio dorata. Il giorno in cui nacque Cesare Ottaviano ripudiò la madre Scribonia, sposata poco piú di un anno prima per ragioni politiche. Ebbe, nella casa del padre, un’educazione se non rigida, severa e controllata. Lei aveva tutt’altre inclinazioni. Aperta, sensuale, spregiudicata e, fuori dagli ipocriti schemi tradizionali, era una «femminista» ante litteram per la libertà sessuale delle donne e per un loro ruolo determinante nell’agone del potere politico. Dopo la fiammata improvvisa (e certo non prevedibile nel canone rigoroso ottavianeo) per Livia Drusilla, Cesare Ottaviano, divenuto nel frattempo praefectus morum, aveva dato l’avvio a una specie di crociata contro il dilagare della corruzione, la licenza delle donne, il celibato, la caduta demografica. Giulia fu generosa e arrendevole ai voleri paterni per l’ultimo punto: partorí in meno di dieci anni cinque figli (tre maschi e due femmine), ma né la loro nascita, né la loro crescita le furono di impedimento a una disinvolta vita mondana, inviti, adulazioni, come alla procacità degli atteggiamenti e a nuove conoscenze nell’ambito di una gioventú «dorata» e viziata che le fluttuava attorno. Questo impellente, viscerale bisogno di adulazione e adorazione fu accresciuto o addirittura enfatizzato dal viaggio che, accompagnando il marito, fece in Oriente. I deliri orientali la sconvolsero. Quando tornò a Roma, non era piú la stessa. Il matrimonio ripicca con Tiberio acuí all’estremo uno stato di insofferente sovreccitazione. E fu il tracollo. Nessuna donna del suo tempo conobbe come lei il volto beffardo della fortuna: da figlia adulata del padrone del mondo (la «Nuova Afrodite») alla desolazione di un’isoletta del Tirreno. Fu amatissima, figlia unica, e poi dal padre, per le sue licenziosità, disprezzata al punto da negarle perfino la sepoltura nella tomba di famiglia. Cesare Ottaviano aveva presenti le regole auree dell’oligarchia sui matrimoni. Che erano, poi, atti o intrighi che servivano alla politica. Giulia aveva due anni quando il padre la fidanzò ad Antillo, primogenito di Antonio e di Fulvia, fu poi promessa a Cotisone, re dei Geti, e ancora a Proculeio, un cavaliere ricchissimo e noto per la sua moralità. Ebbe tre mariti, una pletora di giovani amanti, una corte di ammiratori, anche uomini raffinati di cultura, ma – condannata

all’esilio – non vide piú intorno a sé amici, conoscenti, estranei; costretta a trascinare l’esistenza peggio di una donna qualunque. Visse cinquantatré anni, sedici dei quali in esilio. Era nata a Roma, si spense in una fredda giornata di pioggia a Reggio, nella punta estrema della Penisola.

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Busto di Tiberio, nato dal primo matrimonio di Livia Drusilla con Tiberio Claudio Nerone e secondo imperatore di Roma. I sec. d.C. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.


È chiaramente un matrimonio politico e Augusto, preoccupato dal problema della successione, adotta il nipote genero. Il quale, amatissimo dalla madre, non ha però nulla né degli Ottavi, né dei Giuli. Il padre era stato console nel 50 a.C. e feroce nemico di Cesare: arrogante, pretenzioso, pieno di alterigia e dai rancori indelebili. Il figlio gli somigliava. Si scontrò subito con Mecenate (che di Augusto e del suo governo era una specie di ministro degli Interni, oltre a essere stato il manager dell’impresa propagandistica Tota Italia per la guerra aziaca). Mecenate si sente offeso e ferito

In alto moneta con il profilo di Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio e di Druso, battuta dopo il 22 d.C. Tubinga, Münzsammlung der Universität im Schloß Hohentübingen. A destra ritratto di Druso. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

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Afrodite cnidia, copia romana di un originale greco di Prassitele (360 a.C. circa). II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Nella pagina accanto Udienza con Agrippa, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1876. Kilmarnock, The Dick Institute.

dall’adottato che trincia giudizi su di lui, trattandolo addirittura da vecchio balordo. Augusto non interviene; ha, incredibilmente, un debole per Marcello. Ma nell’intrigo di palazzo si inserisce anche un fatto nuovo (malignità o pettegolezzo che sia): la bellissima e giovane moglie di Mecenate pare non insensibile alle assidue attenzioni del padrone del mondo. Discretamente, Mecenate si trae in disparte. Rimasto vittorioso sul campo, Marcello rivolge allora i suoi strali contro Vipsanio Agrippa. Sono cognati. Agrippa ne ha sposato la sorella maggiore.

Un’intesa in bilico A parte l’età, le nature dei due cognati sono agli opposti. Oltre a essere l’artefice militare dell’impero, Agrippa è un provinciale di Arpino, schietto, vigoroso, di carattere fermo, duro. Pretende che Augusto gli dia pienamente ragione. L’altro tergiversa, adducendo motivi di opportunità politica. Agrippa pianta tutto e parte per l’Oriente. Allarmato, forse pentito, Augusto gli manda la nomina di legato della Siria e di comandante delle legioni d’Oriente. Niente. Agrippa non desiste e si stabilisce nell’isola di Lesbo. È la prima, inattesa lacerazione nell’usbergo della loro amicizia e dell’intesa politica che li ha uniti dai giorni di Apollonia per oltre vent’anni. Livia Drusilla, preoccupata, richiama Mecenate, affidandosi alle sue capacità di persuasore. Dietro le ipocrite giustificazioni di rito, si intravedono, infatti, gelosie, ripicche femminili tra la figlia e la moglie di Augusto, il princeps. Ma, di colpo, Marcello muore (23 a.C.). Di tifo. Finiti i funerali, e i pianti di Ottavia per il suo unico figlio maschio, ritornarono Mecenate e poi Agrippa. Ma la morte di Marcello segnò anche un riassetto, una distribuzione del potere piú rispondente ai meriti militari e politici proprio di Marco Vipsanio Agrippa. Senza indugio Augusto lo associò all’impero e con pari diritti. Lucido ragionatore, sapeva bene quanto doveva ad Agrippa e quanto gli fosse ancora necessaria la sua valentía militare. E un’altra qualità aveva imparato a valutare

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incondizionatamente nel suo impareggiabile coetaneo: l’onestà, la franchezza. Di Agrippa, Mecenate, con la consueta ironia etrusca, aveva detto un giorno ad Augusto: «Lo hai reso cosí potente che ora o deve diventare tuo genero o deve essere eliminato». Divenne suo genero l’anno dopo (22 a.C.). Giulia aveva diciotto anni, lui quarantuno. Marco Vipsanio Agrippa era al terzo matrimonio e ora sposava la vedova del fratello della sua ex moglie. Per Giulia fu l’inizio di una vita libera da impacci e dai riserbi della casa paterna, dove in ogni suo atto si sentiva vigilata dalla presenza di Livia Drusilla. Ebbe il primo figlio, Gaio, un anno dopo il matrimonio. Augusto, sempre alla ricerca di paternità, lo adottò con il rito dell’asse e della libbra, una forma di adozione privata, alla sola presenza di testimoni, che non richiedeva ai contraenti (in questo caso Agrippa, il padre naturale, e Augusto, il padre adottivo) di recarsi pubblicamente nel Foro davanti al pretore. Nel 17 a.C. Giulia partorirà un secondo figlio, Lucio, anche questo adottato da Augusto e destinato, quindi, a succedergli.

Un potere immune da ogni veto Nell’anno di Roma 731 (22 a.C.), Augusto aveva posto termine alla nomina annuale di console e rifiutata la dittatura. Non gli serviva affatto l’ostentazione del nome. Aveva la tribunicia potestas immune da ogni veto, perenne, estesa all’intero orbe romano, con il diritto di convocare e di presiedere al popolo e al Senato ogni volta che voleva, far guerra e concludere trattati, nominare magistrati. E la sua persona dichiarata sacra e inviolabile. Alla tribunicia potestas aggiunse l’imperium proconsolare maius infinitum: gli dava la diretta gestione di tutte le province, imperiali e senatoriali. In pratica con il titolo di imperator, che lo metteva al comando di tutti gli eserciti, accumulava un potere «dittatoriale» pressoché assoluto, ma senza – e qui entravano in gioco la grande astuzia e l’abilità simulatrice di Ottaviano Augusto – ricorrere alla vanità esibizionista della parola «dittatura», malfamata e ufficialmente maledetta.

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Statua loricata di Augusto nota come Augusto di Prima Porta, perché rinvenuta nella villa di Livia nell’omonima località sulla via Flaminia. 20 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto statua togata di Augusto «capite velato», raffigurato cioè come pontefice massimo intento a celebrare un sacrificio, da via Labicana, a Roma. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

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abbastanza allarmante e mise alla prova il sistema difensivo dell’impero, voluto da Augusto e costituito da 22/25 legioni di stanza, da fortificazioni razionali collegate fra loro e con i vari punti di forza delle stesse legioni. Augusto, precipitatosi in Gallia, portò con sé i due figliastri, Tiberio e Druso, l’uno ventiseienne, l’altro di quattro anni piú giovane. Quest’ultimo, com’è naturale, godeva della particolare attenzione di Augusto; era in realtà molto piú affabile, spontaneo del fratello maggiore, di una intelligenza duttile e bellissimo nella persona. Sul piano militare sia Druso, che aveva combattuto contro i Reti fra il Brennero e il Lemano, sia Tiberio contro i Vindelici, piú a nord fino al Danubio, ottennero vittorie che entusiasmarono Roma. Uguale risultato aveva riportato Vipsanio Agrippa in Oriente. Ma uguale sul piano militare, fu strepitoso in quello politico.

In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum

Bella come una Venere

Sulle due pagine particolari dei fregi della Base dei Vicomagistri, magistrati incaricati di compiere sacrifici e riti sugli altari dei Lari del vicus. Soppressa da Cesare, la carica fu ripristinata da Augusto. I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Intanto la pax Augusti, che ai confini aveva retto mirabilmente per oltre undici anni, subí un’incrinatura nel 19 a.C. in Pannonia, nella zona della Sava, per una irruzione di orde germaniche (Quadri, Bastarni, Cotini, Anarti). Agrippa le respinse, inseguendole fino al Danubio e arrossando le acque del fiume. Tre anni dopo, tuttavia, l’incrinatura si allargò per una nuova e piú terribile invasione di Germani sempre in Pannonia. La guerra si propagò poi alla Gallia e, per contraccolpo, all’Armenia in Asia. La situazione era

Contrariamente alle regole, Agrippa aveva portato con sé la moglie Giulia. Era stata lei a imporglielo, scavalcando la rigidezza paterna. Le innalzarono statue nell’isola di Pafo, «Nuova Afrodite» la chiamarono a Mitilene, «Afrodite genitrice» a Efeso. Con Agrippa tornò a Roma nel 13 a.C. L’Oriente l’aveva ubriacata. Augusto, che pure aveva un debole per la figlia, non poté non accorgersi del cambiamento di lei. Vestiva, per esempio, abiti audaci che mettevano in risalto la procacità del suo corpo. Un giorno Augusto, vedendola, rimase scandalizzato, ma non disse niente. L’indomani lei mutò genere di abbigliamento e, con aria seria, abbracciò il padre che non riuscí a contenere la gioia. «Quanto è piú conveniente – aggiunse – questo abbigliamento alla figlia di Augusto». Al che lei, pronta: «Oggi mi sono fatta bella per gli occhi di mio padre, ieri per quelli del marito». Il quale marito era impegnato con Augusto in un progetto di largo respiro che prevedeva l’invasione della Germania. Ambedue avevano compreso che la pace, dalla Gallia al Danubio, mai sarebbe stata duratura finché i popoli della Germania fossero rimasti liberi e

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sostanzialmente in grado di passare il Reno ogni volta che volevano. Il progetto era a un buon punto, la preparazione avviata, quando una improvvisa rivolta in Pannonia costrinse Agrippa a partire. Fu rapido, duro, feroce, spazzò via ogni resistenza, lasciando scie di sangue dietro di sé. A febbraio del 12 a.C. annunciò il ritorno. Giunse a Roma solo la notizia della sua morte. Augusto, che era appena rientrato a Roma, vacillò, come se fosse stato colpito da una freccia partica. Agrippa non era solo l’altra metà dell’impero, era l’amico di sempre, dall’adolescenza alla maturità, piú di trent’anni, da Apollonia a Modena, da Filippi a Perugia, Sicilia, Spagna, dalla Rezia ad Azio e all’Egitto e ancora

in Germania, di nuovo in Spagna fino all’inverno pannonico. Augusto gli aveva dato in moglie la figlia, adottato i nipoti, diviso con lui il potere. Lo sapeva leale, permaloso. E non aveva che cinquant’anni, uno meno di lui. Partí per riportare a Roma la salma, la espose nel Foro, pronunciò il discorso funebre. Poi, in ricordo di lui, all’ultimo figlio che Giulia dette alla luce dopo quattro mesi, fece mettere il nome di Agrippa Postumo. Deceduto Agrippa, ad Augusto rimase quale fedele consigliere Caio Cilnio Mecenate per «l’ufficio stampa e propaganda» e l’amministrazione interna; soprattutto gli rimaneva accanto la presenza silenziosa, insostituibile di Livia Drusilla che fino dai giorni

Augusto e le donne

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eppure i suoi amici, scrive Svetonio, potevano negare che Ottaviano Augusto avesse avuto relazioni con donne giovani e sposate. Lo giustificavano dicendo che magari si era lasciato coinvolgere non tanto per libidine quanto per politica: conoscere cioè piú facilmente i disegni dei suoi avversari attraverso i pettegolezzi o le indiscrezioni delle loro mogli. Aveva ripudiato Scribonia affermando di «essere scoraggiato dal pervertimento dei costumi di lei»; ma la verità era un’altra ed è nello stesso Svetonio: che cioè Scribonia «aveva deplorato con troppa franchezza l’eccessivo potere di una rivale». Nel caso specifico si trattava forse della ubriacatura iniziale per Livia Drusilla. E ancora: che Ottaviano, per mezzo di amici che gliele procuravano, partecipasse in ambienti riservati a particolari sfilate di

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donne nude, madri di famiglia e giovani non sposate. Sfilate, ovviamente predisposte per lui, in modo che potesse scegliere «come se fosse a venderle Tornio, il mercante di schiavi». Per uno che si vantava di essere un indefettibile praefectus morum della moralità romana, era un triplo salto mortale. C’è poi una lettera di Antonio a Ottaviano del tempo antecedente alla rottura definitiva. La sua singolarità sta nel fatto che Antonio, il libertino, fa le scarpe al moralista Ottaviano. «Che cosa ti ha cambiato? Ché io vada a letto con una regina? Ma è mia moglie e non ce l’ho forse da nove anni? E tu chiavi la sola Drusilla? Che gli dèi ti conservino la salute cosí come, quando leggerai questa lettera, non avrai chiavato Tertulla o Terentilla o Rufilla o Salvia Titisenia o altre. Che importa dove o con quale arrizzi?».

L’interno di una sala affrescata della Casa di Livia sul Palatino. I sec. a.C. In alto cammeo in sardonica con Livia Drusilla e, di fronte, il busto di Augusto. I-III sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.


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La decorazione con festoni di foglie, fiori e frutti in una sala della Casa di Livia sul Palatino. 30 a.C. circa.

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del loro innamoramento, nel periodo forse piú difficile per lui, era stata il tramite dell’acquiescenza alla «rivoluzione cesariana» della casta nobiliare. E determinante lo era stata nella crisi causata dalla giovanile intemperanza di Marcello, marito di Giulia. Paziente, tempestiva, Livia Drusilla, privilegiando l’interesse dello Stato, aveva richiamato Mecenate, poi affrontato direttamente Augusto. Intuiva che una rottura fra lui e Agrippa pregiudicava, al momento, uno squilibrio o peggio apriva vuoti nella stabilità dell’impero con conseguenze imprevedibili.

I giudizi degli storici del tempo Con il titolo di princeps Augusto ridusse in suo potere lo Stato romano (nomine principis sub imperium accepit), scrive Tacito all’inizio degli Annali. Sugli storici del tempo il giudizio è ancora piú sferzante: «distolti dalla verità per il gonfiarsi dell’adulazione». Tito Livio, il piú autorevole, e repubblicano convinto, pur avversando anche il nome di re, finí con il diventare amicissimo di Augusto e forse si accontentò che il princeps avesse, almeno formalmente, salvato la tradizione repubblicana. Da storico non si nascondeva il profondo mutamento avvenuto nell’intera società romana. E arriviamo agli altri. Velleio Patercolo (generale di Tiberio e incline alla piaggeria) intravede nella costituzione augustea il ritorno all’antica repubblica; Strabone, al contrario, l’avvio al principato; Appiano attribuisce ad Augusto la trasformazione della repubblica in monarchia; per Dione era una specie di regime monarchico idealizzato. Il punto è che i tempi erano cambiati – come avevano capito Livio e gli altri storici –, cambiate le mentalità, i bisogni, i canoni morali, le aspettative, diversa la plebe, la classe abbiente e Roma divenuta un coacervo di razze e di popoli. Una prova si era avuta durante l’inverno del 23/22 a.C. Inondazioni, carestie, pestilenze avevano provocato vittime e danni in tutta Italia, tumulti e saccheggi a Roma. Né i magistrati, preposti all’edilità e che dovevano provvedere all’ordine

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Cammeo in onice rappresentante l’aquila imperiale con i simboli della vittoria. 27 a.C. (la montatura in oro, smalti e argento è stata aggiunta nel XVI sec.). Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto la Gemma Augustea: Augusto, seduto con la dea Roma, viene incoronato mentre Tiberio, a sinistra, scende dal cocchio; sotto, legionari e barbari. 9-12 d.C. (la montatura in oro è stata aggiunta nel XVII sec.). Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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e alla distribuzione del grano, riuscivano a contenerli. Esasperato, il popolo non si appellò ai tribuni della plebe, propugnatori dei loro diritti, né chiese la libertà di eleggere consoli pretori edili di parte popolare, urlò a gran voce di volere un dittatore, Augusto, unica soluzione per i problemi della gente del popolo. Invase il Foro, costrinse i senatori a riunirsi nella Curia e, sotto la minaccia di incendiare l’edificio, ingiunse loro di votare la dittatura. Augusto era appena uscito da una grave

malattia, forse tifo, di cui era morto il giovane Marcello. Non si scompose, né cedette. Le urla gli servirono per avere un’ulteriore conferma dell’animus della folla: un grande e vecchio fanciullo, mai cresciuto e soggetto all’emozione del momento. Sapeva di dominarlo come e quando voleva. Con l’abituale disinvoltura e freddezza rifiutò la nomina a dittatore, accettò quella di curator annonae. La pioggia aveva lavato le strade dei residui della peste e a Ostia erano in arrivo le navi cariche di grano.

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VERSO IL COMMIATO SONO GLI ANNI DELLA MATURITÀ E AUGUSTO GOVERNA CON MANO FERMA E CON SAGGEZZA. NEL 9 D.C., PERÒ, È COSTRETTO AD ASSISTERE A UNA GRAVE SCONFITTA DELLA POTENZA MILITARE DI ROMA. E CINQUE ANNI PIÚ TARDI, DOPO AVER DESIGNATO IL SUO SUCCESSORE, DICHIARA CONCLUSA LA «COMMEDIA» DELLA SUA VITA… | 98 | AUGUSTO |


Morte di Giulio Cesare, olio su tela di Vincenzo Camuccini. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Il dipinto fu commissionato all’artista nel 1793, ma venne da questi ultimato solo nel 1818.

Sulle due pagine lastre in terracotta policroma dall’area del tempio di Apollo sul Palatino. 40-30 a.C. Roma, Museo Palatino. Nella pagina accanto, due fanciulle ornano l’immagine aniconica del dio; in alto, la contesa tra Apollo ed Eracle per il possesso del tripode delfico.

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APOTEOSI ED EPILOGO

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ei primi mesi del 12 a.C. moriva in una villa del Circeo Marco Emilio Lepido, ex triumviro e ultimo pontifex maximus della repubblica. Era l’unica carica che mancava ad Augusto da aggiungere alle altre di padrone assoluto dell’impero. Cesare era stato pontifex maximus per ventuno anni, Lepido trentadue; Augusto lo sarebbe stato per ventisei. Con la nuova carica politica-religiosa riuniva quella che era stata la piú alta prerogativa degli antichi re di Roma: la somma dei poteri temporale e spirituale, cioè le chiavi del regno. Anche simbolicamente, per affermare il carattere sacrale del suo potere, fin dal 44 a.C. Augusto aveva scelto quale luogo privilegiato di residenza il Palatino. Lí, sul Germalus, vicino alla casa Romuli, aveva comprato una domus di non grandi dimensioni dall’oratore Ortensio. Dopo Azio, il Senato ritenne opportuno donargli un’altra domus (vicina alla sua) per rendere piú comoda e degna la dimora del divi Caesaris filius. A sua volta Augusto fece costruire due templi: uno ad Apollo Aziaco, bellissimo secondo le testimonianze di poeti da Orazio a Tibullo, con l’annesso portico delle Danaidi e le biblioteche, e l’altro – molto piú tardi – a Vesta, quando divenne pontifex maximus, giacché il capo del collegio dei pontefici doveva abitare presso il tempio di Vesta. Ma, oltre alle ritualità inerenti la religione, vennero ora a gravare sulle spalle di Augusto – per la morte repentina del suo alter ego Vipsanio Agrippa – le incombenze militari. La Pannonia, vinta, decimata, in parte distrutta, restava infida e irriducibile. Nell’ultima campagna nella Rezia e nell’Illirio, Augusto aveva messo in campo i due figliastri Tiberio e Druso. Le loro prove come comandanti di eserciti lo avevano riempito d’orgoglio, Druso soprattutto; sicché, riprendendo il disegno strategico sulla Germania elaborato con Agrippa, affidò a Druso il fronte settentrionale, a Tiberio quello meridionale, che confinava con la Pannonia e l’Illirio. Passato il Reno, Druso entrò nel territorio dei Sugambri e, risalendo a (segue a p. 104)

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Casa di Augusto, sala delle Maschere, veduta della parete Ovest. Attraverso la pittura viene simulata una complessa architettura, ispirata alle scenografie teatrali. II stile, 30 a.C. circa.


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APOTEOSI ED EPILOGO

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Sulle due pagine i resti del Trofeo delle Alpi, detto anche Trofeo di Augusto, nel comune di La Turbie (ProvenzaAlpi-Costa Azzurra). Il monumento venne eretto nel 6 a.C., per commemorare le vittorie dell’imperatore sulle popolazioni alpine. A destra, uno dei rilievi del Trofeo raffigurante una panoplia di armi romane vincitrici e, sotto, una coppia di Galli, uomo e donna, simbolo della sottomissione della popolazione da parte dei Romani.

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APOTEOSI ED EPILOGO

nord, vinse gli Usipeti, poi i Cherusci fino al Weser. L’anno dopo (10 a.C.) travolse i Catti, che consideravano la guerra come la suprema felicità e il massimo onore della vita. Presto i legionari ebbero un nuovo genius Martis da ammirare: temerario, rapido, risoluto. Poi Druso spostò la sua azione piú a est, oltre il Weser, devastando e conquistando i territori

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delle varie tribú germaniche, finché arrivò all’Elba. Era autunno. Richiamato da Augusto, tornò indietro, rimandando alla primavera il passaggio dell’Elba. La fortuna, che fino allora era stata innamorata della sua giovinezza, d’improvviso lo abbandonò. Durante la marcia di ritorno, il suo cavallo cadendo gli rovinò addosso. Druso ebbe la

Il Foro di Augusto a Roma con, al centro, i resti del grandioso tempio dedicato a Marte Ultore (vedi le ricostruzioni alle pagine seguenti).


frattura di una gamba. Ma le sue condizioni peggiorarono rapidamente. Augusto gli mandò Tiberio, che in un giorno e una notte percorse duecento miglia. Quando arrivò Tiberio, Druso era ancora vivo. Morí l’indomani. Dal giorno della caduta erano passati trenta giorni. Il colpo inaridí l’animo di Augusto. Erano note le voci che sostenevano Druso essere suo figlio

adulterino. Ma c’ è di piú: a Druso sembrava che gli dèi avessero dispensato qualità a piene mani: bello, coraggioso, intelligente, spontaneo, affabile, leale, aveva sposato la donna piú avvenente – e insieme riservata, casta – del suo tempo, Antonia Minore, figlia di Ottavia e di Marco Antonio. Perfino il monumento ieratico della compostezza

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APOTEOSI ED EPILOGO

Ricostruzione virtuale dell’aspetto del tempio di Marte Ultore (vendicatore), divinità alla quale venivano fatte risalire le origini della stirpe romana e della famiglia di Augusto.

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patrizia, Livia Drusilla, ne uscí sconvolta. Inconsolabile Augusto. Gli pareva che la morte gli si affollasse intorno: prima Agrippa, poi Ottavia, la sorella amatissima e fedele, ora Druso, il figlio del cuore. Nei giorni che seguirono, la perdita di Druso gli divenne tanto piú amara, insopportabile se paragonava il comportamento di lui con quello della figlia Giulia. Padre e figlia avevano caratteri completamente diversi.

Matrimoni obbligati dalla legge In un mondo che cambiava in modo fin troppo accelerato, Augusto si piccava di indossare tuniche e toghe tessute dalle donne di casa. Giulia amava il lusso, l’eleganza, le sete orientali che lasciavano trasparire il suo giovane corpo di donna. Rimasta vedova, e rigogliosa di vita, non poteva restare senza marito. Augusto la maritò a Tiberio. Lo spingevano due motivi: la lex de maritandis ordinibus da lui voluta ed emanata, che imponeva a una donna o uomo giovani di rimaritarsi; l’altro motivo, la ragione di Stato. Con la morte di Agrippa, il figlio primogenito di Livia Drusilla, Tiberio, diveniva – per la giovane età dei figli (adottati) di Augusto, Gaio (otto anni), Lucio (cinque anni) – il secondo personaggio dell’impero. Il meno contento delle nozze fu proprio Tiberio, sposato con Vipsania Agrippina, nata da Agrippa e da Cecilia Attica (la prima moglie di Agrippa), e che lui amava: gli aveva dato un figlio ed era incinta di nuovo. Ma Augusto fu drastico: doveva divorziare. E per di piú da parte di Giulia c’era la rivalsa politica di non perdere il privilegio di signora dell’impero al pari di Livia Drusilla. Il matrimonio fu un disastro ed ebbe conseguenze altrettanto rovinose. Avevano piú o meno la stessa età: trent’anni Tiberio, ventisette lei. Tiberio fu inviato in Dalmazia e Giulia ad Aquileia partorí un maschio, che campò solo qualche giorno. Il freddo di Aquileia la intristiva, le nebbie le toglievano la vista del cielo e sognava il sole di Roma. Tornò appena seppe che Tiberio era stato mandato in Germania e che le operazioni militari si sarebbero prolungate per almeno

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APOTEOSI ED EPILOGO

due o tre anni. A Roma riprese a vivere non solo la vita disinvolta e in parte disinibita di prima, ma anche con piú sfrenatezza, praticando le solite compagnie di giovani e ostentando di proposito liberalità e licenza in contrapposizione al riserbo e alla prudenza del «circolo» dei Claudi di Livia. Elesse il Foro come luogo deputato di festini notturni. Per una qualche ragione aveva concepito contro Tiberio un rancore furibondo. Non risparmiava, a ogni modo, neppure il padre: un attore esemplare, diceva, nel recitare la commedia della morigeratezza dei costumi. Aveva promulgato le leggi contro il lusso e l’adulterio e si era pappato tutte le giovani matrone che aveva voluto, a cominciare dalla bellissima Terenzia, moglie del suo fedelissimo consigliere, governatore di Roma, amico di letterati e di poeti, grande collettore di consensi, Caio Cilnio Mecenate.

Una richiesta inaccettabile

Il «Pirro», statua colossale di Marte in abiti militari, proveniente dal Foro Transitorio, copia di età flavia dell’originale statua di culto del tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto.

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Sapeva Augusto della scandalosa vita «extraconiugale» della figlia? E Livia Drusilla, il cui figlio era messo al ludibrio dagli «oltraggi» di Giulia, taceva? Ormai c’era una segreta, sotterranea, tenace guerra fra la «compagnia» di Giulia e il «circolo» di Livia Drusilla. Si arrivò al grottesco che Giulia mandò il figlio minore Lucio, di undici anni, a perorare presso il padre, Augusto, la nomina del fratello Gaio a console. Gaio era appena quattordicenne. Augusto si oppose: un console di quattordici anni, anche se era suo figlio, era piú insultante della peggiore provocazione. Subito ci si misero di mezzo il Senato e le manifestazioni popolari, sobillati dal partito di Giulia. Alla fine Augusto cedette: la decisione, però, suonava un affronto gravissimo a Tiberio che tornava allora vittorioso dalla Germania e aveva diritto al consolato.


Il grande simulatore era alla corde, tradito dal sentimentalismo paterno. Né i suoi figli, sia Gaio che Lucio, avevano la rude fierezza del padre naturale (Agrippa); inclinavano piuttosto alla pretenziosità edonistica della madre. Augusto tentò di scongiurare il risentimento di Tiberio, dandogli la tribunicia potestas per cinque anni (come a suo tempo aveva avuto Agrippa) e l’incarico di domare la rivolta scoppiata in Armenia. Ma Tiberio era un Claudio, chiuso di carattere, timido e, come tutti i timidi,

Ricostruzione virtuale della cella del tempio di Marte Ultore.

gonfio di orgoglio. Conforme alla sua natura, non fece drammi, non recriminò. Nel modo piú pacato, ma fermo rifiutò sia la tribunicia potestas, sia l’incarico per la provincia d’Armenia. Era stanco, aveva combattuto in Dalmazia, in Germania, e chiedeva ora licenza di andarsene a Rodi come un qualsiasi cittadino romano. Livia Drusilla, la madre, cercò a piú riprese di dissuaderlo. E Augusto, abituato – dai cori di arrendevolezza – a non essere mai contraddetto, si stizzí, si arrabbiò al punto

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Una formidabile eminenza grigia

C

aio Cilnio Mecenate era etrusco, un cavaliere di Arezzo, discendente però da una famiglia reale: nei rapporti con gli altri una specie di persuasore occulto. Amicissimo e indispensabile alla politica di Ottaviano. A piú riprese, quand’era lontano dall’Italia, Ottaviano si serví di lui per sovrintendere in Roma all’ordine pubblico. Mecenate sventò sul nascere, nel 30 a.C., quindi durante la «guerra alessandrina» e assente Ottaviano, la congiura a capo della quale c’era Marco Emilio Lepido, figlio dell’ex triumviro,

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mandandolo a morte. Solerte, acuto e, nei momenti di tensione politica, insonne, si lasciava poi andare facilmente a ozi e mollezze quasi come una donna (Otio ac mollitis paene altra feminam fluens, dice Velleio Patercolo). Fu, in breve, il piú adatto per capire e raggirare Marco Antonio. E nella campagna propagandistica tesa a convogliare tota Italia contro Cleopatra (Antonio astutamente non era nominato) per il potere del mondo – a favore, s’intende, di Ottaviano – si rivelò un inarrivabile manipolatore di

consensi, trascinando in compatto schieramento l’intellighenzia del tempo (Virgilio, Orazio, Livio, ecc.). Aveva una bellissima e giovane moglie, Terenzia (o Terentilla), che – lui consenziente aperto o segreto – fu amante di Ottaviano. Uno storico pettegolo riferisce che una sera Mecenate, durante una cena, a un tale che, vedendolo sonnecchiare, gli insidiava la moglie, dicesse con sorprendente ironia che la bellezza di Terenzia gli consentiva di assopirsi o dormire soltanto nelle cene in cui era invitato da Cesare Ottaviano.


In alto particolare dell’affresco della cosiddetta «sala del giardino», dalla Villa di Livia a Prima Porta. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. A destra statua di Livia, da Paestum. 15-20 d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto Mecenate presenta le Arti Liberali all’Imperatore Augusto, olio su tela di Giovanni Battista Tiepolo. 1743. San Pietroburgo, Museo di Stato dell’Ermitage.

di lamentarsi perfino in Senato e negando a Tiberio il permesso di partire. Per contro il figliastro si chiuse in casa e per tre giorni si tenne a digiuno: se non poteva partire, si sarebbe lasciato morire di fame. La notizia girò per gli ambulacri della Curia, arrivò alle basiliche del Foro. Al quarto giorno Augusto dette l’assenso. Con un piccolo gruppo di amici, Tiberio salpò il giorno stesso da Ostia in volontario esilio, come Agrippa diciassette anni prima. Diversa solo l’isola: non Lesbo, ma Rodi.

La solitudine del princeps Era passato piú di un anno dalla morte di Mecenate. Non tanto la relazione di Augusto con la bellissima Terenzia aveva offuscato la natura dei loro rapporti, strettissimi per lunghi anni, quanto le chiacchiere che erano nate e che i maligni nemici dell’Etrusco avevano fatto circolare ad arte. Con Mecenate se n’era andato poco dopo anche Orazio. E prima era morto Virgilio. Tutto un mondo della sua giovinezza era scomparso. Augusto si sentiva sempre piú solo. Dopo il ritiro sdegnato di Tiberio lo riprese il desiderio di chiudere definitivamente la partita. Forse nemmeno lui sapeva fino a che punto fingeva con se stesso. Era per affetto o responsabilità verso i figli (nipoti)? Non gli somigliavano. Erano altezzosi,

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pigri, arroganti. Per dispetto si vendicò su Tiberio, dichiarando che senza un suo ordine preciso non avrebbe potuto rientrare a Roma. Giulia aveva stravinto. Fece anche circolare la voce nei quartieri popolari che Tiberio se n’era andato tradendo, per i suoi vizi e le sue manie, e il princeps e lo Stato. E fu l’eccesso di libertà, non immune da uno sfrenato desiderio di dissacrazione, a perderla. Dei festini bacchici di Giulia ne parlavano al Velabro come nei vicoli della Suburra e del Quirinale. Il dubbio è che esibizioni di una oscenità, per cosí dire, programmata non nascondessero

qualcos’altro. Una congiura? Ronald Syme scrive: «Sia che fosse una donna scostumata, sia che fosse oggetto di pura diffamazione, Giulia non era una nullità, bensí una gran dama della politica e i cinque nobiles suoi amanti non dei trascurabili perdigiorno, ma costituivano una temibile fazione». I cinque colpevoli: Jullo Antonio, Appio Claudio, Quinzio Crispino, Sempronio Gracco, P. Cornelio Scipione. I termini del problema sono due: Augusto fu sconvolto, inorridito dalle dissolutezze della figlia e, avutene le prove, fu giudice inesorabile, sentendosi tradito? Oppure, avuto sentore A sinistra ritratto in marmo di Agrippina Maggiore. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. Nata nel 14 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa e Giulia Maggiore, Agrippina, accusata di tradimento da Tiberio, morí in esilio a Pandataria (odierna Ventotene), nel 33 d.C., la stessa isola in cui era stata confinata la madre. A destra, sulle due pagine Magonza, la Pietra di Druso (Drususstein). Si tratta di un monumento funerario romano interpretato come cenotafio di Druso Maggiore, che morí in Germania, a Mogontiacum, nel 9 a.C.

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LA FINE

della congiura, si serví della dissolutezza di lei (e della complicità partecipe del gruppo che le era intorno) per disfarsi di avversari pericolosi, condannando all’esilio sia Giulia che loro? Sul piano politico Augusto era spietato e deciso. Lo era stato nelle proscrizioni, dopo Filippi, a Perugia, in Egitto, e contro Tolomeo Cesare, trucidato nella sacralità di un tempio. Accusò Giulia fornendo la documentazione particolareggiata delle sue licenziosità, dei suoi amanti e complici. Di questi ultimi il questore, che leggeva il foglio di accusa di Augusto (lui, sdegnato, si era reso irreperibile), aggiunse che erano molti e di ogni categoria sociale. Tra i nobili c’era Jullo Antonio, secondogenito di Marco Antonio e di Fulvia, che era stato console nel 10 a.C. e che Augusto aveva sposato a una sua nipote, Marcella

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Minore, figlia di Ottavia. Era bello, prestante come lo era stato il padre. Conosciuta l’accusa letta in Senato, si uccise. Anno di Roma 751 (2 a.C.): Giulia, cacciata di notte da Roma, è condannata all’esilio perpetuo nella piccola isola di Pandataria (Ventotene).

Il tempio di Apollo Pizio nell’isola di Rodi, dove Tiberio si rifugiò in volontario esilio. Nella pagina accanto testa in marmo di Tiberio, in origine appartenente a una statua dell’imperatore di dimensioni piú grandi del vero, da Gortyna. I sec. d.C. Iraklion, Museo Archeologico.

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In alto Detmold (Germania). L’Hermannsdenkmal (Monumento ad Arminio), opera dell’architetto e scultore Ernst von Bandel. 1833-1875. A sinistra Agrippina e Germanico, olio su tavola di Peter Paul Rubens. 1614 circa. Washington, National Gallery of Art.

Insensibile alle preghiere rivoltegli per Giulia dal popolo, da amici, da collaboratori, Augusto detta regole severissime per la prigionia: nessun uomo intorno, niente vino, niente visite. Accompagnò Giulia, volontariamente, la madre Scribonia e le restò vicina, nella desolazione di uno scoglio bruciato dal sole e battuto dai venti, per sedici anni. Fino alla morte.

I dolorosi rovesci della fortuna Dallo scandalo della figlia Augusto uscí, comunque, distrutto. La spietatezza della condanna solo in parte compensava lo sfregio arrecato alla sua immagine di princeps e di legislatore e censore dei costumi. Implacabile anche con se stesso, disertò Senato e Foro. Aveva sessantadue anni. Riordinò le province, poi mise alla prova il figlio maggiore Gaio, affidandogli una missione diplomatica e militare in Oriente. Gli scriveva di continuo con grande trasporto affettivo («Ti saluto, luce diletta dei miei occhi»). E perché anche l’altro figlio Lucio compisse il suo tirocinio militare,

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In alto medaglia in bronzo con il profilo di Agrippina Maggiore, opera di Giovanni da Cavino. Metà del XVI sec. Washington, National Gallery of Art. A sinistra maschera in ferro, in origine ricoperta d’argento, di un elmo facciale, dagli scavi nella selva di Teutoburgo, località della Germania nella quale Varo e le sue legioni subirono una disastrosa sconfitta per mano dei Germani. Inizi del I sec. d.C. Osnabrück, Kulturgeschichtliches Museum.

lo mandò in Spagna. Improvvisamente la fortuna voltò le spalle all’onnipotente e malazzato Augusto. Lucio non arrivò nemmeno in Spagna. Ammalatosi a Marsiglia, morí il 20 agosto del 2 d.C. Non basta. Diciotto mesi dopo, le Parche gli portarono via anche il figlio maggiore, Gaio Cesare. Ad Artagira, sprezzando le formule di ipocrita cortesia, di prammatica in Oriente, Gaio Cesare si spinse imprudentemente fin sotto le mura per un colloquio con il capo degli insorti armeni. Ferito a tradimento, trascinò la sua vita fra attese e sfiducia, mentre l’Armenia – per ordine di Augusto – veniva letteralmente tagliata a pezzi. Morí a Lymira, in Licia, nel viaggio di ritorno, il mese di febbraio del 4 d.C. Aveva ventiquattro anni. (segue a p. 121)

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Agrippina sbarca al porto di Brindisi con le ceneri di Germanico, olio su tela di Cesare Caroselli. 1872. Roma, Accademia di San Luca.

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Rilievo in origine appartenente a un altare monumentale noto come Apoteosi di Augusto. I sec. d.C. Ravenna, Museo Nazionale. Vi sono raffigurati, da destra, Augusto, Livia, Claudio, Germanico e la Vittoria.

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Lucio Cesare era morto a diciannove. Non ebbe piú scelta. Marcello, Agrippa e ora i figli, rapiti dalla malignità delle Parche. Era angosciato, Livia Drusilla temette per la sua salute. Lo richiamò alla realtà politica la scoperta di una congiura. Si trattava di un gruppetto di nobiles non rassegnati alla loro decadenza politica e capeggiati da Gneo Cornelio Cinna, nipote di Pompeo. Altisonanti i propositi, velleitarie le possibilità di un reale rovesciamento di potere, e modesti i personaggi. Con loro fu perfino magnanimo, nemmeno l’esilio; a ogni modo l’episodio fu sufficiente a ridargli determinazione e ad affrettare il ritorno di Tiberio da Rodi.

La profezia si avvera Un indovino greco, Trasillo, ancora negli anni oscuri dell’esilio volontario, al primogenito di Livia Drusilla aveva pronosticato l’impero. E, tornato a Roma, Augusto gli concesse la tribunicia potestas e l’associò al governo. A una condizione, però: che Tiberio adottasse Germanico Cesare, figlio del fratello Druso, e che fosse poi lui a ereditare l’impero. Germanico Cesare aveva sposato Agrippina, una figlia di Giulia e di Vipsanio Agrippa. Fiera, impulsiva, aperta, era caratterialmente il ritratto del padre. Divenne la nipote piú amata da Augusto, anzi nell’animo di lui prese subito il posto che un tempo aveva avuto la figlia. Si era sposata il 5 d.C. e già l’anno dopo dette alla luce un figlio maschio, Nerone. Ne avrà nove di figli, sei maschi (tre morti durante l’infanzia) e tre femmine. Livia Drusilla rivide in lei la madre: a Giulia non aveva mai perdonato gli spregi fatti a Tiberio; ma tanto impudica fu la madre, quanto irreprensibile la figlia: l’ardore materno cambiato in lei in fierezza e orgoglio. Quando Germanico Cesare, dopo la strage di Teutoburgo, fu inviato in Germania quale comandante degli eserciti romani anche in ricordo del padre Druso (da lui aveva ereditato l’appellativo di Germanico), Agrippina, impavida, lo seguí, fermandosi sul Reno ad Ara Ubiorum. Selva di Teutoburgo, 9 d.C. Fu la Canne dell’impero di Augusto. Arminio, il germano

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autore della strage, non era un Annibale, ma ebbe a fronte un generale, Quintilio Varo, vanaglorioso e militarmente incapace. Aveva militato nelle file dell’esercito romano come ausiliario e, per le sue doti, ottenuto la cittadinanza romana. Quindi conosceva dei Romani e le forze e l’ordinamento e la tattica in battaglia. Quando in Germania cominciarono a manifestarsi i primi focolai di rivolta contro l’egemonia romana, Arminio rassicurò Quintilio Varo e Varo, imprudente o superbo, gli credette. Anzi era talmente ignaro della trappola che l’altro gli preparava, che alla vigilia della rivolta generale cenò e brindò con Arminio e con gli altri capi germani.

Una disfatta epocale Nella selva di Teutoburgo non andarono perdute tre legioni, andò perduto un esercito con il suo onore e il suo prestigio, andò perduta la potenza militare romana in Germania. Teutoburgo fu un colpo gravissimo, immodificabile per la strategia militare romana nel centro Europa. Augusto se ne rese lucidamente conto. Da una strategia di conquiste e di espansione si passò alla elaborazione di una strategia, basata – almeno in buona parte – sulla difesa dei confini. Fra l’impero romano e la Germania il Reno restava ora la linea piú o meno permanente di divisione. Il vento della selva di Teutoburgo soffiò gelido e furioso anche ai crocicchi della Suburra, mugolò negli atrii delle domus del Palatino, finché si sperse nelle lunghe gradinate del Circo Massimo. All’inizio Senato e popolo avevano temuto che il fronte del Reno crollasse e addirittura che i Germani, ritrovata per la vittoria l’union sacrée di tutti i loro popoli, potessero minacciare e la Gallia e l’Italia. Tiberio accorse sul Reno a organizzare la resistenza e Augusto a Roma, facendo appello al patriottismo, apriva la leva dei volontari. Ma chi si sarebbe offerto per servire nelle legioni? I plebei dei teatri e dei lupanari, i cavalieri dediti al commercio o i nobili che nemmeno si pigliavano la responsabilità di mettere al mondo e allevare figli? Perfino i (segue a p. 126)

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Veduta aerea del settore del Campo Marzio, a Roma, nel quale sono compresi l’Ara Pacis, di cui si riconosce la struttura museale in cui è custodita, e il mausoleo di Augusto.

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Un sepolcro grandioso

I

l Mausoleo di Augusto aveva proporzioni imponenti. Di forma circolare, esso misura 87 m di diametro e doveva raggiungere un’altezza forse vicina ai 50 m. La sua fisionomia è ancora oggi ignota, perché del monumento originario si è conservata solo la parte inferiore, e l’intera ornamentazione – statue, rilievi, lastre marmoree, ecc. – è andata perduta. Augusto volle un simile monumento sepolcrale dopo essere stato in Oriente (di qui nasce la scelta della struttura di forma circolare, verosimilmente sormontata da una cupola) e l’opera fu pronta nel 28 a.C. Sulla sommità del mausoleo, stando alle testimonianze delle fonti antiche, troneggiava una statua in bronzo dorato dell’imperatore. Ai lati dell’ingresso furono posti due obelischi (oggi in piazza del Quirinale e in piazza dell’Esquilino) e due pilastri, sulle cui facce vennero affisse le lastre in bronzo che recavano la lunga iscrizione agiografica nota come Res Gestae Divi

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Augusti. L’assetto interno era piuttosto semplice, caratterizzato da una struttura anulare suddivisa in ambienti destinati alle deposizioni. Per le spoglie di Augusto fu predisposta, al centro del monumento, una piccola stanza quadrata. All’imperatore toccò l’amaro destino di dover assistere all’apertura della pesante porta in bronzo che chiudeva il sepolcro per ben cinque volte e, soprattutto, per traslarvi le ceneri dei suoi successori adottati e designati: i generi Marco Claudio Marcello (23 a.C.) e Agrippa (12 a.C.), il figliastro Druso (9 a.C.) e i nipoti Lucio Cesare (2 d.C.) e Gaio Cesare (4 d.C.). Augusto li raggiunse nel 14 d.C. e dopo di lui il mausoleo accolse Druso Minore, Livia e Tiberio. Nel 98 d.C. fu la volta di Nerva e, dopo oltre un secolo, il mausoleo fu riaperto per l’ultima volta, per deporvi le spoglie di Giulia Domna, suicida dopo l’assassinio del figlio Caracalla (219 d.C.). (red.)


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Sulle due pagine uno scorcio di piazza Augusto Imperatore, a Roma. Sulla sinistra, i resti del mausoleo di Augusto, del quale viene qui proposta una ricostruzione grafica ipotetica.

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A sinistra planimetria del Campo Marzio settentrionale con la disposizione dei monumenti antichi e il loro rapporto con gli assi stradali piú importanti. A destra l’obelisco oggi eretto davanti a Montecitorio fungeva da ago (gnomon) dell’orologio solare monumentale voluto da Augusto nel Campo Marzio.

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liberti, scrive Tacito, erano «lascivi, impudichi, incapaci di sopportare le fatiche del campo».

Vestito a lutto Questa ferita morale fu per Augusto molto peggiore da sopportare della reale perdita di vite umane. Si vestí a lutto, la barba lunga, incolta, né mutò d’abito fino a che non giunsero a Roma notizie certe sull’azione intrapresa sul Reno da Tiberio. Faceva uno strano contrasto la fragilità della sua persona, rinsecchita e rimpicciolita com’era, con il bagliore chiaro dei suoi occhi che conservavano ancora il lampo imperioso di un tempo. Nell’anno 13 d.C., al rientro a Roma di Tiberio (al suo posto in Germania il giovane Germanico, figlio di Druso), provvide a

regolarizzare ufficialmente la successione nominando lo stesso Tiberio corresponsabile del governo in virtú di una legge che conferiva a quest’ultimo poteri uguali a lui nel controllo delle province e degli eserciti. Ma era agli sgoccioli, e lo sentiva. A dargli, in qualche modo, conferma ci furono anche i presagi. Augusto, fra l’altro, era superstizioso. Benché scettico sulla religione tradizionale, aveva per contro una fede tenace, quasi morbosa, nel destino, nei fenomeni celesti, nelle profezie degli indovini, orientali o greci che fossero. Quell’anno i giochi rituali in onore del suo settantacinquesimo compleanno furono particolarmente solenni e, nel corso di essi, ecco una serie di presagi, o tali almeno furono interpretati, sulla sua morte.


Caddero meteoriti dal cielo, comete di colore sanguigno comparvero a Oriente per scomparire a Occidente; ma soprattutto – e questo fu il presagio che impressionò o turbò piú di ogni altro – un fulmine distrusse la prima lettera del nome Caesar Octavianus Augustus, inciso sul basamento della sua statua che era in Campidoglio. Subito Augusto interrogò gli àuguri. Espletati i sacrifici di rito, gli àuguri dettero questa risposta: poiché con la lettera «C» i Romani indicano il numero «cento», la folgore annuncia che ad Augusto restano ancora cento giorni di vita. C’era poi un altro e non meno determinante significato, legato alla lettera «C». La parola Caesar senza la lettera iniziale («aesar») in etrusco voleva dire «dio»: perciò la morte di Augusto era

Apparizioni sempre piú rare Da mesi le sue apparizioni in Senato divenivano sempre piú rare e aveva altresí dispensato senatori, cavalieri, amici e conoscenti dall’obbligo della salutatio mattutina al princeps. Partito Tiberio per

La suddivisione di Roma nelle quattordici regioni definite in età augustea: I - Porta Capena II - Caelimontium III - Isis et Serapis IV - Templum Pacis V - Esquiliae VI - Alta Semita VII - Via Lata VIII - Forum Romanum IX - Circus Flaminius X - Palatium XI - Circus Maximus XII - Piscina Publica XIII - Aventinus XIV - Transtiberim.

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anche la certezza per lui della sua ascesa fra gli dèi. A quest’ultima premonizione Augusto non dette soverchia importanza. Sapeva bene come le divinazioni fossero utilissime in politica – lui, in realtà, si era servito di quella di Cesare e poi della propria come di meravigliosi e accattivanti strumenti di suggestione popolare ai fini di un potere personale carismatico. Ma ora era davanti a se stesso e il numero fatidico dei giorni gli scorreva sugli occhi.

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Statua in marmo dell’imperatore Tiberio, in veste di togato, da Roma. 14-37 d.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto gran cammeo di Francia, con l’apoteosi di Tiberio e della madre Livia, seduti al centro della scena. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

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l’Illirio, dove continuavano turbolenze, incendi e rivolte, andò in Campania. Per quattro giorni si fermò a Capri, con l’animo disposto alla quiete e alla natura del luogo. Ma era affetto da una forma fastidiosa di diarrea. Si trasferí allora a Napoli e lí assistette alla gara ginnica quinquennale istituita da tempo in suo onore. Durante il viaggio di ritorno l’indisposizione, che lo tormentava, si aggravò tanto che a Nola fu costretto a mettersi a letto.

Svetonio aggiunge che l’ultimo giorno chiese uno specchio, si fece radere la barba, mettere in ordine i capelli, aggiustare le guance, poi chiamò gli amici per accomiatarsi da loro. «Dunque, amici, disse, se ho recitato bene la commedia della vita, battetemi le mani come a teatro e gioiosamente salutiamoci». Morí il 19 agosto del 14 d.C., lo stesso giorno in cui, cinquantasette anni prima, non ancora ventenne, era stato eletto console.

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MONOGRAFIE

n. 52 dicembre 2022/gennaio 2023 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore Furio Sampoli è stato scrittore e cultore di storia romana. Ha pubblicato numerosi saggi e romanzi storici ed è stato a lungo collaboratore della rivista «Archeo». Illustrazioni e immagini Mondadori Portfolio: Erich Lessing/K&K Archive: copertina; Album/Fine Art Images: pp. 28/29; AKG Images: pp. 44/45, 70/71, 84, 85 (sinistra), 87; Archivio Luca Mozzati/ Luca Mozzati: pp. 46-47; Album: pp. 48/49 – Doc red.: pp. 6-7, 9, 12-14, 17, 18-19, 25, 26, 28, 32-35, 38-41, 50/51, 51, 52-53, 56-65, 67, 71, 76/77, 80-83, 85 (destra), 86, 88-101, 103, 108, 110-111, 112, 114, 117 (basso), 118/119, 126-129; Studio Katatexilux: pp. 72-73, 75 – Shutterstock: pp. 8/9, 10/11, 16, 20/21, 22/23, 24/25, 30/31, 36/37, 42/43, 54/55, 66/67, 68/69, 74, 78/79, 102/103, 104/105, 112/113, 114/115, 116/117, 122/123, 124/125 – Altair4 Multimedia, Roma: pp. 105/106, 108 – The National Gallery of Art, Washington: pp. 116, 117 (alto) – Alamy Stock Photo: pp. 120/121 – Cippigraphix: cartine alle pp. 27, 51, 70 Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: cammeo in sardonica con il profilo dell’imperatore Augusto. La gemma fu poi inserita nella Croce di Lotario, realizzata nell’ultimo quarto del X sec. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale.

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