PARCO ARCHEOLOGICO DI CERVETERI E TARQUINIA
CERVETERI
TARQUINIA
CAPITALI D’ETRURIA
Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
MONOGRAFIE IN EDICOLA IL 18 APRILE 2023
N°54 Aprile/Maggio 2023 Rivista Bimestrale
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ARCHEO MONOGRAFIE
€ 7,90
CERVETERI CAPITALI D’ETRURIA
TARQUINIA
testi di Gloria Adinolfi, Caterina Agostino, Giovanna Bagnasco Gianni, Valentina Belfiore, Vincenzo Bellelli, Enrico Benelli, Luca Bianchi, Melania Bisegna, Francesco Bordo, Lidia Caputo, Rodolfo Carmagnola, Beatrice Casocavallo, Adele Cecchini, Orlando Cerasuolo, Raffaella Ciuccarelli, Rita Cosentino, Enrico Cuccia, Daniele Deidda, Nicola Dibiase, Lucio Fiorini, Laurent Haumesser, Benedetta Lepore, Emiliano Li Castro, Alessandro Mandolesi, Matilde Marzullo, Attilio Mastrocinque, Massimo Osanna, Eva Pietroni, Chiara Pizzirani, Paola Porretta, Carmelo Rizzo, Maria Antonietta Rizzo, Alessandra Sileoni, Maria Taloni, Maria Cristina Tomassetti, Alberto Villari, Marina Zingarelli
4. PRESENTAZIONE di Massimo Osanna 8. INTRODUZIONE di Vincenzo Bellelli Nasce il PACT, cuore d’Etruria
12. CERVETERI LA CITTÀ SCAVATA NELLA ROCCIA
14. Inquadramento topografico • 18. L’occhio del cielo: la necropoli della Banditaccia vista dall’alto • 22. Un giardino arredato con rovine parlanti: il paesaggio archeologico e naturalistico della Banditaccia • 26. I segni del potere: i grandi tumuli della necropoli della Banditaccia • 30. Il tumulo di Campo della Fiera e l’olpe di Bruxelles • 32. Da Caere a Bruxelles • 36. Un’ipotesi per il Sarcofago degli Sposi • 40. Le necropoli all’esterno del «Recinto»: il Laghetto, Via degli Inferi e la Bufolareccia • 44. L’iscrizione di Larth Lapicanes sulla via degli Inferi • 46. Tombe a dado e a caditoia: un salto evolutivo nell’architettura funeraria • 50. I grandi ipogei di età ellenistica: le Tombe del Comune • 54. La Tomba «Bella» 57. Disegni e facsimili di un monumento insigne • 58. Cippi e segnacoli
60. UN MUSEO PER L’ANTICA CAERE
61. L’edificio • 63. I corredi del Sorbo, di Monte Abatone e della Bufolareccia • 64. Racconti per immagini • 66. Capolavori della scultura in terracotta 70. Un storia a lieto fine: i capolavori di Eufronio • 74. Il Charun di Greppe Sant’Angelo 76. Le risorse multimediali: Cerveteri nel progetto «e-Archeo»
78. TARQUINIA LA STORIA E I COLORI
80. Il quadro topografico • 84. L’architettura delle tombe a camera tarquiniesi • 88. Il «Progetto Tombe Dipinte» 90. La pittura funeraria tarquiniese: cronologia e stile • 96. La tecnica pittorica • 98. I problemi della conservazione 100. Giochi, danze e banchetti: i temi iconografici delle tombe arcaiche • 104. Dalla vita alla morte • 106. Il paesaggio sonoro degli Etruschi 110. Scrivere nelle tombe • 113. Un autoritratto... scurrile • 114. Grandi ipogei del periodo tardoclassico e dell’età ellenistica • 116. «Il volto di donna più bello e famoso della pittura etrusca» 118. Documentare le tombe dipinte • 120. Gli acquerelli di Adolfo Ajelli
122. CAPOLAVORI CON VISTA
123. Palazzo Vitelleschi: un «contenitore» straordinario • 125. Nel segno della leggibilità e dell’eleganza • 126. Vetrine piene di storia • 130. Le collezioni storiche • 132. Il corredo della tomba di Bocchoris • 134. Dalla Grecia all’Etruria: la collezione vascolare • 138. Storie di pietra: i lastroni a scala • 140. Ex Oriente lux • 142. I capolavori del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia • 146. Il gruppo statuario di Mitra • 148. Il lapidario • 151. Gli Elogia degli Spurinnae 152. Il santuario emporico di Gravisca • 156. Le grandi famiglie di Tarquinia • 160. La Società Tarquiniense d’Arte e Storia
A
partire dal 2014 l’attuale Ministero della Cultura è stato oggetto di riforme strutturali, che ne hanno completamente modificato la fisionomia. Tra queste, la novità che piú di tutte ha mutato il modo di concepire e di gestire il patrimonio culturale pubblico è stata l’attribuzione dell’autonomia organizzativo-gestionale e finanziariocontabile, oltre che tecnico-scientifica, ai principali musei, complessi monumentali e parchi archeologici dello Stato, cresciuti dai venti iniziali ai quarantaquattro attuali. Accanto ai piú noti Parchi archeologici del Colosseo e di Pompei, insieme alle Gallerie degli Uffizi di Firenze e a quelle dell’Accademia di Venezia, oltre alla Pinacoteca di Brera a Milano e alla Reggia di Caserta, è possibile annoverare realtà meno conosciute dal grande pubblico. Le quali, per rilevanza storico-monumentale e cospicuità delle collezioni a livello nazionale, si è ritenuto di dotare della cosiddetta «autonomia
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In alto, sulle due pagine uno scorcio della necropoli etrusca della Banditaccia, a Cerveteri. In basso cartina dell’Etruria propria, l’area che si estende fra l’Arno e il Tevere.
speciale», che, prima di tutto, rappresenta un’opportunità di crescita gestionale e di costruzione di identità valoriale. Il Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia, oggetto della trattazione di questo fascicolo, è cosí stato individuato come compagine ministeriale con una sua fisionomia, topografica e archeologica, solo di recente, nel giugno 2021. Cerveteri e Tarquinia sono due vivaci cittadine di medie dimensioni sul versante tirrenico del Lazio, la prima piú vicina a Roma, da cui dista circa 30 km, l’altra piú a nord, in provincia di Viterbo, a 80 km dalla capitale. Entrambe furono preminenti città-stato etrusche, fiorenti per economia e commerci grazie alla prossimità del mare, di cui a tutt’oggi rimane traccia dell’importanza rivestita nell’Italia preromana nelle estesissime aree cimiteriali, le piú vaste dell’antica Etruria. Non a caso, nel 2004, la necropoli dei Monterozzi di Tarquinia e quella della Banditaccia di Cerveteri sono state iscritte, con i loro 327 ettari di superficie, circondati da quasi 5000 ettari di buffer zones, nella Lista del Patrimonio mondiale UNESCO, a riconoscimento di quello straordinario valore universale che esse rappresentano per la storia dell’umanità. Un valore universale che si declina, come è proprio dei parchi archeologici, in una densa stratificazione di evidenze monumentali, di memorie storiche – dall’VIII al I secolo a.C. – e culturali, di elementi naturalistici e contesti paesaggistici, propri di un «museo all’aperto» (cfr. Codice dei beni culturali e del paesaggio, art. 101). Il riconoscimento UNESCO, preesistente dunque alla
A sinistra Massimo Osanna, Direttore generale Musei del Ministero della Cultura.
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costituzione del Parco autonomo, è tema di notevole complessità gestionale, determinando l’insistenza su uno stesso ambito territoriale di una situazione giuridica tutelata a livello internazionale insieme a una di livello nazionale, a sua volta inclusiva di piú enti locali e di diversi fattori patrimoniali. Per comprendere appieno tale articolazione si deve pensare alla doppia polarità del sito, alla sua afferenza a due Comuni e due Province amministrative diverse, alla considerevole estensione fisica, alla compresenza di due sedi museali, una nel Castello Ruspoli di Cerveteri e l’altra nello splendido Palazzo Vitelleschi a Tarquinia, accanto alle vaste aree archeologiche funerarie. Tutto ciò determina la necessità della costruzione di un equilibrio, all’interno e all’esterno del Parco, raggiungibile attraverso il confronto con tutti gli stakeholders e con la paziente collaborazione del territorio, con la comprensione reciproca delle distinte istanze compresenti, con lo studio e la ricerca costanti, in un continuo processo di osmosi tra passato e presente. L’apertura al territorio e il dialogo con il pubblico, d’altronde, sono gli strumenti necessari con cui i musei e i luoghi della cultura in genere possono realmente espletare la propria missione di servizio pubblico essenziale, rivolti verso la | 6 | CERVETERI E TARQUINIA |
Veduta del centro storico di Tarquinia, il cui profilo è punteggiato da varie case torri di epoca medievale.
cittadinanza che ne costituisce il presupposto e il fine. È ormai superato da decenni quel sentire comune che inquadrava la fruizione della cultura negli strati elitari della società, ma ancora molto è da fare per rendere accessibile a tutti il nostro patrimonio culturale. La rimozione delle barriere di ogni genere – fisiche, cognitivo-culturali, sensitive, linguistiche, economiche – è una delle grandi sfide del presente e del futuro, non a caso oggetto di un importante investimento (pari a 300 milioni di euro) nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’avanzamento tecnologico e scientifico contribuisce in maniera sostanziale all’elaborazione di nuovi linguaggi e all’individuazione di metodi di comunicazione e di partecipazione alternativi rispetto a quelli tradizionali, che oggi viene di chiamare «analogici». L’uso del digitale è sicuramente un’opportunità e una facilitazione: si pensi solo ad alcuni dei possibili utilizzi, come quello nell’ambito della safety & security, della diagnostica dei beni culturali, dell’inventariazione e catalogazione, della raccolta e sintesi dei dati conoscitivi, delle ricostruzioni virtuali e aumentate. Ma l’avanzamento non risiede solo nella capacità di impiegare in maniera incrementale le tecnologie multimediali e la digitalizzazione, bensí sta nella loro integrazione in un tessuto sociale in cui il digital divide, accanto al cultural divide, è ancora decisamente consistente. La vera sfida, dunque, è quella di elaborare nuovi linguaggi comunicativi che siano fruibili a vari livelli, diversificati per scopi e pubblici. Una sfida che, in questa sede, si traduce in un augurio per il Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia, il quale, sin dalla sua recente nascita, ha intrapreso politiche gestionali volte alla costruzione di un percorso di apertura verso il territorio, nell’intento di rivestire quel ruolo strategico sociale, di riferimento per le comunità, che deve essere proprio dei musei e dei luoghi della cultura. Un lavoro paziente e meticoloso, fatto di studio e di ricerca, che si ritiene, con fiducia e certezza, porterà a risultati consistenti e duraturi. Massimo Osanna | CERVETERI E TARQUINIA | 7 |
NASCE IL PACT, CUORE D’ETRURIA | 8 | CERVETERI E TARQUINIA |
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on l’istituzione del Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia (PACT), nel 2021, il Ministero della Cultura ha dato nuova consistenza al sito UNESCO «Necropoli etrusche di Cerveteri e Tarquinia», iscritto dal 2004 nella World Heritage List (vedi box alle pp. 10-11). Il risultato è l’area archeologica aperta al pubblico piú importante del mondo per estensione e concentrazione di monumenti della civiltà etrusca, un parco archeologico «a rete», che viene a candidarsi – sia dal punto di vista geografico sia simbolico – a essere il cuore del distretto culturale a matrice etrusca nell’alto Lazio. Al Parco sono stati aggiunti, come ricco complemento, i due musei archeologici territoriali, entrambi di rango nazionale, attualmente ospitati nelle storiche sedi di Castello Ruspoli a Cerveteri e Palazzo Vitelleschi a Tarquinia. Qui sono custoditi i tesori rinvenuti in secoli di ricerca archeologica condotta sia nelle necropoli sia nelle aree urbane delle due antiche metropoli, molti dei quali già entrati nell’immaginario collettivo per la loro iconicità, altri meno conosciuti, ma non meno interessanti. Se ne renderà ben conto il lettore sfogliando le pagine di questo fascicolo, nel quale troverà sia «immagini da copertina» che gli sono già familiari, sia scorci inediti, vedute e riprese di oggetti, che abbiamo selezionato per l’occasione con spirito di novità.
Le «regine» della dodecapoli
Veduta aerea della necropoli della Banditaccia, con l’area del Recinto sulla sinistra e, al suo esterno, i grandi tumuli delle Tombe del Comune. A destra, in alto Vincenzo Bellelli, direttore del PACT.
Per comprendere la sfida e le potenzialità del nuovo istituto autonomo del MiC, chiamato a gestire aree archeologiche e musei, è opportuno ricordare che le due antiche città, le piú potenti della dodecapoli etrusca, nell’antichità erano centro e non periferia, diversamente da oggi. Come autentiche capitali, Cerveteri e Tarquinia, in un dialogo fra pari, intrattenevano rapporti commerciali e culturali con tutti i grandi centri del mondo antico, a cominciare dalle poleis greche continentali e microasiatiche e dagli insediamenti di cultura fenicio-punica, oltre che con Roma e con il mondo italico. L’archeologia di queste due grandi città, come ben sanno gli studiosi, è specchio fedele di questa importanza strategica dell’Etruria meridionale nel contesto del Mediterraneo del I millennio a.C. Quello che forse non tutti sanno, al di fuori della cerchia degli specialisti, è che tale importanza si è tradotta, sul piano delle testimonianze archeologiche, in siti e collezioni museali unici al mondo, che possono essere ammirati soltanto in situ. In un contesto globalizzato come quello contemporaneo in cui anche la comunicazione archeologica è soggetta, fatalmente, alle leggi dell’enfatizzazione mediatica e in cui ogni scoperta è definita eccezionale (anche quando in realtà non lo è), sembra opportuno ricordare che Cerveteri e Tarquinia sono siti archeologici unici al mondo, i piú importanti in assoluto per la civiltà etrusca. A dircelo con la semplice chiarezza delle dichiarazioni ufficiali, è la motivazione dell’UNESCO per l’inserimento della necropoli dei Monterozzi, insieme a quella ceretana della Banditaccia, nella lista del patrimonio mondiale dell’Umanità. In tale motivazione, come sempre accade nelle deliberazioni dell’UNESCO, il perno concettuale è il valore universale del sito/complesso monumentale, sia che si tratti di un centro storico, sia di un sito archeologico. Ebbene, nel caso dei due siti confluiti nel PACT, questo valore universale è evidente. Le tombe dipinte di Tarquinia, oltre che un documento straordinario di arte pittorica
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funeraria, sono infatti anche una testimonianza privilegiata della «visione del mondo» degli Etruschi. Parallelamente, la necropoli monumentale della Banditaccia di Cerveteri, con le sue centinaia di tombe a camera sormontate da tumuli, calate in un contesto urbanistico articolato e complesso – fatto di quartieri, piazze, incroci stradali e facciate di edifici tombali –, non è soltanto un esempio eccelso di architettura funeraria, ma anche specchio fedele della città dei vivi, dell’urbanistica civile e dell’architettura domestica. Messi insieme, i due siti accrescono il proprio, già eccezionale valore storico e artistico e offrono ai visitatori una straordinaria opportunità di entrare nel mondo degli Etruschi da protagonisti.
Sulle due pagine la necropoli dei Monterozzi di Tarquinia, nella quale si concentra il maggior numero di tombe dipinte etrusche a oggi note.
In armonia con il paesaggio A Cerveteri, ciò avverrà in un contesto se possibile ancor piú eccezionale, proprio di tutti i grandi parchi archeologici, in cui il paesaggio costruito si sposa armoniosamente con il paesaggio naturale. Il Parco appena istituito ha come sua missione prioritaria quella di proteggere, conservare e valorizzare tanta bellezza, e tramandarla alle generazioni future, come si fa con i «tesori di famiglia», cioè coltivando il senso della continuità della memoria, il senso del bello e, in sintesi, tutti i valori positivi, a cominciare dall’inclusione sociale e alla crescita delle persone, legati al nostro ricchissimo patrimonio culturale. In
L’ISTITUZIONE DEL SITO UNESCO
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urante la ventottesima sessione del Comitato per il Patrimonio mondiale tenutasi tra il 28 giugno e il 5 luglio 2004 le necropoli etrusche di Cerveteri e Tarquinia sono state iscritte nella lista del Patrimonio mondiale sulla base dei seguenti criteri culturali: 1. Le pitture parietali dalle ampie dimensioni di Tarquinia sono eccezionali sia per le qualità formali sia per i temi trattati, che rivelano aspetti della vita, della morte e delle credenze religiose degli Etruschi. Cerveteri mostra in un contesto funerario i medesimi
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schemi urbanistici e architettonici di una città antica. 3. Le due necropoli costituiscono una testimonianza originale ed eccezionale dell’antica civiltà etrusca, unico caso di civiltà urbana nell’Italia pre-romana. Inoltre la raffigurazione della vita quotidiana nelle tombe dipinte, molte delle quali risultano essere una fedele replica delle abitazioni etrusche, rappresenta una testimonianza straordinaria di questa cultura scomparsa. 4. Molte tombe di Tarquinia e Cerveteri riproducono tipologie
edilizie non piú riscontrabili in altre forme. I cimiteri, repliche di schemi urbanistici etruschi, sono tra i piú antichi della regione. Pur non includendo nell’iscrizione i due musei archeologici, se ne sottolinea lo straordinario valore delle collezioni per la comprensione delle due necropoli. Dal 2021 le necropoli e i musei costituiscono un unico Parco archeologico: ciò permetterà di restituire al sito la sua unitarietà e di progettarne la tutela, la conservazione e la valorizzazione in forma integrata, in stretta
In basso foto satellitare sulla quale sono indicate le aree dei siti UNESCO di Cerveteri (in basso) e Tarquinia e le rispettive buffer zones (in verde).
questa fase di avvio del Parco, con progetti che adesso si stanno promuovendo e che presto miglioreranno l’accessibilità di aree archeologiche e musei, è sembrato opportuno portare all’attenzione del lettore, innanzitutto per invogliarlo a visitare i luoghi, quali sono gli itinerari possibili, fisici e intellettuali, quali – fra i tanti – i monumenti e le opere da vedere, quali i temi da approfondire prima, durante e dopo la visita. Per garantire la massima scientificità dei testi, abbiamo concepito questa Monografia come un racconto collettivo e chiamato a parteciparvi, con il valore aggiunto della propria esperienza diretta e della propria competenza, tutti gli archeologi del PACT e alcuni fra gli studiosi e gli specialisti che già lavorano su Cerveteri e Tarquinia da anni, nonché le forze provenienti dal terzo settore attive sul territorio. L’entusiasmo con cui tutti hanno risposto al nostro invito, e quello dei rappresentanti delle due amministrazioni comunali che sono insieme al Parco i principali attori istituzionali coinvolti nella gestione della nuova realtà, è motivo di grande soddisfazione e di buon auspicio per il futuro. Realizzata nell’anno «zero» del PACT, questa Monografia vuole essere un piccolo, ma significativo esempio di quella condivisione e di quel metodo di lavoro con il quale intendiamo portare avanti il duro lavoro che ci attende nei prossimi anni. Buona lettura a tutti! Vincenzo Bellelli
collaborazione con la Soprintendenza competente per territorio. Inoltre, nel 2024 cadrà il ventennale del riconoscimento UNESCO e sarà l’occasione di bilanci e il momento per immaginare nuove prospettive: l’anniversario coincide con il centenario dell’inaugurazione del Museo di Tarquinia ed entrambi gli eventi daranno la possibilità al Parco di accogliere vecchi e nuovi pubblici alla scoperta delle meraviglie del sito, patrimonio mondiale dell’umanità. Maria Taloni
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LA CITTÀ SCAVATA NELLA ROCCIA L’antica Caere fu uno dei centri piú ricchi e fiorenti non solo dell’Etruria, ma dell’intera regione mediterranea. Un’opulenza di cui sono splendida testimonianza le monumentali tombe ricavate nel tipico tufo locale
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VISITARE LA NECROPOLI
PERCORSO ROSSO (2000 m) PERCORSO BLU (1400 m) PERCORSO VERDE (1000 m)
Pianta del settore recintato della necropoli della Banditaccia, con l’indicazione dei tumuli e delle tombe piú importanti e dei percorsi di visita consigliati. Il sepolcreto occupava una superficie di 100 ettari circa e si stima che comprendesse 20 000 tombe: l’area recintata corrisponde a circa 1/10 di questo vastissimo complesso. La sua sistemazione si deve a Raniero Mengarelli (1863-1944), primo Direttore dell’Ufficio per gli Scavi dei mandamenti di Civitavecchia e Tolfa (istituito nel 1909), che operò a Cerveteri tra il 1908 e il 1933, conducendo un’intensa campagna di scavi e coordinando in seguito il restauro e la musealizzazione di gran parte dei monumenti riportati alla luce.
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INQUADRAMENTO TOPOGRAFICO di Alberto Villari
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e città etrusche sorgevano su colline facilmente difendibili ed erano sempre fondate in prossimità di fiumi e torrenti che, oltre a fornire l’acqua necessaria, rappresentavano anche comode vie di comunicazione. Non di rado, come in tutta la Maremma tosco-laziale, la fascia costiera era caratterizzata dalla presenza di acque stagnanti e paludi. Le principali città dell’Etruria meridionale, Cerveteri, l’antica Caere, una delle città piú importanti della dodecapoli, Tarquinia e Vulci, erano situate a pochi chilometri dalla costa tirrenica ed erano dotate di porti. Caere ne aveva ben tre: Pyrgi (oggi Santa Severa), Punicum (Santa Marinella) e Alsium (Palo). La viabilità principale era costituita da strade dirette verso l’interno e verso la costa, che, a
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loro volta, incrociavano vie di lunga percorrenza che mettevano in collegamento l’Etruria centro meridionale marittima con il Lazio meridionale sin da epoca protostorica. Su tale direttrice longitudinale para-costiera si imposterà in futuro anche il tracciato dell’antica via Aurelia. In questo contesto territoriale, Cerveteri si sviluppò a partire dal X secolo a.C. su un sistema di pianori tufacei collegati fra loro, formati da eruzioni di massa incandescente che, raffreddandosi, formarono il tipico tufo rosso. L’abitato fu collocato sul pianoro centrale, noto come Vignali; sul pianoro di nord/ovest e nell’altro a sud/est, invece, si svilupparono le necropoli, che circondavano «a corona» la città dei vivi. La piú famosa, ma anche la piú variegata e stratificata è la
Foto satellitare sulla quale sono indicati il perimetro della necropoli della Banditaccia acquisita al patrimonio UNESCO dal 2004 (in rosso) e l’area recintata del sepolcreto (in arancione).
necropoli settentrionale, nota come necropoli della Banditaccia; le altre aree sepolcrali, non meno importanti sono: Sorbo, Greppe Sant’Angelo, Monte Abatone, Cava della Pozzolana, Bufolareccia, Monte Tosto. Le necropoli coprono un periodo cronologicamente piuttosto esteso, riferito alla storia etrusca di Caere dall’VIII al II secolo a.C. Oggi la cittadina moderna di Cerveteri occupa solo una piccola parte dell’area occupata dell’antica città, consistente nel centro storico e in una sua leggera espansione. La città moderna si è sviluppata verso l’Aurelia e il mare, per effetto del vincolo archeologico che ha preservato l’altopiano dei Vignali.
Un caso unico La necropoli della Banditaccia di Cerveteri è la piú grande tra quelle che circondavano la città antica. Si tratta di gran lunga del piú vasto sepolcreto del mondo antico, mirabilmente preservato. L’area cimiteriale è separata dall’antica città dal fosso del Manganello, un vallone stretto e non piú apprezzabile nella
parte superiore, mentre a nord confina con il fosso del Marmo. Alla necropoli si accede per una strada fiancheggiata da alberi costruita nel 1929, che porta a un vasto parcheggio dove è situato l’ingresso all’area recintata. Nel suo insieme la necropoli si sviluppa come una vera e propria città, con vie principali e stradine secondarie, piazze, piazzette, quartieri funerari e tombe concepite come case. La necropoli della Banditaccia contribuisce pertanto alla conoscenza della civiltà etrusca anche per ciò che riguarda gli aspetti della pianificazione urbanistica e dell’architettura residenziale. La tipologia delle singole tombe, completamente costruite in tufo tramite escavazione e/o costruzione a blocchi, costituisce, anche nella concezione architettonica e nelle decorazioni interne, un unicum che, in tali forme monumentali, non si riscontra in nessun altro sito etrusco. All’ingegnere e archeologo Raniero Mengarelli, attivo sul sito dal 1907, si devono i primi scavi intensivi. Si deve sempre al suo operato l’aver reso il sito un’area archeologica visitabile.
Foto satellitare con l’ubicazione delle principali necropoli dell’antica Caere. È stato calcolato che, nella fase di massima fioritura, la città etrusca fosse abitata almeno da 25 000 persone, il che spiega la straordinaria e conseguente espansione delle zone scelte per la sepoltura dei defunti.
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La parte principale della necropoli della Banditaccia è stata recintata e sistemata «a parco» negli anni Trenta (Vecchio Recinto) e ampliata negli anni Sessanta del Novecento (Nuovo Recinto) con la ripresa delle indagini in maniera piú sistematica a opera dell’archeologo Mario Moretti. L’area esterna altrettanto importante quanto complessa è inframezzata da uliveti, vigneti e campi coltivati, e da una vegetazione molto rigogliosa e a tratti infestante. È caratterizzata da una lunga via scavata nel tufo che attraversa la necropoli longitudinalmente, nota come via degli Inferi (denominazione scelta da Mengarelli) o Sepolcrale principale con le varie derivazioni (per esempio, la via Diroccata). All’esterno dell’area archeologica recintata si possono identificare vari complessi funerari (Campo della Fiera, 5 Sedie, Tombe del Comune, Autostrada, Onde Marine, Grandi Tumuli, Tegola Dipinta, Laghetto, Laghetto I, Laghetto II,
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Bufolareccia, via degli Inferi, indagate in un arco temporale di due secoli circa. Lo sviluppo topografico e urbanistico della necropoli della Banditaccia, apprezzabile soprattutto nella zona recintata, mostra nel corso dei secoli un cambiamento legato sia a fattori socio-politici che materiali, dettati dallo spazio a disposizione e dalla conformazione del suolo. Confrontando l’area della città con quelle utilizzate per le sepolture, risalta subito che quest’ultime occupano una superficie superiore a quella della città dei vivi, poiché nell’area urbana le case erano riutilizzate da piú generazioni mentre nella città dei morti ogni generazione occupava uno spazio che non poteva essere concesso a quelle successive. Questo progressivo espandersi della necropoli ha portato a introdurre una pianificazione urbanistica simile alla città con vie e piazze (per esempio, via dei Monti Ceriti e via dei Monti della Tolfa) in cui si affacciavano le case/tombe.
Foto satellitare sulla quale sono indicati il settore recintato della necropoli della Banditaccia e i nuclei sepolcrali individuati nelle aree circostanti.
L’OCCHIO DEL CIELO: LA NECROPOLI DELLA BANDITACCIA VISTA DALL’ALTO di Daniele Deidda
PONTE VIVO
RECINTO
TOMBE A DADO
NECROPOLI DEL LAGHETTO
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CAVA DI POZZOLANA
BUFOLARECCIA
FOSSO DEL MANGANELLO
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a visuale dall’alto costituisce l’elemento fondante della documentazione aerea. L’ampia veduta consente di inquadrare la totalità del territorio e delle sue evidenze, permettendo il riconoscimento di conformazioni non comprensibili a livello del suolo. La ricognizione aerea, la fotointerpretazione e la restituzione delle evidenze hanno un’ampia gamma di applicazioni nel campo della ricerca archeologica. Le fotografie aeree consentono di illustrare il contesto archeologico e topografico dei siti e delle aree studiate, agevolando analisi morfologiche e morfometriche. Le immagini telerilevate permettono di distinguere le evidenze presenti nel paesaggio offrendo la possibilità di identificarne la forma e misurarne anche l’estensione superficiale. Dalle fotografie aeree, inoltre, è possibile ricavare mappe informative fondamentali per l’elaborazione di strategie di scavo, di ricerca, di tutela o conservazione. Grandi quantità di dati possono essere acquisite grazie al raffronto di immagini aeree scattate in diversi momenti storici (o stagionali), cosí da consentire di tracciare l’evoluzione o, nelle casistiche peggiori, la distruzione del paesaggio a seguito di fasi antropiche. A tal proposito sono numerose le battute fotografiche che hanno coperto l’area dell’antica Caere nell’ultimo secolo: quelle del 1929-30, quelle della Royal Air Force del 194344, le immagini aeree del 1954-55, del 1960, 1972, 2000, 2003, 2008.
Immagini a confronto
Foto satellitare che permette di distinguere l’area recintata della necropoli della Banditaccia e le altre zone interessate dalla presenza di monumenti funerari.
Le analisi delle fotografie storiche, comparate a quelle «moderne» satellitari, consentono di mostrare il mutamento subito dalla necropoli della Banditaccia a seguito delle numerose indagini archeologiche succedutesi nel Novecento, quelle di Raniero Mengarelli negli anni Venti e Trenta e quelle di Mario Moretti negli anni Cinquanta e Settanta, fino agli interventi piú recenti. Ben delineabili e distinguibili sono i margini che delimitano i
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circa 200 ettari che costituiscono il pianoro tufaceo della necropoli, separato sul versante sud-est dal plateau dell’area urbana dal Fosso del Manganello e fiancheggiato, sul lato opposto, dal Fosso del Marmo. Nel fotogramma del 1930 (qui accanto) sono riconoscibili, grazie alle soilmarks, centinaia di tumuli presenti su tutto il pianoro. Anche i dromoi di accesso e le camere sepolcrali, piú scuri rispetto al resto della colorazione del tumulo, sono in molti casi ben visibili. Nel fotogramma gli elementi di maggior spicco sono i cosiddetti Grandi Tumuli di epoca orientalizzante che si trovano in direzione della valle formata dal Fosso del Manganello: il Tumulo degli Scudi e delle Sedie, il Tumulo degli Animali Dipinti e il Tumulo della Nave. Al centro dell’immagine, nell’area relativa ai cosiddetti «Vecchio» e «Nuovo» Recinto, è ben visibile la via sepolcrale principale, che costeggia la Tomba dei Capitelli e i Tumuli I e II fino a giungere a un crocicchio che consente, verso destra, di giungere alla Tomba della Cornice e, proseguendo verso est, di raggiungere le vie dei Monti Ceriti e dei Monti della Tolfa. Tra queste strade è possibile identificare, come una macchia piú scura rispetto al resto della vegetazione, il Tumulo Maroi e, in successione, i grandi tumuli Mengarelli e del Colonnello.
TUMULO DELLA NAVE
La strada incassata nel tufo Nel versante orientale del fotogramma del 1930 è infine ben riconoscibile un buon tratto della via degli Inferi. Ben visibile perché profondamente incassato nel tufo, questo tratto si snoda dalle porte del versante settentrionale della città, supera il fosso del Manganello e costituisce, nella sua biforcazione occidentale, l’originario percorso interno alla necropoli della Banditaccia. Nel tratto iniziale, presso l’area del recinto, s’incontra la Tomba delle Colonne Doriche; la strada prosegue fino a un bivio, a sinistra del quale si prosegue per il Ponte Vivo, a destra per la città antica.
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Nella foto satellitare moderna si può osservare come l’opera di rimboschimento che ha interessato buona parte del pianoro abbia modificato il paesaggio rispetto a quello agricolo degli anni Trenta del Novecento. L’area recintata di circa 10 ettari appare ben delimitata, ma in alcune parti la lettura risulta piú complicata proprio a causa degli alberi, tornando poi nitida in corrispondenza delle vie dei Monti della Tolfa e dei Monti Ceriti, dove si
L’area della Banditaccia in una foto aerea scattata nel 1930. Grazie alla minore copertura boschiva, sono ben riconoscibili i piú grandi tumuli della necropoli.
FOSSO DEL MARMO
TUMULO I TUMULO II PONTE VIVO TUMULO CAPITELLI TUMULO DEL COLONNELLO TUMULO DELLA CORNICE
TUMULO MAROI
TUMULO MENGARELLI
TUMULO DEGLI SCUDI E DELLE SEDIE
VIA DEGLI INFERI
TUMULO DEGLI ANIMALI DIPINTI
FOSSO DEL MANGANELLO
individuano le tombe cosiddette «a dado». Un’altra area ben leggibile rispetto al fotogramma del 1930 è la necropoli «del Laghetto», situata a est subito fuori la zona delimitata dal Nuovo Recinto, messa in luce dagli scavi degli anni Sessanta, seguiti poi da quelli degli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Poco piú a est di quest’ultima si incontra la cosiddetta Bufolareccia, appendice naturale dell’estremità nord-est della
Banditaccia, collegata alla città tramite la via della Bufolareccia. Diretta a nord-ovest verso il Ponte Vivo, questa via si diparte dalla Via degli Inferi e prosegue in direzione della Valle del Mignone. Infine nel limite piú estremo del pianoro della Banditaccia, presso il margine settentrionale della Bufolareccia, vi è l’area denominata Cava della Pozzolana. Anche per quest’area, dalla fotografia satellitare, sono ben visibili i numerosi tumuli presenti.
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UN GIARDINO ARREDATO CON ROVINE PARLANTI: IL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO E NATURALISTICO DELLA BANDITACCIA di Paola Porretta
N
ella prima metà del Novecento una porzione scelta della necropoli della Banditaccia fu trasformata in un moderno sito archeologico. Le attività di scavo, le scelte di restauro e di ricostruzione delle strutture funerarie, un’inedita modalità di accesso e la costruzione di un giardino all’interno del recinto di visita portarono alla creazione di un paesaggio antico mai esistito prima di allora: l’identità originaria del cimitero etrusco fu completamente reinventata e la Banditaccia si trasformò in uno dei luoghi dell’antico piú suggestivi del Mediterraneo. Raniero Mengarelli (1863-1944), ingegnere-archeologo «dilettante» e primo Direttore dell’Ufficio per gli Scavi dei mandamenti di Civitavecchia e Tolfa (istituito nel 1909) fu il protagonista assoluto di quegli anni e deve essere oggi considerato il principale artefice della Banditaccia moderna. A distanza di un secolo dalla creazione del recinto di visita, e all’indomani dell’istituzione del nuovo Parco, è possibile tracciare in prospettiva storica le modalità e le ragioni dell’invenzione moderna del paesaggio antico di quella porzione della Banditaccia, non soltanto per colmare una lacuna nella conoscenza storica, ma anche per fornire strumenti operativi capaci di orientare in modo informato le attività di manutenzione di quanto ereditato dal secolo scorso e per istruire futuri progetti (di scavo, restauro, valorizzazione), anche qualora si intenda aggiornare le scelte del passato e percorrere nuove strade esegetiche.
Una trasformazione radicale In questa direzione, è necessario ricostruire il lungo processo di patrimonializzazione (dall’Ottocento fino all’istituzione del sito UNESCO nel 2004) e la storia delle molteplici interpretazioni e azioni di attualizzazione
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dell’intero territorio dell’antica Caere e della sua piú celebre necropoli, a partire proprio dagli anni 1909-1944 quando la Banditaccia subí la trasformazione piú radicale, con la costruzione di un paesaggio evidentemente artificiale, ma di straordinaria efficacia e immediata assuefazione nell’immaginario collettivo. Come per altri siti di rovine consolidate che hanno preso forma tra Otto e Novecento, si tratta però di un percorso accidentato. Mengarelli non pubblicò l’edizione scientifica dei suoi scavi, negli archivi non si conservano relazioni e progetti di restauro, poche sono le sue dichiarazioni di metodo e occasionali i riferimenti alle scelte di musealizzazione e sistemazione del sito. La sua storia, che qui si racconta brevemente, può essere ricostruita soltanto per via indiziaria, a partire da sporadici
Raniero Mengarelli, a destra nella foto, durante i lavori di scavo e restauro del Tumulo II. Nella pagina accanto il Tumulo XXII dei Due Ingressi durante i lavori di ricostruzione quasi integrale. 1930.
documenti archivistici pertinenti, raccogliendo laconiche informazioni tra le pieghe di qualche taccuino, attraverso l’analisi autoptica dei lavori realizzati, mettendo a sistema le (poche) fonti oggettive e quelle soggettive (come i diari dei viaggiatori e le descrizioni di scrittori e artisti), attraversando il paesaggio attuale alla ricerca delle «rimanenze» dei tanti paesaggi che si sono stratificati nel tempo. Dopo i saccheggi antichi e le depredazioni in età moderna, l’uomo abbandonò le terre di Caere e le sue tombe tornarono progressivamente alla natura. All’inizio dell’Ottocento esisteva ancora qualche sepolcro inviolato in un paesaggio senza soluzione di continuità di rovine, campi e pascoli. Tutti i viaggiatori che in quei decenni visitarono Cerveteri cominciarono il proprio cammino verso la necropoli dal pianoro dei
Vignali: dall’altopiano della città dei vivi, privo di evidenti resti etruschi, potevano osservare l’estensione dell’ager Caeretanus fino al mare e riconoscere, sullo sfondo dei Monti Ceriti, un paesaggio dolcemente corrugato da tante montagnette, memoria ancora apprezzabile dei monumentali tumuli della Banditaccia; e proprio dai Vignali, come avevano fatto anche gli antichi Etruschi, si incamminavano per raggiungere la città dei morti.
Caccia ai tesori Le prime indagini archeologiche non cambiarono la forma e lo stato dei luoghi. Coerenti con la cultura di allora, gli scavi antiquari furono orientati per lo piú allo scoprimento degli interni sepolcrali e al ritrovamento di materiali preziosi: i primi esploratori non si interessarono al contesto e,
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proprio per questo, non mutarono l’estetica dei luoghi. Il paesaggio funerario della Banditaccia, oggetto soltanto di puntuali indagini e trafugamenti, continuò quindi a convivere senza fratture con il resto del paesaggio fino all’inizio del Novecento, quando, con le attività di Mengarelli, cominciò un lento ma inesorabile processo di separazione di un insieme selezionato di tombe della Banditaccia dagli accumuli dei secoli successivi, dal contesto in cui erano integrate e dal resto della necropoli di cui erano parte. All’interesse esclusivo per i reperti mobili di valore artistico si aggiunse quello per l’architettura e la topografia del sito e presto emerse anche la necessità di conservare e musealizzare quanto scoperto, per offrirlo alla visita del grande pubblico. All’interno del recinto intenzionalmente definito, Mengarelli portò avanti una diffusa azione di scavo e un altrettanto ampio lavoro di restauro. Le strade sepolcrali e le piazze, lungo le quali e attorno alle quali erano state costruite le tombe, tornarono ad articolarsi, liberate da
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La via Sepolcrale Principale. A sinistra, in una foto scattata prima del 1915, quando i lavori di scavo erano sostanzialmente conclusi e quelli di restauro, ricostruzione e musealizzazione erano in corso. A destra, la stessa inquadratura in una foto recente, che esemplifica il peculiare connubio flora-rovine all’interno del recinto di visita.
secoli di terra e di stratificazioni; i tumuli emersero dal piano di calpestio con i loro tamburi e con ritrovata chiarezza architettonica; le diverse organizzazioni sepolcrali furono riabilitate e tornarono a descrivere le varie fasi di costruzione della necropoli e quelle dell’abitato di cui erano diretta trasposizione; sistemi architettonici che in antichità non erano a vista (come gli ingressi delle tombe ipogee) divennero partecipi del nuovo sistema.
Rovine parlanti Completamenti piú o meno estesi e ricostruzioni anche integrali contribuirono al recupero di un’identità architettonica immediatamente riconoscibile e collaborarono al ripristino del presunto sistema originario. Scavi e restauri crearono quindi un inedito paesaggio di rovine parlanti – immagine evocativa ma alterata dell’antico – e determinarono una prima chiara frattura con la parte non scavata e con il resto del paesaggio funerario. La piú evidente mistificazione si
deve però attribuire all’inserimento di una vegetazione non pertinente con l’assetto antico all’interno del recinto di visita. Se, infatti, la riduzione del contesto stratificato è in qualche modo ineludibile in presenza di uno scavo archeologico e se la ricostruzione, piú o meno estesa, delle strutture architettoniche può rientrare in esigenze di comunicazione e spesso anche di conservazione, cosa diversa fu la scelta di impiantare pini, cipressi, fiori e arbusti in un luogo concepito in origine come
L’attuale paesaggio dell’ager Caeretanus, con i Monti Ceriti sullo sfondo e, in primo piano, l’enclave del giardino archeologico della Banditaccia.
un pezzo di città, costruito nel tufo e con il tufo. L’identità antica che si intendeva recuperare fu, infine, tradita anche dalla costruzione di una piú rapida e agevole via di accesso al sito archeologico – la cosiddetta Autostrada, voluta da Mussolini – che minò il rapporto fondativo tra la città e le sue necropoli. I Vignali persero per sempre la propria vocazione di centro geografico ed emotivo del territorio cerite e da allora nessuno sarebbe piú partito dalla città dei vivi per raggiungere la città dei morti.
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I SEGNI DEL POTERE: I GRANDI TUMULI DELLA NECROPOLI DELLA BANDITACCIA di Maria Antonietta Rizzo
I
l ceto aristocratico di formazione urbana concentra all’inizio del VII secolo a.C. gli sforzi maggiori sull’architettura funeraria, quale metafora della propria ricchezza secondo un preciso intento di esaltazione del proprio status sociale. Si assiste, quasi all’improvviso, a un chiaro fenomeno di enfatizzazione della tomba, quasi sempre compresa, almeno a Cerveteri, entro un tumulo, che, pur attingendo a una tipologia funeraria già nota in Etruria alla fine dell’età del Bronzo, e già attestata almeno dall’VIII secolo a.C. nelle regioni interne dell’Asia Minore e noto anche in ambito vicino-orientale, oltre che in ambito omerico, si manifesta nella sua ampiezza, profondamente rielaborata, proprio tra i decenni finali dell’VIII e gli inizi del VII secolo: un momento in cui, anche a seguito di impulsi culturali innovativi di matrice vicino-orientale, accanto ad altri di matrice greca, si assiste a fenomeni di cambiamento radicale nello stile di vita e nelle manifestazioni ostentatorie e
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politico-celebrative delle potenti, emergenti aristocrazie etrusche. I tumuli monumentali della necropoli della Banditaccia, quelli del Colonnello, Mengarelli, il tumulo della Tomba della Capanna all’interno del Recinto, quelli degli Animali Dipinti, della Nave, degli Scudi e Sedie, Moretti e 2018 all’esterno, ben visibili con la loro enorme mole dalla città, raggiungono dimensioni di alcune decine di metri e attestano che la camera è assimilata alla casa del defunto, con un inscindibile rapporto tra architetture dei vivi e architetture per i morti. Staccandosi dalle ragioni funzionali dei piccoli rincalzi di terra disposti a calotta che proteggevano la parte costruita della tomba e che erano presenti nella piú antica tradizione delle tombe a pseudo-volta, i tumuli diventano il segno evidente dell’aristocratico che vuole marcare in modo vistoso, con il profilo del suo monumento emergente nel paesaggio, il possesso della terra, e che vuole indicare il
Un tratto della via Sepolcrale della necropoli della Banditaccia, fiancheggiato da tombe a tumulo.
prestigio, lo status sociale raggiunto, la potenza economica, adottando un tipo di sepoltura che è già predisposto, date le amplissime dimensioni, ad accogliere altre tombe per le future generazioni: il passaggio da sepolture singole a sepolture collettive, quali sono le tombe a camera, riflette l’emergere di un rango gentilizio che tiene a suggellare in modo indiscutibile i vincoli familiari.
Specchio dell’architettura domestica
La Tomba della Capanna, la cui camera funeraria presenta un tetto a doppio spiovente sorretto dal columen (il trave di colmo centrale). VII sec. a.C.
Cerveteri è il luogo dove queste nuove strutture architettoniche raggiungono la loro massima realizzazione, per l’ampiezza del diametro dei tumuli, per gli originali apparati decorativi esterni, per la conformazione planimetrica complessa e diversificata delle camere interne, che riflettono certamente le architetture domestiche delle città dei vivi. La straordinarietà degli impianti planimetrici qui adottati, l’arditezza degli alzati, le scelte architettoniche che comportavano una
particolare consuetudine con la realizzazione di complesse costruzioni a blocchi, l’abilità nelle soluzioni strutturali e costruttive degli interni attestano la potenza della committenza, che non ha esitato ad affidare a maestranze di particolare livello la costruzione delle proprie dimore eterne, a suggello dei nuovi modelli di vita adottati. A modelli vicino-orientali riportano l’adozione di soluzioni architettoniche di inusitata monumentalità e complessità costruttiva, l’uso di porre agli ingressi delle tombe grandi sculture in trono di tradizione iconografica orientale, l’enfasi data ai tamburi sormontati da una cornice composta da fasce aggettanti e da tori rientranti, primi esempi di ornato architettonico litico rinvenuti in Italia, secondo un uso del tutto nuovo che giustamente è stato messo in relazione ancora una volta a esperienze vicino orientali e siro-ittite, le sole con cui si possano istituire confronti; analoga ispirazione si può postulare per le porte ad arco di tradizione nord-siriana. Tutte innovazioni che possono attribuirsi a un architetto originario di quelle aree vicino-orientali, giunto insieme a maestranze dedite ad altri tipi di produzioni (oreficerie, glittica, grande plastica) in grado di soddisfare le esigenze di una facoltosa clientela locale, che adotta modelli di vita e di comportamento che vengono dall’esterno e che prevedono un’accentuata ostentazione del lusso, attestazioni di un profondo cambiamento sociale, non graduale ma improvviso. La ricca committenza etrusca piegò inoltre il modello del tumulo alle proprie volontà di autorappresentazione e di culto adottando soluzioni che andavano a soddisfare particolari esigenze di tipo rituale, come l’orientamento degli accessi delle tombe piú antiche verso ovest/nord-ovest, laddove erano collocate le divinità infere, la realizzazione di un ampio fossato che doveva costituire un limite inviolabile, la creazione di podi addossati alla struttura del tumulo, con una rampa a gradini che conduceva a un ripiano, luogo preposto allo svolgimento vero e proprio di pratiche cultuali,
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destinate alla commemorazione degli antenati (altari, sacelli). Alla tradizione italica si può imputare lo sviluppo di un linguaggio architettonico capace di replicare la monumentalità esterna anche all’interno della sepoltura, monumentalità quest’ultima estranea all’architettura funeraria vicino-orientale.
Un modello e le sue declinazioni I grandi tumuli ospitano tombe di varie tipologie: a unica camera, come la Tomba 1 del Tumulo del Colonnello, ben databile entro il primo decennio del VII secolo a.C., oppure a due camere assiali, come la Tomba della Capanna, di pochissimo posteriore. Nella Tomba 1 del tumulo del Colonnello e nella camera di fondo della Tomba della Capanna non vi è distinzione tra le pareti laterali e il tetto, poiché le falde partono dal pavimento e con profilo continuo convergono verso il columen (il trave di colmo del tetto, n.d.r.), mentre nella camera di ingresso della Tomba della Capanna le falde del tetto si impostano su una bassa parete, cosí come nella camera della Tomba 1 del Tumulo 2, dove le pareti hanno ormai raggiunto un’altezza notevole a scapito delle falde del tetto. Volendo assimilare queste architetture a quelle dell’architettura domestica, si passa dalla imitazione del thalamos, la camera per il riposo (Tomba 1 del Colonnello) a quella del megaron, la sala di ricevimento (Tomba 1 del Tumulo 2), mentre la Tomba della Capanna, con le sue due camere assiali unisce
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La Tomba 1 del Tumulo della Nave. 670-650 a.C. In basso restituzione grafica di alcune delle pitture che decoravano la camera destra della Tomba dei Leoni Dipinti, compresa nel Tumulo degli Scudi e delle Sedie. 670-650 a.C.
insieme il ricordo delle due funzioni. In epoca successiva, tra il 670 e il 650 a.C., si datano la Tomba 1 del Tumulo della Nave, la Tomba 1 degli Animali Dipinti, la Tomba dei Leoni dipinti all’interno del grande Tumulo degli Scudi e Sedie, l’unica tomba del Tumulo Mengarelli, rimasto non finito, le tombe scoperte negli scavi piú recenti, la 2023 (la tomba piú antica compresa all’interno del Tumulo Moretti), e altre di minori, ma sempre considerevoli dimensioni, come la 2018 di fronte al Tumulo degli Animali Dipinti. Tutte riprendono il modello di un’ampia casa rettangolare suddivisa da coppie di pilastri in tre ambienti di cui quello centrale presenta un tetto a doppio spiovente riproducendo gli elementi di copertura, dal columen alla orditura dei travetti che sostengono le falde; questo, in
particolare, poco piú lungo del comparto mediano della tomba, termina talvolta negli ambienti di entrata e di fondo (per esempio tombe degli Animali Dipinti, Leoni Dipinti e 2023) con un motivo a disco verso il quale convergono, disposte a ventaglio, le travature delle falde a conca, di un tipo che si rifà alla tradizione delle grandi capanne a pianta ovale.
L’ultima dimora dei «principi» La ricchezza e la varietà dei materiali pertinenti ai corredi funebri, solo in parte rinvenuti perché oggetto di saccheggi antichi e moderni, consentono di ben comprendere e interpretare l’ideologia funeraria dei «principi» titolari dei tumuli, ideologia che determina e condiziona la scelta di deporre all’interno delle tombe alcuni specifici oggetti significanti, alcuni di tradizione locale, altri di tradizione allogena (scettri, troni, ventagli, vasellame prezioso), e che permette di avere indicazioni sul tipo e le modalità di circolazione di quella vasta gamma di oggetti di prestigio che circolavano nel Mediterraneo, e che giunsero in numerosi esemplari alle ricche aristocrazie ceretane, distinguendosi per particolare qualità di esecuzione e rarità di tipologie. Sono esibiti molti segni del potere relativamente alla sfera della guerra, almeno nelle sue manifestazioni da parata, come gli scudi riprodotti alle pareti della Tomba degli Scudi e Sedie, o il carro, i cui resti sono stati
In alto, a sinistra foto aerea dell’area dei Grandi Tumuli della Banditaccia. Qui sopra la Tomba degli Scudi e delle Sedie. Seconda metà del VI sec. a.C. Negli spazi fra i tre ingressi alle camere di sepoltura sono scolpite due «sedie», che hanno, in realtà, la forma di piccoli troni, sormontati da altrettanti «scudi».
rinvenuti in tutti i grandi tumuli, oggetti che non sembrano piú sottolineare soltanto il valore militare del defunto, ma anche i segni del rango e della continuità aristocratica, il cui centro d’interesse non è piú l’individuo in quanto guerriero, bensí il gruppo gentilizio con i suoi legami di continuità e di solidarietà. Il fatto poi che una grande percentuale dei vasi fosse pertinente a servizi da banchetto, significa che l’uso del vino risulta legato in modo sempre piú stretto ai modelli di vita delle aristocrazie ceretane dell’epoca, che avevano assunto, quale elemento significante della vita sociale, proprio il banchetto. Accanto alle pratiche cerimoniali legate al consumo del vino, è da ricordare anche l’uso di spiedi e alari, rinvenuti in tutti i grandi tumuli, indicatori di consumo di carne sia bollita che arrostita, riservato evidentemente solo ai gruppi economicamente piú ricchi.
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IL TUMULO DI CAMPO DELLA FIERA E L’OLPE DI BRUXELLES di Rita Cosentino
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n decennio fa la Soprintendenza, con la collaborazione di un’associazione di volontari del territorio, riprese l’esecuzione di una serie interventi volti alla «manutenzione» del tumulo di Campo della Fiera, tra i piú monumentali della necropoli della Banditaccia, sia per le dimensioni, sia per il numero delle tombe in esso contenute (sei), la piú antica delle quali databile al VII secolo a.C. è parte integrante di un «quartiere funerario» che si articola su due diversi livelli. Il tumulo presenta un marciapiede intorno, un tamburo monumentale liscio e una rampa di accesso, composta da cinque gradini, che si differenzia dalle consuete strutture «a ponte» dei tumuli ceretani e costituisce un unicum. Su una parete del sepolcro si rinvenne una tomba a loculo e sul «marciapede» una tomba a fossa, entrambe di età ellenistica. (segue a p. 34)
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Il tumulo di Campo della Fiera, uno dei piú grandi della necropoli della Banditaccia, nel quale si aprono sei tombe, i cui ingressi sono ben riconoscibili nella foto. In basso planimetria del tumulo di Campo della Fiera e delle tombe a esso prossime, che fanno parte di un vero e proprio «quartiere funerario» della necropoli.
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DA CAERE A BRUXELLES
I
l rinvenimento dei nuovi frammenti dell’olpe in bucchero conservata a Bruxelles ebbe un carattere di eccezionalità, in quanto il vaso faceva parte della collezione del barone belga Emile de Meester de Ravestein, acquisita ben 160 anni prima. La scoperta del reperto si può porre alla fine della prima metà del XIX secolo in quanto, in quegli stessi anni, Emile de Meester de Ravestein, diplomatico belga, fu inviato a Roma dal re Leopoldo e proprio durante il suo soggiorno romano (1846-1859) ebbe molti rapporti con archeologi, diplomatici, collezionisti e alti prelati per l’acquisto dei numerosi reperti A sinistra e in basso il frammento dell’olpe di Bruxelles con la figura di una donna che accarezza il capo di Achille defunto.
In alto fotomontaggio che mostra la posizione del frammento nell’olpe di Bruxelles, conservata al Musée du Cinquantenaire.
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A destra l’area, interessata dalla presenza di tombe a caditoia, in cui sono stati rinvenuti i frammenti in bucchero pertinenti all’olpe di Bruxelles.
provenienti dalle varie località d’Italia e che costituirono poi la sua collezione. Tra questi il cardinale Antonelli, l’archeologo Heinrich Brunn e l’artista conterraneo, Joseph Brüls, che, nel 1863, ebbero anche una partecipazione significativa nell’intermediazione per la vendita allo Stato belga di 77 reperti della collezione del marchese Campana, lo stesso marchese a cui si debbono «campagne di scavo» nella necropoli della Banditaccia che andarono ben oltre il 1846, come attesta un documento d’archivio del 3 marzo 1849. Sempre nel 1863, Emile de Meester de Ravestein fa ritorno a Hever e si occupa della catalogazione della collezione con il fine ultimo di donarla a un’istituzione museale. La donazione non andò de plano, come testimonia una lettera inviata dal collezionista a Brunn, e lo Stato belga, per evitarne la dispersione, fece costruire il Musée du Cinquantenaire dove è esposta la raccolta del barone. Questi, tornato a Hever, cominciò a catalogare la sua collezione per la quale fu necessario creare, ex novo, un’ala di 200 mq e negli anni 1871-1872 videro la luce due volumi del catalogo Musée de Ravestein e, nel 1884, un terzo volume, che inglobò le due edizioni precedenti. Rita Cosentino
La faccia dell’olpe di Bruxelles sulla quale si riconosce un gruppo di maggiorenti achei, due dei quali reggono un lituo e uno scettro, e la sua restituzione grafica.
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Tutte le tombe erano state oggetto di incursioni da parte di scavatori clandestini e dei ricchi corredi era rimasto ben poco. Dal vaglio della terra all’interno della tomba piú antica, che doveva appartenere a un esponente del ceto aristocratico della Caere del primo quarto-metà VII secolo a.C., si recuperarono frammenti di dolii e olle, anfore tipo SOS, ceramica proto-
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corinzia e corinzia, grandi quantità di ferro con doratura che indizierebbero la presenza di piú di un carro e forse di un letto, oltre a una serie di borchiette di bronzo con chiodi di ferro pertinenti a cassette e frammenti di lamina d’oro, di vaghi di ambra, e un’interessante ciotola in faïence d’importazione egiziana. Le operazioni di setacciatura interessarono anche un gruppo di tombe a caditoia a ridosso dell’ingresso della sepoltura con un rinvenimento straordinario: sette frammenti di bucchero inciso, due dei quali furono decisivi per la loro attribuzione all’olpe (brocca a bocca rotonda) di Bruxelles, esposta al Musèe del Cinquantenaire.
Il corpo di Achille Che cosa era rappresentato sui frammenti? Sul primo una figura femminile, dalla lunga chioma, che indossa una veste in tessuto matelassé e un corsetto «a squame» stretto in
Fotomontaggio che mostra la posizione di un altro dei frammenti dell’olpe di Bruxelles rinvenuto grazie alla setacciatura della terra accumulata nella zona delle tombe a caditoia vicine al tumulo di Campo della Fiera.
Hydria corinzia del Pittore di Damon, da Cerveteri. 575-550 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Sul vaso è rappresentata una scena di prothesis, con le Nereidi che compiangono il defunto, simile a quella dell’olpe di Bruxelles.
vita da un’alta cintura. Questa accarezza la testa di un personaggio, disteso su un catafalco del quale è visibile il profilo della testata, indicata da un solco incavato che termina con una voluta all’altezza della testa del defunto, che la sottostante iscrizione indica come Achille. Sul secondo frammento è raffigurata parte di una figura femminile, di profilo, con una fascia intorno ai capelli che indossa una veste resa molto schematicamente e un mantello, dai bordi decorati, che le copre la testa e che allontana dal viso con una mano. Anche i restanti quattro frammenti ritengo siano pertinenti al corpo ceramico dell’olpe che presenta ampie zone di restauro e integrazioni non compatibili con la tipologia del vaso, come nel caso del piede, non pertinente. Grazie a questo rinvenimento ora possiamo affermare che il motivo rappresentato sull’olpe
è quello della prothesis (esposizione del defunto) di Achille, motivo che verrà sviluppato con schema compositivo molto simile in una hydria (grande vaso per acqua) tardo-corinzia al Museo del Louvre e nella rappresentazione di un’olpe corinzia anch’essa al Musèe du Cinquantenaire. La coincidenza della rappresentazione figurata dell’olpe con il testo omerico è puntuale, sia nell’accenno al lavaggio e all’unzione del cadavere sia all’intervento di Teti accompagnata dalle Nereidi e dalle Muse. La presenza dei maggiorenti achei, inoltre, rappresentati da due figure maschili ammantate che sorreggono rispettivamente un lituo e uno scettro, è attestata nel medesimo passo del poema: la comparsa di Teti e delle Nereidi dall’oceano aveva portato terrore e scompiglio tra gli Achei presenti, i quali furono dissuasi dal fuggire e rassicurati soltanto dall’intervento del saggio Nestore.
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UN’IPOTESI PER IL SARCOFAGO DEGLI SPOSI di Orlando Cerasuolo
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l Sarcofago degli Sposi, conservato nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma, è forse l’opera d’arte piú iconica mai rinvenuta in Etruria. È realizzato in terracotta e rappresenta una donna e un uomo, a grandezza naturale, distesi su un letto, come se partecipassero a un banchetto. È stato ricomposto da centinaia di frammenti e conserva tracce di pittura che doveva donare realismo alla composizione. Il coperchio del sarcofago è realizzato in due pezzi, cosí come la cassa, e l’intera struttura poggia su esili gambe, che rivestivano una struttura lignea portante. In base allo stile il sarcofago viene datato al 530-520 a.C. Poco sappiamo del contesto funerario di cui esso faceva parte. Il ritrovamento avvenne il 9 aprile 1881. A trovarlo furono i fratelli Boccanera, cercatori e commercianti di beni archeologici, che a quel tempo operavano nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri. I loro scavi, condotti senza metodi e intenti scientifici, erano tuttavia eseguiti con regolare licenza di scavo. Dai resoconti disponibili si ricavano solo scarne informazioni sul ritrovamento: «Si è trovata una tomba [a camera] la quale è in buona parte piena di terra, si è incominciato lo spurgo della strada [cioè il corridoio di ingresso] donde si sono trovati frammenti di statue in terracotta», «si è proseguito lo
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spurgo della tomba e della sua rispettiva strada ove rinvendosi i frammenti di due statue in terracotta ed inoltre quelli del suo rispettivo sarcofago». Assieme ai frammenti del sarcofago sono ricordati solo sei «lacrimari ordinari ben conservati» e un «vaso etrusco rotto nella sua parte inferiore (...) con due manichi bassi» su cui sono dipinti animali e uomini con elmo.
A cento quasi passi... I resoconti di scavo non consentono di localizzare con precisione il sepolcro, ma le informazioni disponibili inquadrano l’area del ritrovamento in una zona non lontana dalla Tomba dei Rilievi (all’epoca detta degli Stucchi). I Boccanera avevano compiuto una prima campagna di scavi già nel 1874, in un’area «a cento quasi passi dalla celebre
Il Sarcofago degli Sposi. 530-520 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Planimetria del settore della necropoli della Banditaccia in cui potrebbe essere stato rinvenuto il Sarcofago degli Sposi. I fratelli Boccanera, che lo trovarono nel 1881, scrissero che la scoperta aveva avuto luogo a circa «cento passi» dalla Tomba dei Rilievi. Quella misura, pari a 70 m circa, permette di tracciare l’areale, qui evidenziato dall’anello di colore grigio, nel quale ricade la Tomba dei Vasi Greci (compresa nel Grande Tumulo II ed evidenziata), che potrebbe aver accolto lo splendido manufatto.
Tomba degli Stucchi». Nel 1877, avevano fatto indagini «non lungi» dalla stessa tomba. Infine, gli scavi che portarono alla scoperta del sarcofago furono eseguiti «in continuazione di quelli sospesi negli anni precedenti». Non conoscendosi la direzione dei cento passi che dividevano la Tomba dei Rilievi da quella del sarcofago, si deve cercare questa tomba in una fascia circolare a circa 70 m di distanza dalla prima. Dopo gli scavi ottocenteschi la necropoli della Banditaccia è stata di nuovo parzialmente scavata per conto della Soprintendenza da Raniero Mengarelli, tuttavia mancano informazioni sulla parte a sud e a nord. Se la tomba del sarcofago si trova in queste zone, di essa si è persa la
memoria e oggi sarà forse interrata. A ovest, est e sud-est della Tomba dei Rilievi invece conosciamo in pratica tutti i sepolcri. Tra le tombe nella zona ipoteticamente indagata dai Boccanera, ve ne sono alcune di cronologia compatibile con il sarcofago. Tralasciando quelle di aspetto secondario e dimensioni ridotte, le tombe piú rilevanti sono la Tomba della Casetta, verso est, le due Tombe delle Cornici, verso sud-est, e la Tomba dei Vasi Greci, a ovest. Sono tutti sepolcri familiari, caratterizzati da piú camere, con strutture planimetriche confrontabili con le uniche altre due tombe note che hanno restituito frammenti di altri sarcofagi (Tomba degli Scudi e Sedie, Tomba 2021/466 di Monte Abatone).
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La tipologia piú comune ha una camera centrale trasversale, tre camere di fondo e due camere laterali prima dell’ingresso. Se quindi vogliamo immaginare una tomba indiziata di aver contenuto il sarcofago, questa tipologia, databile al 575-525 a.C., è la piú probabile. Se dobbiamo indicare tra questi sepolcri quello che spicca per il carattere aristocratico, questo è senza dubbio la Tomba dei Vasi Greci. Oltre che per la posizione e la cronologia, la tomba è un buon candidato per almeno altri tre motivi. In primo luogo si trova all’interno di uno dei tumuli monumentali piú importanti e antichi della necropoli, che contiene anche le celeberrime Tombe della Capanna e dei Doli. Inoltre, ha restituito il complesso di ceramiche attiche probabilmente piú importante dell’Etruria, con oltre 150 vasi (esposti oggi al Museo di Villa Giulia). Infine, ha la caratteristica, non comune a Cerveteri, di avere sui letti di
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deposizione diversi alloggiamenti (di dimensioni e disposizione differenti) per collocare letti o sarcofagi. L’impianto di questa tomba originariamente prevedeva la presenza di banchine di deposizione dei defunti, configurati a semplici letti con cuscini e ad arche con testate a timpani. In momenti successivi la tomba venne leggermente modificata per poter accogliere almeno nove sarcofagi o arche, alcuni dei quali sicuramente in legno, i cui resti vennero trovati da Raniero Mengarelli.
Un’ipotesi suggestiva Se questa fosse davvero la tomba del sarcofago rimane comunque difficile capire come mai i Boccanera abbiano lasciato i frammenti di ceramica attica, ma anche come sia possibile che durante gli scavi di Mengarelli non sia stato trovato alcun
In alto, sulle due pagine elaborazione fotografica che mostra la possibile collocazione del Sarcofago degli Sposi all’interno della tomba. A sinistra, in alto pianta e sezione della Tomba dei Vasi Greci.
Il letto funerario della Tomba dei Vasi Greci nel quale sono scavati alloggiamenti quadrangolari compatibili con le misure del Sarcofago degli Sposi.
frammento di sarcofago. Non si può in ogni caso né escludere, né dimostrare che il sarcofago possa aver trovato posto nella Tomba dei Vasi Greci. Se ciò fosse vero, i titolari del sarcofago, che dovrebbe risalire a una generazione successiva a quella dell’impianto del sepolcro, non furono i fondatori della tomba (che erano forse nella camera centrale di fondo), ma probabilmente
coloro che avevano raggiunto il maggiore livello di ricchezza all’interno della famiglia. Per la collocazione del sarcofago potremmo pensare a una delle banchine laterali della camera di ingresso, entrambe con evidenti modifiche per accogliere sarcofagi o arche. Quella di sinistra presenta quattro alloggiamenti a distanze compatibili con le gambe del sarcofago. Nonostante la posizione laterale e lo spazio angusto, soprattutto in altezza, il sarcofago collocato sul letto laterale avrebbe scenograficamente i volti dei due sposi girati verso l’ingresso della tomba. È solo una suggestione, un’ipotesi di lavoro, ma in questo modo gli sposi accoglierebbero l’arrivo dei nuovi defunti o dei visitatori della tomba come durante un banchetto, con tutti gli antenati disposti sui letti addossati alle pareti e intorno un tripudio di profumi, oggetti, vasi etruschi e greci.
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LE NECROPOLI ALL’ESTERNO DEL «RECINTO»: IL LAGHETTO, VIA DEGLI INFERI E LA BUFOLARECCIA di Maria Antonietta Rizzo e Raffaella Ciuccarelli
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on la denominazione «Laghetto» si indica un’area subito esterna al Recinto degli scavi che, insieme alla via degli Inferi, fa parte della estesissima necropoli della Banditaccia. Gli scavi effettuati negli anni Sessanta del secolo scorso dalla Fondazione Lerici sono divisi convenzionalmente in due settori, Laghetto I e Laghetto II, e comprendono ben 426 tombe i cui corredi sono finiti in parte al Museo Archeologico Nazionale di Cerveteri, in parte ai Musei Civici di Milano, in parte purtroppo dispersi. Le ricerche sono state riprese, tra il 1997 e il 1999, da parte della Soprintendenza, in un’area poco distante dai vecchi scavi, ma non in continuità con essi, portando in luce un nucleo di piú di 160 tombe. Lo scavo di questo tratto di necropoli, organizzato in almeno una grande via sepolcrale e diverse piazzette, ha evidenziato una complessa stratificazione di sepolture a partire dall’età del Ferro (fine del IX-metà dell’VIII secolo a.C.) fino all’età ellenistica e romana (IV-II secolo a.C). L’area non è di facile lettura poiché numerose sono state le alterazioni dovute allo sfruttamento del luogo come cava, e frequentissime le intersezioni e sovrapposizioni delle strutture sepolcrali delle varie fasi. Si riconoscono almeno sette periodi di utilizzo: il piú antico (VIII secolo a.C.) comprende tombe
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a fossa (ben 170) di almeno dieci tipi diversi, e poche tombe a pozzetto (23); il secondo e terzo periodo si riferiscono alle fasi dell’Orientalizzante Antico e Medio (fine dell’VIII-VII secolo) con la presenza delle piú antiche tombe prima semi-costruite, e poi a camera, spesso entro tumulo; a partire dal quarto periodo, che abbraccia l’Orientalizzante Recente (fine del VII-primo quarto del VI), e poi dal quinto al settimo (età arcaica, classica ed ellenistico-romana) si susseguono una impressionante serie di tombe a camera di diverse tipologie. Rispetto ad altre aree della Banditaccia, i corredi non sembrano di particolare ricchezza, anche se è utile segnalare i corredi delle tombe 608, con ceramica protocorinzia dei tipi piú antichi, e 365, con numerosa ceramica greca importata e oggetti di particolare pregio in vetro (tra cui aryballoi – vasi per unguenti o profumi – e conocchia in vetro), entrambi al Museo di Cerveteri. Le nuove ricerche hanno riportato in luce un altro tratto di necropoli occupato da 167 tombe, di cui solo 3 a camera; si tratta, per lo piú, di tombe a fossa dell’età del Ferro, anche se non mancano pozzetti e sepolture entro sarcofagi litici. L’esame complessivo dei vecchi e nuovi scavi del Laghetto, ci informa che nella fase piú antica di utilizzazione della necropoli il rito della
Il rilievo orientale dell’area della Bufolareccia, interessato dalla presenza di vari tumuli.
La Tomba delle Colonne Doriche, situata all’inizio del tratto della via degli Inferi che si snoda all’esterno dell’area recintata della necropoli della Banditaccia. IV sec. a.C.
cremazione sembra coesistere con quello dell’inumazione. Le tombe a cremazione, riferibili a individui di entrambi i sessi, sono del tipo a pozzo con risega e ossuario deposto a volte su una lastrina di tufo, mentre la cavità sepolcrale è poi chiusa da spezzoni di tufo. È presente talvolta la custodia di tufo con ciottoli e pietre inzeppate tra la custodia stessa e il pozzetto. Già nel corso della prima metà dell’VIII secolo a.C. si afferma la pratica inumatoria, mentre l’uso della cremazione, per lo piú in custodia tufacea, resta invece prerogativa di un ristretto numero di individui di entrambi i sessi. Le tombe a inumazione sono
del tipo a fossa semplice, di forma rettangolare o appena trapezoidale, talvolta affiancate, o disposte a gruppi, forse in origine all’interno di recinti, di cui però non si sono trovate tracce sul terreno; le fosse spesso hanno un riempimento di piú strati di pietre, talvolta disposte con regolarità lungo le pareti della fossa. Da segnalare è la presenza di inumazioni infantili entro piccoli sarcofagi di tufo, di solito deposti all’interno di una fossa contenente un’altra deposizione (femminile), riferibili ai momenti iniziali della necropoli, ma sono stati rinvenuti anche alcuni sarcofagi di dimensioni maggiori. I corredi, inviolati, hanno restituito molti manufatti metallici e numerosi oggetti esotici riportabili a manifatture cipriota, rodia o vicino-orientale, oltre che numerosi oggetti di ornamento personale di particolare pregio e alcuni tra i piú antichi vasi greci di importazione. Nelle tombe maschili, assai meno numerose di quelle femminili, se la presenza di fibule ad arco serpeggiante può essere considerata come un elemento distintivo, ricorre talvolta il rasoio, del tipo lunato.
Via degli Inferi La via Sepolcrale principale che attraversa tutta la necropoli prende poi il nome di via degli Inferi nel tratto che prosegue oltre il Recinto, in direzione dell’estremità nord-orientale del pianoro, prima di biforcarsi poi a un bivio che conduce a sinistra presso il Ponte Vivo e a destra verso il corso del Manganello e della città. Questo tratto è molto suggestivo, con un percorso in alcuni punti profondamente incassato nel tufo, e coperto da una vegetazione selvaggia che rende spesso piú difficile il cammino. Una serie continua di tombe costeggia la strada a diverse altezze, dando l’aspetto di una necropoli rupestre. Gli scavi di quest’area furono effettuati tra gli anni Venti e Trenta del Novecento da Raniero Mengarelli, che trovò le tombe quasi tutte prive dei corredi, perché da sempre oggetto di scavi clandestini, e nuove campagne di pulizia, risistemazione e rilievo furono poi portati avanti
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A sinistra la tomba 2278 della necropoli del Laghetto in corso di scavo. Si tratta di una sepoltura a incinerazione, a pozzetto, con le ceneri del defunto deposte nel biconico, coperto da una ciotola rovesciata. VIII sec. a.C. In basso, sulle due pagine veduta a volo d’uccello della necropoli del Laghetto.
dal Gruppo Archeologico Romano nel corso degli anni Settanta e Ottanta. Quasi all’inizio del percorso si trova la tomba certamente piú famosa di questo tratto, quella delle Colonne Doriche, con un grande vestibolo con soffitto sostenuto da due monumentali colonne a sezione ottagonale con capitello di tipo dorico. L’ultimo tratto della strada, di grande fascino, presenta piazzette e soluzioni architettoniche e urbanistiche di particolare interesse. Oltre a poche tombe di età villanoviana si possono segnalare alcuni esempi di tombe del tipo semi-costruito dell’Orientalizzante Antico (ultimo quarto dell’VIII-inizi VII secolo a.C.), mentre in tutto il resto del percorso si susseguono tombe a camera a partire dai tipi piú antichi ai piú recenti, tombe a camera con soffitto a falda curva, tombe con due ambienti coassiali o a vestibolo con due camere sul fondo, e sepolture a dado e camera unica con caditoia di età arcaica e tardo-arcaica. In età piú recente si segnala lo sfruttamento dei banchi di tufo a livello piú alto lungo i costoni
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che fiancheggiano la strada, accessibili attraverso scale ricavate nella roccia o con facciate su vie interne o piazzette. Interessante è anche la presenza di veri e propri prospetti architettonici ricavati nel tufo, spesso con coronamenti a blocchi regolari. Molto pochi, invece, sono gli esempi di sepolture dell’epoca della romanizzazione, a forma di altare rettangolare costruito a blocchi con cornici modanate, visibili nel tratto iniziale della via. Nel tratto meno agevole da percorrere verso Ponte Vivo si segnalano alcuni tumuli, il piú significativo dei quali si trova all’altezza del bivio e presenta due finte porte doriche sul tamburo.
Bufolareccia Il tratto terminale della via degli Inferi divide l’area del Laghetto da quella presso cui è collocata la necropoli della Bufolareccia, compresa nel pianoro della Banditaccia. Si accede all’area anche da via della In alto askos in forma di uccello in ceramica depurata, con tracce dell’originaria decorazione pittorica, dalla necropoli del Laghetto.
Bufolareccia, che esce dall’omonima porta etrusca risalente al V-IV secolo a.C. La necropoli fronteggia quindi la città in corrispondenza di due porte principali. Le sepolture si trovano su una pendice collinare caratterizzata da due poggi adiacenti a est e un’area in pendio a ovest; nel mezzo una grande area di cava. La scoperta della necropoli non è documentata; essa non appare nella letteratura del XIX secolo e neppure Raniero Mengarelli si dedicò mai alla sua indagine. Divenuta alla metà del Novecento oggetto di scavi clandestini, la Soprintendenza avviò, con la collaborazione della Fondazione Lerici, campagne di indagine, documentazione e scavo a scopo preventivo. La Fondazione condusse prospezioni geoelettriche e geomagnetiche; una volta individuati e documentati fotograficamente gli ipogei, la Soprintendenza procedette allo scavo e alla documentazione grafica degli stessi e al recupero dei corredi. Del tutto simili a quelle della Banditaccia, le
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A sinistra le Tombe 2134 e 2135 della necropoli del Laghetto in corso di scavo. Nella pagina accanto due vedute della via degli Inferi e delle tombe che su di essa si affacciano.
Qui sopra sigillo facente parte di uno dei corredi restituiti dalle tombe della necropoli del Laghetto, accompagnato dalla sua restituzione grafica e dal disegno generato dalla sua impressione.
tombe monumentali, abbracciano i secoli VII-I a.C./I d.C. Le piú antiche, a camera semicostruita entro tumuletto, appaiono nel corso dell’Orientalizzante Antico, distanziate sui rilievi piú vicini alla città; durante l’Orientalizzante e l’età arcaica sono poi circondate da ipogei a una o piú camere coassiali, affiancate o aperte sul dromos, creando la tipica organizzazione a tumulo principale e tumuli satellite posti sui due rilievi e poi sulle pendici, sempre con visione preferenziale dalla città.
L’ISCRIZIONE DI LARTH LAPICANES SULLA VIA DEGLI INFERI
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a profonda via cava nota come «via degli Inferi» – che ha il suo inizio subito fuori dalle mura della città, dopo aver varcato il fosso del Manganello – risale, fiancheggiata da tombe, verso il pianoro della Banditaccia; una biforcazione separa, a un certo punto, il ramo che si dirige verso la grande necropoli da quello che si inoltra verso nord e che doveva servire a connettere Cerveteri con la parte settentrionale del suo territorio. Proprio sulla parete sinistra di quest’ultima direttrice viaria, immediatamente dopo il bivio, si trova un’iscrizione scolpita a grandi lettere sulla parete di tufo, venuta alla luce nel 1985 nel corso di lavori di ripulitura condotti dal Gruppo Archeologico Romano. Lo sviluppo delle conoscenze in materia di epigrafia e lingua etrusca permette oggi di comprendere meglio
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il significato dell’iscrizione, che la prolungata azione delle radici dei rampicanti che rivestivano la parete ha reso di difficile leggibilità. Il testo è una formula di datazione, probabilmente riferita all’esecuzione dell’opera viaria, e menziona il maru Larth Lapicanes figlio di Vel. Nella struttura di governo delle città etrusche esistevano due gruppi di magistrati: quelli di rango superiore erano definiti zilath, mentre i maru erano subordinati ai primi. Le datazioni etrusche, normalmente, indicano i nomi di uno o due zilath; in questo caso la scelta di impiegare il nome di un maru deriva forse dal fatto che il magistrato fu responsabile dell’esecuzione dell’opera. I caratteri grafici indicano che l’iscrizione fu eseguita certamente dopo l’istituzione della prefettura romana a Caere. L’invio di prefetti da Roma, in effetti, non comportava
Fra il VI e il V secolo a.C., dopo l’apparizione di poche tombe a dado si aprono nell’area centrale fronti di tombe a facciata rettilinea con caditoia che sfruttano gli antichi tagli di cava; in età ellenistica sono realizzate vie sepolcrali parallele con ulteriori fronti di ipogei nel settore ovest parzialmente libero. I corredi dimostrano che gli ipogei furono utilizzati per sepolture fino all’età augustea.
la soppressione degli organi di governo delle comunità coinvolte, che continuavano a essere pienamente operanti; lo scopo del prefetto era essenzialmente quello di tutelare gli interessi dei cittadini romani residenti nel territorio di una comunità alleata. L’influenza della cultura epigrafica romana si misura dal fatto che questa è l‘unica iscrizione etrusca riferita all’esecuzione di un’opera pubblica nella quale il nome di un magistrato sia accompagnato dall’indicazione della carica. Nella tradizione epigrafica etrusca, infatti, le cariche erano sempre omesse; gli autori di operazioni realizzate certamente su incarico dello Stato – come la posa dei confini pubblici di Fiesole o la costruzione delle terme di Musarna – sono ricordati soltanto con i loro
nomi, come se il lignaggio fosse sufficiente a identificare il rango dei personaggi. Il gentilizio del magistrato è noto anche da una seconda iscrizione di Cerveteri, un testo inciso a crudo sotto il piede di un piattello nel quale sono ricordati un Marce Lapicanes Turis e una Larthi Sucus Rupsai, probabilmente marito e moglie. La forma del nome indica chiaramente che la famiglia dei Lapicanes doveva far parte di quel nutrito gruppo di famiglie di alto rango di origine romano-latina che, nel corso della prima metà del IV secolo a.C., si stabilirono a Cerveteri, integrandosi con le aristocrazie locali, anche tramite accorte politiche matrimoniali, e adottando i costumi funerari etruschi, cosí come la lingua etrusca, quanto meno per i loro epitaffi. Enrico Benelli
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TOMBE A DADO E A CADITOIA: UN SALTO EVOLUTIVO NELL’ARCHITETTURA FUNERARIA di Carmelo Rizzo
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opo la stagione dei grandi tumuli e l’affastellarsi, tutt’intorno, di una miriade di tumuli di minori dimensioni, appartenenti a gruppi familiari con diretti legami con le strutture piú grandi, nella prima metà del VI secolo a.C. inizia una differente gestione degli spazi comuni nella necropoli della Banditaccia. Uno dei primi segnali di svolta è la definizione della via sepolcrale, che potrebbe essere datata entro gli inizi del VI secolo a.C., come sembra evidenziare la costruzione della rampa piú recente del Grande Tumulo II. Quest’ultima fu orientata verso la strada sepolcrale e collocata tra le due tombe piú recenti del tumulo in sostituzione di quella piú antica, posta in corrispondenza della Tomba dei Dolii; dunque la via sepolcrale doveva già esistere quando fu realizzata la Tomba dei Vasi Greci (600-575 a.C.). L’esecuzione di un’opera di pubblica utilità quale una strada all’interno di un sepolcreto, con annessi sottoservizi,
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evidenzia la responsabilità di una forte autorità centrale costituita. Tale ipotesi sembra avvalorata dalla realizzazione di un sistema regolare di strade parallele fiancheggiate da file di tombe cosiddette a dado, che per la pianta quadrangolare meglio si prestavano a essere inquadrate in schemi regolari. Questo sistema, ovviamente, trae ispirazione da criteri urbanistici di tipo «civile», con implicazioni di tipo «catastale»; nella necropoli della Banditaccia viene adottato già dalla prima metà del VI secolo a.C., prima nell’area del Recinto e qualche anno dopo alla Bufolareccia.
Sepolcri «a schiera» Nel Recinto furono pianificate le tombe con l’ingresso su via dei Monti della Tolfa, a ridosso dei tumuli della fine del VII e degli inizi del VI secolo a.C., e successivamente, anche se di poco, le tombe con ingresso su via dei Monti Ceriti. Le strutture sepolcrali, undici per ogni
Tombe a dado della necropoli della Banditaccia. affacciate sulla via dei Monti della Tolfa. Metà del VI sec. a.C.
Pianta delle tombe a dado della necropoli della Banditaccia. Le strutture si caratterizzano per la loro serialità e seguono schemi architettonici ricorrenti.
strada, sono tutte a «schiera» e seguono un modello standardizzato. La tomba a dado è costituita da camere ipogee collegate con la strada da una ripida scalinata, mentre la parte alta della struttura è composta in parte dal banco di tufo, con il fronte strada realizzato con blocchi squadrati di tufo non legati da malte. La struttura esterna presenta alcune differenze nella decorazione della facciata, che può essere liscia o scandita da tori o fasce rilevate nella parte alta della struttura, coronata da blocchi sagomati che trattengono la piattaforma superiore ricoperta di terra, ora piatta e non a forma di tumulo. La distribuzione interna degli spazi della tomba prevede due camere coassiali, di cui la prima piú sviluppata in larghezza rispetto a quella di fondo e ognuna dotata di due letti funerari, di solito quello a forma di kline (letto da banchetto) maschile a sinistra, quello con i frontoni triangolari femminile a destra. La porta di accesso alle camere ipogee è solitamente trapezoidale e si restringe verso
l’alto, occasionalmente sormontata da una lunetta incassata. La porta di accesso alla camera di fondo, invece, è incorniciata da una modanatura a rilievo cosiddetta dorica, sulla quale a volte si conserva il colore nero con cui era dipinta e ai cui lati erano due finestrelle sormontate da una lunetta incassata, anch’essa dipinta in nero. Una peculiarità è la presenza, accanto all’ingresso, di uno o due tronetti ricavati nel tufo che alludono al culto degli antenati: un’evidenza già diffusa a Caere dall’Orientalizzante (basti pensare alla Tomba delle Cinque Sedie) e che persiste nei tumuli del VI secolo a.C., per esempio nella Tomba della Cornice e nella Tomba dei Capitelli. Lo schema planimetrico e i soffitti delle camere displuviati rimandano ancora alla riproposizione della struttura abitativa dei vivi. Sebbene queste tombe seriali presentino occasionali eccezioni nello schema di base – quali due camere ai lati della scalinata d’ingresso o due camere sul fondo al posto di una sola – è piú che una suggestione l’ipotesi
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Necropoli della Banditaccia, via dei Monti della Tolfa, Tomba 85. L’ingresso alla camera laterale sinistra e il trono che lo affianca. Metà del VI sec. a.C. In basso Necropoli della Banditaccia. Tomba a caditoia al lato destro di via delle Serpi. IV sec. a.C. La «caditoia» è visibile per il crollo della trabeazione in tufo della facciata del monumento. Nella pagina accanto un altro esempio di tomba a caditoia nella necropoli della Banditaccia.
che l’intero complesso delle ventidue tombe a dado sia frutto, oltre che di un’esecuzione programmata, del lavoro di un’officina specializzata nella realizzazione di strutture funerarie, incaricata da un organismo civico che regolamentava lo sviluppo della necropoli. In una fase di poco successiva, tra la fine del VI e il V secolo a.C., le restanti aree libere della Banditaccia sono occupate da raggruppamenti di tombe, simili tra loro, incassate nel banco di tufo. Tale soluzione si sviluppa tra tumuli piú antichi, lungo le strade principali (via delle Serpi in particolare), con il frequente posizionamento delle tombe sotto ai tumuli piú antichi, ormai posti in alto, mentre la strada – frequentata e rimaneggiata da risistemazioni e utilizzo – si abbassa drasticamente di quota rispetto a quella originaria, a un livello piú alto. L’organizzazione topografica delle tombe in via dei Vasi Greci sembra rispecchiare ancora la pianificazione realizzata in via dei Monti della
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Tolfa e via dei Monti Ceriti. Cambia, però, la tipologia delle camere. L’esterno è ancora a dado, con le strutture divise a due a due, o singolarmente, da una stretta scalinata che conduce nella parte sommitale della tomba.
Una tipologia di lunga durata L’accesso agli ambienti ipogei avviene per mezzo di una breve e ripida scalinata in un corridoio rettangolare. Nella parte sommitale della facciata anteriore, costruita a blocchi squadrati, si apre una caditoia in corrispondenza del corridoio, coperta da un blocco. La disposizione delle camere è semplice: si tratta di due ambienti rettangolari in asse; entrambi sono dotati di almeno quattro letti distribuiti lungo tutte le pareti e il tetto è ancora displuviato, con pendenza appena accennata. Questo tipo di tomba è detta «a caditoia» per la peculiare apertura nella volta dell’ingresso. A cosa servisse tale opercolo è ancora lontano dall’essere chiaro. Due sono le possibili ipotesi: che possa trattarsi di una semplice apertura per la deposizione di offerte rituali ai defunti legate al culto dei morti o in occasione di particolari ricorrenze; oppure che sia un’apertura funzionale all’utilizzo della tomba durante le deposizioni successive alla chiusura dell’ingresso principale, che poteva avvenire alla prima deposizione. Tale tipologia di tomba ha una lunga vita, almeno sino al III secolo a.C., e continua a disporsi tra gli spazi lasciati vuoti da tombe piú antiche. Si ritrova spesso organizzata in quartieri che affacciano su un piazzale incassato – come di fronte alla Sala Mengarelli o davanti alla Tomba della Cornice –, lungo le strade o in spazi ridotti con gli ingressi ripidissimi. Le tombe piú recenti sono monocamerali e una banchina sostituisce i letti. La semplicità architettonica evidenzia una società ben lontana da quella in cui gruppi familiari emergenti prendevano il sopravvento nella rappresentatività funeraria. Spiccano alcune eccezioni, come la Tomba dei Rilievi, la cui originalità è da rintracciare non piú all’esterno della tomba, bensí al suo interno.
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I GRANDI IPOGEI DI ETÀ ELLENISTICA: LE TOMBE DEL COMUNE di Laurent Haumesser
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e Tombe del Comune rappresentano uno dei primi complessi sepolcrali in cui si imbatte il visitatore che si avventura sul pianoro occupato dalla vasta necropoli della Banditaccia. Situato lungo la via sepolcrale antica (e moderna), questo gruppo di tombe è stato recentemente oggetto di interventi di valorizzazione da parte di associazioni di volontari che hanno collaborato con la Soprintendenza. Il visitatore può apprezzare la posizione privilegiata di questo settore della necropoli, che domina i fianchi scoscesi del pianoro e consente di allargare lo sguardo sul territorio ceretano fino alla costa; egli può altresí rendersi conto della fisionomia peculiare dell’assetto planimetrico di queste tombe, che formano un quartiere a se stante nella necropoli. In effetti, sebbene in questa area siano presenti anche tombe piú antiche – fra cui il Tumulo delle Ploranti, risalente al VII secolo a.C., che è stato oggetto di ricerche e di una pubblicazione recenti –, qui si concentrano soprattutto le principali tombe delle grandi famiglie di Caere vissute nel IV e nel III secolo a.C., ovvero il periodo decisivo nella storia della città, caratterizzato da rapporti articolati con la potenza ormai schiacciante di Roma, allora impegnata nella conquista dell’Etruria. Le prime esplorazioni archeologiche documentate in questo settore della necropoli risalgono agli anni Quaranta dell’Ottocento e sono state condotte da Giampietro Campana (1809-1880): allora direttore del Monte di Pietà, questo grande collezionista ha condotto numerosi scavi, in particolare in diversi settori delle necropoli ceretane, e ha raccolto una massa impressionante di oggetti antichi, la maggior parte dei quali è finita al Louvre, dopo che la collezione Campana è stata venduta dal governo pontificio alla Francia nel 1861. Per questa ragione, è probabile che alcuni frammenti dei corredi funerari delle Tombe del Comune si trovino oggi a Parigi, anche se le modalità di conduzione degli scavi e, in particolare, la mancanza assoluta di resoconti puntuali delle scoperte, ci hanno privato di
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informazioni sugli oggetti trovati nelle singole tombe. Sappiamo tuttavia che Campana ha portato alla luce alcune delle tombe piú importanti di quest’area, come quelle dell’Alcova, dei Sarcofagi, del Triclinio e delle Iscrizioni. Altre sono state scoperte piú di recente, durante gli scavi di Raniero Mengarelli agli inizi del XX secolo e in occasione delle esplorazioni condotte negli anni Sessanta e Settanta, come la Tomba dei Tamsnie.
I nomi dei proprietari Queste tombe, di cui conosciamo la maggior parte dei nomi di famiglia dei proprietari grazie alle iscrizioni incise sulle pareti oppure sui cippi sepolcrali di pietra, si inseriscono nel contesto di una sistemazione urbanistica solo parzialmente nota, con assi di circolazione principali e secondari e piazzette lungo le quali erano disposti gli ingressi. L’aspetto
L’interno della Tomba dell’Alcova, appartenuta alla famiglia dei Tarna.
monumentale e scenografico di questo impianto era accresciuto dalla presenza di decorazioni scolpite all’esterno, sovrastanti le tombe, di cui purtroppo restano solo alcuni frammenti, provenienti soprattutto dalla Tomba dei Sarcofagi. Al di là dell’aspetto unitario dell’impianto planimetrico, le differenze nelle strutture architettoniche delle camere funerarie e la varietà delle soluzioni decorative adottate mostrano l’importanza delle scelte delle singole famiglie e la ricchezza del repertorio e delle tecniche degli artigiani ceretani dell’epoca, aperte ancora alle influenze ellenistiche. La Tomba dell’Alcova, appartenente alla famiglia Tarna, si distingue per esempio per la sua pianta complessa, che è attestata in forme diverse in numerose tombe coeve di Cerveteri: due pilastri centrali e serie di letti di deposizione disposti lungo i lati e la parete di fondo. La particolarità di questa tomba, da cui è derivato il nome, consiste nel trattamento della parete di fondo, che si traduce in una
struttura monumentale, un vero tempietto, o naiskos: la tomba, in questo modo, sacralizza in un certo senso il letto di deposizione della coppia dei fondatori, con un gusto rivelatore dell’ideologia aristocratica dell’epoca. Situata su una via parallela, anche la Tomba delle Iscrizioni – conosciuta altresí come Tomba dei Tarquini – si caratterizza per un’architettura ambiziosa: adeguandosi a un impianto planimetrico adottato in altre necropoli etrusche coeve (e che trova confronto anche al di fuori dell’Etruria, per esempio a Napoli), essa si organizza su due livelli, una prima camera provvista di due grandi pilastri e di nicchie per le deposizioni, da cui si accede tramite una scalinata a una seconda camera, di analoga struttura, scavata in maggior profondità. Il nome della tomba deriva dalle numerose iscrizioni incise sulle pareti, che permettono di ricostruire per piú generazioni la genealogia della grande famiglia ceretana dei Tarchna. La
A destra le pitture (oggi perdute) della Tomba del Triclinio (qui definita Tomba cerite delle Pitture) nei disegni eseguiti da Luigi Canina nel 1851.
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Il ricorso alla pittura domina, in compenso, nella Tomba del Triclinio, un esempio isolato di ipogeo dipinto nella Cerveteri dell’epoca, che esibisce un grande banchetto che si svolge sulle quattro pareti della tomba. Sfortunatamente, la nostra conoscenza di questa decorazione pittorica in precario stato di conservazione si fonda quasi esclusivamente sulla testimonianza di alcuni disegni del XIX secolo, di poco posteriori alla scoperta della tomba, che non permettono piú di apprezzare la qualità stilistica del dipinto, né di verificare l’esattezza di alcuni dettagli importanti, come l’iscrizione latina apposta sul tomba comprendeva anche alcuni elementi decorativi: uno scudo a rilievo dipinto su uno dei pilastri, fasce, corone e un vaso dipinto, come se fossero stati sospesi alle pareti delle nicchie, un decoro modesto ma che offre un raro parallelo con la straordinaria decorazione della Tomba dei Rilievi, la principale di questo periodo a non essere stata realizzata in questo settore della necropoli.
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In alto l’esterno della Tomba del Triclinio. In basso planimetria delle Tombe del Comune. 1. Tomba dei Sarcofagi; 2. Tomba dei Tamsnie; 3. Tomba del Triclinio.
vaso al centro della parete di fondo. Le pitture erano presenti, sotto forma di scene di caccia e di banchetto, anche nella importante Tomba dei Sarcofagi, appartenente alla famiglia Apucu, che consisteva in realtà in due tombe contigue, collegate da un passaggio. La grande particolarità di questa tomba è la presenza nelle due camere funerarie di imponenti sarcofagi in pietra. Un primo sarcofago, detto del Magistrato, con il defunto rappresentato disteso sul coperchio e una scena di processione a rilievo sulla cassa, si trova oggi al Museo Gregoriano Etrusco al Vaticano; gli altri tre sarcofagi, piú tardi, si
Sarcofago a rilievo policromo rinvenuto nel 1845-1846, durante gli scavi del marchese Giovan Pietro Campana, nella Tomba dei Sarcofagi. 400-375 a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Sul coperchio è ritratto il defunto, mentre sulla cassa corre una scena di processione.
possono ammirare al primo piano del Museo di Cerveteri. Anche la Tomba dei Tamsnie, di rinvenimento piú recente, ha restituito due sarcofagi in pietra: uno in marmo sicuramente greco, materiale attestato anche altrove in Etruria, documenta la ricezione di modelli mediterranei da parte degli aristocratici locali, e un altro in pietra locale, che porta un’iscrizione funeraria con la quale il defunto, Venel Tamsnie, ricorda che è stato magistrato a Caisri, cioè Caere (rara attestazione etrusca del nome della città) – due monumenti che, ciascuno a modo suo, mostrano l’importanza storica del settore delle Tombe del Comune.
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LA TOMBA «BELLA» di Maria Cristina Tomassetti
«B
ella» è una parola breve ma non semplice, dal profondo significato. In questo caso caratterizza una tomba unica, conferendole l’accezione della «piú bella», talmente diversa dalle altre tombe ceriti che la prima volta che la si visita si rimane stupefatti davanti alla molteplicità di oggetti, animali, forme insolite e a volte incomprensibili che appaiono ai nostri occhi in una grande varietà di colori. È la Tomba dei Rilievi, un vasto ipogeo gentilizio della fine del IV secolo a.C., scoperto nell’inverno 1846-47 da Giovan Pietro Campana. Si accede alla camera sepolcrale – di forma quadrangolare e che misura 7,32 x 6,48 m – da un dromos di quasi 11 m di lunghezza. Lungo i lati della camera corre una banchina continua, che si interrompe solo in corrispondenza della porta di ingresso,
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sulla quale sono ricavate 33 sepolture, mentre all’interno delle pareti sono presenti 13 nicchie, per altrettante inumazioni. Due pilastri sorreggono il soffitto a doppio spiovente con columen centrale. Conosciamo il nome del suo committente, Vel Matunas, figlio di Laris. La tomba è un unicum e non solo tra i monumenti funerari etruschi. La sua tipologia architettonica diventa standard nel IV secolo a.C., ma in questo caso presenta un aspetto grandioso per le sue dimensioni e del tutto eccezionale per la sua decorazione, che consiste in altorilievi in stucco dipinto che rappresentano oggetti appesi con chiodi alle pareti e ai pilastri. Anche la tecnica rivela l’importanza della famiglia: la materia di cui sono fatti gli stucchi testimonia un’alta tecnologia, coniugata a un’elevata qualità
estetica e, tra i pigmenti utilizzati, compare la preziosa porpora di Tiro. Molte rappresentazioni ci riportano alla vita pubblica e privata della gens: figure evocanti il viaggio verso l’aldilà, strumenti legati alla sfera militare e a quella domestica, tutti realizzati in maniera illusionistica come gli apparentemente morbidi cuscini nelle nicchie. Anche il disordine è solo apparente, come gli studi hanno dimostrato.
Un realismo straordinario La nicchia centrale della parete di fondo era riservata al committente e a sua moglie. Vi è infatti una kline, l’unica della tomba, davanti alla quale sta un lungo poggiapiedi, su cui è posato un paio di sandali. Alla sua sinistra è raffigurata una cassa dotata di serratura, una tipologia di mobile usuale anche nella casa greca, in cui all’epoca venivano conservate le cose piú preziose della famiglia o i documenti. Sopra, sono posati due teli ripiegati, resi talmente bene da far intuire anche il tipo di piegatura dei differenti tessuti. Nella zona compresa tra le zampe anteriori della kline compaiono due creature appartenenti al mondo dei morti: Cerbero sulla destra, con le tre teste di diverso colore che escono da una corona di serpenti e
Scilla sulla sinistra che, con busto maschile ed estremità anguipede, regge con una mano un remo sulla spalla e con l’altra un serpente. Abbiamo poi gli oggetti legati alla sfera civile, che sono raffigurati sulla parete di fondo intorno alla nicchia centrale, sulla parete d’ingresso e sui pilastri. Questi, a loro volta, possono essere divisi in oggetti di uso domestico, che sembrano voler parlare di una vita agiata ma non sfarzosa, e oggetti legati allo status di Vel Matunas. I primi, come è stato osservato, sembrano le prove del buon governo che regna nella famiglia,
L’interno della Tomba dei Rilievi e, in basso, un particolare degli stucchi dipinti che la ornano e ne fanno un monumento unico nel suo genere. IV sec. a.C. Nella pagina accanto incisione ottocentesca raffigurante la scoperta della Tomba dei Rilievi.
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pilastro, che ci appare quale forma bizzarra nel suo scorcio inedito, le insegne in forma di verghe arrotolate come quelle recate dai littori nei cortei magistratuali, accompagnati dal suono degli strumenti tipici della parata, corni e litui, che infatti troviamo appesi alle pareti e ai pilastri. La sfera militare, infine, è molto ben rappresentata da circa 80 elementi, tra cui scudi, elmi, schinieri e spade, a simboleggiare l’eroizzazione del defunto e la sua appartenenza al ceto – socialmente, politicamente e militarmente – piú alto di Caere. Rispetto alle scene raffigurate sulle pareti di altre tombe, come nella Golini II di Orvieto, nella Tomba degli Scudi, del Tifone o Giglioli di Tarquinia, qui non c’è corteo, non ci sono attori umani, non c’è narrazione. Il senso del potere, ma anche di un’agiata vita domestica, sono affidati agli oggetti che li rappresentano, in una sorta di pietrificata e silenziosa dimostrazione che evoca tutte le cose buone, ufficiali e private, realizzate dalla famiglia Matuna. simboleggiando tutto ciò che era necessario e di cui si disponeva nella vita domestica. Si nota il vasellame, due kylikes (coppe a due manici), una oinochoe (brocca da vino), un alabastron (contenitore per unguenti o profumi), una pisside e altri contenitori, grandi piatti forse in legno e oggetti di uso comune come mestoli, coltelli, pugnali, un’ascia, un bacino su tripode, un pestello, una pinza per il fuoco, una morbida fune arrotolata, una borsa in rete, un cuscino in vimini dotato di lacci e stringhe. La sfera domestica è arricchita dalla presenza degli animali: un cagnolino con una lucertola e una faina, importante ausilio nella caccia ai topi, che ne reca infatti uno nero tra le fauci. Una tartaruga è scomparsa, ne rimane la traccia, mentre l’oca e l’anatra evocano il cortile.
Il seggio del magistrato Gli oggetti legati allo status del committente simboleggiano invece la sua appartenenza alla magistratura: quella che è, probabilmente, una sella curulis ripiegata e appesa in verticale su un
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In questa pagina particolari degli stucchi dipinti della Tomba dei Rilievi: si riconoscono, fra gli altri, attrezzi, accessori della vita domestica e armi. Nella pagina accanto, in alto la Tomba dei Rilievi in un rilievo di John Gardner Wilkinson. Nella pagina accanto, in basso l’esposizione della collezione Campana nel Museo Napoleone III a Parigi, dove furono presentati anche i facsimili della Tomba dei Rilievi (dei quali, se non sono andati distrutti, si ignora l’attuale collocazione).
DISEGNI E FACSIMILI DI UN MONUMENTO INSIGNE
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iportata alla luce negli anni Quaranta dell’Ottocento da Giovan Pietro Campana nel cuore della necropoli della Banditaccia, la Tomba dei Rilievi è stata a lungo poco nota, a dispetto della straordinaria ricchezza del suo apparato decorativo. A quel che sembra, Campana si era ripromesso di divulgare la scoperta personalmente e non ne parlò per diversi anni. Ciò non vuol dire che la tomba non fosse conosciuta, visitata e talvolta anche disegnata. La Bodleian Library di Oxford custodisce un importante fondo archivistico di Sir John Gardner Wilkinson (in corso di studio), che comprende soprattutto i suoi taccuini di viaggio, zeppi di disegni di musei e di siti archeologici. Verso la fine del 1849 Wilkinson si recò a Cerveteri, dove poté visitare le principali tombe scoperte da Campana, fra cui la Tomba dei Rilievi, di cui disegnò diverse viste di insieme e di dettaglio. Visitò la necropoli anche un altro Inglese, Samuel James Ainsley, e anche lui realizzò nello stesso periodo alcuni bei disegni della Tomba dei Rilievi. Tuttavia, la maggior parte di questi disegni è rimasta inedita: soltanto alcuni rilievi di Wilkinson furono pubblicati nel 1856, in un primo articolo dedicato alla tomba, comparso nella rivista The Journal of the British Archaeological Association. Vi si nota ancora lo scheletro in armi occupare la nicchia di fondo, secondo una messinscena cara a Campana, la cui autenticità si presta a discussione. Soltanto in occasione della riunione del 20 marzo 1851 della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, Campana finalmente presentò la tomba al mondo accademico, utilizzando alcuni disegni a colori, di cui ignoriamo la natura precisa, poiché la presentazione è rimasta inedita. Ciononostante, possiamo essere certi del fatto che Campana considerasse molto importante la documentazione grafica della tomba, di cui aveva fatto realizzare alcuni facsimili. Infatti, come suggeriscono le testimonianze dei visitatori, a partire dal 1848, aveva fatto ricostruire la tomba all’interno del suo palazzo a Roma, per mezzo di grandi tele dipinte. La sua collezione in effetti era conosciuta in tutta Europa e menzionata nelle guide turistiche, alcune delle quali facevano cenno anche alla ricostruzione della tomba.
Possiamo farci un’idea di questa riproduzione grazie alle immagini della prima presentazione pubblica della collezione Campana a Parigi nel 1862, all’interno del Museo Napoleone III, dopo il suo acquisto da parte della Francia nel 1861. I commissari francesi, che avevano avuto poco tempo per organizzare il museo, avevano ripreso diversi elementi dell’allestimento di Campana, fra cui anche la ricostruzione della Tomba dei Rilievi, facendo uso senza dubbio delle sue tele dipinte. Su una parete si ritrova anche lo scheletro disegnato da Wilkinson, mentre al centro della sala, senza dubbio come avveniva anche a Roma, erano stati collocati diversi oggetti senza rapporto con la tomba. Questo allestimento, tipico del gusto dell’epoca, non è stato mantenuto dopo la chiusura del museo, né dopo il trasferimento del nucleo della collezione nel Museo del Louvre. Sfortunatamente ancora ignoriamo la sorte delle tele del facsimile della Tomba dei Rilievi. Laurent Haumesser
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CIPPI E SEGNACOLI di Raffaella Ciuccarelli
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l paesaggio funerario della necropoli della Banditaccia, ma anche degli altri sepolcreti ceretani, è caratterizzato dalla presenza di un particolare tipo di monumento, il segnacolo in forma di cippo. I cippi funerari, piccoli manufatti mobili di forma standardizzata, dotati per lo piú di iscrizione recante il nome del defunto sepolto nella tomba a cui sono connessi, sono ben attestati in Etruria (Vulci, Tarquinia, Tuscania, Volsinii, ecc.) in età tardoclassica ed ellenistica. A Cerveteri sono documentati sia un tipo a
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forma di colonnetta cilindrica con superficie liscia e terminazione orizzontale piana o arrotondata, sia uno a forma di casetta parallelepipeda con tetto a doppio spiovente. A giudicare dalle iscrizioni funerarie incise sulla loro superficie, i cippi del primo tipo appartengono a uomini, quelli del secondo a donne. I cippi recano iscrizioni in lingua etrusca e anche latina (mai attestati casi bilingui); numerosi sono anche gli esemplari anepigrafi, cioè privi di iscrizione. Alla Banditaccia, che ne ha restituito il maggior
Tombe lungo la via Sepolcrale Principale della necropoli della Banditaccia. In primo piano, sulla sinistra, un gruppo di cippi posti all’esterno di uno dei sepolcri, alloggiati in una cippiera.
numero, questi segnacoli sono collocati presso un numero ristretto di tombe concentrate in alcuni settori del sepolcreto. Sia i cippi iscritti in etrusco, sia quelli iscritti in latino, infatti, si distribuiscono principalmente presso il primo tratto della via Sepolcrale Principale con le sue adiacenze, presso la via IX delle Cornici e vie limitrofe. In alcuni casi i cippi erano probabilmente collocati all’interno delle camere funerarie, ma per lo piú si trovavano all’esterno delle tombe presso l’ingresso, con preferenza per il lato
sinistro. Talvolta all’esterno del dromos veniva posta la «cippiera», un supporto parallelepipedo in pietra, basso e largo, con vari incavi, rettangolari o circolari, atti a ricevere a incasso piú cippi delle due fogge.
Allineamenti e lotti Le tombe con i cippi funerari rientrano nel tipo ellenistico a camera unica, a pianta rettangolare con banchine perimetrali divise in letti, talvolta con loculi lungo le pareti. Come avviene nella via Sepolcrale Principale, esse sono allineate in lotti affacciati lungo vie rettilinee aperte o ristrutturate con intenti di pianificazione fra il V e il IV secolo a.C. In rari casi, si tratta invece di tombe a camera quadrangolare con banchina continua databili fra il VI e il V secolo a.C. Non esistono cippi correlabili con tombe orientalizzanti. Queste tombe, invariabilmente, hanno in comune la fondazione, o una fase di riutilizzo, collocabile fra la seconda metà del IV e gli inizi del III secolo a.C., fase che alla Banditaccia è ben testimoniata dall’apertura di un consistente numero di complessi funerari a camera unica con banchina corrente suddivisa in letti e con loculi alle pareti, che presentano corredi caratterizzati da un notevole livello di omogeneizzazione e standardizzazione dei beni deposti. Una buona parte di essi mostra continuità di utilizzo nel III e, probabilmente, anche nel II secolo a.C. Tuttavia, in molte delle tombe caratterizzate dalla presenza di cippi, il rinvenimento di nuclei di materiali databili fra la metà del I secolo a.C. e la piena e finale età giulio-claudia testimonia fasi d’uso di età romana. A questi contesti, tutti raggruppati in alcuni settori ristretti, è possibile collegare topograficamente alcuni fra i cippi iscritti in latino di datazione piú tarda e ipotizzare una forma di mantenimento di tradizioni funerarie etrusche nella Cerveteri romana, pur con l’abbondante utilizzo di iscrizioni funerarie in latino, fenomeno sociale che realizza anche l’equivalente etrusco di un paesaggio epigrafico romano.
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TITOLO DA FARE Il Castello Ruspoli di Cerveteri, sede del Museo TITOLO DA FARE Archeologico Nazionale Cerite. di V. Bellelli
UN MUSEO PER L’ANTICA CAERE Il Castello Ruspoli di Cerveteri ospita il Museo Archeologico Nazionale Cerite. Una raccolta che fa da complemento naturale alla visita alla necropoli della Banditaccia, documentando tutte le fasi della lunga storia della città etrusca
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L’EDIFICIO di Caterina Agostino
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icchezza e cuore della città di Cerveteri è il Castello Ruspoli, dominato dalla duecentesca rocca a pianta rettangolare, dotata di baluardi, merli e, originariamente, di quattro torri poste agli angoli della fortificazione. Il Castello attraversa numerose fasi storiche proprio a partire dall’epoca etrusca: la zona dell’attuale rocca, intorno all’VIII e al VII secolo a.C. diventa il fulcro dell’abitato, delineando un nuovo assetto urbanistico con la creazione di infrastrutture e con la monumentalizzazione dell’edificato: la località in cui sorge il Castello è cosí dominante che sicuramente, durante le varie epoche storiche, è stata il luogo maggiormente fortificato e ultima difesa della città. L’espansione dell’impero romano fagocita la civiltà etrusca tanto da farle perdere l’identità, trasformando Caere – l’antica Cerveteri – in municipio romano. Per la civiltà etrusca è un periodo buio nel quale la decadenza economica riduce progressivamente le attività locali a favore dell’ordinamento urbano romano. Fino al periodo medievale non ci sono piú notizie certe su nuovi assetti urbanistici e costruttivi, molti abitanti abbandonano la città, forse a causa di un’epidemia di malaria, trasferendosi nell’attuale Ceri e al vecchio centro resta il nome di Caere Vetus. Il borgo rivive nel XV secolo, conservando le
mura in opus quadratum, che vengono di volta in volta fortificate con materiali di recupero; poi, con l’avvento dei Cybo, intorno al 1497, il centro comincia ad ampliarsi e fortificarsi con nuove torri, soprattutto sul lato ovest. Si conserva, incastonata nelle mura della grande torre circolare, una targa marmorea con l’iscrizione «F. Cibus fecit» a firma dell’autore dei nuovi interventi di restauro delle mura.
Il primo piano del Museo Archeologico Nazionale Cerite. L’allestimento è stato realizzato su progetto dell’architetto Franco Minissi.
Nuove fortificazioni L’arrivo a Cerveteri della famiglia Orsini cambia l’orientamento costruttivo della città: Gentil Virginio Orsini, conte di Anguillara, ha intenzione di risiedervi, ma in un alloggio degno del suo nome, pertanto, amplia l’edificio esistente accanto alla chiesa – oggi Palazzo Ruspoli – e rafforza pesantemente la cinta muraria. Per meglio difendersi dagli attacchi provenienti dal mare, egli estende gli edifici della rocca, puntando su nuove fortificazioni e passando dal modello del torrione circolare costruito in blocchi di tufo al puntone poligonale, al bastione vero e proprio con fianchi rientranti, come si può notare in molte costruzioni ancora esistenti dello stesso periodo storico. Una delle due torri sarà alzata di due canne e munita di artiglieria in modo da controllare meglio gli scorci verso il mare. Fino all’arrivo della famiglia Ruspoli a Cerveteri,
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Kyathos (attingitoio) in bucchero decorato con motivi a ventaglio facente parte delle collezioni del Museo Archeologico Nazionale Cerite.
il feudo passa di mano in mano attraverso vari casati nobiliari, dalle famiglie nobili dei Crescenzi agli Orsini; solo intorno al 1600, con la popolazione in forte aumento, i Ruspoli decidono di acquistarlo per 550 000 ducati. Rimane di proprietà della famiglia fino al 1816 quando Francesco Ruspoli deve rinunciarvi cedendolo tra i possedimenti in concessione allo Stato della Chiesa, conservando invece per sé il castello e il vicino palazzo cinquecentesco. Già dagli anni Quaranta del Novecento e ancor di piú dopo la fine della guerra mondiale, nasce l’esigenza di conservare in un unico luogo la grande quantità di reperti rinvenuti negli scavi archeologici succedutisi nel tempo in tutto il territorio ceretano; pertanto, se Palazzo Ruspoli è ancora di proprietà della famiglia, il castello invece, negli anni intorno al 1960, viene donato allo Stato italiano proprio al fine di istituire un museo archeologico. Dopo la donazione del castello, parte il piano di restauro dell’intera rocca medievale. Del progetto – sia dal punto di vista del puro restauro architettonico e di rifunzionalizzazione dell’intera area circostante il castello, sia dell’intervento museografico – si occupa l’architetto Franco Minissi (1910-1996), insieme al soprintendente all’Etruria Meridionale del tempo, Mario Moretti (1912-2002), che si occupa invece dell’allestimento dei reperti. Nel 1978 viene apposto il vincolo d’interesse storico-artistico con Decreto diretto sull’area. Tale documento recita: «Detto complesso ha interesse importante ai sensi della citata legge (1089/1939) perché trattasi di singolare “Borgo quadrilatero fortificato” denominato “Castello Orsini”. Esso è costituito dal cinquecentesco palazzo Ruspoli con annesse abitazioni dell’antica gendarmeria; dalla romanica chiesa di S. Maria; dalla cinta merlata sorta su
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strutture etrusche e dall’antico “Torrione”, attuale sede dell’importante Museo Etrusco che custodisce reperti villanoviani».
Antiche murature Al Museo si accede tramite piazza Santa Maria, attraversando l’ingresso principale, un varco arcuato con caditoia soprastante, ancora ben conservato, restaurato nel XV secolo nel momento in cui sono state costruite le merlature e la decorazione esterna a beccatelli. Nel cortile interno è ancora possibile vedere un torrione, tronco in sommità, in pietra silicea relativa, con molta probabilità, all’antico maniero medievale. A oggi, con un’attenta visita al Museo, si possono notare la tessitura muraria originale e tutte le stratificazioni e soprelevazioni costruttive della struttura, messe in risalto dalla trasparenza delle vetrine. Si attraversano le sale godendo anche del complesso architettonico e leggendone le fasi storiche sulle murature. L’esposizione segue l’impostazione planimetrica del castello, sviluppandosi in due sale longitudinali collocate ai due piani dello stesso e distribuendo le vetrine in successione sui lati lunghi. Al piano terra le vetrine corrono lungo le pareti in successione, mentre al piano superiore l’allestimento si snoda a destra con espositori ad armadio che si articolano lungo il muro longitudinale verso l’uscita; a sinistra, incastonate nella chiave dell’arco, sono state inserite vetrine dette «a lanterna», d’invenzione minissiana, che, trasparenti ai quattro lati, permettono la visione dei reperti a 360°. Lateralmente, dopo ogni arco, zone separate da ulteriori vetrine ad armadio, dette «salette», conservano notevoli esempi di ceramica attica ed elementi architettonici ritrovati negli scavi dell’abitato. Il castello oggi conserva reperti archeologici di epoca etrusca di elevato valore storicoartistico, ma è anche uno dei pochi musei che custodisce ancora l’allestimento originale dell’architetto Minissi, anch’esso ormai opera di notevole interesse storico-museografico.
I CORREDI DEL SORBO, DI MONTE ABATONE E DELLA BUFOLARECCIA di Carmelo Rizzo
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l Museo Archeologico Nazionale Cerite accoglie reperti provenienti da tutte le aree funerarie dell’antica Caere, coprendo un arco cronologico che inizia con l’età del Ferro, nel IX secolo a.C., e termina con la romanizzazione, nel II secolo a.C. La prima necropoli che si incontra nella visita è quella del Sorbo, testimoniata dai corredi piú antichi, dell’età del Ferro. Posta a sud del pianoro dell’abitato, l’area sepolcrale fu utilizzata almeno fino al V secolo a.C. Da qui proviene uno dei complessi piú ricchi e famosi di Caere, la Tomba RegoliniGalassi (675-650 a.C.), conservata presso i Musei Vaticani. Tornando all’età del Ferro, nel Museo Cerite sono esposte le caratteristiche urne cinerarie biconiche, che venivano deposte in fosse e spesso custodite in una cista litica, un ampio contenitore in tufo. Per il IX e l’VIII secolo a.C., le urne maschili erano dotate di un coperchio a forma di elmo e la sepoltura accoglieva pochi oggetti di corredo, tra cui un rasoio in bronzo. Le sepolture femminili erano corredate da una ciotola come coperchio, pochi oggetti e qualche fibula in bronzo. Dopo la metà dell’VIII secolo a.C. il sistema di deposizione inizia a cambiare e, sempre piú numerose, alle incinerazioni si affiancano le tombe a inumazione. A questo mutamento si associa una sostanziale differenziazione dei corredi, che rispecchia lo sviluppo di una società gerarchizzata.
La selezione dei materiali, prodotti locali di ottima fattura, in particolare i buccheri, e la compresenza di numerosi e rari oggetti importati dalla Grecia e dal Mediterraneo orientale, rivelano da un lato l’alto rango dei titolari della tomba e, dall’altro, un eccezionale intreccio di contatti internazionali, alcuni probabilmente in via preferenziale, che il gruppo familiare era stato capace di tessere. Basti pensare alle anfore vinarie: una proveniente da Corinto, una da Atene e un’altra dall’isola di Samo, luoghi produttori del vino piú rinomato del periodo. Dalla Tomba 297 di Monte Abatone proviene
Urne biconiche in ceramica d’impasto. IX-VIII sec. a.C. In basso stralcio della tavoletta IGM in scala 1:25 000, con l’indicazione delle principali aree di necropoli di Caere: Sorbo (giallo), Monte Abatone (verde), Banditaccia (rosso).
I corredi come espressione del rango Al passaggio tra l’età del Ferro e l’età orientalizzante (730-700 a.C.) si struttura l’altra grande necropoli di Cerveteri sul pianoro a oriente dell’abitato: Monte Abatone. Da questa zona provengono i numerosi corredi esposti nelle sale del Museo, i primi a esservi ospitati alla nascita del Museo Archeologico Cerite nel 1957. Alla fase piú antica dell’utilizzo del sepolcreto appartiene la Tomba n. 4, uno dei contesti piú significativi dell’Orientalizzante Medio di Cerveteri, che si data tra il 670 e il 650 a.C. La composizione del corredo verte intorno al banchetto e al consumo del vino.
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uno degli oggetti piú rappresentativi delle produzioni etrusche che mostrano l’influenza della ceramica figurata greca, in particolare attico-cicladica: è il biconico (forma tipicamente etrusca) del cosiddetto Pittore dell’Eptacordo, nome convenzionale di un artista che operava a Cerveteri attorno al 680-660 a.C. Il vaso ospita una delle piú antiche raffigurazioni di carattere epico-mitologico ritratte nell’arte etrusca: una donna con lunga treccia e veste decorata a rombi protende la mano destra verso il volto di un guerriero. Rappresentato nella tradizione greca, sia figurata che letteraria, questo gesto è associato all’atto della supplica. Gli studiosi hanno letto in questa scena un episodio tratto dall’Iliade di Omero, forse l’incontro tra Elena e Menelao dopo la presa di Troia, quando Elena
supplica il marito di perdonarla per la fuga (vedi box in queste pagine). La produzione del Pittore dell’Eptacordo indica una figura artistica molto raffinata, che ben conosce sia l’epos greco che le tecniche e le produzioni protoorientalizzanti dell’Attica e della Grecia insulare.
Banchetti, vino e cura del corpo L’altra area funeraria presente con un buon numero di corredi è la Bufolareccia, una zona della necropoli della Banditaccia, a nord-est dell’area del Recinto. Tra quelle esposte al Museo si distingue la Tomba 170 (580-560 a.C.), una tomba a camera singola che accolse una deposizione maschile e una femminile. I corredi funerari
In basso biconico decorato da un artista convenzionalmente denominato Pittore dell’Eptacordo. 680-660 a.C. Nella pagina accanto particolare della decorazione del cratere etruscocorinzio detto «dei Gobbi». 590-570 a.C.
RACCONTI PER IMMAGINI
L’
uso di rappresentare scene narrative sulla superficie dei vasi diventa, a partire dall’epoca orientalizzante, un veicolo unico e privilegiato per la trasmissione dei valori e della cultura delle antiche aristocrazie etrusche. In particolare, è il tema mitologico, con il suo portato ideologico, a diventare un soggetto particolarmente ricercato e rappresentato, attraverso il quale i principes etruschi potevano esercitare meccanismi di identificazione e imitazione nei confronti dei personaggi dei miti. Miti che, quando riconoscibili – per esempio per la presenza di episodi centrali che si riferiscono a racconti ben noti – mostrano quasi sempre una matrice greca, testimonianza dei profondi legami culturali già in quest’epoca presenti tra l’Etruria e il mondo ellenico. Allo stesso tempo, non è possibile escludere del tutto l’ipotesi che, attraverso il mito greco, potessero essere veicolate interpretazioni etrusche degli stessi, le quali non hanno lasciato quasi alcuna traccia, perlomeno a livello iconografico. Ciò che risulta evidente è come l’introduzione del mito greco in Etruria abbia avuto un ruolo centrale nello sviluppo del linguaggio artistico etrusco. Tra gli esempi piú antichi di tale commistione presenti nel Museo Archeologico Nazionale Cerite spicca il cratere-biconico (680-660 a.C.) dalla Tomba
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297 di Monte Abatone attribuito al Pittore dell’Eptacordo, un artista la cui attività si dispiega nella prima metà del VII secolo a.C., quasi esclusivamente a Cerveteri. Egli rappresenta qui sul lato principale una scena in cui una donna, riccamente vestita, solleva delicatamente la mano verso il volto di un guerriero armato di schinieri. Se il mélange culturale è già denunciato a livello morfologico dalla commistione di una forma etrusca, quella del biconico, con una greca, il cratere, il tema iconografico rimanda probabilmente al ciclo troiano: il gesto della donna è infatti di supplica, interpretabile forse come quello compiuto da Elena verso Menelao dopo la presa di Troia. Sebbene manchino elementi certi per confermare tale ipotesi, l’uso di tecniche derivate dal repertorio iconografico geometrico – in particolare di ascendenza protoattica e cicladica – applicate alla grande pittura figurata manifesta la profonda impronta innovatrice ed ellenizzante di questo artista e dei suoi committenti. Con lo sviluppo dell’età arcaica, l’influenza culturale
contengono oggetti di produzione locale e di importazione pertinenti sia al banchetto e al consumo del vino, sia alla cura del corpo, quali contenitori di preziosi unguenti profumati. Tra le ceramiche di importazione vi sono un’anfora attica del Pittore della Gorgone, coppe grecoorientali, un cratere e un’anforetta laconica
greca si intensifica ulteriormente: l’Etruria è ormai un importantissimo bacino di importazione di merci e prodotti greci, che stimolano la nascita di produzioni locali che si pongono in diretta competizione con le opere importate. È il caso del cratere detto dei Gobbi (590-570 a.C.), afferente alla produzione etruscocorinzia e attribuito al Pittore delle Code Annodate: si tratta infatti di un’opera che, per morfologia e decorazione, si rifà agli analoghi vasi dipinti provenienti da Corinto, molto in voga in quest’epoca. Le scene raffigurate sul corpo del vaso mescolano tra loro, senza soluzione di continuità, diversi episodi mitici: accanto alle fatiche di Ercole, alle prese con la cattura dei buoi di Gerione, si possono riconoscere altre due figure (tra cui una femminile, la cui gibbosità ha conferito il nome all’opera), vicino a una struttura identificabile come un altare a gradoni. Si tratta forse di Neottolemo e Polissena di fronte alla tomba-altare di Achille, sulla quale la giovane figlia di Priamo verrà immolata in sacrificio all’eroe. Ancora una volta, scene tratte da diverse saghe del mito greco, qui sovrapposte in un sapiente gioco di rimandi eruditi, vengono a svolgere, dapprima nel simposio aristocratico e quindi nel rituale funerario, un importante ruolo celebrativo e formativo per le élites etrusche. Luca Bianchi
(regione di Sparta). Non manca il set da vino di bucchero. I vasi di bronzo sono notevoli esempi di toreutica etrusca. Pertinenti alla sepoltura femminile sono una parure di gioielli in oro – fermatrecce, un anello, ventuno fibule – e un anello in argento.
Tutti pazzi per i sandali all’etrusca La particolare compresenza di eventi naturali ha permesso la conservazione di rari oggetti. Molto particolare è un barilotto ligneo rivestito di ferro: è dotato di due imboccature e di un diaframma all’interno che evitava l’incontro dei liquidi contenuti in ogni metà. Alla sepoltura femminile si associa una coppia di sandali, di cui si sono conservate le parti in ferro della suola. La letteratura greca del V secolo a.C. ha tramandato un particolare apprezzamento per i sandali dell’artigianato etrusco, spesso adornati con lamine di bronzo decorate a sbalzo. L’oggetto piú significativo per lo status dei proprietari è uno sgabello pieghevole di cui si sono conservate cospicue parti in bronzo, ferro e legno, ricostruito presso la sala del Museo. Tale oggetto, tra i meglio conservati di quelli noti, provenienti anche da altri siti archeologici, ha una lunga storia legata a personaggi di rango regale o, comunque, di alto livello sociale. Il suo utilizzo nel Mediterraneo inizia nell’età del Bronzo, come dimostra la sua presenza nella tomba di Tutankhamon (1323 a.C.), e si rinviene dal Nord Europa (Germania settentrionale e Danimarca tra XIV e XIII secolo a.C.) fino in Assiria, nel Vicino Oriente (inizi del 1000 a.C.). Dall’Oriente, per mezzo di intensi contatti commerciali, giunge in Etruria sul finire del VII secolo a.C. e lo troviamo diffuso nell’intera area etrusca sia in realizzazioni simili all’esemplare della Tomba 170 (Bisenzio), sia in avorio (Tomba della Montagnola, fine VII secolo a.C., Sesto Fiorentino; Tomba dello Sgabello, fine VI secolo a.C., Bologna). Sovente si rinviene riprodotto nell’arte figurativa, come sulle lastre di terracotta a Murlo, nelle tombe dipinte di Tarquinia e, in stucco, sulla colonna di sinistra della Tomba dei Rilievi.
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CAPOLAVORI DELLA SCULTURA IN TERRACOTTA di Maria Taloni
I
l Museo Archeologico Nazionale di Cerveteri espone piú di un capolavoro della fragile arte della coroplastica, sia a destinazione funeraria ,sia architettonica, in cui gli Etruschi eccelsero. Tra le urne cinerarie fittili, la prima, esposta al pianterreno, proveniente dalla Banditaccia, presenta una cassa a forma di kline, sul cui piano è posto il coperchio raffigurante una coppia di sposi semisdraiati, sopra un materasso, con i gomiti su un cuscino ripiegato, nell’atteggiamento di banchettanti. Lo schema delle figure ripete quello dei due, piú celebri e piú raffinati, sarcofagi degli sposi conservati al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma e al Louvre a Parigi. Appare tuttavia significativo come l’urna possa inserirsi nella stessa temperie culturale, che fa supporre il riferimento a un unico cartone, caratterizzato dal figurativismo di gusto ionico che ritroviamo nelle coeve tombe dipinte di Tarquinia. Un altro esemplare, appartenente alla collezione Campana del Louvre, permette di ricostruire anche il gesto compiuto dai banchettanti: l’offerta di un olio profumato conservato in un unguentario da parte della donna nella mano dell’uomo. L’uso dei profumi durante il banchetto-simposio e la funzione funeraria del contenitore sottolineano le molteplici valenze simboliche connesse al simposio stesso, legato alla figura salvifica di Dioniso e all’uso nella cura del corpo dei defunti di essenze profumate per preservarlo dalla corruzione e per donargli l’immortalità.
Modelli ateniesi Nello stesso atteggiamento plastico, semisdraiato sul fianco sinistro, si trova un efebo, che costituisce il coperchio di un’altra urna cineraria fittile tardo-arcaica – priva, questa, della cassa a forma di kline – rinvenuto nella tomba a camera 92 della necropoli della Bufolareccia, il cui corredo rimanente, attestante una fase di riuso ellenistico della tomba, è ugualmente esposto al museo. L’efebo è in posizione di riposo, sostenuto dal braccio su un cuscino ripiegato; il busto è reso
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In alto urna cineraria in terracotta che riprende il modello del Sarcofago degli Sposi, con la coppia semisdraiata, a banchetto, dalla necropoli della Banditaccia. VI sec. a.C. A sinistra particolare del volto dell’efebo raffigurato in posizione semisdraiata sul coperchio di un’urna cineraria in terracotta (per la foto d’insieme, vedi alle pagine seguenti). VI sec. a.C.
di prospetto, mentre le gambe sono incrociate verso il basso; la tunica, dal panneggio a morbide pieghe, copre i fianchi, lasciando il resto del corpo nudo; il volto è incorniciato da riccioli, con occhi allungati, zigomi alti e tipico sorriso arcaico; la chioma è trattenuta in una retina sottile, ripresa da una banda che avvolge il capo. Si sottolinea la perizia nella rappresentazione dei dettagli anatomici, delle masse muscolari e dei tratti del volto, caratteristiche di una bottega ceretana dell’arcaismo maturo, che richiama i modelli ateniesi delle sculture dei frontoni del tempio di Atena Aphaia nell’isola di Egina in Grecia, di cui sono ripresi anche i valori simbolici dell’atletismo e della seminudità eroica.
Nel museo cerite sono conservate anche varie terrecotte architettoniche che rappresentano la seconda principale destinazione della produzione coroplastica e che testimoniano la presenza in età arcaica di vari santuari urbani, in località Sant’Antonio, nell’area della Vigna Parrocchiale e della Vigna Marini Vitalini. Alcune rare attestazioni letterarie ne riflettono il ricordo, sebbene sia di difficile interpretazione l’attribuzione alle divinità venerate: il lucus di Silvano vicino al Caeritis amnis menzionato da Virgilio, una aedes Iovis, citata da Livio e, sempre secondo quest’ultimo, le sortes attenuatae avvenute in un santuario nel 218 a.C. Tali testimonianze, oltre a essere frammentarie, sono fisicamente divise in vari
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musei esteri, come Berlino e Copenaghen, in collezioni private svizzere e statunitensi e solo poche, attraverso la collezione Castellani, sono passate al Museo di Villa Giulia e da lí al museo ceretano. Il grande lavoro di ricostruzione delle varie collezioni intrapreso da Patricia Lulof ha permesso di formulare una convincente ipotesi di ricomposizione dell’apparato decorativo del tetto proveniente dall’area della Vigna Marini Vitalini, al centro del pianoro dei Vignali, dove gli elementi decorativi della copertura di terracotta erano stati gettati in una vecchia cava, dalla quale sono stati recuperati. In particolare, i frammenti esposti al piano superiore del museo rappresentanti Amazzoni a cavallo e coppie di cavalieri a bassorilievo
LE TERRECOTTE POTEVANO ESSERE UN VEICOLO DI AUTOCELEBRAZIONE DEI TYRANNOI DI CAERE
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saranno oggetto di un nuovo progetto museologico e museografico che ne valorizzi l’importanza, oggi soppiantata dai vicini capolavori di Eufronio e Onesimo, e ne semplifichi la lettura e la comprensione, grazie alla ricostruzione del contesto funzionale originario, anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie. I frammenti erano parte di un apparato decorativo di soggetto epico-mitologico molto piú ampio e complesso, connesso anche
alla politica edilizia e autocelebrativa dei tyrannoi della città come Thefarie Velianas ricordato nelle lamine d’oro di Pyrgi. Ne rappresentano, infatti, gli acroteri di gronda, disposti in due serie di almeno nove elementi sugli spioventi del tetto, al galoppo verso il vertice del frontone anteriore del tempio, dove un guerriero con elmo, scudo e spada sguainata, ora a Copenaghen, costituiva l’acroterio centrale. Coperchio di un’urna in terracotta con la figura di un efebo semisdraiato. Nella pagina accanto terracotta architettonica raffigurante un’Amazzone a cavallo, dall’area della Vigna Marini Vitalini, al centro del pianoro dei Vignali.
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UNA STORIA A LIETO FINE: I CAPOLAVORI DI EUFRONIO di Carmelo Rizzo
A
l grande pubblico, Cerveteri non evoca solo il nome (moderno) di una grande metropoli del Mediterraneo antico, ma, purtroppo, anche una delle piú grandi piaghe che hanno colpito in passato, e ancora colpiscono, il patrimonio culturale e materiale italiano e mondiale: lo scavo clandestino e i tombaroli. Tuttavia, come in ogni brutta storia criminale, c’è sempre la possibilità di un lieto fine: la giustizia segue il suo corso e regala una speranza affinché le cose possano cambiare. È quanto accaduto ai due capolavori conservati presso il Museo Archeologico Cerite, opera di uno dei piú grandi artisti di tutti i tempi: il cratere e la kylix (coppa a due manici) di
Eufronio. Tutto ha inizio, nel 1971, quando il Metropolitan Museum of Art di New York annuncia l’esposizione di un capolavoro dell’antichità: il cratere di Eufronio, pagato un milione di dollari. La risonanza della notizia attrae da un lato studiosi, giornalisti, curiosi, dall’altro gli inquirenti italiani. Dopo anni di indagini, scoperte di depositi illegali con milioni di reperti, processi, i due capolavori rientrano in Italia. Prima la kylix, nel 1999, e poi il cratere nel 2008. Il cratere di Eufronio era stato trafugato dalla necropoli di Greppe Sant’Angelo, un sepolcreto rupestre posto sul fianco orientale del pianoro dell’abitato. Il vaso fu prodotto tra il 510 e il 500 La faccia del cratere di Eufronio sulla quale il grande ceramografo dipinse la scena principale: il trasporto del corpo del gigante Sarpedonte, morto nella guerra di Troia in uno scontro con Patroclo, dalla necropoli di Greppe Sant’Angelo. 510-500 a.C.
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L’altra faccia del cratere di Eufronio, raffigurante due giovani che si preparano a combattere, armandosi. 510-500 a.C.
a.C. ad Atene, dove il ceramografo operava e viveva, e realizzato dal vasaio Eussiteo. È un’opera monumentale, destinata a contenere 45 litri di vino, nonché uno dei capolavori piú notevoli dell’antichità.
Pathos e commozione La caratteristica forma, un cratere a calice dalle pareti alte e tese, offre un’ampia superficie per una rappresentazione spaziosa, complessa e significativa. Eufronio sfrutta tutto lo spazio per dare sfogo alle capacità tecniche pittoriche che il nuovo stile figurativo a figure rosse concedeva, comunicando pathos e commozione. La scena principale racconta il trasporto del corpo del gigante Sarpedonte, morto nella guerra di Troia in uno scontro con Patroclo, altro eroe dal destino infausto, che nell’Iliade di Omero morirà un centinaio di versi dopo. Sarpedonte, re dei Lici, figlio di Zeus ed Europa, si era schierato con il suo esercito al fianco dei Troiani. Il corpo è privo di armatura, in nudità eroica; l’assenza della vita è rimarcata
non solo dal capo reclinato e dallo sguardo spento, ma anche dal braccio penzolante davanti al corpo. Forse per la prima volta nell’arte figurativa viene utilizzato questo espediente iconografico per rappresentare un corpo senza vita. La tradizione riporta che Zeus, alla morte del figlio, invia Hypnos (Sonno) e Thanathos (Morte) a recuperare il corpo e condurlo in Licia per essere degnamente ed eroicamente sepolto; al corteo funebre partecipa anche Hermes nel suo ruolo di accompagnatore dei morti nell’oltretomba. La scena è completata dalle figure di due guerrieri, Ippolito e Leodamante, ai lati del gruppo principale, quasi a guardia dell’incolumità del corpo del re mentre intorno infuria ancora la battaglia. La costruzione della composizione è altamente emotiva. Si percepisce l’imponenza fisica dell’eroe morto, Sarpedonte, la cui forza è evidenziata dalla muscolatura, dal sangue ancora grondante dalle ferite, come se il cuore pompasse ancora, e dallo sforzo espresso dalla
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Particolare della scena principale del cratere di Eufronio raffigurante Ippolito, uno dei due guerrieri che sembrano vegliare sul corpo di Sarpedonte. 510-500 a.C. In basso l’interno della kylix di Eufronio, la cui decorazione venne probabilmente eseguita da Onesimo, da un santuario in località Sant’Antonio. 500-490 a.C. Nella pagina accanto un frammento della coppa e l’esterno del vaso, sul cui piede corre una dedica a Hercle.
figura ricurva delle due divinità che stanno raccogliendo il corpo. L’intera scena accoglie il nome dipinto di tutti i personaggi a cui si aggiungono le importanti firme del ceramista Eussiteo e di Eufronio ceramografo. Sull’altro lato è rappresentata una scena non cruenta: giovani guerrieri si preparano ad affrontare la battaglia, armandosi. Sebbene differenti tra loro, le due scene evocano la guerra, la sua tragedia e l’importanza dell’educazione militare dei giovani aristocratici ateniesi che si preparavano ad affrontarla.
Dal santuario di Hercle La kylix, invece, fu trafugata da un santuario nell’area dell’abitato antico, in località Sant’Antonio, dove è stato individuato un luogo di culto dedicato a Hercle, nome etrusco di
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parte di Agamennone di Briseide ad Achille, fino ad arrivare alla caduta di Troia sulla superficie interna della coppa. Nel tondo centrale è rappresentata una cruenta scena di sangue, fulcro dell’intero racconto. A sinistra è raffigurato l’anziano re di Troia, Priamo, presso l’altare di Zeus Herkeios, con accanto la figlia Polissena che alza le mani alla testa, atterrita e disperata per la violenza che Neottolemo, figlio di Achille, sta perpetrando sul corpo del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, che terminerà con il suo corpo scaraventato dalle alte mura della città. Eracle. La coppa è stata rinvenuta in vari frammenti e venduta «pezzo per pezzo», cosí come venivano recuperati, al J. Paul Getty Museum di Malibú, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Novecento. La coppa è monumentale (46,5 cm di diametro e altezza di 20,5 cm) e non fu realizzata per un uso corrente ma per essere data in dono alle divinità. Al di sotto del piede è un’iscrizione di dedica a Hercle, in etrusco, purtroppo molto lacunosa. Anche la kylix riporta la firma di Eufronio, ma questa volta come ceramista e non come ceramografo. Qui a decorare l’ampia superficie fu probabilmente Onesimo. La realizzazione della coppa risale al 500-490 a.C. e l’età forse avanzata di Eufronio non gli permetteva piú di dipingere; per quest’opera, lasciò quindi spazio all’allievo piú dotato della sua bottega. Anche sulla kylix le scene rappresentate sono tratte dall’Iliade, sia sulla superficie esterna che interna del vaso, con episodi legati l’uno all’altro. Si tratta di una delle piú elaborate versioni iconografiche della presa di Troia. Si comincia dalla richiesta da
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IL CHARUN DI GREPPE SANT’ANGELO di Laurent Haumesser
L
a ricchezza del materiale lapideo esposto al Museo Archeologico Nazionale di Cerveteri consente al visitatore di apprezzare non soltanto l’importanza dei monumenti funerari, ma anche quella della decorazione scultorea esibita dalle grandi tombe portate alla luce nelle diverse necropoli che fiancheggiavano il pianoro urbano della
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città etrusca. Il gusto degli artistocratici ceretani per la monumentalizzazione delle tombe raggiunge l’apogeo alla fine del IV secolo a.C., nel periodo di transizione fra l’epoca classica e quella ellenistica, quando nuovi modelli culturali e artistici provenienti dalla Macedonia o dall’Italia meridionale approdano in Etruria. Il primo piano del Museo
La statua del demone Charun, le porte simboliche e i leoni che componevano l’apparato decorativo della Tomba dei Sarcofagi.
presenta i resti della decorazione esterna della Tomba dei Sarcofagi, che formavano una sorta di tempietto sormontante l’ingresso della tomba, sanza dubbio a imitazione delle strutture attestate nelle necropoli di Taranto. I grandi sarcofagi in pietra esposti al primo piano, provenienti anch’essi dalla Tomba dei Sarcofagi, e dalla contigua Tomba dei Tamsnie, mostrano nella struttura architettonica o nella decorazione, l’influenza dei coevi modelli greci: il sarcofago con coperchio a forma di tetto, per esempio, trova significativamente una replica esatta nella grande necropoli aristocratica dei Rabs a Cartagine.
Le finte porte e il demone Ma l’esempio piú spettacolare di ricorso alla decorazione scultorea nella scenografia funeraria è offerto da un complesso riportato alla luce nel 1974, in seguito ad alcuni tentativi di furto da parte di scavatori clandestini. Si tratta di una tomba della necropoli di Greppe Sant’Angelo, collocata lungo il fianco meridionale del pianoro urbano, che presentava una sistemazione scenografica che ricorda le necropoli rupestri etrusche del Viterbese. La tomba si apriva in effetti su una corte, che valorizzava la facciata monumentale e che la decorazione scultorea trasformava in una sorta di recinto funerario. Come avviene nelle tombe rupestri, la facciata valorizzava delle finte porte simboliche, che aggettavano sull’ingresso reale delle camere funerarie, alle quali di accedeva tramite il dromos che si addentrava nel sottosuolo. Nel caso della tomba ceretana, queste due porte scolpite a imitazione delle porte reali erano realizzate in pietra e inserite nella facciata: oggi il visitatore può ammirarle all’ingresso del Museo di Cerveteri. La dimensione funeraria associata al simbolismo della porta, che monumentalizzava il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti, era rafforzata da un arredo scultoreo di una ricchezza inusitata, che oggi può essere ammirato al primo piano del Museo. Strettamente associata al tema della porta e
del passaggio, la figura del demone Charun riprende, ma qui in una maniera assolutamente eccezionale a tutto tondo, quella attestata anche nella decorazione tombale contemporanea, e specialmente nella pittura funeraria di Tarquinia. Charun evoca già nel nome il nocchiero greco Caronte, ma progressivamente ha assunto in Etruria il ruolo di guardiano della porta, munito di un martello (qui mancante), che gli serviva per sbloccare le barre di chiusura delle porte. Montavano la guardia anche alcuni animali, reali o fantastici, piazzati probabilmente nella piazzetta antistante la tomba, anche se ignoriamo la loro disposizione originaria. Una coppia di leoni, che voltavano la testa in maniera simmetrica e dovevano dunque essere complementari, riprendono i modelli dei grandi felini in pietra arcaici, attestati soprattutto a Vulci (ma anche a Cerveteri, come dimostra l’esemplare visibile al pianterreno del Museo). La fortuna di questo tipo di scultura funeraria alla fine del IV secolo a.C. è documentata da due esemplari analoghi collocati davanti all’ingresso della Tomba dei Rilievi nella necropoli della Banditaccia. Piú originali per l’epoca sono le due statue di sfingi accosciate, con le zampe munite di artigli, ma con il viso sereno ancora di ispirazione classica. È possibile che questo schema, che riprende la tradizione etrusca arcaica, sia stato vivificato dai modelli dell’inizio dell’età ellenistica propri delle grandi tombe aristocratiche di Macedonia risalenti all’età di Alessandro Magno. Una conferma di questa influenza viene dall’architettura stessa della tomba, in particolare dalla copertura a botte, nuovo sistema di copertura diffuso in quel periodo nel Mediterraneo. La presenza precoce in Italia di questa tipologia architettonica, associata alla ricchezza dell’apparato scultoreo della tomba, conferma l’apertura del committente della tomba di Greppe Sant’Angelo, e piú in generale degli aristocratici di Cerveteri vissuti in quel periodo, ai nuovi modelli culturali dell’inizio dell’epoca ellenistica.
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LE RISORSE MULTIMEDIALI: CERVETERI NEL PROGETTO «E-ARCHEO» di Eva Pietroni
I
l sito di Cerveteri è stato oggetto di un intervento di valorizzazione multimediale nell’ambito di «e-Archeo», un grande progetto commissionato ad ALES SpA dal Ministero della Cultura, nato con l’intento di promuovere l’archeologia italiana e illustrare le varie culture antiche e le tipologie di insediamenti presenti sul nostro territorio, tramite le tecnologie digitali. Sono stati scelti otto siti pilota, dislocati in diverse regioni del Nord, Centro e Sud Italia, di fondazione etrusca, greca, fenicio-punica, indigena e romana: Sirmione e Desenzano, Marzabotto, Cerveteri, Alba Fucens, Velia, Egnazia, Sibari, Nora. Il progetto è stato realizzato nel 2021-2022, durante la pandemia, e una particolare cura è stata rivolta ai temi dell’accessibilità multimediale, della sostenibilità tecnologica, dell’open science e della riusabilità dei dati. «e-Archeo» nasce da una sinergia e condivisione di competenze tra mondo pubblico e privato grazie alla collaborazione del MiC e di ALES con il CNR ISPC, dieci università italiane, la Scuola Archeologica Italiana di Atene, dodici industrie creative, il Museo Tattile Statale Omero, esperti di accessibilità e RAI Cultura. Le ricostruzioni virtuali hanno un ruolo centrale nel progetto, in quanto permettono di recuperare quella terza dimensione andata perduta nel tempo e di rappresentare le relazioni tra sito e territorio, tra vie di comunicazione e risorse, tra spazi pubblici e privati. I contesti e i temi approfonditi per il sito di Cerveteri riguardano la topografia del paesaggio antico e la sua evoluzione (è stata proposta una ricostruzione 3D su scala paesaggistica della città in fase arcaica e al momento della sua massima espansione), il rapporto tra la città e le necropoli, le forme insediative e le tipologie architettoniche, l’evoluzione della tomba-casa etrusca; la necropoli della Banditaccia, con un particolare focus sulle Tombe dei Capitelli e dei Rilievi e sul Sarcofago degli Sposi; la necropoli di Monte Abatone, oggi non visitabile in quanto ancora
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oggetto di scavi e indagini archeologiche, ma resa fruibile al pubblico in forma virtuale, con un particolare focus sull’area di scavo, le tombe n. 73 e 642 e Campana; il Museo Nazionale Archeologico Cerite di cui vengono rappresentati e narrati alcuni capolavori come il cratere e la coppa di Eufronio e alcuni oggetti provenienti da Monte Abatone, Greppe Sant’Angelo e dalla Banditaccia.
Storie di vita quotidiana Circa dieci audio racconti coinvolgenti sulla Cerveteri etrusca sono stati implementati in «e-Archeo Voci» (https://voci.e-archeo.it), dedicati anche alla città dei vivi, alle abitudini di vita, ai personaggi illustri, alle attività produttive e di svago, mettendo in luce i contatti e le influenze culturali con le civiltà mediterranee e con il mondo greco in particolare. Per favorire la comprensione dello spazio archeologico e dell’evoluzione cronologica del sito, nella Web App «e-Archeo 3D» (3d.earcheo.it) sono stati implementati tre tipi di visualizzazione, sia a scala territoriale che di contesti specifici: 1. il «paesaggio archeologico» attuale; 2. il «paesaggio potenziale» antico; 3. il «paesaggio interpretato», attraverso l’applicazione di colori simbolici ai vari elementi della ricostruzione virtuale, corrispondenti a diversi livelli di affidabilità e alle fonti e ai processi interpretativi che hanno supportato tali ricostruzioni virtuali. Questa terza visualizzazione è rivolta a un pubblico esperto. Nella Web App, fruibile attraverso i dispositivi mobili personali degli utenti, la visualizzazione
Sulle due pagine immagini delle installazioni realizzate nell’ambito del progetto «e-Archeo», che permettono la fruizione dei contenuti anche attraverso spiegazioni fornite con il linguaggio dei segni e per mezzo di modelli predisposti per l’esplorazione tattile.
degli ambienti virtuali è affidata a rendering panoramici a 360 gradi, mentre gli oggetti museali in 3D possono essere esplorati in real time e, ove possibile, sono virtualmente ricontestualizzati negli ambienti di provenienza. Anche alla narrazione è stata dedicata una particolare cura; si compie attraverso diverse prospettive, voci e registri comunicativi e una pluralità di soluzioni tecnologiche. Nella sala Mengarelli, nella necropoli della Banditaccia, è disponibile una spettacolare installazione di «e-Archeo 3D», estesa su tre grandi schermi e concepita per una fruizione collettiva del pubblico in visita al sito. Nella stessa sala viene presentata inoltre «e-Archeo Tattile», un’installazione accessibile dedicata al tema della tomba-casa etrusca, fondata sui principi dello Universal Design: la formulazione di un linguaggio conciso e lineare, il design e la costruzione di interfacce di interazione tattile,
la traduzione dei contenuti in lingua dei segni e una serie di accorgimenti ergonomici e hardware permettono a tutto il pubblico di vivere positivamente l’esperienza digitale, includendo le persone su sedia a ruote, cieche o ipovedenti e sorde. Nel Museo di Cerveteri «e-Archeo-Human Interface» permette ai visitatori di dialogare con Vel, l’antico facoltoso proprietario di un’impresa di ceramica di cui vediamo il sarcofago esposto. Rappresentato da un attore in costume in scala 1:1 in un monitor olografico, Vel, nel corso dei suoi racconti, chiama in causa gli oggetti esposti nelle vetrine circostanti, che si illuminano di conseguenza, diventando i veri protagonisti della storia (una forma mixed reality narrativa). RAI Cultura ha inoltre realizzato un filmato su Cerveteri integrato sia sul sito web del progetto, sia nella Web App 3D (e-Archeo Video). Il sito web (www.e-archeo.it) narra gli obiettivi, i contenuti realizzati, le metodologie condivise, le sinergie messe in campo e i risultati raggiunti. Permette inoltre di accedere alle Web App e alla collezione e-Archeo pubblicata su Zenodo, dove tutti i dataset sono stati resi disponibili e scaricabili per successivi studi o impieghi, con licenza «Creative Commons Attribution Non Commercial Share Alike 4.0 International».
BIBLIOGRAFIA (a cura di lidia caputo e marina zingarelli) • Pietro Ercole Visconti, Antichi monumenti sepolcrali scoperti nel ducato di Ceri, Roma, 1936 • Luigi Canina, L’antica Etruria marittima compresa nella dizione pontificia, Roma, 1846 • Massimo Pallottino, La necropoli di Cerveteri, Roma, 1939 (successive edizioni fino al 1973) • Massimo Pallottino, Cerveteri, scavi della Banditaccia, in Notizie degli Scavi, 1955; pp. 46-113 • AA.VV., Caere. Scavi di Raniero Mengarelli, in Monumenti Antichi, vol. XLII., 1955 • Mario Moretti, Il Museo Nazionale Cerite, Roma, 1967 • Gli Etruschi e Cerveteri, Catalogo della mostra, Milano, 1980 • Giuseppe Proietti, Cerveteri, Roma, 1986 • Horst Blanck, Giuseppe Proietti, La tomba dei rilievi di Cerveteri, in Studi di archeologia pubblicati dalla Soprintendenza archeologica per l’Etruria meridionale, 1, Roma, 1986
• Alessandro Naso, Architetture dipinte: decorazioni parietali non figurate nelle tombe a camera dell’Etruria meridionale: VII-V secolo a.C., Roma, 1986 • Mauro Cristofani, Giuliana Nardi, Maria Antonietta Rizzo, Caere I, Il parco archeologico, Roma, 1988 • Mauro Cristofani, Cerveteri. Tre itinerari archeologici, Roma, 1991 • Rita Cosentino Marconi, Cerveteri e il suo territorio, Roma, 1995 • Giovanna Bagnasco Gianni, Cerveteri. Importazioni e contesti nelle necropoli, Milano, 2002 • Alessandro Naso, Massimo Botto (a cura di), Caere orientalizzante. Nuove ricerche su città e necropoli, Roma, 2018 • Maria Antonietta Rizzo, La necropoli del Laghetto tra vecchi e nuovi scavi, in Scienze dell’antichità. Storia, archeologia, antropologia, 24, Roma, 2018 • Paola Porretta, L’invenzione moderna del paesaggio antico della Banditaccia. Raniero Mengarelli a Cerveteri, Roma, 2019
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Uno scorcio della necropoli dei Monterozzi di Tarquinia: il nome del sepolcreto deriva dai tumuli che in origine coprivano i monumenti funerari e sono stati poi cancellati dall’erosione e dai lavori agricoli. In primo piano, ciste litiche utilizzate per la deposizione delle urne cinerarie; in secondo piano, una delle strutture moderne che proteggono l’accesso alle tombe dipinte.
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TARQUINIA
LA STORIA E I COLORI Città dalla fondazione ammantata di leggenda, l’antica Tarchna seppe sfruttare al meglio la sua felice posizione, intessendo scambi commerciali e culturali di ampio respiro. E proprio dalla ricezione di modelli sviluppati in Grecia e Asia Minore nacquero le tracce piú spettacolari della sua ricchezza: le straordinarie tombe dipinte della necropoli dei Monterozzi
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IL QUADRO TOPOGRAFICO di Alessandro Mandolesi
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offerto dalla rappresentazione della Tomba della Caccia e della Pesca (510 a.C.), dove troviamo un giovane tuffatore – seppur connesso a simbologie funerarie – immerso in un vivace paesaggio lacustre, animato da una piccola imbarcazione con uomini a bordo fra uccelli in volo e pesci guizzanti.
Mura poderose La città insiste sul candido pianoro de La Civita, ubicato in posizione arretrata rispetto al mare e dominante sullo sbocco costiero della valle del Marta. L’area della città antica, le cui origini risalgono al X secolo a.C., è delimitata da versanti strapiombanti su gran parte del suo perimetro, orlato dai resti di poderose cinte murarie di età arcaica ed ellenistica, quando Tarquinia è al suo apogeo. La Civita è
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a città, la necropoli e il porto: un allineamento topografico ideale, quello della Tarquinia etrusca, attorno al quale si incardina un eterogeneo territorio di natura prevalentemente calcarea, appena sfiorato dalle coltri vulcaniche che ritroviamo a Cerveteri e, a nord, nella confinante Vulci. Come sottolineò Massimo Pallottino nel 1937, «Lo splendore politico e culturale di Tarquinia fra le antiche città dell’Etruria Marittima non può esser disgiunto dalla sua felice posizione geografica e dai caratteri delle zone adiacenti»; un comprensorio dal contesto quindi ottimale, situato com’è nel punto d’incontro fra la linea costiera tirrenica e i Monti della Tolfa da una parte, con le sue importanti risorse minerarie e forestali, e la valle del fiume Marta dall’altra, antica e frequentata direttrice viaria verso il lago di Bolsena e l’entroterra rupestre. L’asse topografico tarquiniese si innesta su un territorio dalle elevate potenzialità agricole, un aspetto determinante per lo sviluppo della comunità urbana, rimarcato da una delle leggende piú rappresentative sulle origini del centro e della stessa nazione etrusca, quella del divino fanciullo Tagete (Tages), precettore della disciplina aruspicale, apparso a un contadino locale o, secondo alcuni autori antichi, al fondatore eponimo Tarconte durante la lavorazione della terra. Un altro aspetto strategico è la proiezione marittima di Tarquinia, pienamente inserita nel network commerciale mediterraneo, grazie al ruolo di mediazione fra l’area mineraria etrusca e i Greci del Sud Italia e alla predisposizione di un’efficiente flotta navale sul Tirreno. Lo scenario in cui contestualizzare la narrazione etrusca di Tarquinia si può suddividere in due zone distinte, oggi superstiti di un antico e affascinante ambiente di sapore maremmano: verso l’interno, la fascia collinare con aree alternativamente coltivate a secco o coperte da macchie mediterranee; verso il mare, la piana litoranea bonificata dalle paludi navigabili che in passato si distendevano alle spalle della linea costiera, di cui un fotogramma rievocativo è
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Il litorale di Tarquinia visto dalla necropoli dei Monterozzi. Cardine degli scambi commerciali della città etrusca era il porto di Gravisca. Nella pagina accanto cartina del territorio tarquiniese nella quale sono indicate le aree di necropoli e di abitato.
circondata da sepolcreti dell’inizio dell’età del Ferro, caratterizzati dal rito quasi esclusivamente crematorio – testimonianza di una Tarquinia villanoviana organizzata in nuclei familiari estesi – e dai successivi tumuli monumentali di epoca orientalizzante (Poggio Gallinaro, Poggio del Forno, Doganaccia e Infernaccio). Questi – diversi nell’impianto da quelli di Cerveteri, in quanto influenzati dalle esperienze architettoniche cipriote – sono segno tangibile sul territorio del potere principesco, innalzati in zone esposte delle necropoli o al centro di proprietà terriere, in rapporto a frequentate strade di collegamento. La necropoli principale di Tarquinia si allunga sull’estesa collina dei Monterozzi che si interpone fra La Civita e il mare, di fronte e parallelamente alla piana costiera, separata dalla città dalla vallata del fosso San Savino, affluente del Marta. L’estremità nordoccidentale è occupata dall’attuale Tarquinia, la medievale Corneto. Su questa altura si manifesta tutta l’agiatezza e la raffinatezza dell’aristocrazia tarquiniese, tradotta nelle tombe a camere ipogee ornate da ricercate pitture, alle quali non è estranea la mano di artisti greci stabilitisi in città. La denominazione
popolare di «Monterozzi» deriva dalla presenza diffusa, in passato, di tumuli sepolcrali di dimensioni diverse – oggi in gran parte spianati dai lavori agricoli o per ricavarne materiale per l’edilizia – destinati a segnalare sul terreno le stanze sotterranee scavate nella roccia. La necropoli è suddivisa in settori diversi in base a capisaldi topografici costituiti da spaccature che incidono la cresta sommitale affacciata verso La Civita, una sorta di «vie cave» calcaree che facilitavano il passaggio delle strade che dalla città raggiungevano la necropoli per poi proseguire fino alla costa. Queste incisioni stradali sono attraversate dalle arcate dell’acquedotto settecentesco che alimentava Corneto e che ha influito sulle denominazioni dei settori archeologici: a partire dal paese moderno, «Primi Archi», «Arcatelle», «Secondi Archi», a cui si aggiungono «Ripagretta», a indicare le zone funerarie affacciate sulla balza calcarea rivolta a La Civita, e «Calvario», ubicato alla fine di una vecchia via Crucis e che oggi corrisponde alla sede della necropoli monumentale aperta al pubblico. Il porto è l’interfaccia della città sul mare, il terminale della viabilità che giungeva a Tarquinia dopo aver attraversato la necropoli
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dei Monterozzi. Gravisca nasce intorno al 600 a.C. come emporio a vocazione internazionale, frequentato da mercanti e artigiani greci e levantini, erede di un precedente scalo di epoca villanoviana che insisteva nell’area delle adiacenti saline e di un altro di età orientalizzante che doveva trovarsi presso la foce del fiume Marta, dal quale ci si poteva addentrare con la navigazione in direzione del centro abitato. Tarquinia appare in pieno sviluppo urbanistico e territoriale, con un vasto entroterra controllato politicamente, fino alla seconda metà del IV secolo a.C., quando la città assumerà la guida della difesa etrusca dalla minaccia romana proveniente da sud, per poi capitolare nel secolo successivo, fino alla confisca dell’agro culminata nel 181 a.C. con la fondazione della
colonia di Gravisca sul sito dell’antico porto etrusco e la conseguente ristrutturazione dell’intero comprensorio impostato sul passaggio della via Aurelia.
Pulcella Pallottino n. 3713
Cristofani n. 3242
Moretti n. 5591
Fiore di Loto Leonesse
Cacciatore
Guerriero
Bartoccini Cardarelli
Caccia e Pesca
Gorgoneion
Giocolieri
Caccia al Cervo
5512 Triclinio (al Museo)
Fustigazione
Biglietteria
842 Letto Funebre
Caronti
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Baccanti
5636
Fiorellini
Bettini n. 5513 Demoni azzurri
Leopardi AURELIA BIS
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Necropoli ellenistica del Fondo Scataglini
Punto di sosta Contenitori di urne cinerarie (età del Ferro)
Ricostruzione fantastica ottocentesca della necropoli dei Monterozzi. In basso pianta dell’area del Calvario nella necropoli dei Monterozzi. Le tombe dipinte visitabili sono: Baccanti; Bartoccini; Caccia al Cervo; Caccia e Pesca; Padiglione di Caccia; Cardarelli; Caronti; Claudio Bettini; Demoni Azzurri; Due Tetti; Fiore di Loto; Fiorellini; Fustigazione; Giocolieri; Gorgoneion; Guerriero; Leonesse; Leopardi; Mauro Cristofani; Massimo Pallottino; Mario Moretti; Pulcella.
L’ARCHITETTURA DELLE TOMBE A CAMERA TARQUINIESI di Orlando Cerasuolo
L’
uso di deporre i defunti entro tombe a camera è documentato a Tarquinia a partire dagli inizi del VII e perdura fino almeno al III secolo a.C. Sin da subito sono presenti sia tombe di dimensioni limitate che tombe monumentali. Nelle prime gli ingressi sono brevi, le camere funerarie piccole, a pianta rettangolare, interamente scavate nella roccia, con le pareti di ingresso e di fondo verticali, mentre quelle laterali sono arcuate e aggettanti verso il centro, lasciando una fenditura longitudinale sulla sommità, che veniva chiusa da una serie di lastre. In genere, all’interno viene risparmiata nella roccia una sola banchina per la deposizione del defunto. Le tombe monumentali, che evidentemente appartenevano agli esponenti dell’aristocrazia, riproducevano lo stesso modello architettonico
Ricostruzione di una tomba a fenditura, detta «dei Versna». Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto la parete di fondo della Tomba dei Leopardi. 480-470 a.C. Le pitture mostrano una scena di banchetto funebre in onore del defunto e, sul frontone, i due leopardi che danno nome al sepolcro.
in scala molto maggiore, scavando parzialmente le tombe nella roccia e costruendo le pareti, sempre aggettanti, in blocchi di pietra. La precocità di queste opere architettoniche e la loro imponenza richiese l’uso di pilastri e travi litiche per sorreggere i soffitti. L’elemento piú qualificante di queste tombe monumentali è il largo vestibolo di ingresso, talvolta a gradini – per il quale sono stati evocati modelli ciprioti –, che probabilmente era praticabile anche dopo la chiusura della tomba, con evidente funzione scenica per gli spettatori delle cerimonie che avevano luogo davanti alla tomba e destinazione cultuale. Già agli inizi del VII secolo a.C. le tombe erano segnalate in superficie da tumuli, di cui quelli monumentali avevano tra i 20 e i 40 m di diametro (i piú antichi sono quelli di Poggio del Gallinaro e quelli di Poggio del Forno). Anche se oggi i tumuli delle necropoli di Tarquinia sono stati spianati dai lavori agricoli, lo stesso toponimo di «Monterozzi» tramanda la quantità di monumenti che caratterizzava il paesaggio fino a pochi secoli fa. Ancora all’inizio dell’Ottocento se ne contavano piú di 600.
Sul modello delle case Nell’ambito del primo quarto del VII secolo a.C. iniziano le realizzazioni di tombe interamente ipogee. Hanno pianta rettangolare, soffitti a botte o a doppio spiovente, che imitano l’aspetto di una casa e contengono una sola banchina. La piú importante e antica tomba di questo tipo è probabilmente quella detta di Bocchoris, sepolcro gentilizio ricco di oggetti di provenienza orientale ed egizia. Tumuli monumentali vengono costruiti ancora fino al 630 a.C. circa (come il Tumulo del Re, quello della Regina e quello Luzi-Infernaccio), ma le aristocrazie tarquiniesi iniziano a introdurre progressivamente la pittura come elemento distintivo delle loro sepolture. Le piú antiche attestazioni – che significativamente si datano al periodo in cui il corinzio Damarato, secondo la tradizione, sarebbe emigrato a
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Tarquinia con il suo seguito di artigiani e artisti (650 a.C. circa) – sono limitate a semplici decorazioni geometriche che evidenziano gli elementi architettonici della tomba, come nel caso della finta porta nella Tomba della
Capanna. La decorazione figurata diventerà predominante nelle tombe di alcuni decenni dopo: la piú antica è quella delle Pantere (600 a.C. circa), con soffitto a doppio spiovente. Progressivamente i sepolcri vengono realizzati
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BANCHINE
CAMERE SINGOLE SEMPLICI
NICCHIE/LOCULI
CAMERE MULTIPLE
675 a.C. 625 600
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
450
400
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per ospitare piú individui: sono presenti prima due banchine, poi tre e iniziano anche a comparire sui pavimenti delle tombe gli alloggiamenti per letti o sarcofagi lignei. Intorno alla metà del VI secolo a.C. vengono abbandonati i tipi architettonici piú antichi (tombe a fenditura, tombe con soffitti a botte o a doppio spiovente), mentre si afferma il tipo di camera con tetto a due spioventi e trave centrale piana. Allo stesso tempo, aumentano esponenzialmente le tombe dipinte, con scene di banchetto, giochi funebri, caccia, finte porte, ecc. Gli ipogei dipinti – che rappresentano circa il 2% delle tombe complessivamente note – sono nella quasi totalità dei casi monocamerali; gli unici elementi architettonici scolpiti, che si affiancano alle banchine di deposizione, sono la
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trave del tetto a rilievo (columen), il monaco, le travi di bordo della base del tetto e talvolta anche gli stipiti della porta di ingresso. Solo in pochi ma significativi casi, apparentemente concentrati nella seconda metà del VI secolo a.C., ci sono tombe con due camere in asse (tombe 939, Labrouste, del Mare, della Caccia e Pesca) o con una struttura planimetrica piú complessa (tombe dei Tori e Bartoccini).
Nuovi costumi funerari Dalla metà del V secolo a.C., mentre continua la presenza delle banchine, inizia a diffondersi l’uso di deporre i defunti in loculi scavati nelle pareti degli ipogei. Nel corso del IV secolo a.C. si assiste a un calo nel numero di tombe. Talvolta queste sono raggruppate e si aprono
A sinistra, in alto schema che mostra l’evoluzione delle planimetrie delle tombe di Tarquinia nel corso del tempo.
L’interno della Tomba dei Due Tetti, sul cui pilastro centrale è dipinta la figura del demone Charun. II sec. a.C.
su spiazzi incassati ricavati da precedenti attività di cava (Fondo Scataglini). Il numero delle pitture diminuisce e si comincia a decorare i soffitti a due spioventi con travature a rilievo, mentre intorno alla metà del secolo iniziano a diffondersi soffitti con cassettoni, false porte a rilievo e pilastri (da uno a quattro). In questo periodo avviene anche un passaggio significativo rispetto ai piani di deposizione, che ora sono stretti e continui, lungo tutte le pareti della camera funeraria. Su queste banchine spesso vengono disposti i sarcofagi litici con le caratteristiche rappresentazioni del defunto recumbente. In epoca ellenistica si datano anche alcuni sepolcri che presentano decorazioni figurate rese a bassorilievo (per esempio, le tombe
della Mercareccia, dell’Orco II e delle Sculture), oppure su lastre scolpite che dovevano trovare posto sulle pareti dei sepolcri o all’esterno. Allo stesso periodo risalgono le poche tombe a dado note a Tarquinia, che sono di dimensioni molto piú piccole di quelle presenti a Cerveteri e in altri siti dell’Etruria meridionale. Tra la fine del IV e il II secolo a.C., le tombe presentano alcune nuove caratteristiche: soffitti semplici, piani, senza piú riferimenti all’architettura domestica; banchine continue organizzate su piú ordini, in maniera da poter ospitare decine di deposizioni e sarcofagi; strutture per compiere riti in onore dei defunti, come l’altare ai piedi del pilastro centrale, dipinto con la figura del demone alato, nella Tomba del Tifone.
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IL «PROGETTO TOMBE DIPINTE»
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l «Progetto Tombe Dipinte», parte del piú ampio «Progetto Tarquinia» dell’Università degli Studi di Milano, si occupa dello studio di questi straordinari monumenti da piú di dieci anni. Nel corso del tempo ha portato alla raccolta completa di tutti gli ipogei ritrovati a Tarquinia, sin dal Rinascimento, editi in Grotte Cornetane (2016). Il corpus contiene tutte le informazioni archeologiche, bibliografiche, archivistiche, storiche, grafiche e fotografiche, nonché specifiche applicazioni multimediali e in realtà aumentata, per fruire al meglio degli ipogei attualmente conservati e di quelli non piú accessibili. L’insieme ammonta a piú di 500 tombe, che sono state indagate per la prima volta nelle specifiche pittoriche e architettoniche, sopra e sotto terra. Dal punto di vista dell’architettura, si tratta di una novità, perché gli ipogei tarquiniesi erano finora passati in secondo piano rispetto alla piú monumentale Cerveteri. Le sobrie tombe a camera singola di Tarquinia, infatti, finiscono per scomparire all’interno dei canoni
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sviluppati per descrivere la ricchezza di dettagli dei tumuli ceretani. Infatti, mentre le camere di questi ultimi riproducono con dovizia di particolari, fin dal principio, gli elaborati interni di abitazioni e dimore aristocratiche, a Tarquinia questo rapporto non risulterà mai cosí esplicito. Per quanto riguarda la pittura, le tombe sono state analizzate in maniera sistematica, anche nel caso di monumenti che presentavano solamente una semplicissima decorazione lineare o una essenziale decorazione geometrica. La ricerca, con il volume Spazi Sepolti e Dimensioni Dipinte nelle tombe etrusche di Tarquinia (2017), si è potuta cosí concentrare su questa città, indagando le ragioni, gli scopi, la valenza sociale e il ruolo dei monumenti nel centro che piú di ogni altro si distinse per il fenomeno della pittura parietale. L’analisi della decorazione lineare ha dimostrato come le strutture che ne emergono non diano quasi mai luogo a soluzioni architettoniche che potrebbero esistere nella realtà.
Ciò dimostra la profonda differenza nelle concezioni funebri delle due città etrusche: da un lato, a Cerveteri, la volontà di immaginare il defunto nella propria casa, divenuta eterna; dall’altro, a Tarquinia, la creazione di uno specifico spazio ideale, impostato su due criteri strettamente interconnessi. Il primo è la traiettoria orizzontale secondo cui si immaginava procedesse il defunto, passando dalla vita al definitivo raggiungimento dell’aldilà. In tutte le tombe il viaggio narrato procede sempre dalla porta di ingresso sino alla parete di fondo, dove trovano posto temi legati al raggiungimento del regno dei Beati, come la porta dell’Ade o l’eterno banchetto. Il secondo principio è la traiettoria verticale che permette di considerare il monumento come tramite per raggiungere il superno. Anche in questo caso le pitture mostrano in basso sempre i temi legati al mondo ctonio-infero, come le onde del mare; al centro scene di vita sensibile e in alto, sui frontoni, i confini del mondo conosciuto, come nel caso di pantere e
leoni, o il sereno raggiungimento del banchetto dell’aldilà. Queste attestazioni esprimono i principi costitutivi del sacro secondo la religione etrusca e avvicinano le camere funerarie tarquiniesi ai templi e ai luoghi in cui, sulla terra, l’uomo poteva entrare in contatto con il divino. Per questo è lecito intravedere in ogni ipogeo, indipendentemente dalla ricca decorazione pittorica, un luogo consacrato dove il mondo sotterraneo, terrestre e celeste entravano in comunicazione, per offrire alle anime dei defunti un sereno passaggio verso l’aldilà. Matilde Marzullo La parete di fondo della Tomba dei Giocolieri. Seconda metà del VI sec. a.C. La scena, da cui il sepolcro prende nome, mostra, al centro, una giovane che tiene in equilibrio sulla testa una sorta di candelabro, verso il quale un ragazzo lancia alcuni dischi, per inanellarli; la prova di destrezza si svolge al cospetto di un uomo seduto su uno sgabello, forse identificabile con il defunto.
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LA PITTURA FUNERARIA TARQUINIESE: CRONOLOGIA E STILE di Maria Taloni
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eraviglia è la sensazione che si prova alla vista delle tombe dipinte della necropoli dei Monterozzi di Tarquinia; la stessa che nell’antichità doveva suscitare la pittura che, tra tutte le arti, era la prima per importanza e fama nella sua duplice veste di mimesis della realtà e di stimolo per la fantasia. Tuttavia, a fronte di tale fama, ricordata anche dalle fonti antiche – come Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia –, molto poco si è
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conservato. Tanto piú importanti, quindi, per la storia dell’arte antica e per la comprensione delle società e della cultura di cui sono espressione, sono le testimonianze di matrice etrusca, che ne costituiscono il complesso documentale piú eloquente, sia dal punto di vista quantitativo, sia qualitativo. A Tarquinia il fenomeno assume un’importanza eccezionale sia nello spazio, sia nel tempo ed è attestato non solo nella necropoli dei
La Tomba dei Tori. 540-530 a.C. Nella fascia sovrastante le porte, si vedono, accanto a due gruppi erotici, i bovini che danno nome al monumento; fra i due ingressi è raffigurato l’agguato di Achille a Troilo.
Monterozzi, ma anche in altri sepolcreti, dal VII al II secolo a.C., senza soluzione di continuità per tutta la durata della vita dell’antica città. Tuttavia, le tombe dipinte costituiscono una minima parte dei sepolcri cittadini, in quanto espressione della classe aristocratica, la sola in condizioni di potersi permettere il lusso di decorare le proprie dimore per l’aldilà.
Arte e ideologia La pittura funeraria etrusca non rappresenta, però, solo un lusso e non ha soltanto una funzione decorativa, ma affonda le radici in ragioni ideali legate alla profonda convinzione della sopravvivenza dell’anima nella tomba. In essa l’aspetto artistico si fonde con il carattere rituale e magico-religioso, che ricrea intorno alle spoglie del defunto quell’ambiente domestico e consueto della vita vissuta e affida alle immagini e ai colori la sopravvivenza dell’anima oltre la morte. La grande pittura funeraria, in cui l’evoluzione
stilistica segue quella architettonica, si affaccia a Tarquinia alla fine del VII secolo a.C. con la Tomba delle Pantere, che rappresenta l’eredità di quel periodo prezioso per la cultura e la società etrusca che è l’Orientalizzante: qui la decorazione è limitata alla parete d’ingresso e alla parete di fondo con felini, resi in outline, seduti e affrontati in schema araldico, che ancora risentono dell’esperienza ceretana e trovano confronti nella coeva decorazione ceramica white-on-red (vedi foto in basso). Con l’età arcaica il panorama cambia del tutto ed è caratterizzato ormai da ipogei intonacati in cui è rappresentata nella parete di fondo una finta porta in colore nero e in cui la pittura sottolinea a volte anche le altre partiture architettoniche (Tomba della Capanna). Dopo la metà del VI secolo a.C. la decorazione figurata è estesa a tutte le pareti e l’attenzione è rivolta all’importanza dei rituali che aiutano il defunto nel distacco dalla vita terrena: segnano il punto di svolta le tombe dei Tori e Bartoccini,
A destra uno dei frontoni della Tomba delle Pantere, con i due animali eponimi che poggiano le zampe anteriori su una protome di felino. Fine del VII sec. a.C.
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
nelle quali, grazie anche all’architettura piú complessa, la decorazione pittorica travalica i limiti fisici dei frontoni per arrivare alle pareti e quelli concettuali del decorativismo di matrice tardo-orientalizzante con nuovi soggetti: la piú antica rappresentazione di carattere mitologico, l’agguato di Achille a Troilo (vedi foto a p. 90), e del simposio nella pittura tarquiniese. L’akmè arriva negli ultimi decenni del secolo, che ne decretano la codificazione sia tematica, sia nel rapporto con lo spazio della tomba, ormai del tutto occupata da immagini tratte dalla vita reale con scene di giochi, gare, banchetti e all’aria aperta. Le tombe delle Leonesse (vedi foto in alto), degli Auguri (vedi foto a p. 94, in alto), dei Giocolieri (vedi foto alle pp. 88/89), delle Olimpiadi, della Fustigazione e delle Iscrizioni riecheggiano la temperie stilistica greco-orientale dovuta alla presenza a Tarquinia di artisti immigrati dalla Ionia asiatica, ben attestati anche dai contemporanei rinvenimenti nel porto di Gravisca; una comune matrice che ritroviamo
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dall’altro lato del Mediterraneo nelle coeve esperienze pittoriche di Elmali in Turchia: intensità cromatica, sicurezza del tratto piú o meno spesso che si adegua al soggetto rappresentato, gusto narrativo. Nella Tomba della Caccia e della Pesca (vedi foto qui accanto e a p. 94, in basso), summa degli ideali di vita aristocratica e della concezione dell’aldilà, l’architettura è ormai superata dalla stessa pittura in una sensazione di totale immersione negli ambienti rappresentati, quello marino e quello terrestre. L’attenzione per i particolari e per il paesaggio sono state attribuite alla matrice culturale samia, con caratteristiche che si ritrovano anche nella coeva produzione dei «Piccoli Maestri». Analoga capacità illusionistica presenta la Tomba del Cacciatore (o del Padiglione di Caccia), metafora della tenda che veniva montata per la prothesis (esposizione) del defunto. Complesse teorie escatologiche legate al culto dei Dioscuri emergono, invece, nella Tomba del Barone inserite in una cornice figurativa semplice, con poche immagini
Nella pagina accanto la parete di fondo della Tomba delle Leonesse. 520 a.C. Sotto la coppia dei felini eponimi, due musici ai lati di un grande cratere, un danzatrice e una coppia di danzatori. In basso particolare delle pitture della Tomba della Caccia e della Pesca, raffigurante un uomo che si tuffa. Fine del VI sec. a.C:
alternate a lunghi alberelli stilizzati che già prefigurano una nuova composizione artistica ispirata alla tradizione attica. Tale schema anticipa in parte quello tipico delle tombe di V secolo a.C.: scena di simposio sul fondo e danzatori e musici sulle pareti laterali alternati da alberelli, come nelle tombe delle Bighe, del Triclinio, della Scrofa Nera, dei Leopardi (vedi foto alle pp. 84/85); in quest’ultima è evidente la resa plastica delle figure, mentre nella Tomba della Nave compaiono tentativi prospettici.
Quei mostruosi esseri dalla pelle blu La crisi economico-sociale che nel V secolo a.C. investe l’Etruria ha i suoi effetti anche a Tarquinia: diminuiscono le tombe dipinte e la qualità stilistica. Le scene di banchetto sono ora quasi esclusive e appaiono i primi segni di una nuova concezione della morte, di tipo ellenizzante, con richiami a un aldilà popolato di
demoni mostruosi e di personaggi della mitologia greca. L’esempio piú importante è la Tomba dei Demoni Azzurri (fine del V secolo a.C.), che propone la prima raffigurazione esplicita dell’oltretomba, rappresentato secondo il pensiero greco, a conferma della condivisione di dottrine escatologiche ben piú complesse, ma anche della conoscenza di un famoso dipinto di Polignoto a Delfi che, secondo le fonti, rappresentava l’Ade con demoni dalla carnagione brunastra e dalle lunghe zanne. La somiglianza dell’ipogeo tarquiniese è evidente nella parete destra: due defunti sono accolti nell’Ade da un’antenata in un paesaggio roccioso in cui compaiono Caronte e quattro demoni, due con la carnagione azzurra (vedi foto a p. 95, in alto) e due nerastra, tutti con il volto deforme. La volontà di superare questa crisi da parte delle società urbane dell’Etruria meridionale si ritrova a Tarquinia nei grandi ipogei familiari
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che si diffondono a partire dall’inizio del IV secolo a.C. in un contesto storico-politico, però, del tutto mutato. Si mantiene l’uso delle camere decorate, come nelle tombe dell’Orco I e II o nella Tomba degli Scudi; tuttavia, la celebrazione delle famiglie si svolge negli Inferi alla presenza dei demoni della morte e anche il tema del banchetto nell’aldilà si spiega alla luce delle dottrine escatologiche di intonazione neo-pitagorica. Allo stesso tempo la tecnica pittorica si adegua alle tematiche rappresentate con il ricorso all’ombra a tratteggio o a vernice diluita, alla linea di contorno piú o meno spessa, alle macchie di colore che creano intensi effetti di luce. Dalla fine del IV secolo a.C. si attestano ormai anche tombe di modesta qualità o parzialmente decorate, in cui si celebrano le virtú individuali del defunto, ricordato come uomo pubblico (Tomba Giglioli) e si mantiene la tecnica a grosse pennellate dense di colore (Tomba dei Caronti), nonché quella del chiaroscuro per suggerire una profondità prospettica (Tomba del Tifone). L’elemento naturale è limitato al riempimento decorativo o alla sottolineatura
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delle partiture architettoniche e si riscontrano interventi di ampliamento dell’ipogeo e di ridecorazione (Tomba del Cardinale). Nel II secolo a.C. la drastica diminuzione del numero delle tombe dipinte e lo stile sommario e corsivo delle ultime manifestazioni di questa grande stagione artistica sanciscono l’entrata nell’orbita politica romana: un mondo di valori culturali, civili e religiosi del tutto nuovi.
Particolare delle pitture della Tomba degli Auguri raffigurante uno dei personaggi interpretati come indovini, donde il nome del sepolcro. 530-520 a.C. In basso la parete di fondo della Tomba della Caccia e della Pesca con le scene da cui il monumento prende nome. Fine del VI sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto uno dei personaggi che hanno dato nome alla Tomba dei Demoni Azzurri. Fine del V sec. a.C. Si tratta appunto di un essere mostruoso, dall’incarnato azzurro, intorno alle cui braccia sono avvinghiati due serpenti barbati. Nella pagina accanto, in basso la Tomba del Cacciatore (o del Padiglione di Caccia), nella quale è stata appunto dipinta una tenda del tipo di quelle montate per l’attività venatoria, provata dalla selvaggina appesa lungo il perimetro della struttura, ma che qui va intesa anche come metafora del padiglione che si allestiva per l’esposizione del defunto. Fine del VI sec. a.C.
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LA TECNICA PITTORICA di Maria Cristina Tomassetti
L
a pittura murale etrusca conservata nelle tombe tarquiniesi è stata considerata una preziosa e vasta pinacoteca sotterranea, nella quale, in pochi chilometri quadrati, è possibile apprezzare e studiare i mutamenti dello stile e della tecnica pittorica per un arco cronologico di circa cinque secoli come fossimo in un museo e ancora meglio, perché in questo caso i dipinti sono rimasti inscindibilmente uniti all’architettura con la quale sono stati concepiti. Un luogo geograficamente limitato, dunque, che rende però possibile indagare diacronicamente la lunga evoluzione dei temi raffigurati, dell’iconografia e dello stile e, insieme a questi, della tecnica esecutiva. Soltanto negli ultimi anni, grazie all’impegno di alcuni studiosi e ai nuovi metodi di indagine diagnostica, è stata compresa in maniera piú precisa la natura dei materiali e delle metodologie impiegate per realizzare le immagini giunte fino ai nostri giorni. Sono dati che ampliano di molto le nostre conoscenze
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sulla società che li ha prodotti, raccontandoci in maniera indiretta di conquiste, contatti, commerci, crisi e riprese. Tutto questo a colori. Colori che hanno un significato. Iniziamo dalle prime fasi. Gli ipogei di Tarquinia, datati dall’inizio del VII alla fine del III secolo a.C., sono scavati in substrati rocciosi particolarmente teneri e facilmente lavorabili, in genere nella formazione di calcarenite giallastra chiamata macco e, soltanto in pochi casi, in uno strato di arenaria gialla denominata sabbione. Solo in alcune tombe piú antiche il colore è steso direttamente sulla roccia ben levigata, come avviene nella Tomba delle Pantere (VII secolo a.C.), ma normalmente è applicato su di uno strato preparatorio, che aveva sia una funzione tecnica, legata all’agevole stesura e recezione dei pigmenti, sia estetica, quale tono di fondo delle pitture.
Nella pagina accanto l’atrio della Tomba Bartoccini. Nel soffitto il colore della preparazione di fondo è di un grigio piuttosto scuro, costituito da un’argilla illitica, che intensifica il tono dei colori su di esso applicati.
Pitture a secco e a fresco Sebbene generalmente e per lungo tempo i dipinti tarquiniesi siano stati considerati affreschi (eseguiti cioè tramite l’applicazione dei pigmenti stemperati in acqua su un intonaco di calce ancora bagnato), probabilmente in virtú del loro stato di conservazione, fino al periodo tardo-classico bisogna parlare di pittura a secco. Nelle tombe dell’epoca orientalizzante e arcaica troviamo sottili strati di colore chiaro composti da calcari fossiliferi macinati, talvolta arricchiti di caolinite bianca o di argille illitiche grigie, in quest’ultimo caso per aumentare la brillantezza dei colori su di esse applicati. Si tratta di materiali dalle proprietà agglutinanti, che hanno la capacità di fissare il colore anche senza l’aggiunta di un legante. I primi intonaci a base di calce e polvere di macco appaiono intorno alla metà del V secolo a.C., ma siamo ancora innanzi a una pittura a secco eseguita sulla malta quasi o del tutto asciutta, per cui solo in pochi casi fortuiti è avvenuto un processo di carbonatazione che ha fissato i pigmenti. Le argille scompaiono definitivamente verso la metà del IV secolo a.C., quando viene
A sinistra una delle danzatrici raffigurate nella parete di fondo della Tomba delle Leonesse. Dapprima eseguito in colore rosso, il disegno è stato ripassato in nero al termine dell’esecuzione della pittura.
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introdotto lo strato tecnico bianco a base di calce e, in seguito, la pittura ad affresco vera e propria, anche con molteplici strati preparatori contenenti aggregati di diversa natura, come nella Tomba dell’Orco. Il disegno è inciso nella malta o tracciato a pennello: in entrambi i casi le figure possono essere eseguite sia a mano libera, probabilmente secondo un disegno di riferimento, sia seguendo il contorno di una sagoma in materiale rigido. Tanto le incisioni che il disegno a mano libera venivano ripassati a pennello, in genere con un primo tracciato in rosso, ribadito in fase finale da linee nere. L’uso delle sagome è ben documentato già dal VII secolo a.C. e continua a essere impiegato non solo per le figurazioni geometriche o naturalistiche di dimensioni minori ma anche per figure intere o gruppi di figure.
Un’attenta progettazione È recente la scoperta che tali sagome potevano essere utilizzate anche per sezioni, ovvero assemblando sulla parete le singole parti del corpo, ruotandole o ribaltandole per creare posizioni e atteggiamenti diversi. Le stesse
sagome erano usate per corpi maschili o femminili, modificandone i contorni in fase pittorica. Lo studio della Tomba degli Scudi ha rivelato l’attenta progettazione della decorazione pittorica, che ha previsto l’uso delle medesime sagome, ingrandite o ridotte, a seconda dell’importanza dei personaggi raffigurati, creando cosí una gerarchia tra di essi e datando questa metodologia almeno dieci secoli prima rispetto a quanto si era finora pensato. I pigmenti sono per lo piú di origine naturale, ma a questi se ne aggiungono presto alcuni di
Tomba degli Scudi. Elaborazione grafica della costruzione delle figure: sono riportate le sagome usate per comporre i corpi dei personaggi e le percentuali di ingrandimento e riduzione.
I PROBLEMI DELLA CONSERVAZIONE
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a difficoltà di conservare i fragili dipinti negli ipogei fu evidente fin dalla loro scoperta. Diverse furono le soluzioni e i tentativi messi in atto per cercare di salvare quelle superfici che si deterioravano man mano che il tempo passava, a volte in maniera piú repentina, altre volte con sviluppi meno rilevabili nell’immediato. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso si arrivò anche alla rimozione delle pitture in sette delle piú belle tombe di Tarquinia quale ultimo baluardo alla loro conservazione: tramite la tecnica dello strappo, i dipinti rimossi vennero rimontati su nuovi supporti e musealizzati. Le variazioni di temperatura e di umidità sono estremamente pericolose, in quanto possono causare l’asciugamento delle superfici e la mobilità dei flussi
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di quell’acqua sempre presente all’interno del substrato roccioso. Oltre alla cristallizzazione dei sali solubili, che crea sollevamenti e polverizzazione della pellicola pittorica, l’immissione di aria dall’esterno e la presenza dei visitatori può introdurre spore, funghi e batteri che, diversi dai microrganismi che normalmente colonizzano l’ambiente, potrebbero alterare l’equilibrio di questi ultimi. Compreso finalmente come soltanto la chiusura degli ipogei potesse garantirne la salvaguardia, dal 1989 si cominciò a operare in tal senso, trovando l’unica soluzione possibile per continuare a garantire la fruizione delle tombe: sigillare gli ambienti con diaframmi trasparenti. Le porte a taglio termico poste all’ingresso delle tombe, al termine del dromos di accesso, determinano
Tomba dei Leopardi, parete di fondo. La luce radente rende visibili le incisioni, tracciate seguendo una sagoma, per la costruzione delle teste dei personaggi raffigurati. In basso una delle tombe dotate delle porte che isolano la camera dipinta.
origine artificiale. Nelle tombe del periodo orientalizzante troviamo ancora pochi colori: ocre rosse e gialle e nero di natura vegetale. Ma già muovendo verso il periodo arcaico, dalla metà del VI secolo a.C., appaiono i colori piú accesi: spicca su tutti la fritta egizia, quell’azzurro intenso acquistato dagli abitanti dell’altra sponda del Mediterraneo in grado di cuocere i materiali quarzosi ad alte temperature e detentori del segreto della colorazione del vetro con il rame. In Egitto era molto usata anche la fritta verde, ma,
evidentemente, gli Etruschi preferivano la tonalità della malachite, anch’essa importata. Accanto all’ematite, il rosso piú comunemente utilizzato, in alcuni dettagli è stato riscontrato l’uso del cinabro per sottolineare l’importanza del committente, come nella Tomba delle Leonesse o in quella del Barone, dove è impiegato, in entrambi i casi, per le calzature. Sono questi gli esempi piú antichi del suo utilizzo nella pittura etrusca. Nella Tomba dell’Orco II viene mescolato all’ematite per esaltare gli incarnati degli eroi maschili. Un antico e preziosissimo colorante di origine fenicia, la porpora, ottenuta da un lungo processo di lavorazione delle sostanze contenute in alcuni molluschi, è stato riscontrato, mescolato all’ocra rossa, nelle vesti dei coniugi nel frontone della Tomba della Caccia e della Pesca e, piú tardi, nella Tomba dei Rilievi di Cerveteri, ancora una volta in prossimità della kline che ospitava i coniugi Matuna. La stessa porpora che tingeva i bordi delle toghe dei magistrati supremi era dunque raramente usata, non tanto per esaltare il colore quanto l’importanza dei personaggi attraverso il suo alto valore simbolico.
un buon isolamento delle camere sepolcrali. Esse sono dotate di speciali vetri che, grazie a una resistenza che li mantiene leggermente riscaldati con funzione anti-appannamento, permettono la fruizione degli ipogei. La visita effettuata con questa modalità consente un apprezzamento dei dipinti e degli spazi ben diversa rispetto all’entrare e all’osservare da vicino i dettagli, ma è un compromesso indispensabile alla loro protezione. Si tratta, a tutti gli effetti, dell’unica forma di conservazione preventiva, che limita l’accesso ai soli operatori per le azioni strettamente necessarie alla manutenzione e al restauro. La loro permanenza, con tute isolanti e copriscarpe, è comunque limitata a poche unità e per un tempo ridotto al minimo indispensabile. Maria Cristina Tomassetti
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GIOCHI, DANZE E BANCHETTI: I TEMI ICONOGRAFICI DELLE TOMBE ARCAICHE di Chiara Pizzirani
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iochi, danze e banchetti rivivono sulle pareti dipinte delle piú insigni tombe tarquiniesi di età arcaica, cerimonie antiche che conservano inalterato il loro fascino attraverso i secoli. Figure di danzatori, di atleti e di banchettanti, uomini e donne, popolano l’interno degli ipogei della necropoli dei Monterozzi, in una varietà di combinazioni e di intrecci che rendono ogni tomba differente dall’altra, unica nel suo genere. Eppure, concepite nel loro complesso le tombe appaiono assolutamente coerenti tra di loro,
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segno che la mano degli artisti, talvolta grecoorientali, è condizionata in maniera determinante da una committenza per la quale la percezione simbolica della tomba – immaginata come uno spazio al confine tra la vita e la morte – e la valenza semantica dei temi rappresentano valori ideologici imprescindibili e prettamente etruschi. Se la pittura etrusca nasce innanzitutto per enfatizzare gli elementi architettonici della struttura tombale e di qui si genera l’iconica immagine della porta chiusa – che evoca il
La parete di fondo della Tomba degli Auguri, con i personaggi eponimi che, ai lati di una porta, alzano le braccia in un gesto di saluto. 530-520 a.C.
A destra, in basso Tomba della Caccia e della Pesca. Fine del VI sec. a.C. Particolare del frontone della parete di fondo della seconda camera raffigurante una coppia di banchettanti.
limen Averni (la soglia degli Inferi) o la rappresentazione del morto ex absentia –, il banchetto è la piú antica iconografia a essere rappresentata immediatamente dopo questa, cosí significativa. Anche per la raffigurazione del banchetto non si può dunque ipotizzare un significato meno rilevante per l’ideologia funeraria dell’epoca, che gli studiosi hanno messo in luce a piú riprese enfatizzando aspetti differenti di questa cerimonia che attraversa l’intera storia degli Etruschi, condizionandone la cerimonialità pubblica, religiosa e funeraria.
eccezionalmente a due camere assiali, e ancora le tombe del Frontoncino, delle Coroncine o del Topolino.
Tra il 530 e il 500 a.C. il banchetto entra nell’immaginario delle tombe dipinte e si colloca nello spazio frontonale della parete di fondo, percepito dagli Etruschi come sacralizzato. Questo avviene in particolare in alcune tombe eccezionali: la Tomba Bartoccini, la piú grande della necropoli e la piú antica con questa iconografia, la Tomba della Caccia e della Pesca (vedi foto in questa pagina),
valorizzando la complementarità dei sessi, con lo spazio femminile a sinistra e lo spazio maschile a destra. Rispetto alle scene di banchetto raffigurate nei frontoni delle pareti di fondo delle tombe fa eccezione in questo quadro la straordinaria Tomba delle Leonesse. In essa lo spazio riservato al banchetto si espande alle pareti laterali e, al contempo, la porta chiusa – qui probabilmente reale, stando
Un’esclusiva degli sposi Con una significativa variazione iconografica e iconologica rispetto al mondo greco, il banchetto etrusco diviene appannaggio della coppia maritale che rappresenta il fulcro della vita e della legittimità della famiglia. Addirittura, nella Tomba della Caccia e della Pesca, l’intero spazio frontonale è scandito
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
alla sagoma ritagliata nella parete e funzionale a chiudere il vero cinerario del defunto – si staglia nella porzione inferiore delle pitture, nello zoccolo caratterizzato dalla rappresentazione del mare (vedi foto a p. 92).
Rilettura dei modelli stranieri Immagini di giochi in onore del defunto e di danze arricchiscono ben presto il panorama figurativo dipinto delle necropoli arcaiche di Tarquinia. Sono temi presenti anche nella pittura greco-orientale, che però in Etruria acquisiscono immediatamente una originalissima autonomia. Danze e giochi si dipanano lungo le pareti laterali delle tombe dipinte in concomitanza con la porta chiusa, che allude al defunto, oppure, nelle tombe del Morto e del Morente, con la vera e propria rappresentazione del corpo al momento della sua esposizione e con i
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conseguenti riti di commiato e di compianto. Le scene di giochi in onore del defunto sono riservate a pochissime sepolture, spesso vicine tra loro e probabilmente appartenenti a membri eminenti della comunità. Richiamando un confronto geograficamente lontano, ma che gli studi hanno rivelato essere ideologicamente coerente con la pittura funeraria tarquiniese, il corpus delle stele felsinee di Bologna sembra confermare che solo pochissimi individui potevano godere del privilegio di vedere evocati giochi funebri pubblici nell’apparato iconografico che accompagnava le loro sepolture. Al contrario, le danze sono molto piú spesso attestate nella pittura dipinta di età arcaica. Che siano da intendersi come derivazione del kòmos (un momento del banchetto greco), come richiamo al mondo di Dioniso e alla sua
Tomba Cardarelli. Particolare della decorazione della parete sinistra della camera tombale. Nella pagina accanto Tomba dei Baccanti. Particolare della scena di danza che decora la parete di fondo della camera.
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Nella pagina accanto una delle scene erotiche rappresentate nella Tomba dei Tori. In basso particolare delle pitture della parete di fondo della Tomba della Scrofa Nera.
liminalità ed edoné (joie de vivre, potremmo dire), come esorcizzazione e superamento della morte o ancora come componente delle cerimonie funebri, forse senza reciproca esclusione tra questi significati, di certo esse caratterizzano le pareti della tomba, offrendo esempi di straordinaria qualità artistica insieme alla possibilità di ricostruire in maniera piú fedele i valori ideologici della ritualità funeraria tarquiniese di età arcaica. Anche le danze, come i giochi, si collocano al livello spaziale del richiamo evocativo del morto (attraverso la sua immagine, la porta chiusa o l’immagine del cratere). Entrambi, danze e giochi, non si trovano mai in precisa concomitanza spaziale con il banchetto.
Una nuova percezione del banchetto Il momento di passaggio tra il VI e il V secolo a.C. rappresenta un vero punto di svolta nella decorazione pittorica delle tombe tarquiniesi, che si fissa in una combinazione di spazi e temi che diverrà d’ora in poi canonica. A questa cronologia si datano, per esempio, le tombe dei Vasi Dipinti e del Vecchio, vicine tra loro, la Tomba dei Fiorellini e ancora la piú incerta Tomba 1999, forse con rappresentazione di Dioniso e Arianna a banchetto. Da questo momento la raffigurazione del banchetto di coppia campeggia sulla parete di fondo, mentre sulle pareti laterali si aprono le danze, a cui partecipano satiri nella Tomba 1999. La cesura segna probabilmente una differente percezione del significato dell’immagine del banchetto o ancor piú una mutata concezione dello spazio tombale, ora percepito come piú strettamente connesso all’aldilà. Soltanto attorno alla metà del V secolo a.C., con le tombe della Nave e dei Demoni Azzurri, vedremo che il banchetto è ormai senza piú dubbi la meta del viaggio del defunto verso l’aldilà.
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DALLA VITA ALLA MORTE
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e rappresentazioni pittoriche tarquiniesi non sono legate esclusivamente alle credenze escatologiche degli Etruschi, ma sono anche uno specchio fedele della vita quotidiana nei suoi aspetti piú vari, a cominciare da quelli piú legati alla vita aristocratica. Ciò vale soprattutto per l’età arcaica, quando i temi iconografici selezionati nelle tombe per accompagnare i defunti nell’aldilà sono quelli che piú richiamano lo stile di vita della classe dirigente contemporanea, ovvero i conviti, gli spettacoli, l’attività venatoria. In tali rappresentazioni, quello che si nota sempre è un fresco e sorprendente realismo, che pervade tutti gli elementi delle composizioni pittoriche, sia che si tratti di elementi di contesto (ambiente fisico, oggetti reali), che di elementi psicologici di tipo «situazionale» e «relazionale» (atteggiamenti di intimità coniugale, estasi di danzatori impegnati in danze di tipo orgiastico e cosí via). Se si considera però che tutti questi temi iconografici e i relativi messaggi sono dispiegati in uno «spazio di senso» e in un luogo della comunicazione del tutto particolare come è la tomba – il luogo della «non
vita» per definizione –, allora non tutto quello che vediamo rappresentato sulle pareti delle tombe di Tarquinia risulta immediatamente comprensibile. Al contrario, alcune rappresentazioni pittoriche arcaiche, calate come sono nel contesto funerario, risultano a prima vista a dir poco stranianti, se non del tutto estranee alla sensibilità moderna. È questo il caso delle scene erotiche (Tomba dei Tori; vedi foto in alto), delle scene di spargimento di sangue (gioco del Phersu), delle scene di fustigazione (Tomba della Fustigazione), delle scene con personaggi che defecano (Tomba dei Giocolieri), delle scene con personaggi che hanno organi genitali fortemente evidenziati (Tomba della Scrofa Nera) e cosí via… Come interpretare tutte queste scene che a noi moderni sembrano mal conciliarsi con il contesto tombale e che, soprattutto, nello spazio chiuso della tomba, una volta effettuata la tumulazione del defunto, erano precluse allo sguardo dei superstiti? È lecito parlare in questi casi di crudo realismo e archiviare queste scene come semplici esempi di «vitalismo apotropaico» contrapposto alla feroce alterità della morte? In quale ottica bisogna considerare queste scene, realistica o simbolica, tenendo conto del fatto che, in fondo, ci troviamo pur sempre in una tomba!? Se fino a poco tempo fa al cospetto di queste rappresentazioni enigmatiche e apparentemente oscene prevaleva negli interpreti un atteggiamento imbarazzato e rinunciatario, che produceva, sul piano scientifico, forme di autocensura, si sta facendo adesso strada nella critica un maggior sforzo di comprensione, alla luce delle recenti acquisizioni dell’antropologia culturale
e dell’ermeneutica archeologica. L’antropologia culturale, in particolare, ci mette in guardia dal valutare queste rappresentazioni dal punto di vista «etico», suggerendo come chiave di lettura quella «emica», ovvero quella in grado di recuperare il punto di vista interno della comunità antica che produsse il programma figurativo. Detto con le parole di David H. Lawrence, il nostro sforzo di interpreti dovrebbe essere quello di afferrare l’arcaica pienezza di significato di queste pitture tombali. Il progresso costante degli studi, a questo proposito, ha svelato il carattere liminare della tomba etrusca, che non deve essere concepita come dimora eterna del defunto, approdo definitivo del suo viaggio verso l’aldilà, bensí come luogo di passaggio e della memoria. Un’altra acquisizione recente degli studi archeologici è la presenza nell’immaginario visivo delle tombe dipinte tarquiniesi di una potente componente orfico-dionisiaca, in alcuni casi trasparente, in altri meno, in grado di ricondurre a unità scene apparentemente dissociate. Alla luce di queste acquisizioni, l’apparente anomalia si spiega, almeno in parte: nello spazio dipinto della tomba, le immagini hanno lo scopo di ricreare attorno alla persona del defunto non ancora transitato nell’aldilà, che ha dunque lo status di morto «vivente», il suo mondo di affetti, ricordi e di aspettative. È in questo modo che gli Etruschi di Tarquinia hanno affrontato il mistero del viaggio estremo, quello che tutti, prima o poi, compiono per uscire dalla vita ed entrare nella morte. Vincenzo Bellelli
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IL PAESAGGIO SONORO DEGLI ETRUSCHI di Emiliano Li Castro
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a sorprendente quantità di testimonianze riguardanti la musica nella cultura degli Etruschi dimostra in modo inequivocabile la straordinaria ricchezza del loro «paesaggio sonoro». Molte fonti greche e latine evidenziano l’intensa relazione esistente tra gli Etruschi e il mondo degli oggetti sonori, specialmente quelli appartenenti alla famiglia degli strumenti a fiato. Di questi, il piú comune in Etruria era il doppio aerofono ad ancia conosciuto in greco come aulós e in latino come tibia. Aristotele si dimostrava sorpreso nello scoprire che gli Etruschi praticavano il pugilato, frustavano i loro servi, preparavano i cibi e impastavano il pane
accompagnati dal suono dell’aulós, informazione ribadita anche da Plutarco e da Alcimo Siculo. Eliano sosteneva che in Etruria i cinghiali e i cervi fossero catturati non soltanto con le reti e con i cani, ma anche e soprattutto con l’aiuto di questo strumento, e Ateneo si era soffermato sulla consuetudine di deridere l’ateniese Polistrato, allievo di Teofrasto, apostrofandolo «l’Etrusco», per via della sua eccessiva passione per l’aulós. Un altro gruppo di strumenti a fiato molto presente nelle antiche fonti letterarie comprende le trombe di ogni tipo, da quelle ottenute da una conchiglia a quelle di bronzo. La lunga tromba «tirrenica» di bronzo, citata
A sinistra particolare delle pitture della parete sinistra della Tomba del Gallo. Da sinistra, un uomo impegnato nel gioco del Phersu, una danzatrice che balla accompagnandosi con le nacchere (krotala) e un suonatore di aulós.
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Suonatori di aulós e di lyra raffigurati sulla parete destra della Tomba dei Leopardi.
anche nelle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, era utilizzata dagli Etruschi in varie circostanze ed è presentata da tutti gli autori classici come una loro invenzione.
Le tre trombe degli Etruschi I Romani utilizzavano tre termini diversi per definire le trombe etrusche in base alle differenti forme: tuba, lituus e cornu. La prima è diritta, mentre le altre due sono ricurve; la curvatura può riguardare solo il tratto finale del padiglione, come nel caso del lituus, oppure l’intero canneggio, come nel cornu, arrivando cosí ad assumere un profilo circolare e ad avere un supporto trasversale sul diametro.
Il legame privilegiato con la musica e la preminenza degli strumenti a fiato, che gli autori greci e latini attestano, trovano ampia conferma nell’analisi del repertorio iconografico della civiltà etrusca. Le immagini che illustrano questi aspetti peculiari della cultura etrusca hanno molteplici provenienze: vasi dipinti, incisioni su situle, ciste, specchi e lamine, statuette, rilievi su sarcofagi, cippi, stele e urne funerarie, lastre decorative di terracotta e altro ancora, ma è soprattutto nelle pitture parietali delle tombe etrusche che i soggetti a carattere musicale assumono un ruolo da protagonisti. Musicisti e danzatori sono ritratti con sorprendente frequenza nelle tombe dipinte
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con soggetti figurati. Di queste, la maggior parte si trova a Tarquinia, dove una rilevazione ha consentito di individuare le raffigurazioni di almeno 129 strumenti musicali in 52 tombe. L’aulós si conferma lo strumento di gran lunga piú diffuso, con 67 diverse rappresentazioni. Benché siano soggetti meno frequenti, i vari tipi di trombe sono comunque presenti almeno 18 volte nelle tombe tarquiniesi, con un’evidente funzione cerimoniale, in particolare nelle scene di cortei funebri di illustri personaggi, a indicarne l’alto rango aristocratico. Inoltre, per chiudere con gli strumenti a fiato, nella Tomba dei Giocolieri appare per la prima volta la sýrinx, il cosiddetto flauto di Pan.
Un’accoppiata ricorrente Per quanto questi strumenti costituiscano l’aspetto dominante dell’universo sonoro etrusco, anche gli strumenti a corde sono largamente attestati. Infatti, quelli con corde di uguale lunghezza, come la lyra e la kithára, sono raffigurati nelle tombe dipinte di Tarquinia almeno 34 volte, solitamente in coppia con l’aulós. Il duo formato dal suonatore di aulós e dal suonatore di lyra (o di kithára) è un tema ricorrente ed è presente in diversi contesti tematici: durante il banchetto, anche per accompagnare vari tipi di danze, come nella Tomba dei Leopardi (vedi foto a p. 107) o nella
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Tomba del Triclinio, o per onorare il defunto nel trapasso fra mondo dei vivi e mondo dei morti, come nella Tomba delle Leonesse. Infine, l’unico strumento a percussione rappresentato, per 9 volte, sulle pareti degli ipogei tarquiniesi è un tipo di nacchere, chiamate krotala dai Greci, utilizzato dalle danzatrici, come nel caso della Tomba del Gallo (vedi foto a p. 106). Tra la metà del IV secolo a.C. e l’inizio del periodo ellenistico si verifica a Tarquinia un netto cambiamento nella scelta dei temi iconografici. Per questo motivo il ciclo pittorico della Tomba degli Scudi rappresenta forse il documento piú ampio e completo dell’ideologia aristocratica dell’epoca, con la presenza, in uno stesso ambiente, dei due soggetti piú ricorrenti della pittura etrusca: il banchetto e il corteo funebre, caratteristici di due periodi diversi che proprio in quegli anni si intrecciano e si avvicendano. Il tema decorativo, che si svolge come un unico racconto, si articola in tre diversi momenti. Nel primo è illustrata la partenza del defunto verso l’oltretomba; nel secondo è rappresentato il banchetto, a cui partecipano idealmente tutti i membri della famiglia, ancora una volta accompagnati dal suono dell’aulós e della kithára; il terzo esalta la grandezza della famiglia con l’apoteosi del capostipite. Il racconto inizia dalla parete d’ingresso, dove si trova il corteo funebre del magistrato fondatore della tomba, preceduto
Due coppie di suonatori di cornu e lituus sulla parete d’ingresso della Tomba degli Scudi.
In basso Tomba delle Leonesse. Suonatori di kithára e di aulós raffigurati ai lati di un grande cratere, sulla parete di fondo della camera.
da due littori e seguito da un servus, da due coppie di suonatori di cornu e di lituus, poste ai due lati della porta d’ingresso (vedi foto in alto, sulle due pagine), e da alcune figure interpretate come familiari. I cortei magistratuali sono usualmente raffigurati in parata, mentre in questo straordinario unicum la processione è colta durante una specifica fase del rituale, di cui si rendono protagonisti proprio i suonatori delle caratteristiche trombe etrusche in bronzo. Si trovano qui
eccezionalmente rappresentati mentre stanno suonando, offrendo cosí una testimonianza indispensabile alla comprensione delle relative tecniche di esecuzione musicale. In tutti gli altri casi in cui questi strumenti sono rappresentati non sono suonati, ma semplicemente trasportati dai membri del corteo insieme a verghe, fasci e altri simboli di rango, come nella Tomba Bruschi, oppure appesi alle pareti della casa del morto insieme a scudi, armi e armature, come nella Tomba Giglioli.
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SCRIVERE NELLE TOMBE di Enrico Benelli
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o sviluppo dell’epigrafia funeraria tarquiniese è collegato fin dalle origini con quella vera e propria specificità cittadina che fu la pittura sulle pareti delle tombe a camera. Come accade di norma in quasi tutte le città etrusche, è possibile distinguere una fase arcaica – nella quale l’epigrafia funeraria è piú rara e ha forme poco sistematiche – e una fase recente, contraddistinta dal forte incremento numerico delle iscrizioni e dalla progressiva standardizzazione delle forme espressive. Le iscrizioni funerarie arcaiche (VI-V secolo a.C.), a Tarquinia, sono molto poche; si segnala per la sua importanza l’iscrizione della Tomba dei Tori, posta in evidenza al centro della parete di fondo della camera di ingresso, che ricorda come l’ipogeo fu «fatto» (nel senso di «fatto fare») da un tale Arath Spurianas. Arath è la forma arcaica del comune prenome etrusco Arnth e Spurianas altro non è che una forma anch’essa arcaica del gentilizio meglio noto nella forma recente Spurina, che identifica la famiglia piú famosa della Tarquinia etrusca. Per il resto, l’epigrafia funeraria arcaica, salvo una mezza dozzina di cippi di forme variabili e un paio di testi di difficile lettura, finisce sostanzialmente qui; le altre iscrizioni di questo periodo che si trovano nelle tombe sono per lo piú didascalie riferite ai personaggi riprodotti negli affreschi. Tutt’altro volume ha invece l’epigrafia funeraria della fase recente (dal IV secolo a.C. in poi), che si può dividere in tre gruppi principali: iscrizioni sulle pareti delle tombe, sui sarcofagi e sui cippi. Il primo di questi tre gruppi è anche il piú antico a fare la sua comparsa, fin da quel monumento straordinario che è la Tomba dell’Orco, che rappresenta la prima apparizione di un nuovo sistema di comunicazione volto a esaltare le famiglie dell’aristocrazia sia attraverso il ricordo delle gesta compiute dai loro componenti piú illustri, sia sottolineandone la continuità genealogica e le importanti parentele. Nella Tomba dell’Orco convivono ancora due sistemi diversi, uno legato a tradizioni già sperimentate in passato
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(le didascalie dei personaggi mitologici raffigurati nella camera definita «Tomba dell’Orco II» e nel corridoio di collegamento fra le due camere), l’altro del tutto innovativo, nel quale le iscrizioni dialogano con le immagini della famiglia a banchetto per presentare all’osservatore un nucleo gentilizio potente e ben inserito nelle reti di parentela delle aristocrazie tarquiniesi. In questo contesto, il significato dei testi si completa con le informazioni fornite dall’apparato figurativo, che servono a definire la posizione dei singoli individui all’interno dell’albero genealogico.
La lunga iscrizione vergata nella Tomba degli Scudi, un monumento appartenuto alla famiglia dei Velkha.
Accanto a queste, compaiono anche iscrizioni lunghe e complesse, che ricordano la costruzione dell’ipogeo familiare e i cursus honorum dei defunti piú illustri; questi ultimi testi sono preziosi per ricostruire il funzionamento del sistema di governo della città etrusca di Tarquinia. Il monumento dove questo tipo di espressione epigrafica trova il suo massimo sviluppo è probabilmente la Tomba degli Scudi (vedi foto in queste pagine), appartenente alla famiglia dei Velkha, imparentata con i titolari della Tomba dell’Orco. Nel IV secolo a.C. le iscrizioni sui sarcofagi
sono ancora prevalentemente brevi e solo raramente contengono molto piú del nome del defunto che vi era deposto.
Un caso eccezionale La situazione muta nel corso della prima metà del III secolo a.C., in parallelo con la graduale semplificazione delle decorazioni pittoriche; le grandi iscrizioni contenenti i cursus honorum dei defunti illustri si spostano allora sui sarcofagi, che diventano i componenti piú importanti ed elaborati delle sepolture di rango. Spicca fra tutti questi, per la sua unicità anche
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Particolare del Sarcofago del Magistrato raffigurante il rotolo che il defunto tiene fra le mani e sul quale è inciso il suo cursus honorum. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.
iconografica, il sarcofago di Laris Pulenas, la cui lunghissima iscrizione è eccezionalmente collocata in un rotolo aperto, rappresentato fra le mani del defunto; il cursus honorum del personaggio è anch’esso molto particolare, perché consiste in cariche di carattere religioso, e non politico, che probabilmente la famiglia si tramandava di generazione in generazione. Fra il III e il II secolo a.C., in parallelo con la graduale cessazione della produzione di sarcofagi, questa categoria di iscrizioni scompare; dal II secolo a.C. in poi, le iscrizioni funerarie si trovano quasi soltanto sui cippi, le cui dimensioni costringono a ridurre i testi al minimo indispensabile: raramente vi si trova
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molto piú del semplice nome del defunto, drasticamente abbreviato, a volte accompagnato dall’indicazione dell’età e, molto raramente, dalle cariche politiche ricoperte.
Le vanterie di Laris Felsnas Anche in questa fase tarda, tuttavia, furono ancora realizzate alcune iscrizioni piú monumentali sulle pareti delle camere, ormai non piú decorate da affreschi. Fra queste si segnala soprattutto l’iscrizione di un tale Laris Felsnas, forse di origine perugina, che ricorda di aver partecipato alla guerra contro Annibale combattendo a Capua; il suo trasferimento a Tarquinia è legato al matrimonio con la Thana
UN AUTORITRATTO... SCURRILE
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Palazui, di antica e nobile famiglia tarquiniese, ricordata in una seconda iscrizione nella medesima tomba. L’eccezionale età di morte millantata da Laris Felsnas (106 anni!) e il numero straordinario di figli generati da sua moglie (11 o 12, che contrasta con la comune pratica di bassa natalità delle aristocrazie) restituiscono l’immagine pittoresca e roboante di un soldato parvenu, che si era aperto la strada a forza nel circolo chiuso delle esangui aristocrazie tarquiniesi dell’iniziale II secolo a.C. Dal momento che è quasi impossibile assegnare una cronologia precisa ai cippi, non sappiamo esattamente quando, a Tarquinia, si decise di abbandonare la lingua etrusca nelle
ulla parete sinistra della Tomba dei Giocolieri corre un’iscrizione, che, con l’andamento abbastanza irregolare caratteristico dell’epigrafia arcaica, ricorda un individuo denominato Aranth Heracanasa. L’iscrizione è posta vicino a un personaggio maschile nudo, dipinto nell’atto di defecare, e si è lungamente discusso se essa debba essere considerata come la sua didascalia oppure no. La forma del nome indica che Aranth non era un uomo libero, ma uno schiavo, appartenente a un Heracana. Secondo un’opinione condivisa da molti, la presenza di un’iscrizione con un nome servile all’interno di una tomba dipinta, chiaramente proprietà di una famiglia aristocratica, può essere giustificata solo immaginando che Aranth fosse l’autore delle pitture. Le firme di artisti etruschi della fase arcaica a noi note si riferiscono per lo piú alla realizzazione e alla decorazione di vasi di ceramica; l’iscrizione della Tomba dei Giocolieri, pertanto, potrebbe essere l’unica firma superstite di un pittore etrusco di affreschi. Enrico Benelli
iscrizioni funerarie per passare all’uso del latino. La produzione dei cippi, cosí come l’uso delle tombe etrusche, non cessò con l’incorporazione nello Stato romano nel 90 a.C.: esistono, infatti, numerosi cippi del tradizionale tipo etrusco tarquiniese che recano iscrizioni latine e i corredi contenuti nelle tombe attestano la prosecuzione del loro uso fino ai primi decenni del I secolo d.C.
In alto Tomba dei Giocolieri. La curiosa immagine di un uomo che defeca: è Aranth Heracanasa, forse identificabile con l’autore delle pitture che ornano il sepolcro.
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GRANDI IPOGEI DEL PERIODO TARDO-CLASSICO E DELL’ETÀ ELLENISTICA di Maria Cristina Tomassetti
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rovenendo da una visita alla necropoli di Tarquinia in località Calvario – per intenderci, dall’area recintata e normalmente fruibile – con gli occhi ancora pieni di colori sgargianti, di accostamenti azzardati tra l’azzurrissima fritta egizia e la malachite verde che ricordano le intensità del mare, le ocre dai toni piú vari e qua e là, perfino qualche dettaglio in intenso rosso cinabro, ci si accorge di quanta distanza si sia percorsa. Non è una distanza geografica, ché le tombe sono molto vicine tra di loro, ma una distanza data dalla profonda mutazione nella società che le ha prodotte. Siamo nei grandi ipogei del IV e III secolo a. C., in una Tarquinia molto diversa da quella dei secoli precedenti, una città radicalmente mutata, come di solito avviene nel momento di rinascita che segue una grande crisi e che cambia la visione del mondo, cercando nuove certezze e nuovi valori. Gli ipogei si fanno piú vasti e articolati e la decorazione, che si snoda sulle pareti in maniera piú libera, assume toni meno vivaci, con impasti piú tenui e molteplici sfumature dello stesso colore, improntandosi su una ricerca di maggiore naturalismo. Nelle raffigurazioni di questo periodo si può leggere quanto la storiografia e gli elogia (vedi anche la scheda a p. 151) ci hanno tramandato, attraverso scelte iconografiche che sono i chiari manifesti di una classe nuova che richiede innanzitutto una potente epifania del suo status. Tale aristocrazia trova la sua massima aspirazione nella magistratura suprema ed eponima, raggiunta attraverso i vari gradi di una carriera pubblica, tanto importante da dare all’anno in corso il nome del console in carica.
Echi della propaganda antiromana Dalla metà del IV fino alla seconda metà del II secolo a.C. sulle pareti degli ipogei appartenenti alle casate piú illustri appare infatti il soggetto tipicamente etrusco del corteo del magistrato, corredato da lunghe iscrizioni che forniscono dati sulla genealogia, sulle cariche magistratuali e sui meriti pubblici acquisiti
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nell’esercizio delle funzioni istituzionali. Questa tematica, insieme al riferimento a particolari episodi del mito greco, non è scevra da una certa propaganda antiromana. Il corteo viene tuttavia traslato dalla realtà storica in una dimensione metafisica, quella del viaggio dell’anima nell’aldilà, che arriva alla sua piena eroizzazione e a quella degli avi. Questa visione immaginaria è a tratti resa inquietante, popolata da demoni dell’oltretomba dai volti distorti e dai coloriti verdi-bluastri e da fondali di nuvolaglie scure. Scomparse le danze delle tombe piú antiche, qui la musica si fa diversa, suonata da
La parete nord-est dell’atrio della Tomba degli Scudi. 430 a.C. circa. Spicca, sulla destra, la rappresentazione dei genitori di Larth Velcha che banchettano, con un’ancella che rinfresca la signora facendo aria con un flabellum.
strumenti che echeggiano le battaglie combattute, come corni e litui. Le scene conviviali, i banchetti della piú amata tradizione etrusca, sono ambientate nell’aldilà in compagnia degli dèi e dei progenitori, in una beatitudine eterna frutto delle buone azioni svolte in vita. La Tomba dell’Orco e quella degli Scudi sono i piú straordinari esempi di ipogei tarquiniesi di questo periodo, ai quali si aggiungono la Tomba del Tifone, sempre a Tarquinia, la Tomba dei Rilievi a Cerveteri, le tombe Golini ed Hescanas di Orvieto, la François di Vulci e la Tomba della Quadriga Infernale di Sarteano.
La Tomba dell’Orco ha una pianta articolata in tre diversi ambienti, frutto delle trasformazioni che portarono al collegamento della camera piú antica (Orco I) con quella piú recente (Orco II), le cui datazioni, ancora dibattute, ricadono all’interno del IV secolo a.C. Nella prima, dalla nera atmosfera di un oltretomba a cui fa da sfondo una scura e intensa nuvola, è raffigurato il tema dei defunti a simposio, ma affiancati da un Charun dall’incarnato bluastro, il naso adunco e le grandi ali dispiegate. Nell’ambiente intermedio ci sorprende la scena dell’accecamento di Polifemo e il soggetto omerico sembra continuare nella
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«IL VOLTO DI DONNA PIÚ BELLO E FAMOSO DELLA PITTURA ETRUSCA»
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ella camera piú antica della Tomba dell’Orco, sulla parete destra, ancora oggi attrae magneticamente lo sguardo del visitatore quello che è stato definito da Mario Moretti, con enfasi efficace, «Il volto di donna piú bello e famoso della pittura etrusca». Come dargli torto? Proprio come il viso elegante della cosiddetta «parisienne» di cretese memoria, il profilo di Velia è consegnato all’eternità dalla resa armoniosa dei tratti pittorici, che alternano con efficacia la linea curva (labbra e mento) e quelle rettilinee (linea fronte-naso). La ragione di tanto fascino è in parte tecnica, o se si vuole, è legata alla componente «geometrica» della bellezza. Dal punto di vista disegnativo, infatti, il ritratto tarquiniese risente della standardizzazione tipologica a cui in quest’epoca, come in molte altre, è sottoposta la bellezza fisica, soprattutto femminile, una standardizzazione che non a caso nell’arte figurata etrusco-italica tardo-classica e protoellenistica troviamo applicata senza eccezione a tutte le rappresentazioni di profilo di matrone e dee. Il profilo di Velia, tuttavia, non è solo questo, cioè un
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esempio compiuto di bellezza standardizzata del IV secolo; il dipinto tarquiniese precorre il ritratto fisiognomico, pur senza rappresentare ancora un ritratto vero e proprio. Il risultato, come impatto visivo, è fortissimo ed è lo stesso, mutatis mutandis, dei ritratti delle nobildonne rinascimentali. Anche in questo caso la rappresentazione della bellezza femminile è stereotipica e realistica allo stesso tempo, sebbene il verismo, com’è ovvio, nel Cinquecento era molto piú accentuato. Non a caso, al di là degli aspetti geometrici (regolarità dei tratti e simmetrie) che determinano la struttura compositiva del viso, gli elementi accessori usati dall’artista tarquiniese per sottolineare la bellezza femminile sono gli stessi adottati, circa mille anni piú tardi, da Domenico Ghirlandaio nel celebre ritratto di Giovanna Tornabuoni esposto nel Museo Thyssen-Bornemisza a Madrid, uno dei tanti capolavori rinascimentali in cui protagonista è la «bellezza di profilo». Questi elementi-base sono il collier alla base del collo a sottolineare la snella eleganza del collo stesso (Velia indossa ben due
Nella pagina accanto la Tomba del Tifone, grande sepolcro ipogeo in uso fra il III e il I sec. a.C. In basso il ritratto di Velia dipinto sulla parete destra della piú antica camera funeraria della Tomba dell’Orco. IV sec. a.C.
camera piú recente con la raffigurazione dell’oltretomba, in cui Ade e Persefone spiccano quali bellissimi sovrani sulle pareti popolate da eroi del mito greco, come Agamennone e Aiace.
Un percorso faticoso Nella Tomba degli Scudi, datata intorno al 430 a.C., la figura eroizzata è quella di Larth Velcha che incede, abbigliato con una toga bordata di porpora, attorniato dai portatori delle insegne della sua pubblica funzione e seguito da un giovane con la sella curulis ripiegata in spalla, al centro di un corteo magistratuale accompagnato dalla musica di corni e litui, fino all’incontro con la moglie Velia Seithiti e i figli, al termine di un faticoso percorso, come è suggerito dal piano in salita sul quale cammina. Sulle altre pareti della tomba – un vasto ipogeo costituito da un atrium centrale e tre camere
sepolcrali dotate di porte e finestre a simboleggiare una dimora, con tanto di travi del soffitto dipinte in finto legno – sono effigiate due magnifiche scene di banchetto: quella della coppia di defunti, in cui Velia si distingue con uno dei piú bei profili dell’arte etrusca, e quella dei genitori di Larth, accompagnati da musici, servitori e da una deliziosa piccola ancella, che fa aria alla sua signora con un flabellum (vedi foto a p. 115). La coppia dei genitori si ripete in maniera del tutto inedita sulla parete sinistra, con dimensioni accresciute, solenni e regali: il gesto della moglie che indica il marito rende la scena una vera teofania, in un senso di divinizzazione degli antenati, essenziale alla legittimazione del potere. Perfino i demoni, dai bei corpi alati e dai volti graziosi, sono favorevoli alla loro beata permanenza nell’eternità, dove ancora li osserviamo banchettare sereni.
collane!) e la capigliatura raccolta dietro la nuca, due ingredienti sempre presenti nei ritratti in cui il punto di vista scelto dal pittore di turno è quello laterale. In aggiunta, la nostra Velia indossa anche vistosi orecchini a grappolo e una corona di foglie sulla fronte, due attributi legati alla moda etrusca dell’epoca e alla ritualità funeraria. Non c’è dubbio, però, che l’elemento fisiognomico che piú caratterizza la «fresca immagine dal puro profilo» di Velia è la lievissima, ma percepibile, increspatura del labbro superiore, forse intenzionale, un tratto che le conferisce quella espressione di dolce malinconia che alcuni critici hanno notato. Non desta sorpresa, allora, che proprio la nostra Velia tarquiniese, sullo scorcio del XX secolo, sia stata selezionata da esperti di immagine del Ministero delle Poste per rappresentare la bellezza antica nella serie ordinaria dei francobolli italiani nota come «Le donne nell’arte». È la conferma ulteriore che l’anonimo pittore tarquiniese, con felice ispirazione, aveva tradotto una rappresentazione stereotipica della bellezza femminile in un ritratto vivo, universale, in grado di suscitare la stessa ammirazione nell’osservatore oggi come duemila anni fa. Vincenzo Bellelli
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DOCUMENTARE LE TOMBE DIPINTE di Laurent Haumesser
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a scoperta delle tombe dipinte di Tarquinia, a partire del 1825, ha rappresentato un tornante decisivo nella storia dell’etruscologia e, piú in generale, del mondo antico. Ma ha giocato anche un ruolo essenziale nella storia dell’archeologia e nella messa a punto degli strumenti di ricerca. In realtà, nella necropoli tarquiniese le prime tombe dipinte erano state scoperte già nel XVII e XVIII secolo, ma i disegni che documentano questi monumenti, benché preziosi, non offrono tutte le garanzie di precisione e di corrispondenza agli originali, come si sarebbe auspicato. Al contrario, le scoperte che sono seguite nel XIX secolo hanno portato alla messa a punto di nuove tecniche di riproduzione, piú sistematiche e piú affidabili, in linea con l’evoluzione e con l’aggiornamento metodologico dell’archeologia moderna. Ciò avvenne in particolare nell’Istituto di Corrispondenza archeologica, il primo grande istituto archeologico d’Europa, fondato nel 1829, che aveva fra i propri obiettivi proprio la documentazione e la promozione delle nuove scoperte. Le tombe dipinte di Tarquinia attirarono ben presto l’attenzione di studiosi ed artisti, smaniosi di vedere dal vivo e riprodurre questi monumenti che gettavano nuova luce sulla pittura antica. Otto Magnus von Stackelberg e August Kestner furono fra i primi a recarsi sul posto per disegnare le tombe accessibili. La documentazione raccolta doveva tradursi nella pubblicazione di un volume pionieristico che, sfortunatamente, non vide mai la luce e che noi conosciamo nelle linee essenziali solo grazie a una raccolta preparatoria di tavole incise, conservate presso l’Istituto archeologico germanico di Roma. Vi ritroviamo prospetti, planimetrie e sezioni di alcune tombe e rilievi di diverse pareti dipinte, qualche volta con dettagli relativi a motivi ornamentali o figurati. Negli stessi anni, un altro filone importante di documentazione fu realizzato da diversi architetti borsisti dell’Accademia francese residenti a Roma. In
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occasione dei propri soggiorni quinquennali di studio, questi giovani artisti presero l’abitudine di realizzare album di rilievi, che permettevano loro di arricchire una conoscenza dell’architettura di tipo enciclopedico, relativa a tutta l’antichità. Il caso volle che la scoperta delle tombe dipinte coincidesse con la presenza a Roma di una nuova generazione di
A destra copia al vero di Carlo Ruspi della Tomba Querciola I di Tarquinia, comprendente la parete di fondo e quelle laterali con esclusione del registro inferiore, tempera su carta. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Nella pagina accanto il soffitto e la parete di fondo della Tomba delle Bighe, acquerello di Henri Labrouste. 1829. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
architetti di talento, desiderosi di rinnovare il linguaggio architettonico del proprio tempo, individuando nuovi modelli e facendo leva sul carattere scientifico e sulla precisione del rilievo architettonico. La scoperta delle tombe dipinte, che gettava nuova luce sulla questione piú generale della policromia dell’architettura antica, naturalmente attirò alcuni di loro a Tarquinia. Si conservano numerosi rilievi, realizzati in collaborazione e ricopiati in seguito gli uni sugli altri, di Henri Labrouste, Félix Duban, Victor Baltard o, piú tardi, di Charles Garnier.
Le riproduzioni in facsimile Il fervore di questo lavorío di documentazione, che partiva anche dal presupposto che l’apertura delle tombe potesse essere dannosa, e finanche distruggere i dipinti, portò a sperimentare un altro strumento operativo, quello dei grandi facsimili. Questi ultimi offrivano l’opportunità non soltanto di restituire fedelmente il disegno e i colori degli affreschi, ma anche di produrre repliche dei dipinti, suscettibili di essere esposte nei musei. Fu cosí che l’artista Carlo Ruspi diventò ben presto uno specialista delle riproduzioni in facsimile delle pitture di Tarquinia, realizzate per mezzo di grandi calchi tratti direttamente in situ, sui quali venivano riportati i contorni delle figure, nonché le indicazioni cromatiche, che consentivano di realizzare in seguito grandi pannelli dipinti delle stesse dimensioni delle pareti originali. Il Museo Gregoriano Etrusco nella Città del Vaticano, fondato nel 1837, si arricchí in questo modo di una serie di riproduzioni fedeli di tombe dipinte, che tuttavia non erano disposte nelle sale in maniera da riprodurre lo spazio tombale, bensí come semplici pannelli murali appesi alle pareti del museo. Collezioni simili vennero a costituirsi in poco tempo anche a Monaco di Baviera e a Londra, ma solo eccezionalmente i facsimili realizzati vennero adoperati per ricreare illusionisticamente l’idea dello spazio tombale, come in occasione della mostra organizzata a
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
GLI ACQUERELLI DI ADOLFO AJELLI
«A
vevo in mente, quando iniziai questo lavoro di eseguire soltanto qualche tavola ad acquarello. Non pensavo affatto, e non era nelle mie intenzioni, di riprodurre tutte le tombe. Ma feci i conti senza la bellezza degli originali e la passione intensa che mi prese man mano che procedevo…». Cosí Adolfo Ajelli, pittore e agrimensore di Tarquinia, ricordava in un manoscritto del 1935 (poi integrato nel 1961) la sua impresa della redazione degli acquerelli delle tombe dipinte tarquiniesi. L’opera di Ajelli rientra in quella lunga stagione di riproduzione delle pitture etrusche inaugurata nel 1831-32 da Carlo Ruspi e proseguita da altri artisti italiani e stranieri, tra gli altri Louis Schulz, Gregorio Mariani, Luigi Busi, Oreste Marozzi, Alessandro Morani, Elio d’Alessandris e Augusto Guido Gatti, con l’intento di documentare le grandi scoperte che a partire dai primi decenni del XIX secolo portarono alla ribalta Tarquinia e la grande pittura etrusca. Tra il 1931 e il 1935 Ajelli realizzò gran parte delle 113 tavole delle tombe di Tarquinia, 82 raffiguranti le pitture sono disegnate su cartoncino ruvido e liscio di dimensioni ridotte (19 x 29 cm) ed eseguite con tecnica mista a china, acquerello, tempera e pastello.
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Le restanti 31 tavole raffigurano le piante e le sezioni degli ipogei e la planimetria della necropoli. Il valore documentario – oltre che artistico – degli acquerelli è particolarmente significativo in un momento in cui la fotografia a colori ancora non era stata messa a punto e di conseguenza l’accurata riproduzione degli esiti del degrado delle pitture; la definizione delle cadute del supporto roccioso, delle lacune dell’intonaco e delle bianche efflorescenze che coprivano la superficie pittorica, delle stuccature con malta cementizia grigia dei vecchi restauri costituisce una fonte di preziose informazioni per la storia della conservazione delle tombe dipinte. L’opera di Ajelli rimase praticamente sconosciuta e sostanzialmente ignorata dalla bibliografia scientifica anche dopo la sua morte avvenuta a Tarquinia nel 1963. Dei suoi acquerelli è stata recentemente presentata l’edizione completa di Maria Cataldi nel volume Documentare l’arte con l’arte. Le pitture delle tombe etrusche di Tarquinia nell’opera di Adolfo Ajelli (Quaderno 3 di Larth, a cura dell’Associazione «Amici delle Tombe Dipinte di Tarquinia»). Gloria Adinolfi, Rodolfo Carmagnola, Beatrice Casocavallo e Adele Cecchini
Sulle due pagine tavole realizzate da Adolfo Ajelli fra il 1931 e il 1935 per documentare le pitture etrusche di Tarquinia. Nella pagina accanto, la parete di fondo della Tomba delle Leonesse; in basso, un particolare della Tomba delle Bighe.
Pall Mall a Londra dalla famiglia di archeologi e mercanti d’arte dei Campanari, in cui i visitatori (che erano anche potenziali acquirenti) potevano visitare le tombe dipinte ricostruite.
Una documentazione ancora essenziale Questo lavoro di documentazione proseguí per tutto il XIX e il XX secolo, su due binari: da un lato furono realizzate tavole incise (spesso pubblicate dall’Istituto di corrispondenza archeologica) oppure a colori, dall’altro si realizzarono facsimili, fra i quali si possono ricordare l’importante serie raccolta presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quella del Museo di Belle Arti di Boston, che riprende il lavoro fatto per il museo danese, e quella, piú recente, realizzata per il Museo archeologico di Firenze. L’interesse per questo tipo di
documentazione, che avrebbe potuto sembrare superato dal ricorso alla fotografia, non è mai venuto meno e campagne piú recenti di rilievo delle tombe dipinte, condotte soprattutto negli anni Ottanta e fino a epoca recente, facendo ricorso alla tecnica tradizionale del calco oppure ricorrendo alla combinazione di tecniche piú sofisticate che associano il disegno alla fotografia, attestano la piena validità di questo metodo di lavoro. L’apporto conoscitivo della documentazione grafica realizzata nel passato e le ricerche condotte negli anni Ottanta, soprattutto sui fondi romani dell’Istituto archeologico germanico, dell’Istituto svedese e dell’Università «Sapienza», hanno consentito di rintracciare e studiare molti documenti preziosi del XIX secolo, che nuovi strumenti di lavoro come l’informatizzazione e il 3D dei rilievi antichi invitano ad approfondire.
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CAPOLAVORI CON VISTA Il Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia occupa i magnifici spazi del palazzo voluto dal cardinale Vitelleschi. L’edificio gode di un panorama mozzafiato e fa dialogare idealmente i tesori in esso custoditi con il territorio dal quale provengono
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PALAZZO VITELLESCHI: UN «CONTENITORE» STRAORDINARIO di Melania Bisegna
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a sede del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia venne edificata tra il 1436 e il 1439 per volere dell’arcivescovo di Firenze, Giovanni Vitelleschi, dal quale prende il nome. Il palazzo si colloca all’ingresso delle mura del borgo medievale, in una posizione altimetrica maggiore rispetto al Castello e alla chiesa di S. Maria posizionate a ovest e gode della completa visuale sulla piana e sul mare. L’imponente palazzo, la piazza antistante e il volume della chiesa dedicata a san Marco – che oggi accoglie il Teatro Comunale, ma un tempo costituiva il fulcro del convento agostiniano del XIII secolo – creano un importante sistema urbanistico tipico del Quattrocento. La struttura d’impianto del palazzo è sostanzialmente di origine tardo-medievale, ancora visibile seppure nascosta dietro l’elegante porticato progettato dall’ignoto architetto della famiglia Vitelleschi. Il palazzo, come spesso era uso, deriva dalla trasformazione dell’isolato sul quale sorge, attraverso il processo di fusione delle unità abitative che lo compongono. È possibile identificare tre corpi di fabbrica disposti sui tre lati del cortile quadrangolare; il quarto lato è chiuso da un alto muro con camminamento che sottolinea il carattere di fortino dell’edificio. Inglobata tra le unità che affacciano sul vicolo secondario, svetta la torre Fani, perfettamente conservata fino al secondo piano (ma che in origine doveva essere decisamente piú alta), suddivisa al suo interno da solai in legno.
Un’armoniosa commistione di stili L’edificio ripropone la tipologia dell’abitazione signorile fiorentina sviluppata su tre piani. I prospetti sono asimmetrici, nitidi volumi di pietra calcarea a vista, a ricorsi lisci e bugnati sui piani superiori, interrotti da marcapiani e nette aperture che creano virtuosi giochi di chiaroscuro. Il prospetto principale è caratterizzato da un’armoniosa commistione di elementi architettonici in stile gotico-catalano e rinascimentale. I caratteri tipologici dell’elegante facciata sono infatti suddivisibili in
due distinti assetti: il lato rinascimentale a sinistra, descritto dal portale marmoreo sormontato dal timpano triangolare con lo stemma del cardinale Vitelleschi e la loggia panoramica architravata e di ispirazione fiorentina; il settore gotico, sul lato destro, con le aperture a bifora del corpo scala, le trifore scolpite che denunciano la presenza del grande salone, i rosoni e le colonnine tortili.
Sulle due pagine la facciata (nella pagina accanto) e uno scorcio del cortile di Palazzo Vitelleschi, sede del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia.
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Qui sotto la sala di Palazzo Vitelleschi che accoglie i capolavori del Museo. In basso una suggestiva immagine dell’altorilievo dei cavalli alati dall’Ara della Regina, «inquadrati» in una delle finestre bifore di Palazzo Vitelleschi.
Attraversando il portale marmoreo e l’ampio atrio d’ingresso a sesto ribassato, si viene accolti nell’arioso cortile ad archi acuti decorati con conci bicromi di nenfro e macco al piano terra e primo piano e la loggia architravata con capitelli a stampella al secondo piano. Al centro del cortile la cisterna ottagonale in marmo scolpito recante lo stemma del cardinale Vitelleschi, perfettamente conservata, garantiva il fabbisogno idrico del palazzo. L’ampia scalinata che porta ai piani superiori ha accesso dal portico in un vano dedicato. La pendenza dei gradini è lieve e consente di apprezzare la bellezza dello spazio architettonico che si percorre: la rampa voltata a botte realizzata con mattoni di cotto a correre, i gradini di cotto a spina, le finestre bifore con colonnina tortile.
La sequenza delle sale La straordinaria bellezza di questo edificio si esprime anche nei giochi prospettici dei suoi percorsi. I loggiati del primo e del secondo piano creano un suggestivo cono prospettico grazie all’inclinazione del muro, che deriva dall’orditura originale delle preesistenze medievali da un lato, e dalla perpendicolarità della loggia quattrocentesca dall’altro. La sequenza di sale, dalle piú piccole in fondo al loggiato, è percorribile una dopo l’altra, grazie a un’unica infilata di aperture dal lato delle finestre. In passato tutti i soffitti erano affrescati; oggi sono per la maggior parte coperti da uno spesso strato di intonaco, ma restano apprezzabili alcune tracce lacunose nelle sale piú ampie. Si giunge al salone delle due grandi trifore gotiche, incorniciate da sedute e blocchi di pietra regolari, dove il grande arco a conci bicromi descrive tutta l’ampiezza della sala. Vicino a questo sono conservati alcuni affreschi iconici per la storia del palazzo. Di particolare interesse la scena raffigurante il cardinale Giovanni Vitelleschi che riceve il modello del palazzo alla presenza del Salvatore. Proseguendo il percorso al secondo piano, il
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NEL SEGNO DELLA LEGGIBILITÀ E DELL’ELEGANZA
L’
architetto Franco Minissi si occupò tra il 1962 e il 1967 del restauro di Palazzo Vitelleschi e del nuovo progetto museografico realizzando soluzioni funzionali e scenografiche per l’adeguata fruizione delle importanti e variegate opere d’arte etrusca contenute all’interno del museo. L’allestimento è stato molto rimaneggiato, soprattutto negli anni Novanta, perdendo purtroppo l’organicità del progetto, che resta originale solo in alcune sale del primo piano. Troviamo infatti una serie di vetrine di diverse tipologie studiate per adattarsi alle esigenze planimetriche e museologiche della collezione a cominciare da quelle cosiddette «a camera», che si strutturano come uno spazio autonomo al centro della sala in cui il visitatore è circondato dalle opere a 360 gradi. Permane il carattere distintivo della luce diffusa dall’alto, filtrata dalle iconiche griglie quadrettate, e della assoluta trasparenza assicurata dai ripiani in vetro e dai tiranti in acciaio ottonato. Le vetrine del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia sono caratterizzate dall’uso di plance di legno, generalmente ben mantenuto eccetto per le zoccolature evidentemente corrose dal tempo e dotate di uno scenografico sistema di apertura ad ante alternate. Da sottolineare la flessibilità di regolazione dei ripiani in vetro, conferita grazie ai caratteristici morsetti di giunzione che consentono molteplici configurazioni allestitive all’interno di ogni vetrina e per ogni scelta museologica mutevole nel tempo. Nel progetto di Minissi la sala destinata ai capolavori, quella delle grandi trifore gotiche, doveva rappresentare una pausa per il visitatore dopo l’intenso percorso del primo piano. Qui sono ancora presenti le vetrine «a custodia», caratterizzate da un doppio sistema illuminante dalla base e dalla sommità, studiate per forma, dimensione e posizione come fossero delle grandi lanterne di cristallo poggiate su blocchi di calcestruzzo martellato. Nel raffinato allestimento minissiano ogni dettaglio concorreva alla miglior lettura possibile ed esteticamente gradevole delle opere. Melania Bisegna
Un’altra immagine della sala dei capolavori, esposti nelle vetrine «a custodia» disegnate dall’architetto Franco Minissi.
corridoio del loggiato conduce verso quella che si può definire «l’ala medievale» del palazzo. Lungo il corridoio si trova il monumento funebre della famiglia Mezzopane, che fu trasferito nel 1918 dall’ex convento di S. Marco. La scultura marmorea cela una cornice in nenfro attribuibile a una finestra del blocco di case medievali che affacciava sulla strada cittadina e che venne successivamente inglobata dall’edificio.
Lo studiolo affrescato In fondo al corridoio, nascoste nell’angolo piú silenzioso del palazzo, vi sono la sobria cappella, di cui è visibile la sporgenza dell’abside pensile dal prospetto esterno del palazzo, e lo studiolo o anti-cappella del Cardinale. Lo studiolo, di notevole bellezza, ha una pianta rettangolare e copertura a botte con cassettoni di legno. Conserva nel registro superiore un meraviglioso ciclo di affreschi eseguito tra il 1437 e il 1439 raffigurante sulle pareti lunghe Storie di Lucrezia e Virtú cardinali e Gesú tra i dottori sulle pareti corte. Su questo piano vi è l’ampio salone delle armi caratterizzato dal grande tetto a capriate, dalla presenza del camino, quasi allineato con quello del primo piano, e dalle finestre a trifore gotiche aperte una sul prospetto principale, l’altra su quello laterale. Il dislivello del pavimento, segnato dai lunghi gradini, rimarca la presenza del muro non ripristinato dopo i restauri, che suddivideva il salone in due stanze di dimensioni minori. Di grande valore artistico è l’opera transitata per molti anni presso palazzo Vitelleschi e probabilmente proveniente dall’ex convento di S. Marco a Tarquinia: la Madonna col Bambino o Madonna Tarquiniese di Filippo Lippi, realizzata intorno al 1437. Nel 1943 la tavola pittorica fu trasportata e conservata presso Palazzo Barberini a Roma per essere preservata e restaurata durante la seconda guerra mondiale. L’enigmatica storia e provenienza della tavola pittorica sono ancor oggi tema di interesse per molti studiosi.
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VETRINE PIENE DI STORIA di Giovanna Bagnasco Gianni
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uando la missione dell’Università di Milano ha iniziato a operare a Tarquinia con gli scavi sul pianoro della Civita, sotto la direzione di Maria Bonghi Jovino, ha avuto inizio un dialogo costante con il Museo. Ne è espressione la destinazione a spazio espositivo della sala delle Armi all’ultimo piano del Museo, voluta da Paola Pelagatti. Qui dovevano trovare posto i risultati dei piú recenti scavi di abitato (Civita, Gravisca, Poggio Cretoncini) e necropoli (Bruschi Falgari e Monterozzi). Il compimento del progetto coincise nel 2001 con il Convegno di Studi Etruschi dedicato alle città etrusche e con
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l’attuale esposizione. I ricercatori dell’Università Statale hanno presentato al pubblico, per la prima volta, la storia di Tarchna, l’antica città etrusca, attraverso le fasi di attività del «complesso monumentale», l’area sacra situata al centro della parte occidentale del pianoro, frequentata per piú di mille anni, e quelle del santuario dell’Ara della Regina, il piú grande tempio finora noto per la civiltà etrusca, sorto sulla parte orientale. Nella sala i plastici donati al Museo, dopo essere stati esposti nella Mostra «Gli Etruschi di Tarquinia» (allestita nel 1986 a Milano presso l’Università Statale), dialogano con i materiali
Sulle due pagine una veduta dei resti del tempio dell’Ara della Regina, scoperti sul pianoro della Civita, messa a confronto con un plastico del santuario realizzato in occasione di una mostra temporanea e ora entrato a far parte del percorso espositivo del Museo di Tarquinia.
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conservati nelle vetrine. L’osservatore entra in una dimensione temporale e spaziale in cui il rapporto fra strutture, paesaggio e oggetti risulta indissolubile, consentendogli di percepire la vita della città avendo a disposizione i contesti archeologici degli scavi e l’estensione del territorio. Le curve di livello del pianoro, rese nel plastico in legno di balsa, rappresentano una pietra miliare nell’evoluzione delle attuali ricerche topografiche centrate sull’abitato e sulle mura.
Le prime fasi di vita I contesti archeologici del «complesso monumentale» raccontano di come è nata Tarchna agli inizi dell’epoca villanoviana (fine del X-inizi del IX secolo a.C.). Ne sono testimonianza i rituali svolti attorno alla cavità apertasi nella roccia calcarea, un fenomeno naturale di grande impatto per la comunità che mantenne nel tempo il ruolo nevralgico. Prima evidenza è la deposizione, alla fine del IX secolo a.C., di un bambino encefalopatico che si può confermare come un tramite con il mondo soprannaturale nell’immaginario collettivo della sua epoca per i sintomi diagnosticati dalla ricerca scientifica. Questa sua valenza diventa parte della memoria storica del «complesso» e dunque della comunità
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tarquiniese, come dimostrano i successivi rinvenimenti epigrafici e archeologici. Attorno a questo nucleo ancestrale e memoriale, si realizzano capanne a uso cerimoniale e di aggregazione della comunità per tutto il periodo villanoviano. L’insieme evoca nella sua concretezza una delle storie sacre etrusche piú note nella letteratura antica che riguarda il fondatore di Tarquinia, Tarconte, il quale, arando, fa scaturire Tagete da una zolla. È un bambino nato vecchio, una creatura eccezionale che funge da tramite divino delle norme della religione etrusca, la Etrusca Disciplina: un’antica storia sacra replicata al «complesso» o della sua fondazione che ha contribuito nei secoli a fare di Tarquinia la città etrusca sacra per eccellenza. Dopo questa fase fondante, i rituali elaborati nel tempo in questo luogo sacro continuano a raccontare la storia della gente che vi si riuniva. Ne dà conto la deposizione di un individuo nella nuda roccia (metà dell’VIII secolo a.C.) che presenta segni di morte violenta, cosí come altre 17 deposizioni affini emerse nel corso delle campagne di scavo successive. Deposizioni anomale rispetto a quelle che seguono invece il rito della cremazione adottato all’epoca nella necropoli. I rituali comprendono anche offerte dal regno
Sulle due pagine materiali restituiti dagli scavi del «complesso monumentale» individuato sul pianoro della Civita.
animale e vegetale collocate in fosse praticate attorno alla cavità e segnalate nel tempo in superficie con segnacoli in pietra e recinti murari. Il piú spettacolare è senz’altro quello deposto in due fosse di fronte al tempio-altare, costruito agli inizi del VII secolo a.C. a est della cavità naturale, per monumentalizzarla. Entrambe sono collocate sulla verticale di una precedente capanna villanoviana a destinazione sacrale. Contengono tre bronzi (tromba-lituo, scudo, scure), insegne del potere religioso e istituzionale del re-sacerdote, che li ha offerti nel corso di una imponente cerimonia comprendente l’uso di vasi, poi frammentati e raccolti in una delle
stratigrafie che si sono accumulate nei secoli e nei frammenti ceramici, veri e propri frattali della vita della comunità cittadina che, nel tempo, si è riunita in un luogo ancestrale e fondante per la propria memoria collettiva.
fosse. Nel corso del VI e V secolo a.C. è collocato a ovest della cavità un deposito che racconta bene i gesti del rituale. Contiene vasi riempiti di resti vegetali e animali che si ripetono in strati successivi e alludono al culto di una divinità della natura. Il volto di questa divinità femminile si va svelando nel tempo: dalle sue origini come forza naturale, fino all’emergere del suo nome, Uni, ricordato nelle iscrizioni a partire dalla fine del VII secolo a.C. La storia del «complesso monumentale» si identifica con la storia della città, che gli archeologi continuano da 40 anni a sfogliare nel libro contenuto nella terra, ovvero nelle
del tetto corrispondente. Attualmente i Cavalli si ammirano in una sala dedicata al primo piano del Museo, ma per capirne la storicità è necessario visitare la sala d’Armi, dove si racconta la vicenda della città. Nonostante scavo nel territorio e Museo rappresentino mondi intrinsecamente diversi e con operatività solo in parte compatibili, essi ricadono comunque nel dominio della ricerca storica e il dialogo deve perciò continuare a essere sostenuto. In questo senso la sfida attuale è quella di continuare a tenere insieme questi universi di senso, al di là delle barriere contingenti fisiche, storiche, legislative.
Un capolavoro e il suo contesto Seguendo questo criterio, allo scopo di ricontestualizzarli nella loro fase storica, anche i materiali dalle stratigrafie messe in luce al santuario dell’Ara della Regina sono stati esposti per lungo tempo in una vetrina sistemata accanto ai Cavalli Alati, insieme alle altre due terrecotte figurate superstiti dello stesso frontone, e all’apparato architettonico
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LE COLLEZIONI STORICHE di Maria Taloni
È
probabile che chi entra oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia ignori che le sue collezioni hanno una lunga storia, piú lunga di quella del Museo stesso; una vicenda che si intreccia con la storia della Tarquinia antica e moderna. La piccola raccolta comunale che si andava arricchendo alla fine del 1800 grazie alle scoperte compiute nel corso degli scavi comunali voluti dall’allora sindaco Luigi Dasti fu il primo nucleo del
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Museo Etrusco-Tarquiniese, ospitato nei locali dell’edificio appartenuto alla famiglia Vipereschi e, dal 1870, di proprietà demaniale, dato in permuta all’Università Agraria di Tarquinia di cui ancora oggi è sede. Tra il 1878, anno dell’inaugurazione, e il 1916, il palazzo ospitò il Museo Civico in varie sale, distribuite tra cortile, pianterreno e primo piano: i reperti erano esposti senza alcuna mediazione fisica con i visitatori che accorsero numerosi,
soprattutto dall’estero. Nel frattempo, per ovviare ai problemi di ordine espositivo e conservativo che già si presentavano, si profilò la possibilità, sempre su idea del Dasti, di acquisire lo splendido Palazzo Vitelleschi «liberato dagli attuali inquilini, che ne sono i devastatori e restaurato» per destinarlo a museo. Purtroppo il sindaco non riuscí a vedere completato il suo progetto… Al tempo il palazzo era di proprietà della famiglia Soderini e alle spese di manutenzione suppliva il Ministero della Pubblica Istruzione, con sempre maggiori difficoltà: per tale motivo propose al Comune un’azione congiunta, allo scopo di acquistare l’edificio dividendosi la spesa per l’acquisto (50 000 lire) e per il restauro (9500 lire). Tuttavia, nel 1902, il palazzo fu messo all’asta e il Ministero invitò il Comune ad acquistarlo; seguí una scrittura privata, in cui l’amministrazione comunale si impegnava a non richiedere la metà al Ministero che, invece, avrebbe eseguito a proprie spese entro cinque anni i lavori di restauro necessari. Passarono dodici anni prima di giungere alla sottoscrizione di una prima convenzione tra Comune, che si impegnò a destinare in perpetuo il palazzo a sede museale, e Ministero: questa sancí l’istituzione del Museo Etrusco.
Una nascita travagliata Nel frattempo, il professor Alessandro Della Seta aveva redatto il catalogo del materiale archeologico della Raccolta Comunale, consistente in 9896 oggetti: il faldone redatto a mano nella calligrafia tipica del tempo è tuttora conservato in museo e continua a costituire un punto di riferimento prezioso per le ricerche documentali. La consegna e il trasferimento dei materiali furono però funestati da vari eventi rocamboleschi: in primis, l’opposizione dell’Università Agraria, che ne reclamava la comproprietà, tanto da esigere l’intervento delle forze dell’ordine, e un furto di oggetti preziosi nella notte tra il 4 e il 5 aprile 1916. Il furto si trasformò al tempo in un vero e
Un biglietto d’ingresso al Museo di Tarquinia, che, dopo molte vicissitudini, venne inaugurato nel 1924. Nella pagina accanto una sala del Museo Etrusco Tarquiniese, costituito a partire dalla raccolta comunale che, sul finire dell’Ottocento, fu arricchita dai reperti affluiti dagli scavi promossi dal sindaco Luigi Dasti.
proprio affaire giudiziario e politico, che causò polemiche, rimpalli di responsabilità e grande eco mediatica: le conseguenze per la comprensione di molti contesti della raccolta, come quello della tomba di Bocchoris, sono ancora oggi evidenti. L’articolo 1 della citata convenzione previde anche che il Museo accogliesse i materiali della collezione privata dei conti Bruschi-Falgari, acquistata dal Ministero alla morte del conte Francesco nel 1908. Il figlio Luca, erede insieme alle sorelle di tutti i beni, ritenne – o fu spinto dalle autorità competenti a ritenere – piú opportuno che la raccolta rimanesse a disposizione degli studiosi. La collezione, in realtà, era già stata privata di molti reperti prestigiosi, per esempio le ceramiche attiche vendute al Museum of Fine Arts di Boston, come sottolineò lo stesso Della Seta, incaricato di redigerne il catalogo.
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IL CORREDO DELLA TOMBA DI BOCCHORIS
A
rrivati al primo piano del Museo, nella sala 2, si può ammirare il corredo di una tomba principesca a camera, con tetto displuviato senza trave centrale (columen), a inumazione, femminile rinvenuta nel corso delle campagne di scavo promosse dal Comune di Tarquinia e dall’Università Agraria nella necropoli dei Monterozzi vicino alle tombe dei Vasi Dipinti e del Vecchio, tra il 2 e il 3 aprile 1895, «alla distanza di circa 150 metri dallo stradello che traversa i Monterozzi». Il contesto è databile alla fine dell’Orientalizzante Antico (690-670 a.C.) e costituisce una summa della cultura materiale di questo periodo storico, la cui seriazione cronologica attraverso il cross-dating è legata a uno dei rinvenimenti piú interessanti della tomba che, fin dall’epoca della scoperta, attirò l’attenzione del pubblico e degli specialisti: la situla in faïence con iscrizione geroglifica recante il nome del faraone della XXIV dinastia, Bakenrenef, noto con il nome greco di Bocchoris. La perdita di molte informazioni sulla «tomba egizia dai pregevoli oggetti», dovute all’assenza dell’archeologo Wolfgang Helbing sullo scavo al momento della scoperta e al furto di alcuni reperti – in oro e materiale di pregio – nel museo tarquiniense nel 1916, rendono difficile una lettura esaustiva del complesso funerario, la cui edizione completa è ancora attesa. Oltre alla presenza di prodotti vicino-orientali, forse mediati dall’elemento fenicio o rodio, meritano d’essere segnalati, fra gli oggetti personali, la collana con 45 pendenti (95 al momento della scoperta) e un unguentario – anch’esso in faïence –, gli ori, le placche in osso e varie fibule in bronzo ad arco configurato di produzione locale. Il corredo vascolare legato al banchetto-simposio presenta sia elementi di ispirazione greca proto-corinzia in argilla figulina, come l’oinochoe, la kotyle e il vasellame metallico, sia di tradizione locale, come l’anforetta a spirali, le olle su alto sostegno (holmos), tazze e brocche. Tuttavia, anche tra gli impasti, si attestano forme e decorazioni originali, come l’oinochoe su piede con bocca trilobata e ventre costolato, oppure l’olla dipinta con coperchio configurato ad acrobata nella tecnica white-on-red, il piú antico, tra quelli decorati con figure umane, dell’intera classe: la prima sembra ispirata a prototipi metallici di origine fenicio-cipriota; la seconda, rinvenuta in posto sull’holmos che la sosteneva, è stata collegata non solo al consumo del vino e al mondo del simposio, ma per la decorazione figurata a una precoce conoscenza e assimilazione, a livello delle classi gentilizie, della poesia epica greca, forse un’eco della Tebaide. Tale acculturazione dev’essere stata favorita anche dai contatti con le colonie euboiche della Campania, rapporti in cui Tarquinia ha avuto un ruolo di primo piano e che preparano un ambiente propizio sul piano culturale per l’arrivo, ricordato da Plinio il Vecchio, di Demarato di Corinto a Tarquinia intorno al 650 a.C. con il suo seguito di tre fictores (scultori) dai nomi parlanti: Diopos (tubo per traguardare, inteso come allusione all’architettura), Eucheiros (buona mano), Eugrammos (buona linea, evocante l’arte del disegno). Infine, ma non meno importante, è la connotazione femminile della tomba: il rango principesco della donna è esaltato attraverso gli ornamenti personali, la presenza di oggetti esotici, il legame con la cultura del vino e del simposio e la conoscenza dell’epos greco. Ciò ribadisce ancora una volta il ruolo svolto dalle donne aristocratiche etrusche nel processo di autorappresentazione delle élites medio-tirreniche, nella gestione e trasmissione ereditaria del potere e della ricchezza e nella mediazione delle istanze culturali e religiose allogene, greche e medio-orientali. Maria Taloni
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Alcuni dei pendenti in faïence (95 in origine) di una collana facente parte del corredo della tomba di Bocchoris. Scoperto nel 1895 nella necropoli dei Monterozzi, il sepolcro è databile nell’Orientalizzante Antico (690-670 a.C.).
In questa pagina una tavola che illustra il corredo della tomba di Bocchoris e alcuni dei reperti che ne fanno parte. In particolare, in basso, è riprodotta la situla in faïence sulla quale corre l’iscrizione geroglifica che menziona il faraone Bakenrenef, della XXIV dinastia, noto con il nome greco assegnato al sepolcro.
Per tali motivi il prezzo di acquisto fu ridotto, con grande disappunto del conte che sperava in un ben piú cospicuo ricavo, a 122 000 lire rispetto alle iniziali 300 000. Il contratto fu firmato il 3 giugno 1913, ma fu necessario aspettare l’11 maggio 1924 per l’inaugurazione del museo, alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Oggi «il letto di Procuste», per usare le parole dell’archeologo Giuseppe Cultrera (primo direttore del museo tarquiniese) nel suo discorso inaugurale, dell’allestimento delle collezioni, arricchitesi nel frattempo dei reperti provenienti dagli scavi intrapresi da varie università sia nell’area della città antica sia al porto di Gravisca, continua ad accendere il dibattito tra studiosi e addetti ai lavori. E una delle sfide piú impegnative che il Parco dovrà affrontare sarà quella di individuare la concezione museologica e museografica che meglio possa preservare la molteplice natura di collezione antiquaria, museo civico, museo archeologico, aprendosi al contempo all’utilizzo della tecnologia e a un moderno e organico racconto museale per accogliere nuovi pubblici.
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DALLA GRECIA ALL’ETRURIA: LA COLLEZIONE VASCOLARE di Vincenzo Bellelli
L
e collezioni dei Musei Archeologici di Cerveteri e Tarquinia comprendono migliaia di vasi fittili. Molti di essi sono dipinti e sono stati importati dalla Grecia e, in misura minore, da altre regioni del mondo antico con cui le due città etrusche intrattenevano rapporti commerciali. La ragione di tanta abbondanza è semplice: nell’antichità classica le stoviglie di terracotta adoperate nella vita quotidiana avevano una funzione assai piú importante di quella che oggi rivestono le ceramiche e gli altri accessori utilizzati per mangiare e per bere. Mentre oggi, fatto salvo il pregio qualitativo di alcune manifatture artistiche, il valore
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L’interno di una kylix attica a figure rosse del Pittore di Brygos raffigurante un episodio legato al ritorno di Paride. L’anziano seduto è forse identificabile con il re Priamo. 500-450 a.C.
della ceramica si riduce – di fatto – a quello d’uso, ovvero alla funzione pratica delle stoviglie, e, tutt’al piú, alla ricercatezza di alcune forme, nell’antichità classica – e dunque anche nel mondo etrusco – le ceramiche d’uso quotidiano, soprattutto se dipinte o decorate con altra tecnica, erano spesso supporto di raffigurazioni che potevano svilupparsi in veri e propri racconti per immagini. Abbiamo dunque a che fare con uno strumento di comunicazione straordinario e non con semplici stoviglie. Per la ceramica greca, a questo proposito, si parla suggestivamente di «città delle immagini», a significare che in queste immagini vascolari si riflette in maniera organica,
mercati occidentali della ceramica greca dipinta, strumento potente della ellenizzazione della penisola italiana, comprese le zone interne piú lontane dalle coste. Di tutto ciò è riflesso diretto la composizione dei corredi funerari recuperati nelle tombe di Cerveteri e Tarquinia databili fra l’VIII secolo a.C. e l’epoca ellenistica, fino a quando cioè – con l’evoluzione del modo di produzione e dell’assetto della società – è cambiata anche la funzione della ceramica decorata. Per secoli, dunque, Cerveteri e Tarquinia sono state la meta d’elezione del commercio di vasi greci figurati. Ad alimentare questo commercio furono, da un lato, le richieste dei committenti locali, e, dall’altro, il dinamismo delle botteghe greche che si erano specializzate nel campo della pittura vascolare: un incontro perfetto, potremmo dire, fra «domanda» e »offerta».
Dall’importazione all’imitazione
in tutta la sua complessità, la visione del mondo dei Greci antichi. Il fatto che la moda di decorare i vasi con immagini complesse abbia attecchito anche in Etruria è il chiaro sintomo di un consonanza culturale fra Grecia ed Etruria e di una condivisione consapevole di valori, in grado di superare le barriere etniche e geografiche. Provocatoriamente si è parlato, a questo proposito, dell’Etruria come di una «provincia» culturale della Grecia, smitizzando cosí l’immagine di una civiltà isolata dal punto di vista storico e culturale. Che tale formula colga o meno nel segno, certo è che Cerveteri e Tarquinia furono, insieme a Vulci, i principali
Anfora etruscocorinzia in tecnica policroma attribuita al Pittore dei Cappi, dalla Tomba 3034 della necropoli dei Monterozzi. Inizi del VI sec. a.C.
Un fenomeno derivato dell’importazione massiccia di ceramica greca fu la nascita in loco di botteghe di imitazione, laboratori artigianali cioè che per le proprie creazioni traevano spunto dagli stili greci contemporanei. A Tarquinia, in particolare, l’arrivo della ceramica protocorinzia e di quella corinzia, nel corso del VII e della prima metà del VI secolo a.C., determinò la nascita di «scuole» locali, che avevano eletto i prodotti di Corinto a proprio modello. Nacquero in questo modo la ceramica «italo-geometrica» e quella «etruscocorinzia». In qualche caso, i centri della Magna Grecia, a cominciare da quelli della Campania (Pithecusa e Cuma), fecero da tramite, come lo fecero del resto per la diffusione della scrittura alfabetica. Dobbiamo pertanto immaginare che l’attività delle botteghe di imitazione fosse stata avviata, almeno in parte, da artigiani greci immigrati in Etruria. A differenza di quella di Corinto, che prediligeva le rappresentazioni animalistiche e quelle geometriche, la ceramica attica e di tipo attico, realizzata prima
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Oinochoe trilobata in bucchero con decorazione a stampo. 550-500 a.C. circa.
con la tecnica delle figure nere e poi con quella delle figure rosse, recava quasi sempre sulle pareti scene popolate di figure umane. Nelle sale del primo piano di Palazzo Vitelleschi, a Tarquinia, sono esposti centinaia di questi vasi figurati importati dalla Grecia, e di fabbrica locale, evidentemente molto apprezzati dalle élites locali. Al momento essi sono raggruppati per area di provenienza (Corinto, Grecia dell’Est, Laconia, ecc.), per produzione, per cronologia e per temi iconografici (mondo di Dioniso, scene erotiche, simposio, giochi atletici, ecc.). Tale logica selettiva non tiene pienamente conto del contesto d’uso originario, ma quest’ultimo verrà meglio spiegato, nel nuovo allestimento, con apparati didattici adeguati alla circostanza. In origine, questi vasi, con le relative immagini, erano assemblati in corredi funerari deposti nelle tombe a camera, con logiche di senso che variavano di volta in volta, ma che sicuramente riflettevano l’uso reale, e l’eventuale riuso, che quegli stessi vasi figurati avevano nella vita quotidiana. Gli studi specialistici stanno rivelando a questo proposito una realtà sorprendente, fatta di predilezione, da parte degli aristocratici tarquiniesi, per alcune forme vascolari attiche (l’anforetta da tavola a profilo continuo e la coppa a due manici), per alcune iconografie e per le produzioni di alcune botteghe anziché altre. Fra queste produzioni, quelle dei cosiddetti «pionieri attici» spiccano per qualità e impegno decorativo.
A portata di mano dei commensali Il medesimo fenomeno è stato osservato a Cerveteri, dove il pittore vascolare preferito era Eufronio. La selezione delle forme è significativa: le anforette vengono spesso riutilizzate nelle tombe tarquiniesi come cinerari. Altrettanto significativo è il repertorio figurativo veicolato da questi vasi, che include scene di simposio, scene di sapore mitologico,
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L’interno di una kylix attica del Pittore di Trittolemo raffigurante una scena di libagione. 490-470 a.C. circa. Nella pagina accanto, in basso particolare dell’esterno di una kylix attica del Pittore di Tarquinia raffigurante un giovane tra due uomini seduti. 460-450 a.C. circa.
scene di vita quotidiana e rituali. Proprio il simposio, come conferma l’immaginario delle tombe dipinte, era il contesto di fruizione principale di queste ceramiche, che dovevano essere disposte a portata di mano dei commensali, su tavole e banchetti allestiti ad hoc. Il kylikeion ricostruito nella sala dei capolavori del museo tarquiniese dà un’idea generale di come poteva presentarsi, nella realtà, lo strumentario del simposio. Gli Etruschi di Cerveteri e Tarquinia adoperavano nella vita quotidiana e deponevano nelle tombe non solo ceramica dipinta di importazione e di imitazione greca, ma anche ceramica inornata, di colore scuro, come il celeberrimo bucchero,
considerato per convenzione la specialità nazionale degli Etruschi. Si tratta sempre di ceramica realizzata al tornio, ma secondo canoni di semplicità ed eleganza ereditati dalla tradizione protostorica, che prediligeva le forme articolate e il fondo scuro. Se presente, la decorazione era incisa oppure realizzata «a stampo». Ogni città etrusca fabbricava il bucchero per i propri fabbisogni e se a Cerveteri va riconosciuto il primato, con Veio, di aver introdotto la tecnica di fabbricazione, nel secondo quarto del VII secolo a.C., a Tarquinia si riscontra una vivace produzione locale arcaica, fortemente caratterizzata nel repertorio formale e decorativo.
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STORIE DI PIETRA: I LASTRONI A SCALA di Orlando Cerasuolo
C
on la definizione lastroni a scala si identifica un gruppo di oggetti tabulari in pietra sui quali è presente un caratteristico motivo a gradini. Esistono diverse varietà: le lastre che mostrano solo i gradini, quelle con motivi geometrici e quelle con complesse decorazioni figurate di matrice orientalizzante (vedi box alle pp. 140-141). Piú del 90% degli oltre cento esemplari noti proviene da Tarquinia, ma sappiamo che oggetti appartenenti a questa classe sono stati trovati anche in altri siti, che evidentemente avevano stretti legami economici e culturali con la città. Per esempio, uno di questi proviene da una tomba di VI secolo a.C. della necropoli di Cava della Scaglia, vicino a Civitavecchia, al confine meridionale del territorio di Tarquinia; quattro esemplari provengono dal settore tardo-orientalizzante della necropoli di Pian Conserva sui Monti della Tolfa, in un’altra area di confine tra Tarquinia e Cerveteri. Altri due esemplari provengono proprio da Cerveteri: furono trovati durante gli scavi di Raniero Mengarelli alla Banditaccia nei pressi del Tumuletto IX (prima metà del VII secolo a.C.) e della Tomba della Cornice (metà del VI secolo a.C.). Infine lastroni a scala, di altre
tipologie e probabilmente differente funzione, provengono da Vulci e Chiusi. I lastroni a scala trovati a Tarquinia sono per lo piú privi dell’indicazione di provenienza e molti di essi sono esposti in musei italiani e stranieri. Nei pochi casi per i quali disponiamo di informazioni di scavo, essi sono stati trovati in relazione al tumulo e all’ingresso della tomba, ma anche come chiusure di fosse o di sarcofagi. I contesti di ritrovamento e, soprattutto, lo stile delle decorazioni permettono di inquadrare il periodo di massimo utilizzo dei lastroni nel corso della prima metà del VI secolo a.C. Ma è possibile riconoscere una duplice tendenza evolutiva e cronologica: da una parte un avvicendamento tra le lastre semplici o con decorazione geometrica (che sembrano iniziare intorno alla metà del VII secolo a.C.) e quelle con decorazione figurata (che si diffondono a partire dal 600 a.C.circa); dall’altra un progressivo accrescimento delle dimensioni. Si possono in effetti individuare diverse classi dimensionali, con larghezze comprese tra i 40 e i 180 cm circa. La collocazione originaria delle lastre è ancora incerta e gli studiosi hanno negli anni proposto varie ipotesi: come sigillatura della porta di
A sinistra lastrone a scala in nenfro con pantere, uccello, ippocampo e grifo, dalla necropoli dei Monterozzi. 600-550 a.C.
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La sala del Museo nella quale sono riuniti i lastroni a scala, per la maggior parte dei quali, purtroppo, si ignora la provenienza.
accesso alla tomba, come chiusura dei soffitti di particolari tipologie di sepolcri, a coronamento superiore del corridoio a scala d’ingresso alla tomba, come elemento della crepidine del tumulo esterno. Poiché alcune lastre presentano una sorta di cornice lungo il lato inferiore o superiore, è verosimile pensare che fossero disposte una sopra l’altra, forse a gruppi di tre. Diverse lastre con cornice inferiore hanno il lato superiore che non è tagliato a 90°, ma con un’inclinazione variabile intorno ai 26°, determinando in facciata un margine piú o meno acuto. Questo elemento non sembra imputabile a tagli e
rilavorazioni secondarie e rimane oggetto di ulteriori ipotesi. In ogni caso, per gli esemplari con margini acuti non sembra possibile la sovrapposizione verticale delle lastre, il cui peso determinerebbe la scheggiatura dei margini nelle superfici di contatto.
Ipotesi a confronto La funzione dei lastroni a scala è ugualmente incerta, oscillando tra quella decorativa e simbolica, l’allusione a elementi decorativi in legno, stoffa o lamina di bronzo, o anche un uso pratico per bloccare l’accesso alla tomba o per raggiungere la sommità del monumento
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EX ORIENTE LUX
N
el periodo orientalizzante il repertorio ornamentale etrusco si apre a nuovi motivi iconografici come figure umane, animali reali e creature ibride, che vanno ad arricchire, tra le varie classi di manufatti, il programma figurativo dei lastroni a scala, attingendo a modelli, tipi e iconografie di chiara ispirazione vicino-orientale. Le diverse aree coinvolte in via diretta o mediata nella trasmissione della loro tradizione culturale e artistica spaziano dall’Anatolia alla regione nord-siriana, che veicola motivi di piú antica tradizione assira e mesopotamica, a quella levantina ed egiziana. Il bestiario presente nulla decorazione figurata illustra un complesso di fiere e di ibridi mitologici, centauri, sfingi, grifi e ippocampi, che popolano l’ambiente liminare, segnando la fascia di confine tra questo mondo e l’altro. Tali creature simboleggiano, nella loro dimensione mitologica, la natura ostile e indomata del mondo selvaggio. Le iconografie di origine straniera si discostano dagli originali, ma non a tal punto da diventare irriconoscibili; le variazioni sul tema non rappresenterebbero, tuttavia, una banalizzazione dell’originale, ma una sua ricezione e un conseguente consapevole adattamento a un diverso contesto culturale.
Tre elementi riassemblati di un lastrone a scala. A oggi, non vi è certezza sulla funzione alla quale questi manufatti erano adibiti.
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Persino la tecnica narrativa adottata per i rilievi affonda le proprie radici nel Vicino Oriente antico: le figure sopra citate sono, infatti, rappresentate racchiuse all’interno di singole metope. La decorazione metopale sembra valorizzare in termini simbolici una determinata immagine che assume il valore di un excerptum collocato all’interno
Particolare della decorazione di un lastrone a scala raffigurante una creatura ibrida, di ispirazione vicino-orientale.
di un tema piú estensivo. Da ciò è possibile desumere che l’iconografia presente sui lastroni a scala rappresenta la sintesi di un’esposizione piú ampia e articolata relativa alle credenze etrusche attinenti al mondo della morte e alla sorte dei defunti, che merita uno studio piú approfondito. Francesco Bordo
funerario. Ciascuna ipotesi ha punti di forza e di debolezza, tanto che ancora oggi non si è giunti a una soluzione condivisa. È molto probabile, anzi, che diverse tipologie di lastre avessero un diverso impiego anche mutato nel corso del tempo. È possibile che alcune delle lastre piú larghe, quelle ricche di decorazioni a bassorilievo e in genere piú tarde, fossero davvero utilizzate come chiusura degli ingressi delle camere funerarie. L’accentuata inclinazione delle pareti di fondo dei corridoi di accesso di molte tombe di Tarquinia potrebbe rappresentare proprio una peculiare soluzione tecnica per garantire una migliore stabilità delle lastre di chiusura degli ingressi. Per i lastroni a scala piú stretti, in genere piú antichi, disadorni o con semplici
motivi geometrici, sembra invece piú convincente ipotizzarne l’impiego come elemento della crepidine dei tumuli. In questo caso le lastre sarebbero state collocate sul fianco dei tumuli e forse la superficie obliqua di contatto tra le lastre avrebbe consentito di metterle in opera seguendo la curvatura della calotta di terra. In due casi, in effetti, una lastra di questo tipo è stata trovata ancora in posto, come parte del tamburo del tumulo di tombe del VI secolo a.C., collocata nella parte opposta all’ingresso. Lastre posizionate in questo modo sono avvicinabili dal punto di vista funzionale alle piú monumentali rampe che troviamo nei tumuli di Cerveteri, Cortona e altrove, utilizzate per accedere alla sommità dei tumuli in occasione di attività rituali funerarie.
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I CAPOLAVORI DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI TARQUINIA di Maria Taloni
N
on potendo qui esaurire la ricchezza e la bellezza dei materiali esposti e lasciandone la scoperta ai lettori attraverso la visita in loco, ci si concentrerà sulla descrizione di alcuni di essi, distribuiti lungo il percorso museale, vari per tipologia di materiale e valenze storico-culturali. Il primo lo si incontra appena entrati nella sala 10 del pianterreno del Museo, dove è esposta la ricca collezione di sarcofagi funerari posti a decorazione delle grandi tombe gentilizie di età ellenistica. Si tratta del cosiddetto sarcofago del Sacerdote che ospita le spoglie di Laris Partunu, capostipite della importante famiglia il cui sepolcro fu rinvenuto nel 1876 nella parte orientale della necropoli dei Monterozzi. La tomba conteneva 15 sarcofagi, per lo piú, in nenfro, a eccezione di tre che spiccavano per materiale e qualità di esecuzione: i due sarcofagi detti dell’Obeso e del Magnate e il sarcofago del Sacerdote. L’ultimo è in marmo pario, di fabbrica greca e destinato
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Nella pagina accanto l’altorilievo raffigurante una coppia di cavalli alati, dal tempio dell’Ara della Regina. IV sec. a.C. In basso particolare del sarcofago del Sacerdote, realizzato per accogliere le spoglie di Laris Partunu, dalla necropoli dei Monterozzi. IV sec. a.C.
all’esportazione, prima per il mercato cartaginese – da dove provengono due sarcofagi quasi identici – e poi per l’Etruria, dove la cassa fu decorata da un artista locale. Il nome Laris, ormai illeggibile, era dipinto in «bello stile» sul coperchio. L’atteggiamento solenne del defunto disteso sul coperchio spiega il nome popolare attribuito da Luigi Dasti, allora sindaco di Tarquinia e scavatore. La cassa è dipinta su tutti e quattro i lati: su entrambi i lati corti e su uno dei lati lunghi sono raffigurate scene di amazzonomachia; mentre sul lato principale è rappresentato, come nella celebre Tomba François di Vulci, l’episodio omerico del sacrificio dei prigionieri troiani da parte di Achille per vendicare la morte dell’amico Patroclo. L’episodio è carico di significato politico e si ricollega alla guerra degli Etruschi contro i Romani del 358 a.C., guidata proprio da Tarquinia, assimilando i Romani ai Troiani perdenti e gli Etruschi ai Greci vincitori: riecheggia infatti il noto
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massacro, ricordato da Livio, che i Tarquiniesi compirono nel Foro della città antica di 307 prigionieri romani catturati dopo la vittoria in uno dei primissimi scontri della guerra che oppose le due città fino al 351 a.C.
Gli dèi in assemblea Salendo al primo piano e arrivando nel bel salone che corrisponde alla sala 7 del percorso museale, si possono ammirare alcuni capolavori della produzione attica a figure rosse. In particolare, deve essere menzionato il capolavoro monumentale della ceramografia attica del tardo arcaismo, tra le prime attestazioni ceramiche a figure rosse, firmato dal ceramista Eussiteo e dal ceramografo Oltos e rinvenuto in una tomba a camera non identificata della necropoli dei Monterozzi insieme alla coppa del pittore di Pedieus: una kylix attica a figure rosse di tipo B, dal diametro di ben 52 cm e dall’altezza di 22,
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A destra la decorazione esterna di una monumentale kylix a figure rosse realizzata da Eussiteo e Oltos, dalla necropoli dei Monterozzi. 525-475 a.C. In basso il sarcofago del Magnate. Metà del IV sec. a.C.
riccamente decorata con una complessa metafora dell’eroizzazione del defunto. All’esterno della coppa, da un lato, è raffigurata l’assemblea degli dèi (theôn agorà), raccolta intorno a Zeus che si prepara a offrire in libagione una coppa a Ganimede, assunto all’Olimpo; dall’altro, è rappresentata la partenza di Dioniso su un carro accompagnato dal suo thiasos; mentre nel tondo interno centrale si vede un guerriero in abiti orientali.
Sotto il piede è incisa in etrusco una dedica di dono ai Dioscuri indicati come tinas cliniiaras, «figli di Tina» (Zeus), protettori dei giovani e delle attività tipiche dell’aristocrazia come l’atletismo e l’equitazione, a cui si allude anche nella coppa del pittore di Pedieus. La funzione simbolica e rituale è confermata dalle dimensioni, dalla consacrazione ai Dioscuri e dall’epifania divina di Zeus e di Dioniso; mentre la dedica ai Dioscuri testimonia la precocità della diffusione in Etruria del loro culto e la profonda conoscenza da parte della ricca committenza etrusca della mitologia e della religione greca, richiamata anche dalla kylix con Ilioupersis (la caduta di Ilio, cioè Troia) da Cerveteri di Eufronio e Onesimo con dedica etrusca a Hercle graffita sotto il piede.
Il simbolo della città Ritornando dalla sala dei capolavori verso il loggiato, prima di scendere le scale, sulla destra si possono ammirare, prima di scorcio e poi, entrando nella sala 9, i celebri Cavalli Alati, capolavoro della coroplastica etrusca e simbolo della città di Tarquinia scelto a emblema dalle Poste Italiane per tre serie di francobolli che il Parco intende a breve replicare. Si tratta di una lastra fittile scoperta nel settembre del 1938 da Pietro Romanelli, decorata ad altorilievo con una coppia di cavalli
La sala al pianterreno di Palazzo Vitelleschi nella quale è esposta la collezione dei sarcofagi.
alati fermi o al passo in cui si ammira tutta la plasticità e la forza espressiva della coroplastica etrusca. Riccamente bardati, gli animali erano aggiogati a una biga forse guidata da un auriga in posizione stante, di cui resta solo il timone e che doveva essere rappresentata su una seconda lastra, purtroppo perduta. È anche impossibile ipotizzare chi fosse il o i personaggi sulla biga: per dirla con le parole dello scopritore «sarebbe invero proprio e null’altro che un lasciarsi trascinare da una fantasia, anch’essa veloce e ardita come un pégaso». Tuttavia, il fatto che i cavalli siano aggiogati al collo ne dimostra la natura etruscoitalica; inoltre, i grossi fori passanti nella bocca di entrambi, subito sotto l’imboccatura del morso, suggeriscono la presenza di perdute finiture metalliche, in bronzo forse, secondo un uso ben testimoniato in Grecia, anche nel Partenone. Altro elemento che presuppone modelli in bronzo è la minuziosa resa dei particolari nella terracotta, del tutto identici a quelli del gruppo mutilo in bronzo della biga di Diana dal santuario etrusco di Sillene, nel museo di Chianciano. L’altorilievo decorava e proteggeva la testata di uno dei grandi travi del frontone del monumentale tempio dell’Ara della Regina, nella sua fase costruttiva risalente agli inizi del IV secolo a.C., eretto, in posizione dominante, sul pianoro della Civita.
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IL GRUPPO STATUARIO DI MITRA
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el 2014 la Soprintendenza archeologica, sotto la direzione di Gabriella Scapaticci, avviò lo scavo di quella che, da allora, è chiamata «Domus del Mitreo», sulla parte nord del Poggio della Civita, a 300 m circa dall’Ara della Regina.Qui uno scavatore clandestino aveva trafugato una statua marmorea di Mitra, che poi il Comando Carabinieri per la Protezione del Patrimonio Culturale aveva recuperato e che ora è esposta al Museo Nazionale. Lo scavo mise in luce due cortili dotati di pozzi e alcune aree pavimentate. L’anno seguente il soprintendente Alfonsina Russo affidò a chi scrive il compito di continuare lo scavo. La statua di Mitra è risultata essere stata trovata su strati posteriori al V secolo d.C. e dunque in giacitura secondaria, forse ributtata nel corso di lavori per creare o rifare la strada. Era priva della testa, ma sostanzialmente ben conservata e la Soprintendenza ha recuperato anche il cane che lecca il sangue del toro, che è stato integrato. Il culto del dio Mitra, venerato in Persia e in India, si diffuse in Anatolia a seguito della conquista persiana, e, dal I secolo d.C., anche nell’impero romano. Qui assunse un carattere misterico, articolato in
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sette gradi iniziatici. I mitrei, chiusi al pubblico, erano resi simili a grotte, sui cui lati erano creati banconi per ospitare i banchetti rituali. Sulla parete di fondo della sala di culto si trovava una statua, un bassorilievo o un affresco raffigurante Mitra, in abito persiano, che sacrifica un toro. Questa scena simboleggia la vittoria ed è collegata all’ideologia imperiale. Una serie di animali collabora col dio nel trionfo sul toro: un cane, un serpente e uno scorpione. Talora compaiono anche altri simboli che potrebbero richiamare, nel loro insieme, una serie di costellazioni dell’emisfero settentrionale del cielo. Spesso ricorrono scene laterali, che celebrano le
Il gruppo scultoreo raffigurante il dio Mitra che uccide il toro rinvenuto sul Poggio della Civita. Prima metà del II sec. d.C.
Ortofoto dell’area indagata da una missione dell’Università di Verona, nei pressi del luogo in cui fu recuperato il gruppo di Mitra.
vicende terrene del dio: la nascita, la creazione dell’età dell’oro, la trasmissione dei poteri al dio Sole e l’apoteosi finale, sul carro del Sole che sale in cielo, un po’ come nell’apoteosi degli imperatori. Anche a Vulci e a Veio sono stati trovati gruppi scultorei mitraici in tempi recenti, tutti di alto livello artistico. Nel Lazio, personaggi di spicco investirono nelle loro città per fondare e allestire mitrei, ottenendo certamente prestigio, sia localmente che nel quadro dell’impero. Il gruppo rinvenuto a Tarquinia si colloca nella prima metà del II secolo d.C., piú o meno al tempo di Adriano e Antonino Pio, un momento di fioritura per Tarquinia, quando sorsero anche nuove terme. Dal 2016 al 2022 si sono succedute campagne di scavo dell’Università di Verona che hanno messo in luce un vasto complesso produttivo, dotato di un solo piccolo triclinio,
una serie di cortili sul lato sud e molti ambienti verso nord, dei quali alcuni evidentemente adibiti a lavorazioni, specialmente di oggetti in ferro, e al commercio. Sono stati rinvenuti molti pesi, mortai e tavolette di marmo per impastare medicinali o cosmetici, numerosi oggetti in osso, nonché scorie di ferro, magazzini e impianti per convogliare e conservare l’acqua. Una fase edilizia fondamentale di questo complesso risale al II secolo d.C. e la sua vita si protrasse fino al VII secolo d.C. Lo scavo non ha messo in luce l’intera area del complesso, che si estende anche sotto l’attuale strada sterrata. Vi era anche una fontana dotata di una riserva d’acqua celata all’interno dei muri perimetrali. Il ritrovamento di un frammento di macina per il pane suggerisce che questa zona di Tarquinia accogliesse un quartiere produttivo e artigianale, vicino alle mura, dotato anche di botteghe lungo l’asse viario principale est-ovest. Il mitreo non è stato ancora trovato, ma si può supporre che non fosse lontano. Di certo nei paraggi dovettero sorgere complessi edilizi di alto livello, come indicano le prospezioni geofisiche dell’Università di Verona e il rinvenimento di un raffinatissimo intarsio marmoreo, che proviene da questa zona. Attilio Mastrocinque
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IL LAPIDARIO di Nicola Dibiase
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el cortile del Museo Archeologico Nazionale trova spazio una selezione dei numerosi manufatti con iscrizioni latine della Tarquinia di epoca romana. Are, cippi, stele e basi di statua databili tra l’età augustea e il III secolo d.C. con epigrafi di varia tipologia: sepolcrale, onoraria, sacra. Provengono dalla Civita, l’abitato antico di Tarquinia, dalle necropoli e da Gravisca, antico
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emporion, vitale porto di Tarquinia fino al III secolo, poi colonia romana dal 181 a.C. Queste epigrafi sono giunte a noi attraverso i secoli in vario modo. Molte facevano parte delle grandi collezioni di notabili e possidenti locali, i Falzacappa, i Marzi e, primi fra tutti, i Bruschi-Falgari, che già dal Settecento si interessarono di cose antiche provenienti dalle loro tenute. Collezioni che andranno a costituire
Il cortile di Palazzo Vitelleschi, adibito a lapidario del Museo.
nel 1913, insieme a quella comunale, il nucleo principale e piú antico del Museo. Si tratta, a volte, di manufatti riutilizzati per uno scopo diverso da quello originario, come nel caso dell’acquasantiera proveniente dalla chiesa tarquiniese di S. Marco; vista e documentata già alla metà del Quattrocento dall’umanista Bartolomeo della Fonte. Sulla fronte di questo piccolo parallelepipedo di marmo, decorato con colonnette ai lati, leggiamo la dedica funeraria di Terentia Gemina a Publio Aelio Proculo; si tratta infatti di un’ara-ossario, databile tra l’età adrianea e la fine del III secolo d.C. Composta di due parti, quella superiore non ci è pervenuta. Quella inferiore, incavata, ospitava i resti del defunto. La trasformazione del monumento sepolcrale in
acquasantiera ha garantito la sopravvivenza, parziale, del manufatto e dell’epigrafe. Altre provengono dagli scavi condotti con metodo scientifico nel XX secolo, quindi studiate nel contesto di rinvenimento, in un rapporto complementare tra dato topografico, archeologico e contenuto testuale.
Scene da un sacrificio Nella prima campagna di scavi condotta a Gravisca, nel 1969, venne rinvenuta un’ara votiva di età augustea, finemente lavorata e decorata con elementi e figure relativi all’espletamento del rito sacrificale: focus tra due pulvini nella parte alta, decorazione con scena di sacrificio, in cui vediamo raffigurati lo stesso tipo di altare su cui arde il fuoco
A destra l’ara-ossario sulla quale si legge la dedica di Terentia Gemina a Publio Aelio Proculo, riutilizzata come acquasantiera per la chiesa di S. Marco.
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sacrificale, e il momento della immolatio. Rinvenuta negli strati tardo-antichi del V-VI secolo d.C., in evidente contesto di reimpiego, un’iscrizione, sebbene scalpellata, ci restituisce i nomi di due magistrati locali: Publius Valerius Rufus e Titus Lucilius Priscus. Questi preziosi documenti forniscono i nomi degli esponenti delle famiglie della nobiltà municipale, le cariche ricoperte, danno informazioni riguardo le loro attività e in poche, sintetiche righe, raccontano le loro storie. In una stele di nenfro ritrovata nel 1877 sulla Civita, leggiamo l’atto di evergetismo del magistrato Gaius Vetilius, che sua pecunia («a proprie spese»), finanziò la costruzione e l’ampliamento di una strada. Di questo personaggio, vissuto nei primi decenni del I secolo, ci è pervenuto anche il sarcofago, sul quale compaiono nome e carica magistratuale. Ne ricaviamo lo spaccato di una società ormai del tutto romanizzata: la lingua etrusca nel I secolo non è piú parlata, prevalgono nettamente i gentilizi latini, pur sopravvivendo famiglie dell’antica aristocrazia come i Caesennii e gli Spurinna. Tuttavia, alcune epigrafi ci riportano l’eco del passato etrusco. Nel 1871 nei pressi della necropoli dei Monterozzi venne ritrovato un cippo recante l’epigrafe sepolcrale di Lucius Sevius Clemens, titolato come aruspice appartenente all’Ordo haruspicum sexaginta. Fu inoltre magistrato e responsabile del tesoro municipale. Ancora in epoca tardo-repubblicana e imperiale, Roma si dimostra legata e interessata alla cultura etrusca, in particolar modo agli aspetti religiosi relativi all’Etrusca disciplina, la scienza detenuta dagli aruspici, capaci di interpretare i segni divini traendone auspicia. Secondo la leggenda, proprio a Tarquinia il fanciullo divino Tagete rivelò a Tarconte, eroe fondatore, la disciplina, poi tramandata attraverso i libri sacri. E sempre a Tarquinia doveva avere sede il «Collegium dei 60 aruspici», ordine istituito durante la tarda repubblica per conservare questo antico sapere insegnandolo ai figli degli aristocratici etruschi.
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A sinistra cippo sul quale si legge l’epigrafe sepolcrale di Lucius Sevius Clemens, che appartenne all’Ordo haruspicum sexaginta. In basso ara con scena di sacrificio. dagli scavi di Gravisca.
GLI ELOGIA DEGLI SPURINNAE
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li Elogia Tarquiniensia, di nuovo esposti nella sala 8 del primo piano del Museo in occasione del Seminario di studi in ricordo di Mauro Cristofani e Mario Torelli «Cerveteri, Roma e Tarquinia» (25-27 gennaio 2023), sono epigrafi celebrative in latino incise su lastre di marmo lunense in età giulio-claudia (I secolo d.C.). I testi superstiti riportano un estratto biografico degli archivi dell’importante famiglia degli Spurinna, redatti secondo le regole codificate degli elogia latini. Queste brevi biografie, purtroppo molto lacunose e perciò di varia e controversa interpretazione sia epigrafica, sia storica, erano destinate a fornire allo spettatore l’identità di tre statue, perdute, erette all’inizio dell’età imperiale per celebrare gli antenati (pretesi) di una famiglia senatoria romana di fresca nomina, quella dei Vestricii Spurinnae nel luogo piú augusto della città, il grandioso tempio poliadico di Tarquinia
Lastra frammentaria in marmo lunense, con testo elogiativo di Velthur Spurinna inciso in latino, dal centro urbano antico di Tarquinia. I sec. d.C. In basso l’allestimento degli Elogia Tarquiniensia nella sala 8 del Museo.
dell’Ara della Regina, dove si concentravano le memorie religiose piú importanti della città e, per aspetti particolari come l’aruspicina, dell’intera nazione etrusca. La genealogia comprende tre personaggi storici: Velthur Spurinna Lartis f(ilius), il figlio di questi, Velthur Spurinna Velthuris f(ilius), e il nipote (o il secondogenito), Aulus Spurinna
Velthuris f(ilius). Secondo l’opinione corrente, Velthur I sarebbe il capostipite della gens e avrebbe guidato una spedizione militare etrusca in Sicilia, forse quella ateniese del 415 a.C. contro Siracusa, riportata da Tucidide nelle Storie. Secondo altre ipotesi, l’impresa siciliana di Velthur sarebbe antecedente. Le gesta di Velthur II, figlio di Velthur I, invece, sono sconosciute per la lacunosità dell’epigrafe. Infine, Aulus Spurinna, figlio di Velthur II e nipote di Velthur I (o secondogenito di Velthur I) è ricordato per le imprese militari a Caere, Arezzo e nel Latium Vetus. Il nome della famiglia ricorre anche nella necropoli dei Monterozzi di Tarquinia, con certezza nella tomba arcaica dei Tori; piú incerta appare la suggestiva relazione con la Tomba dell’Orco, che ha un importante apparato iconografico ed epigrafico ancora oggetto di discussione. Maria Taloni
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IL SANTUARIO EMPORICO DI GRAVISCA di Lucio Fiorini
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l tratto del litorale tarquiniese che dalla foce del Mignone arriva fino alla a quella del torrente Arrone, appare oggi molto diverso da come doveva apparire ancora durante il secondo conflitto mondiale, quando le foto aeree scattate dalla RAF ritraevano una costa libera da abitazioni, con zone umide e acquitrinose. Anche le antiche lagune costiere interne, ancora ben rappresentate nella cartografia storica almeno fino all’inizio del XIX secolo, sono state quasi del tutto prosciugate, fatta eccezione per la vasta area delle saline ottocentesche, oggi parco di ripopolamento dell’avifauna. Queste lagune hanno da sempre rappresentato una zona strategica e di interesse economico, tanto da attirare sin dall’età villanoviana uno stanziamento di circa 60 ettari di estensione, la cui principale risorsa economica doveva essere fondata sullo sfruttamento dell’importante risorsa del sale, di quelle ittiche, oltre che sul controllo delle attività marinare, rese possibili dalla verosimile presenza di piú scali marittimi. In uno di questi bacini interni, in un porto ben riparato dal mare aperto e in cui era facile accedere a rifornimenti d’acqua, grazie alla presenza di una ricca falda sotterranea, approdarono agli inizi del VI secolo a.C. genti provenienti dalla città greca di Focea, situata a nord della Ionia (nell’attuale penisola anatolica) per fondare un santuario dedicato alla propria divinità poliade, Afrodite.
Fase I: 580 a.C.
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Foto aerea dell’area sacra di Gravisca. Sullo sfondo le Saline tarquiniesi, dove annualmente si svolgono le campagne di scavo dirette da Lucio Fiorini (Dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale dell’Università degli Studi di Perugia). In basso piante che mostrano lo sviluppo dell’area sacra di Gravisca nel corso dell’età arcaica.
Fase II: 550 a.C.
Fase III: 530/520 a.C.
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Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la scoperta da parte di Mario Torelli di questa importante area sacra ha rappresentato una tappa di grande rilevanza nello studio delle dinamiche economiche che hanno animato gli scambi commerciali nel Tirreno in età arcaica, testimoniando per la prima volta a livello archeologico l’apertura in suolo etrusco di un emporion greco, un vero e proprio porto franco, rispondente a un modello di interscambio noto dalle fonti e che fino a quel momento si pensava attuato unicamente presso il porto di Naukratis in Egitto. Sorta in un’area marginale del territorio tarquiniese, questa fondazione doveva essere funzionale da un lato allo svolgimento di attività di scambio in condizioni di sicurezza per la presenza di divinità che facevano da garanti; dall’altro come luogo per l’offerta di doni che, recati via via nel corso del tempo dai suoi frequentatori, venivano a formare un tesoro collettivo al servizio della società accogliente.
A ciascuno la sua dea Nel 590 a.C., dunque, i dati stratigrafici documentano la costruzione di un piccolo sacello ad Afrodite (l’etrusca Turan), insieme all’offerta di veri e propri doni inaugurali, fra i quali figurava, come immagine di culto, una statuetta bronzea di Afrodite armata di scudo e lancia. Il 550 a.C. vede l’arrivo di mercanti provenienti invece dall’isola di Samo, a cui si deve la costruzione di un nuovo edificio sacro destinato alla celebrazione del culto della loro divinità, Hera (l’etrusca Uni). Questa venerazione rivolta alle due dee doveva rispondere alle medesime spinte integrative tra Greci e indigeni tramite l’attuazione di opposte sfere di influenza. Infatti, se Afrodite rappresentava la dea dell’amore e della fecondità, al cui dominio erano sottomesse non solo le stirpi mortali, ma anche gli dèi dell’Olimpo, spettava invece a Hera la tutela della legittimità matrimoniale e dei vincoli stipulati tra la popolazione locale e gli elementi allogeni, in primo luogo i Greci. Associato al
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Ricostruzione grafica dell’edificio adibito al culto del giovane eroe Adone, cosí come doveva presentarsi alla fine del V sec. a.C.
culto di Afrodite, inoltre, almeno dalla metà del VI secolo a.C., doveva figurare quello del giovane eroe Adone, il cui edificio sacro ancora oggi ben conservato (ricostruzione della fine del V secolo a.C. dopo tre precedenti fasi costruttive), rappresenta un monumento di eccezionale importanza, unico per completezza in tutto il Mediterraneo occidentale. Le feste a lui dedicate, celebrate il 23 di luglio nei giorni della Canicola, all’inizio dell’anno eliaco, dovevano svolgersi nella forma di una vera e propria rappresentazione sacra, in cui venivano raccontati, in un’alternanza di gioia, esaltazione orgiastica e lutto straziante, i vari momenti della vicenda del giovane dio. Protagoniste della festa erano le ierodule, le prostitute sacre a cui era destinato il santuario di Afrodite, della quale l’epiteto stesso, Pandemos, da «pandemein» ossia dal «concedersi a tutti», ben rivela la presenza di una pratica sacra che, ricordata dalle fonti antiche a Babilonia e in altri luoghi dell’Oriente greco, grazie alle testimonianze archeologiche ed epigrafiche di Gravisca è stato possibile riconoscere in altri siti sia etruschi, che magno-greci. Abbondanti quantità di manufatti provenienti da vari centri del Mediterraneo – vino, profumi, stoffe – vennero sbarcate e vendute per tutto il
periodo arcaico sotto la protezione delle divinità del santuario, per poi raggiungere Tarquinia e il suo territorio. Una nuova ricostruzione degli edifici sacri si data intorno al 530 a.C. ed è legata alla predominante presenza di mercanti provenienti dall’Attica, tra cui Sostrato di Egina, da identificare forse con il ricco personaggio ricordato da Erodoto per le sue straordinarie ricchezze (IV, 152), che a Gravisca dedica ad Apollo Egineta un grande ceppo di ancora in marmo. Intorno all’ultimo ventennio del VI secolo a.C., proprio a seguito del successo del mercato greco-orientale e dei ricchi scambi che lí avevano luogo, vennero probabilmente a impiantarsi, poco a N/O della piú antica area del santuario greco-orientale, due nuovi spazi sacri. Sorti per iniziativa etrusca, divennero ben presto il luogo riferimento cultuale anche per una corrente di mercanti di origine siceliota, attivi a Gravisca fino all’ultimo ventennio del V secolo a.C. Le due nuove aree sacre, costituite da ampi recinti incentrati su due altari monumentali, erano dedicate a Suri e a Cavatha, divinità rilette nell’interpretatio greca come Apollo con valenze infere e come Persefone. Insieme a quest’ultimo culto è attestato, almeno a partire dalla fine del VI secolo a.C., anche quello di Demetra/Vei, come mostrano i dati archeologici e alcune iscrizioni incise sulla ceramica attica.
Il declino La fine del santuario emporico si data al 480 a.C., come conseguenza dell’applicazione, da parte dell’oligarchia etrusca, di restrizioni sui meccanismi di scambio attivi in età arcaica e tardo-arcaica, tendenti a proibire ogni forma di residenza temporanea al fine di controllare direttamente la rischiosa realtà mercantile e di danneggiare in modo definitivo il ceto intermedio e subalterno che, prosperato su di essa, da sempre aveva rappresentato una
Statuetta bronzea di Afrodite armata e protome di grifo appartenente a un calderone bronzeo, entrambi dedicati al momento della fondazione del santuario emporico di Gravisca nel 590 a.C.
fonte di pericolo in quanto sostegno principale di devianze tiranniche. Con il venire meno della vocazione emporica e con il trasferimento del mercato nello spazio dell’agorà di Tarquinia, si assisterà a Gravisca a una totale trasformazione che, iniziata in questa fase, avrà il suo esito definitivo solo alla fine del V secolo a.C. Si tratta di una vera e propria rifondazione, sia dal punto di vista urbanistico (tutti gli edifici sacri sono ricostruiti ex novo), sia da quello cultuale, come dimostra il regime delle offerte, che appare ormai legato a un universo religioso di impronta del tutto etrusco-italica.
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LE GRANDI FAMIGLIE DI TARQUINIA di Valentina Belfiore
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n’idea dei nomi familiari che raggiungono i piú alti livelli nella società tarquiniese è data dalle numerose iscrizioni funerarie che commemorano il defunto, all’interno di ricche tombe utilizzate per generazioni oppure su sarcofagi decorati che ricordano la genealogia del proprietario e spesso le cariche rivestite in vita, secondo uno stile affine ai cursus honorum latini. A Tarquinia questo genere epigrafico è ben attestato dal IV secolo a.C. e consente di ricostruire l’esistenza di una vasta rete di legami tra diverse famiglie dell’aristocrazia cittadina e di altri centri, ottenuti per via matrimoniale (Anina e Velcha(s); Cuclnie e Partunu; Cuclnie e Spurinas; Murina e Camna o Murina e Curuna; Palazu e Felsna), secondo una pratica diffusa in Etruria, per rinsaldare non solo i vincoli, ma anche la presenza e il controllo sul territorio. Per le fasi precedenti, sebbene ben documentate – si pensi per esempio alle tombe dipinte restituite da Tarquinia fra VI e V secolo a.C. – i nomi delle famiglie piú in vista sono desumibili da didascalie su pareti di tombe, da iscrizioni di dono, ex voto o da altri raffinati prodotti dell’artigianato che ricordano in qualche modo il committente.
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Una delle famiglie piú note di Tarquinia risponde al nome Spurin(n)a, reso famoso in età romana dagli elogia rinvenuti presso l’Ara della Regina (vedi box a p. 151). Di sicuro è riconducibile a qualche viaggio oltremare la tessera hospitalis a forma di leoncino accovacciato trovata a Roma, nell’area sacra di Sant’Omobono (580-540 a.C.), in cui figurano i nomi dei due contraenti di un obbligo di ospitalità, uno Spurianas e un Silqetenas: quest’ultimo, in base alla formazione del nome, originario di Sulci nella Sardegna fenicio-punica. Gli Spurianas figurano anche come titolari della tarquiniese Tomba dei Tori (530 a.C.), nota per la vivace decorazione pittorica, e si direbbe già annoverata fra le aristocrazie della Tarquinia arcaica. Il gentilizio è ricco di testimonianze in Etruria meridionale: sul finire del VI secolo a.C. uno Spurienas è proprietario di una tomba anche nella necropoli del Crocifisso del Tufo a Orvieto, mentre altre attestazioni del gentilizio risalenti al VI-V secolo a.C. sono note dai piattelli detti appunto Spurinas, da uno dei nomi
Particolare del sarcofago del Magnate, destinato ad accogliere le spoglie di Velthur Partunus.
Riproduzione di una delle pitture della Tomba degli Scudi nella quale sono ritratti Velthur Velcha e sua moglie Ravnthu Aprthnai, tempera su tela. 1900. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.
dipinti che vi appare piú di frequente: simili prodotti conoscono una buona diffusione in centri come Vulci, San Giuliano e Cerveteri.
Una casata eminente Con la gens Spurinas, attestata fino all’età romana, si legheranno nel IV secolo a.C. i Part(i)unus, celebri per i sarcofagi del Magnate e del Sacerdote, disposti con altri sarcofagi in nenfro e in marmo di notevole livello in una tomba a camera altrimenti disadorna. Nella tomba familiare è infatti accolto uno Spurinas figlio di prime nozze di una Cuclnai, in seguito unita in matrimonio con un Partunus. Il rango di questa gens, oltre a essere sottolineato dai sarcofagi, è confermato dalla carica rivestita da Velthur Partunus, il «Magnate», verosimilmente corrispondente alla massima carica allora prevista. Oltre a Velthur Partunus, sono altrimenti ricordati in tale veste Larth Velcha, titolare dell’altrettanto celebre Tomba degli Scudi (V-IV secolo a.C.), e l’ignoto proprietario della Tomba del Convegno. Con gli Spurinas di età ellenistica si imparentano anche i Cilni, originari dell’Aretino, come attesta un’iscrizione nota da fonte manoscritta e attribuita a una tomba tarquiniese del IV-III secolo a.C., in cui una Larti Cilnei ricorda di essere stata moglie per 14 anni di un Arnth Spurinis.
Fra le attestazioni indirette del fasto raggiunto da importanti famiglie tarquiniesi ancora in età arcaica va ricordata la coppa realizzata da Eussiteo (ceramista) e Oltos (pittore), con dedica in etrusco ai Dioscuri da parte di un Venel Atelinas e restituita da una tomba nell’area del Cimitero, dunque in funzione di dedica funeraria. Conferma indiretta del risalto di questa gens è un altro documento di dedica, questa volta dal santuario di Pyrgi, rappresentato da una complessa e purtroppo frammentaria iscrizione su una lamina di bronzo riposta insieme alle famose lamine auree, nel quale il nome familiare, nella forma [a]talenas, atalin[, qualifica forse un tipo di culto gentilizio rivolto a Tinia. Fino a quando le maglie del tessuto sociale non sono state cosí consolidate da impedire l’emergere di figure esterne, probabilmente fino al V secolo a.C., è lecito pensare che a Tarquinia si siano affermati membri di famiglie provenienti anche da altre città. Sono immaginabili, per esempio, apporti di gentes volsiniesi come gli Alvethna, in relazione con gli Alvethna tarquiniesi (anch’essi legati per via matrimoniale ai Velcha della Tomba degli Scudi) e, forse, con la piú tarda famiglia degli Alethna, nota per aver fornito magistrati a Tarquinia e Musarna e aver monumentalizzato quest’ultima
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necropoli. È ora volsiniese anche la piú antica attestazione del gentilizio Pinies, altrimenti noto come nome dei titolari della Tomba Giglioli (IV-III secolo a.C.), con ricco apparato decorativo e iscrizioni che ricordano la carriera politica dei suoi membri. Possiamo immaginare che fra l’età arcaica e la prima età ellenistica si siano affermati a Tarquinia anche gli Ursumunies, già noti a Chiusi nel V secolo a.C. e in seguito documentati a Tarquinia dall’iscrizione di un magistrato (Ursmnas). Un’importante eco del rilievo di questa gens anche in età giulioclaudia è data, indirettamente, dall’attestazione di un culto a Uni *Ursmnei nel calendario rituale del liber linteus.
Il rapporto con Roma La Tarquinia di età arcaica non appare solo come polo attrattore per famiglie rampanti, ma fornisce anche valorosi capi e combattenti all’esterno: sappiamo dalla tradizione sulle vicende della fase monarchica di Roma che non solo i Tarquini (Prisco e il Superbo) raggiungono la posizione di re nella città, ma anche che gli stessi sono direttamente collegati con la trasmissione delle insegne del potere a Roma. Il complesso intreccio con i destini di Roma è evidente anche dalle importanti raffigurazioni della Tomba François di Vulci, attribuite alla fase del regno di Servio Tullio, in cui figura anche uno Cneve Tarchunie Rumach (Gneo Tarquinio di Roma) in combattimento con un Marce Camitlnas. Diversi nomi familiari continueranno a ricordare l’origine tarquiniese della gens in centri diversi da Tarquinia (si pensi ai Tarchvetena di Volsinii o ai Tarchna/ Tarcna/ Tarquitii di Cerveteri). Dopo una contrazione generalizzata nella documentazione del tardo V secolo a.C., tanto archeologica quanto epigrafica, in età ellenistica sono documentate numerose tombe di famiglia concentrate nell’area di Monterozzi. Per considerare solo le piú famose, è il caso di ricordare i Velcha, titolari
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Iscrizione etrusca sul piede della kylix attica del pittore Oltos. 510-500 a.C. Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia.
della Tomba degli Scudi, dalle cui fila emergono rappresentanti della vita politica tarquiniese (Larth e Velthur Velcha) nei decenni centrali del IV secolo a.C. Un Arnth Velcha è anche ricordato nella Tomba dell’Orco I di Tarquinia, altrimenti attribuita ai Murina. Probabilmente un altro membro di questa gens è riconoscibile nella Tomba del Convegno. Dal IV secolo a.C. esplode (a livello epigrafico) il fenomeno delle magistrature. I magistrati sono quasi sempre membri di famiglie aristocratiche della Tarquinia ellenistica. Gli stessi cursus honorum sono in larga misura concentrati a Tarquinia piuttosto che altrove, sebbene il fenomeno sia legato alla particolare cultura epigrafica sviluppata in questo centro. La gens Curuna è attestata da vari settori delle necropoli di Tarquinia: una tomba familiare è commissionata ai Primi Archi di Tarquinia da un Sethre Curuna, che fu zilath fra IV e III secolo a.C.; altre sono note a Villa Tarantola, Ripagretta, ma anche nella zona di Tuscania, culturalmente dipendente da quest’ultima. La stessa necropoli di questa città fu monumentalizzata dai Curuna, gens che doveva essere tra le piú in vista, proprio in virtú dei legami con l’area tarquiniese. Anche altri
esponenti della stessa famiglia sono ricordati come magistrati (un Larth Curuna fu maru nella *spura), ma a ricoprire cariche sono solo i membri tarquiniesi della gens. La gens Murina è nota dal complesso della Tomba dell’Orco, dalla tomba 5203 in terreno Maggi a Tarquinia, oltre che a Orvieto, Crocifisso del Tufo, a Bolsena, Poggio Sala. La Tomba dell’Orco è datata nel suo primo impianto ai decenni iniziali del IV secolo a.C. e dal III, quando venne ricavato l’Orco III, che metteva in collegamento l’Orco I con l’Orco II, con sicurezza assegnata ai Murina. La gens Murina risulta fra l’altro imparentata con i Velcha della Tomba degli Scudi e con i C[am]na o C[uru]na nel III secolo a.C.
L’orgoglio per le origini greche Sin dal IV secolo a.C. l’artigianato tarquiniese conosce anche una produzione di sarcofagi raffinati, che superano per importanza la tomba stessa, come quelli già ricordati dei Partunu o lo straordinario sarcofago delle Amazzoni che raccoglie le spoglie di una Ramtha Huzcnai, nonna (?) di un Larth Apaiatru. Votate all’esibizione del lusso sono sia la forma che la lunga iscrizione celebrativa del sarcofago di Laris Pulenas della metà del III secolo a.C. (il sarcofago detto «del Magistrato», posto nel sepolcro di famiglia ai Secondi Archi). L’importanza riposta sulla genealogia familiare è evidente dalla quantità di sarcofagi ospitati in questa come in altre tombe (21, solo 5 dei quali iscritti), oltre che dall’iscrizione del fondatore della tomba, che fra i suoi avi ricorda un Laris Pule Creice, forse come motivo di vanto per l’ascesa sociale di un individuo di origine straniera o piuttosto di orgoglio per le proprie origini greche. I rapporti con le gentes del territorio chiusino e settentrionale durante l’età ellenistica sono desumibili per i Cutna/Cuthna, altrimenti poco noti a Tarquinia, per i quali si suppongono un’origine chiusina e una presenza anche nell’area di Vulci, ma di certo di qualche importanza, se un personaggio con questo
Il ritratto di Velia Velcha nella Tomba dell’Orco. IV sec. a.C.
nome è in grado di assumere a Tarquinia la carica di zilath. Anche il gentilizio Clevsinas, «il Chiusino», figura in un complesso testo su lamina del bronzo di III-II secolo a.C. dalla Civita di Tarquinia e ne rappresenta verosimilmente il committente. Un Sentinas tarquiniese richiama ancora una relazione con i numerosi Sentinate, Sentna, Senti, Sente e altre varianti del nome evocativo della battaglia del Sentino; anche i Paprsina della Tomba 5035 di Tarquinia (inizi del III secolo a.C.) figurano pochi decenni dopo come magistrati in iscrizioni confinarie nel territorio di Fiesole. Numerose famiglie, come i Ceisinie, note dal IV secolo a.C., perdurano mediante legami familiari fino all’età romana e imperiale (Caesennii con vari rami familiari). Con le famiglie dei Caesinie/Caesennii, Anina, e Cutna risultano imparentati anche gli Scurna/Scornia della Tomba 1231 del Calvario (I secolo a.C.). Grazie alle sole formule contenenti nomi di magistrati è possibile ricordare fra gli altri anche gli Hulchnie, menzionati nella stessa Tomba dell’Orco I, di cui non conosciamo tombe familiari, ma che riemergono a Musarna, ancora come magistrati in un’iscrizione musiva del I secolo a.C.
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LA SOCIETÀ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA (S.T.A.S.) di Alessandra Sileoni
I
l 18 febbraio 1917, a un anno dal suo arrivo a Corneto Tarquinia, Giuseppe Cultrera chiamato a istituire il Museo Etrusco Tarquiniese, sede dell’associazione fino al termine del suo incarico, riesce a fondare la Società Tarquiniense d’Arte e Storia con l’appoggio di alcuni cittadini eminenti, un gruppo di «amici dei monumenti» tramite cui estendere l’azione di salvaguardia sui beni artistici e architettonici della cittadina. Dal 1973 Ente Morale per decreto del Presidente della Repubblica, il sodalizio tarquiniese compare tra le Società culturali e di Storia Patria riconosciute dal Ministero della Cultura ed è inserito nell’albo delle Associazioni culturali della Regione Lazio. Oggi conta oltre 350 tra Soci onorari, Soci sostenitori e Soci ordinari; sette presidenti si sono avvicendati alla sua guida. Il Palazzo dei Priori, edificio saliente nel contesto urbano tra Medioevo e Rinascimento (XIII-XIV secolo), sede sociale per donazione della famiglia Sacchetti, custodisce una ricca biblioteca e inestimabili fondi d’archivio, in cui sono preservati i documenti delle famiglie Falzacappa, Quaglia e Bruschi Falgari; i protocolli del notaio Tomaso di Leonardo del Cinquecento; registri parrocchiali del Seicento; cronache tra cui quelle cornetane di Mutio Polidori del 1659; le memorie dei processi per i moti del 1848/49 in Corneto.
Un riconoscimento prestigioso Nel 1979 ha istituito, inoltre, il Centro Studi Cardarelliani, nel quale sono confluiti i carteggi e la corrispondenza del poeta Vincenzo Cardarelli. Nel 2013, il lavoro portato avanti per la conservazione della documentazione d’archivio, possibile con il supporto dell’Università degli Studi della Tuscia e del Laboratorio Polimaterico dei Musei Vaticani, è valso alla S.T.A.S. l’assegnazione dell’Italian Heritage Award, Premio Internazionale per la Valorizzazione dei Beni Culturali. La stessa sede accoglie il Museo della Ceramica, allestito nel 2011 grazie alla
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collaborazione con l’allora Soprintendenza per l’Etruria Meridionale, all’interno di due sale che si affacciano su via delle Torri, una delle strade piú caratteristiche del centro storico. Nel museo sono esposti i reperti rinvenuti nei «butti» del palazzo stesso e i materiali ceramici della collezione Cultrera, indiziari dei rapporti socio-economici nonché politici che la città strinse tra XII e XVIII secolo.
Tarquinia, città della ceramica Alla soglia dei cento anni dalla fondazione, un cospicuo lascito di volumi d’arte moderna e contemporanea, appartenuti al critico Luciano Marziano, ha sancito ancora una volta l’impegno dell’associazione in ambito culturale, avviando con l’istituzione dei «Premi d’arte Città di Tarquinia», un nuovo iter volto alla promozione della scultura ceramica contemporanea, quale pratica in perenne sviluppo e che sul posto affonda le sue radici in tecniche artigianali antiche, delle quali uno straordinario patrimonio archeologico rimane testimonianza. La S.T.A.S. svolge una vasta attività di ricerca, che si concretizza in convegni e conferenze, ma sviluppa temi storici, artistici, letterari e musicali anche in dibattiti, mostre e concerti. Nel rispetto dei principali scopi statutari, ha promosso e finanziato la sistemazione oltre che della propria sede, delle chiesa di S. Pancrazio e di S. Maria in Castello, di Porta Nuova e delle aree annesse, della torre detta
Piatti di produzione umbra (Deruta, prima metà del XVI sec.) esposti nel Museo della Ceramica, realizzato dalla Società Tarquiniense d’Arte e Storia in collaborazione con la Soprintendenza.
«di Dante» e dell’antica Porta Maddalena, piú di recente della Cappella e della cosiddetta Anticappella di Palazzo Vitelleschi. Ha provveduto, inoltre, al restauro delle statue del presepio settecentesco della chiesa del Suffragio, dei quadri del santuario di S. Maria di Valverde e della chiesa di S. Leonardo. Continua la collaborazione con le istituzioni per la tutela dei siti archeologici sul pianoro della Civita, a Poggio Gallinaro e nella necropoli dei Monterozzi. Negli anni la S.T.A.S. ha pubblicato numerose opere e libri; dal 1972, edita il Bollettino annuale. Supplemento alle Fonti di storia cornetana – oggetto di scambio con biblioteche nazionali e università italiane –, nel quale confluiscono studi riguardanti le varie componenti territoriali dell’Alto Lazio, ma anche ricerche di ambito piú vasto se di rilevanza scientifica.
Uno scorcio di Palazzo dei Priori, sede della Società Tarquiniense d’Arte e Storia.
bibliografia (a cura di enrico cuccia e benedetta lepore) • Gravisca. Scavi nel Santuario greco, collana diretta da Mario Torelli, Bari • Materiali del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, Roma • Gloria Adinolfi, Rodolfo Carmagnola, Maria Cataldi, «Istantanee» dal passato. Pittura etrusca a Tarquinia, Pisa, 2020 • Vincenzo Bellelli, Enrico Benelli, Gli Etruschi. La scrittura, la lingua, la società, Roma, 2018 • Andrea Cardarelli, Alessandro Naso (a cura di), Etruschi maestri artigiani: nuove prospettive da Cerveteri a Tarquinia. Guida alla mostra, Napoli, 2019 •B eatrice Casocavallo, Maria Cataldi (a cura di), 1916-2016. I cento anni del Museo Nazionale Tarquiniense. Racconti, storie e protagonisti, Viterbo, 2018 •M aria Cataldi (a cura di), Tarquinia. Museo Archeologico Nazionale: guida breve, Roma, 2001 •A dele Cecchini, Le tombe dipinte di Tarquinia vicenda conservativa, restauri, tecnica di esecuzione, Firenze, 2012 •A nna Maria Moretti Sgubini (a cura di), Tarquinia etrusca. Una nuova storia, Catalogo della mostra, Roma, 2001 •S tephan Steingräber, Affreschi etruschi: dal periodo geometrico all’ellenismo, Venezia, 2006
dove e quando
I siti del PACT-Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia – Necropoli della Banditaccia di Cerveteri, Museo Archeologico Nazionale Cerite, Necropoli dei Monterozzi di Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia – osservano i seguenti orari: • estivo (26 marzo-15 settembre), martedí-domenica (lunedí chiuso): necropoli: 9,00-19,30 – musei: 9,00-19,30
• invernale (1° novembre-25 marzo) martedí-domenica (lunedí chiuso): necropoli: 9,00-17,00 – musei: 9,00-19,30 necropoli (16 settembre-31 ottobre): 9,00-18,00 Info Necropoli della Banditaccia, tel. 06 9940001 Museo Nazionale Archeologico Cerite, tel. 06 9941354 Necropoli dei Monterozzi, tel. 0766 856308 Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, tel. 0766 856036 e-mail: pa-certa.info@cultura.gov.it; https://pact.cultura.gov.it/; Facebook Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia; Instagram parcocerveteritarquinia; Twitter PACT Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia; YouTube Pact Cerveteri Tarquinia
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MONOGRAFIE
n. 54 aprile/maggio 2023 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori Gloria Adinolfi è archeologa, Pegaso s.r.l., Roma. Caterina Agostino è architetto ALES S.p.a. presso il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Giovanna Bagnasco Gianni è professoressa ordinaria di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Milano. Valentina Belfiore è funzionario archeologo presso la Direzione Regionale Musei dell’Abruzzo. Vincenzo Bellelli è direttore del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Enrico Benelli è ricercatore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi Roma Tre. Luca Bianchi è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Melania Bisegna è architetto ALES S.p.a. presso il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Francesco Bordo è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Lidia Caputo è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Rodolfo Carmagnola è archeologo, Pegaso s.r.l., Roma. Beatrice Casocavallo è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale. Adele Cecchini è restauratrice. Orlando Cerasuolo è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Raffaella Ciuccarelli è ricercatrice di etruscologia e antichità italiche presso l’Università di Macerata. Rita Cosentino già funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale. Enrico Cuccia è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Daniele Deidda è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Nicola Dibiase è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Lucio Fiorini è professore associato di metodologie della ricerca archeologica presso l’Università degli Studi di Perugia. Laurent Haumesser è curatore capo del Dipartimento di Antichità Greche, Etrusche e Romane del Musée du Louvre. Benedetta Lepore è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Emiliano Li Castro è musicologo e musicista. Alessandro Mandolesi è archeologo collaboratore Soprintendenza Archeologica di Roma. Matilde Marzullo è ricercatrice di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Milano. Attilio Mastrocinque è professore ordinario di storia romana presso l’Università di Verona. Massimo Osanna è direttore generale Musei presso il Ministero della Cultura. Eva Pietroni è prima ricercatrice dell’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del CNR. Chiara Pizzirani è professoressa associata di etruscologia e antichità italiche presso l’Università di Bologna. Paola Porretta è professoressa associata di architettura dell’Università degli Studi Roma Tre. Carmelo Rizzo è archeologo ALES S.p.a. presso il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Maria Antonietta Rizzo è professoressa di archeologia classica presso l’Università di Macerata. Alessandra Sileoni è presidente della Società Tarquiniense d’Arte e Storia. Maria Taloni è funzionario archeologo del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Maria Cristina Tomassetti è funzionario restauratore del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Alberto Villari è funzionario archeologo del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Marina Zingarelli è assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia. Illustrazioni e immagini Shutterstock: copertina (sinistra) e pp. 4/5, 6/7, 54/55, 60, 78/79, 88/89, 92, 99 (basso), 122-123, 145, 148-149 – Sergio Giugliano: copertina (destra) e pp. 26, 74, 143 – Cortesia Archivio Fotografico del Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia: copertina (destra) e pp. 8/9, 10/11, 12-27, 36-39, 46-49, 53, 55 (basso), 56, 58/59, 61, 62-73, 75, 76-77, 84-87, 90-91, 92/93, 94 (basso), 95, 96-97, 98, 99 (alto), 101, 102-107, 112-113, 118, 120-121, 124-126, 129-142, 144 (basso), 146-147, 150-151, 158, 160-161 – Cortesia Archivio Fotografico ex Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale: pp. 28-35, 40-45, 52, 114-115, 117, 127-128, 159 – Mondadori Portfolio: Album/Oronoz: pp. 50/51; AKG Images: pp. 54, 117; Erich Lessing/K&K Archive: p. 94 (alto); Album: pp. 100/101; Album/Prisma: p. 157 – Opaxir: pp. 80/81 – Università degli Studi di Torino: p. 82 (alto) – Cortesia Archivio Fotografico Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale: pp. 108, 110-111 – da: Immagini svelate. Le copie al vero di Carlo Ruspi nel Museo Gregoriano Etrusco, Mélanges de l’École française de Rome-Antiquité [En ligne], 131-2 | 2019: p. 119 – Cortesia Archivio Fotografico Museo Archeologico di Ferrara: Cooperativa ARA Edizioni: p. 144 (alto) – Cortesia Lucio Fiorini/Università degli Studi di Perugia: pp. 152-155 – Bridgeman Images: p. 156 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 4, 80, 82. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: una veduta della necropoli della Banditaccia di Cerveteri e l’altorilievo dei Cavalli Alati dall’Ara della Regina a Tarquinia. 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