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ARCHEO MONOGRAFIE
MONOGRAFIE
TURCHIA EGEA Timeline Publishing srl - POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – AUT. N° 0702 PERIODICO ROC
ALLA SCOPERTA DELLE MERAVIGLIE DELL’ANATOLIA CLASSICA di Fabrizio Polacco
N°55 Giugno/Luglio 2023 Rivista Bimestrale
€ 7,90
TURCHIA EGEA
TROIA • EFESO • PERGAMO • MILETO • AFRODISIA ALICARNASSO • PRIENE • ANTALYA
IN EDICOLA IL 22 GIUGNO 2023
TURCHIA EGEA ALLA SCOPERTA DELLE MERAVIGLIE DELL’ANATOLIA CLASSICA di Fabrizio Polacco
6. Presentazione Meraviglie d’Egeo 12. Tracia e Dardanelli Da un continente all’altro 26. Troade Echi omerici 40. Misia e Lidia Come una vertigine 60. Ionia del Meandro Cadute e rinascite 76. Ionia lungo il Caistro Nel segno di Artemide 96. Doride e Caria Suoni barbari e bellezze divine 114. Licia Storia e mito sul mare piú blu 124. Panfilia Nella terra degli indovini
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on esiste Paese europeo, mediterraneo e anche vicinoorientale, in grado di competere con la Turchia per diversità e ricchezza delle civiltà che in quella terra tra Asia e Mediterraneo
si sono succedute, lasciando del loro passaggio testimonianze splendide e magnificamente conservatesi fino ai giorni nostri: Ittiti, Urartei, Frigi, Lidi, Lici, Greci e Romani, Bizantini, Selgiuchidi e Ottomani… vi sono poi le vestigia, misteriose e in larga parte ancora da scoprire e comprendere, emerse per la prima volta pochi decenni fa nel quadrante sud-orientale dell’Anatolia. Per non parlare di quelle preistoriche. Sono tutte espressioni di culture profondamente diverse l’una dall’altra, per lingua, religione, produzione artistica e intellettuale. Ad alcune di esse «Archeo» ha dedicato numerosi approfondimenti: ricordiamo, tra le pubblicazioni piú recenti, la monografia Ittiti. Una civiltà riscoperta («Archeo» Monografia n. 49, giugno-luglio 2022), e i reportage incentrati sulle scoperte neolitiche nell’area denominata delle «colline di pietra» («Archeo» n. 395, gennaio 2018, e «Archeo» n. 445, marzo 2022). Con questa Monografia, invece, abbiamo affrontato un nuovo compito, quasi una sfida: presentare ai nostri lettori un quadro piú completo possibile di un’area di fondamentale importanza storica per tutta la civiltà occidentale, la Turchia egea, dove il continente europeo si avvicina, fisicamente e culturalmente, a quello asiatico e dove avrà luogo la compenetrazione tra due mondi diversi. È quel lembo della «terra dove sorge il sole», abitata da antiche popolazioni orientali, destinata a condividere la straordinaria ricchezza dell’universo ellenico e, a sua volta, contribuirvi con un’intensità mai profusa da nessun’altra terra del Levante. Una condivisione verificatasi all’insegna di un’epopea storica che conosciamo sotto il nome di «ellenismo», nella quale sarebbe errato vedere – secondo l’accezione comune – lo svolgimento e l’esito di un’impresa esclusivamente imperialistica: come ha sottolineato Harry Brewster, autore del fondamentale volume Classical Anatolia (Londra 1993), «l’espansione ellenistica in Anatolia era un fenomeno unico (…) del tutto diverso da quello verificatosi in Siria, Mesopotamia o Egitto. Nel caso della stragrande maggioranza delle
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Il grande stadio della città greco-romana di Afrodisia (vedi alle pp. 81-85). È stato calcolato che le sue gradinate potessero accogliere circa 30 000 spettatori.
centinaia di città-stato sorte in Asia Minore si trattava di abitati indigeni profondamente ellenizzati ma senza essere mai stati occupati da coloni macedoni o greci». Un’unicità che, ancor prima della grande avventura macedone, affonda le sue radici nella mitologia: «Se Troia fu la città nemica nella grande saga omerica – è sempre Brewster a ricordarlo – gli eroi troiani furono eroi greci». Seguiamo, allora, nelle pagine di questa Monografia, gli itinerari percorsi (in anni e anni di viaggi esplorativi) e raccontati dal nostro Fabrizio Polacco. Scopriremo luoghi, paesaggi e monumenti di suggestione straordinaria, testimoni di un’epoca tra le piú alte e raffinate di tutto il mondo antico. Andreas M. Steiner | TURCHIA EGEA | 5 |
MERAVIGLIE D’EGEO U n paradiso terrestre per gli amanti dell’arte, della storia e dell’archeologia (e anche del mare, ovviamente): è difficile definire altrimenti l’ampia fascia costiera della Turchia occidentale, che si estende dalla zona europea confinante con la Grecia, prosegue lungo l’intero frastagliato versante egeo, e infine gira a sud nel Mediterraneo aperto, con il grande golfo di Antalya, rivolto verso Cipro. Vi sorgono molti dei piú grandi e celebri centri abitati dell’antichità – da Efeso a Troia, da Pergamo a Mileto, da Afrodisia ad Alicarnasso, da Priene a Magnesia – alcuni dei quali sono molto importanti ancor oggi, come la metropoli di Izmir (Smirne). Vi si incontrano i resti di due delle Sette Meraviglie del mondo antico, il mausoleo di Alicarnasso e il tempio di Artemide a Efeso; e di una terza opera, l’altare di Zeus a Pergamo, che potrebbe benissimo essere considerata l’ottava. E poi una quantità rimarchevole di altre città dai nomi meno noti, ma dall’impianto urbanistico assai esteso e ancora riconoscibile, ricche di edifici pubblici quali teatri, santuari, stadi, templi, vie monumentali, altari, archi, impianti salutari e termali, biblioteche, ginnasi: alcuni di essi, come il teatro di Aspendos e lo stadio di Afrodisia, sono tra i meglio conservati del mondo antico. Percorrendo questo itinerario, si attraversano regioni storiche dai nomi che a volte abbiamo sentito nominare, ma che a stento sapremmo collocare su un atlante: la Tracia e la Panfilia, la Lidia e la Licia, la Caria e la Misia, l’Eolia e la Ionia.
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Un tratto della Via Licia, un percorso di trekking che si snoda lungo la costa meridionale della Turchia, da Fethiye ad Antalya. Nella foto, il sentiero che va da Kalkan (cittadina visibile in secondo piano, sullo sfondo) a Bezirgan.
Nessuno pensi di visitarle tutte in una volta sola. Questa ampia parte della Turchia merita non uno, ma piú viaggi, e il reportage che presentiamo in questa Monografia è frutto di almeno una decina di stagioni fatte di soggiorni prolungati e di ampie escursioni, di lunghi itinerari in auto e di balzi diretti alla meta in aereo, di trasbordi con veloci puntate dalle vicinissime isole greche e di voluti ritorni nei medesimi luoghi, troppo interessanti per essere visitati in una sola occasione: e collegati tra loro da una serie di riprese, magari a un anno o due di distanza; sempre ripartendo da un: «Dove eravamo rimasti?». Sebbene alcune di queste località siano immerse in una quiete suggestiva, poiché sorgono in zone isolate e mai piú edificate, ogni percorso sarà però anche un viaggio ricco di sorprese nella vita assai varia, a volte frenetica, a volte misteriosamente incantata e sospesa, della Turchia di oggi.
Un caleidoscopio di paesaggi e di ambienti La Turchia è uno dei Paesi piú popolosi e giovani del Mediterraneo, che condivide caratteristiche da una parte occidentali, dall’altra orientali, e perciò ricco di contrasti, ma assai vivibile e beneficiato da un clima quasi sempre gradevole. Le zone piú battute dalle rotte turistiche condividono pregi e difetti delle località balneari di tutti i nostri mari; ma basta uscirne, o spostarsi di poche decine di chilometri verso l’interno, per trovarci
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calati in tutt’altra dimensione: siamo in una civiltà e presso un popolo per certi aspetti (lingua, religione, festività, musica) molto diverso dal nostro, ma anche unito con evidenza a noi da profondi, significativi legami. L’ospitalità turca è tanto piú calda e sincera quanto piú ci si addentra nella Turchia autentica: e cioè – spiace, ma è doveroso dirlo – in quella meno occidentalizzata. Ma, anche nei luoghi poco frequentati dagli stranieri, questi sono molto benvoluti e cordialmente aiutati nel caso lo si richieda. A volte si ha anzi la sensazione che proprio noi Italiani, in particolare, siamo molto benvoluti dai Turchi: forse per il carattere sostanzialmente simile, socievole e caloroso, per l’importanza che diamo alla famiglia, per il piacere del buon cibo e delle grandi tavolate, e per lo stesso amore per il lavoro ben fatto che troviamo, come spesso da noi, nelle migliaia di piccole attività artigianali e commerciali. Inoltre, sia l’Italia che la Turchia racchiudono una estrema varietà di climi, paesaggi, colture, ambienti naturali, montani e marittimi, assai diversi tra loro; e, soprattutto, cosa che qui molto ci interessa, posseggono entrambe una sedimentazione plurimillenaria di civiltà, di culture, di popolazioni, di creazioni architettoniche e artistiche che ha pochi eguali nel mondo.
Panorami mozzafiato Cominciamo con una banalità geografica. La costa turca dell’Egeo è rivolta verso occidente, la penisola greca e l’arcipelago delle Sporadi. Quindi, quando il sole tramonta, lo fa sempre al di là del mare e alle spalle di isole grandi e piccole, verso le quali la terraferma si protende con una serie innumerevole di promontori, accidentati e frastagliati, coronati da isolotti minori e segnati da una moltitudine di baie, golfi, litorali sabbiosi. Insomma, un tripudio giornaliero per gli amanti dei panorami. Non solo. Non ci si trova mai di fronte a un mare dai vuoti orizzonti, che susciterebbe per la sua immensità e vacuità il senso dell’infinitudine, o lo sgomento per la nostra piccolezza. È il contrario dell’Oceano. È uno scenario che non annichilisce l’uomo, ma lo incoraggia, lo esalta. Lo induce a intraprendere una traversata, ad avanzare e a spingersi oltre verso ciò che quasi gli sembra di poter toccare. Non è perciò un caso che lungo questo litorale – cosí come in quello speculare, di fronte a sé, dell’Ellade – sia nato il mondo classico, che è, per cosí dire, un umanesimo ante litteram, il primo Anthropos metron (l’«Uomo misura») della storia. Insomma, se il Mediterraneo è, alla lettera, il «mare tra le terre» – o «tra i continenti» – l’Egeo è il piú «mediterraneo» dei mari del Mediterraneo. Se per due, tre giorni, una lieve caligine sopra le onde, provocata magari dalla calura estiva, può ridurre il
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Il teatro romano di Perge, in Panfilia. II sec. d.C. Occupata da Alessandro Magno, Perge, dopo essere successivamente entrata nell’orbita di Roma, divenne capitale della Pamphylia Secunda.
numero di terre che vi si intravedono, ben presto il soccorso premuroso dei venti allarga la prospettiva, squarcia la scena, disvela terre dopo terre, isole dopo isole, il cui colore sempre piú sfumato segnala la diversa lontananza dall’osservatore.
Nella «Terra del sole nascente» Cambiamo ora totalmente visuale, e giriamoci voltando le spalle al mare. Non troviamo quasi mai scogliere litoranee inaccessibili, catene montuose che sbarrano l’accesso alla terraferma. E diciamo un’altra banalità: vòlti come siamo verso oriente, quella che si apre di fronte a noi è l’Anatolè, l’Anatolia: cioè, secondo una plausibile etimologia, la «Terra del sole nascente». Questa grande penisola mediterranea, estesa circa mezzo milione di chilometri quadrati, nasconde alle sue spalle un continente sterminato, il piú grande e il piú popoloso dei cinque: l’Asia. Ma, anche qui, questo «oceano» di terra emersa non incute suggestione, non sconforta con la sua vastità. Anzi, qui si assottiglia e si ingentilisce; si fa, appunto, Asia Minore. E, cosí come fa l’Egeo con le sue isole, anche questa terraferma attira a sé gli uomini con una serie di ampie e floride vallate, abbeverate da fiumi che scorrono, quasi secondo i paralleli geografici, da nord a sud. Molti di questi corsi d’acqua sono relativamente brevi; ma di quattro, maggiori, vogliamo citare già il nome; sia perché spesso segnano i confini, o al contrario il nucleo, delle principali regioni dell’Asia Minore, sia perché chi legge vi si possa abituare fin da ora, e li riconosca quando andremo ad attraversarli. Dal piú meridionale al piú settentrionale, sono il Büyük Menderes (Meandro), il Küçük Menderes (Caistro), il Gediz Çay (Ermo), il Bakır Çay (Caico). Il doppio nome, rispettivamente greco-italianizzato e turco, è un indizio del ruolo storicamente sempre svolto dalla costa egea della Turchia: quello di mettere a contatto, o a confronto, l’Asia da una parte, e le altre terre che si affacciano sul Mediterraneo dall’altra. Cioè due mondi, due continenti. Su queste coste magnificamente frastagliate, lungo queste verdeggianti vallate protette dai monti che permettono di accedere al vasto altipiano dell’Anatolia centrale, si è creata per millenni una miscela di popoli, di culture, di fedi, di lingue, di civiltà davvero eccezionale: provocando conflitti e fecondando ingegni, producendo idee e diffondendo prodotti, arricchendo miti e moltiplicando racconti, in definitiva ispirando artisti, pensatori, politici, esploratori e scienziati, la cui opera è stata vivacemente stimolata da quanto apprendevano e scoprivano, da chi incontravano e da chi ospitavano, persino da quegli stessi «altri» con cui le loro comunità si scontravano e combattevano.
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ISTANBUL
ENEZ GALLIPOLI
GÖKCEADA
ÇANAKKALE TROIA
BOZCAADA
EDREMIT
ASSOS
AYVALIK
LESBO
PERGAMO C a i c o ÇANDARLI
E r m o KYME MAGNESIA AL SIPILO CHIO
SARDI IZMIR
KLAROS
C a i s t r o M e a
EFESO SAMO
n d r o
PRIENE AFRODISIA
MILETO DIDIM
BODRUM
ANTALYA
MARMARIS
KOS
SIDE FETHIYE XANTHOS
RODI Foto satellitare della Turchia nella quale sono evidenziate alcune delle principali località della costa egea descritte nel testo.
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PERGE
FINIKE KAS
ISTANBUL ANKARA
ANKARA
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TRACIA E DARDANELLI
DA UN CONTINENTE ALL’ALTRO Il lungo braccio di mare che porta il nome di Dardano o, a seconda delle versioni, della leggendaria eroina Elle, divide la Turchia europea da quella asiatica. E l’eco di un passato lontano, sospeso fra mito e storia, si fa subito prorompente...
A
Enez, antica polis greca ignota ai piú, il cuore pulsante dei Balcani si stempera, immergendosi nelle acque limpide dell’Egeo. Ci arriva trascinato dalle correnti copiose della Marizza, l’Ebro degli antichi, che ha qui il suo ampio, solenne estuario. Non siamo ancora in Anatolia, ma in Tracia, la Tracia orientale, per l’esattezza, la cosiddetta «Turchia europea». E, a dire il vero, non riconosciamo neppure il
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tipico paesaggio egeo: Enez è piuttosto una località dove si respira l’aria dei Balcani, se non addirittura di quella sterminata serie di pianure e altipiani che dall’Asia centrale passano per la Sarmazia, proseguono attorno al Mar Nero e si esauriscono sulle propaggini montuose litoranee della Tracia, terra un tempo ricchissima di uomini e di cavalli (vedi box alle pp. 14-15). Se ci sono ancora da visitare nel Mediterraneo luoghi tanto straordinari quanto poco noti,
Il Çanakkale 1915, il ponte sospeso che collega Gelibolu a Lapseki, scavalcando lo Stretto dei Dardanelli, inaugurato nel 2022.
Istanbul Tekirdag
Enez (Ainos)
Mar di Marmara Gelibolu (Gallipoli)
Akbası Lapseki (Sesto) (Lampsaco) Eceabat Nara Burnu Abide (Abido) (Eleunte) Çanakkale Stretto dei Dardanelli
Truva (Troia)
Bursa
N NO
NE
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SE
O
Kilitbahir
Enez, l’antica Ainos, è uno di questi. La cerchi a fatica sulla carta geografica, trovandola in un angolo remoto dell’Egeo, quello nord-orientale, vale a dire in un cantone altrettanto remoto della Turchia europea. Ha in sostanza una sola vera via d’accesso, poiché si trova appena al di qua del confine con la Grecia, che a questa altezza non è transitabile. Vi si giunge percorrendo una strada di campagna – ma in alcuni punti sembra quasi una steppa – dalle
E
S
dolci curve e lunga ben 60 chilometri, che conduce fino alle porte della cittadina: finché questa si presenta come un miraggio, quasi circondata com’è dalle acque lacustri, ancora protetta da possenti, inattese mura antiche. Eppure, quando entrò nella storia, Enez, per la sua posizione, si trovava al centro di grandi traffici, tanto che venne colonizzata dai Greci Eoli, una delle tre grandi famiglie dialettali dell’Ellade (vedi box a p. 16).
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TRACIA E DARDANELLI
Ero piange la morte di Leandro, olio su tela di Jan van den Hoecke. 1635-1337. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie.
Un fiume tra due mondi
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hiamato Meriç dai Turchi, Maritza o Marizza dai Bulgari, quello che per i Greci era, e rimane, l’Ebro, nasce a circa 500
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km dalla foce, all’interno della Bulgaria, sugli alti monti Rila. Attraversa città superbe, come Plovidv, l’antica Filippopoli (cosí
chiamata perché fondata e resa grande dal padre di Alessandro il Macedone, Filippo II), che fu a lungo la capitale della provincia
Sulle due pagine il lago di Gala, nei pressi di Enez, oggi compreso nell’omonimo Parco Naturale.
Ancor prima di accedere alle mura, ecco sulla destra una necropoli arcaica e classica, con tanto di pithoi (grandi vasi in ceramica abitualmente destinati a conservare derrate alimentari, ma che, come in questo caso, potevano essere utilizzati, per seppellirvi i defunti), sarcofagi e sepolture a cassa; interessanti resti di tubature, invece, risalgono all’età romana. Una volta in città, ci si ritrova in un ambiente in cui tutto richiama la vocazione agricola di un tranquillo centro provinciale, con i trattori parcheggiati in mezzo alle auto.
Il fiume, le lagune e poi il mare Ma quando, dopo una sosta alle ingenti rovine della basilica bizantina di S. Sofia, poi trasformata in moschea del Fatih («Il Conquistatore», cioè il sultano Maometto II), ci si inerpica sulle mura ancora agibili, ecco aprirsi un panorama suggestivo: le anse rigonfie d’acqua e placide dell’Ebro, le
romana della Tracia; e come Edirne, l’antica Adrianopoli, da sempre anche avamposto strategico di Costantinopoli verso
lagune, le mura che si protendevano sino al mare costituendo antichi moli turriti. E, finalmente, l’Egeo, con la piramidale isola di Samotracia all’orizzonte. Per passare dalla Tracia, estrema regione europea, all’Anatolia o Asia Minore, seguendo la costa dell’Egeo, non c’è da sempre che un solo modo: attraversare lo stretto dei Dardanelli. In tempi lontanissimi, Leandro, un giovane che viveva ad Abido, nella loro parte asiatica, li passava a nuoto ogni sera per recarsi a trovare di nascosto l’amata Ero, sacerdotessa di Afrodite a Sesto, sulla costa europea. Al contrario Serse – il Re dei Re, imperatore persiano – li varcò con sterminate truppe quando partí per la sua micidiale invasione contro la Grecia del 480 a.C.: per riuscirci, vi fece costruire due ponti di barche. Anche Lord Byron li oltrepassò a nuoto, per imitare Leandro («Lui per Amore, io per la Gloria» cantò poi in un poemetto): era il
la terraferma. Enez (l’antica Ainos), dotata di un duplice porto circondato oggi da lagune, era lo sbocco naturale di questa
importante via d’acqua. Ciò spiega la sua colonizzazione in età arcaica da parte dei Greci di stirpe eolica.
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TRACIA E DARDANELLI
Dialetti al di là del mare
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rima di addentrarci nel nostro itinerario lungo la costa egea dell’Asia Minore, o Anatolia occidentale, converrà ricordare che essa in antico era ripartita in tre settori, che rimandano ad altrettanti dialetti greci. Dopo il crollo, avvenuto nei «secoli bui» (XII-IX a.C.) del mondo miceneo, la nuova civiltà ellenica si presenta con una suddivisione che appariva agli stessi Greci anzitutto etnica e dialettale, ma che aveva anche importanti implicazioni eticoculturali: quella tra Eoli, Ioni e Dori. Tale distinzione fu tanto importante, da determinare, o quanto meno favorire, per secoli contese politiche, alleanze militari e conflitti (tra cui quello tra Sparta e Atene): sia nella madrepatria peninsulare, sia in quella grecità ben piú estesa che sciamò per secoli verso gran parte delle coste del Mediterraneo orientale e occidentale. Il grande, persistente flusso migratorio ebbe inizio proprio nei «secoli bui»: cosí detti non perché di declino o di decadenza (tanto è vero che si concludono con l’apparizione di uno dei piú grandi
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capolavori di tutti i tempi: l’Iliade di Omero), ma perché purtroppo per noi privi di fonti scritte contemporanee. Una prima fase di tale migrazione (tra XI e IX secolo a.C.) vide appunto la colonizzazione di tutta la zona costiera turca oggetto del nostro viaggio. I coloni mossero via mare, favoriti dal ponte naturale delle isole Cicladi e Sporadi, approdarono in diversi punti dell’Anatolia e vi si stabilirono. Questa lunga fascia costiera risultò cosí suddivisa tra le varie stirpi, in sezioni che ci paiono collocate piú o meno dirimpetto alle rispettive zone di provenienza nella madrepatria. All’inizio del nostro itinerario, che parte da nord, troveremo perciò collocati gli Eoli; nel settore centrale, gli Ioni; nel settore piú meridionale, i Dori. La regione dell’odierna città di Antalya, l’antica Panfilia, non egea ma pur presente in questo itinerario, costituiva un’eccezione, in quanto fu colonizzata da genti che parlavano un gruppo dialettale probabilmente ancor piú arcaico dei precedenti, detto arcado-cipriota.
Sulle due pagine vedute di Enez, con i resti della basilica di S. Sofia, successivamente trasformata in moschea da Maometto II.
maggio del 1810. E pure Alessandro Magno, in procinto di invadere l’Asia per vendicarsi sui Persiani, salpò nel 334 a.C. da un porticciolo all’estremità della penisola di Gallipoli, Eleunte, là dove ora si apre una spiaggetta all’interno di una piccola baia. Mi ci sono fermato con piacere, sostando sul ciglio di una stretta strada litoranea tra i cespugli mossi dal vento: da lí, appena al di là del mare, si vede scendere la piana su cui sorge Troia.
Bisogna infatti chiarirlo subito: il senso e la chiave per interpretare storicamente l’epica guerra cantata da Omero si trovano in questo lungo e stretto braccio di mare. Provate a scansare per qualche minuto le comitive dei turisti che visitano il sito archeologico di Troia, e andate ad affacciarvi dal punto piú alto della collinetta di Hissarlik, dove Heinrich Schliemann scavò e riconobbe i resti di quella che è forse la piú celebre città del mito (era il 1871): vedrete distintamente, poco piú a nord, grandi navi che sembrano arare placide la campagna, ma che stanno in realtà solcando le anguste acque dei Dardanelli.
Una spina nel fianco Troia, oltre tremila anni fa, era una potente sentinella armata, posta a cavallo tra due mari e tra due continenti. Una spina nel fianco per qualsiasi grande potenza della regione (vedi box a p. 19). Invece noi, che non siamo eroi, né re, né poeti ma comuni mortali, possiamo
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varcare lo Stretto pagando il biglietto in lire turche su bei traghetti bianchi, coi ponti superiori ariosi dotati di sedili per ammirare il paesaggio circostante e con quelli inferiori spianati per far posto ai veicoli: i loro equipaggi passano una dozzina di volte al giorno dall’Asia all’Europa, o viceversa. Due sono le principali tratte marittime piú frequentate. Qui, però, io ne segnalerò altre due, meno battute, ma ben piú suggestive. Molti, infatti, scelgono la linea che da Eceabat, in Tracia, va a Çanakkale, in Anatolia, città principale della regione, dove per esempio pernottano molti dei visitatori di Troia. Ma chi voglia effettuare la traversata piú veloce e diretta proprio nel punto in cui i due continenti si sfiorano, può prendere una linea minore che, sempre dal porto di Çanakkale, approda in pochi minuti sulla sponda europea antistante, ormeggiando sotto il castello di Kilitbahir. Visiterà cosí non solo una splendida fortezza
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ottomana restaurata nel 2017, il cui corpo centrale presenta una curiosa forma a trifoglio; ma, magari sorseggiando il tipico e corposo çay (il the turco) in uno dei locali che danno sullo Stretto, avrà anche modo di meditare sul senso
Il castello di Çimenlik, a Çanakkale, eretto da Maometto II nel 1461.
Molti nomi, un canale, una ragazza In alto, sulle due pagine la fortezza ottomana di Kilitbahir, a Çanakkale, caratterizzata dalla conformazione a trifoglio del suo corpo centrale. In alto, a destra affresco raffigurante Frisso ed Elle, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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a Tracia, e con essa l’Europa, finiscono nel loro angolo sud-orientale con una penisola lunga e puntuta: che sfiora l’Asia, poco al di là del mare, con un canale altrettanto lungo e sottile. I Dardanelli, questo il nome che noi diamo allo stretto, sono geologicamente parlando una valle sprofondata e sommersa, traversata da una corrente marina superficiale che fluisce perennemente dal Mar di Marmara all’Egeo. Sono lunghi una settantina di chilometri e, nel punto piú stretto, le due sponde continentali distano appena 1300 m. Nell’antichità una città importante sulle sue sponde fu Dardano (da cui il nome attuale) e in seguito lo divenne Gallipoli (Gelibolu per i Turchi), che ha dato invece il nome alla penisola. Nell’antichità la penisola di Gallipoli era, a sua volta, detta Chersoneso Tracico, poiché appunto apparteneva alla regione della Tracia.
Ma il nome greco del canale fu, ed è, Ellesponto, cioè il «Mare di Elle». Questa eroina del mito, assieme al fratello Frisso, era figlia del re di Orcomeno di Beozia, Atamante. I due ragazzi vennero però in odio alla matrigna, Ino, che tramò per eliminarli. A quel punto la loro madre, Nefele, che era di natura divina, li aiutò a fuggire dalla Grecia, procurandogli un ariete alato dal vello d’oro. A cavallo del prodigioso animale, i due stavano quasi per raggiungere la salvezza quando la povera Elle perse l’equilibrio, precipitando e scomparendo proprio in quello stretto braccio di mare che da allora prese il suo nome. L’ariete e Frisso giunsero invece fino alla sponda orientale del Mar Nero, in Colchide: l’animale fu sacrificato, e il suo Vello d’Oro, divenuto famosissimo, diede il via a una grande serie di miti, tra cui quelli di Giasone, degli Argonauti e di Medea.
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di quello strano nome: Kilitbahir significa in antico ottomano «Chiave del Mare». E di quella chiave s’impossessò davvero chi lo costruí, il sultano Maometto II, il quale, nel 1452, decise di tagliare in tal modo le vie marittime di rifornimento che dall’Europa avrebbero potuto soccorrere Costantinopoli. La città stava a quel tempo sostenendo il terribile assedio che l’anno successivo portò alla sua conquista da parte degli Ottomani, e segnò cosí la fine del millenario impero romano d’Oriente, o impero bizantino. La «serratura» che strangolò e fece cadere l’illustre città, la Nova Roma fondata oltre mille anni prima da Costantino, aveva l’altra sua chiave sulla sponda opposta dello Stretto, nel cuore di Çanakkale, dove ancora oggi sorge il castello, forse meno spettacolare, ma tuttora in uso – un po’ museo bellico, un po’ caserma – di Çimenlik.
Storie antiche e moderne Insomma, che lo si chiami Ellesponto, Dardanelli, o, come si dice oggi in turco, Çanakkale Bogazı (la «gola»di Çanakkale), questa dello Stretto è stata, è e sarà sempre una delle zone piú frequentate e contese del pianeta. Oltre che delle piú affascinanti, s’intende. Non ho ancora visto di persona l’enorme ponte sospeso che, a partire dal 2022, lo scavalca con una nuova autostrada, collegando assai velocemente questa regione con l’immensa metropoli di Istanbul; ma spero che non abbia alterato piú di tanto la tranquilla e solenne atmosfera che si respirava sulle due sponde. Del resto, anche questa infrastruttura ultramoderna rimanda con il suo singolare nome di Çanakkale 1915 a un fatto storico: la estenuante e sanguinosissima battaglia di Gallipoli combattuta in quell’anno, durante la prima guerra mondiale: uno degli eventi fondanti del nuovo Stato turco (vedi box in queste pagine). Ma mentre a questa importante pagina bellica del Novecento è consacrata addirittura una parte intera della penisola di Gallipoli (quella estrema verso occidente), ben poco resta delle due «chiavi del mare» dell’Ellesponto in età
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Un promontorio carico di memorie
L’
intera parte occidentale della penisola di Gelibolu (Gallipoli) è oggi un parco storico nazionale, ed è quindi assai suggestiva, poiché rimasta sostanzialmente intatta da costruzioni e infrastrutture. È anche, allo stesso tempo, un grandioso sacrario militare, costellato di monumenti ai caduti, di stele commemorative, di statue, di resti di trincee: e, purtroppo, di cimiteri. Il 18 marzo del 1915, a meno di un anno dall’inizio della prima guerra mondiale, una squadra navale francobritannica cominciò a bombardare le difese ottomane dei Dardanelli al fine di forzarle: il progetto, assai ambizioso, era quello di proseguire l’assalto arrivando via mare fino alla capitale Costantinopoli, l’odierna Istanbul, costringendo cosí il nemico alla capitolazione. Poiché nell’attacco si registrarono forti perdite tra le navi, il comando alleato diede il via a una simultanea invasione via terra della penisola, che iniziò il 25 aprile, da allora detto giorno dell’ANZAC (da Australian and New Zealand Army Corps: fu infatti la prima volta che truppe provenienti dai dominions australiani e neozelandesi della Corona Britannica vennero impegnate in un conflitto). Allo stesso tempo, il grosso delle truppe sbarcava all’estremità della penisola, l’odierno capo Helles. Fin da subito, ci si rese conto che la resistenza ottomana sarebbe stata molto piú forte del previsto. Fu qui che il comandante della 19ª divisione turca, Mustafa Kemal, iniziò a dar prova del suo genio militare, resistendo ai ripetuti assalti con una lunga,
Il sacrario militare di Abide, che ricorda i caduti nella battaglia di Gallipoli, sulla penisola omonima. In basso memoriale della battaglia di Gallipoli a Eceabat.
estenuante guerra di trincea che sarebbe durata fino alla inattesa, definitiva ritirata degli invasori; e iniziando cosí una carriera militare, poi politica, che lo avrebbe portato a fondare nel 1923 – cosa per cui sarà poi insignito del nome di Atatürk («Padre Turco», inteso come «Padre della Patria») – la nuova Repubblica Turca, sorta sulle ceneri dell’impero ottomano, che era stato comunque sconfitto al termine della Grande Guerra. La battaglia di Gallipoli fu un bagno di sangue: si parla di ben oltre 100 000 morti e di circa mezzo milione di feriti, distribuiti quasi equamente tra le due parti. Per le sofferenze terribili, gli atti di eroismo, ma anche alcuni memorabili gesti di cavalleria, questo
scontro durato poco meno di un anno è entrato a far parte della coscienza nazionale delle parti coinvolte. È stato quindi visto tanto come una «tragedia», quanto come una Gentlemen’s War: titoli entrambi di sintesi storiche che mi sono capitate tra le mani nel corso dei miei soggiorni a Çanakkale e a Gelibolu. Chi si stupisce della definizione di una guerra fra gentiluomini, si faccia raccontare o tradurre la storia del soldato turco Mehmetçik, cui è dedicato uno dei monumenti piú significativi del Parco. È stata riferita per la prima volta da un testimone sicuramente affidabile: l’allora luogotenente australiano, poi Lord, Richard Casey, che in seguito diverrà Governatore Generale della Corona Britannica in Australia.
TRACIA E DARDANELLI
A sinistra il porticciolo di Bozcaada (Tenedo), una delle due isole turche abitate del Mar Egeo.
classica: Sesto e Abido. Lo erano a tal punto che Erodoto conclude le sue Storie delle guerre persiane in nove libri con l’episodio della presa di Sesto da parte dei Greci: considerata un’acquisizione significativa perché in tal modo furono loro a «serrare» per decenni il passaggio degli Stretti al nemico che li minacciava dall’Asia. Su un’altura poco prima di Eceabat, si scorgono ancora le rovine di una fortezza medievale eretta su quella che doveva essere l’acropoli di Sesto, mentre i resti di un ponticello romano, giú a valle, sono piú facilmente raggiungibili dalla litoranea. Nulla da fare invece per la contrapposta città classica di Abido, nella periferia orientale di Çanakkale, in quanto la zona è chiusa ai visitatori poiché destinata a uso militare.
Dove le sponde quasi si toccano Sarebbe molto bello se un traghetto regolare percorresse i Dardanelli in tutta la loro lunghezza, cosí come accade per il ben piú frequentato stretto del Bosforo, all’altro lato del mar di Marmara, dove le escursioni giornaliere sono sempre in partenza. Invece, anche la seconda linea di traghetti piú utilizzata nella zona si limita a fare la spola tra
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Sulle due pagine una veduta di Gökçeada (Imbro), l’altra isola turca abitata nell’Egeo.
le due sponde, in un altro punto nel quale le coste continentali si avvicinano. Da Gelibolu (Gallipoli), sul lato europeo, i viaggiatori vengono infatti portati sull’asiatica Lapseki, nota nell’antichità come Lampsaco. Piú tradizionali e antiche di Çanakkale, queste località potrebbero essere scelte come base da chi vuole condividere, magari con un po’ meno lusso e comfort moderno, il tradizionale stile di vita turco. Nella prima, è ancora in uso l’antico porto, con un torrione bizantino che ospita un museo dedicato a Piri Reis, l’ammiraglio e geografo ottomano (nato a Gallipoli attorno al
1475, e morto decapitato intorno al 1553), autore di una delle prime mappe del globo realizzate subito dopo la scoperta dell’America. A, Lampsaco, invece, non ho visto resti cospicui, se non un antiquarium a cielo aperto con alcuni sarcofagi; ma la città fu celebre per il suo vino, per la sua devozione dedicata principalmente al dio Priapo, e per aver dato i natali a un singolare ma poco noto fisico dell’antichità: quello Stratone di Lampsaco di cui Cicerone scrive che «identifica ogni potenza divina nella Natura, nella quale è l’origine della nascita, della crescita e del declino degli esseri: una divinità priva di percezioni, di senso, di qualsiasi figura». Tuttavia, in attesa che qualcuno abbia la felice idea di lanciare la mini-crociera sui Dardanelli, vi è una linea meno nota che può in parte
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TRACIA E DARDANELLI
sostituirla. Bisogna anzitutto sapere che in questa zona nord-orientale dell’Egeo, appena fuori dal canale, non mancano le isole. Oltre alla già citata Samotracia, piú a sud si trova la greca Lemno. Ma nei dintorni troviamo anche le due isole turche abitate dell’Egeo: Gökçeada e Bozcaada (anticamente Imbro e Tenedo). Sono raggiungibili esclusivamente da questo distretto della Turchia, e solo via mare. La prima, la piú grande, è anche la piú isolata,
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quasi intatta perché poco frequentata dai turisti, e spettacolare dal punto di vista naturalistico (ma non manca nemmeno di resti archeologici sparsi e semiabbandonati). In genere la si raggiunge con un traghetto che parte dalla costa esterna della penisola di Gallipoli, quindi già in pieno Egeo. Ma vi è anche un traghetto che la collega direttamente a Çanakkale. Ed è questa l’altra linea che volevo segnalare. Mi è capitato di sceglierla,
Veduta dall’alto del sito archeologico di Troia, i cui resti furono scoperti da Heinrich Schliemann sulla collina di Hissarlik, una trentina di chilometri a sud-est di Çanakkale.
A sinistra, dalla parte europea, ecco Seddülbahir (capo Helles), con il forte secentesco e monumenti novecenteschi dedicati ai caduti nella battaglia di Gallipoli, tra cui il colossale Abide, un tetrapilo memoriale della resistenza turca: con un affaccio straordinario, per chi voglia visitarlo, che va dal monte Ida nella Troade alla Tracia, e include tutte le isole sopra citate. Ma quando ci si rivolge verso sud si nota, proprio nell’estremità nord-occidentale dell’immenso continente asiatico, il piccolo e celebre promontorio del Sigeo, strettamente legato alle vicende della guerra troiana, come a quelle dell’impero marittimo ateniese: ancora oggi zona di interesse militare, non può essere visto bene che da qui, dal mare.
Il tumulo di Achille
quasi casualmente, al ritorno da un soggiorno nell’isola. Raramente ricordo un tragitto altrettanto emozionante: quando si sta per entrare nei Dardanelli, a destra, vicinissima, si estende Tenedo, l’isola prospiciente Troia, dove, secondo Virgilio (che lo racconta nell’Eneide), si nascose la flotta achea che aveva fatto finta di partire, prima della notte tragica della presa della città. Ma là dove finalmente si entra nel canale, la visione si fa grandiosa e spettacolare.
Lí, probabilmente, un tempo, fu eretto secondo l’Iliade, il tumulo sepolcrale di Achille e Patroclo. Come precisa Omero, era posto «su un promontorio rilevato, sull’ampio Ellesponto, che fosse visibile da lontano agli uomini dal mare: a quelli che vivono ora, e a quanti vivranno in futuro». Non è tutto: subito dopo, ecco sfilare lentamente la piana alluvionale di Troia, punteggiata di ulivi e tagliata dal fiume Scamandro (oggi Karamenderes): è il teatro di tutte le battaglie e i duelli descritti dal poema. «Visibile da lontano»: per dirlo, Omero adopera una parola sola, coniando un termine che mai altrove ricorre nella lingua greca, telephanès. Ecco: è pur vero che ho toccato anche io con mano le splendide mura di Troia VI, lo strato archeologico che secondo il successore di Schliemann negli scavi, Wilhelm Dörpfeld, corrispondeva a quello della città assediata al tempo degli Achei. E sono, incredibilmente, piú eleganti e belle di quelle ciclopiche di Micene. Eppure, un modo alternativo e illuminante non tanto per visitare, quanto per «capire» il ruolo e l’importanza di Troia, è proprio in questo vederla «da lontano», nella sua collocazione geografica e strategica. Anche dal mare, cosí come dai bastioni di capo Helles. E infine, come vedremo, anche dalla minuscola, fatale Tenedo.
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TROADE
TROADE
L’inganno del cavallo di legno, la finta ritirata degli Achei... visitare la regione che della città di Priamo porta il nome è un po’ come «vedere» gli eventi narrati dall’autore dell’Iliade
C
hi visita oggi Troia (Truva in turco) non dovrebbe limitarsi a un sopralluogo nella ristretta zona degli scavi. Certo, è emozionante ammirare la rampa lastricata in pietra che conduceva alla cittadella di Troia II, cioè lo strato antichissimo raggiunto da Heinrich Schliemann dopo che aveva inconsapevolmente smantellato – per fortuna solo in alcuni tratti – quelli superiori, che riteneva troppo recenti, ma che, in realtà, racchiudevano proprio la città del celebre assedio, quella da lui da sempre ricercata! E ugualmente impressiona passeggiare tra le rovine incenerite all’interno della stessa cittadella II (ora protette da un’elegante e ariosa sovrastruttura a padiglione) e che, anche per via di queste tracce di incendio, l’archeologo scambiò per la Troia omerica. In altri tratti, un intaglio profondo nella collina permette di individuare, con la stessa chiarezza che avremmo su un grafico, tutti e nove gli strati appartenenti alla città tante volte ricostruita, sempre su questo stesso luogo: a dimostrare l’importanza di un sito tanto conteso, ma che era pressoché impossibile abbandonare definitivamente proprio per il suo ruolo strategico. Occorre però fare attenzione ad alcune cose. Anzitutto, alla grandezza dell’antica città non rende giustizia neppure la piú ampia cerchia di
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Golfo di Edremit
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La fantasiosa ricostruzione del cavallo di legno, realizzata nell’area del net sito In basso et utem archeologico laut facient et quamdi Troia,officae protagonista fugiae del celebre ruptatemqui stratagemma conseque vite grazie es quale gli Achei saealquis deris riuscirono rehenis aspiciur a espugnare la città sincte seque con nusam fugitdietPriamo. qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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TROADE
belle mura grigie con torrioni oggi visibili, quelle di Troia VI – indicate dal successore di Schliemann, Wilhelm Dörpfeld, come risalenti al XIII-XII secolo a.C., cioè alla datazione tradizionale dell’assedio dell’Iliade. Sono arrivato per la prima volta anni fa alle porte degli scavi di Troia poco dopo l’imbrunire, quando l’ingresso era ormai chiuso ai visitatori. Era una tiepida sera d’agosto del 2005 e mi fermai soltanto a bere qualcosa in un locale rimasto aperto, di cui ero l’unico avventore; e proprio parlando con il proprietario venni a sapere, provando un tuffo al cuore, che solo
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una decina di giorni prima era scomparso, prematuramente, Manfred Korfmann, l’archeologo che negli ultimi decenni aveva proseguito e ampliato gli scavi, rinvenendo le testimonianze di una estensione ben maggiore della città, e dimostrando che essa era «quindici volte piú grande» di quanto i suoi predecessori avessero calcolato. Oltre a ciò, occorre considerare che una volta il mare giungeva assai piú in prossimità della città di quanto non sia ora. Una baia portuosa consentiva ai navigli dell’età del Bronzo – di assai modesta dimensione, ricordiamolo – di
Un tratto delle mura della cittadella di Troia VI, la cui frequentazione si data fra l’età del Bronzo Medio e il Bronzo Tardo, un orizzonte cronologico compreso, all’incirca, fra il 1700 e il 1250 a.C.
La spiaggia di Papaz, nei pressi di Besiktepe. Sullo sfondo, l’isola di Bozcaada.
fermarsi a riposare e a rifornirsi prima di affrontare l’impetuoso e costante flusso della corrente dei Dardanelli, che spinge in senso contrario chi proviene dell’Egeo. Non solo. Se si dispone di un’auto, basta avventurarsi un po’ a caso nella campagna circostante per attraversare il fiume Karamenderes (Scamandro), al quale si deve l’interramento alluvionale della baia, e il suo affluente, il Simoenta (Dumrek Su), entrambi protagonisti delle battaglie omeriche. E a impressionare sono anche i non pochi tumuli avvistabili qua e là: silenziosi e isolati, testimoniano che la piana era segnata, nell’età antica, da tombe eroiche. In cerca di un refrigerio, dopo una mezza giornata di vagare estivo, chiedo ai locali dove potrei fare un bel bagno: mi viene indicata la vicina località di Besiktepe, e in particolar modo la spiaggia di Papaz. Vi giungo e la guardo dall’alto di un tornante: si tratta di un litorale sabbioso piuttosto lungo, leggermente arcuato e largo una cinquantina di metri, volto verso occidente e la Grecia; è delimitato da due piccoli promontori, il piú meridionale dei quali ha l’inequivocabile aspetto di un tumulo sepolcrale; ma, soprattutto, è protetto verso l’entroterra da una serie continua di piccole alture, e quindi facilmente difendibile da eventuali contrattacchi nemici: lungo quel crinale gli Achei, ridotti sulla difensiva dal contrattacco troiano, avrebbero potuto utilmente innalzare un muro di legno
simile a quello descritto nel libro VII dell’Iliade. Infine, cosa che di rado mi è capitato di vedere nel mezzo di una spiaggia, vi è una sorgente d’acqua potabile. Certo, qui non vi sarebbe stato spazio per trarre in secco le ben 1186 imbarcazioni elencate da Omero per la flotta troiana. Ma, si sa, i poeti esagerano sempre. Ricerche in tal senso sono state in comunque svolte appena un chilometro piú a sud, ove il litorale è piú esteso: ma ove oggi sorge un immenso cementificio.
La fatale illusione Le acque di questo Egeo settentrionale, qui vicino allo sbocco dei Dardanelli, sono assai fredde anche d’estate. Ma è il refrigerio che cercavo: nuotando, osservo e considero di fronte a me anche la piccola Bozcaada, che chiude l’orizzonte verso sud-ovest. Da qui sembra invero assai estesa: tanto da poter davvero celare una flotta, come quella achea, che salpando da Troia avesse simulato il ritiro dal conflitto. Ma, nello stesso tempo, è abbastanza vicina da permettere un fulmineo rientro degli Achei sul campo di battaglia, per sorprendere nel sonno i Troiani illusi di aver respinto per sempre il nemico. Ovviamente, Omero non è uno storico (ma ai suoi tempi, attenzione, la storia come la intendiamo noi non esisteva, e a fare le veci degli storici erano appunto i poeti…). E tuttavia, piú si gira attorno a questa città leggendaria e
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TROADE
Troia I Troia II Troia VI Troia VIIa
Troia VIIb Troia VIII Troia IX
In alto, a sinistra disegno ricostruttivo di Troia VI, con la cittadella (acropoli) circondata da una città bassa, munita di mura difensive. Qui accanto pianta degli scavi di Hissarlik, con, in evidenza, i resti appartenenti alle diverse fasi dell’insediamento.
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I resti della Torre Est, inserita nel circuito delle mura della cittadella di Troia VI.
piú si trovano riscontri, coincidenze, somiglianze. Quasi certamente l’autore dell’Iliade aveva visitato questi paraggi. Ma ampliamo ancora lo sguardo, e consideriamo dall’alto l’intera regione in cui ci stiamo muovendo. È, come detto, la cuspide nord occidentale dell’Anatolia, e in pratica di tutta l’Asia. Nell’antichità si chiamava Misia, ed era suddivisa in tre parti: e quella in cui ci troviamo, la «piccola Misia», comprendeva la zona dell’Ellesponto e la Troade, cioè la celebre città e i suoi dintorni immediati. Se ne ha una bella visione generale proprio recandosi a Bozcaada (Tenedo): isola verso la quale, a questo punto, non è possibile fare a meno di salpare. Ci si imbarca nel porticciolo di Geyikli
per una breve traversata di 3 miglia nautiche (Strabone, il geografo antico, parla di 40 stadi). Tanto insignificante e privo di attrattive è il piccolo scalo continentale, quanto entusiasma il panorama che ci accoglie all’arrivo sull’isola.
Il soffio dello stretto Un superbo castello, molto ben conservato e restaurato in varie fasi nel corso dei secoli, domina il porto, le basse case sono disposte tutt’intorno alle banchine come nella cavea di un teatro, digradante dall’alto. L’aria, frizzante e assai fresca anche col solleone, è quella che soffia quasi ininterrottamente dai Dardanelli, in pratica dal Mar Nero. Non si troveranno qui appariscenti vestigia
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TROADE
archeologiche, se non la serie di anfore e altri reperti provenienti dal mare conservati all’interno di un antiquarium in un bastione della fortezza. Ma, ancora una volta, l’importante è girare, cercare quel punto, o quei punti, che rendano significativa, oltre che gradevole, anche la sosta di alcuni giorni in questa minuscola isola. La risposta la trovo in due diversi versanti di Tenedo. Uno è quello nord-orientale, dove si leva la sua altura maggiore, peraltro assai modesta. La vecchia enciclopedia Treccani le dà il nome di Sant’Elia (un nome abitualmente dato dai Greci alla cima maggiore di un’isola, in quanto il profeta, si narra, anziché morire fu innalzato e condotto al Cielo a bordo di un carro di fuoco). L’odierno nome turco non è tuttavia meno suggestivo: Göztepe. Vuol dire «Collina dello sguardo», o semplicemente «della Vedetta».
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Da lassú, l’occhio spazia facilmente a 360° sulla Misia, sulla zona dei Dardanelli, sulla congiunzione dei due continenti e sulle altre isole dell’Egeo settentrionale. Ovviamente la pur modesta cima domina (siamo a quasi 200 m sul livello del mare) il litorale egeo della Troade, a pochi chilometri. Verso sud, si estende la mole verde-cupo del monte Ida, tante volte richiamato nell’Iliade.
Un ormeggio ideale
Il primo scavatore di Troia, Heinrich Schliemann (1822-1890).
Ma anche a Bozcaada vi è una spiaggia interessante, atta quanto meno a ormeggiare le navi appena al largo (perché punteggiata da scogli a fior d’acqua presso la riva): è Ayazma. Si trova proprio là dove te la aspetteresti, sul lato opposto alla Troade, perciò invisibile dalla città. E, ancora una volta, non si può fare a meno di ripensare all’inganno della falsa
partenza degli Achei, cantato anche da Virgilio. La Misia, soprattutto la fascia costiera, è punteggiata da zone archeologiche di alterno interesse: alcune minori, altre davvero fenomenali. Se si segue la strada litoranea che dallo scalo per Bozcaada, la già citata Geyikli, punta per alcune decine di chilometri verso sud, si svolta a un certo punto a est per addentrarsi nell’ampio e panoramico golfo di Edremit: è la prima delle profonde insenature che, spesso chiuse da grandi isole – o addirittura quasi abbracciandole con i loro lunghi promontori – costituiscono l’aspetto orografico piú evidente della costa turca dell’Egeo. Oltre a siti minori denominati Alexandria Troas e Neandria e al cosiddetto «altare di Zeus» (in realtà un roccione dell’Ida dalle non chiare evidenze archeologiche), vi sono due perle dell’antica Misia da non mancare: Assos e Chrisa (Gülpinar in turco). Abbiamo detto che la regione era in antico tripartita: un’altra sua zona, la fascia costiera comprendente città marinare e santuari, è
In alto uno dei tumuli che punteggiano il paesaggio della piana di Troia. Sulle due pagine la piana di Troia, con lo Stretto dei Dardanelli sullo sfondo.
l’Eolia, cioè la terra colonizzata dai Greci che, partendo dalla penisola, puntarono piú verso il settore settentrionale dell’Asia Minore (vedi box a p. 35). Dopo i «secoli bui» troviamo per esempio abitata dagli Eoli la piccola Tenedo. E Omero ci racconta, in un inciso, che fu proprio Achille ad attaccarla e a saccheggiarla, uccidendone il re, Arsinoo, del quale prese come schiava la figlia Ecamede «riccioli belli». Cosí come un momento cruciale della guerra è quello in cui, nel corso di una simile scorreria, lo stesso Achille alla guida dei suoi rapisce Criseide, figlia di Crise, sacerdote di
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TROADE
Apollo Sminteo, che viene quindi consegnata come bottino di guerra al generalissimo Agamennone. La peste poi scatenata contro gli Achei da Apollo, sdegnato per il rapimento, costringerà il condottiero a renderla al padre; ma lo indurrà a pretendere con arroganza, in cambio, Briseide, già assegnata ad Achille: la conseguente «ira» dell’eroe, sarà, lo ricordiamo, il punto di partenza narrativo dell’Iliade.
Le trame di Era Sembrano, queste, vicende confinate nel mito, nella fiaba... Fino a un certo punto: nella città eolica di Crise vi è davvero un tempio di Apollo
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Sminteo, celeberrimo nell’antichità. Siamo non lontani da Baba Burnu, il capo che segna l’ingresso dell’ampio golfo di Edremit. La vista lí è splendida, e il luogo mitico. Si tratta, infatti, dello stesso capo Lekteon dove Era, moglie di Zeus, approda dal mare dopo aver convinto il suo complice Hypnos, il Sonno, a tendere insieme a lei un tranello al re degli dèi: Era lo sedurrà con le sue grazie, inducendolo a un amplesso sulle balze dell’Ida, dopodiché il Sonno lo farà cadere in un torpore profondo. Zeus cesserà cosí per un bel po’ di proteggere in battaglia i Troiani, consentendo a Era e agli altri dèi che sostengono gli Achei di spingerli all’assalto.
In alto il poderoso castello ottomano di Tenedo (Bozcaada). Nella pagina accanto, in alto il cosiddetto «Altare di Zeus», sul golfo di Edremit. Nella pagina accanto, in basso una veduta panoramica di Tenedo.
Gli Eoli
P
er capire meglio chi fossero gli Eoli, basti ricordare che scrivevano in questo dialetto poeti universalmente noti come Saffo e Alceo, entrambi originari dell’isola di Lesbo, che appare grande all’orizzonte non appena si arriva al golfo di Edremit: si tratta dell’ottava isola del Mediterraneo per superficie, e costituisce un buon «trampolino» per giungere direttamente in Turchia via mare, provenendo dalla Grecia magari con la propria auto. Secondo molti studiosi, gli stessi poemi omerici
sarebbero stati originariamente composti in dialetto eolico, a cui si è poi sovrapposto uno strato ionico. Il che equivale a dire che lo stesso Omero si esprimeva in quel dialetto. Per non parlare di Achille, il protagonista di uno dei suoi due grandi poemi: Ftia, la terra di cui era re, si trova in Tessaglia, e la Tessaglia è appunto la regione da cui principalmente sciamarono gli Eoli. Probabilmente, la stessa guerra troiana rappresenta una delle prime fasi di una lunga serie di colonizzazioni.
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TROADE
I «figli del suolo»
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a bizzarra definizione di Apollo come «Sminteo» è legata a smínthos, che in greco antico vuol dire «topo», e deriva da uno dei miti sulle origini della regione. Il suo
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primo re sarebbe stato Teucro (da cui il nome di Teucri passato poi ai Troiani), che giunse qui provenendo da Creta con una schiera di compagni (si pensi anche all’identico nome di Ida dato al monte della Troade, cosí come all’Ida cretese). Secondo un
Sulle due pagine il podio e le colonne superstiti del tempio di Apollo Sminteo a Chrisa (oggi Gülpinar), oggetto di interventi condotti dall’archeologo turco Coskun Özgünel.
oracolo, essi avrebbero dovuto stabilirsi là dove sarebbero stati attaccati dai «figli del suolo». Una notte, il cuoio delle loro armature e i nervi dei loro archi furono rosicchiati dai topi, e cosí i Cretesi rimasero lí, dedicando un tempio ad Apollo, venerandolo con quel
Se si arriva a Chrisa alle luci del tramonto i resti del tempio di Apollo Sminteo, in stile ionico e risalente all’età ellenistica, parzialmente rialzato negli anni Ottanta da archeologi turchi, sprigionano un fascino accentuato dal silenzio dei paraggi e dalla colorazione tenue del marmo proconnesio, proveniente dall’isola di Marmara (Proconneso), del vicino e omonimo mare. L’epiteto con il quale Apollo era qui venerato, Sminteo, è legato a un piccolo animale, il topo (vedi box in queste pagine). E proprio il topo, o dei topi, pare fossero presenti ai piedi del dio, nella statua di culto opera di Scopa, di cui restano pochissimi frammenti. Nell’Iliade, Apollo appare come il piú grande protettore dei Troiani, ed è in fondo la divinità che piú di tutte muove la trama del poema (scatenando nel campo acheo la peste, poi facendo cadere morto Patroclo, ecc.). Tirando le fila di questo nostro itinerario troiano, possiamo concludere che al potente centro anatolico erano collegate, da un punto di
curioso epiteto. Rimasto senza figli maschi, né eredi al trono, Teucro accolse Dardano, originario di Samotracia, gli diede in sposa la figlia, e gli lasciò cosí il regno. Dardano stesso fondò Troia, oppure la città fu fondata in seguito da suo nipote Troo.
vista sia politico che religioso, altre località della regione, e che gran parte della guerra decennale mossa dagli Achei – una durata impensabile per un singolo assedio – fu in realtà costituita da scorrerie, razzie, devastazioni condotte dai loro capi in questo piú ampio territorio e per un lungo periodo: solo alla fine, appunto nel decimo anno, in cui si colloca il poema di Omero, l’assalto investí direttamente la città.
Un suggestivo contrasto Ma resta ora da raggiungere, all’interno del golfo di Adramitto, il sito sicuramente piú spettacolare della regione. Di Assos rimane ben conservata la città classica, di cui possiamo visitare l’acropoli, cinta ancora da possenti mura con alcune porte monumentali, e la zona pubblica, con agorà, ginnasio, bouleuterion (sala del consiglio) e, soprattutto, il teatro, ancora utilizzato per rappresentazioni estive. La pietra utilizzata per alcuni dei suoi
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TROADE
Una città di filosofi
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ondata dagli Eoli, che proprio dall’isola di Lesbo provenivano, la città di Assos ebbe notevole importanza in età classica, quando faceva parte di una sorta di principato indipendente guidato, nella metà del IV secolo a.C., da un sovrano-filosofo, Ermia di Atarneo. Costui, aspirando a governare lo Stato secondo l’utopia ideata nella Repubblica platonica, volle chiamare a sé quello che sarebbe divenuto il piú importante allievo del pensatore ateniese: Aristotele. Gli diede in sposa la propria nipote, Phythias (da cui il filosofo ebbe una figlia), e la frequentazione tra il filosofo e quel governante illuminato fu intensa per
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ben tre anni, dal 347 al 344 a.C., finché Aristotele non si trasferí nella vicina Lesbo in seguito alla uccisione di Ermia da parte dei Persiani: fu uno dei colpi di coda di un immenso impero, destinato di lí a poco a essere spazzato via dalla memorabile impresa di Alessandro Magno. A Lesbo Aristotele si era recato con un suo allievo destinato anch’egli alla celebrità: Teofrasto. Insieme, i due studiosi compirono ricerche scientifiche che segnano l’inizio della zoologia, della botanica e della biologia. Ma, di Assos, va ricordato era anche Cleante, il successore di Zenone, il fondatore della scuola filosofica degli stoici.
Assos. I resti del tempio di Atena, eretto, in stile dorico, intorno al 530 a.C. Poggiava su uno stilobate di 30,31 x 14,03 m, con 6 colonne sui lati brevi e 13 su quelli lunghi. Sullo sfondo, è parzialmente visibile l’isola di Lesbo.
edifici, compreso il tempio, posto alla sommità della rocca, è l’andesite, dal cromatismo bruno rossiccio che risalta nettamente sull’azzurro intenso dell’Egeo. L’edificio sacro, dedicato forse ad Atena, è datato attorno al 530 a.C.: matura età arcaica, quindi. Ha la singolarità di avere i capitelli dorici, unico tra i templi di quest’epoca in tutta la costa anatolica occidentale. Si pensi che allora l’ordine architettonico dorico era diffuso praticamente solo nel Peloponneso, nelle piú lontane isole del Sud dell’Egeo e in Magna Grecia e Sicilia. Le stesse colonne del tempio, rastremate verso l’alto e poggiate direttamente sullo stilobate, quindi prive di base propria,
ricordano, curiosamente, quelle di alcuni coevi templi di Paestum, in pieno Occidente. Non esito a dire che la vista di cui si gode dalla piattaforma del tempio sulla sottostante città, sul golfo e sull’isola greca di Lesbo che giganteggia al di là dell’ampio braccio di mare, vale da sola un intero viaggio. Con Assos abbiamo cosí incontrato la prima delle grandi città della Grecia d’Asia del nostro itinerario: la loro importanza storica, artistica e culturale, come vedremo, è senz’altro paragonabile a quella dei centri a noi piú noti della madrepatria ellenica, come Sparta e Atene, o a quelli della Magna Grecia e della Sicilia, come Taranto, Siracusa, Agrigento (vedi box alla pagina precedente). Qui, in terra d’Asia, dove due continenti si incontrano, si scontrano e si confrontano, è nata gran parte di quella che chiamiamo cultura occidentale.
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MISIA E LIDIA
COME UNA VERTIGINE
Attraversare la Misia e la Lidia, scoprendone le infinite bellezze è un’esperienza emozionante: qui, infatti, si incontrano testimonianze di eventi epocali e opere d’arte fra le piú eccelse di ogni tempo
L’acropoli di Pergamo, al centro della quale si riconosce il teatro ellenistico. Costruito tra il III e il II sec. a.C., l’impianto aveva 80 file di posti, che potevano accogliere 10 000 spettatori.
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L’
interno del golfo di Edremit ha belle spiagge lungo i suoi due versanti, nord e sud: è dominato dalla mole dell’Ida, il quale piú che un semplice monte appare come un massiccio dalle molte cime, imponente, tanto che in antico il golfo era detto anche «Ideo». Ma tutto il paesaggio – a leggerlo con la «realtà aumentata» di chi è consapevole dei miti e delle storie – è anche segnato, sia pure solo in ispirito, dal ricordo di alcune donne, nobili e dolenti, che sono le protagoniste dell’Iliade. Si è già detto di Criseide, figlia del sacerdote del tempio di Apollo a Crise: era nata lungo questo golfo, a Tebe Ipoplacica, situata non distante dall’odierna Edremit; e della stessa Tebe era originaria anche Andromaca, la sposa di Ettore, che verrà ridotta in schiavitú dopo la caduta di Troia. Di Lirnesso, invece, sita sempre nei paraggi, era Briseide, la concubina di Achille, la cui sottrazione con un atto di prepotenza da parte di Agamennone determinò l’ira dell’eroe: «funesta» per gli Achei a fianco dei quali il
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Pelide smise a lungo di combattere. Costui l’aveva rapita in seguito a una scorreria contro la cittadina, nel corso della quale le aveva anche ucciso il marito e tre fratelli: e poi se ne era innamorato. Ma i paraggi sono legati anche al personaggio di Enea, ch’era nato e cresciuto proprio sulle pendici dell’Ida; tanto che vi riparò dopo la fatale notte di Troia, andando poi a imbarcarsi con il padre Anchise e il figlio Ascanio, oltre che con i profughi troiani da lui portati in salvo, lungo questa costiera: ed esattamente ad Antandro – come riferisce Virgilio –, i cui scarsissimi resti si trovano poco prima del villaggio turco di Altınoluk.
Un popolo antichissimo e misterioso Da qui l’eroe cominciò l’epico tragitto che lo portò sino alle foci del Tevere. Queste terre, del resto, sono da sempre state contese tra popoli di origini diverse. Prima ancora dei Misi e degli Eoli, secondo gli antichi autori qui vivevano i Lelegi, una popolazione misteriosa e antichissima, forse affine, se non identica ai
Sulle due pagine la spettacolare vista sull’Ecatonneso e l’isola di Lesbo di cui si può godere dall’altura nota come «Mensa del Diavolo» (Seytan Sofrası).
In alto il monte Ida visto da Edremit, di cui domina l’omonimo golfo.
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Cari: siamo, ovviamente, in tempi ancora precedenti agli Achei che combatterono a Troia. Ma piú che soffermarci a visitare i pochi resti, peraltro di incerta identificazione, di Tebe e Lirnesso oppure Antandro, vale la pena di proseguire con calma lungo la panoramica strada costiera che, superata l’uscita per Edremit, scende gradualmente verso sud, volgendosi di nuovo verso occidente. Dopo poche decine di chilometri, ci troviamo cosí di nuovo ad affacciarci in pieno Mare Egeo. Ad attenderci questa volta non è piú una semplice estremità geografica, con un promontorio nettamente definito, ma una ben piú scenografica costiera che si riversa nel mare come frangendosi in schegge, che diventano decine e decine di isole. Ecatonneso, chiama Strabone questo piccolo, ma affollato arcipelago: non si tratta però di «cento» isole, come farebbe pensare a prima vista il nome a chi mastica un po’ di greco antico (èkaton in greco vuol dire «cento» e nèsos è «l’isola»). Invece Èkatos, «il Distante», è un epiteto, uno dei tanti soprannomi, di Apollo: sí, lo stesso Apollo che, come abbiamo visto, era il «patrono» di tutta la fascia costiera che inizia da Troia e prosegue fin qui.
Come l’orma di un gigante... Una volta arrivati nei paraggi, e prima di entrare nella deliziosa cittadina di Ayvalık, chiunque incontriate per strada vi esorterà a salire su un’altura di origine vulcanica la cui estremità porta il curioso nome di «Mensa del Diavolo» (Seytan Sofrası). A dispetto dell’etichetta un poco inquietante, ma originata da una cavità nella roccia che richiama l’orma di un piede gigantesco, vale assolutamente la pena di salire fin lassú, in auto o con uno dei tanti dolmus (piccoli autobus privati) sempre pronti a raccogliervi lungo le strade. Il sito diventa affollatissimo in particolare nell’ora del tramonto, poiché da qui è davvero fenomenale. Ma la zona merita una sosta che vada ben oltre un tramonto, sia pur memorabile. Trascorrere due, tre giorni ad Ayvalık, infatti, ci consente di immergerci nella vita di un centro abitato turco
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In alto barche da pesca ormeggiate nel porticciolo di Ayvalık. In basso una veduta della cittadina di Ayvalık.
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La chiesa dei Tassiarchi (gli arcangeli «guerrieri» Michele e Gabriele) sull’isola di Alibey.
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In basso, sulle due pagine veduta aerea di Çandarlı, dominata dalla mole del castello cinquecentesco.
di oggi, gradevole e assai vivace, con le barche dei pescatori che tornano in porto a vendere il pesce, i piccoli traghetti che fanno la spola con la principale delle isole vicine, Alibey, o che propongono il tour di quelle piú piccole.
Un passaggio obbligato Per trovare testimonianze archeologiche di rilievo, occorre spingersi ancora piú a sud, dove la costa piega decisamente verso meridione, pur restando sempre gradevolmente mossa e frastagliata. A occidente, ci tiene sempre compagnia la grande isola di Lesbo, appena al di là del mare. Inutile dire che questo ampio canale era un
passaggio obbligato per chi navigava da nord a sud, magari diretto alla strategica zona degli Stretti. Non stupisce, dunque, che a un certo punto in cui la strada si alza non di poco sul livello del mare, compaiano assai prossimi alla riva un paio di verdeggianti isolotti. Sarebbero queste le celebri Arginuse (sebbene una volta fossero tre: con il successivo interramento di una), teatro della terribile battaglia navale combattuta tra Ateniesi e Spartani nel 406 a.C. Lo scontro terminò con la clamorosa vittoria di Atene, che però, appena due anni piú tardi, perse la lunga Guerra del Peloponneso. È il caso di soffermarsi a contemplarle: oltre che belle, sono memorabili, perché quello scontro ebbe comunque conseguenze non solo militari, ma anche politiche. Ci stiamo ormai affacciando nel golfo di Elaia (detto appunto Elaitico in età classica). Ormai, man mano che avanziamo, ci aggiriamo sempre piú tra le testimonianze di un passato grandioso, tale da far venire quasi le vertigini: le vertigini della storia. Qui tre città-stato, le famose poleis greche, erano importanti per vari motivi. Anzitutto, ci troviamo alle foci del Bakır Çay (Caico o Kaikos) il primo e il piú settentrionale dei quattro grandi fiumi che, procedendo dall’interno dell’Anatolia, sboccano nell’Egeo: nel punto di arrivo, quindi, di una delle maggiori vie di comunicazione tra l’entroterra asiatico e la costa. Non a caso, poco oltre si leva ancora un vero e proprio gioiello archeologico, tra i centri principali del mondo ellenistico-romano: Pergamo. Questa zona costiera della Misia, la piú meridionale, è pur sempre Eolia, e però quella che si addentra nel continente era la Teutrania (parte della cosiddetta Mysia Maior): quella dove appunto rifulge, in gran parte conservata, l’antica capitale del regno di Pergamo. Ma la prima cittadina litoranea che incontriamo entrando nel golfo è Çandarlı: la si avvista da lontano grazie ai bei torrioni in pietra del castello cinquecentesco, che segnala il centro dell’abitato. Ha una piccola marina deliziosa, e lo stile di vita che vi si conduce, anche quando in estate diventa un frequentato centro
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turistico, è ancora genuinamente turco. Un promontorio basso e allungato, dove facilmente potevano essere portate in secco le navi di legno degli antichi, fece sí che la zona fosse colonizzata da parte di Greci. E infatti sappiamo che in antico qui sorgeva Pytane, una delle città che, con la vicina Elaia, faceva parte della cosiddetta «dodecapoli eolica»: una blanda confederazione politicoculturale che, cosí come anche nella vicina Ionia e nella piú lontana Doride, legava insieme poleis della stessa stirpe e del medesimo gruppo dialettale greco. La città aveva due porti, utilizzati a seconda di dove batteva il vento, come vedremo accadere anche altrove, per esempio a Focea e Cnido.
Dal «vero» al «plausibile» Questa variabile, doppia scelta sarebbe piaciuta a uno dei suoi figli piú celebri, il filosofo Arcesilao. Si tratta di un grande «scettico» dell’antichità, il quale fu a capo dell’Accademia platonica quando questa «virò» dalla conoscenza del Vero, del Giusto e dell’Essere, a quella piú modestamente realistica del «plausibile» o del «ragionevole» (è la cosiddetta «Seconda» o «Nuova Accademia»). In pratica, a questo luogo è legata la nascita e la prima giovinezza di un uomo che influenzò una parte fondamentale del pensiero europeo: quella che ha messo in discussione la nostra capacità di giungere a verità assolute. Insomma, chi voglia godere allo stesso tempo del mare, del vento, delle
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memorie del passato e di un buon punto di partenza per visitare il golfo e Pergamo, potrà piacevolmente fermarsi qui alcuni giorni. A parte i pochi resti archeologici di Pytane (ma sappiamo che essa fu addirittura raggiunta dalla frequentazione da parte micenea della costa anatolica), bastano pochi chilometri per raggiungere Elaia. Quando vi sono andato, mai avrei trovato da solo il suo delizioso porticciolo classico, seminterrato dai detriti fluviali del Caico, se non mi ci avessero condotto un vecchio agricoltore, che coltivava i begli uliveti per cui l’intero golfo è rinomato, e suo figlio: con loro, ho passeggiato a lungo tra le acque basse e salmastre, attento a non scivolare, sugli stretti moli in pietra dove ancora si scorgono i resti degli ormeggi delle navi degli Eoli. Invece, Kyme (sí, la città che ha dato il nome alla nostra Cuma, in Magna Grecia) è piú facilmente individuabile. Scavata anche in tempi recenti con il fondamentale apporto dell’archeologia italiana, presenta strutture urbane e portuali ben maggiori di quelle di Elaia. E, sebbene il luogo sia reso poco gradevole dalla vista di vicine industrie e officine, vale senz’altro una breve visita. Ma è ora il momento di risalire, su una comoda strada percorsa anche da frequenti autobus pubblici e privati, la valle del Caico: finché arriviamo nel centro piú importante della Teutrania, Pergamo. Per i Turchi oggi è Bergama, con curiosa assonanza, forse non casuale, con la nostra Bergamo (da *bherg, termine di origine indoeuropea che indica una
Sulle due pagine i resti del Grande Altare eretto a Pergamo in onore di Zeus e in origine decorato dai fregi oggi conservati al Pergamonmuseum di Berlino (vedi foto alle pp. 50-51).
rocca, un monte). Pergamo è una cittàcapolavoro, contenente edifici che a loro volta erano e ancora sono grandi capolavori. Non basta: questi stessi edifici contenevano opere d’arte di assoluto rilievo, come per esempio gli originali bronzei del Galata morente e del Galata suicida, le cui repliche in marmo fanno ora bella mostra di sé a Roma, il primo nei Musei Capitolini e il secondo in Palazzo Altemps, una delle sedi del Museo Nazionale Romano. Ma perché diciamo che Pergamo di per sé è una città-capolavoro? Chi la vede, lo
intende già al primo sguardo. Arrivando a Bergama, si staglia sullo sfondo un’altura scoscesa di circa 335 m circondata da due fiumi minori che sfociano poi nel Caico. Sulla cima rifulgono da lontano eterei, leggerissimi contorni e colonnati di edifici; ma è quasi tutto il ripido pendio della rupe che, ben presto, ci accorgiamo essere sapientemente edificato.
Impianti urbanistici regolari L’età che vide affermarsi in gran parte dell’Asia occidentale i regni fondati dai generali e dagli
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ufficiali che avevano seguito il grande Alessandro il Macedone nella sua vittoriosa impresa contro l’impero persiano è detta ellenistica, poiché ha diffuso la cultura e la lingua greca su immensi territori, influenzando e in parte anche venendo influenzata dalle civiltà di volta in volta incontrate e sottomesse.
Il Grande Altare di Pergamo nella ricostruzione che si può ammirare nel Pergamon Museum di Berlino.
Quest’epoca si caratterizza soprattutto per la fondazione di numerose città, poiché i Greci erano come è noto organizzati in poleis (cittàstato); questo, dai tempi di Ippodamo di Mileto in poi (V secolo a.C.), significava disegnare impianti urbanistici razionali e regolari, fatti di vie rette e di incroci perpendicolari.
Pergamo, tra politica, arte e leggenda
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entre gli altri regni ellenistici, come la Siria, l’Egitto e la Macedonia, si dissanguarono per decenni in continue lotte reciproche, mirando invano ad affermarsi come i riunificatori delle immense conquiste di Alessandro, e sfidarono cosí uno alla volta, soccombendo, la potenza sempre crescente della città nata sul Tevere, al contrario Pergamo, una volta conquistata l’indipendenza dal regno di Siria, e avendola difesa contro i barbari Galati, ebbe la lungimiranza di puntare su quello che sarebbe risultato il vincitore finale. Tanto che il regno e la sua prestigiosa capitale non caddero nelle braccia dei Romani dopo essere stati vinti, umiliati e magari distrutti, ma pacificamente e in seguito a un lascito testamentario: quello che nel 133
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a.C. fece Attalo III, in punto di morte, in favore di Roma. In questo, la città della Misia seppe mettere a frutto anche i suoi «trascorsi» mitologici. Il fondatore della città, Telefo, era un figlio di Eracle e originario dell’Arcadia, quindi un vero e proprio greco: la stessa regione da cui provenivano, sempre secondo il mito, i primi abitanti del colle capitolino, cioè quegli altri oriundi Arcadi, appunto, su cui regnava Evandro, colui che accolse benevolmente e poi si alleò con Enea profugo da Troia, quando costui era appena approdato sulla costa laziale. Abbandonato a causa di un oracolo infausto e poi miracolosamente allattato da una fiera (una cerva o una leonessa: altra somiglianza, questa, con le vicende del fondatore di Roma), Telefo, una volta cresciuto, si recò con i suoi
compagni in Misia, dove fu accolto dal re Teutrante, ritrovò la madre Auge, e, infine, per i suoi meriti militari, ne ereditò il regno. Il suo nome, però, deriva probabilmente da quello del dio ittita dell’agricoltura e delle stagioni, Telepinu, identificato a sua volta con il mesopotamico Temmuz. Il grandioso fregio scolpito raffigurante la Gigantomachia, d’altra parte, collocato all’esterno dell’Altare di Zeus, rimanda sia alla guerra vinta contro i barbari Galati, sia, ovviamente, alla celebre Gigantomachia raffigurata nei bassorilievi del Partenone di Atene. Città alla quale, non dimentichiamolo, un re di Pergamo donò la «Stoà di Attalo» (II), oggi perfettamente ricostruita nell’Agorà grazie all’intervento della Scuola Archeologica Americana di Studi Classici.
Ma Pergamo era una rocca, per di piú scoscesa: e lo sforzo di calare la nuova urbanistica in un sito dove essa sembrava quasi impossibile ha generato un impianto cittadino innovativo, molto mosso poiché articolato su piú livelli. Ogni grande edificio, o ciascun gruppo di edifici posti sullo stesso livello presupponevano, per esempio, grandi lavori di terrazzamento e di contenimento. Ciò fa sí che quasi ogni opera architettonica paia posta come su un alto podio, e sia quindi anche ben visibile dal basso. Pure il grandioso teatro di ben 88 gradinate, collocato com’è subito sotto la terrazza superiore (quella su cui si ergevano alcuni dei templi e i palazzi reali) sembra quasi un’immensa opera di contenimento, come se la sua funzione non fosse solo quella di ospitare le migliaia di spettatori che, da lassú, godevano di una vista che spazia fino al golfo Elaitico, ma anche
La ricostruzione dell’Altare di Zeus nella scenografica collocazione sulla collina della città antica, in una incisione dell’Ottocento.
quella di impedire a regge e sacre dimore degli dèi di franare a valle. Insomma, la Pergamo ellenistica e romana era una «città verticale». Se dal basso tutto ciò appare superbo e solenne, una volta sopra, quando ci si aggira tra i resti di Pergamo (alcuni ancora monumentali, altri ridotti purtroppo alle fondamenta), la sensazione è quella di una lieve, ma gradevole vertigine, determinata da una parte dai panorami abissali che si aprono e dalla vastità dell’orizzonte che ci attornia, ma dall’altra anche, oseremmo dire, da un eccesso di bellezza. Come fu possibile tutto questo? La dinastia degli Attalidi, che fondò il regno pergameno e poi lo resse per circa centocinquant’anni (dal 282 circa al 133 a.C.), vide succedersi al trono personaggi quasi sempre capaci, equilibrati e colti. E però anche bellicosi: capaci quindi di fulgide vittorie, come quelle, mirabili, che fermarono i
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ripetuti assalti al regno condotti dai Galati (i Celti dell’Anatolia), cosí come di iniziative culturali grandiose (la Biblioteca di Pergamo, fondata da Eumene II – 197-159 a.C. – rivaleggiava con quella di Alessandria d’Egitto, e conteneva ben 200 000 volumi). Inoltre, questi sovrani furono gli unici tra quelli del mondo ellenistico a mantenere nel tempo una linea politica internazionale coerente e, in qualche modo, sagace: essa aveva come suo caposaldo (cosa singolare, in un contesto di sovrani gelosi della comune ascendenza greca) l’alleanza con Roma (vedi box a p. 50).
Atene come modello Tutto ciò assicurò secoli di intatto splendore alla magnifica città. E soprattutto, il suo concentrato delle piú grandi conquiste artistiche e culturali dell’epoca, attraverso decenni di buoni e privilegiati rapporti, favorí la trasmissione a Roma della civiltà dell’ellenismo: si pensi alle già citate copie in marmo del Galata morente e del Galata suicida, In alto Galata suicida (o Galata Ludovisi), copia romana di uno degli originali bronzei realizzati per il donario pergameno del re Attalo I (241-197 a.C.). Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.
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rinvenute a Villa Ludovisi. E non solo dell’ellenismo, a dire il vero. Il modello culturale e politico di Pergamo e dei suoi sovrani era soprattutto la prestigiosa Atene. Ne condivideva infatti l’amore per le arti, il sapere, e le lettere, ma anche la lunga lotta contro i barbari nemici della grecità (i Galati, insomma, come «nuovi» Persiani). Venerava inoltre la stessa divinità «poliade» (cioè, protettrice), Atena: il tempio dedicato alla dea, forse opera di uno dei piú grandi architetti dell’epoca, Ermogene, sorgeva in posizione
In basso e nella pagina accanto, in basso Galata morente, copia romana di uno degli originali bronzei realizzati per il donario pergameno del re Attalo I (241-197 a.C.). Roma, Musei Capitolini.
dominante rispetto al teatro stesso, e guardava dall’alto un altro capolavoro assoluto: l’Altare di Zeus con i suoi magnifici rilievi della Gigantomachia e del mito di Telefo (il primo scolpito in forma quasi tridimensionale nel marmo), oggi conservati nel Pergamon Museum di Berlino e rinvenuti dagli archeologi tedeschi Alexander Conze e Carl Humann a partire dagli anni 1877/78. Il recinto sacro alla dea conteneva inoltre una copia dell’Atena Parthenos di Fidia. Alle sue spalle si ergeva la biblioteca: che non era solo un deposito di volumi, ma un centro di condivisione e di produzione del sapere. Ancora secoli dopo la fine dell’indipendenza, una tale città seppe dare origine a un personaggio quale Galeno (129-199 d.C. circa), il medico e filosofo che sotto vari aspetti condivide con Ippocrate (vissuto ben sette secoli prima) l’onore di aver posto le basi della scienza medica. Pergamo, dunque, non fu solo una splendida città: dal punto di vista artistico e culturale, fu una delle principali intermediarie tra l’Atene classica e la Roma imperiale. Ma è venuto ora il momento di
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
dirigerci verso il secondo grande fiume che attraversa l’Asia Minore, l’Ermo, quello che segnava i confini meridionali della zona costiera colonizzata dagli Eoli. Il corso d’acqua, che è lungo 321 km, si distende all’interno di un’ampia vallata, fertilissima, circondata da monti che nel lato sud sfiorano i 2000 m, come il Sipilo e lo Tmolo. È il cuore dell’antica Lidia, la regione anatolica che costituí un potente Stato nella prima metà del I millennio a.C., ed ebbe per ultimo re Creso (dal 560 al 547/6 a.C.), sovrano della dinastia dei Mermnadi. Creso sarebbe passato alla storia da un lato per la sua proverbiale ricchezza, e dall’altro per la sorte infelice, che lo portò a essere travolto in guerra avendo cercato di contrastare il nascente impero persiano guidato da Ciro il Grande. Perciò, anche in questo caso vale la pena di risalire il corso dell’Ermo (oggi Gediz Çay), per
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incontrare due delle piú importanti città di quel regno: Magnesia, la piú vicina al mare, e Sardi, la capitale, che dista da esso un centinaio di chilometri. Confesso che la prima volta che sono arrivato a Sardi ho cercato subito il letto di un fiume, il Pattolo, affluente dell’Ermo, che sapevo attraversare la città. Questo corso d’acqua, quasi in secca ormai durante l’estate, spiega in buona parte la ricchezza di Creso: era ricco d’oro. Il Museo Archeologico di Smirne (Izmir), città che incontreremo prossimamente, espone con orgoglio, in alcune vetrine, un ulteriore motivo per cui quell’oro è diventato famoso: di esso, infatti, messo in una lega con l’argento chiamata elettro, sono fatte le piú antiche monete della storia dell’umanità. Insomma, si può ben dire che tra queste rovine, peraltro assai imponenti, della capitale di Creso, sia nato il denaro.
Particolare del fregio del Grande Altare raffigurante la lotta di Atena contro Alcioneo, affiancata dalla Nike ad ali spiegate. Le figure si alternano con un principio di simmetria che dà il ritmo all’intera composizione. Berlino, Pergamon Museum.
E non è tutto: se le possenti colonne ioniche del tempio dedicato insieme a due divintà (Zeus, da un lato, e Artemide/Cibele dall’altro) impressionano il visitatore, non meno importante è un tratto di strada lastricata in pietra che affianca l’antico ginnasio romano, edificio oggi splendidamente ricostruito. Quella strada, infatti, è un tratto della Via Reale persiana, la grande opera ingegneristica che, a partire dal V secolo a.C., unificò, per volontà di Dario I, tratti di strade preesistenti, in modo da poter viaggiare direttamente e in sicurezza dal cuore della Persia, dall’antica capitale Susa, a quello dell’Anatolia, a Gordio (il famoso «nodo» sciolto da Alessandro con un colpo di spada era anche, metaforicamente, un importante «snodo» viario) e poi fino a Sardi, appunto: che, una volta conquistata da Ciro, era divenuta la capitale occidentale dell’impero. Insomma, se l’oro del Pattolo fu il primo a divenire «moneta» era perché il denaro costituiva una geniale invenzione che facilitava e ampliava i commerci.
richiama quello di una provincia montuosa della Tessaglia: abitata appunto dagli Eoli. Un’altra fonte di relax si può trovare visitando uno degli hamam piú antichi ancora in funzione, quello nei pressi della Sultan Camii. Non è il solito «bagno turco» per i turisti: è un edificio antico perfettamente funzionante, almeno quando l’ho visitato io, che per certi versi richiama ancora (vi è perfino una piccola «piscina»di acqua fredda) quelle che dovevano essere mille anni prima le terme romane. La terza alternativa per rilassarsi è risalire le pendici del Sipilo, fino ad avere una completa visione dall’alto non solo della città intera, ma anche della sua vallata. In questa piana strategicamente centrale, nel 190 a.C. si scontrarono in una grande battaglia (precisamente nella località detta Curupedio) i Romani guidati da Lucio Cornelio Scipione (fratello di Publio, detto l’Africano, vincitore di Annibale a Zama) e l’esercito del regno di Siria, il cui sovrano era Antioco III il Grande, esponente della dinastia ellenistica dei
Splendori ottomani
A destra lastra del Piccolo Fregio dell’Altare di Zeus con la scena in cui Telefo (a destra, vestito di corazza), giunto in Misia, sta per ricevere da Auge le armi con cui combatterà per il re Teutrante. Due giovani misii lo accompagnano: l’uno armato di giavellotto e spada, l’altro con un elmo di tipo attico. Un altro personaggio alle loro spalle muove in direzione opposta e indossa un copricapo frigio.
Mentre Sardi, oggi Sart, non è ormai piú che una zona archeologica, Magnesia (Manisa) è una fiorente e popolosa città turca, piena di vita e di merci. E allora è possibile entrare a visitare in silenzio e raccoglimento le sue magnifiche moschee, costruite tra la fine dell’impero selgiuchide e l’affermarsi di quello ottomano (XIV-XVI secolo): sia la moschea Muradiye, sia quella di Sultan, che quella detta Ulu Camii sono capolavori dell’arte islamica. Questa magnificenza si spiega col fatto che, prima della conquista di Costantinopoli, i sultani Osmanli risiedevano a Bursa (l’antica Prusa, in Bitinia), ma anche qui a Manisa. Come per secoli accadde anche in Occidente, per erigere gli edifici sacri alla divinità monoteista si riutilizzava spesso materiale antico: e tutti e tre gli edifici, infatti, ostentano colonnati e altri elementi architettonici di età classica. Magnesia fu poi anch’essa colonizzata dai Greci di stirpe eolica, come conferma il suo nome che
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Il pianto di Niobe sul Sipilo
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osí come ne abbiamo incontrate nella Troade, anche a Magnesia, e sempre sulle pendici del monte Sipilo, possiamo ricordare un’altra delle donne celebri del mito: Niobe. Figlia di Tantalo e sorella di Pelope, ebbe dal marito Anfione ben quattordici figli. Era tanto orgogliosa della sua maternità, che ebbe l’ardire di dichiararsi superiore a Latona, la divina amante di Zeus, la quale ne aveva partoriti solo due: Apollo e Artemide.
Seleucidi. La vittoria, travolgente, fu dei Romani: Lucio fu detto da allora in poi «l’Asiatico»; al re di Pergamo Eumene II, alleato e sostenitore di Roma, furono ampliati a dismisura i possedimenti, tanto che il suo regno giunse a inglobare gran parte dell’Anatolia occidentale. Ma soprattutto, da allora i Romani divennero gli arbitri dell’intero Vicino Oriente (vedi box alla pagina precedente). Fluendo verso l’Egeo, oggi l’Ermo sbocca nei pressi di una cittadina costiera detta Antica
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Ma guai a provocare gli dèi, soprattutto se permalosi e forniti di frecce: i due arcieri mirarono senza pietà ai figli della poveretta, facendone strage. Affranta dal pianto, si narra che Niobe fu trasformata per pietà dagli altri dèi in pietra: da cui però, come lacrime, senza sosta stillava acqua. Gli abitanti di Magnesia vi sapranno indicare dove si trova una roccia che, in qualche modo, ricorda una gigantesca figura prostrata al suolo.
Focea (Eski Foça). All’interno di un suggestivo, piccolo golfo, dotata di due porticcioli, Focea rende bene l’immagine – sia per la sua collocazione, sia per le dimensioni, sia per l’attività tuttora prevalente, la navigazione – di ciò che doveva essere un’antica colonia microasiatica ellenica. La fondazione avvenne su una lingua di terra appena rilevata (l’antica acropoli) che al centro dello specchio di mare crea due insenature, corrispondenti agli antichi scali: ancora oggi frequentati dalle barche da pesca; ma un tempo navi piú audaci si
In alto fronte di sarcofago raffigurante la strage dei Niobidi. 160 d.C. circa. Monaco di Baviera, Glyptothek. A sinistra monete in elettro di forma irregolare, ritrovate nei primi anni del Novecento sotto le fondamenta del tempio di Artemide a Efeso. VII-VI sec. a.C. Izmir, Museo Archeologico. Nella pagina accanto, in basso il tempio di Artemide a Sardi.
In basso i resti del tempio di Artemide a Sardi.
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Immagini di Manisa (Magnesia). Dall’alto, la moschea Muradiye e le cupolette dell’hamam nei pressi della Sultan Camii.
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A destra veduta aerea di Manisa (Magnesia).
slanciarono lungo rotte che arrivavano fino all’altra metà del Mediterraneo.
Volontà di sopravvivenza Oltre a Lampsaco sui Dardanelli e ad Amiso (l’odierna Samsun) nel Mar Nero, Focei erano infatti coloro che fondarono l’odierna Marsiglia (Massalia) in Francia, l’antica Alalia (in Corsica), e infine Elea (oggi Velia), in Campania. La loro intraprendenza fu in parte di tipo commerciale, tanto da andare a disturbare i traffici di Etruschi e Cartaginesi nel Tirreno, ma in parte era dettata da pura volontà di sopravvivenza. Quando infatti, dopo aver travolto il regno di Lidia, dal 547/6 a.C. i Persiani iniziarono ad assoggettare una dopo l’altra tutte le città elleniche della costa egea, alcune si sottomisero (come Mileto) altre resistettero fino a essere sconfitte; solo due, Focea appunto, e la ionica Teo, decisero che mai e poi mai avrebbero accettato la servitú sotto il Re dei Re Ciro il Grande. Gli abitanti abbandonarono la città in massa: lasciarono incustodite le bellissime mura da poco
rinnovate (se ne vede traccia non lontano dal teatro antico, poco fuori dell’abitato odierno), il maestoso tempio di Atena nell’acropoli (oggi vi è costruita sopra una scuola), e, all’estremità del promontorio, l’ancora visibile santuario di Cibele, a metà tra terra e mare. Focea (il cui simbolo era davvero una foca, rappresentata nelle sue monete, tra le prime del mondo greco) si trasferí cosí, portando la fiamma sacra e i numi tutelari, nel nostro Occidente; non diversamente da come l’epos narra avesse fatto Enea coi suoi, preservando per una sorte piú gloriosa – nella futura Roma – i Lari e i Penati di Ilio. Come anche rivela il nome, a fondarla erano stati i Focesi, vale a dire gli abitanti di dialetto eolico della Focide, regione della Grecia centrale (dov’è Delfi, per intenderci). Ma con essi erano partiti dalla madrepatria anche degli abitanti dell’Attica, quindi Ioni. Questo spiega perché, col tempo, la polis fu ammessa a far parte della «Dodecapoli Ionica». E, infatti, subito dopo Focea, il nostro itinerario prosegue nella Ionia d’Asia.
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Pergamo
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Mitilene
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Smirne
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Samos
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Mileto
IONIA
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Magnesia sul Meandro
Didim Alicarnasso Kos
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DORI
Rodi
Veduta a volo d’uccello del teatro di Mileto, monumento simbolo della città. È stato calcolato che le sue gradinate potessero accogliere 15 000 spettatori.
LA IONIA DEL MEANDRO
CADUTE E RINASCITE
Investite dalle spedizioni persiane, le magnifiche città della Ionia ebbero la forza di risollevarsi e, liberate, vissero una straordinaria seconda vita. Ancora oggi testimoniata da monumenti di superba bellezza
IONIA DEL MEANDRO
L
a visita della Ionia costituisce la parte centrale del nostro itinerario. Centrale anzitutto dal punto di vista geografico: tra l’Eolia, che abbiamo appena lasciato a nord, e la Doride, che incontreremo, piú a sud, quello di Ionia è il nome che portava nell’antichità la zona costiera mediana della Turchia che si affaccia sull’Egeo. Essa includeva anche due grandi isole, Chio e Samo, oggi parte delle Repubblica Greca, assieme ad altre minori. Ma la Ionia è centrale anche dal punto di vista storico. Tanto è vero che è la sola delle tre regioni antiche il cui nome sia sopravvissuto nelle lingue moderne. A cominciare da quella turca: dove «greco» si dice «Yunan», e Grecia «Yunanistan».
È vero: anche la piú celebre polis greca classica, Atene, parlava un dialetto molto simile allo ionico, ed era considerata la madrepatria degli Ioni. Tuttavia, fino a un certo punto della storia si può dire che all’avanguardia dell’intera grecità – dal punto di vista della ricchezza, della intraprendenza economica ed espansionistica, delle espressioni del pensiero e dell’arte – vi fosse proprio la Ionia d’Asia: che primeggiava anche su Atene, la cui grandezza doveva ancora farsi strada. Il punto di svolta – che in seguito determinò il fatto che quando noi ora diciamo «Grecia» ci riferiamo essenzialmente alla penisola ellenica, e non a questa «Grecia» dell’Anatolia – fu la I resti del Didimeo, il grandioso tempio di Apollo che era anche sede di un celebre oracolo. Il complesso si trova presso l’odierna Didim, a sud di Mileto.
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conquista persiana, e in certi casi la temporanea caduta, delle fiorenti poleis della regione, realizzatasi a partire dalla metà del VI secolo a.C. In particolare, la vera e propria catastrofe avvenne a seguito della «rivolta ionica» del 499-494 a.C., conclusasi con la disfatta totale degli insorti, la riaffermazione del potere del Gran Re (allora, Dario I) e la distruzione del loro centro principale, la potente Mileto. Chi si reca oggi a Mileto prova quasi ancora
l’impressione di una devastazione totale: nessuna città è piú sorta sullo stesso sito (contrariamente a Smirne, per esempio), mentre l’interramento dell’importantissimo porto da parte dei detriti fluviali del Meandro, il piú grande fiume dell’Asia minore egea, e la vegetazione piegata dal sole estivo il cui colore si ravviva solo in alcuni acquitrini, residuo di quello che una volta era mare, danno l’idea di una grandezza tramontata per sempre.
In basso i resti dell’«altare di Poseidone», nei pressi di Mileto. Secondo Strabone, l’altare fu costruito per volere di Neleo, il discendente di Nestore che, alla guida degli Ioni, aveva rifondato la città.
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Ma c’è un errore di prospettiva storica: le grandiose rovine che vediamo sono solo in parte quelle della città distrutta dalle truppe di Dario. Mileto non finí nel 494 a.C., ma risorse, come del resto tutta la Ionia, a seguito della riscossa dei Greci della madrepatria che, con la seconda guerra persiana del 480-78 a.C., sconfissero l’invasore e liberarono tutte le poleis della regione. Dopo le conquiste di Alessandro, sotto i regni ellenistici, e poi in seguito alla conquista romana, compiuta già nel I secolo a.C., la Ionia e le sue città, cosí come anche quelle delle adiacenti regioni microasiatiche, vissero altri lunghi secoli di rinnovato splendore. Non solo: mentre l’impero romano d’Occidente cadde nel V secolo d.C. e i suoi monumenti e le sue città, tra cui la stessa Roma, entrarono in una profonda decadenza, qui, in Anatolia, il mondo antico, cioè l’impero
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d’Oriente nella «versione» bizantina, sopravvisse per svariati altri secoli (fino alle conquiste selgiuchide, tra XI e XIII secolo, e ottomana, tra XIV e XV secolo).
Resti grandiosi e imponenti Ecco perché la Ionia, ma in genere anche tutta la fascia costiera piú meridionale, fino ad Antalya, collocata ormai in aperto Mediterraneo, presentano rovine maestose, imponenti, che rimasero integre, addirittura a volte mantenendo la funzione originaria, fino a tempi piú prossimi ai nostri. A parte e oltre la grecità, potremmo quindi dire che nella Ionia sopravvivono, in tutta la loro bellezza e suggestione, anche i resti di una grandiosa, vincente civiltà romana in terra d’Asia. Tutto ciò, unito a un clima e a un paesaggio davvero invidiabili, comporta alcune
Sulle due pagine due particolari della lussureggiante decorazione scultorea del Didimeo: una protome taurina (in alto) e una testa di Medusa.
conseguenze per il viaggiatore odierno. Infatti, inizia da qui anche la zona piú turistica della costa turca dell’Egeo. A Kusadası, a Bodrum, a Altınkum e fino alla stessa Antalya, troverete, assieme a spiagge organizzate e complessi alberghieri, i labirintici bazar ricolmi di ogni tipo di merce tradizionale o d’importazione, con i loro mercanti di tappeti e di spezie e i moderni hamam concepiti a uso e consumo esclusivo degli stranieri; a ciò vanno aggiunti i pullman dei crocieristi provenienti da ogni parte d’Europa, spediti a compiere escursioni giornaliere nei siti piú famosi, e i voli di linea o i charter che atterrano dagli altri quattro continenti. Insomma: se a Mileto vi aggirerete un po’ sperduti, quasi in solitudine e in una sorta mistico raccoglimento per meditare sulle sorti delle grandezze umane, a Efeso, nelle ore centrali della giornata, dovrete farvi strada tra le numerose comitive. Ma la Turchia è un Paese talmente grande e vario che, con un po’ di buona volontà e un minimo di informazione, anche gli amanti dell’archeologia, della storia, dell’arte (e della quiete) troveranno località assolutamente rilevanti da visitare con agio, con calma e, spesso, attorniati dalle sole voci della natura.
La Ionia è cosí ricca di storia, di testimonianze, di bellezze artistiche e paesaggistiche che non basterebbe un libro intero per descriverle. Per forza di cose, in queste pagine ci concentreremo su una parte di esse: non necessariamente e solo le piú famose, ma anche le piú suggestive e significative.
Il faro e un albero solitario Capo Monodendri, per esempio. Ormai è probabile che qualche tabella stradale lo segnali, partendo da Didim, la località a sud di Mileto ove sorge il santuario di Apollo, sede di un celebre oracolo (il Didimeo, appunto). Ma quando l’ho visitato anni fa nessuna strada asfaltata vi arrivava, la zona era disabitata, e soprattutto il Capo, essendo basso sul mare, non è visibile se non all’ultimo momento, quando vi si è già arrivati. Chi incrociasse qualcuno nella zona dovrebbe chiedere del fener, cioè del faro, che è l’edificio moderno che lo segnala. Monodendri è cosí chiamato perché vi era un tempo un solo, grande albero (e in turco è detto Tekagaç, che significa la stessa cosa). Ma sotto quel grande albero giacevano i resti, semiabbandonati, di uno dei luoghi piú importanti e suggestivi della Ionia.
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IONIA DEL MEANDRO
Si tratta di un altare arcaico, in marmo, eretto a stretto contatto con le onde del mare, la cui scalinata di accesso sembra anzi scendere proprio nell’acqua. Di fronte, l’orizzonte egeo è ricco di isole: le piccole Farmakonissi e Agathonissi, poi Lipsi, Leros, Kalimnos, forse addirittura la grande e lontana Kos. È l’arcipelago del Dodecanneso. Questo
altare, sacro al dio del mare, Poseidone, segna il punto in cui all’incirca dieci secoli prima di Cristo gli Ioni approdarono in Asia Minore, avviandone la colonizzazione. Erano guidati da Neleo, figlio di Codro, l’ultimo re di Atene e discendente di Nestore, il re di Pilo protagonista dei poemi omerici. Sarebbe poi stato Neleo a fondare Mileto; cosí come suo
La grandezza culturale di Mileto
C
on Talete di Mileto, nascono insieme la filosofia e le scienze naturali, cioè l’indagine e la conoscenza della realtà attraverso la luce della ragione e l’osservazione diretta dei fenomeni. Egli fu il primo a predire in Occidente un’eclissi solare (nel 585 a.C.), e a ipotizzare che alle origini del mondo non vi fosse una volontà divina, bensí un’archè («principio») costituito da un elemento naturale. Ebbe discepoli e continuatori che diedero vita alla prima scuola filosofica dell’antichità: la «scuola ionica». Tra di essi Anassimandro, successore di Talete, compose la prima opera occidentale in prosa della quale abbiamo notizia, che intitolò Sulla Natura: prima di lui le opere erano sempre in versi, perché piú agevoli da tramandare mnemonicamente. Fu anche autore della prima carta geografica. Sempre di Mileto era Ecateo – il predecessore del «Padre della Storia», Erodoto –, il quale rivolse il suo spirito critico, aperto e disincantato, anche alle vicende e alle idee degli uomini, smontando le «favole» del mito. Quando fu liberata dai Greci nella metà del V secolo a.C. dopo la distruzione persiana, Mileto venne ricostruita secondo un impianto ortogonale, cioè con strade che si intersecano ad angolo retto, creando una sorta di scacchiera viaria: i terreni quadrilateri cosí creati erano adibiti a edifici abitativi privati (di dimensioni quindi omogenee: indizio di una concezione politica ugualitaria, che si affermò proprio in quelli che erano i decenni dell’ascesa della democrazia ateniese). Nei luoghi opportuni, si creava lo spazio necessario a piazze, agorà, edifici pubblici e monumentali. Ciò era il frutto della nuova arte urbanistica, elaborata da un altro cittadino di Mileto, l’architetto Ippodamo, che, tra l’altro, venne incaricato di disegnare, secondo gli stessi principi, anche il sistema viario del porto del Pireo, ad Atene, il cui tracciato permane tuttora. Ippodamo divenne talmente celebre che, nel 444 a.C., fu chiamato da Pericle a fondare la colonia panellenica di Thurii, in Magna Grecia.
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Ritratto di Talete di Mileto. II sec. d.C. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, Museo dei Marmi.
Storia di un fiume «proverbiale»: il Meandro
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o sconvolgimento topografico di questa parte della Ionia ha un responsabile: il fiume Meandro. Oggi i Turchi specificano che si tratta del «grande» Meandro (Büyük Menderes), lungo 350 km, distinguendolo in tal modo dall’antico Caistro, che scorre piú a nord, detto Küçük («piccolo») Menderes, lungo appena 130 km. Questi sono i due principali fiumi che, provenendo dall’interno montuoso dell’Anatolia, attraversavano nell’ultimo tratto la Ionia andando a sfociare nell’Egeo. Erano entrambi in parte navigabili, e anche laddove cessavano di esserlo, le vallate che avevano scavato nel corso del tempo erano le vie di terra piú agevoli del mondo antico: sicché molte delle città che visiteremo sorgono lungo il loro corso. Nel golfo su cui sfociava il Meandro si affacciava cosí non solo Mileto, ma anche, sull’altro lato, quello
settentrionale, presso una delle ultime anse del fiume troviamo Priene, altra importante polis, mentre a sudest, in un recesso ancor piú interno, si levano le suggestive rovine di Eraclea. Sono entrambe città che visiteremo. Ma oggi tutto è mutato: Mileto è interrata, Priene non ha piú un porto fluviale, ed Eraclea è addirittura chiusa in un lago, da cui il mare è invisibile. A questo ha condotto il diuturno deposito di detriti alluvionali da parte del Meandro. La costa, qui, avanza ben 12 m l’anno. Con le sue ampie, lente anse, il fiume ha dato origine a un motivo decorativo tipico non solo degli edifici della Ionia, ma di tutto il mondo greco: tanto da poter essere chiamato sia «meandro», sia «greca». Si tratta di una linea o piú linee parallele continue e ripiegate su se stesse, che vanno a formare vari motivi ripetuti.
In alto un tratto del «grande» Meandro (Büyük Menderes) nei pressi di Aydin. Lungo 350 km, il fiume nasce a sud dell’odierna città di Usak e sfociava un tempo nel golfo che si apriva tra Mileto a sud e Priene a nord, e oggi interrato proprio a causa dei detriti trasportati dal corso d’acqua. In basso uno scorcio dell’area archeologica di Mileto.
fratello Androclo fondò, divenendone il re, l’altra grande città della Ionia, Efeso. Sotto questi grandi blocchi di marmo, che a volte, nel meriggio, sembrano assumere l’azzurro del mare, e a sera l’arancio dei tramonti, è iniziata insomma la storia dei Greci d’Asia. Intendiamoci, essi non fondarono le loro colonie da zero. Non solo già i Micenei avevano frequentato questi lidi (se non anche i Minoici: la città cretese di Milatos avrebbe dato il nome a Mileto), ma essi erano, ancor prima, occupati dai Lelegi e dai Carii, le due popolazioni di origine anatolica qui preesistenti all’arrivo dei Greci.
Il gemello divino Il punto di partenza per raggiungere l’altare, come si è detto, è quello ove è possibile ammirare uno dei piú grandi templi d’Asia, il già
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IONIA DEL MEANDRO
citato Didimeo. «Didimo» è ovviamente Apollo, uno dei due gemelli divini figli di Latona, assieme ad Artemide (didymos in greco è il «gemello»: ma probabilmente i Greci intesero cosí un somigliante nome cario di una divinità già venerata nel sito). Il tempio che vediamo ora, imponente, aveva una doppia fila di colonne esterne (era quindi un «diptero») in stile ionico, alte 19 m: in tutto sarebbero state ben 122. Molte di esse, soprattutto dalla parte del pronao, hanno uno zoccolo riccamente adornato di rilievi animali marini, palmette, disegni geometrici. Se era lungo, come sembra, 118 m, e largo 60, si trattava di uno dei piú grandi templi greci di sempre. Era talmente grande e raffinato, e fu soggetto a tante fasi successive di rifacimento (nonché a distruzioni, come quella persiana conseguente alla rivolta ionica), che in pratica non venne mai del tutto terminato. Ciò che visitiamo risale
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essenzialmente alla sua ricostruzione da parte dei sovrani ellenistici di Siria, i Seleucidi, e il perfezionamento e arricchimento della sua decorazione architettonica proseguirono anche per tutta l’età imperiale romana. Era un tempio particolare: se si sale oggi sul pronao, si entra nella sua sala centrale colonnata, e si discende poi alle sue spalle per una gradinata che conduce all’interno, e si scopre che la peristasi, cioè il folto colonnato, racchiudeva non un sala, cioè una cella templare, ma un ampio recinto privo di copertura, attorniato da alte mura intervallate da lesene; al suo centro, a cielo aperto, sorgeva un tempietto: era questo che conteneva la vera e propria statua di culto, in prossimità della fonte sacra e di una pianta di alloro, che segnavano il cuore dell’oracolo. C’è addirittura chi ha parlato di «spunti mesopotamici» per una simile architettura
In alto Carl Humann (a sinistra) e Richard Bohn a Pergamo, nel santuario di Atena, posano accanto alle statue della stessa Atena e di Era. Nella pagina accanto, in alto ritratto di Theodor Wiegand (1964-1936). 1923. Berlino, Architekturmuseum der Technischen Universität. Nella pagina accanto, in basso i resti del tempio di Atena Poliade a Priene.
Gli scopritori della Ionia anatolica e insulare
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riene fu scavata dalla fine dell’Ottocento dal tedesco Carl Humann (1839-1896; lo stesso che aveva ritrovato i fregi dell’Altare di Zeus a Pergamo nel 1878) e poi da Theodor Wiegand (1864-1936), a cui si deve il paragone dei resti di questa città con quelli ottimamente conservati di Pompei. Wiegand riportò alla luce, compiendo enormi lavori di drenaggio nel delta del Meandro, la struttura urbana di Mileto, sito dove lavorò a lungo (1899-1913); il suo lavoro fu ampliato da un altro tedesco, Carl Weickert (1885-1975), a partire dal 1955. Ma Wiegand scavò anche al Didymaion, l’oracolo di Apollo che
abbiamo già incontrato, e ricoprí a lungo un ruolo fondamentale nei riallestimenti del Museo di Berlino, che espone molti dei capolavori provenienti dalle zone che stiamo visitando, a partire dal fregio dell’Altare di Pergamo: tanto che una visita a Berlino è quasi un necessario completamento del nostro itinerario sulle coste dell’Asia Minore. È opportuno ricordare che Wiegand lavorò anche al terzo grande tempio arcaico della Ionia (dopo quello di Didime, e quello di Efeso, che presto vedremo): l’Heraion della grande isola di Samo, che sembra quasi poter sfiorare da Capo Micale.
templare. Incontriamo cosí per la prima volta quel gusto del grandioso e insieme del raffinato che caratterizza la grecità arcaica d’Asia, cosí come caratterizzerà in seguito l’ellenismo e le testimonianze dell’età imperiale romana in questa regione.
Il porto scomparso Una Via Sacra, in parte conservata proprio nei pressi del santuario, lo collegava alla città di Mileto, ne raggiungeva il cuore e il porto dove, in prossimità del mare, si vedono ancora le fondamenta, semisommerse dall’acqua di falda, del tempio di Apollo Delfinio. Ci colpisce anzitutto una cosa: Mileto, la città marinara che avrebbe fondato ben 90 colonie lungo le coste del Ponto Eusino, il Mar Nero, tra cui le celeberrime Sinope e Trebisonda, non è piú bagnata dalle onde. All’interno degli scavi è possibile ancora seguire con lo sguardo un declivio curvilineo naturale che costituiva l’antica riva del cosiddetto «Porto dei Leoni»: ma in mezzo vi è ormai terra, e al di fuori di esso, dove una volta era il mare, si estendono campi coltivati. Si guardi anche, magari
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IONIA DEL MEANDRO
risalendo le gradinate del grandioso teatro cittadino, esteso ben 140 m, che divenne infine sede di ludi gladiatorii, verso occidente; si vedrà una bassa collina circondata da campagne: una volta questa era un’isoletta, Lade; fu il centro della battaglia navale decisiva che, nel 494 a.C., segnò la sconfitta dei protagonisti della «rivolta ionica» e quindi la distruzione della città (vedi box a p. 67). Ma la città fu distrutta anche una seconda volta, alla fine del IV secolo a.C. quando ebbe la pessima idea di resistere all’avanzata di Alessandro Magno, che la assediò e la prese con la forza. Mentre mi aggiro tra i resti della elegante agorà porticata meridionale, delle imponenti terme di Faustina e del bouleuterion (la sala del Consiglio), rifletto sul fatto che Mileto, nonostante la sua travagliata esistenza, ebbe modo di dare all’umanità alcuni grandiosi doni di civiltà, frutto dell’opera di suoi illustri cittadini, che nei loro sviluppi avranno una portata storica assolutamente rilevante (vedi box a p. 66). In alto il teatro di Priene. Eretto in epoca ellenistica, alla metà del III sec. a.C., fu ricostruito in età romana, nel II sec. d.C. A sinistra un’altra immagine del tempio di Atena Poliade a Priene, costruito su progetto di Piteo, lo stesso architetto al quale si deve il Mausoleo di Alicarnasso. Nella pagina accanto una delle «poltrone» che, nel teatro di Priene, erano riservate ai notabili della città.
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alla spedizione in Oriente di Alessandro Magno (seconda metà del IV secolo a.C.). Fu quello infatti il periodo in cui Priene venne ricollocata ove ora la vediamo, poiché alluvioni e i detriti del Meandro non consentivano piú di mantenere la sua posizione originaria direttamente sull’ansa del fiume. Possiamo ben dire che si tratta di una tra le città ellenistiche meglio scavate e conservate: a tal punto che uno dei suoi scopritori la definí la «Pompei dell’Asia Minore» (vedi box a p. 68). Non pochi dei suoi edifici sono in eccellenti condizioni, come per esempio il teatro e il bouleuterion quadrangolare, mentre le colonne ioniche del grande tempio (dedicato dal condottiero macedone ad Atena Poliade nel 334 a.C.) ricordano vagamente, per la loro suggestiva collocazione ai piedi della rupe dell’acropoli, quelle del tempio di Apollo a Delfi. Autore del tempio fu Pitide, architetto che ebbe un ruolo anche nella edificazione del celebre Mausoleo di Alicarnasso, una delle Sette Meraviglie del mondo. Da Mileto, dopo aver attraversato in direzione nord il placido Meandro, si arriva con un balzo al di là di quello che una volta era il golfo, mentre di fronte si staglia il promontorio montuoso di Micale (Samsun Dagı). È legato a una battaglia navale decisiva combattuta nel 479 a.C., vinta dagli alleati greci che avevano l’anno prima respinto l’invasione dell’Ellade da parte di Serse per terra e per mare: da allora in poi, i Persiani non osarono piú attaccare direttamente la Grecia.
Una Pompei ai piedi della rupe Dove un tempo si speronavano le triremi, ora guidiamo placidamente un veicolo che si avvicina alle pendici del monte, finché su di esse si delinea, coi suoi splendidi resti, l’antica Priene. La città è addossata ai piedi di una rupe imponente (che è alta 370 m e ne costituiva l’acropoli) grazie a un grandioso complesso di terrazzamenti e mura di sostegno: nella sua sistemazione definitiva, quella che vediamo, risale ai decenni attorno
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IONIA DEL MEANDRO
Un tempio per tutti gli Ioni
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e fonti antiche ci hanno lasciato l’elenco delle dodici città che si riunivano regolarmente nel santuario comune detto Panionio («di tutti gli Ioni»): Focea, Eritre, Clazomene, Lebedo, Colofone, Efeso, Priene, Miunte, Mileto, Samo, Chio e Teo. A queste poleis si aggiunse
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successivamente Smirne, che al principio era stata una fondazione eolica. Va detto che, nel corso del tempo, l’area ionica si espanse, soprattutto verso nord, a causa della evidente supremazia di questa regione dal punto di vista economico e commerciale. Il Panionio era dedicato, come è ovvio, vista la tradizione marinare
degli Ioni, a Poseidone Eliconio (da Elice, città del Peloponneso, fondata dal mitico Ione, capostipite di quella stirpe). Priene forniva anche i sacerdoti del tempio di Posidone, anzi tra i membri di una famiglia di Priene veniva scelto il cosiddetto «re degli Ioni», figura cultuale dal significato del tutto simbolico.
Nella pagina accanto veduta dall’alto del bouleuterion (sala del Consiglio) quadrangolare di Priene. In basso il dio Poseidone, con il tridente e un pesce, ritratto all’interno di una kylix attica a figure rosse, dall’Etruria. 520-510 a.C. Copenaghen, Nationalmuseet.
Benché non abbia fondato colonie oltremare, Priene esercitava un notevole ruolo politico, religioso e culturale nella Ionia: da lei infatti dipendeva il centro cultuale della Lega delle poleis ioniche (la «Dodecapoli»), detto Panionion. Il santuario si trova sul versante opposto del monte Micale, quello rivolto a settentrione. In una radura non lontana dalla
costa sono ancora visibili le tracce di gradinate semicircolari di un edificio a forma di teatro, in cui si riunivano regolarmente i rappresentanti di questa lega su basi etnico-religiose (vedi box alla pagina precedente). Pur non potendo gareggiare sotto questo aspetto con la dirimpettaia Mileto, Priene aveva almeno un cittadino assai illustre. Si tratta di uno dei
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IONIA DEL MEANDRO
Sette Saggi (figure di sapienti greci celebri già in età arcaica), si chiamava Biante e pare esercitasse un certo ruolo anche nella vita politica della città. Alcune fonti legano a Priene anche colui che fu il piú importante architetto dell’età ellenistica, Ermogene: che però nacque ad Alabanda, nella vicina Caria. Visse tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. e sappiamo che molto operò da queste parti. Da Priene non dobbiamo infatti percorrere molta strada per visitare i resti di quello che fu il suo piú noto capolavoro. Dobbiamo recarci a Magnesia sul Meandro (detta cosí per distinguerla da quella sul Sipilo, di cui abbiamo parlato in precedenza): una città di origine eolica, ma che fu poi assorbita dalla comunità ionica predominante nei dintorni. Il
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Sulle due pagine fregi e altri elementi della decorazione architettonica del tempio di Artemide Leucofriene oggi conservati al Museo del Louvre di Parigi (in basso) e nel Pergamonmuseum di Berlino.
capolavoro in questione era il tempio di Artemide Leucofriene («dalle bianche sopracciglia»). Ne parla a lungo Vitruvio, in età romana, nel De architectura e da quel testo vitruviano i canoni, le proporzioni, le innovazioni di Ermogene pervennero agli architetti del nostro Rinascimento.
Un simbolo dell’architettura ellenistica Sul sito dell’antica città, nei cui pressi corre una vecchia linea ferroviaria, è possibile rivedere poggiata al suolo una anastilosi del frontone dell’edificio sacro, che presenta tre curiose aperture nel timpano: dovute quasi certamente a motivi di culto (un’apparizione dall’alto di un simulacro della dea, o la possibilità che i raggi lunari colpissero,
Il «bello stile» di Ermogene
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rmogene, secondo Vitruvio, era stato non solo un grande artista, ma anche un teorico dell’architettura. Ne ricorda un trattato dedicato al tempio di Artemide a Magnesia e all’altro suo piú famoso, quello di Dioniso a Teo, anch’esso nella Ionia; e, in particolare, rese canonica una forma di ordine ionico che ebbe particolare fortuna. Per esempio la distanza tra una colonna e l’altra doveva essere pari a 2,25 volte il diametro della colonna medesima. Questa proporzione faceva definire l’ordine «eustilos» («dal bello stile») poiché gradevole alla vista, in quanto il colonnato non risultava né troppo fitto, né troppo rado. D’altra parte, la sua predilezione per la pianta «pseudodiptera» («falsamente diptera») significa che egli progettò edifici templari che avevano una ampia peristasi, cioè un ampio corridoio porticato e colonnato attorno alla cella: tanto ampio che, come nei grandi edifici templari arcaici della Ionia, avrebbe potuto contenere ben due file di colonne affiancate sui quattro lati. Tuttavia, Ermogene ne inserí una sola: da ciò risultava la medesima sensazione di grandiosità dell’edificio, ma allo stesso tempo una sua maggiore snellezza e ariosità; il tutto, con costi e tempi di costruzione assai minori. Sempre a Magnesia sono visibili anche i resti del tempio di Zeus Sosipoli («Salvatore di città»), oltre a uno stadio e altri edifici di utilità pubblica (tra cui una elegante latrina comune).
all’interno della cella e in determinate occasioni, la statua di culto?). Un magnifico fregio ionico lungo circa 200 m e rappresentante una Amazzonomachia è in gran parte esposto al Museo del Louvre di Parigi. Ma l’alzato dell’edificio divenne un simbolo dell’architettura ellenistica, soprattutto per il suo colonnato «pseudodiptero» ed «eustilo», che lo rendeva allo stesso tempo grandioso e leggero (vedi box in questa pagina). Ammirando, sparsi o caduti al suolo, i maestosi capitelli dei templi della Ionia, grandi nel lato superiore spesso piú di un’ampia tavola e pesanti qualche tonnellata, ma resi snelli, quasi leggeri dalla loro raffinata elaborazione, mi sono convinto che la sfida dell’arte ionica, soprattutto ellenistica e poi romana, fosse quella di coniugare grandiosità e grazia, potenza e leggerezza. Una sorta di compromesso, apparentemente impossibile e tuttavia talvolta raggiunto, tra la monumentalità sovrumana dell’arte orientale, e la gentilezza delle proporzioni già «umanistiche» (ante litteram) dell’arte classica, quella attica in particolare.
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IONIA LUNGO IL CAISTRO
IONIA LUNGO IL CAISTRO
NEL SEGNO DI ARTEMIDE In onore della dea «signora delle fiere» sorse a Efeso una delle Sette Meraviglie del mondo antico: l’Artemision. Epicentro ideale per chi si addentri alla scoperta di una regione meravigliosa e ricca di storia
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bbiamo concluso la parte precedente del nostro viaggio nei pressi di un tempio dedicato ad Artemide: il secondo che abbiamo visitato, dopo quello di Sardi. E dalla stessa dea vorremmo cominciare anche questo nuovo itinerario. Artemide, infatti, non era venerata solo a Magnesia sul Meandro e a Sardi, poiché il suo culto era tra i piú importanti dell’Asia Minore; e comunque, le cose di cui si parla, al di là dei pur suggestivi resti architettonici, vanno qualche volta anche toccate con mano, incontrate nella loro fisicità: per rappresentare al meglio ciò di cui si sta parlando. Perciò questa volta facciamo un’eccezione, e invece che da un luogo partiamo da una statua. Non proprio una statua di culto, purtroppo, di quelle che «abitavano» il naòs, la parte interna di un tempio. Spesso foggiate in materiale prezioso e abbigliate sfarzosamente, e, perfino in età molto arcaica, quando pure erano poco piú che totem di legno (uno xòanon), rivestite di stoffe e gioielli quasi fossero viventi, sono state tutte o quasi saccheggiate, spogliate, fuse
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o bruciate. Come è accaduto, del resto, anche al piú grande tempio di Artemide dell’antichità: l’Artemision di Efeso. Di quella che fu una delle Sette Meraviglie del mondo antico – un edificio grandioso, lungo, secondo Plinio il Vecchio, 126 m, largo 67 e adorno di un doppio recinto di 127 colonne alte circa 18 m – non resta oggi in piedi che una solitaria, stupefacente colonna. Ogni volta che l’ho vista, una cicogna vigilava sul suo nido collocato al sommo del capitello. Ma appunto, nonostante le rovine, non ci scoraggiamo: e andiamo a vedere come doveva apparire Artemide. Una delle sue statue piú significative è collocata, assieme a molte altre, in una sala del Museo di Efeso: l’edificio contiene una collezione archeologica relativa non solo alla grande polis ionica, ma anche ad altre località della zona, e merita sicuramente la visita. La dea è qui raffigurata in marmo, in origine quasi certamente dipinto, e proviene dal Pritaneo di Efeso (vedi box alle pp. 80-81).
Sulle due pagine statue di Artemide rinvenute nel Pritaneo di Efeso e conservate nel Museo Archeologico di Efeso, a Selçuk. La prima, nella pagina accanto, risale al II sec. d.C., mentre la seconda, qui illustrata, è databile nel I sec. d.C.
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Sulle due pagine i resti dell’Artemision di Efeso, con la sola colonna superstite delle 127 che, secondo Plinio, scandivano gli spazi del grandioso santuario. In basso pianta dell’area archeologica di Efeso, con l’indicazione dei monumenti piú importanti: 1. Olympieion; 2. chiesa della Vergine Maria; 3. teatro; 4. agorà; 5. biblioteca di Celso; 6. tempio di Adriano; 7. Pritaneo; 8. agorà superiore.
altro. Questa di Efeso è piuttosto assimilabile alla «Potnia theròn», la «Signora delle Fiere», il cui nome è tra quelli delle divinità ricorrenti nelle tavolette degli archivi micenei, e però quasi sicuramente già minoico-cretese. Da Creta alla Ionia, fino a tutta l’Anatolia, in tempi preistorici (nel senso tecnico di «precedenti la scrittura»), dominavano i già citati Cari (i quali erano ancora ben presenti nell’entroterra della Ionia ai tempi della costruzione
Colpiscono anzitutto la sfarzosità dell’abbigliamento e la ricchezza e varietà dei simboli di cui era adorna la sopravveste: il pettorale, da cui pendono ben quattro file di mammelle (o di uova, o di testicoli di toro, come è stato ipotizzato piú recentemente, simboli della forza generante?); e poi, sulle falde della stessa o addossati ai fianchi della dea, fiori e frutti rigogliosi, animali reali o mitologici, tra cui sfingi, grifoni, leoni e api.
Sguardo impassibile La rigidità della parte inferiore del corpo, completamente avvolta dalle pieghe dell’abito (dovuta alla struttura lignea sottostante la statua di culto originale), la frontalità della postura e la fissità e impassibilità dello sguardo, da un lato impressionano il visitatore, dall’altro impongono una serie di considerazioni. Noi uomini post-rinascimentali abituati alla Diana cacciatrice, trascorrente e leggera giovinetta con le vesti corte e il passo veloce tipica di molti quadri classicisti, ci rendiamo conto che qui siamo di fronte ad
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dell’Artemision arcaico); ed era proprio questa Dea Madre, primordiale, potente ma benefica e simbolo di ogni forza generante, che dominava nel culto e nei cuori degli uomini dell’epoca: fu lei quella che i Greci identificavano con Artemide, ma che portava
anche il nome piú vetusto di Cibele. L’Istituto Archeologico Austriaco, che dal 1965 scava nell’area, ha recuperato in effetti materiali che
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Punti di vista su Efeso
L
a complessità dell’abitato e della zona monumentale di Efeso è tale che, come anche nel caso di Pergamo, Mileto, Afrodisia e altri grandi siti archeologici della Turchia egea, non è possibile illustrare in dettaglio i singoli edifici, e neppure sommariamente elencarli tutti. Si rimanda perciò, anzitutto, alla piantina affiancata al testo (vedi a p. 78); ma, ovviamente, per una descrizione piú dettagliata di tutti i singoli monumenti, è sempre consigliabile acquistare in loco una guida, che è facile trovare nelle principali lingue europee tra cui l’italiano. Il caso di Efeso è particolarmente complesso, ma per orientare il visitatore cominciamo col dire che, nei pressi delle rovine, la cittadina ottomana di Selcuk è un’ottima base per tutte le visite. Volendo, da lí si può raggiungere a piedi la rocca fortificata al tempo dei Bizantini su cui sorge la Basilica (e anche la tomba?) di S. Giovanni, la cui versione attuale, relativamente ben conservata e in corso di rifacimenti, risale al tempo di Giustiniano (VI secolo a.C.). Da lassú è possibile avere una visuale panoramica della cittadina, dell’Artemision, e della splendida moschea di Isa Bey, risalente al XIV secolo. Anche per spiegare lo stato attuale delle rovine greco-romane, va detto che, per esempio, la basilica, la moschea, le mura sono state costruite spogliando e depredando gli edifici classici: tra cui l’Artemision.
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Efeso fu piú volte distrutta, e alcune volte trasferita, a partire dal tempo dell’invasione dei barbari Cimmeri (VII secolo a.C.), sino a quella dei Mongoli di Tamerlano (1403). Le rovine che attualmente visitiamo sono quelle di una delle Efeso che ebbero collocazioni diverse in questi paraggi: precisamente, di quella costruita per volontà di Lisimaco, uno dei diadochi (successori) di Alessandro Magno, e poi abbellita e ingrandita fino ai secoli d’oro dell’impero romano. Gli splendidi edifici marmorei che vediamo, scendendo dalla porta a monte della città (la Porta di Magnesia), lungo una via in pendio che non per nulla è detta Via di Marmo, sono prevalentemente risalenti all’epoca che va dal I al III secolo d.C. Altro punto panoramico da non perdere è la sommità del grande teatro, poiché davanti a esso si apre un’ampia strada lastricata e colonnata, la Via Arcadiana, che prende il nome dall’imperatore Arcadio, figlio di Teodosio il Grande e suo successore al trono di Costantinopoli. Va ricordato che, mentre la romanità occidentale crollava, questa orientale vedeva risorgere l’impero nella sua «versione» bizantina. La via conduceva al porto, ed era una delle pochissime nel mondo a godere di una illuminazione pubblica. Ora, però, il mare non c’è piú: si è ritirato di ben 8 chilometri, anche qui a causa del
In basso modello in scala dell’Artemision esposto nel Museo Archeologico di Efeso.
risalgono fino al XIV secolo a.C., quindi all’età micenea. Il tempio che la dea abitava, «meraviglioso spettacolo di greca grandiosità», come lo descrive Plinio il Vecchio, era stato eretto, abbellito, ricostruito nel corso di secoli (e non solo di 120 anni, come dice l’autore romano), e a esso avevano posto mano re, greci e non greci, come Creso, e poi, nella sua ricostruzione ellenistica dopo l’incendio doloso del 356 a.C., due scultori celeberrimi, come Prassitele e Scopa. Insomma, questa «Meraviglia del Mondo» era frutto di un sincretismo religioso; che poi, in fondo, nella sua ultima versione, proseguirà anche nel culto cristiano della Vergine: la quale secondo una tradizione aveva a Efeso una sua «Casa» (Meryem Ana Evi, oggi mèta di pellegrinaggi); e sempre da questa città, dove si era recata in compagnia dell’Apostolo Giovanni, sarebbe stata infine accolta, cioè «Assunta» in Cielo.
Due fiumi paralleli deposito di detriti alluvionali da parte del Caistro. Ma vale la pena di inoltrarsi in quella direzione, poiché a breve distanza si ergono i resti di imponenti costruzioni, come il Ginnasio, la Palestra e le Terme del Porto. Piú oltre, le rovine di uno degli edifici cristiani piú importanti della storia: la chiesa di Maria Vergine, o del Concilio. Qui, nel 431, venne tenuto il Concilio di Efeso, quello che stabilí che Maria era davvero «Madre di Dio» e non solo di Cristo nella sua natura umana. Durante i mesi estivi, nelle ore centrali della giornata, Efeso risulta affollatissima: è forse il sito archeologico piú frequentato di tutta la costa dell’Asia Minore. Se si vuole goderne tranquillamente l’incanto, il segreto è scegliere le ore della sera: le rovine restano aperte con un lungo orario, fin quando il silenzio torna sovrano, e una gradevole brezza pulita proveniente dall’Egeo dà ulteriore splendore ai marmi già indorati dal tramonto.
La moschea di Isa Bey a Selçuk. XIV sec.
Mutiamo ora luogo e scenario: può sembrare audace il balzo che ora compiamo, e che ci riporta, attraverso una lunga escursione però fortemente consigliata, lungo la Valle del Meandro. Quest’ultima è pur sempre affiancata a questa del Caistro, ove si trova Efeso: i due fiumi scorrono grosso modo paralleli. Non è possibile infatti non visitare un importantissimo centro della terra dei Carii, cioè sempre di quello stesso popolo pregreco di origine anatolica al quale si sovrapposero prima i colonizzatori greci, con le migrazioni tra il II e il I millennio a.C., e poi i nuovi padroni del mondo antico, i Romani. È fondendosi e scambiando merci, idee, credenze con costoro che gli Ioni arrivati dalla penisola greca divennero grandi ed eressero splendide città, che poi raggiunsero il loro culmine in età ellenistica e romana. Quale, per esempio, Afrodisia. Nonostante sia situata ben all’interno dell’Anatolia – e neppure propriamente lungo la valle del Meandro, ma in quella di un suo affluente di sinistra – la città è raggiungibile rapidamente grazie a un’autostrada che parte dalla costa.
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Afrodisia impressiona fin da subito chi la vede per la prima volta, poiché ha l’aspetto di una vera e propria città romana che sia, non si sa come, «atterrata» nel cuore dell’Anatolia. I suoi monumenti sono spettacolari, e soprattutto ben conservati: tra i piú grandiosi del mondo antico. Forse perché nei suoi pressi non sono poi piú sorte grandi città, subirono solo parzialmente lo spoglio da parte di chi, insensibile se non ideologicamente ostile al fascino dei monumenti pagani, era ben contento di affrettarne la distruzione, ricavandone allo stesso tempo materiale edilizio e calce di marmo a buon mercato. Come dice il nome, Afrodisia era la città consacrata ad Afrodite. E anche qui, per una sorte fortunata, possiamo vedere la dea. Ma dimentichiamo la Venere di Milo o
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Nella pagina accanto, in alto il Tetrapylon, la monumentale porta di ingresso al santuario di Afrodite di Afrodisia. Età adrianea (117-138 d.C.). In basso, sulle due pagine veduta a volo d’uccello dei resti di Afrodisia. In basso, a destra pianta di Afrodisia, con i monumenti piú importanti.
l’Afrodite Cnidia di Prassitele, che facevano e fanno voltare la testa agli ammiratori non solo per la qualità della loro fattura, ma anche per la nudità sensuale delle forme. Le Veneri, del resto, sono state rappresentate nude solo a partire dal IV secolo a.C.; in precedenza tutte le dee, perfino la dea dell’Amore, erano tenute allo stesso pudore che faceva sí che anche le donne del mondo greco non potessero mai ostentare la propria nudità. Perciò non meravigliamoci se questa riproduzione della statua di culto della dea che troneggia nel Museo locale di Afrodisia non solo è sontuosamente e pesantemente abbigliata, non solo ha una postura che emana compostezza e verecondia, ma va ben oltre, facendola somigliare alla divinità anatolica della Grande Madre: soltanto un po’ ingentilita (vedi box alle pp. 84-85). Camminare tra gli edifici pubblici di questa città è un piacere per gli occhi e per la mente. Per quanti visitatori possano esserci anche in pieno giorno, non saranno mai abbastanza per impedirci di ammirare la purezza delle linee delle gradinate (una trentina) del superbo stadio in pietra, uno dei piú grandi del mondo
antico, rimasto pressoché intatto. Per capienza (30 000 spettatori) non ha molto da inviare ai moderni «templi» dello sport di massa. Cosí come sembra miracolosamente intatto anche il Tetrapylon (in realtà si tratta di una anastilosi: ma gli elementi sono quelli originali); questo portale con quattro aperture, all’incrocio di due vie lastricate, costituiva anche l’accesso al santuario di Afrodite, al cui interno svettano ancora le colonne del tempio. Nel suo fulgore di marmo, ricco di chiaroscuri poiché movimentato da una fioritura sorprendente di colonne scanalate diritte o a spirale, di frontoni «spezzati» sulla parte esterna e circolari all’interno, di rilievi raffiguranti Amori e Vittorie, questo «arco quadrato» fu abbattuto da un terremoto, ma fortunatamente non spogliato. La scossa piú forte avvenne nel 640 a.C. Allora presso le rovine sorse un piccolo villaggio, Geyre, che nel suo nome richiama, pare, l’antica Caria. Dal 9 luglio 2017 Afrodisia è stata iscritta, in aggiunta a Pergamo, Efeso, Troia e ad altri siti turchi che già ne facevano parte, nella lista dei Patrimoni dell’Umanità stilata dall’UNESCO.
Un’ingegnosa opera idraulica Stadio
Porta Nord
Scuola di filosofia
Ninfeo
Tetrapylon Tempio di Afrodite Palazzo Episcopale
Museo
Odeon Sebasteion Agorà Nord
Tempio di Adriano Portico di Tiberio
Agorà Sud
Porta Monumentale
Teatro Acropoli Terme del teatro
Lungo la via del ritorno da Afrodisia verso la costa, una piccola deviazione ci permette di visitare un secondo centro di grande interesse: una città sorta su un canyon, una ripida fenditura tagliata da un corso d’acqua, dove Strabone, l’autore del piú esteso e completo libro di Geografia tramandatoci dall’antichità, si sarebbe formato e avrebbe studiato. Nisa, cosí si chiama la città, fu fondata nel III secolo a.C. da Antioco I Sotèr («il Salvatore»), uno dei maggiori sovrani ellenistici; ma furono i Romani, con una efficace e ancora visitabile opera di ingegneria idraulica, a chiudere la profonda fenditura naturale, incanalandone le acque in un tunnel e permettendo di costruire un teatro e uno stadio al di sopra di essa. Sono ancora visibili nell’alzato i resti di una grande biblioteca, ora quindi ben piú appariscente di quella, pur piú celebre, di Pergamo. Ai tempi della mia visita era inoltre
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Il museo, gli scavi multinazionali e la dea di Afrodisia
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giudicare dalla sua contemporanea «gemella» presente nel Museo di Afrodisia, la statua di culto della dea era velata sul capo, o piú esattamente su una torreggiante tiara che lo sovrastava; l’ependytes, la medesima elegante e spessa sopravveste che ricopriva anche la tunica della Artemide efesia, è riccamente adornata: ma se a Efeso prevalevano fiere
visibile il rilievo di scena del teatro, e spero lo sia ancora. Dato che Nisa era anche il nome di una delle nutrici di Dioniso, e Dioniso stesso era il dio del teatro – degli attori e della maschera, della commedia e della tragedia – questi rilievi raffigurano con vivacità e naturalezza le movimentate fasi della sua esistenza. Ma torniamo ora alla valle del Caistro, e riprendiamo per un poco la nostra visita di Efeso; perché, avendo parlato della biblioteca di Nisa, vogliamo dire qualcosa di quella ancor piú bella di Celso. La sua fronte monumentale fa da sfondo fastoso a ogni visita della zona
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e mostri mitologici commisti ai doni dell’agricoltura, qui abbiamo le Tre Grazie – corteggio della dea – gli Eroti che compiono un sacrifico, e Veneri che cavalcano capre marine (l’animale che è anche detto Capricorno); ma vi splendono anche il Sole e la Luna, quasi a sottolineare la dignità dalle valenze cosmiche della dea. Una sorta di Afrodite come dea
Statue femminili rappresentanti le personificazioni di terre conquistate da Roma. Provengono dal Sebasteion di Afrodisia e sono ora esposte nel locale museo. Nella pagina accanto la statua di Afrodite nella città che porta il suo nome, ritratta come dea della fertilità.
archeologica efesina, e segna il punto in cui la centrale «Strada di Marmo» volge verso la spianata che si apre dinanzi al teatro, da cui poi si prosegue per l’antico porto. L’edificio, dalla mossa facciata dotata di numerose grandi aperture (portali, e finestre su piú ordini) incastonate in edicole colonnate e profonde, accoglie il visitatore con una grande scalinata, larga 21 m. Questa conduce a un’ampia, unica sala lastricata di marmo, alta 16 m e circondata dai nicchioni nei quali erano collocati gli scaffali che potevano contenere, è stato calcolato, circa 12 000
dell’Amore universale, quasi garante dell’armonia e della bellezza del mondo. Per conservare questo e altri straordinari reperti – come la numerosa serie di ritratti di personaggi famosi dell’antichità racchiusi in grandi clipei, le statue di sacerdoti addetti ai culti cittadini, e i rilievi che celebrano rappresentanti illustri del potere imperiale romano – è stato deciso di costruire un museo sul sito stesso degli scavi. Inaugurato nel 1979 è dotato di ampie sale espositive, il cui allestimento è arioso e spettacolare. La scelta di mantenere i reperti in loco è dovuta anche alla grande qualità della lavorazione locale del marmo (una pietra dalle sfumature blu-grigie), che diede origine a una scuola di scultura famosa in tutto il mondo romano. Le maestranze di Afrodisia furono inviate fino in Africa, per realizzare la decorazione architettonica del Foro di Settimio Severo a Leptis Magna. Molti archeologi hanno contribuito a portare alla luce la città e questi suoi reperti: a partire dall’Ottocento con i francesi Felix Texier, e Paul Gaudin, che ai primi del Novecento scoprí gran parte degli edifici oggi visitabili. L’italiano Giulio Iacopi scavò poi, in particolare, il cosiddetto Portico di Tiberio, mentre piú di recente il turco Kenan Tevfik Erim dal 1961 fino alla morte diresse le ricerche per conto della New York University, che sta attualmente proseguendo la sua opera. Sembra quasi che la storia degli scavi, che vede coinvolti esponenti di piú nazioni, si sia svolta sotto gli auspici della dea che univa Oriente e Occidente, abbracciandoli sotto il seducente manto della bellezza.
volumi. E del resto, come non ricordare che qui, a Efeso, nacque il celebre filosofo Eraclito? (vedi box a p. 87). Ovviamente, oltre i libri, anche i drammi teatrali erano centrali nella formazione e l’educazione del cittadino dell’Asia Minore. Il grande teatro di Efeso era capace di 25 000 spettatori, e nella forma che ora possiamo ammirare fu completato sotto Traiano. Va ricordato che all’interno di ogni edificio di questo tipo sorgeva un altare a Dioniso, e che, almeno fin quando il politeismo classico non venne soppiantato dal cristianesimo, l’«atto» scenico
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e l’«atto» liturgico erano assai piú vicini tra loro di quanto oggi potremmo immaginare. Il teatro non era un semplice luogo di intrattenimento o di piacere: vi si svolgeva una parte importantissima della vita pubblica, tra cui appunto quella religiosa, cultuale oltre che culturale; ma anche, in alcuni casi, quella politica. Andarci non era insomma uno dei tanti modi per passare una serata (anche perché, va detto, le rappresentazioni si tenevano di giorno), e l’intera cittadinanza libera era chiamata ad assistere a quanto vi si svolgeva (vedi box a p. 88).
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Forse a mala pena un centesimo di tutti coloro che visitano Efeso si spingono poco piú a nord, sempre lungo la strada costiera, per visitare altri due importanti quanto incantevoli centri della Ionia. Non mi riferisco tanto alle antiche poleis di Colofone, patria del pensatore/poeta Senofane, e di Notion, prospiciente il mare, che ne era il porto: qui potrà fermarsi chi dispone davvero di molto tempo, poiché le rovine, pur cospicue, sono sparse e non troppo ben conservate. Quella che non si dovrebbe omettere è anzitutto una visita a Klaros. (segue a p. 90)
Sulle due pagine immagini della Biblioteca di Celso, uno dei monumenti piú grandiosi di Efeso. II sec. d.C.
Una classe dirigente illuminata
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a vita e l’opera di Tiberio Giulio Celso Polemeano, il dedicatario della biblioteca di Efeso, sono un chiaro esempio di quale tipo di classe dirigente fosse quella che, tra I e II secolo d.C., reggeva l’impero romano all’apice della grandezza. Era un ricco possidente di origine greca, anzitutto, che, in quanto anche civis Romanus, fu nominato proconsole della provincia d’Asia, cioè di quella stessa terra da cui proveniva (e viene in mente il celebre verso oraziano, «Graecia capta ferum victorem cepit», se i popoli vinti o sottomessi da Roma, quali in definitiva erano pure i Greci, ascendevano a tale prestigio da essere chiamati a governare sé stessi). Colto e capace amministratore, decise di donare ai suoi cittadini quella che, oggi, definiremmo una istituzione culturale ed educativa, una sorta di università: poiché tale era una biblioteca, in antico. Non solo: abbinò a questa funzione pubblica dell’edificio anche una qualità architettonica e una preziosità del decoro che ne fanno già di per sé un’opera d’arte. Un capolavoro, quindi (estetico), che conteneva altri capolavori (letterari, filosofici, scientifici). Non solo i libri, ma anche la bellezza educa, secondo uno dei piú duraturi principi della cultura classica. Inoltre la presenza di una statua di Atena all’interno della sala ci ricorda che la
stessa cultura, lo stesso sapere, godevano di un prestigio altissimo in quanto pertinente alla sfera divina: in particolare ad Atena, dea dell’intelletto, della sapienza, della Mente (Metis: la dea da cui era nata). Infine, in questo santuario del sapere lo stesso Celso volle riposare per sempre: la sua camera sepolcrale è ancora visitabile sotto l’abside della sala di lettura. Ma chi c’era a capo dell’impero, mentre tutto ciò si svolgeva in terra d’Asia? Se Celso fu proconsole sotto Traiano, la biblioteca fu compiuta e inaugurata sotto Adriano, il suo successore: due imperatori di origine anch’essi provinciale, non italica, chiamati a reggere un impero multietnico. In questo itinerario, quando vedrete qualche bel monumento in terra d’Asia, ricostruito, rialzato, abbellito, perfezionato, ingrandito, portato a compimento nella forma che poi ha mantenuto fino a noi, andate a leggere nelle guide piú dettagliate chi ne fu l’artefice: constaterete che, nella maggior parte dei casi, si tratta proprio di Elio Adriano, il princeps che percorse e viaggiò per le province dell’impero, soprattutto queste dell’Oriente, ormai pacificate, con l’intento di conoscerle ma anche di risollevarle, di restituirle a una grandezza e una dignità che trovavano nella cultura, nell’arte e nella bellezza il proprio fine piú alto.
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«Grande è Artemide!»
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er rendere l’idea di che cosa fosse un teatro a quei tempi, nulla è meglio che riportare un celebre passo degli Atti degli Apostoli (libro 19°), che racconta un episodio in cui molte delle cose fin qui riferite riguardo a Efeso, al teatro, al culto di Artemide, e al ruolo dello Stato al tempo di Roma, si incrociano e si spiegano a vicenda: «Cosí la parola del Signore cresceva con vigore e si rafforzava (...) Fu verso quel tempo che scoppiò un grande tumulto riguardo a questa Via. Un tale, di nome Demetrio, che era òrafo e fabbricava tempietti di Artèmide in argento, procurando in tal modo non poco guadagno agli artigiani, li radunò insieme a quanti lavoravano a questo genere di oggetti e disse: “Uomini, voi sapete che da questa attività proviene il nostro benessere; ora, potete osservare e sentire come questo Paolo abbia convinto e fuorviato molta gente, non solo di Èfeso, ma si può dire di tutta l’Asia, affermando che non sono dèi quelli fabbricati da mani d’uomo. Non soltanto c’è il pericolo che la nostra categoria cada in discredito, ma anche che il santuario della grande dea Artèmide non sia stimato piú nulla e venga distrutta la grandezza di colei che tutta l’Asia e il mondo intero venerano”. All’udire ciò, furono pieni di collera e si misero a gridare: “Grande è l’Artèmide degli Efesini!”. La città fu tutta in agitazione e si precipitarono in massa nel teatro, trascinando con sé i Macèdoni Gaio e Aristarco, compagni di viaggio di Paolo. Paolo voleva presentarsi alla folla, ma i discepoli non glielo permisero. Anche alcuni dei funzionari imperiali, che gli erano amici, mandarono a pregarlo di non avventurarsi nel teatro. Intanto, chi gridava una cosa, chi un’altra; l’assemblea era agitata e i piú non sapevano il motivo per cui erano accorsi. Alcuni della folla fecero intervenire un certo Alessandro, che i Giudei avevano spinto avanti, e Alessandro, fatto cenno con la mano, voleva tenere un discorso di difesa davanti all’assemblea. Appena s’accorsero che era giudeo, si misero tutti a gridare in coro per quasi due ore: “Grande è l’Artèmide degli Efesini!”. Ma il cancelliere della città (una carica pubblica, il grammateus, n.d.a.) calmò la folla e disse: “Abitanti di Èfeso, chi fra gli uomini non sa che la città di Èfeso è custode del tempio della grande Artèmide e della sua statua caduta dal cielo? Poiché questi fatti sono incontestabili, è necessario che stiate calmi e non compiate gesti inconsulti. Voi avete condotto qui questi uomini, che non hanno profanato il tempio né hanno bestemmiato la nostra dea. Perciò, se Demetrio e gli artigiani che sono con lui hanno delle ragioni da far valere contro qualcuno, esistono per questo i tribunali e vi sono i proconsoli: si citino in giudizio l’un l’altro. Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell’assemblea legittima. C’è infatti il rischio di essere accusati di sedizione per l’accaduto di oggi, non essendoci alcun motivo con cui possiamo giustificare questo assembramento”. Detto questo, sciolse l’assemblea» (traduzione tratta da bibbiaedu.it/CEI2008).
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Il teatro di Efeso. La costruzione dell’edificio fu avviata in età ellenistica e poi, in epoca romana, si succedettero vari interventi di ampliamento e ristrutturazione.
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In una piccola valle incantevole, non contaminata da costruzioni moderne, nei tempi antichi un oracolo attingeva da una fonte sotterranea l’acqua che lo rendeva capace di preannunziare il futuro. Qui, infatti, come a Didima e nella piú lontana Delfi, il dio ispiratore era Apollo. La fonte non ha cessato, dopo tremila anni, di sgorgare, e oggi le rovine delle camere oblunghe dell’oracolo, una sorta di «cripta» del tempio pagano, restano sommerse per la piú parte dell’anno, a eccezione di quando gli archeologi della università di Izmir – succeduti ai Francesi di Louis Robert che negli anni Cinquanta del secolo scorso portarono alla luce gran parte del santuario – fanno uso di pompe idrovore per proseguire le indagini. Ma quel che si vede, quasi tutto di marmo, rende davvero onore alla «brillante Klaros», come viene citata nell’Inno omerico ad Apollo. Una sosta presso queste
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
In alto, a sinistra i resti dell’oracolo di Klaros, parzialmente sommersi dall’acqua che tuttora sgorga da una fonte sotterranea. In alto, a destra Klaros. I resti delle statie di culto. Nella pagina accanto, in basso resti del tempio di Dioniso a Teos, realizzato su progetto dell’architetto Ermogene di Alabanda.
suggestive rovine, su cui troneggiano – qui sí, sono gli originali – le statue di culto dalle proporzioni sovrumane di Apollo seduto, affiancato dalla madre Latona e dalla sorella Artemide, in piedi, è sempre piú raccomandabile di anno in anno, poiché i lavori di recupero e ricollocamento dei materiali originali promettono ogni volta ulteriori arricchimenti del sito.
Un paesaggio idilliaco Reso omaggio ad Apollo, non dobbiamo però trascurare Dioniso. Ancora poco piú a nord di Klaros sorgeva un’altra delle dodici poleis ioniche, Teos, dove si innalzava il tempio piú grande dell’antichità (35 x 18,50 m nello stilobate) dedicato a questo dio inquietante e
ambiguo, al quale erano sacri l’ebbrezza, frutto del succo della vite, ma anche l’edera e il pino sempreverdi, simbolo della natura sempre nascente: senza dimenticare il suono cupo dei timpani che scandiva i riti orgiastici e frenetici delle Baccanti. In un paesaggio naturale che potremmo definire idilliaco sorgono le rovine della città, con i resti del tempio capolavoro di Ermogene, il già citato architetto dell’età ellenistica, che accolgono per prime il visitatore con una quantità di membri architettonici di squisita fattura, tra cui due colonne ioniche parzialmente conservate che, per la loro bellezza e l’armonia delle proporzioni (si noti la poco consueta «base attica») rivelano quanto gli stessi antichi avessero ragione a parlare di un capolavoro. È tra i campi, a volte tra le
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greggi, che si raggiunge quindi l’acropoli di Teos: ma ne vale senz’altro la pena. Lí, il teatro e i resti di un altro edificio sacro consentono una sosta gradevole poiché panoramica e ventilata (cosa da non sottovalutare se si visita la Ionia in estate), con vista sui due porti, uno a nord, l’altro a sud, che arricchivano di beni e di scambi la città. Come tutti gli edifici ionici, il tempio di Dioniso aveva un fregio continuo. Molti suoi elementi sono stati recuperati nel corso di quasi un secolo di scavi, che dopo alcune ricerche da parte dei Francesi, sono sempre stati condotti da archeologi turchi, a partire da Baki Ögün and Yusuf Boysal, negli anni Sessanta del Novecento, e poi dall’architetto Mustafa Uz, fino al 1991. Dal 2010 dirige gli scavi, utilizzando anche moderne tecnologie, il professor Musa Kadıoglu, dell’Università di Ankara, che in passato ha lavorato anche in due siti che abbiamo da poco incontrato, Magnesia sul Meandro e Nisa.
Iconoclasti senza nome Il fregio raffigurava scene legate ai festival e alle cerimonie dionisiache, e vedeva, nella sua parte centrale, il mito di Arianna, sempre collegato al dio. Questa volta, per ammirarlo, non occorrerà spostarsi a Berlino o in qualche altra collezione del Nord Europa. È esposto nel cortile del Museo di Smirne, città ove
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Smirne antica e i suoi scavi
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uel che resta del tempio di Atena è stato rialzato secondo l’ipotesi di ricostruzione di Ekrem Akurgal, l’archeologo turco dell’Università di Ankara che ha lavorato anche in altri siti che abbiamo visitato, come Pytane e Focea; oggi la direzione degli scavi è passata ad Akım Ersoy, dell’Università di Izmir, che ha recentemente portato alla luce anche il teatro romano di Smirne. Che però non è qui, ma in un’altra zona dell’odierna metropoli. L’antica colonia eolico/ionica fu infatti distrutta due volte, prima dai Lidi, poi dai Persiani, e non risorse nello stesso sito. Per rinascere, la città greca dovette attendere l’arrivo di Alessandro Magno e dei suoi diadochi (i «successori») che, nel IV secolo a.C., la spostarono in un’altura molto piú difendibile, che, dal castello bizantino/ottomano che oggi la occupa, prende il nome di Kadifekale. Vale la pena di visitare questa fortezza, poiché dalla sommità dei suoi spalti, tuttora praticabili, si ha una visione incomparabile dell’immensa città e del profondo golfo, circondato da montagne, che ne ha fatto uno dei porti naturali migliori dell’intera costa turca dell’Egeo.
stiamo per recarci a conclusione di questa nostra peregrinazione nella Ionia. Avremo però una sgradevole sorpresa: tutti i rilievi sono stati sistematicamente scalpellati, addirittura spianati nel corso dei secoli tra la fine del mondo antico e la ripresa degli scavi: con particolare attenzione alla cancellazione dei volti. Difficile dire se gli iconoclasti fossero fanatici cristiani o islamici. È un fatto,
Particolare del fregio scolpito che decorava il tempio di Dioniso a Teos. Smirne, Museo. I rilievi, scalpellati e resi parzialmente illeggibili già in età antica, hanno per tema le cerimonie dionisiache.
In alto i resti del teatro dell’antica Smyrna, il cui assetto attuale è l’esito della ricostruzione promossa dopo che, nel 178 d.C., un terremoto aveva parzialmente distrutto l’edificio.
però, che la furia contro le immagini è stata una costante della storia dell’era volgare, tanto piú accesa quanto piú essa si accompagnava all’assenza di cultura, di conoscenza della prospettiva storica, di amore e rispetto per le creazioni umane, che poi vuol dire rispetto per l’uomo. Per questo non si deve, né si dovrà mai abbassare la guardia. Non è un caso se abbiamo lasciato per ultima Izmir, la grande Smirne, in questo itinerario «ad anello» della nostra visita della Ionia, visto che risalendo dalla valle del Caistro a quella dell’Ermo, presso la cui foce la città era nata, ci riavviciniamo nuovamente all’Eolia da cui venivamo.
Il moderno ha un cuore antico Anzitutto, Izmir è una popolosa città moderna: la terza per numero di abitanti della Turchia. Merita due o tre giorni di visita: non vi mancano, tra l’altro, le soddisfazioni per chi ama l’Antico. Basta salire nella oggi periferica Bayraklı, per emozionarsi ammirando l’höyük (tumulo o monticello) composto da città successive e sovrapposte l’una sull’altra a partire dal III millennio a.C., tra le quali spicca la
Smyrna colonizzata dagli Eoli. Sí, perché fino a un certo punto della sua storia in essa prevalsero gli Eoli, ma poi si trasformò in città ionica, quando venne conquistata dalla vicina Colofone: tanto da essere ammessa, dopo l’espulsione di uno dei suoi membri, nella famosa Dodecapoli. In questa piccola altura che ricorda, anche per la sua stratificazione, quella di Hissarlik su cui sorge Troia, si può ammirare, rialzato sulle colonne originarie di un tempio arcaico dedicato ad Atena, anche il poco consueto capitello eolico, piú slanciato progenitore di quello ionico. Della Smirne ellenistico-romana, collocata piú a sud di Bayraklı, restano invece l’estesa agorà, il teatro, e gli importanti reperti esposti nel Museo (vedi box alla pagina precedente). Come viaggiatore, però, non consiglio di fermarsi a questo. Se ci si vuole immergere nella vita odierna e popolare della metropoli, se si vuole averne una visione piú completa, occorre anzitutto attraversare per intero una lunga e tortuosa via, in gran parte pedonalizzata, che ne costituisce l’anima commerciale, Anafartalar Çaddesi. E quando, al termine di essa, si arriva al mare, da cui
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A sinistra la Torre dell’Orologio di Izmir, al centro della piazza intitolata a Kemal Atatürk, ma nota anche come Konak Meydanı. Nella pagina accanto, in alto un derviscio danzante si esibisce nell’antica agorà di Izmir. In basso, sulle due pagine veduta di Çesme, dominata dalla mole del duecentesco castello genovese.
finalmente spira una confortante brezza, eccoci a Konak Meydanı. E, qui giunti, sarebbe opportuno imbarcarsi. Per dove? Non importa poi molto. Quasi tutti i traghetti si dirigono alla fine a Karsiyaka, che vuol dire la «(Riva) di Fronte», un quartiere nuovo e popoloso sorto sul lato opposto della parte piú interna del golfo. In questo Izmir è un po’ come Istanbul: la si gira anche via mare. E cosí, mentre in compagnia di pendolari e gitanti navighiamo sull’Egeo, ecco che vediamo sfilare dinanzi a noi l’intera città. L’impressione è quella di una città affascinante, e complessivamente assai moderna. Manca, a Izmir, una estesa zona tradizionale, fatta di vecchi quartieri, in pratica un centro storico che la colleghi, attraverso i millenni, alla città ellenistico-romana o medievale. Il lungomare è chiamato Kordon, una parola che significa pressappoco «passeggio», e si prolunga per alcuni chilometri. Il mare, sempre increspato da una brezza al tramonto, man mano trascolora all’interno del golfo di Izmir, fino a diventare del «colore del vino», come spesso lo definisce nei suoi poemi Omero: che forse era nato qui. Una lunga e tozza penisola si protende sul lato
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meridionale del golfo di Izmir. Volgendosi alla sua estremità a settentrione, essa culmina con il Mimante, un monte che raggiunge i 1200 m (Ak Dag, in turco). Sul versante della penisola che dà in pieno Mar Egeo, quindi all’esterno del golfo, oltre a una incomparabile visione della grande isola greca di Chio (altra possibile patria di Omero) si trovano due centri rilevanti.
La casa della Sibilla Eritrea Il primo è costituito dai resti dell’antica Eritre: sono quelli collocati piú a settentrione. Nella città, anch’essa un membro della Dodecapoli ionica, non vi è molto, oltre al teatro, a tratti delle mura con torri, e alle fondamenta di un tempio di Atena Poliade. Ma va ricordato che qui viveva una Sibilla, la Sibilla Eritrea, appunto; per la sua capacità di predire il futuro, e quindi anche la venuta di Cristo, la troviamo raffigurata da Michelangelo, tra altre quattro Sibille, sulla volta della Cappella Sistina. Poco piú a sud, lungo la costa, all’interno di una bella baia troviamo l’odierna città di Çesme: è sormontata da un bel castello genovese del XIII secolo, e il suo frequentato porto è, se non andiamo errati, quello piú proteso a occidente di tutta la costa anatolica. Ancora oggi una linea
regolare la collega con la prospiciente Chio, ma fino a qualche anno fa (2010) vi approdava l’unica linea di traghetti che collegava direttamente l’Italia e la Turchia. È un vero peccato che sia stata abolita, anche perché quel lungo viaggio via mare, partendo da Ancona o dalla Puglia, effettuava lo spettacolare periplo del Peloponneso, una rotta da sempre seguita dai navigatori dell’antichità finché non fu tagliato il canale di Corinto (che comunque non è oggi praticabile per i grandi navigli). Era un mezzo molto economico, e soprattutto pratico per chi viaggiava con l’auto, e che invece oggi ha solo l’alternativa tra compiere un lungo tragitto via terra o prendere ben tre traghetti diversi. Non solo: arrivare a Çesme significava trovarsi già nel bel mezzo della costa turca dell’Egeo, e in particolare della Ionia e dei suoi principali centri archeologici e turistici.
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LA STORIA
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SUONI BARBARI E DIVINE BELLEZZE
Secondo Omero, gli abitanti dell’antica Caria si esprimevano in un idioma incomprensibile, ma, all’indomani della colonizzazione, questo e altri ostacoli furono superati. E, piú tardi, la vicina Doride accolse uno dei massimi capolavori dell’arte di ogni tempo: l’Afrodite Cnidia di Prassitele
Efeso res
Mende
Aydin
Samos Priene Mileto
Alinda
Lago di Bafa
Afrodisia
Alabanda
Besparmak
Gherga
Kapıkırı (Eraclea sul Latmo) Labranda
Didyma
Iasos Milas (Mylasa) Bodrum (Alicarnasso)
Mar Egeo
Kos Datça
Rodi
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S
25 Km
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Sedir Adası (Isola dei Cedri) Lago di Köycegiz
Ma r Med i t e r r a n e o
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Marmaris Cnido
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Lagina Stratonicea
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Da
Eraclea sul Latmo, il muro del naos della cella del tempio di Atena. Sullo sfondo, il lago di Bafa, che ha preso il posto dell’antico golfo Latmiaco.
C
i allontaniamo dalla Ionia lasciando la valle del Meandro, il fiume che ne segna il confine meridionale. La strada che da Mileto e Didime punta verso sud vede comparire di fronte a sé un monte che è tra i piú belli dell’Anatolia: è alto circa 1300 m e ha una cresta a cinque punte, cosí che i Turchi lo hanno ribattezzato Besparmak: «Cinque dita». Anticamente era chiamato Latmo, e segnava i confini sudorientali di un golfo che prendeva appunto il nome di Golfo Latmiaco. Ora, quel golfo non esiste piú: al suo posto vi è un lago, il lago di Bafa. Responsabile di questo sconvolgimento geologico è stato, cosí come a Mileto, ancora una volta il copioso, lento fluire del Meandro, che ha mutato il volto di queste terre coi detriti alluvionali. Il lago non è dunque che un residuo marino, tanto che le sue acque sono salate: a chi vi si affaccia, il mare pare oggi lontano, ma in realtà si nasconde dietro alcune basse alture. Sicché visitare l’antica città di Eraclea sul Latmo, che sorgeva sulle sue sponde, ci offre oggi un panorama suggestivo, ma che non ha piú molto a che vedere con quello di un tempo.
Sotto il cielo piú bello In realtà, Eraclea è ancora una città ionica, sebbene non fosse parte della Dodecapoli e assumesse una certa importanza solo a partire dal IV secolo a.C. Comunque, qui ancora si respira la bella aria, il gradevole clima tipico della Ionia, non molto diverso da quello che si percepiva nell’antichità. È lo storiografo Erodoto – nato poco piú a sud di qui, ad Alicarnasso – a notare che «Gli Ioni hanno avuto in sorte, tra tutti gli uomini che conosciamo, di innalzare città sotto il cielo piú bello, e nel clima migliore. Infatti, né le terre piú sopra, né quelle piú sotto, né quelle a levante, né quelle a ponente sono pari alla Ionia, poiché alcune sono oppresse dal freddo e dall’umidità, altre dal caldo e dalla siccità». E in effetti, quando si arriva nel villaggio di Kapıkırı, che sorge sopra e in mezzo alle rovine di Eraclea – che talvolta vanno cercate tra i giardini e gli orti delle case – ci si ritrova in un
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ambiente naturale gradevole, bucolico, con le mandrie di bovini che pascolano tra le mura ellenistiche, lunghe ben 6 km e dotate di 65 torri, alcune delle quali ancora ben conservate. Un bouleuterion è riconoscibile nel cortile di una fattoria, con i galli che puntano minacciosi gli intrusi sconosciuti; ha forma quadrangolare, o meglio a «pi greco», come quello di Priene. L’antica agorà è affiancata e sorretta da un monumentale deposito merci a due piani. Ma soprattutto quando si sale alla cella di quello che fu il tempio di Atena, erto come una polena su un promontorio dominante il lago, si
A destra il monte Latmo, oggi Besparmak, «il Cinque dita», per via della sua cresta. In basso Eraclea sul Latmo. Tombe carie oggi parzialmente sommerse dalle acque del lago di Bafa (l’antico golfo Latmiaco).
può ammirare un panorama considerevole: piú sotto, uno sperone di pietra si protende ancora avanti in mezzo alle acque, occupato da un castello-monastero bizantino. Anche da lí, la visione è molto particolare: sotto il pelo dell’acqua, gruppi di tombe antiche intagliate nella roccia, prive di coperchio e rimaste coi loro vani vuoti e ciechi, sono lambite e battute regolarmente dalle onde, che ora le sommergono, ora le rilasciano al sole, cingendole di un funereo festone di schiuma. Ma resta ancora una cosa, da vedere, prima di lasciare definitivamente Eraclea e con essa la mollis Ionia: la «dolce Ionia», come la chiamavano i Romani. È il santuario-tomba di Endimione. Le fonti antiche hanno portato a individuare in una sorta di esedra
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quadrangolare, addossata su una roccia, la grotta ove il bel pastore cario fu scoperto, corteggiato e amato dalla Luna: finché Zeus gli concesse un sonno eterno e dolcissimo, cosicché ogni notte la dea potesse carezzarlo, dall’alto, con i suoi raggi. Senza dimenticare, cosa fondamentale, di concedergli anche l’eterna giovinezza. Comunque, che la chiamassero Selene, o Ecate o Mene, la dea lunare che si innamorò per l’eternità di quel giovane pastore era sovrana in quest’angolo sud-occidentale dell’Anatolia.
Coste tortuose e frastagliate La strada prosegue poi ancora verso sud: passando per l’interno della Caria, giungerà a quella che ne fu l’antica capitale, Mylasa (oggi
Milas), dopodiché si riaffaccia sul mare là dove si estende la regione che è oggetto del nuovo itinerario: la Doride, cioè la fascia costiera colonizzata dai Greci di dialetto dorico. La strada principale passa qui necessariamente per zone interne, perché, pur senza essere un’isola, la Caria ha coste lunghe tanto quanto quelle della Sicilia, e che sono però anche tra le piú tortuose e frastagliate del Mediterraneo. Troviamo subito, grazie a un’indicazione che lo segnala alla nostra sinistra, il primo dei gioielli di questo itinerario. È ancora completamente deserto al mattino quando, snello ed elegante come un’arpa poggiata tra i monti – tanto slanciate e sottili s’allungano le sue colonne corinzie –, appare il tempio di Zeus Lépsynos. È uno dei tanti, sontuosi regali lasciati a noi
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posteri da quel benefattore dell’arte classica e amante delle province orientali che fu l’imperatore Adriano. Il sito non è una delle classiche mete del turismo organizzato e cosí, una volta sul posto, ci si può trattenere in solitudine in questo sacro recinto di pietra, immerso nel verde silente di un bosco. Ma ecco – quasi
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fosse un presagio del seguito di questo viaggio – che attira la mia attenzione il misterioso e inquietante simbolo della doppia ascia, scolpito su una pietra d’architrave caduta al suolo. Come a temperarne la drammatica valenza – che richiama sacrifici cruenti a divinità arcaiche, ordini perentori, poteri di vita o di morte – lo affiancano,
In basso, sulle due pagine i resti del tempio di Zeus Lepsynos a Euromos. Età adrianea.
A sinistra uno dei blocchi del tempio di Zeus Lepsynos, sul quali, a rilievo, compare una doppia ascia affiancata da due orecchie. In basso, a destra i resti del santuariotomba di Endimione a Eraclea sul Latmo.
sorprendentemente, due orecchie, anch’esse in rilievo. Dunque tra queste colonne abitava un dio, un tempo forse terribile, ma che ora si piegava ad ascoltare le richieste sommesse, le preghiere accorate degli uomini? Non lo sappiamo, né forse lo sapremo mai: poiché la lingua dei Cari è per noi ancora muta; cosí come è muta la «lineare A» di quella civiltà minoica a cui il simbolo religioso della doppia ascia fu probabilmente trasmesso.
Un popolo antichissimo Frammisti com’erano ai Greci – presenti qui di volta in volta come migranti o despoti, colonizzatori o liberatori – e quindi, volenti o nolenti, loro stretti frequentatori, i Cari sono nei fatti un popolo antichissimo, ma ormai da tempo scomparso: la loro lingua non può neppure essere considerata con sicurezza appartenente alla famiglia indoeuropea. Per questo, una volta arrivati a Mylasa, sarà interessante fermarsi davanti a una delle piú grandi epigrafi in caratteri cari che si trova nel museo archeologico della cittadina: è collocata in disparte, ma in posizione di rilievo tra ritratti
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Alicarnasso (Bodrum). Una veduta del teatro, con il castello sulla sinistra e la collina di Salmacide sulla destra. Nella pagina accanto, in alto Mylasa (Milas). I resti del tempio di Zeus Cario. Nella pagina accanto, in basso testa di Zeus. Epoca ellenistica. Milas, Museo.
ellenistico-romani di squisita fattura e rilievi greco-arcaici che non sfigurerebbero al Museo dell’Acropoli di Atene. «Barbarofoni», cioè, alla lettera, «parlanti con suoni barbari», definisce Omero i Cari: unici tra i contingenti orientali combattenti a favore di Troia a meritarsi questo epiteto. Eppure, tra tanti altri popoli dell’Asia Minore, e benché fossero notoriamente riottosi e bellicosi, furono quelli che ospitarono alcune delle piú antiche e fulgide colonie elleniche, e ingentilirono i propri costumi grazie all’influsso di una civiltà che, almeno per qualche secolo, si presentava sicuramente come piú avanzata della loro (vedi box alla pagina seguente). Metà barbari e metà greci, insomma, metà occidentali e metà orientali, i Cari. E, come se non bastasse, per una metà virili e bellicosi, per l’altra dissoluti ed effeminati: del resto, cosí spesso i Greci consideravano, con qualche punta di disprezzo, i popoli dell’Asia. Che cosa c’è, per esempio, dietro il mito dell’Ermafrodito? Quando si entra nel porto di Alicarnasso provenienti dal mare, a consolare la nostra delusione di non avvistare piú la mole dello spettacolare Mausoleo che rese celebre questa città nel mondo, ci sono tuttavia due magnifici avamposti: il Castello dei Cavalieri,
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ricostruito saccheggiando proprio le magnifiche pietre marmoree di quel monumento, e, dalla parte opposta, la collina di Salmacide. Salmacide è la ninfa Naiade che, invaghitasi del bellissimo quindicenne figlio di Ermes e di Afrodite, lo sedusse e lo trascinò nelle acque, avvinghiandosi a lui in modo tale che gli dèi, alla fine, non trovarono altra soluzione a quella passione violenta e insaziabile che fondere i due corpi, quello del ragazzo e quello della giovane, in una sola persona dal duplice sesso. Ma Salmacide è anche una fonte, la cui acqua era ritenuta capace di indurre gli uomini all’effeminatezza: e fu proprio invitandoli a bere lí che i coloni greci avrebbero avuto alfine ragione della rozza indole dei Cari.
Esposta al vento Bodrum (o Alicarnasso) è oggi una città gradevole e accogliente – ha una vita estiva non troppo diversa da Dubrovnik, Kos o Rodi, per esempio – e non ha perso quasi nulla della sua antica bellezza. Per il suo stile di vita aperto, che la presenza dei turisti colora di cosmopolitismo, sembra rimasta ancora fedele al suo nome originario di Zefiria: di città esposta al vento, agli influssi spiranti da Occidente. Ad Alicarnasso dovremo visitare
Quel dio dai molti nomi
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epsynos, Osogos, Stratios, Karios: ma anche Labraundos, Chrysaoris, Idrieos... Gli studiosi hanno enumerato oltre 20 nomi, o epiteti, che accompagnavano quello di Zeus, in altrettante località della Caria. Sotto l’egida di Zeus Karios, il cui tempio sorgeva a Mylasa o nella vicina cittadella di Peçin Kale, si riuní la prima confederazione regionale, per contrastare i Persiani che avevano abbattuto e conquistato il vicino regno di Lidia (547/6 a.C.). Solo con gli Ecatomnidi, in origine satrapi locali, la Caria conseguí nel IV secolo a.C. unità e indipendenza, pur sotto il formale dominio persiano. Di questa dinastia farà parte Mausolo, fratello e marito di Artemisia II, colei che innalzò in suo onore il Mausoleo di Alicarnasso, una delle Sette Meraviglie del mondo (Artemisia I, invece, fu la sua antenata che lottò valorosamente sul mare a Salamina nel 480 a.C. dalla parte dei Persiani). Sotto la guida di Mausolo (377-353 a.C.) il regno raggiunse l’apice della potenza e della ricchezza, come dimostra anche l’intera riprogettazione, tanto scenografica quanto efficiente ai fini commerciali e difensivi, della nuova capitale, che da Mylasa fu trasferita ad Alicarnasso. In età ellenistica, infine, quando le leghe locali si affermarono un po’ ovunque per consentire alle cittàstato di far fronte, unendosi, allo strapotere dei diadochi, fu formata la Lega Chrisaorica, che ebbe il suo centro nel tempio di Zeus Chrisaoris, nei pressi del quale sarà poi costruita la città di Stratonicea.
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sicuramente l’antiquarium dedicato al celebre Mausoleo, poiché sorge attorno alle colossali fondamenta dell’edificio, che sono tutto quel che ne resta (vedi box a p. 107). Piú spettacolare è il grande e ben conservato teatro antico: se si sale fino alla gradinata superiore, si realizza che l’emiciclo teatrale non fa che ripetere la conformazione «teatrale» della stessa città antica, disposta digradante entro un «emiciclo» di colline alle quali si addossa, e conclusa dal porto. Anche una passeggiata al tratto di mura piú di rilievo, quello della porta fortificata di Myndos, apre a ulteriori, panoramiche escursioni fino all’estremità della penisola, dove le greche Kalymnos, Leros e Pserimos rendono mosso e prospettico l’orizzonte marino. Ma è soprattutto il Castello di San Pietro, fortificato nel
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Sulle due pagine immagini di Bodrum (Alicarnasso). Da sinistra, in senso orario: i resti del Mausoleo, il torrione del Castello di San Pietro (con il minareto della moschea interna) e la porta di Myndos.
Quattrocento dai Cavalieri dell’Ordine degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme (quelli che poi saranno i Cavalieri di Malta), a essere oggi un vero e proprio concentrato di storia. Non solo perché poggia sulle rovine di quello che fu il palazzo, o la reggia, di Mausolo – e fu costruito, ahimè, smantellando e riutilizzando gli elementi architettonici di una delle Sette Meraviglie del mondo antico –, ma anche perché è un museo archeologico molto ben assortito. Chi voglia, per esempio, vedere pressoché integra una nave antica, anzi antichissima, con tutte le sue mercanzie ancora nella stiva al momento del naufragio, potrà ammirarla in una sala del Museo dell’Archeologia Sottomarina: il relitto, trovato a Ulu Burun (piú a sud di qui, nei pressi della cittadina di Kas), risale al XIV secolo a.C., cioè a
quella Mylasa che fu capitale della Caria ancor prima di Alicarnasso, dove ci si sentirà avvolti in un’atmosfera del tutto differente. Qui i turisti stranieri sono pochi, i ritmi di vita sono quelli turchi, e si respira un’aria piú autentica, tradizionale: sia che si vada a cercare, dietro la tomba di un asceta musulmano, i resti grandiosi – ma nulla piú di qualche possente basamento in pietra – del tempio di Zeus Osogos; sia che ci si aggiri, nella parte piú alta della cittadina – Hisarbası, un’acropoli fatta di viuzze e di botteghe – attorno alla colonna superstite del santuario di Zeus Cario: svettante sulle antiche rovine per la sua snellezza, è coronata perennemente da un nido di cicogne, e segnava un tempo il recinto sacro della nazione caria. Vi potevano accedere, dice Strabone, solo quanti erano Cari di nascita
un’epoca corrispondente al fulgore della civiltà micenea, e precedente la guerra di Troia. Cosí, dopo avere tanto parlato di colonizzazioni, di porti, di commerci, questi reperti ci danno finalmente un’idea di che cosa volesse dire «navigare «in antico. Insomma, non è un caso che il «Padre della Storia», Erodoto, sia nato qui ad Alicarnasso, da padre asiatico, forse proprio cario, e da madre greca.
o loro affini, come i vicini Lidi e i Misi. Scendendo da lí verso il piccolo corso d’acqua che traversa la città, quasi a secco già in primavera, lo si supera per giungere al bazar. Tra bancarelle rese multicolori dai frutti, dagli ortaggi, dalla impressionante varietà di spezie immancabili in tutti i mercatini dell’Anatolia, ecco ergersi un altro monumento, con un simbolo già incontrato. Si tratta di una porta ad arco delle antiche mura romane. Ma quell’architetto di un’antichità relativamente tarda ha voluto inserire sotto la chiave di volta, rispettando la tradizione, l’arcaico emblema della doppia ascia: Baltalı Capı, «Porta dell’Ascia», si chiama infatti oggi in turco il
Atmosfere genuine Se si è ormai stanchi della luce soverchiante dell’Egeo o della vita notturna, basta rientrare per una cinquantina di chilometri piú all’interno e trascorrere qualche giorno a Milas, cioè in
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innescata da Mileto nel 499 a.C.: prodromo delle guerre persiane e del primo grandioso scontro «tra Oriente e Occidente». Dopo avere risalito una serie di spettacolari tornanti stradali, giungo cosí al santuario, che è addossato come Delfi al costone di un monte e posto su terrazze a piú livelli. Da quassú si domina l’intera fertile piana di Mylasa avvolta nella caligine del mattino. Piú oltre, si intravede la rocca scoscesa di Peçin Kale, una cittadella che forse fu anch’essa capitale ancor prima di Mylasa.
Le sale per i visitatori illustri
Mylasa (Milas). Il Gümüskesen, mausoleo che imita, in scala, la struttura del grande modello alicarnasseo. Età romana.
monumento. La attraverso, ma senza proseguire: so che la via che si intraprende da qui mi condurrebbe ancora per altri quattordici chilometri, piú in alto, fino a un santuario disperso tra i monti, dove sarà meglio recarsi in auto. Il santuario in questione, manco a dirlo, richiama fin dal nome la doppia ascia, la labrys, parola talmente arcaica da essere ritenuta preellenica: quassú, nel santuario di Labranda, Zeus era soprannominato Stratios: traducendo, una sorta di «Dio degli Eserciti». Qui si radunarono in estrema, eroica difesa, i Cari che si erano ribellati ai Persiani, dando man forte agli Ioni e agli Eoli nella celebre rivolta
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Anche a Labranda capita spesso di essere in compagnia di pochi altri visitatori. Risalita la scalinata dei propilei ci si trova già nel santuario: prima, alla terrazza del tempio di Zeus, di cui restano estese fondamenta; appena oltre, ecco le Sale degli Uomini (gli «Androni», destinati a ospitare i visitatori illustri o i sacerdoti), rimaste quasi intatte fino all’altezza dei vani delle finestre. Basta allontanarsi ancora di poco e, superato un tratto boscoso, si arriva ai resti di uno stadio, il cui terrazzamento fu prolungato perché raggiungesse la lunghezza canonica adatta alle gare di corsa, fino a scavalcare una forra. Ma il corso d’acqua che la riempie durante le piogge venne rispettato, e lasciato libero di fluire, con un’elegante architettura idraulica. Infine, a coronamento del tutto, è possibile percorrere il magnifico, solenne lastricato a gradoni che è il tratto terminale della Via Sacra che saliva qui da Mylasa, percorsa in processione ogni anno per la festa del dio. Dopo Labranda la strada prosegue, risalendo ancor piú verso l’interno, e attraversa altri monti, altre valli, per scendere infine al corso del fiume che una volta era detto Marsia (dal nome del satiro che, avendo osato sfidare Apollo in una gara musicale, fu da costui vinto e scuoiato vivo), mentre oggi è il Çine çay, e che va a gettarsi poi, piú a nord, nel Meandro. Questa deviazione ci porterebbe però a fare tutt’altro viaggio, allontanandoci troppo dalla zona costiera, che è l’oggetto del nostro itinerario.
Da Mausolo ai mausolei
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uello del Mausoleo di Alicarnasso è forse l’unico esempio di tipologia di edificio che abbia preso nome da una persona. Il monumento funebre eretto in onore del re di Caria, Mausolo, nel IV secolo a.C. fu annoverato tra le Sette Meraviglie del Mondo per le imponenti dimensioni (lo circondava un recinto che misurava 242 x 105,50 m; l’altezza dell’edificio, sormontato da una quadriga al culmine di un tetto a sezione piramidale, era di circa 45 m), per la quantità delle statue in marmo che lo adornavano lungo i vari ripiani (piú di 300), ma anche per la qualità artistica dei suoi artefici: vi lavorarono scultori come Scopa e Leocare, e architetti come Piteo e Satiro. Dell’intero edificio resta molto poco: dopo un violento terremoto del 1304, l’ingente materiale edilizio fu infatti utilizzato dai Cavalieri Gerosolimitani per erigere il Castello di San Pietro, iniziato nel 1402, a difesa dell’incombente avanzata ottomana.
Tuttavia, chi voglia farsi un’idea del suo aspetto e della sua eleganza, deve recarsi a Mylasa (Milas) per ammirare il mausoleo detto Gümüskesen, ben conservato e risalente all’età romana: in dimensioni minori, ripete approssimativamente la struttura del grande modello alicarnasseo.
La Doride è una regione sostanzialmente individuata da due profondi golfi e due lunghe penisole. I due golfi si aprono uno a nord, l’altro a sud di Alicarnasso, e attorno a essi prosegue la nostra visita. Quello settentrionale prendeva in antico il nome da un insediamento, poi una città, Iasos, le cui origini sono molto antiche, poiché risalgono al tempo in cui i Minoici dominavano da Creta sull’Egeo, attraverso quella talassocrazia di cui ci parla l’altro grande storico greco, Tucidide, nel settore detto Archeologia con il quale apre la sua opera (la Guerra del Peloponneso, n.d.r.). Dobbiamo immaginarli, i Minoici, commerciare con una di quelle navi che
abbiamo visto nel Castello di Bodrum, e fare scalo, per esempio, proprio qui a Iasos. Quello che oggi è un alto promontorio piramidale che si protende nel Golfo Iasico (ora di Güllük o di Mandalya), era probabilmente una volta un’isola, quasi attaccata alla costa. Una posizione dove era facile ormeggiare, difendersi se necessario dai nemici dell’entroterra e avvistare allo stesso tempo quelli che venivano dal mare: ma anche, soprattutto, commerciare. Subito dopo i commerci con i Minoici, venne il momento dell’arrivo dei veri e propri fondatori della polis, che la tradizione indica come provenienti da Argo già nel II millennio a.C.
In alto, a sinistra particolare del soffitto a cassettoni del Gümüskesen di Mylasa. In alto, a destra modellino del Mausoleo di Alicarnasso.
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DORIDE E CARIA
Il merito di aver scavato questo sito va agli Italiani, che a partire dal 1960 con Doro Levi (1898-1991), a lungo Direttore della Scuola italiana archeologica di Atene, fino a Marcello Spanu dell’Università della Tuscia, che diresse gli scavi tra il 2011 e il 2013, hanno portato alla luce molto di quanto oggi vediamo.
Le ceneri del vulcano Da non perdere è il bouleuterion, a pianta quadrangolare ma con cavea a tre quarti di cerchio, rinnovato nel I secolo d.C.; poi la Casa
dei Mosaici e il Mausoleo, oggi circondato da un edificio adibito a collezione di reperti. Una delle ultime scoperte è quella di un alto strato di cenere vulcanica che investí, forse distrusse, il piú antico insediamento cittadino al tempo dell’esplosione del vulcano di Thera: uno dei massimi indiziati del declino della civiltà minoico-cretese. Il legame di questa fascia costiera con la piú grande isola dell’Egeo, quella da cui è nata la prima civiltà europea palaziale e dotata di scrittura, è segnato dalla geografia stessa. Un cordone di grandi isole,
In basso, sulle due pagine Labranda. Veduta panoramica della terrazza principale del santuario di Zeus Stratios. Nella pagina accanto un fregio a rilievo oggi conservato nel Museo di Mugla.
Kos, Rodi, poi piú a sud Kasos, rendeva agevole la rotta da e verso l’Anatolia: rassicurando i naviganti antichi che, come è noto, cercavano di non perdere mai di vista la terra. Il secondo, golfo, quello che si apre a sud di Bodrum, è il piú profondo di tutta la costa microasiatica. Accoglie un mare di un azzurro intenso tra le frastagliate e verdeggianti coste: tanto è vero che per i Turchi questo golfo è oggi detto di Gökova, ovverosia della «Piana Celeste». Una volta era il golfo Ceramico (Keramikòs), prendendo il nome da Kéramos,
una polis ellenica raggiungibile partendo dalla sua località piú interna, Akyaka, e seguendo sulla costiera settentrionale un percorso litoraneo di poche decine di chilometri: ricordo, della mia visita, tratti di mura, di portali antichi e il podio marmoreo di un alto tempio che intersecano prati frequentati da buoi. Ma la perla del golfo è una piccola isola nascosta, quasi invisibile da lontano per quanto è esile e prossima alla terraferma.
Sabbia egiziana per Cleopatra Sorge lungo la costa opposta, quella meridionale, e apre al pubblico solo a partire dalla primavera, Sedir Adası, l’«Isola dei Cedri». Un tempo fu una polis in piena regola, abitata da Cari, poi ellenizzata e romanizzata; per accedervi si paga un biglietto, dato che è zona archeologica. Vi è un teatro dalle classiche proporzioni, la cui cavea è ombreggiata da ulivi cresciuti nei secoli tra le file dei sedili. E poi un’acropoli, affacciata sul mare, coi resti del tempio di Apollo. E, alla fine di una lunga passeggiata all’ombra dei cedri (questo appunto vuol dire Sedir in turco, cosí come il nome ellenico della città-isola, Kedrai), arriviamo alla spiaggia piú luminosa e insolita della regione. Una leggenda dice che qui Antonio e Cleopatra avessero trascorso la loro luna di miele, e che per fare cosa gradita alla regina il proconsole avesse fatto trasportare dalle navi la soffice, candida sabbia dell’Egitto. All’imbocco del golfo, lontano nel mare, sorge
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DORIDE E CARIA
Immagini dell’Isola dei Cedri (Sedir Adası). Dall’alto, una suggestiva veduta aerea del sito e i resti del teatro ellenistico.
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Una veduta del sito di Iasos, con i resti dell’agorà in primo piano. La riscoperta del sito è opera di archeologi italiani.
con alto fronte, ben visibile anche sa avvolta nella foschia marina, la grande isola di Kos. Insieme a Rodi, che si trova piú a sud, faceva parte anch’essa della Doride. Regione meno estesa della Ionia, la Doride era costituita da sei città-stato. In seguito divennero cinque: una, proprio Alicarnasso, ne fu espulsa per una trasgressione di carattere religioso già in età arcaica. Si parla perciò di una esapoli, e quindi di una pentapoli. Tre di queste poleis erano a Rodi: si tratta di Camiro, Lindo, Ialiso. La quarta era la città-stato che sorgeva a Kos. La quinta, fino a un certo momento appunto, Alicarnasso. Ma è ora la sesta, che per certi aspetti era la piú importante della lega dorica, quella che andiamo a visitare.
Le feste per l’Apollo Carneo Se siete i fortunati possessori di una barca, non sarà difficile giungere a Cnido: già in antico aveva due porti molto accoglienti, sorge sull’estrema punta di un capo ed è quindi molto ben visibile. Ma se pensate di andarci via terra, è necessario percorrere una lunga e,
nei tratti finali, tortuosa strada di circa 70 km: tanto infatti si protende la penisola detta oggi di Datça (fino al 1928, di Resadiye), che è anche piuttosto stretta (a un certo punto si contrae in un istmo di meno di un chilometro). All’estremità di questa lingua di terra, sotto Capo Triopio (oggi Capo Crio) sorgeva la celeberrima Cnido. Era sicuramente una polis dorica, tanto che vi è stato individuato il tempio di Apollo Karneios, divinità festeggiata in gran parte del Peloponneso nel mese che da essa prendeva il nome Carneo, e che corrisponde piú o meno al nostro agosto. Era stata colonizzata da Spartani e Argivi, ma a sua volta si spinse fin nel nostro mare Tirreno colonizzando Lipari, nelle isole Eolie. Diede i natali a uno dei piú grandi astronomi e matematici dell’antichità, Eudosso, e a Sostrato, l’architetto che progettò il colossale Faro di Alessandria d’Egitto, l’ultima in ordine di tempo delle Sette Meraviglie del mondo. Sostrato era anche noto per aver fatto costruire, proprio a Cnido, una pensilis ambulatio, un porticato o loggiato sospeso.
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DORIDE E CARIA
Perché quest’ultima opera venga ricordata, lo si comprende solo arrivando fin qui: è per la vista unica che permetteva. Non si tratta di un semplice promontorio, ma di un promontorio doppio. Si conclude, infatti, con una estremità di terra elevata oltre la quale, collegato da un sottilissimo istmo, si erge un ulteriore, altro capo, anch’esso piuttosto alto e scosceso dalla parte del mare aperto. E la città sorgeva su entrambi. L’istmo creava a sua volta due porti. Uno, verso nord-ovest, da cui era facile navigare verso l’Egeo settentrionale, i Dardanelli e il Mar Nero, era piú piccolo, a uso prevalentemente militare; l’altro, piú grande, era esposto a sud-est, vale a dire verso il Mediterraneo orientale, la Siria e l’Egitto.
Un passaggio sicuro Una volta giunti sotto uno dei capi piú estremi ed esposti ai venti dell’Anatolia, i naviganti vi trovavano cosí sempre un riparo protetto: un canale, tagliato nell’istmo, consentiva poi a essi di passare da un porto all’altro senza rischi ulteriori (vedi box in questa pagina). Tutte queste caratteristiche del paesaggio sono ancora intatte, chiare, intellegibili, il tutto in dimensioni grandiose: questo era ciò che si
Ma dov’era veramente Cnido?
N
ei pressi del sito di Cnido non vi sono alberghi, né luoghi in cui soggiornare. Le migliori basi di partenza per la visita della città e dell’intera penisola – ma anche di quella adiacente di Bozburun o di Loryma (che è immediatamente di fronte a Rodi, tanto che se ne parla come della «Perea Rodiese», vale a dire la terra di Rodi sita immediatamente al di là del mare), – sono anzitutto Marmaris (il maggior centro turistico della zona), che occupa il sito dell’antica Physkos ellenica, e possiede un bel castello ottomano, adibito a museo; e poi Datça, piú «turca» e frequentata prevalentemente dal turismo interno (e relativamente piú vicina agli scavi). Al proposito, va ricordato che, secondo alcuni studiosi, fino al IV secolo a.C. la città di Cnido non si sarebbe trovata dov’è
ora, ma nella località di Burgaz, un paio di chilometri a nord/nord-est di Datça, dove i resti di una città fortificata litoranea, dotata di piccoli porti e circondata da possenti mura, furono in effetti abbandonati allo stesso tempo della costruzione della maggior parte degli edifici della «nuova» Cnido, a Capo Triopio. Non è tutto: circa 16 km prima di arrivare a Datça, un cartello segnala le rovine di un bel tempio, indicato anch’esso come quello di «Apollo Triopio». Insomma, la discussione è ancora aperta. Tuttavia, chi abbia constatato coi propri occhi quanto si vede all’estremità della penisola, difficilmente potrà persuadersi che il centro cultuale e politico dei Dori d’Asia non si trovasse lí, in quel sito incantevole e insieme strategico.
ammirava dall’ambulatio. La città si estendeva sui due versanti contrapposti del duplice capo, e il fatto di rimanere cosí difficilmente raggiungibile via terra l’ha probabilmente salvata da molte spoliazioni, rendendola un paradiso per gli archeologi e una delizia per il visitatore. Ovviamente, però, non vi è piú traccia di «lei»: della Afrodite Cnidia, opera di Prassitele, tanto rinomata già allora che i turisti accorrevano da tutte le province del mondo antico per ammirarla, prima tra le dee pagane, nella sua completa e seducente nudità. Per questo, si doveva poterla ammirare da ogni lato: il tempio aveva un ingresso anteriore, ma anche uno posteriore, caso piú unico che raro. Chi voglia averne una descrizione, compreso l’effetto quasi di incarnato che il marmo della statua produceva, non ha che da leggere un’opera, gli Amores, poco frequentata ma
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In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
dalle prime esplorazioni alla ripresa degli scavi
L’
intera zona di Cnido è oggi un parco archeologico, in cui gli scavi sono tuttora in corso. Dopo il britannico Sir Charles Newton, che vi lavorò a partire dalla metà dell’Ottocento (1857) – dopo avere riportato alla luce, tra l’altro, il Mausoleo di Alicarnasso –, occorrerà attendere piú di un secolo per una ripresa in grande stile delle ricerche, con l’americano Iris Love (1967), che scoprí il tempio circolare. Da allora, le indagini sono state condotte da archeologi turchi dell’Università Selcuk di Konya: come Ramazan Özgan, autore di numerosi saggi sull’arte ellenistica e romana, il quale riportò alla luce il piccolo teatro, e, ultimamente, Ertekin Doksanaltı.
vivacissima di Luciano, il retore di Samosata piú noto per i suoi Dialoghi degli Dèi. Non è detto che il capolavoro di Prassitele fosse esposto sulla piattaforma circolare di un tempio da cui si gode la visione complessiva del sito. Ma resta il fatto che con i suoi portici colonnati, un grande tempio corinzio, i due teatri (il piú piccolo, a pochi passi dal mare, quasi integro), il santuario delle Muse, il tempio di Dioniso, Cnido è ancora una città
Sulle due pagine vedute dell’area archeologica di Cnido, la polis dorica che accolse la celeberrima Afrodite scolpita da Prassitele.
incantevole. E strategica, ovviamente: tanto è vero che la sua Afrodite aveva l’epiteto molto concreto di Euploia, colei che favorisce una «felice navigazione». Qui, dopo la disastrosa sconfitta della Guerra del Peloponneso, nel 394 a.C. Atene riportò con Conone una splendida vittoria contro gli Spartani che pure l’avevano vinta (appena dieci anni prima): restituendo cosí alla polis dell’Attica un altro secolo, il IV, di prestigio e di grandezza.
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CAPITOLO
LICIA
STORIA E MITO SUL MARE PIÚ BLU Acque cristalline bagnano una regione costiera incantevole, coronata da monti e disseminata di decine di insediamenti, ricchi di monumenti spettacolari: nella terra dei Lici fiorirono città fra le piú belle della Turchia antica
Korkuteli
Sogut
Perge Termessos Antalya
Kaunos
Beldibi
Elmali
Fethiye Faralya
Kemer
Phaselis
Tlos
Tekirova
Olympus
Xanthos Patara
Kalkan
Finike
Kas
N
Kumluca
Myra
NO
NE
SO
SE
O
E
S
B
ellerofonte, Sarpendone, Glauco, la Chimera e san Nicola, cioè un mostro, un santo e tre eroi omerici: potrebbero essere questi i principali punti di riferimento comuni per il viaggiatore che oggi voglia visitare la Licia. È difatti piuttosto difficile inquadrarla culturalmente, e anche dal punto di vista storico la regione non ci rammenta eventi particolarmente eclatanti. Eppure, rispetto alle terre che abbiamo visitato finora, quella che in turco si chiama penisola di Teke presenta non pochi aspetti che la rendono affascinante e degna di uno, se non di piú viaggi. Anzitutto, le sue vicende sono antichissime: la Lukka è ricordata già nelle
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iscrizioni degli Ittiti, risalenti alla metà del II millennio a.C. Questo perché i suoi fieri abitanti, i Lukki, dovettero essere bersaglio di frequenti spedizioni militari da parte dei sovrani di quel potente impero anatolico. Non meraviglia, quindi, che una approfondita guida della regione vi segnali addirittura un centinaio di siti archeologici, tra maggiori e minori (sono almeno una decina quelli da non perdere). Inoltre, anche dal punto di vista geografico, la Licia presenta un territorio singolare: è circondata su tre lati dal mare, ed è allo stesso tempo prevalentemente montuosa. La penisola occupa infatti l’estremità occidentale della catena del Tauro, (i Toros
Sulle due pagine la spiaggia di Itzuzu, sul delta del fiume Dalyan, nota per essere uno dei luoghi scelti dalle tartarughe marine (vedi foto nella pagina accanto) per la deposizione delle proprie uova.
Dagları, in turco), con cime che superano i tremila metri. Chi vi arriva in primavera, può godere della singolare, contemporanea visione di coste e lungomare cittadini abbelliti da palme e da una fioritura mediterranea già in piena esplosione, mentre a poche decine di chilometri si levano vette ancora innevate; a metà altezza, le pendici montane sono ricoperte da boschi di abeti, larici e faggi che assumono un verde sempre piú intenso man mano che il sole si fa strada. I gruppi montuosi piú alti della Licia sono visibili da entrambi i versanti della penisola: sia da quello occidentale, che si apre con il golfo di Fethiye (l’antico Glaukos), dove spiccano i «Monti Bianchi» (Ak Dagları); sia quello orientale, dove si allarga il ben piú ampio golfo di Antalya: da questo lato i Bey Dagları – tra cui, vicinissimo alla costa, si staglia l’antico monte Solyma (Tahtalı Dagı) – segnano il passaggio alla vicina regione della Panfilia, l’ultima del nostro viaggio (vedi alle pp. 124-129). Dunque, oltre alla varietà di climi e panorami e ai numerosi siti archeologici, sia lungo la costa, sia dispersi tra i monti (alla metà del I millennio a.C., le poleis della regione sarebbero state ben ventitré, secondo Erodoto) un buon motivo per cui la Licia merita che le si dedichi tutto il suo tempo è proprio questa orografia molto accidentata, con brevi pianure, alti passi montani e strade per lo piú strette e talvolta impegnative, a eccezione della lunga litoranea, che si snoda per circa 265 km: costruita alcuni decenni fa, rende il tour costiero della penisola indubbiamente piú agevole. Questa regione merita insomma di essere scoperta con calma, cosí che possa rivelarsi in tutta la sua stupefacente bellezza (vedi box a p. 122).
La spiaggia delle tartarughe La Licia inizia immediatamente a sud della Caria, e, se parliamo della fascia costiera, viene subito dopo l’antica Doride. Un lago, il Köycegiz, sfocia dopo pochi chilometri nel mare attraverso un emissario, il Dalyan, che crea un delta particolarmente complesso e articolato, arrivando infine alla lunga spiaggia
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LICIA
di Iztuzu, nota perché vi nidificano le tartarughe marine. Questo litorale è, in sostanza, un cordone sabbioso che separa la zona fluviale dal mare aperto. E difatti, se si vuole visitare la prima importante zona archeologica della regione, Kaunos, è preferibile muoversi lungo le vie d’acqua. Controversa era l’origine della popolazione di questa città, poiché essa è posta a metà tra Licia e Caria: tra l’altro, Erodoto afferma che i suoi abitanti provenivano da Creta, e aggiunge che avevano singolari costumi: «Per loro infatti la cosa piú bella è riunirsi a festeggiare bevendo in compagnie secondo l’età e l’amicizia, sia donne, sia uomini, sia ragazzi». E però tipicamente licio è lo spettacolo, grandioso, che ci appare appena giunti al punto di partenza della nostra escursione, l’imbarcadero di un paesino chiamato anch’esso Dalyan: un alto costone roccioso bruno, dove spiccano, a diverse altezze, le tombe intagliate nella roccia a imitazione di frontoni di templi ionici, con tanto di timpano triangolare, o, in alternativa, di semplici abitazioni dal tetto piano. Le si osservi con attenzione, poiché sono tutto quanto ci resta degli edifici sacri e abitativi che i Lici pur dovettero avere: quasi certamente costruiti in materiale ligneo (abbondante, grazie alle
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ricche foreste della regione), di essi non si è salvato pressoché nulla. Ma è già il momento di imbarcarci per il «Labirinto»: con tale parola di origine cretese, ma entrata nel lessico universale, gli stessi Turchi chiamano l’intreccio di canali e di barene, di isolotti di canne e di bassi fondali punteggiati di installazioni per la pesca che formano il delta del Dalyan tra qui e il mare. Il battello ci scaricherà per cominciare ai piedi di una rocca puntuta, l’antica acropoli di Kaunos, camminando attorno alla quale si arriva poi ai principali monumenti cittadini: tra tutti, spicca il teatro, che contava 40 file di posti, ellenistico e
In alto particolare della stele trilingue (licio, greco e aramaico) rinvenuta nel Letoon, il santuario dedicato alla triade apollinea composta da Latona, Apollo e Artemide. Fethiye, Museo Archeologico. In basso Kaunos. I resti del tempio a pianta circolare dedicato a Zeus Soter (Salvatore). Nella pagina accanto i resti del Letoon, il complesso santuariale dedicato alla triade apollinea.
poi romano. Se si sale alla sommità della cavea, si ha un’idea complessiva dell’area archeologica, e si noterà subito un piccolo lago circolare che ne segnala l’antico porto, oramai interrato e chiuso a tre chilometri dalla linea costiera; e poi delle terme romane, un ninfeo ancora semisommerso, un santuario a pianta circolare in cui la devozione per Zeus Soter (Salvatore) si sovrappose a un culto licio piú arcaico. Infatti, qualsiasi fosse la loro origine e sebbene la loro lingua non sia stata ancora decifrata, i Lici, a partire dalla fine dal V secolo a.C., furono anch’essi pervasi dalla cultura e dalla religiosità elleniche: come dimostrano le stesse tombe rupestri che abbiamo appena lasciato, e che costeggiano altri tratti del fiume, con il loro essere, in fondo, scenografici templi classici a due o quattro colonne tra le ante.
Iscrizioni multilingue Anche le iscrizioni pubbliche dei Lici, almeno le piú importanti, poste al centro delle città, erano del resto multilingue: come quella ritrovata al Letoon, e che fa ora mostra di sé nel museo di Fethiye: la prima importante città moderna che incontriamo, poco piú a sud di Dalyan.
Il potere è delle donne
U
na singolarità del Letoon è che il piú grande dei tre templi dedicati alla triade è quello di Latona, da cui il complesso politicoreligioso prende il nome. Si tratta di una Dea Madre, insomma, che anche a Kaunos, per esempio, è ben rappresentata da una statuetta lí rinvenuta e ora esposta al museo di Fethiye: non molto diversa nell’abbigliamento, nella postura e nella simbologia degli animali ricamati sul suo abito, dalle divinità anatoliche che abbiamo già incontrato nella Ionia e nella Caria. Del resto, anche Erodoto riporta che la trasmissione familiare presso i Lici era matrilineare: a chi si
chiedeva il nome, costui rispondeva citando, subito dopo il proprio, quello della madre, non quello del padre. E proprio dalla conoscenza di queste tradizioni licie Johann J. Bachofen prese lo spunto per il suo capolavoro sul Matriarcato del 1861 (Il diritto materno. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici), in cui teorizzava la originaria prevalenza sociale e religiosa dell’elemento femminile su quello maschile; tanto che l’anno successivo dedicò un saggio direttamente al popolo licio (Das lykische Volk und seine Bedeutung für die Entwicklung des Alterthums).
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LICIA
È un testo ripetuto in licio, in greco e in aramaico: quest’ultima era la lingua ufficiale nell’impero persiano, che dominò la regione dalla metà del VI secolo a.C, fino a quando la riscossa ateniese contro lo storico nemico orientale del mondo greco, e poi la definitiva conquista di Alessandro Magno, non portarono alla definitiva ellenizzazione della regione.
Il monito dell’eroe Non si pensi però che quella dei Lici sia stata una passiva assimilazione. La stessa Kaunos, cosí come Xanthos, che incontreremo piú avanti, oppose ai Persiani una resistenza
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accanita, che si spinse fino all’autodistruzione e alla morte gloriosa in battaglia degli ultimi combattenti. Sembra di sentire risuonare, su queste acropoli disabitate ma ancora illustri, le fiere, nobili parole dell’eroe licio per eccellenza, Sarpedone, il quale, combattendo contro gli Achei a fianco di Troia assediata, ammonisce cosí, nei versi di Omero, il cugino Glauco: «Se noi ora, fuggendo la battaglia, potessimo vivere sempre, senza vecchiaia né morte, non lotterei in mezzo ai prodi, né ti spingerei a combattere (…) ma un destino di morte attornia chiunque, né può evitarlo un mortale. Andiamo, dunque: o noi daremo gloria ad altri, o altri la daranno a
Tombe licie scavate nella roccia a Dalyan.
La tomba di Amyntas, poco fuori Fethiye.
noi». E allora, andiamo a visitarle, queste rocche gloriose dei Lici indomabili: essi mantennero a lungo il loro carattere di popolo combattivo e indipendente, tanto che, dal 167 a.C. fino al 43 d.C. – quindi anche quando Roma dominava ormai sull’intera Asia Minore –, preservarono una forte autonomia, organizzati com’erano in un Lega Licia che aveva il suo centro politico e spirituale nel Letoon poc’anzi ricordato. Sito sulla vicina valle dello Xanthos, il fiume principale della regione (oggi Esen Çay), il santuario era dedicato alla cosiddetta triade apollinea: la madre Latona, e i figli suoi e di Zeus, Apollo e Artemide (vedi box a p. 117).
Un buon punto di partenza per la visita della regione è la già citata Fethiye: a differenza di altri frequentati centri turistici, la cittadina ha conservato i suoi caratteri originari. Anche fuori stagione è un centro vivace, e, sebbene sia stata semidistrutta da un terribile terremoto nel 1957, rimane incantevole per la sua collocazione, all’interno di un golfo costellato da ben dodici isole, nonché per i suoi bei viali e il lungomare ricchi di luoghi di ritrovo. Ma conserva anche due singoli, straordinari monumenti. Nei pressi del Municipio (beldiye, in turco), è rimasto nel luogo in cui fu originariamente eretto un sarcofago di grandi
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LICIA
La tomba detta di Bellerofonte, nei pressi di Tlos.
Deposte le armi, gli eroi si scambiano le armature
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n un celebre episodio dell’Iliade giungono a confrontarsi a duello Diomede, re di Tirinto, per gli Achei, e, per il campo troiano, Glauco, principe licio. Rispettando l’etichetta aristocratica, i due per cominciare si presentano, partendo dalla propria genealogia. A interessarci qui è quella di Glauco: suo nonno, dalla parte del padre Ippoloco, era nientemeno che un eroe del mito, Bellerofonte. Costui, originario di Corinto, era stato mandato da un antico re di Licia a combattere contro il bellicoso popolo dei Solimi, e quindi a lottare contro un mostro, la Chimera, dal corpo ibrido di leone, capra e serpente. Ne uscí vincitore grazie anche al cavallo alato, Pegaso, domato con l’aiuto di Atena. Il sovrano diede perciò in moglie al vincitore di tali prove sua figlia, trasmettendogli cosí il regno. A sentir nominare Bellerofonte, Diomede ricorda che l’eroe era stato ospite, tanti anni prima, di suo nonno Oineo, con il quale dunque aveva stabilito un vincolo di ospitalità, considerato sacro ed ereditario presso i Lici, cosí come presso gli Achei. I due guerrieri cessano dunque di combattere e, in segno di rinnovata amicizia, si scambiano le preziose armature.
dimensioni che, sebbene in pietra, ha la forma di una abitazione lignea, con tanto di imitazione delle travi che sorreggono il tetto, qui rappresentato dalla sua copertura ogivale. Ai fianchi e lungo la trave di culmine – o cresta – di questo edificio in miniatura, corrono fregi figurati come in un tempio, con vivacissime scene in bassorilievo di un combattimento. Alle spalle della città, invece, proprio sotto l’acropoli, è possibile raggiungere facilmente a piedi una delle piú belle tombe rupestri licie intagliate nella roccia: quella di Amyntas, dal nome del personaggio per il quale fu costruita nel IV secolo a.C. Vi si può accedere anche alla camera sepolcrale: ma soprattutto, dal suo
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«pronao» a mo’ di tempio ionico, si ammirano l’intera città e il suo golfo.
Verso la valle del fiume «vorticoso» Non sarà invece altrettanto facile raggiungere un’altra delle piú celebri tombe rupestri, quella detta di Bellerofonte. Anzitutto, per visitarla bisogna compiere una puntata all’interno della regione, e raggiungere l’antichissima Tlos, citata anch’essa nei testi ittiti. Ma vale assolutamente la pena di farlo, perché è la città licia posizionata nel modo piú spettacolare. Dalla sua rocca, oggi occupata da una fortezza ottomana, da un lato si ammira l’intera città monumentale ellenistico-romana, con il teatro
Arpie, e dal Monumento delle Nereidi – i cui capolavori scultorei sono oggi conservati al British Museum, dopo esservi stati portati dall’esploratore e archeologo britannico Charles Fellows (1799-1860), scopritore di questo e di altri centri principali della vallata fluviale –, Xanthos vale davvero una lunga visita. L’acropoli licia, precedente la fase ellenistica e romana della città, è tuttora visitabile. E dal suo limite meridionale, che cade a precipizio nella vallata, ecco snodarsi con un una bella ansa il fiume impetuoso e scintillante che caratterizza questa parte occidentale della Licia.
Nicola, santo internazionale
I
resti della chiesa di S. Nicola di Myra, costruita una prima volta già nel III secolo, risalgono per la loro parte piú antica ai tempi dell’imperatore bizantino Costantino Monomaco (XI secolo). Le reliquie del santo furono però trafugate nel IX secolo da mercanti di Bari, che a quel tempo minacciavano la città, e dunque al loro posto c’è oggi solo una lapide che ricorda il fatto. Il legame tra Nicola e Klaus, evidente nel nome, è stato originato dal fatto che il santo, tra l’altro assai venerato anche in Russia, con i suoi miracoli avrebbe piú volte beneficiato dei bambini poveri o in pericolo; e da ciò deriva anche la tradizione del Vecchio benevolo, il Babbo Natale che, nella tradizione nordeuropea, poi americana, reca doni ai piú piccini.
In alto un particolare dell’interno della chiesa di S. Nicola a Myra. A destra uno scorcio del teatro di Kas, l’antica Antiphellos.
All’estremità dell’Anatolia Non lontano dalla sua foce, vanno ricordate da un lato Patara, una città riscattata a fatica dagli archeologi sottraendola alle sue falde acquifere; dall’altro, uscendo ormai dalla vallata del fiume e procedendo verso oriente, raggiungiamo l’estrema Kas. Non posso che definire cosí l’antica Antiphellos, una cittadina turistica deliziosa, con un magnifico teatro ellenistico ben restaurato in prossimità del mare: in mezzo al quale sorge, vagamente piramidale, quella piccola Kastellorizo che fu già italiana durante la nostra occupazione del Dodecaneso, resa celebre dal film Mediterraneo di Gabriele Salvatores (oggi è
ottimamente conservato, un magnifico stadio, le terme, e un raro tempio dedicato al dio Kronos: e sullo sfondo, se la stagione è quella giusta, svettano i Monti Bianchi innevati. Dall’altro lato invece, ecco aprirsi, fino a scorgere il mare in lontananza, il cuore della regione: la fertile valle del fiume Xanthos. Sí, è proprio lo Xanthos «vorticoso» di Licia ricordato da Omero, il cuore del regno di Sarpedone e della sua celebre dinastia: una vera benedizione per la fertilità e la ricchezza di questa terra (vedi box alla pagina precedente). Ho visto questo corso d’acqua per la prima volta visitando l’acropoli della città omonima, Xanthos, situata qualche decina di chilometri a sud di Tlos. Resa celebre dalla Tomba delle
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LICIA
Dai monti e dal cielo
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ltre che per mare, facendo scalo nei suoi pittoreschi porti, o percorrendo le sue strade asfaltate, vi sono altri due modi originali di visitare la Licia. Poco a sud di Fethiye, a Hisarönü, parte un lungo e articolato tracciato di sentieri che permette di visitare a piedi l’intera zona costiera e le sue vicinanze, per lo piú inaccessibili o poco conosciute. È la Lycian Way (o Likya Yolu, la Via Licia), lunga ben 760 km, aperta nel 1999. Il percorso, con numerose varianti, si ferma a una ventina di chilometri da Antalya. Per i piú coraggiosi, sempre nei pressi di Fethiye, al di sopra della splendida laguna marina di Ölüdeniz è possibile lanciarsi dalla vetta del sovrastante Baba Dag (1960 m a picco sul mare) con il parapendio. Un’esperienza simile si può fare anche a Kas, volando però da «soli» 1000 m. Ci si slancia nel vuoto a passo di corsa, quindi si volteggia planando con ampi circoli, infine si atterra lentamente sulle sabbie sottostanti. Chi non è esperto, farà bene a «decollare» assicurandosi di avere al proprio fianco un pilota.
Meyis, per i Turchi, Meghisti, per i Greci). Estrema, perché qui abbiamo raggiunto il punto piú meridionale dell’Anatolia che si affaccia sul mare aperto Mediterraneo (piú esattamente, l’estremità sarebbe il capo di Ulu Burun poco piú a levante, quello del relitto del naufragio conservato al Museo di Bodrum), dopodiché la strada prosegue fino a svoltare verso nord, e dirigendosi verso il cuore del golfo di Antalya.
Dove la strada litoranea inizia, lentamente, a piegare lasciandosi il sole, e quindi il Sud, alle spalle, ecco sorgere un’altra città antica, resa celebre da un altro grande personaggio. Nessuno penserebbe che Babbo Natale abbia qualcosa a che vedere con il sito di Myra: eppure è noto che Klaus, Santa Klaus, il nordico prototipo del moderno Babbo Natale, è un nome derivato da Nikolaus, Nicola. Ed è qui a Myra che, secondo un’antichissima tradizione, In alto un tratto della Via Licia, il percorso di trekking che si snoda lungo l’intera costa della regione. A sinistra il fenomeno delle fiammelle che si sprigionano dal terreno nei pressi di Olympus, a Chimaira, con ogni probabilità determinato da affioramenti naturali di metano.
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risale fino ad Antalya, contempla non poche località suggestive. Non potendo segnalarle tutte per motivi di spazio, ci limiteremo a tre. Come nella parte occidentale, anche qui un fiume, l’Olympus, scende dai monti Bey e intaglia una vallata, ben piú stretta e profonda di quella dello Xanthos, ma anche molto piú boscosa, tanto che l’omonimo sito archeologico della città di Olympus è circondato da alberi, e tagliato in due dal fiume, fino ai pressi della foce. È probabilmente il Monte Musa, alto oltre 500 m a sud della città, quello da cui Strabone afferma potersi vedere «entrambe le regioni» vicine, cioè la Licia e la Panfilia. La zona è disseminata di bei sarcofagi figurati in rilievo, con terme, resti di edifici pubblici, e un teatro.
Pirati e lingue di fuoco
In basso i resti dell’acquedotto di Phaselis.
san Nicola divenne vescovo, fu sepolto e poi venerato per secoli (vedi box a p. 121). Anche la costa orientale della Licia, quella che
Se la città, a un certo punto, fu resa famigerata dal suo essere una base di pirati, in seguito debellati dai Romani, la vicina località di Chimaira (detta in turco Yanartas «Pietra fiammeggiante») ci fa ancora oggi assistere a quello che agli antichi parve un fenomeno prodigioso. Al crepuscolo, decine di fiammelle ardono letteralmente sprigionate dal suolo (forse per delle effusioni di metano) lungo un pendio roccioso. Non per nulla, i mitografi collocarono qui il duello tra Bellerofonte e la Chimera, il mostro dalle fauci di drago: che, pur soppresso, continua in eterno a lanciare fiamme contro l’eroe. L’ultima importante città della Licia, al suo estremo confine nord-orientale, occupa una mossa penisola che offre ben tre porti, esposti in diverse direzioni. Non è un caso che sia stata fondata da coloni provenienti da Rodi, fin dall’inizio del VII secolo a.C., i quali le diedero il nome di Phaselis. Una via principale monumentale, con la monumentale porta di Adriano, la taglia ancor oggi, e attorno a essa si levano un magnifico teatro di età romana, un acquedotto, un edificio con mosaico e bagni pubblici. Qui, proprio in mezzo alle rovine, il visitatore accaldato potrà ristorarsi dalle «fatiche licie», tuffandosi nelle acque fresche e limpide del Mediterraneo.
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CAPITOLO
PANFILIA
NELLA TERRA DEGLI INDOVINI I Greci si stabilirono in Panfilia prima che in altre regioni della Turchia egea, probabilmente attratti da un ambiente assai favorevole. E vuole la tradizione che a guidare gli Achei reduci da Troia non furono re, principi o condottieri, ma tre curiosi personaggi, capaci di predire il futuro...
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anto frastagliate, montagnose e mosse erano le coste turche che abbiamo sin qui incontrato nel nostro itinerario verso il sud dell’Anatolia, quanto pianeggiante, lineare e distesa è la fascia costiera che troviamo ora nella regione di Antalya, che corrisponde in gran parte all’antica Panfilia greca. Un ampio arco litoraneo, senza rilievi, si affaccia sul Mediterraneo sud-orientale per circa 80 km e una profondità di 25,
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attraversato da tre grandi fiumi che, scorrendo verso meridione, sono responsabili di aver esteso questa pianura alluvionale a tal punto che città grecoromane come Perge e Sillyon non vedono piú il mare cosí vicino com’era una volta. Altri due gioielli urbanistici e archeologici della regione, Antalya e Side, poggiano invece su una modesta falesia terrazzata di travertino che scende sul mare con un piccolo salto, tra balze ricoperte di
In alto, sulle due pagine veduta di Perge, attraversata da una grandiosa via colonnata.
vegetazione subtropicale e, tipici della regione, fiori selvatici dai colori vividi e dai profumi intensi. Anche la Panfilia, è vero, è circondata da una chiostra di monti, ma sono relativamente lontani, e l’ampio spazio lasciato ha reso queste terre tra le piú fertili dell’intera Anatolia.
L’arrivo dei coloni Qui, fin dall’antichità, le città non dovevano cercare spazio a fatica tra le montagne come in Licia, ma potevano estendersi a piacere sul territorio, cosa che comportò tra l’altro l’erezione di grandi cinte murarie, quali vediamo ancora a Perge e Antalya. Fu forse per queste caratteristiche favorevoli agli insediamenti umani, all’agricoltura, e insieme al commercio marittimo, che qui i colonizzatori greci si stabilirono subito dopo la guerra di Troia? Secondo una autorevole tradizione, ripresa da Erodoto e Strabone, guerrieri achei di varie città reduci dal celebre assedio, anziché rientrare in patria si diressero qui, sotto la guida di alcuni personaggi curiosi: i tre indovini Calcante, Mopso e Anfiloco. E proprio i nomi dei primi due scorgiamo all’ingresso della città di
s Kestro i) Cay (Aksu
PANFILIA
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Perge
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Tarsus
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Statua della nobildonna romana Plancia Magna, che si distinse per la munificenza nei confronti della città di Perge. II sec. d.C. Antalya, Museo Archeologico.
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Sagalassos
Perge, fra tutte quella forse meglio conservata: due alte torri ellenistiche in bugnato, che segnavano la sua porta principale di accesso, vennero trasformate in un memoriale a cielo aperto delle maggiori glorie della città, con statue dedicate ai fondatori (appunto i due indovini) e ai munifici patroni: tra i quali svetta una donna, Plancia Magna,
Ta
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Anamur
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Cipro
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PANFILIA
A sinistra la Porta di Adriano ad Antalya, eretta in occasione della visita in città dell’imperatore. In basso, a sinistra la penisola triangolare sulla quale sorge Side, con, in primo piano, il teatro romano, del quale si può apprezzare l’eccellente stato di conservazione.
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Statua raffigurante l’imperatore Adriano, da Perge. Antalya, Museo Archeologico.
sacerdotessa della dea poliade Artemide «Pergea», nonché magistrato locale: tanto che, figlia del governatore della Bitinia e poi proconsole d’Asia M. Plancio Varo, potrebbe essere considerata una «sindaca» particolarmente benemerita e benvoluta. Siamo, come è evidente, ai tempi della lunga Pax Romana, che, tra il I e il II secolo d.C., costituí il periodo piú fulgido della Panfilia, e in qualche modo dell’intera Asia Minore. La sicurezza delle frontiere terrestri (i Parti, i soli nemici rimasti, erano relativamente lontani) e l’agibilità delle rotte marittime (i pirati, che proprio qui, e nelle regioni limitrofe della Licia e della Cilicia avevano avuto a lungo le proprie basi, erano stati sterminati da Pompeo nel 67 a.C.), portarono la Panfilia a costituire assieme alla Licia, probabilmente a partire dal 43 d.C. una singola, florida e pacifica provincia romana. Non stupisce quindi il senso di benessere, opulenza e sicurezza che si respira camminando tra i monumenti di Perge: anzitutto, sia il teatro, coi suoi mirabili rilievi marmorei di scena, che lo stadio, il secondo meglio conservato del mondo antico, dopo quello di Afrodisia, furono eretti senza alcun timore al di fuori della cinta muraria, ritenuta evidentemente ormai superflua. E la grandiosa via colonnata, fulcro dei commerci e della vita civica, era percorsa da un lungo canale artificiale, la cui acqua promanava, a monte, da un ninfeo monumentale, secondo uno schema che sembra prefigurare quello di certe sontuose regge europee del Sei/Settecento.
Un teatro da 15 000 posti Cosí come a Perge, anche ad Aspendos nessuna città moderna si è sovrapposta all’antica. Con la differenza che in questa seconda città abbiamo un edificio che, un po’ come il Pantheon a Roma, a prima vista ci pare praticamente intatto dall’età antoniniana, cioè dal momento della sua erezione nel II secolo d.C.: restaurato per volontà di Mustafa Kemal Atatürk ai tempi della rinascita della Turchia moderna, il teatro di Aspendos è sostanzialmente identico a quello che
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PANFILIA
dovevano frequentare gli spettatori antichi, con un fronte di scena integro fino alla sommità e le gradinate che, perfettamente agibili, culminano in una «galleria» superiore coperta e potevano accogliere 15 000 persone. Se si sale all’acropoli, su cui sorgono altri antichi edifici monumentali, e a una pendice della quale la cavea dell’edificio è poggiata, si ha una vista mirabile dell’intera struttura e della fertile pianura del fiume Eurimedonte che la attornia. La tradizione della fondazione di queste città da parte degli Achei provenienti da Troia pare confermata da due elementi. Il nome della regione, anzitutto: Panfilia in greco significa «tutte le tribú», e pare ricordare che, appunto, quei guerrieri reduci dalla guerra erano originari di diverse località elleniche: tanto è vero che le loro guide non furono re o principi di una di esse, bensí indovini. Inoltre, il greco che si parlava nella regione costituiva un dialetto a sé stante, il «panfilio», appunto, che però, per le sue caratteristiche, fa parte del meno noto dei gruppi dialettali, quello arcadocipriota, che vede gemellate due regioni lontanissime tra loro: l’Arcadia, all’interno del Peloponneso, e l’isola di Cipro.
Arroccata su una rupe Questa grande isola, colonizzata già in età minoico-micenea, si leva a circa 150 km dalle coste della Panfilia, ed è visibile al di là del mare dalla vicina Cilicia. È difficile dire quale legame etnico, migratorio o coloniale legasse le tre regioni geograficamente cosí diverse. Ma chi abbia studiato un po’ di greco e desideri vedere la piú celebre iscrizione nella sua variante alfabetica panfilia potrà compiere una bella escursione nella vicina Sillyon. Questa città era arroccata su una rupe a tronco di cono – una delle poche rupi della regione – e, benché in rovina, risulta spettacolare, per esempio, per un teatro parzialmente precipitato a valle: tra gli edifici rimasti, una guida locale vi porterà a uno stipite in pietra su cui sono iscritte le lettere di questo insolito «greco». Prima di far parte dell’impero di Roma, la Panfilia era appartenuta ai sovrani ellenistici: ai
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re di Siria, anzitutto, che se la contesero con i Tolomei di Alessandria d’Egitto, e poi, quando Antioco III di Siria fu sconfitto dai Romani, costoro, con la pace di Apamea (188 a.C.), la concessero agli alleati sovrani attalidi di Pergamo. A quel punto Attalo III, nel 159 a.C., decise di fondare, o meglio rifondare, una città, che da lui prese il nome di Attaleia. E che è la moderna Antalya. Questa è anche oggi il centro principale della regione, nonché un luogo di soggiorno ideale: non eccessivamente grande, molto ben curata, fornita di accoglienti strutture alberghiere, vede la compresenza di edifici e di monumenti di varie epoche: dalle mura ellenistiche alla spettacolare Porta di Adriano, eretta nel 130 d.C. in onore della visita dell’imperatore amante del mondo greco-orientale. Una sorta di imponente faro, o mausoleo, a seconda delle interpretazioni, lo Hıdırlık Kulesi sovrasta l’antico porto ellenistico e romano, oggi scalo per imbarcazioni da diporto. Minareti spettacolari, come il Kesik Minare e un quartiere antico ottomano, il cosiddetto Kaleiçi, rendono una continua scoperta il passeggiare tra le vie della città. Ma è nel Museo Archeologico che si ha il piacere di scoprire, per esempio, capolavori di statuaria tra cui spiccano i ritratti di personaggi locali, come la famosa Plancia Magna, e di quegli imperatori, Adriano, Traiano, i GiulioClaudii, che tanta parte ebbero nel rendere piú floride, sicure, e belle di monumenti e di strutture urbane le città dell’Asia Minore incontrate nel nostro itinerario. Un itinerario che si può concludere degnamente effettuando una puntata fino a Side, a meno di un’ora d’auto da Antalya. Per giungervi, dobbiamo attraversare il maggior fiume della regione, l’Eurimedonte degli antichi greci, che oggi prende il nome di Köprü Çay dal bellissimo ponte selgiuchide (köprü, in turco, è il ponte) che lo attraversa nei pressi di Aspendos. Qui, nel 469 (o nel 466) a.C. si svolse una battaglia sia terrestre che navale tra le forze della lega delio-attica guidate dall’ateniese Cimone e i Persiani.
Il teatro romano di Aspendos, risalente all’età antoniniana. È uno degli edifici per spettacoli meglio conservati dell’antichità.
La vittoria dei Greci allontanò definitivamente la flotta persiana dall’Egeo, e assicurò alle cittàstato dell’Ellade, a quel tempo alleate, una supremazia marittima che non sarebbe piú stata messa in pericolo sino alla conquista macedone dell’impero nemico.
Resti imponenti Proiettata sul mare del Sud, Side ha visto solo un piccolo paesino, Selimiye, crescere tra le rovine, che però sono tante e tanto imponenti da sovrastare gli edifici moderni. Anche qui si conserva, in condizioni eccellenti, un grandioso teatro romano, e si possono poi vedere un’agorà, vie colonnate, porte urbiche, e terme che ospitano al proprio interno un museo ricco di reperti locali, tra cui sono di ammirevole fattura statue di divinità e di personaggi rinvenute in ottimo stato di conservazione. Side, che sorge su una penisola triangolare
(che ricorda per la forma quella della originaria Byzantion, poi Costantinopoli/Istanbul) era un famoso mercato di schiavi, e i suoi abitanti erano noti presso gli antichi per la spregiudicatezza e la rapacità dei loro comportamenti. Ma, con il tempo, anche qui la Pax Romana ebbe l’effetto di raffinarne e ingentilirne i costumi. Giungendo sino al capo estremo della penisola, i resti colonnati di due templi, uno dedicato ad Atena, l’altro, il piú scenografico, ad Apollo, ricordano al viaggiatore, per la loro collocazione alta sul mare e la pietra corrosa dalla salsedine e dal vento, le sensazioni che si provano al tempio di Poseidone a Capo Sounion (all’estremità meridionale dell’Attica, in Grecia, n.d.r.). E fanno per un attimo dimenticare perfino lo splendido Hermes, dio dei mercanti, dei trafficanti e dei ladri, che fa bella mostra di sé nel vicino museo delle Terme.
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MONOGRAFIE
n. 55 giugno/luglio 2023 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore Fabrizio Polacco è nato e vive a Roma. Professore per oltre un trentennio nei licei, è autore di reportage di viaggio, archeologici e fotografici, nonché fondatore e coordinatore del PRISMA (Progetto per la Rivalutazione dell’Insegnamento e dello Studio del Mondo Antico). È autore del sito donidiviaggio.com Illustrazioni e immagini Shutterstock: copertina e pp. 4-9, 12/13, 14-17, 18 (basso) 18/19, 20-25, 26/27, 28-29, 30/31, 32/33, 34-39, 40/41, 42-49, 54/55, 57, 58-59, 60/61, 62/63, 64-65, 67, 69 (basso), 70-71, 72, 76, 77, 78/79, 80-81, 72, 82/83, 84-91, 93, 94-95, 96/97, 98/99, 110-111, 114/115, 115, 116 (basso), 117, 118-123, 124/125, 125, 126-129 – NASA: pp. 10/11 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/K&K Archive: p. 14 (alto); Archivio dell’Arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: p. 19 – Doc. red.: pp. 30, 32 (alto), 50-53, 55, 56, 56/57, 66, 68, 69 (alto), 73, 74-75, 92, 107 (destra), 112-113, 116 (alto) – Fabrizio Polacco: pp. 33 (alto), 63, 98, 100-105, 106, 107 (sinistra), 108-109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 13, 26, 40, 60, 77, 78, 83, 96, 114, 125. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: una spettacolare veduta dell’acropoli di Pergamo.
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