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il degli antichi /2 Idee, macchine e prodigi che hanno cambiato il mondo
Bimestrale - My Way Media Srl
di flavio
â‚Ź 6,90 il genio degli antichi /2
N°5-2013
russo
il genio degli antichi/2 idee, macchine e prodigi che hanno cambiato il mondo di Flavio Russo
premessa
Le idee disegnate
terra
Mirabili ingegni 12. Il trionfo del calcestruzzo 16. Le mura di Alife... 17. ...e di Telesia 18. Alla ricerca dell’ora esatta 26. Guerra all’attrito 32. Assedio mobile 40. Molla... e tira! 48. Il mesolabio 54. Ferri di cavallo e staffe 59. Frecce senz’arco
acqua
Dominare il grande blu 66. Quando l’uomo si fece subacqueo 71. I ponti galleggianti 77. Laghi di rugiada 83. Le condotte forzate 86. Ghiaccio a volontà
aria
Prodigi ad alta quota 94. Il volo umano 98. Vietato cavalcare 102. Il carro che indica il Sud 108. Le Forche Caudine e il boato misterioso
fuoco
Bagliori da combattimento 130. Fiamme sull’acqua 137. La balista a molle d’aria 141. Il fuoco greco
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
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Mérida (Spagna). I resti dell’acquedotto di Los Milagros. I sec. a.C. Realizzazione tra le piú note dell’ingegneria romana, la struttura, a tre ordini di archi, con torri di distribuzione, piscina limaria e, alla fine, un serbatoio per la decantazione dell’acqua, raggiunge in alcuni tratti i 25 m d’altezza.
le idee
In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Accationes reperiam res sa conemolorum nis aliaepu danditatur sequae volore.
disegnate di Flavio Russo
L’
ingegneria dell’antichità in genere e romana in particolare fu una disciplina empirica, priva di un vero supporto scientifico, di capacità di calcolo e di conoscenze di fisica. A quelle deficienze suppliva l’esperienza, che si acquisiva con la pratica, in tempi piú o meno lunghi secondo le personali propensioni e capacità. Gli ambiti di attività furono ampi, ma molto meno numerosi degli attuali e sempre connessi con le costruzioni di edifici e, soprattutto, di armi e di macchine da guerra, alcune delle quali adattate a usi civili soltanto in un secondo momento. Sebbene le ultime due branche, per la loro destinazione bellica, sembrino giustificare l’imperante disistima sociale nei confronti dei tecnici, il disprezzo per la professione non scaturiva da tali realizzazioni. A determinarlo, paradossalmente, era invece ciò che noi oggi stimiamo di piú nel suo esercizio, ovvero l’applicazione di conoscenze scientifiche superiori per ottimizzarne i risultati. Con la rivoluzione ellenistica il quadro subisce solo una lieve alterazione, data dalla frequente adozione di sofisticate competenze meccaniche e geometriche non per costruire macchine destinate a ridurre la brutalità della fatica, ma per creare miracoli. L’ingegnere divenne cosí un taumaturgo, dal greco thauma, prodigio, ed érgon, opera, letteralmente un «fabbricante di miracoli», una sorta di illusionista capace di produrre fenomeni apparentemente soprannaturali. A differenza, però, degli illusionisti, quei portenti non scaturivano da volgari trucchi ma da complesse sequenze automatiche, che ripetevano azioni fino ad allora credute precipue dell’uomo. Fu quasi un ribadire la capacità della tecnica di imitare, potenziandole, le prestazioni fisiologiche umane piú importanti e piú significative.
Dalla gru al telefono La movimentazione di un peso che le braccia non avrebbero potuto in alcuno modo sollevare fu affidata a congegni che noi oggi genericamente chiamiamo «gru», e che costituivano l’alternativa bionica degli arti umani. Cosí come la velocità e i carichi che le gambe in nessun modo avrebbero potuto sostenere diventavano praticabili nelle strade e nei carriaggi. Altrettanto si può dire per i secchi d’acqua, stentatamente sollevati dai pozzi e vistosamente marginalizzati dalle norie e dalle pompe; o per i mulini, che non necessitavano piú della spossante fatica delle misere mugnaie per produrre enormi quantitativi di farina; o per i bronzei lebeti che permettevano qualche minuto di permanenza sott’acqua. Nell’insieme, erano protesi che costituivano una finalizzazione che
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continua ancora oggi: il telefono é un ampliamento della voce e dell’udito, la televisione della vista, il computer del cervello e la bomba termonucleare del pugno all’estremità del braccio, a sua volta mutatosi nella traiettoria balistica intercontinentale! Una vasta gamma di ausili tecnici, quindi, che, anno dopo anno, magari cooptati dal mondo della guerra, andavano ad alleviare la fatica e la fame, ampliando le produzioni e riducendone i costi. Ausili tecnici che andrebbero riconsiderati come protesi che miravano a potenziare o a sostituire gli organi e le loro funzioni, troppo inadeguate rispetto alle esigenze, o troppo logoranti rispetto alla fisiologia. In definitiva, un ventaglio di soluzioni che può essere considerato il lascito piú importante della tecnologia e dei tecnici. La scienza, però, doveva restare pura senza alcuna applicazione che la contaminasse, anche quando volta al miglioramento delle condizioni di vita, tanto piú che il lavoro costituiva la condanna degli schiavi e dei miserabili, quindi una prestazione di per sé spregevole. La scienza non doveva corrompersi con tanta volgarità, anzi assurgeva quasi al rango di divinità che si manifestava ai soli dotti per favorirne le speculazioni filosofiche. La tecnica, perciò, doveva astenersi dal servirsene in qualsiasi modo e per qualsiasi scopo, e quando ciò accadeva si mutava in abominio per il sacrilego, senza giustificazione di sorta. Da qui a ritenere spregevoli e profanatori i tecnici il passo fu brevissimo e i vil meccanici restarono tali fino quasi all’età contemporanea, se pensiamo che ancora in pieno XVIII secolo era ritenuto gravemente offensivo l’essere etichettato come ingegnere! Ma furono realmente tanto spregevoli e ignoranti i primi costruttori della storia? Abbiamo qualche prova che attenui tanto disprezzo e che magari riporti alla luce un qualche loro indubbio merito culturale? Conosciamo una loro elaborazione che si sia imposta nell’evoluzione tecnologica fino a divenirne una componente basilare e invariabile? E che cosa penseremmo se si venisse a scoprire che la loro precipua maniera di esprimersi, il disegno planimetrico, non solo ha precorso la scrittura propriamente detta, ma, da allora, si è imposto come un linguaggio universale, immutabile sempre e dovunque al punto da essere anche oggi usato?
Riprodurre le immagini e i suoni Come si è potuto dedurre anche dai pochi esempi menzionati, le innumerevoli protesi tecnologiche non ebbero, e non hanno, la medesima rilevanza per l’umanità, né l’identico positivo apporto, soprattutto nella fase iniziale, per cui, in molti casi, se ne possono valutare gli effetti solo molto tempo dopo il loro debutto. Il computer, per esempio, nato per risolvere problemi militari connessi al tiro delle artiglierie, svolge oggi funzioni civili di analisi e di controllo, di calcolo e di disegno, di memoria e di ricerca, rendendo possibili compiti altrimenti preclusi. Volendo tentare di redigere una graduatoria delle protesi preminenti, cioè di quelle che con il loro apporto hanno letteralmente cambiato la società umana e il suo modus vivendi,
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dobbiamo inevitabilmente cercare nel passato remoto. E lí, infatti, ravvisiamo la piú importante, quella da cui poi, per un verso o per l’altro, scaturirono tutte le altre e senza la quale verrebbe meno ogni progresso: i sistemi per registrare pensieri, parole e immagini, che sostituendosi alla nostra effimera memoria rendono indelebili esperienze, idee, scoperte e invenzioni e che non a caso proprio nel computer hanno la loro estrema filiazione. Per grandi linee tali sistemi si possono distinguere in due tipologie: una di tipo iconico, la piú antica, in cui confluiscono tutte le testimonianze dipinte, scolpite, disegnate, ecc., su qualsiasi supporto e in qualsiasi epoca; l’altra, di tipo fonetico, che abbraccia le testimonianze scritte in qualsiasi lingua su qualsiasi supporto e in qualsiasi epoca. Due protesi complementari, che permettono di dilatare e ampliare senza limiti i nostri pensieri e azioni, utopie e concretezze, sia in forma convenzionale, con la rappresentazione grafica dei suoni, che chiamiamo scrittura, sia in forma analogica, con la rappresentazione grafica delle immagini, che chiamiamo disegno. E in questa seconda modalità mnemonica, persino prima della scrittura, fu escogitata una convenzione grafica che permetteva ai tecnici di concentrare in un particolare disegno una tale massa di dati relativi a un determinato oggetto – dal tempio alla cuspide di una freccia –, sufficiente a consentirne, oltre alla mera conoscenza, la realizzazione o la riproduzione.
In alto ricostruzione grafica assonometrica della planimetria incisa sulla statua di Gudea, sovrano di Lagash (foto nella pagina accanto). Nella pagina accanto, in alto la statua in diorite di Gudea (2120 a.C. circa; Parigi, Museo del Louvre), sulle cui ginocchia è incisa una planimetria (particolare in basso).
Un linguaggio universale Quanto quest’invenzione sia preminente lo dimostrano i vari disegni architettonici sumerici, perlopiú piante in scala, tracciate su tavolette di argilla che si confermano non solo oggettivamente e facilmente interpretabili per un qualsiasi progettista attuale, a differenza delle relative leggende in caratteri cuneiformi, ma consentono dopo oltre quattro millenni di edificare quanto in esse rappresentato senza alcun errore di interpretazione. Volendone meglio delineare gli ambiti, il disegno planimetrico iniziò a manifestarsi, stando ai reperti fino a oggi ritrovati, sul finire del IV millennio a.C., con rappresentazioni di fortificazioni e di centri abitati, seguiti a breve distanza da edifici sacri e quindi da semplici abitazioni, sempre in scala. Il criterio è il medesimo dell’attuale, sebbene delle tre proiezioni ortogonali da noi usate – pianta, prospetto e sezione –, la relativa cronologia di adozione non solo non risulta contemporanea, ma molto divaricata. Il prospetto, infatti, può dirsi acquisito già intorno al X millennio a.C., consistendo in sostanza in una raffigurazione di sagoma; la pianta, che Vitruvio definirà impronta, compare invece agli albori della storia, tra il IV e
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il III millennio a.C., mentre la sezione, peraltro di rarissimo impiego, sembrerebbe già nota nel XVI secolo a.C. Le tappe dei ricordati sistemi di rappresentazione ortogonale iniziano, perciò, dalla traccia del semplice contorno di quanto si volle disegnare, perlopiú animali, coincidente con la rispettiva silohuette in controluce, di cui si accrebbe in seguito la verosimiglianza grazie alla colorazione sfumata, che mutò i rilievi in opere d’arte. Discorso di gran lunga meno spontaneo e concreto è quello della sezione orizzontale di base, la pianta, che esulando dalle immagini ordinariamente visibili, fu elaborata in epoca sensibilmente piú recente. Con il medesimo criterio informatore le si aggregheranno le sezioni verticali, che esauriranno
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A sinistra tavoletta d’argilla con incisa la pianta quotata di un’abitazione, da Girsu (Lagash, Iraq). 2400 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. A destra la stessa disegnata con le attuali tecniche computerizzate: la pianta resta immutata. In basso ricostruzione grafica assonometrica dell’edificio.
l’insieme definitivo del rilievo prima e del progetto poi. È interessante osservare che le planimetrie sumeriche e quelle, appena piú recenti, cinesi, sono disegnate nella medesima maniera e con lo stesso criterio di sezioni orizzontali, coincidenza fra due civiltà non comunicanti nel tempo e nello spazio, che ci porta a ritenere quella modalità grafica la sola possibile per la oggettiva rappresentazione di costruzioni, sia come rilievo che come progetto.
Progettare le forme e valutare i costi In altre parole, mentre il linguaggio e la relativa scrittura ebbero, e hanno, innumerevoli varianti fonetiche e grafiche, non di rado di improba traduzione, il disegno planimetrico è universale, forse univoco, indipendente dalla cultura vigente e dalla sua epoca storica, un vero linguaggio oggettivo e inalterabile dell’intera umanità. E, quel che piú conta, da un certo momento in poi, divenne la indispensabile fase prodromica di qualsiasi realizzazione, dal tempio alla balista, poiché, prima di costruirli, occorreva conoscerne le caratteristiche dimensionali per individuarne i materiali occorrenti, le precipue lavorazioni, le difficoltà e, primi fra tutti, i costi. Appare infatti poco verosimile che nell’antichità si avviasse la costruzione di una fortificazione, di un tempio o di un grande edificio ignorandone completamente la forma che avrebbe avuto e gli oneri che avrebbe richiesto. Cosí come anche un piccolo artigiano che si accingeva a produrre qualcosa di innovativo non poteva non averne disegnato le connotazioni salienti! Ecco allora che il disegno di progetto, da un curioso criterio di raffigurazione, si trasforma in una rappresentazione, premessa inevitabile del fare, presupposto basilare del costruire e indiscusso linguaggio della tecnica. Non stupisce, pertanto, osservare la statua del governatore di Lagash Gudea, del III millennio a.C., sulle cui ginocchia si riconosce la planimetria di progetto di un edificio sacro, incisa nella diorite, proprio come noi la disegneremmo oggi, dal momento che si tratta dell’unica modalità di sintesi di un opera colossale. Stupisce, semmai, dedurre che tutti i contemporanei erano in grado di afferrare da quel disegno le caratteristiche dell’opera, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, se non il rapporto di scala, non a caso inciso a fianco. E quanto tale conoscenza fosse diffusa lo testimonia piú che la comprensione della planimetria del recinto sacro quella di una non lontana abitazione di Lagash, una casa del tipo dei modelli in miniatura rinvenuti nelle tombe, perfettamente disegnata in pianta quotata, coincidente con la realizzazione computerizzata, su una tavoletta d’argilla, forse il progetto da presentare all’ufficio tecnico dell’epoca o, forse, l’allegato... al capitolato d’appalto!
Modellino di un’abitazione privata sumerica a due piani. 2600 a.C. circa. San José (California, USA), Rosicrucian Egyptian Museum. Come si può osservare, la struttura ha caratteristiche simili a quelle dell’abitazione di Girsu di cui si conosce la pianta da una tavoletta (vedi alla pagina precedente).
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ingegni
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torri d’assalto semoventi, strumenti per la misurazione del tempo, ferri di cavallo... la storia delle antiche civiltà non è fatta solo di grandi battaglie e imperatori, ma anche di invenzioni grandi e piccole. idee scaturite da menti brillanti e quasi sempre anonime, come quelle dei tanti ingegneri Romani, che, sviluppando gli studi dei Greci sulla conduzione dell’acqua, realizzarono i piú grandi acquedotti della Storia
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Terracina (Roma). Un tratto delle poderose sostruzioni del tempio di Giove Anxur, innalzato sul Monte Sant’Angelo tra la fine del II e gli inizi del I sec. a.C.
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Il trionfo del calcestruzzo I
Romani lo chiamarono opus caementicium, inducendoci a reputarlo, per assonanza, un conglomerato affine al nostro cemento. In realtà, le analogie si limitano alla fluidità iniziale dell’impasto e al suo successivo rapprendersi, fino alla consistenza lapidea. Peraltro, la denominazione di opus caementicium non fu specifica, poiché, in precedenza, definiva qualsiasi impasto contenente inerti, ma nessuna mescolanza del genere riuscí però mai a eguagliarne la resistenza. Il conglomerato romano non può definirsi né un cemento nel senso moderno
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del termine, perché all’epoca inesistente, né un calcestruzzo (da calcis structio, cioè struttura a base di calce), un termine che, proprio perché troppo generico, indica senza distinzione qualsiasi composto di aggregati, pietrame, e aggreganti, calci idrauliche o cemento Portland; tuttavia, poiché non disponiamo di una denominazione piú calzante, continueremo a chiamarlo «calcestruzzo». Per i Romani, del resto, i caementa, erano gli inerti, cioè il pietrame di varia pezzatura, che finiva coeso da un legante, un impasto a cui significativamente non diedero mai un nome
In alto disegno ricostruttivo dell’edificazione di una muratura: si riconoscono le cortine in laterizio, all’interno delle quali viene colato il calcestruzzo.
preciso, sebbene non differisse da una malta tradizionale, la cui origine, consentita dalla calcinazione della pietra calcarea, si perde nella notte dei tempi. Le prime notizie certe del suo impiego, infatti, rimontano al tempo di Nabucodonosor (604-562 a.C.), quando, a Babilonia, si cominciò a sostituire la malta asfaltica con la calce idrata, una pratica presto diffusasi laddove non sgorgava spontaneamente il bitume e, per contro, abbondavano la pietra calcarea e la legna.
Dal bitume alla calce
In basso ancora una veduta della struttura che sostiene il tempio di Giove Anxur a Terracina.
In base ai reperti archeologici, tuttavia, sembra che la calcinazione fosse praticata in Mesopotamia sin dalla metà del III millennio a.C., ma, essendo alquanto costosa, la calce si mischiava con sabbia, pietrisco sottile, terracotta tritata e persino cenere. Per alcuni di questi inerti si verificò un principio di effetto pozzolanico, con un sensibile incremento della resistenza della malta: ma solo con l’adozione della pozzolana il conglomerato divenne il calcestruzzo romano raggiungendo la sua peculiare durezza. Sebbene correntemente ritenuta una sorta di sabbia, la pozzolana, in realtà, è una deiezione vulcanica, costituita da cenere e da piccolissimi lapilli, alterata e omogeneizzata dagli agenti atmosferici, ricca di ossidi di silicio, alluminio e ferro, oltre a percentuali variabili di ossidi di calcio e di magnesio. Con la calce e l’acqua fornisce una malta straordinaria, con proprietà cementizie, e, se vi si aggiungono gli inerti – cioè sabbia e pietrisco di varia pezzatura –, impastando con ulteriore aggiunta di acqua, si ottiene il calcestruzzo in forma fluida, perfettamente idoneo a essere colato in casseforme. Rappreso acquista la consistenza della pietra. Piú in dettaglio, mentre la sabbia, o l’arena in genere, non è altro che una roccia meccanicamente ridotta in minutissimi frammenti dall’erosione eolica o idrica, la
polvere di Pozzuoli è un sedimento vulcanico a forte componente silicea. E se, mescolando la prima con la calce, ottenuta dalla disidratazione della pietra calcarea, si produce una sorta di calcare artificiale, lo stesso procedimento, applicato alla seconda, dà origine a un composto che, induritosi, è di gran lunga piú resistente e coeso, idoneo a sopportare rilevantissime sollecitazioni a compressione e, peculiarità singolare, discrete trazioni, una caratteristica, quest’ultima, di cui sono privi anche i moderni cementi non armati. Per averne un riscontro esplicito basta osservare gli archi spezzati degli acquedotti che restano saldamente al loro posto: una stabilità inimmaginabile se fossero stati archi veri e propri e non monoliti a forma d’arco. Altrettanto si può dire per cupole e volte, delle quali hanno soltanto la forma, ma non la statica, poiché, anche in questo caso, si tratta di strutture monolitiche, coperchi privi di spinte laterali. Ciò che piú differenzia gli impasti pozzolanici da quelli sabbiosi è la loro stupefacente capacità di rapprendersi sott’acqua. Per la medesima ragione richiedono una minore quantità di calce, un dettaglio tutt’altro che ininfluente nelle grandi costruzioni per via del suo costo elevato. L’insieme delle peculiarità appena riassunte va sotto il nome di «effetto pozzolanico».
La testimonianza di Vitruvio Scriveva Vitruvio al riguardo: «Esiste un tipo di polvere [pozzolana] che produce naturalmente cose meravigliose (...) Si trova nei dintorni di Baia e nelle zone dei Comuni intorno al Vesuvio. Questa polvere, mescolata con la calce e pietrisco, non solo rende assai solidi gli edifici in genere, ma fa sí che anche le costruzioni fatte nel mare si solidifichino sott’acqua. Sembra che la ragione sia questa: sotto quei monti vi sono molte terre calde e sorgenti d’acqua e non vi sarebbero se in profondità non vi fossero gran fuochi ardenti di zolfo, di allume e di bitume. Onde il fuoco e il vapore della fiamma, passando attraverso le fessure, rendono quella terra leggera, e il tufo che vi si trova è privo di umidità. Per cui, quando tre sostanze formate in tal modo dalla
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violenza del fuoco si trovano mescolate insieme, assorbono prontamente l’umidità e si uniscono a formare una cosa sola, e rapidamente indurite dal liquido solidificano, e né i flutti né la forza dell’acqua le possono piú sciogliere». La reazione di indurimento della malta pozzolanica, in realtà, è frutto di un processo diverso da quello supposto da Vitruvio e richiede molti anni per conseguire la massima solidità, pur fornendo dopo pochi giorni resistenze notevolissime.
Un’invenzione magno-greca? Dal punto di vista storico, ancora una volta, è estremamente probabile che la tecnologia romana abbia fatto propria la scoperta della malta dalla Magna Grecia, intorno al III secolo a.C. Una testimonianza probante, in merito, si può cogliere nelle mura di Cosa (antica città dell’Etruria e poi colonia romana, sul promontorio di Ansedonia, presso Grosseto, n.d.r.), costruite nel 273 a.C., la cui parte basamentale è in opera poligonale mentre l’elevato è in conglomerato cementizio. Nel 273, quindi, non solo si disponeva della rivoluzionaria procedura ma si nutriva in essa già una tale fiducia da utilizzarla nella fortificazione, dettaglio emblematico per valutarne la diffusione in ambito civile. Affinché, però, l’opera cementizia, almeno nei primi decenni, fosse concretamente utilizzabile occorreva disporre della famosa pozzolana, ovvero della singolare deiezione vulcanica che erroneamente si suppose esclusiva di alcune località circumvesuviane. E tale opportunità fu a disposizione dei tecnici romani solo dopo la conquista della Campania, compiutasi, appunto, nello stesso arco di tempo. Per un lungo periodo se ne fece incetta, anche per opere da erigersi a centinaia di chilometri di distanza, e solo quando si realizzò che l’intero bacino laziale e, poi, buona parte dell’Italia centrale erano ricchissimi della preziosa harena fossica, la tecnica del calcestruzzo trionfò, applicandosi senza alcuna restrizione. Pur ignorando il processo di presa del conglomerato pozzolanico, non vi fu alcuna incertezza sul suo esatto dosaggio e ne fu rapidamente recepita la potenzialità
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applicativa. I progettisti romani, tuttavia, ne approfittarono gradatamente, spingendosi verso costruzioni sempre piú complesse e ardite; paradossalmente, dovettero superare soprattutto le resistenze «psicologiche» all’adozione di quel materiale, vistosamente povero se paragonato alla nobiltà della pietra. Alla fine dell’età repubblicana la nuova tecnica si era comunque imposta in ogni possibile fruizione, soprattutto in opere di rilevanti dimensioni, grazie alla sua facilità ed economicità di impiego. E dove, se non in una fortificazione perimetrale, il concetto di economicità e facilità d’impiego era particolarmente ricercato? Poter assemblare strutture enormi tramite piccoli apporti unitari, per giunta fluidi, materializzò subito la soluzione dei tanti problemi inerenti all’edificazione delle cerchie urbiche, senza contare l’esito strutturale garantito dalla miscela. Poiché il conglomerato aveva inizialmente una consistenza fluida, e, almeno in questo, era esattamente analogo al nostro cemento, doveva essere colato, o costipato, in apposite casseforme. Solo raramente, però, queste ultime venivano fatte con tavoloni di legno, in quanto veniva sistematicamente preferito il ricorso a due paramenti murari che, a secondo della loro precipua natura, davano nome alla particolare tecnica. Non a caso, la definizione di siffatta muratura è anche di «opera a sacco», dal momento che il getto avveniva in un vuoto ricavato tra sponde di legno, di pietre o di mattoni, simile appunto a un sacco.
Variazioni sul tema In pratica, il conglomerato ricavò la sua diversa definizione proprio dalle sponde: con i paramenti di blocchetti di pietra, se irregolari, si chiamò opus incertum, se quadrati, opus reticolatum; con i paramenti in mattoni si chiamò, invece, opus latericium. In ogni caso, al di là dell’immagine esteriore, peraltro spesso celata dall’intonaco, si trattava sempre del medesimo solidissimo calcestruzzo. La funzione dei paramenti non si riduceva a quella di mera cassaforma, in quanto fornivano un supporto statico per tutto
Un tratto della cerchia di Cosa, città di origine etrusca che divenne poi una colonia romana. Si può vedere come la murazione si componga di una base in opera poligonale, alla quale segue l’impiego dell’opera cementizia. La costruzione si data al 273 a.C. ed è dunque la piú antica attestazione di tale tecnica.
il tempo dell’indurimento che, come accennato, poteva risultare anche notevolmente lungo soprattutto se relativo a masse di grande spessore. Proprio per tale motivo le colate non si realizzavano per l’intero volume, ma a strati nel cui interno abitualmente il pietrame era inserito manualmente, in corsi quasi orizzontali. L’adozione delle casseforme lignee, causa di non pochi problemi esecutivi, terminò con l’impiego dei paramenti murari, che si diffuse sul finire dell’epoca repubblicana.
La caserma dei pretoriani Circa i settori d’impiego tra le prime grandi applicazioni dell’opus latericium, spicca, a Roma, il Castro Pretorio, la caserma costruita da Tiberio nel 23 d. C. per l’acquartieramento dei pretoriani che facevano parte della guardia dell’imperatore. L’enorme recinto rettangolare era, in pratica, una sorta di accampamento
fortificato, che vantava già numerosi esempi analoghi in tutto l’impero, sebbene eretti in opera incerta o reticolata. L’eccezionale innovazione costruttiva, generalizzatasi dal II secolo a.C., rappresenta, peraltro, la tangibile testimonianza geografica del progressivo espandersi dell’egemonia romana. Grazie all’indiscutibile convenienza e rispondenza, il calcestruzzo trovò impiego dovunque e per qualsiasi costruzione, civile o militare, dalla modesta villa al grandioso anfiteatro, dai lunghissimi acquedotti alle innumerevoli cerchie urbane. Non a caso quest’apporto è stato considerato il massimo contributo di Roma alla storia dell’architettura europea. Di certo la sua apparizione nel settore delle costruzioni rappresentò una vera rivoluzione, paragonabile, per la sterminata gamma di conseguenze e implicazioni, all’avvento del cemento armato.
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Le mura di Alife... L’
eccezionale integrità del perimetro originario delle mura di Alife (in provincia di Caserta) è il risultato di una rara circostanza: la sostanziale stabilità demografica del suo abitato, dall’età antica fin quasi ai nostri giorni. Non mancarono fasi di abbandono, prima fra tutte quella conseguente alla devastazione saracena del X secolo, ma, in tempi piú o meno brevi, il borgo fu sempre in grado di ripopolarsi. Il nome della cittadina deriva da quello della Allifae sannita, della quale, forse, fu la riedificazione pedemontana romana e, prima ancora, un accampamento legionario stabile, trasformato in colonia intorno al I secolo a.C. probabilmente dai veterani di Silla.
Uno schema ben collaudato
In alto un tratto delle mura romane di Alife (Caserta).
La planimetria, infatti, è quella perfettamente rettangolare, canonica dei castra, di 540 x 405 m, con gli spigoli arrotondati. Il cardine e il decumano facevano (e fanno) capo a quattro porte, che conservano la classica struttura in opus quadratum, con conci parallelepipedi di rilevanti dimensioni collocati in filari alternati nel senso della lunghezza e della larghezza. Delle porte sopravvive anche la compartimentazione interna, con corte di
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sicurezza, tra la saracinesca esterna e il portone a due battenti interno. La viabilità secondaria, sempre ortogonale, frazionava la superficie cintata in insulae di larghezza costante di circa 50 m. Dal filo esterno delle cortine è possibile scorgere il leggero aggetto delle torri, di pianta circolare, quadrangolare e persino esagonale negli spigoli, pari a meno di un terzo del diametro o del lato a struttura perlopiú piena e a scansione regolare, ma eccessivamente rada. Non tutte possono attribuirsi alla primitiva edificazione, tradendo alcune una matrice medievale. Il loro modesto fuoriuscire dalla cortina e gli eccessivi interassi valgono a ribadirne la concezione arcaica. Sorprendente è la resistenza nel tempo delle mura alifane, spesse 2 m circa e attualmente ancora sovrastanti il piano di campagna mediamente di 7 m, con altri 2,5 m interrati. L’altezza, forse di poco inferiore all’originale, induce a ritenere che la decurtazione abbia interessato soltanto il coronamento merlato e il retrostante camminamento di ronda. Nel corso dei secoli molte abitazioni si addossarono dall’interno alla cerchia, per giovarsi della sua robustezza, forandola però con numerosi vani, finestre e porte.
...e di Telesia N
on lontano da Alife, nei pressi della confluenza del Calore con il Volturno, in posizione baricentrica tra Capua, Benevento e Venafro, si scorgono i ruderi della cinta di un’altra cittadina romana, anch’essi testimonianza della medesima tecnologia cementizia: le mura di Telesia. La colonia fu impiantata alla base di monte Acero, nei pressi dell’odierna S. Salvatore Telesino, forse ancora una volta sui resti di un piú antico centro sannita. Il circuito murario ci è pervenuto sostanzialmente continuo e discretamente leggibile nella sua originale logica difensiva. Lungo un tracciato dettato dall’aderenza a due corsi d’acqua, si snodano i segmenti di cortina arcuati che compongono la cinta, una sorta di catenaria (curva) chiusa, con i settori concavi verso l’esterno, ai cui apici si innestò una torre, esagonale e piena. Le mura, spesse fra 1,7 e 1,9 m, sono in opera incerta o quasi reticolata, con nucleo interno cementizio, esteso anche al riempimento delle torri esagonali. Poiché piene e prive di locali interni, queste torri esagonali, che tali possono dirsi solo per sagoma geometrica, andrebbero invece considerate come massicci speroni posti agli apici delle concavità, veri e propri puntoni, tanto piú che il loro spigolo esterno fu rinforzato con spessi conci di pietra. La loro scansione varia in funzione della vulnerabilità
dei settori, per cui si passa da un interasse di oltre 75 m (corda), lungo l’alveo del Volturno, a uno medio di 45 m che scende a volte anche a soli 30 m, con una ampiezza (freccia) di 6-7 m. Essendo insufficiente la larghezza delle mura per il cammino di ronda, si deve ipotizzare un impalcato ligneo a sbalzo verso l’interno che garantiva almeno 3 m di larghezza.
Tre porte e numerose posterle Per quanto si può distinguere, tre erano le porte principali, con un numero imprecisato di posterle distribuite lungo il perimetro e ancora parzialmente visibili. La presenza di ruderi non scavati, ma individuati, di cortine a mesopirgi (termine che indica tratti di mura concave comprese tra due torri, n.d.r.). nella Betide, induce a ipotizzare per le mura di Telesia una derivazione occidentale piuttosto che orientale. È comunque curioso che, nonostante l’indubbia capacità dei Romani nel saper individuare le migliori realizzazioni in ambito militare, la cerchia di Telesia sia rimasta un’eccezione, priva di estimatori coevi o, piú probabilmente, di verifiche ossidionali. Progressivamente decadde, squassata dai terremoti e dalle acque limitrofe, disgregata dai rovi e smantellata dai contadini: la sua magistrale calibrazione per le artiglierie neurobalistiche svaní nella notte del Medioevo.
Scorcio delle mura di Telesia viste dal loro interno.
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alla ricerca dell’ora esatta M
Nella pagina accanto una clessidra, retta dalla mano della Temperanza, particolare dell’Allegoria del Buon Governo, affresco dipinto da Ambrogio Lorenzetti nella sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena. 1337-1339.
agari non fu il mestiere piú antico, ma fu il primo a stabilire il costo di ogni prestazione in base alla sua durata, grazie all’impiego di un cronometro. Metica, infatti, esercitò la prostituzione ad Atene nel IV secolo a.C. e la notorietà le derivò dal soprannome, affibbiatole proprio per quella sua lungimirante intuizione, dal coevo Eubulo, poeta comico che ne fece addirittura il titolo di una commedia: la Clessidra. Stando ad Ateneo, che ripropose circa mezzo millennio dopo la notizia nell’opera Deipnosophistai, quel nomignolo le derivò dall’«abitudine di cronometrare le sue effusioni con una clessidra, smettendo di baciare nell’istante stesso in cui l’apparecchio si fosse svuotato». Al di là delle battute salaci, per la storia della tecnologia la notizia costituisce una preziosa testimonianza sull’esistenza e sulla diffusione di strumenti analogici per misurare il tempo all’interno delle abitazioni. In pratica senza l’ausilio del sole, come le piú antiche meridiane. Va subito precisato che la clessidra di Metica non era quella arcinota a forma di «8», parzialmente piena di sabbia, che in realtà compare sul finire del Medioevo, ma un congegno, piú o meno complesso, che funzionava grazie allo stillicidio dell’acqua: ne è chiara, del resto, l’etimologia, da klèpto, «sottraggo», e ydor, «acqua», cioè «sottraggo acqua». Per inciso, con il medesimo criterio, si ebbero sin dalla piú remota antichità clessidre a svuotamento, le piú semplici, o a riempimento, le piú elaborate, in cui il tempo era stimato, rispettivamente, dal diminuire o dal crescere del livello dell’acqua all’interno di un recipiente graduato. Analizzando la citazione di Ateneo, l’accenno all’esaurimento dell’apparecchio ci consente di stabilirne la tipologia. Si tratterebbe di una clessidra a svuotamento, cioè di uno strumento capace di valutare con precisione il tempo intercorrente tra due eventi, nella fattispecie l’inizio e la fine della prestazione,
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simile perciò ai moderni cronometri sportivi, e non a una meridiana, o a un orologio solare, in grado di misurare il trascorrere dell’intera giornata. Dettaglio ovvio, dal momento che a Metica non interessava affatto sapere quale ora fosse, ma da quanto tempo stesse intrattenendo il suo cliente! Per cui si potrebbe concludere che, a differenza della meridiana che assolveva una funzione sociale, la clessidra non esulava da una privata.
Dall’alba al tramonto La meridiana, del resto, non poteva funzionare all’interno della casa: anche nei modelli piú evoluti, una calotta concava con al centro un indice orizzontale, lo «gnomone», occorreva un’ampia esposizione al sole. Opportunamente orientata, dall’alba al tramonto, proiettava una sottile ombra sulla superficie della calotta, la cui estremità descriveva, giorno dopo giorno, una serie di curve concentriche, di cui le due esterne erano relative ai solstizi e quella centrale agli equinozi. Divisa ciascuna in dodici parti uguali, e collegati fra loro i relativi punti corrispondenti, ne scaturirono segmenti radiali convergenti verso il centro: a ognuno fu dato il nome di orai, da cui orai lògion all’intero strumento, letteralmente «conta-ore». Denominazione che i Romani non oseranno mutare, limitandosi a storpiare in horologium. Quel criterio di suddivisione della giornata in ore fu, pertanto, un’invenzione greca del V secolo a.C., scaturita dalla necessità di frazionare il tracciato, descritto dall’ombra di un’asticella su di un apposito quadrante, in una dozzina di parti uguali. Poiché ogni horologium solare, elaborato in base alla sua precisa latitudine e al suo corretto orientamento, non ammetteva repliche, dall’età ellenistica ogni città greca ne fece costruire almeno uno. Paradossalmente, se la meridiana precorse la clessidra, quando se ne volle creare una variante svincolata dal sole, un
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orologio propriamente detto, la si ottenne adattando a una clessidra la scansione temporale delle meridiane!
Ogni giorno ha quattro parti Agli inizi del III secolo a.C. a Roma si iniziò a percepire il bisogno di una minore approssimazione sull’orario, di giorno come di notte. Fino ad allora, infatti, un banditore annunciava il mezzogiorno, quando il sole risultava visibile, prassi insufficiente di notte e, soprattutto, in ambito militare. Si stabilí, come primo rimedio, di suddividere il giorno in quattro parti: mattina e antimeriggio, fra l’alba
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e il mezzogiorno, e pomeriggio e sera, fra il mezzogiorno e il tramonto. Il che non ridusse di molto l’incertezza diurna e per nulla quella notturna nei grandi castra: assurdo, per esempio, avvicendare le quattro vigiliae con l’impiego di una normale clessidra per quattro volte: in estate la guardia sarebbe terminata in pieno mattino, in inverno a notte fonda! Anche Roma adottò l’orologio solare e le relative 12 ore soltanto nel 263 a.C., grazie al console M. Valerio Messala, che fece montare nella città quello saccheggiato a Catania. Ovviamente lí nessuno sapeva che le indicazioni valide alle falde dell’Etna
risultavano alquanto imprecise sulle rive del Tevere: ciononostante, si continuò a usarlo per quasi un secolo! Si deve attendere il 159 a.C. perché, finalmente, anche a Roma vi fosse un vero orologio, nella fattispecie uno sperimentato orologio ad acqua, costruito appositamente per l’Urbe e di notevole precisione, forse persino piú evoluto di quelli che gli Alessandrini impiegavano ormai correntemente. E, oltre un secolo dopo, per l’esattezza nel 46 a.C., i Romani adottarono anche l’anno di dodici mesi esatti, di durata pari ai corrispettivi attuali, e la settimana di sette giorni, ognuno
dedicato a un pianeta, dei sette piú evidenti. Definizione e titolazioni rimaste immutate tranne quella del Sole, divenuta con l’affermazione del cristianesimo il giorno del Signore, il dies dominici, la domenica.
Un’ora... flessibile Ciascun giorno, da un’alba alla successiva, fu definitivamente ripartito in 24 ore, come oggi a partire dalla mezzanotte. Ma le analogie finiscono qui. A differenza di quanto accade oggi, infatti, l’ora per i Romani non indicava un preciso istante della giornata, ma un ampio intervallo, di durata variabile nel corso
le prime versioni Due fra i piú antichi esemplari di clessidra ad acqua: uno di fabbricazione egiziana (a sinistra) e uno realizzato in Grecia (a destra). In entrambi i casi, la precisione del dispositivo si basa sulla configurazione tronco-conica del manufatto, che serviva a compensare il rallentamento della fuoriuscita dell’acqua per il diminuire della pressione allo scendere del suo livello.
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dell’anno. In dicembre un appuntamento all’ora settima significava fra le 12 e le 12 e 45; a giugno fra le 12 e le 13 e 15. Ciò non toglie che in molte attività si tenesse debito conto anche di intervalli di tempo inferiori e costanti, come forse poteva fare Metica con i suoi clienti piú poveri, o come dovevano fare gli avvocati con le loro arringhe, ma si trattò sempre di estrapolazioni temporali convenzionali, di tempi privati avulsi dal tempo pubblico. Per valutare quanto fosse complicato un orologio ad acqua dell’epoca, occorre una breve digressione. Il giorno dei Greci e dei Romani, come accennato, era di 24 ore, di cui dodici per il dí e altrettante per la notte. Mentre, però, la durata del giorno era costante per l’intero anno, quella del dí variava dal minimo del solstizio d’inverno, il 21 dicembre, al massimo di quello d’estate, il 21 giugno. Di conseguenza, l’ora diurna romana d’estate si allungava e d’inverno si accorciava, con un’escursione di quasi 30 minuti fra gli estremi. Simmetrica, ovviamente, la variabilità della notte. Solo negli equinozi, il 21 marzo e il 21 settembre, l’ora era uguale di giorno e di notte e, per conseguenza, identica alla nostra. Per misurare in maniera proporzionale l’orario sarebbe occorso un congegno che variasse la durata dell’ora, giorno per giorno, incrementandola per sei mesi e decurtandola per gli altri sei, per un complessivo 50%.
deflusso. Un sifone, invece, provvedeva a svuotare ogni 24 ore il recipiente di raccolta, nel quale pescava un apposito galleggiante, collegato a un adeguato contrappeso mediante una catenella, solidale a un indice rotante. Il sollevarsi del livello dell’acqua, alzando il galleggiante, provocava la rotazione dell’indice, in ragione proporzionale allo scorrere del tempo. A ogni ciclo, pari a un giro completo, corrispondeva un giorno, evidenziato su di un sofisticato quadrante circolare. La variazione della durata dell’ora era stata risolta facendo spostare il centro del quadrante rispetto al centro di rotazione
Il tempo è una goccia d’acqua La soluzione fu escogitata da Ctesibio, uno dei maggiori scienziati della Biblioteca di Alessandria, che riuscí, dopo una serie di clessidre, alquanto complesse, a realizzarne anche una completamente automatica. Vitruvio ce ne ha tramandato una confusa descrizione, che solo la rigida logica meccanica ha consentito di ricostruire graficamente in maniera verosimile. In dettaglio, la clessidra automatica di Ctesibio funzionava, come tutte le consimili, mediante un regolare stillicidio d’acqua, da un serbatoio superiore a un recipiente inferiore. Il livello dell’acqua nel serbatoio era mantenuto costante tramite continuo apporto, per evitare la sia pur minima variazione di pressione e, quindi, di velocità di
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Una clessidra medievale, dalla classica forma a «8», parzialmente riempita di sabbia.
un orologio alla luce del sole In astronomia, si intende per meridiana la retta determinata dall’intersezione del piano del meridiano del luogo con il piano orizzontale. Per estensione, il vocabolo ha poi definito ogni orologio solare costituito da uno stilo o gnomone, fissato su una superficie piana, quasi sempre verticale, disposta parallelamente all’asse di rotazione della Terra. In questo caso la meridiana è piú propriamente la linea d’ombra determinata dallo stilo a mezzogiorno vero. Sulla superficie dell’orologio solare – come illustrato dal diagramma a destra, in basso – sono segnati diversi raggi con centro nella base dello stilo, ciascuno dei quali indica un’ora determinata del giorno; la linea meridiana, la piú importante e la centrale di questi raggi, può essere determinata sia con metodi geometrici sia con procedimenti astronomici.
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L’uso della meridiana fu molto diffuso presso tutti i popoli dell’antichità, che basavano la loro vita civile sulla divisione del giorno in due parti, determinate dall’ora in cui il Sole raggiungeva la massima altezza sull’orizzonte (mezzogiorno). In alto una meridiana in marmo con gnomone in bronzo, dalla Casa degli Amorini dorati a Pompei. I sec. d.C. A sinistra una meridiana riportata alla luce a Ercolano. I sec. d.C.
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Il meccanismo di Ctesibio
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A sinistra ricostruzione virtuale schematica della clessidra automatica a indicazione annuale ideata da Ctesibio, uno dei maggiori scienziati della Biblioteca di Alessandria, con il disco indicatore staccato. Anche questa versione dello strumento funzionava mediante un regolare stillicidio d’acqua, da un serbatoio superiore a un recipiente inferiore. Il livello dell’acqua nel serbatoio era mantenuto costante tramite continuo apporto, per evitare la sia pur minima variazione di pressione e, quindi, di velocità di deflusso. Un sifone, invece, provvedeva a svuotare ogni 24 ore il recipiente di raccolta, nel quale pescava un apposito galleggiante, collegato a un adeguato contrappeso mediante una catenella, solidale a un indice rotante. Il sollevarsi del livello dell’acqua, alzando il galleggiante, provocava la rotazione dell’indice, in ragione proporzionale allo scorrere del tempo. A ogni ciclo, pari a un giro completo, corrispondeva un giorno, evidenziato su di un sofisticato quadrante circolare. Qui accanto prospetto schematico della clessidra automatica all’equinozio di primavera e di autunno, 21 marzo, 21 settembre. In alto ricostruzione schematica della clessidra automatica, al solstizio d’inverno, 21 dicembre. A quello d’estate, 21 giugno, la configurazione appariva simmetrica verso il basso.
dell’indice. Dal momento che la velocità angolare dell’indice risultava costante, essendo costante la velocità di stillicidio, la variazione della durata dell’ora si poteva ottenere soltanto variando lo sviluppo dell’arco di quadrante a essa relativo. E questa si poteva ottenere soltanto variandone l’angolo al centro, ovvero l’eccentricità del quadrante. Anche se il quadrante si abbassava per sei mesi, e si alzava nei sei successivi, la lettura dell’ora non risultava compromessa, potendosi sempre effettuare agevolmente sul suo cerchio piú prossimo all’indice. Per rendere leggibile la gradazione del quadrante, oltre ai sei cerchi lo si era diviso in 12 spicchi, nella metà destinata al giorno, e in 4 in quella della notte, uno per ogni turno di guardia. Il tutto dentro una corona su cui erano incise 12 suddivisioni maggiori, una per ogni segno zodiacale e quindi per ogni mese, e 365 minori, per un giorno.
I Romani? Mai puntuali... Per provocare l’escursione del quadrante, Ctesibio adottò un eccentrico azionato da una ruota munita di 365 denti, mossi uno al giorno da un apposito arpione snodato, sollevato dal galleggiante. Per un semestre l’eccentrico spostava progressivamente verso l’alto il quadrante, rendendo giorno per giorno le ore piú lunghe, dai 45 minuti circa del solstizio d’inverno ai 75 del solstizio d’estate; quindi invertiva il moto verso il basso, accorciandole gradualmente. Dal momento che per far funzionare la sua clessidra occorrevano due velocità, di un giro al giorno per le ore e di un giro l’anno per la loro variazione, Ctesibio pensò di collegare alla ruota dentata anche un secondo indice, di modo che la sua lentissima rotazione indicasse sulla corona i giorni e i mesi. Di clessidre del genere se ne costruirono numerose, spesso preziosissime, e i patrizi romani fecero a gara per accaparrarsele, ostentando le piú costose e complicate. Quanto alla precisione di funzionamento, cosí stigmatizzava Seneca: «A Roma non ti posso dire l’ora esatta; è piú facile conciliare fra loro i filosofi che accordare fra loro gli orologi!».
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GUERRA ALl’attrito D
al gennaio del 1943 gli alti comandi alleati, mirando a inceppare la produzione bellica nazista, scatenarono bombardamenti micidiali sulle fabbriche tedesche ritenute essenziali, prime fra tutte quelle dei cuscinetti a sfere, indispensabili per ogni mezzo meccanico al fine di contenere l’attrito. Quest’ultimo, per grandi linee, è la forza che si oppone al movimento di un corpo a contatto con un altro frenandone il moto, strisciante o rotante che sia. Tuttavia, è solo grazie all’attrito che siamo in grado di spostarci a piedi o con
Nella pagina accanto, in alto Piazza Armerina, Villa del Casale. Particolare di una delle scene del mosaico della Grande Caccia. IV sec. d.C. A bordo del carro trainato da una coppia di buoi, si nota un dispositivo che sembra potersi identificare con una rulliera, cioè con un apparecchio ideato al fine di facilitare il trasbordo di carichi pesanti, riducendo l’attrito.
la rulliera | il genio degli antichi | 26 |
Rullo Rullo di legno con foro passante longitudinale per l’asse metallico. La soluzione oltre a distribuire l’usura lungo tutto il foro, ne facilitava la sostituzione in caso di rottura.
qualsiasi veicolo terrestre, marino o aereo non a reazione. Nessuna meraviglia, perciò, dell’ultramillenaria doppia battaglia, mirante da un lato ad accentuarlo per camminare e dall’altro ad attenuarlo per correre!
Quando il calore diventa un problema
Zanca di fissaggio Zanca di fissaggio della rulliera, alla sponda del carro o al bordo della nave: nei fori andavano inseriti ferri a π per il bloccaggio di sicurezza.
Asse metallico Asse metallico, di ferro o di bronzo, libero di girare negli appositi alloggiamenti del telaio, intorno al quale, a sua volta, girava il rullo di legno.
L’onnipresenza dell’attrito si constata persino togliendo la polvere con uno strofinaccio o sfregandosi le mani per il freddo: in entrambi i casi, si percepisce il calore che l’attrito ha generato, trasformando l’energia cinetica sottratta al moto. Questa conclusione elementare, che si fa piú evidente al crescere del peso, della scabrosità delle superfici a contatto e della loro velocità relativa, fu recepita in tutte le sue negative conseguenze dapprima nelle ruote dei carri, che girano intorno al proprio asse orizzontale, e poi anche nelle molteplici macchine giranti intorno a un perno verticale, come per esempio nelle gru. Il peso del carico, poggiato sul pianale di un carro o sospeso al gancio della gru, finiva per provocare un’elevata resistenza negli assi delle ruote dell’uno o nel perno di brandeggio (rotazione orizzontale della parte superiore di una struttura su sostegno verticale, n.d.r.) dell’altra, fino a
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comprometterne le rispettive rotazioni. Semplici rimedi furono presto escogitati, come quello di ungere e spalmare di grasso assi e perni. Resi viscidi, infatti, giravano piú liberamente, almeno per le velocità piú contenute e per i carichi piú modesti. Il miglioramento delle strade e della meccanica rese evidente che quegli espedienti erano insufficienti nei carri veloci e nelle grandi gru, per restare ai soliti due esempi. L’accresciuto attrito, infatti, non piú adeguatamente neutralizzato, ne surriscaldava e usurava rapidamente assi e perni, compromettendo sia le prestazioni che la longevità. La soluzione, anche in questo caso, derivò, verosimilmente, dall’uso di ricorrere a rulli e sfere per spostare con minor sforzo i grandi blocchi di pietra da costruzione o i megaliti. Dal punto di vista strettamente fisico quelle adozioni trasformavano l’attrito radente in attrito volvente, di gran lunga meno parassitario.
Il primo cuscinetto della storia Risale al I secolo a.C. l’archetipo di tutti i cuscinetti a rulli radiali, ed è collocato all’interno dei mozzi delle quattro ruote a raggi di un carro ritrovato a Dejbjerg in Danimarca (oggi al Nationalmuseet di Copenaghen), la cui fabbricazione viene attribuita a un atelier celtico situato nella Germania meridionale o nella Francia nord-orientale. In pratica, riducendosi la superficie di contatto tra l’asse fisso e il mozzo rotante con una corona di cilindretti disposti parallelamente all’asse stesso e liberi di girare autonomamente, si decurtava l’attrito, consentendo alle ruote maggiori velocità angolari. La sua concezione appare talmente avanzata che, in sostanza, non differisce gran che dagli odierni cuscinetti a rulli radiali presenti nei mozzi dei nostri autoveicoli per lo stesso scopo. Quel piccolo congegno dagli stupefacenti risultati, prese a diffondersi non solo presso i carradori celtici, ma anche in molteplici costruzioni meccaniche dando origine, con una lieve modifica, a una variante per impiego ad asse verticale, che oggi definiamo «cuscinetto reggispinta». Sia a rulli sia a sfere, questi
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cuscinetti sono in grado di abbattere non soltanto gli attriti prodotti dallo sfregamento ma anche da quello esaltato dalla spinta dei carichi: tipico il caso di un «picco di carico», gru a braccio inclinato istallata sul ponte di una nave, che doveva sollevare una cassa deposta sulla banchina e girare su se stessa prima di calarla attraverso un boccaporto nella stiva. Sequenza che doveva vincere il forte attrito formatosi alla sua base e possibile solo con adeguati cuscinetti reggispinta. Di ambedue le tipologie ce ne sono fortunatamente, e fortunosamente, pervenuti eloquenti e significativi resti, dal momento che equipaggiavano i picchi di carico delle due navi di Nemi. L’essere uno a sfere e l’altro a rulli, sembrerebbe confermare il persistere della fase sperimentale relativa al loro impiego. Nel cuscinetto reggispinta a rulli, questi sono di legno in numero di otto, di forma troncoconica, con i rispettivi alberini inseriti in adeguati alloggiamenti fra due anelli fissati a un disco, tutti sempre di legno. Giravano su una sottostante pista di rotolamento di bronzo, necessaria per sopportare il peso della gru e del suo carico, in ogni punto del brandeggio. È molto probabile che proprio questo tipo di cuscinetto fosse adottato pure nelle grandi gru, fatto salvo il ricorso a rulli di bronzo o di ferro in luogo dei piú delicati in legno.
Una sala da pranzo davvero speciale Qualcosa del genere, inoltre, si deve immaginare impiegato per la rotazione delle scene nei maggiori teatri, o nella mitica coenatio rotunda di Nerone, di recente ravvisata in alcuni suggestivi e poderosi ruderi strutturali, rinvenuti sul Palatino. Nella fattispecie un pilone cilindrico alla cui sommità s’innestano, come altrettante stecche d’ombrello, otto arconi che conservano sull’estradosso superiore delle piccole cavità. È probabile che proprio sul pilone insistesse il perno di rotazione, intorno al quale girava l’impiantito sostenuto da rulli posti sugli archi, dalla cui estremità spiccavano otto colonne fisse, sostenenti la copertura. In ultima analisi un belvedere rotondo con il pavimento fatto ruotare da un contrappeso, simile
concettualmente alla lanterna di un faro che gira lentamente in una gabbia di vetro fissa. Tornando ai rulli di Nemi, va inoltre osservato che la loro conformazione tronco-conica non fu affatto casuale, adottandosi ancora oggi al posto di quelli cilindrici quando i carichi si prevedono di tipo radio-assiale. In altre parole, quando occorre sopportare delle spinte sia in senso radiale che assiale, situazione precipua delle gru il cui carico non è mai assiale, cioè concentrato sulla verticale, ma anche radiale, cioè orizzontale, per il protendersi del braccio che lo solleva. L’apparente dettaglio dimostra la competenza dei tecnici che realizzarono quella piattaforma e ne conferma, implicitamente, l’impiego sotto un picco di carico e non già, come pure ipotizzato, sotto il piedistallo girevole di una statua, che non avrebbe esercitato alcuna spinta radiale!
ingegneria celtica Ricostruzione virtuale sezionata di un mozzo di ruota di carro celtico: realizzato in bronzo, ha, nel suo foro longitudinale, un alloggiamento che riceveva e tratteneva cilindretti, anch’essi in bronzo. Questi sono lunghi poco meno dello stesso mozzo e fra loro veniva inserito l’asse del carro. I cilindretti giravano indipendentemente dalla ruota, che, perciò, risentiva molto meno dell’attrito prodotto dallo strofinio con l’asse. La condizione ottimale di funzionamento implicava, tuttavia, che si disponesse uno strato di grasso tra il mozzo e i cilindretti e tra questi e l’asse. Un fermo trasversale, collocato alla sua estremità, impediva la fuoriuscita della ruota.
In aiuto di facchini e scaricatori Sempre a rulli vennero costruiti dei cuscinetti lineari, detti anche «rulliere», per agevolare le operazioni di carico e scarico dalle imbarcazioni e dai carri. Di trasportatori siffatti ce ne sono pervenute alcune raffigurazioni
Ricostruzione del carro celtico di Vix (Côte d’Or, Francia centro-orientale). Magonza, Römisch-Germanisches Zentralmuseum.
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terra Ricostruzioni virtuali del cuscinetto a sfere (a destra) e di quello a rulli (nella pagina accanto) rinvenuti sulle navi di Nemi. Pur avendo dimensioni simili e un numero di elementi rotanti uguale, presentano differenze vistose, che lasciano supporre impieghi non identici, o fasi di sperimentazioni non ancora concluse a favore dell’una o dell’altra soluzione.
Piastra a stella La piastra lignea del cuscinetto è a forma di stella a otto punte stondate, all’interno di ciascuna delle quali è collocata una sfera con l’asse orientato verso il perno di rotazione centrale.
Sfera con asse Particolare di una sfera con asse: la lunghezza dei suoi due segmenti è tale da attenuare la pressione che il carico sovrastante, per loro tramite, scaricava sugli alloggiamenti.
il cuscinetto a sfere
Piastra di bronzo La parte superiore del cuscinetto rotolava su di una piastra di bronzo, come quelle usate per i cardini dei portoni, sulla cui superficie era incisa una pista concava destinata alle sfere.
facilmente identificabili, come, per esempio, nel celebre mosaico della «Grande Caccia» di Piazza Armerina, dove li si riscontra in almeno due scene. La prima ritrae una coppia di rulliere a otto cilindri ciascuna poggiate sul ponte di una nave, verosimilmente dopo le operazioni di carico. Lo strano sporto arcuato a quattro fori, che entrambe recano applicato al lato corto del telaio serviva, quasi
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certamente, per fissarle al bordo dello scafo, oppure per accoppiarle fra loro. La seconda, invece, è una rulliera a due soli cilindri, posta su un carro come un suo attrezzo accessorio per il trasbordo dei grossi carichi coerenti. Che tali fossero, del resto, lo testimoniano le ruote piene e la pariglia di buoi adibita al traino (vedi foto a p. 27). Venendo al cuscinetto reggispinta a sfere di
Rullo e alberino Particolare di un rullo tronco-conico col relativo alberino: nella ricostruzione virtuale si è supposto di bronzo per la sua maggiore resistenza ai forti carichi. Nella fattispecie, invece, era di legno, dettaglio che lascia presumere prestazioni meno esasperate.
Corona del cuscinetto a rulli La corona del cuscinetto a rulli appare formata con piú segmenti circolari, soluzione indispensabile per il montaggio dei rulli. La solidità era assicurata oltre che da un probabile cerchione di ferro esterno, da piastrine di accoppiamento sempre di ferro.
il cuscinetto a rulli
piastra Ricostruzione virtuale della piastra di rotolamento del cuscinetto a rulli, con il perno di rotazione e la pista circolare leggermente incavata per i rulli.
Nemi, queste sono sempre in numero di otto, di bronzo e munite di alberino, definite perciò «a scudo». Se ne deve presumere un identico impiego per il brandeggio di una gru, fornendo i suddetti alberini anche una resistenza alle spinte radiali, grazie agli appositi alloggiamenti rinforzati. Presumibile anche per questo cuscinetto una piastra di rotolamento di bronzo con la pista incavata.
Di cuscinetti a rulli e a sfere si tornerà a parlare sul finire del Medioevo, quando alcuni chiari schizzi ricompariranno nei disegni dei tanti ingegneri rinascimentali, fra i quali anche Leonardo da Vinci. Quanto al tipo attuale di cuscinetto a sfere, il primo brevetto fu rilasciato nel 1794 e il secondo nel 1869, che trovò subito vasto impiego nelle biciclette.
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assedio mobile L
a sola maniera di penetrare in una città assediata consisteva nel superarne le mura. E poiché, non di rado, queste erano di spessore considerevole e impiantate sulla roccia, lo scavalcamento richiedeva macchine adeguate, prime fra tutte le scale. Queste ultime però, essendo facili da rovesciare e inadeguate per assalti in massa, furono presto relegate a episodi marginali, e sostituite nei grandi investimenti ossidionali (relativi a un assedio, dal latino obsidio, «assedio», n.d.r.) da torri lignee mobili. Articolate internamente su piú piattaforme, la penultima delle quali munita di una sorta di passerella volante, un antesignano corvo, le torri superavano in altezza le fortificazioni da espugnare. Accostate alle mura, abbattuto sugli spalti il corvo, mentre gli arcieri dalla loro sommità saettando senza sosta sugli spalti ne tenevano lontani i difensori, gli assedianti vi irrompevano in forze. Per la città era l’inizio della fine e, non a caso, quelle torri furono definite «elepoli», cioè «conquistatrici di città». Sebbene fossero tatticamente vincenti, non erano scevre di deficienze, prima fra tutte la loro immane pesantezza, conseguenza delle vertiginose altezze imposte dal dover sormontare le cerchie nemiche. Macchine colossali, che spesso eccedevano il centinaio di tonnellate, e che, di conseguenza, per accostarsi alle mura, richiedevano gli sforzi di migliaia di uomini, facili bersagli per i dardi delle catapulte e degli archi, e, arrestatone l’avanzamento, la torre poteva essere facilmente incendiata.
Un’invenzione assira? La vicenda, reiteratasi innumerevoli volte, finí per suggerire agli ingegneri militari diversi meccanismi per rendere la torre capace di muoversi da sola, cioè semovente, almeno nella fase terminale dell’accostamento, di gran lunga la piú letale. Stando alle fonti piú eloquenti, l’evento si colloca intorno al IV secolo a.C., sebbene qualcosa del genere sembrerebbe già da tempo adottato: rilievi
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assiri del IX secolo a.C. raffigurano, infatti, arieti ruotati e blindati all’opera, senza però serventi che li spingano o li trascinino, né a lato i cadaveri degli inevitabili caduti. Tornando all’ipotizzata autotrazione delle grandi elepoli, l’adozione è tramandata da vari autori classici. Bitone, nel trattato Kataskeuai polemikon organon kai katapaltikon (Costruzione di macchine da guerra e catapulte), ricorda che la torre costruita da Posidonio per Alessandro, sebbene di modesta altezza, appena 15 m, avanzava da sola. Diodoro Siculo nella Biblioteca Storica (XX, 21) descrive a sua volta l’elepoli voluta da Demetrio Poliorcete all’assedio di Rodi del 304 a.C., alta 46 m, con un dislocamento di 140 t circa, mossa a suo dire da 3400 uomini, in parte collocati al suo interno e in parte al suo esterno, i cui sforzi erano però fortemente agevolati da congegni meccanici.
In alto particolare di un rilievo assiro con l’attacco a una fortezza nel quale viene impiegato un ariete da assalto, da Nimrud. VIII sec. a.C. Londra, British Museum. A destra ricostruzione virtuale dell’elepoli semovente di Posidonio.
La copertura delle torri ambulatorie era riservata agli arcieri, che durante l’ultima fase della manovra di avvicinamento alle mura assediate, e soprattutto dopo l’accostata, dovevano batterne continuamente gli spalti per tenerne lontano i difensori, agevolando l’assalto condotto dal sottostante ponte volante.
Il corpo delle torri ambulatorie era scandito da numerose feritoie, con le frontali munite di chiusura blindata, un po’ come i portelli di murata dei cannoni sui vascelli. Esse servivano a ridurre il numero dei difensori sugli spalti, mentre quelle laterali a mantenere a debita distanza le loro sortite, miranti a incendiare la torre.
la macchina di posidonio | il genio degli antichi | 33 |
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Piú esplicito è Giulio Cesare nel De bello gallico (II, XXX): «[gli Aduatuci] si erano chiusi in città. Quando videro che i Romani, avendo completato il terrapieno con l’impiego delle testuggini, avevano avviato la costruzione di una torre a una considerevole distanza, iniziarono a schernirli dagli spalti e a chiedere loro strillando perché innalzare una macchina tanto grande a cosí grande distanza: con quali mani l’avrebbero spinta e con quali forze uomini tanto piccoli (la maggior parte dei Galli, infatti, per la notevole corporatura disprezzava la bassezza dei Romani) potevano sperare di muovere una torre cosí pesante? Ma quando si accorsero che la torre si muoveva [da sola] e si avvicinava alle mura, atterriti dalla cosa ignota e incredibile, inviarono ambasciatori a Cesare per trattare la pace. Questi dissero che non credevano possibile che i Romani facessero la guerra senza l’aiuto divino dal momento che potevano far avanzare macchine tanto alte con tanta velocità». Di certo non era la velocità d’avanzamento della torre a impressionare, ma la sua auto-mobilità, prestazione ancora del tutto ignota ai Galli. Anche un autore tardo quale Renato Vegezio Flavio, nel De re militari (IV, 17), precisava in merito che «le torri (...) si fabbricano quadrate, di altezza e larghezza proporzionate, o di trenta
o di quaranta o di cinquanta piedi per lato. Si costruiscono, peraltro, di tali dimensioni che possano superare non soltanto l’altezza delle mura, ma anche quella delle torri di pietra. A esse con un meccanismo sofisticato si applicano molte ruote, con il cui moto si può spostare una macchina tanto grande».
Come le ruote per l’edilizia Per quanto concerne la concezione meccanica dei dispositivi motori, sebbene numerosi testimoni ne certifichino l’esistenza, nessun autore si sofferma a tramandarne le caratteristiche, per cui dobbiamo procedere per via indiziaria. Una prima ipotesi farebbe supporre l’adozione di grandi ruote calcatorie o a gabbia di scoiattolo, come quelle impiegate correntemente in edilizia, fatte girare dal continuo arrampicarsi degli schiavi. Incrementando il raggio e il numero degli schiavi impegnati, se ne aumentava il momento torcente, che, tuttavia, non poteva crescere a dismisura, poiché non era possibile costruire ruote di oltre 4 m di diametro. Dal momento che la potenza erogata da una sola ruota è insufficiente alla trazione di una elepoli, se ne devono ipotizzare alquante affiancate sullo stesso albero motore. Considerando, inoltre, che per i medesimi limiti
ma certamente non erano fatte cosí... Questa ricostruzione di una elepoli rispecchia le ipotesi correnti sulla movimentazione di queste colossali macchine ossidionali. Si notano, in posizione avanzata, alcuni giganteschi bozzelli, collegati verosimilmente fra loro in modo da formare dei paranchi a piú rinvii, pentaspaston, che, azionati alandone le funi su un tamburo posto all’interno dell’elepoli, ne determinavano l’accostamento alle mura. Ora, poiché la posizione che la macchina doveva raggiungere dista dalle mura poco meno della campata del suo ponte volante o corvo, ovvero 6 o 7 m al massimo, si dovrebbe supporre che quei bozzelli fossero stati preliminarmente collocati da temerari zappatori, vincolandoli a massicci pali infissi profondamente nel terreno, quasi a contatto col piede delle mura assediate, senza patire alcun disturbo da parte dei difensori! Di piú, le funi, notoriamente facili a bruciare, avrebbero operato scoperte, per l’intera durata della manovra, quasi sempre di diversi giorni, occorrendo stabilizzare spesso la vacillante torre, e sempre senza che nessuno le incendiasse gettandovi sopra brace incandescente o le tranciasse con una sortita notturna. Dal punto di vista meccanico poi, lo sforzo necessario per alare le funi sarebbe stato molto minore se fossero state attorcigliate direttamente attorno agli assi delle ruote, che avrebbero potuto cosí girare piú agevolmente, utilizzando il medesimo paranco interno e senza alcun bisogno di accessori esterni.
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La costruzione di una torre per assedio in una incisione di Franz Rottenkamp, Stoccarda, 1842. Firenze, Museo Stibbert.
Il ponte volante di cui erano munite tutte le torri ambulatorie e le elepoli semoventi. L’altezza del suo fulcro si faceva coincidere o superare con quella delle cortine assediate, mantenendolo sempre al di sotto della sommità della torre stessa, per garantire ai sovrastanti arcieri il tiro di copertura al momento dell’assalto.
Il corpo dell’elepoli presenta un gran numero di feritoie, frontali e laterali, che oltre ad attenuare il peso della macchina, facilitavano anche lo spegnimento dei principi d’incendio, consentendo ovviamente il tiro difensivo. I due cabestani adibiti all’alaggio delle funi per l’accostamento della torre, avrebbero dovuto trovarsi a meno di un centinaio di metri dalle mura. Distanza, però, che avrebbe permesso alle artiglierie degli assediati di massacrarne i serventi: la soluzione, ottima per spostare i massi nelle cave di pietra, appare ridicola nella fattispecie.
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tecnici la larghezza massima di ciascuna non eccedeva i 2 m, ne sarebbero bastate un paio con 4-6 uomini a gabbia, collocate sulla piattaforma di base di un’elepoli, per fornirle la sufficiente forza motrice. L’incedere doveva essere lentissimo, ma poteva essere accelerato aumentando il numero delle ruote e dei relativi serventi; banale era la trasmissione del moto dell’albero agli assi: due funi, di 50 mm circa di diametro, avvolte intorno agli assi, alate intorno all’albero motore dalla sua rotazione, ponevano in rotazione gli assi e le rispettive ruote. Per calcolare la forza necessaria al suo avanzamento, abbiamo immaginato un’elepoli alta 30 m, pesante 40 000 kg, con ruote di 1,5 m di raggio, con raggio del rullo solidale all’asse, sul quale è avvolta la fune pari a 0,8 m, con una pendenza da superare del 2% e, infine, con un coefficiente d’attrito tra le ruote e il piano f=0,02. Ne è risultata una forza necessaria pari a 30 000 N (simbolo di Newton – dal nome del fisico e matematico inglese –, Unità di misura di forza del Sistema Internazionale: è la forza che imprime l’accelerazione di 1 m/s2 a un corpo con massa di 1 kg, n.d.r.).
Una possibile alternativa Un secondo congegno poteva fornire un identico risultato: l’argano ad asse verticale o cabestano. Una squadra di una trentina di serventi, distribuiti intorno alle sue stanghe radiali, era in grado di erogare la forza necessaria alla trazione di una elepoli con caratteristiche analoghe a quelle del modello descritto nell’esempio precedente. Il dispositivo, che forse sfruttava meglio gli sforzi consentendo avvicendamenti piú veloci e una «sollecitazione» piú attiva, dal punto di vista strettamente meccanico risulta meno agevole delle gabbie di scoiattolo. In ogni caso, la trasmissione del moto alle quattro ruote sarebbe stata identica, cosí come l’autonomia determinata dalla lunghezza della fune che, per evitare tragiche sorprese, andava valutata prima d’iniziare l’accostamento, come testimonia Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaica (V, 6): «Innalzati i terrapieni, i genieri ne misurarono la distanza dal muro scagliando un piombino legato a un filo, né v’era altro modo essendo essi bersagliati dall’alto, e trovando che le elepoli
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potevano raggiungerlo le accostarono». Da fonti comunque lacunose e poco dettagliate, sembra affiorare un altro motore per elepoli, ad autonomia illimitata, perché funzionante a contrappesi. Stando a Diodoro Siculo (XX, 96,7), Demetrio Poliorcete si sarebbe avvalso del serbatoio d’acqua collocato alla base della sua elepoli per estinguere l’incendio: «Temendo che il fuoco potesse estendersi distruggendo l’intera macchina, si trovò dunque costretto a intervenire e si prodigò servendosi delle riserve di acqua poste al piano inferiore». Una posizione infelice per contrastare il fuoco, ma felicissima per abbassare il baricentro della torre, sempre criticamente troppo alto e causa frequente di rovesciamenti. Osservando il funzionamento d’un battipalo, del tipo di quello usato da Cesare sul Reno, si nota che l’argano che girando solleva la massa battente, è fatto girare dalla stessa quando cade, trasformandosi in un potente motore. Supponendo che una massa di 1000 kg, costituita da un cassone di 1 mc pieno d’acqua, venga fatta piombare dalla sommità di una elepoli alta 20 m sulla base, e (segue a p. 39)
Il modello presenta quattro ponti volanti, di cui uno soltanto, il penultimo, razionale, utile e storicamente certificato. Il superiore, in particolare, è assurdo impedendo col suo tavolato il tiro di copertura degli arcieri in fase di accostamento, e una volta abbassato, esponendoli privi di schermatura al controtiro degli assediati.
sul fronte gallico In alto plastico dell’accostamento delle elepoli romane alle mura di Avaricum (oggi Bourges), in occasione dell’attacco portato alla città da Cesare, nel 52 a.C. West Point (USA), Museo dell’Accademia Militare. La ricostruzione delle due torri ambulatorie, una già accostata e l’altra in fase di avvicinamento, appare realistica e corretta: nella prima a sinistra, infatti, si scorge il vuoto prodotto dal ponte abbassato al di sotto della piattaforma sommitale, mentre nella seconda è ancora sollevato, schermando cosí i serventi anche nell’ultima parte della manovra, la piú critica e rischiosa. A destra modello di una torre d’assalto mobile (turris ambulatoria vel curulis vel oppugnatoria), liberamente ispirato alle descrizioni fornite, tra gli altri, da Flavio Renato Vegezio negli Epitoma Rei Militaris. Roma, Museo della Civiltà Romana.
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terra Schema della trasmissione della trazione del moto agli assi delle ruote di una torre semovente. La fune, in precedenza avvolta attorno agli assi, viene alata sul tamburo di un argano, determinando per conseguenza la rotazione di ambedue alla medesima velocità angolare.
Il diametro degli assi delle ruote, ovviamente, era uguale per entrambi in maniera che a parità di fune svolta fosse uguale anche il numero di giri compiuti insieme alle relative ruote.
Il tamburo principale era quello di un grande argano ad asse verticale, piú noto come salpancore o cabestano, usato già da secoli nelle marinerie e nei cantieri navali ed edili.
La trasmissione della rotazione degli assi alle ruote era assicurata mediante anime di ferro quadrate, che fissate rigidamente all’interno dei primi e fatte passare nel mozzo delle seconde li rendevano pienamente solidali.
i «motori» delle torri
La gabbia di scoiattolo costituí a lungo il motore piú usato a energia muscolare, di cui abbiamo pure diverse raffigurazioni romane molto nitide. A seconda della rilevanza degli sforzi richiesti, al suo interno prendevano posto piú uomini, che la ponevano in rotazione arrampicandosi continuamente sui suoi pioli. Ancora nel secolo scorso si usava nelle cave di marmo per movimentare i blocchi.
Con una larghezza vicina ai 20 m, le torri ambulatorie, come nella soluzione qui ipotizzata, dovevano essere dotate di due travi parallele alle esterne del telaio, fra le quali sta avvolta la fune, al fine di ridurre l’interasse fra le ruote.
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Il telaio sul quale gravava una torre ambulatoria doveva essere di enorme robustezza, potenzialità fornita soltanto dall’assemblaggio di piú travi, tecnica che attualmente, sia pure in formato ridotto, dà origine alle travi lamellari.
Ogni stanga del grande argano poteva essere azionata anche da sei uomini, portandone perciò il totale a quasi un centinaio, numero di gran lunga maggiore di quelli impiegabili nelle gabbie di scoiattolo.
In questa seconda ricostruzione virtuale, l’apparato motore è costituito da un argano ad asse verticale al posto di una batteria di ruote calcatoie: il vantaggio consisteva nella possibilità di impiegare un numero maggiore di serventi e di poterne variare gli sforzi.
Le travi trasversali potevano essere fissate semplicemente per incastro, essendo il vero vincolo dato dall’enorme peso sovrastante, non di rado dell’ordine del centinaio di tonnellate.
che la sua fune di vincolo tramite una carrucola e un paranco a 5 pulegge, pentaspaston, piú due rinvii sia avvolta intorno a un asse delle ruote, la discesa lo porrebbe in rotazione con le relative ruote.
Un «giocattolo» micidiale L’elepoli, perciò, avanzerebbe, arrestandosi quando il cassone fosse a terra. A quel punto, però, scaricata l’acqua, riportato in alto il cassone e riempitolo con una cinquantina di secchiate, l’elepoli tornerebbe ad avanzare. Con due cassoni, poco piú grandi d’un frigorifero, l’andatura sarebbe risultata continua, bastando far scendere quello pieno mentre saliva quello vuoto. Dai nostri calcoli, seppur con ampia approssimazione, ricaviamo che la solita elepoli, a ogni calata, avrebbe percorso 8 m circa, a velocità bassissima, ma senza fermarsi mai! La supposizione sembrerebbe una mera illazione di chi scrive, se non vi
fosse fra gli automata di Erone un carrello triciclo semovente, mosso da un motore a gravità: un peso legato a una fune che termina avvolta intorno all’asse delle ruote. La discesa del grave avveniva lentamente, effettuandosi in una canna riempita di miglio, fatto fuoriuscire con deflusso variabile, cosí da regolare la velocità d’avanzamento. L’opera fu tradotta e pubblicata a Urbino nel 1553 da Bernardino Baldi, abate di Guastalla, e cosí recita in un suo brano: «Tutte quelle mobili prendono il moto dal hysplengio o contrappeso di piombo, comune al motore e al mosso è la corda, la quale ha uno dei capi legato al motore e l’altro al mosso; il mosso è l’asse attorno al quale s’avviluppa la corda. All’asse, o fuso, sono congiunte le ruote, di maniera che aggirato l’asse e sviluppata la corda, si girano anche le ruote appoggiate al piano». Sembrerebbe un giocattolo sofisticato, ma Erone costruí sempre armi micidiali, e mai giocattoli!
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molla... e tira! S
tando alla tradizione, Ctesibio nacque ad Alessandria nel III secolo a.C., da un barbiere che aveva la sua bottega vicino alla Biblioteca. Dai dotti clienti del padre, cominciò ad acquisire conoscenze variegate, fino a divenire uno dei massimi cervelli della mitica istituzione tolemaica. Le sue ricerche, riguardarono anche l’ambito militare, avendo elaborato una catapulta a molle di bronzo e una balista ad aria compressa. Ambedue sono tramandate in un testo di Filone di Bisanzio (il trattato sulle armi da lancio intitolato Belopoeica, 67, 28-73, 20, traduzione dell’autore), suo allievo e successore, che ne consente la ricostruzione virtuale. Ecco l’esegesi della prima: «Pertanto furono approntate squame di bronzo per la catapulta da tre spanne, o almeno cosí definita. In particolare vennero ricavate da lamiere di bronzo e una volta finite misuravano 12 dita di lunghezza – pari a una spanna (23 cm circa) – 2 di larghezza (4 cm circa) – e 1/12 di spessore (forse 1/2, 9 mm circa)».
Una macchina non convenzionale L’esposizione riguarda una catapulta non convenzionale, corrispondente a una tradizionale da 3 spanne, in grado cioè di scagliare dardi di 70 cm, azionata da due matasse nervine del diametro di 80 mm. L’equiparazione permette di determinare le componenti, pur disponendo solo di quella delle foglie di bronzo delle molle, definite squame, lunghe 23 cm, larghe 4 cm e spesse circa 9 mm. La costruzione si avvia dalla loro preparazione, in modo da poterle sovrapporre come nella lorica squamata, raddoppiandone perciò lo spessore, ferma restando la mobilità relativa di ciascuna. «Esse furono fuse del migliore rame rosso di cui si potesse disporre, accuratamente purificato e reiteratamente raffinato. In seguito in ciascuna mina di rame (436,2 g) furono fuse 3 dracme (3 x 4,36= 13,08 g) di stagno anch’esso minuziosamente purificato e raffinato piú volte».
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Per Ctesibio era fondamentale disporre di rame e stagno purissimi, rari allo stato naturale, essendo il titolo del bronzo da lui prescelto del 97% del primo e del 3% del secondo, quando si riteneva già puro rame al 95%. La particolare lega è ancora usata per realizzare molle di bronzo, ma una lieve variazione percentuale dei due metalli ne annulla l’elasticità!
La martellatura e poi la levigatura
Ricostruzione virtuale della catapulta a molle di bronzo. Si tratta, stando alle fonti disponibili, della prima applicazione delle molle ellittiche a balestra a piú foglie, il cui impiego perdura ancora come elemento elastico per le sospensioni dei veicoli pesanti, in particolare dei carri e delle carrozze ferroviarie.
A destra raro esemplare di nucleo di rame allo stato nativo: per la sua estrema facilità a ossidarsi, il rosso metallo si trova sempre sotto forma di composto, insieme a un gran numero di altri elementi. Nell’antichità si otteneva di discreta purezza soltanto dopo una serie di operazioni metallurgiche.
«Poi quando le squame erano forgiate e sagomate, assumendo le giuste dimensioni, veniva loro impartita una leggera curvatura tramite una matrice di legno. Dopo di ciò, si martellavano, a freddo, ininterrottamente per molto tempo, in maniera da renderle di spessore uniforme, lisce lungo il bordo e perfettamente levigate sulle facce maggiori, avendo cura di farle combaciare precisamente alla matrice. Quindi si assemblavano a coppie, collocandone le facce concave a contrasto fra loro, limandone con cura i bordi e fissandole l’una all’altra con perni». Ogni molla risulta composta da una coppia di due foglie arcuate tenute sovrapposte da graffe, con le concavità in opposizione, unite da perni passanti posti alle estremità delle foglie maestre: uguali per tutte le dimensioni, lo spessore e la curvatura. Per rendere quest’ultima uniforme si utilizzò una matrice di legno, una centina, alla quale si portarono a combaciare le foglie a forza di martellate. Al termine del procedimento seguiva la levigatura di ciascuna, per eliminarne qualsiasi sbavatura o irregolarità lungo i bordi e sulle facce, dovendo scorrere sulla sottostante con il minore attrito possibile. La connotazione risultante anticipava quella della molla ellittica, a doppia balestra, usata nei calessi o nelle carrozze ferroviarie. «In questa maniera le squame attingevano una elevata forza propria. Dunque, mediante una fusione piú splendente e brillante, si eliminava dal bronzo ogni scoria (segue a p. 43)
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la catapulta a molle Planimetria della ricostruzione della catapulta a molle di bronzo. L’architettura dell’arma, a eccezione del suo propulsore funzionante per deformazione a flessione di lamine di bronzo, è praticamente identica alle coeve catapulte a torsione.
I tre piedi dell’affusto sono stati immaginati irrigiditi da tondini di accoppiamento di ferro, posti in modo da formare un leggero e solido cavalletto facilmente ripiegabile e trasportabile, dettaglio suggerito implicitamente dallo stesso Filone.
La slitta della catapulta, per l’esigenza di mantenere le molle di bronzo il piú vicino possibile e saldamente vincolate fra loro e per evitare eccessive sollecitazioni al fusto al quale erano fissate, era piú stretta delle tradizionali, forse per la soppressione dei riporti laterali.
Le piastre di supporto delle molle erano realizzate in lamiera di ferro di adeguato spessore, accuratamente levigate per ridurre al massimo gli attriti con le estremità metalliche dei bracci. In prossimità dell’innesto al fusto vi era l’alloggiamento per le balestre.
All’estremità delle piastre di supporto delle molle stavano fissati i perni di rotazione dei bracci. Questi, essendo il fulcro del propulsore sottoposto a un rilevante sforzo, richiedevano perciò un cospicuo diametro.
I bracci, a differenza delle normali catapulte, non potevano essere interamente di legno, quale che ne fosse stata la durezza e resistenza, troppo indeboliti dal grosso foro necessario per la rotazione intorno al perno. Si devono perciò supporre di bronzo, per la sua piú facile e precisa lavorabilità.
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L’alloggiamento del verricello di caricamento era ottenuto mediante una coppia di assi di rinforzo, fissate lateralmente al fusto in maniera di aumentarne sensibilmente la robustezza.
L’albero del verricello, come quelli delle chiavi di arresto, terminava con due teste munite di foro rettangolare passante, in cui si inserivano le leve di manovra, fra loro perpendicolari.
Una leva di ferro, appena piú corta delle leve del verricello, fungente da becco, o dente complanare, di un cricco era fissata al fusto e impegnava i denti della ruota dentata, consentendone la rotazione nel solo verso del caricamento e bloccandola, invece, in caso di contro rotazione per rottura accidentale delle leve o di abbandono dei serventi.
Il caricamento dell’arma avveniva, come in tutte le tradizionali catapulte a torsione, tramite una corda fissata alla slitta e fatta avvolgere sul tamburo di un verricello, a sua volta fissato alla parte posteriore del fusto e munito di un cricco a ruota di non ritorno.
per cui diventava piú saldo e compatto. Le squame venivano poi martellate a freddo per molto tempo, schiacciandone la superficie per incrementarne la durezza». Per Filone la fusione deve apparire piú brillante del solito, dettaglio che per noi significa con temperatura superiore, unica garanzia della perfetta omogeneità del bronzo. La prolungata martellatura, poi, accresceva notevolmente la durezza superficiale delle foglie, eliminandone la residua porosità. «Stando disposte con le rispettive concavità opposte, come accennato, la molla era
collocata a fianco del calcagno terminale del braccio, il quale pertanto premeva contro le squame. Il braccio ruotava intorno a un perno di ferro, posto sulla faccia esterna di una staffa di ferro fissata con la sua estremità al telaio; la staffa supportava anche la molla per evitare che danneggiasse il telaio stesso. Un anello è posizionato contro la faccia del braccio e fissato a esso: attraverso un perno di ferro il braccio si muove, estendendosi dal suo alloggiamento sopra la staffa a forma di foglia d’edera». Ciascuna molla stava incastrata in una staffa di ferro a foglia d’edera, cioè d’una piastra a
Le leve di caricamento si devono immaginare rastremate verso le estremità e piú spesse al centro, offrendo cosí una razionale resistenza agli sforzi e un piú agevole maneggio ai serventi.
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tre lobi, sul maggiore dei quali sporgeva un perno. Inseritovi l’anello, fungeva da fulcro per il braccio, che ruotando schiacciava con il suo eccentrico terminale. «Allorquando il suddetto meccanismo era a punto, tirando indietro la corda arciera, il braccio logicamente ruotava intorno al perno di ferro e pressava la squama con il suo calcagno. Essendo questa pressata sulla sua convessità ed essendo vincolata con entrambe le estremità contro l’altra squama, si raddrizzava e raddrizzava pure l’altra squama che per metà aderiva alla staffa di ferro del telaio che la supportava. Cosí, caricando l’arma come si è descritto, le squame erano costrette a raddrizzarsi perché compresse insieme; ma nella fase di rilascio assumevano nuovamente
Il meccanismo di lancio Una volta messo a punto il congegno, tirando la corda arciera si ruotavano i bracci che, tramite l’eccentrico, schiacciavano le molle a doppia balestra. Queste finivano per deformarsi contro un’apposita piastra della staffa a edera e, quando ormai piatte, l’arma era carica, e una ruota ad arpioni la bloccava in sicurezza, come nelle catapulte tradizionali. Liberato il ritegno, le molle riassumevano istantaneamente la loro curvatura, spingendo
Per evitare che le molle schiacciate durante il caricamento dell’arma, sollecitate da due opposte direzioni, finissero col divaricarsi compromettendone il funzionamento, divenne indispensabile vincolarle fra loro con un robusto raccordo, che permettesse però, il passaggio della slitta: forse un ferro a forma di Pi greco.
pronte al tiro Ricostruzione virtuale delle molle a doppia balestra in posizione di utilizzo. Filone si sofferma a precisare che si sfilavano dalla loro sede con grande facilità, per essere riposte in un’apposita custodia. Il dettaglio sembra suggerire una cura per mantenerle a lungo in perfetta efficienza.
la loro originale configurazione, impressogli dalla matrice di legno. Liberandosi perciò con notevole forza spingevano il calcagno del braccio violentemente».
Le opposte semibalestre furono giuntate fra loro mediante un perno, passante e ribattuto, l’unico capace di assicurare una salda e duratura tenuta anche dopo innumerevoli cicli di schiacciamento e di espansione della molla.
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Le piastre di supporto delle molle dovevano essere fissate al fusto dell’arma con il massimo della solidità, per cui se ne deve supporre l’aderenza anche all’interno del solco a coda di rondine, con un apposito incastro per non ostacolarne il movimento.
con violenza i bracci che, tramite la corda, scagliavano il dardo. Filone sapeva che descrivendo un’arma tanto diversa dalle tradizionali, sarebbe stato oggetto di critiche e derisioni per cui volle fornire alcune basilari precisazioni: «Probabilmente quanto ricordato può sembrarti incredibile come è accaduto a molti altri. Essi non ammettono la possibilità che le squame, schiacciate fortemente dalla pressione del calcagno del braccio, siano capaci una volta liberate di riassumere la loro originale curvatura, restando al contempo sempre elastiche. (...) Si scusa pertanto il loro persistere nella medesima opinione, poiché non hanno approfondito con adeguati studi la
materia. La lavorazione richiesta per realizzare le suddette squame si è appresa dalla produzione di lame spagnole e celtiche. Quand’essi volevano saggiare la loro eccellenza, afferravano l’elsa con la mano destra e l’estremità opposta con la sinistra; quindi collocandola orizzontalmente sopra la testa tiravano verso il basso fino a far toccare alle opposte estremità le spalle. Successivamente, essi la lasciavano andare via di scatto, aprendo di colpo le mani. Appena liberata la lama si raddrizzava di nuovo, riassumendo l’originale configurazione, senza restare minimamente curvata. Sebbene essi ripetessero ciò frequentemente, le lame restavano dritte. Per appurare le ragioni del
La staffa trilobata, che a detta di Filone ricordava vagamente una foglia d’edera, suggeriva probabilmente quella connotazione essendo sagomata in modo di adattarsi meglio alla rotazione del braccio. Il perno, infatti, posto in corrispondenza della sua cuspide, gli consentiva un’escursione a forma di triangolo, tipica di tale foglia.
I perni intorno ai quali ruotavano i bracci, dovevano disporre di un bloccaggio trasversale per impedirgli di sollevarsi fino a sfilarsi, danneggiando cosí gravemente l’arma. Il bloccaggio si deve immaginare del tipo montato sui mozzi per frustrare l’uscita delle ruote, in pratica un chiodo piegato.
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perché ciò avvenga e di come sia possibile che quelle spade risultino tanto elastiche si sono compiute delle indagini. Dalle stesse si è scoperto per prima cosa che il ferro è eccezionalmente puro; in secondo luogo tanto magistralmente lavorato che dopo la tempra non rimane alcun difetto o deformità; il ferro [poi] risulta di una precisa tipologia non troppo dura né troppo flessibile, una giusta via di mezzo. Ciò premesso, (i pezzi) sono stati sottoposti a una lunga battitura a freddo, dalla quale ne deriva la resistenza. Vengono battuti con pesanti martelli o con poderosi colpi, e per la battitura violenta e perpendicolare assumono la forma (voluta), con penetrazioni profonde (delle modifiche), facendo ciò per incrementare la durezza (...). Pertanto si battano a freddo le squame da entrambe le facce rendendo le loro superfici molto piú dure; ciò non toglie che all’interno rimangano morbide, poiché (si tratta) di una battitura leggera incapace di penetrare in profondità. In definitiva saranno cosí composte di tre strati, due duri e uno al centro piú tenero. Il risultato conseguito sarà una maggiore resistenza (elasticità) come descritto in precedenza».
Un’arma affidabile ed efficace Completata l’esposizione circa la concretezza dell’elasticità della particolare lega di bronzo, Filone espone la riscontrata funzionalità dell’arma. «Adesso si esporrà una sintetica spiegazione circa la loro efficacia. Innanzitutto la costruzione di siffatte artiglierie si dimostra molto piú semplice delle altre dal momento che non hanno fori per le matasse, né modioli, né rinforzi di ferro. Inoltre si confermano di gran lunga piú resistenti e difficilmente danneggiabili rispetto alle altre poiché montano molle di bronzo e non di tendini. Ultimo, ma non per importanza, ostentano una gittata piú lunga e un impatto piú poderoso, prestazioni che permangono inalterate nel corso delle battaglie campali e navali non essendo soggette ad alcun deterioramento a causa delle precipitazioni atmosferiche. Niente piú di queste danneggia le matasse elastiche che quando si bagnano o si snervano non forniscono piú le loro tremenda energia.
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Non di rado, perciò, i motori vengono trattati con ogni precauzione e protetti con coperture per scongiurare qualsiasi degrado per i cambiamenti meteorologici. In simili circostanze il bronzo risulta impareggiabile poiché assolutamente immune a rotture e a degradi. Inoltre terminato l’impiego la molla a balestra può venire facilmente rimossa e custodita nell’apposito contenitore. Parimenti anche i bracci possono essere agevolmente rimossi dopo averne sfilato i relativi perni: in tal modo in ogni dettaglio l’arma si dimostra semplice e rapida da assemblare, nonché comoda da trasportare in marcia. Il motore a molla di bronzo che si è costruito ha questa connotazione». Un’arma ideale, in ultima analisi, per impieghi navali e campali, dove l’umidità dominava: non siamo però in grado di stabilire se in realtà trovò mai impiego operativo, o non restò una mera curiosità, presto dimenticata. Le fonti letterarie sono piú taciturne che mai e tra quelle iconiche, sempre rarissime in materia, ve ne è una sola che sembrerebbe avallarne l’adozione. In un curioso bassorilievo, custodito presso il Museo delle Navi di Magonza, è raffigurata una nave da guerra, con sperone ma senza remi e con due catapulte poste in batteria, di forma ampiamente compatibile con la descritta. In tal caso potremmo concludere che l’arma trovò impiego sui pattugliatori fluviali, unità prive di remi perché spinte dalla corrente o alate controcorrente, e che dovevano tirare di fianco, tra le boscaglie delle sponde, in un ambiente perennemente ad alto tasso di umidità.
Bassorilievo del Museo delle Navi di Magonza raffigurante una nave da guerra priva di remi e con pezzi in batteria, del tipo della catapulta a molle di bronzo.
una somiglianza significativa Prospetto frontale della ricostruzione virtuale della catapulta a molle di bronzo. Qualora le fosse stata applicata la scudatura frontale, con la necessaria apertura centrale per la slitta, avrebbe assunto una connotazione sostanzialmente simile a quella dei due pezzi raffigurati sulla nave del bassorilievo a fianco, che peraltro non sembrano appartenere ad alcuna tipologia nota.
Al di sotto delle due piastre porta molle, si deve immaginare un secondo raccordo a U, piú grande del superiore a Pi greco che, oltre a tenere unite le stesse, assolveva pure alla funzione di sospensione dell’arma su di un apposito perno. Questo a sua volta, fissato al cavalletto a tre piedi, ne permetteva un rapido brandeggio.
Appare estremamente probabile che per preservare meglio i delicati snodi dell’arma, dinanzi alle piastre fosse posta una sorta di scudatura, una lamiera, che nella ricostruzione virtuale non compare per non nasconderne i dettagli. In tal caso questa avrebbe avuto una forma rettangolare con un piccolo vano sul bordo superiore per il passaggio della slitta.
Dal momento che non si può immaginare alcun fine corsa per la divaricazione delle zampe del cavalletto, l’unica maniera per bloccarle simmetricamente e stabilmente consisteva nell’impiego di tondini di ferro con le estremità a squadro per entrare in appositi occhielli.
La zampa del cavalletto a tre piedi, supponendo un’arma smontabile dalle allusioni di Filone, doveva essere incernierata nella parte superiore, esattamente come nei cavalletti delle diottre, a un blocco di legno esagonale, sorreggente il perno di brandeggio.
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il mesolabio S
ulle origini del cosiddetto «Problema di Delo», quesito geometrico-matematico le cui molteplici soluzioni si sono rincorse per quasi due millenni, circolano numerose versioni. La piú nota è ambientata ad Atene, o, secondo altre versioni, a Delo, forse nel V secolo a.C., durante una furiosa pestilenza; l’altra, molto piú antica, a Creta all’epoca di Minosse nel II millennio a.C. L’ampia escursione cronologica della genesi del problema, ne conferma la trasformazione in mito per la sua risaputa rilevanza, che purtroppo possiamo solo intuire indirettamente. Dunque ad Atene il morbo infuria, evento frequente a causa delle carenze igieniche della città, che non dispone di una vera rete fognaria, ed è costipata dal punto di vista abitativo, con case affacciate su stretti vicoli. Un’immensa incubatrice batterica, pronta a esplodere a ogni incremento del caldo, della popolazione o della carestia, e sempre con altissima letalità. Stranamente, però, di interi nuclei familiari, che coabitavano in promiscuità, alcuni guarivano e altri neppure si ammalavano, smentendo cosí l’idea già serpeggiante del contagio, ma avallandone un’altra. Veder cadere al proprio fianco i consanguinei restando sani, ricordava il veder cadere i commilitoni adiacenti restando illesi, colpiti a caso da frecce piombate dall’alto, e suggerí analoghi dardi mortiferi, scagliati da un Apollo adirato per qualche offesa. Pertanto, aggravandosi la moria, non restò che impetrarne la giusta penitenza all’oracolo di Delo, tempio al dio particolarmente caro, nella sua isola natale. La deputazione ateniese, partita trepidante, tornò, dopo pochi giorni, trionfante: Apollo, infatti, per porre fine alla strage voleva soltanto che gli duplicassero l’altare, un semplice cubo di pietra. Fu grande la gioia per una richiesta tanto modesta e immediata la sua soddisfazione, un altro cubo di lato doppio. Ma, poiché le morti non cessavano, vi fu una
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nuova supplica, che ottenne il medesimo responso: Apollo voleva sempre un altare di volume doppio e non ottuplo, come si era stupidamente fatto raddoppiando il lato [23= 8]. E questa volta la deputazione tornò avvilita e scoraggiata: qual era il lato da dare a un cubo perché fosse di volume doppio di uno noto?
Una tomba per Glauco A Creta, invece, stando a un antico poeta tragico, re Minosse, vedendo la costruzione della tomba per il figlio Glauco, un cubo di pietra, e trovatala giusta di forma, ma angusta di volume, ne ordinò il raddoppio, moltiplicando per due il lato. Decisione criticata perché determinava un cubo ottuplo di quello di partenza. In una lettera a Tolomeo III, uno dei direttori della Biblioteca di Alessandria, Eratostene di Cirene (276-194 a.C.), fornisce un ragguaglio su entrambe le leggende. La missiva forse comunicava l’invenzione del mesolabio, lo strumento per la soluzione analogica del problema, poiché la ricerca di quella migliore dal punto di vista matematico durò ancora a lungo, tanto che se ne trova traccia persino tra le carte di Leonardo da Vinci! Venendo al problema propriamente detto, in base alla nostra attuale definizione, altro non fu che la ricerca di un metodo per estrarre una particolare radice cubica e, piú in generale, una qualsiasi radice cubica, operazione all’epoca di estrema complessità, al punto che soltanto pochissimi dotti ne venivano a capo. Plausibile che tanti cervelli vi si cimentassero per mero spirito speculativo? Vitruvio, pur non fornendo alcuna risposta all’interrogativo, rievocò il problema nella sua opera (il trattato De architectura), menzionando fra i risolutori Archita di Taranto ed Eratostene: «Ciascuno di loro è pervenuto, per vie diverse, alla soluzione del problema che Apollo a Delo aveva chiesto nel suo responso: costruire un’ara cubica, il cui volume fosse doppio della sua al presente; solo cosí quelli che erano nell’isola sarebbero
Veduta di Delo (Isole Cicladi, Grecia). Il problema geometrico-matematico che porta il nome dell’isola sarebbe nato dal responso dell’oracolo di Apollo a una supplica degli Ateniesi, perché in città la peste cessasse di mietere vittime.
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stati liberati. Archita vi pervenne per mezzo dei semicilindri, ed Eratostene, tramite il mesolabio». Lo strumento inventato da Eratostene, stando alle notizie di cui disponiamo, sembra in breve diversificarsi in due distinte tipologie, pur insistendo entrambe sulla stessa logica geometrica. La prima, piú sofisticata e precisa, constava di tre telai rettangolari scorrevoli in un’apposita guida e perciò fra loro sovrapponibili, che, collocati nella esatta posizione, fornivano il valore richiesto mediante una sottile corda secante. Strumento delicato e di precisione, adatto perciò agli studiosi e ai dotti. La seconda, invece, era costituita da un regolo variabile a F, una sorta di grosso calibro a corsoio a due becchi, fisso il superiore e mobile l’altro, ma senza alcuna gradazione, né sul corpo, né sui becchi. Per ragioni imperscrutabili, ma inverosimili, essendo ben nota la sua totale avversione verso tutti i congegni e gli strumenti pratici, questo secondo mesolabio fu attribuito a Platone, e al Dürer poi, pur tradendo proprio per sua semplicità d’impiego un’origine alessandrina,
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dove la scienza lavorava di concerto con la tecnica. Non volendo entrare troppo nel calcolo analogico, per i curiosi della materia può essere interessante il sintetico ragguaglio sul funzionamento dei due strumenti supportato dalle ricostruzioni virtuali e dai relativi schemi geometrici (vedi box a p. 52).
Ma a chi era destinato? Sebbene entrambi i mesolabi funzionassero sulle similitudini di tre triangoli rettangoli, il fornire la soluzione solo spostando il becco su di un crocifilo, rendeva l’impiego del secondo tipo notevolmente piú semplice, ideale per qualsiasi officina e laboratorio, a differenza del primo, idoneo per la sola ricerca. La domanda circa il loro impiego, a questo punto, s’impone ancora: se il mesolabio a telai poteva in qualche modo tornare utile agli studiosi, cosa ne avrebbero fatto i tecnici di quello a becchi? E, piú in generale, a cosa poteva loro servire di conoscere la radice cubica di un numero? Ovviamente nessuno ci ha tramandato l’esplicita risposta al quesito, ma questa, tuttavia, ha lasciato sufficienti indizi per essere
Nella pagina accanto appunti di Leonardo da Vinci sulla duplicazione del cubo, contenuti in due fogli del Codice Atlantico. In basso isola di Delo. Resti del tempio di Apollo, uno dei luoghi sacri piú importanti dell’antica Grecia.
individuata con certezza. Da tempo i tecnici impegnati nelle costruzioni militari, in particolare di navi e artiglierie, avevano stabilito di adottare per modello canonico il prototipo che, in seguito a innumerevoli modifiche e perfezionamenti, avesse ostentato prestazioni superiori alla media. Pertanto le dimensioni di tutte le sue componenti sarebbero state
pedissequamente ripetute, ricavandone cosí la certezza del funzionamento ottimale, mentre, per realizzare esemplari maggiori o minori, si sarebbe dovuto adottare il criterio seguito dagli scultori di rispettare le esatte proporzioni dell’originale. Ma per costruire una balista destinata a scagliare, con la medesima forza, una palla di peso doppio di quella canonica, quali proporzioni e quali dimensioni si sarebbero dovute rispettare? Ed essendo in pratica costruzioni modulari come i templi, con modulo pari al diametro della matassa elastica, quale diametro occorreva dargli?
La formula di Filone Empiricamente, come ci ha tramandato Filone di Bisanzio, da tempo si era trovato che il valore del diametro, misurato in dita (19 mm) e moltiplicato tre volte per se stesso, corrispondeva al peso della palla, espresso in dracme (4,32 g) e incrementato di un decimo: quindi una balista destinata a scagliare una palla del peso di 100 dracme, poco meno di mezzo chilo, doveva montare due matasse elastiche di circa 8 dita, ovvero del diametro di 80 mm. Tradotto nell’attuale enunciazione, il diametro delle matassa doveva essere pari alla radice cubica del peso della palla, con la tolleranza di un decimo. In formula: d=1.1 3√ p, dove d=diametro in dita e p=peso in dracme Ecco quindi la stringente necessità all’origine del calcolo della radice cubica e, piú ancora,
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mesolabio a telai Nel mesolabio a telai, in corrispondenza dello spigolo superiore sinistro del primo telaio, stava un perno la cui distanza dal regolo di base – a – corrispondeva alla grandezza di cui si voleva conoscere la radice cubica, misurata con l’unità di misura – b –, un segmento sul lato destro del terzo telaio, compreso tra un altro perno e la base. Mantenendo tesa una fune tra i due perni, quando i punti di intersezione tra le diagonali del secondo e terzo telaio con i lati interni del primo e del secondo telaio coincidevano con la fune, i loro segmenti – x – ed – y – compresi fra le intersezioni e la base, erano i due medi proporzionali fra – a – e – b – ed – y – era pure la radice cubica di – a –, risultato ricavato dalla proporzione fra i tre cateti minori di tre triangoli rettangoli simili, secondo questi passaggi: a:x = x:y = y:b x=y2/b a/x=y/b a b/y2=y/b posto b=1 a=y3 y=3√a
Ricostruzione grafica del mesolabio a telai e, in basso, lo schema geometrico del suo funzionamento.
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In alto i due modelli di mesolabio in un disegno tratto da una traduzione del De architectura di Vitruvio, realizzata da Daniele Barbaro nel XVI sec.
data l’allora vigente ignoranza, di uno strumento per ricavarla analogicamente, il mesolabio. Va, infine, osservato che i due mesolabi descritti, sebbene derivanti dal medesimo ragionamento geometrico, sembrano essere l’esito di due diverse scuole di pensiero, di cui forse si rintracciano le peculiarità nelle diverse maniere d’indagine e, forse, pure nelle diverse motivazioni. Gli Alessandrini, infatti, si avvalevano per i loro studi geometrici del disegno proporzionale, tracciato su carta di
Ricostruzione virtuale del mesolabio a F e, a destra, lo schema geometrico del suo funzionamento.
papiro mediante riga e compasso, derivandone perciò errori modesti, limitati allo spessore delle linee. Un metodo pratico, di tipo analogico, destinato a fornire preziosi supporti alla coeva tecnologia. Di tipo logico, invece, il metodo degli studiosi greci, che, non disponendo del costoso papiro, si avvalevano di schizzi puramente esemplificativi, non in scala, spesso tracciati sulla sabbia (Archimede fu ucciso mentre era intento a uno studio del genere). Una differenza a prima vista marginale, ma foriera, in realtà, di vistose diversità: paradossalmente, infatti, mentre dai disegni in scala si ottenevano direttamente risultati approssimati, ma alla portata di tutti, da quelli esemplificativi se ne ottenevano di straordinaria precisione, ma a beneficio di un ristrettissimo ambito di dotti. Utili agli impieghi tecnici i primi, alla sola conoscenza scientifica i secondi. Prende cosí ad accentuarsi la divisione tra scienza pura e applicata, tra filosofi meccanici e vil meccanici, che si protrarrà fin quasi l’età contemporanea.
mesolabio a F Nel mesolabio a F si procedeva, invece, tracciando preliminarmente su un piano due rette perpendicolari fra loro (gli assi cartesiani erano ancora di là da venire): portando il becco mobile sull’asse verticale in modo da fargli staccare un segmento – a –, compreso tra l’intersezione e l’origine, e sull’asse orizzontale un segmento – y –, fra l’intersezione del suo spigolo interno e l’origine, facendo coincidere lo spigolo interno del becco mobile con l’asse verticale, il suo becco staccherà sull’asse orizzontale un segmento – b –, compreso fra l’origine e l’intersezione, che postolo uguale a 1 rendeva – y – la radice cubica cercata.
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ferri di cavallo e staffe A
ll’affermarsi della cavalleria contribuí l’adozione di due modeste invenzioni, ambedue di origine remota, che ebbero come risultato la maggiore stabilità sulla sella: il ferro di cavallo e la staffa. A tutt’oggi, non vi sono elementi che permettano di stabilire dove e quando, in Occidente, si avviò la ferratura degli zoccoli dei cavalli. Di certo non avvenne in regioni aride per via dei loro terreni duri e compatti, tanto che nel Nordafrica, ancora oggi, gli animali impiegati nei lavori agricoli ne sono privi. Pure in Grecia la ferratura fu del tutto sconosciuta, nonostante il vasto impiego dei cavalli in pace e in guerra, e conobbe un impiego minimo presso i Romani, la cui cavalleria legionaria mai divenne un’arma autonoma, con cariche e scontri, e rimase sempre fanteria montata. Dalle fonti, infatti, traspare un’assidua attenzione riservata agli zoccoli dei cavalli, reputati basilari per il benessere dell’animale e per il suo impiego ottimale. Sappiamo che nei casi di scheggiature o ferite si applicavano alla zampa stivaletti in pelle per mantenervi a contatto impiastri medicamentosi, e non di rado anche dei sandali dalla suola di ferro sotto gli zoccoli, detti ipposandali, destinati secondo alcuni studiosi a preservarli dall’usura eccessiva nei lunghi spostamenti. Un distico di Catullo, che qui riportiamo, viene
Qui accanto ipposandalo romano in ottimo stato di conservazione, sebbene la bandella di fissaggio anteriore (a destra) risulti leggermente piegata. Simili attrezzi testimoniano la cura con la quale si accudivano le cavalcature, prima che venisse introdotta la ferratura vera e propria.
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ritenuto un’allusione alla ferratura degli zoccoli, ma, in realtà, rievoca la forte presa esercitata nel fango da una siffatta calzatura, adattata anche ai bovini e ai muli adibiti al traino dei carri: Et supinum animum in gravi derelinquere caeno Ferream ut soleam tenaci in voragine mula (E abbandonare un cuore supino in pesante melma come la mula lascia nel denso fango la suola di ferro; Carme XVII, vv. 25-26).
Un’ipotesi poco plausibile L’ipotesi preservativa, comunque, appare poco plausibile, dal momento che i cavalli, allo stato brado, si muovono continuamente su terreni misti senza alcun danno o usura di sorta agli zoccoli. Peraltro un cavallo cosí calzato non avrebbe potuto marciare a lungo, e meno che mai, sarebbe riuscito a farlo senza scivolare, ad andature veloci e su pendenze accentuate. Mongoli, Berberi, Persiani e numerose altre etnie, percorrevano enormi distanze su terreni duri e rocciosi sempre in groppa a cavalli sferrati, senza
A destra emblema a mosaico raffigurante l’auriga di una delle fazioni del circo con il suo cavallo, dalla villa di Baccano, presso Campagnano di Roma. Età severiana (193-235 d.C.). Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
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eccessive conseguenze per i loro zoccoli. Appare assurdo, perciò, vedere negli ipposandali delle calzature da viaggio o ferri di cavallo archetipali! L’archeologia ha ritrovato un discreto numero di questi sandali, che, per la peculiare connotazione, sono risultati sempre di facile interpretazione e ricostruzione. In linea di massima consistevano, come accennato, in una spessa piastra di ferro, dai bordi rialzati, munita di un anello anteriore e di un gancio posteriore, nonché di due o piú alette laterali con risvolto esterno, per le stringhe di fissaggio. Le alette poi, in ferro dolce, con un solo colpo di martello si ripiegavano sullo zoccolo, cosicché, insieme alle stringhe, impedivano alla sottostante piastra di spostarsi o di staccarsi. Il frequente rinvenimento di ipposandali frammisti ai resti di armi o di proietti, non può essere casuale; e dobbiamo perciò associarli alle operazioni campali piuttosto che ai trasporti civili, e con una motivazione nettamente diversa da quella dei ferri di cavallo, propriamente detti. La spessa suola metallica, infatti, a differenza del ferro, copriva completamente la pianta dello zoccolo, impedendogli perciò qualsiasi contatto diretto col suolo: una soluzione pessima per l’aderenza in marcia, ma indispensabile per attraversare i terreni cosparsi di triboli, i micidiali chiodi a quattro punte che ferivano militi e cavalli in modo insidioso, bloccandoli come le odierne mine antiuomo.
Per proteggersi dai triboli Calzando un ipposandalo, invece, la cuspide verticale del tribolo non riusciva a trapassarne la suola, mentre il sovrastante peso del cavallo lo faceva affondare nel terreno, rendendolo innocuo e per l’animale e per gli uomini che lo seguivano ricalcandone, scrupolosamente, le orme. Risulta dunque logico concludere che gli ipposandali fossero applicati ai cavalli, ai muli e ai buoi in prossimità o in previsione dei triboli e
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Una staffa in bronzo di fabbricazione cinese. VI-VII sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.
In alto, a destra staffa in ferro. Produzione avara, X sec. Gyor (Ungheria), Xántus János Múzeum. L’introduzione, o la diffusione, di questi accessori viene da molti studiosi attribuita ad Attila, che avrebbe deciso di farvi ricorso dopo la sconfitta patita ai Campi Catalaunici nel 452.
subito tolti al cessare della minaccia, sciogliendo le stringhe. Tornando alla ferratura propriamente detta, per alcuni studiosi rimonterebbe, sia pure a livello embrionale, al VI secolo a.C., incentivata dalla disponibilità del ferro e dalla capacità di lavorarlo. I Galli e forse i Celti, pertanto, sembrerebbero essere stati i primi
piú forti delle punte Ricostruzione grafica di un tribolo romano, il chiodo con tre cuspidi di sostegno sempre a terra e la quarta vulnerante sempre alzata verticalmente.
a usarla per proteggere gli zoccoli dei cavalli, come provano i rinvenimenti in tombe nelle quali cavallo e cavaliere furono sepolti insieme. Dopo la conquista della Gallia i Romani appresero quella tecnica e forse la perfezionarono, ma non l’adottarono diffusamente per la ricordata marginalità della cavalleria nelle legioni. Solo a partire dall’VIII secolo si registra un sensibile aumento del ricorso alla ferratura, e rimonta al 910 il primo testo con riferimenti ai ferri e ai chiodi che, spesso, i cavalieri usavano portare con sé. Il ricorso alla ferratura crebbe con l’avvento della cavalleria pesante, che, costretta all’adozione di cavalli di grande taglia per sostenere i ponderosi cavalieri corazzati, richiese una maggiore stabilità sul terreno. La ferratura si trasformò cosí in una esigenza tattica, ma ancora non divenne un uso generalizzato. Quest’ultimo si ebbe con le crociate, quando lo scontro basato sull’urto impose al sistema d’arma lancia-uomodestriero la massima saldezza e coesione. Ma solo nel XV secolo si cominciò a studiare la maniera migliore di ferrare i cavalli e la mascalcía ebbe una sorta di riconoscimento
ufficiale. Ciononostante, ci vollero ancora molti decenni di ricerche, prove e tentativi perché la ferratura venisse intesa innanzitutto come protezione dello zoccolo, senza alterare le sue funzioni naturali, e, secondariamente, come ausilio per migliorare l’aderenza, applicandosi perciò anche ad altri animali da traino.
Una svolta decisiva Piú ancora della ferratura degli zoccoli, fu l’introduzione della staffa a consentire di stare in sella in maniera meno precaria, favorendo perciò il combattimento per urto con il cavallo lanciato e, quindi, implicitamente, l’avvento effettivo della cavalleria. L’invenzione della staffa è attribuita a un gran numero di popoli, in epoca imprecisata e comunque remota, concomitanza che sembra suggerirne piuttosto una invenzione multipla, compiuta cioè autonomamente da piú individui, distinti cronologicamente e distanti geograficamente. Diverso è il caso della sua adozione sistematica in ambito militare. A chi si deve l’introduzione in Occidente di quell’umile accessorio della sella? E, soprattutto, quando accadde? Particolare del passaggio nei ganci di fissaggio della stringa di bloccaggio dell’ipposandalo.
Gancio di fissaggio posteriore di un ipposandalo romano, per la stringa di bloccaggio allo zoccolo del cavallo.
Spessa piastra di ferro, fungente da suola sotto lo zoccolo del cavallo.
Ricostruzione grafica di uno zoccolo di cavallo che calza un ipposandalo, debitamente allacciato.
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La staffa mutò drasticamente la maniera di cavalcare, la sella, il morso e persino i cavalli, imprimendo all’equitazione civile e militare un evidente salto di qualità. Grazie al suo impiego divennero possibili prestazioni altrimenti precluse come, per esempio, tirare con l’arco in corsa, azione in cui eccellevano Unni e Mongoli. La procedura, infatti, implicava una posizione eretta e stabile, a gambe tese e a briglia sciolta, per mantenere una distanza abbastanza costante dal terreno, indispensabile per la corretta mira.
Movimenti piú agili
Un travaglio, macchina per trattenere e sostenere i cavalli durante la ferratura.
La risposta che trova concordi il maggior numero di studiosi ne attribuisce la paternità ad Attila (406-453), sebbene non si abbiano al riguardo conferme esplicite. Il re degli Unni forse maturò l’apprezzamento osservando che le tribú presso le quali già si usava la staffa erano piú rapide e attive nei saccheggi e, per giunta, mostravano di sopportare piú a lungo la fatica prolungata. Perciò, dopo il deludente esito della battaglia combattuta contro Flavio Ezio ai Campi Catalaunici (località francese da alcuni identificata con Châlons-sur-Marne, da altri con Troyes) nel 452, riorganizzando le sue orde, impose a tutte l’adozione della staffa, divenendone in tal modo se non l’ideatore, almeno il propugnatore! Quanto alle origini della staffa è logico anticiparla di molti secoli, essendo all’epoca già da tempo ampiamente usata presso i Mongoli, tanto piú che oltre a fornire un saldo appoggio consentiva una congrua postura fisiologica. Non è un caso che Galeno e Ippocrate accennino ai problemi che colpivano le gambe dei cavalieri, costrette a penzolare per ore dalla sella, inerti e distese con il corpo ripiegato all’indietro.
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Per non parlare, poi, dei vantaggi nel maneggio della lancia, dello scudo pesante e dell’armatura, consentiti solo dalla sua adozione. O della facilità con cui permise di montare in sella e di smontarne con l’armatura indosso, operazioni in precedenza estremamente complicate, e spesso persino pericolose. E grazie alla staffa si ampliò anche il raggio operativo e, per conseguenza, la velocità media degli spostamenti. È significativo al riguardo constatare che, nel corso dei trasferimenti piú lunghi, i nomadi, non di rado, con i piedi nelle staffe riuscivano anche a dormire in sella, puntellandosi con una forcella fissata sull’arcione. Persino sotto il profilo del comfort la staffa offrí non pochi vantaggi: nei climi nordici, per esempio, imbottita e allargata, proteggeva il piede dal freddo, per cui i postiglioni, dovendo montare il primo cavallo delle diligenze, se ne avvalsero sempre. I popoli germanici, sconfitti dagli Unni e dai Mongoli, adottarono per derivazione la loro staffa, divenendone perciò i veri diffusori nell’intero Occidente e nella parte orientale dell’impero romano. Non a caso le prime testimonianze scritte relative al suo impiego sono bizantine, e si leggono in un documento redatto nel 602 sotto l’imperatore Maurizio, seguite da attestazioni simili dei Franchi e dei Vichinghi, ai quali si devono pure i rari esemplari arcaici pervenutici. E a testimonianza dell’importanza acquisita dall’accessorio, non si può non ricordare Carlo Magno, il quale volle essere sepolto con una staffa da cavallo.
Frecce senz’arco P
ochi anni fa, presso la cittadina abruzzese di Magliano dei Marsi, lungo la via Tiburtina Valeria – l’arteria piú importante che collegava Alba Fucens a Roma – i resti di un sepolcro monumentale sono stati attribuiti alla tomba apprestata per il re Perseo di Macedonia (212165 a.C. circa). Sconfitto dal console Lucio Emilio Paolo nel 168 a.C., nella battaglia di Pidna, in Tessaglia, il sovrano era stato condotto prigioniero a Roma e quindi esiliato proprio ad Alba Fucens, dove morí pochi anni piú tardi, trovandovi, dunque, onorata sepoltura. La battaglia pose fine alla terza e ultima guerra macedonica per via della disastrosa sconfitta subita dai Macedoni, ma fu vinta a caro prezzo dai Romani. In quello scontro risolutivo, infatti, tanto Livio (XLII, 65) che Polibio (XXVII, 11) evidenziano le forti perdite inflitte ai legionari da una nuova arma da lancio individuale, la kestrosphendone. Si trattava di un ibrido fra l’arco e la frombola: del primo conservava la freccia, ma con la cuspide del giavellotto – in greco kestros, nome
col quale i Romani la definirono brevemente – e del secondo la fionda, sempre in greco sphendone. In seguito dell’arma non si trova piú menzione e solo nel IV secolo ricompare qualcosa di simile, la plumbata, che però non richiedeva alcun propulsore per il lancio. A differenza del kestros, oltre alla descrizione di Renato Flavio Vegezio, e dell’Anonimo del De rebus bellicis, ne sono stati rinvenuti vari esemplari, piú o meno integri.
Una lunga assenza Stando a Polibio, dunque, la kestrosphendone: «era stata inventata durante la guerra contro Perseo. Aveva una cuspide di ferro lunga due palmi (pari a circa 15 cm), divisa in due parti uguali, un puntale e una gorbia. In questa si infilava un’asta di legno, lunga una spanna In alto acquerello che ricostruisce un momento della battaglia di Pidna, combattuta nel 168 a.C. e vinta dal console romano Lucio Emilio Paolo contro il re Perseo di Macedonia.
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l’arma segreta di perseo Ricostruzione grafica del dardo di una kestrosphendone, un’arma da lancio utilizzata per la prima volta dall’esercito macedone nella battaglia di Pidna.
La cuspide del dardo (kestros) era in realtà una cuspide di giavellotto, quindi piú lunga e piú pesante con un alloggiamento per l’asta a gorbia, leggermente conico e spaccato per favorirne l’incastro.
La gorbia bloccava l’asta in essa infilata mediante un ribattino, spesso di rame e quasi sempre passante, in rari casi solo penetrante. L’innesto doveva assicurare il perfetto allineamento tra la cuspide e l’asta e doveva risultare piú robusto che in un normale dardo per sopportare la sollecitazione laterale impressa dalla rotazione.
(23 cm circa) e spessa un dito (1,9 cm circa). In prossimità del suo centro vi stavano fissate tre piccole alette di legno, molto corte. Le due corde della fionda erano di lunghezza diversa, e si collocava il dardo fra di esse per mezzo di una cintura, per liberarsi piú facilmente. Durante la rotazione, quando entrambe le corde erano tese, il dardo restava fermo, ma, al momento del lancio, una delle due corde si allentava e il dardo, violentemente espulso, partiva come una palla di piombo, e per l’energia del tiro, feriva profondamente chi incontrava nella sua corsa».
Tre alette per l’equilibrio Il racconto di Livio, a sua volta, cosí descrive la kestrosphendone: «Questa era un nuovo tipo di freccia inventata per questa guerra. Si trattava di un ferro di lancia lungo due palmi, montato su di un’asta di legno lunga un mezzo cubito (22,5 cm circa), e spessa un dito. Per conservare l’equilibrio era dotata di tre alette, come quelle che si mettono alle frecce: il dardo si poneva in mezzo a una fionda, che aveva due corregge di diversa lunghezza, mantenendolo in equilibrio nella maggiore
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Gli impennaggi erano costituiti da tre alette sottili di legno, collocate in posizione piú avanzata rispetto alla coda dell’asta per meglio bilanciare la preponderanza della cuspide dell’arma durante il suo volo.
delle due tasche della fionda; sfuggiva, quindi, per il movimento rotatorio impresso alla corda, e partiva come una palla». I due brani, per molti studiosi interdipendenti, concordano per un dardo lungo 38 cm circa, dei quali 23 per l’asta e circa 15 per la cuspide di ferro, alquanto piú lunga delle usuali, che non eccedevano la decina di cm. L’adozione della gorbia, una sorta di cono cavo in cui entrava l’asta che un ribattino passante bloccava, era una delle due modalità praticate per il fissaggio della cuspide, consistendo l’altra nell’infiggere nell’asta il lungo codolo terminale del puntale. La prima maniera risultava molto piú robusta, poiché non indeboliva l’asta con il foro longitudinale, ma, anzi, la rafforzava con quella sorta di collarino, ed era preferita per proietti di maggiore energia o, al contrario, di piccole dimensioni, incompatibili con il codolo. Le lunghezze medie del codolo, come della gorbia, possono reputarsi pari a quella del puntale, ovvero di circa 5-6 cm per le frecce, di 7-8 per i dardi di catapulta da un cubito. Per la freccia in questione si ricavano 7,5 cm che, considerando la massa della punta,
la tecnica di lancio La cuspide del dardo era inserita in un’apposita tasca di cuoio, fissata alla corda lunga C e alla breve corda di raccordo B. Questa, a sua volta, andava a unirsi alla corda corta A mediante una sorta di cappio, in cui era inserita la coda del dardo, che veniva perciò trascinato nella rotazione.
Ricostruzione grafica di una kestrosphendone. In basso modalità di lancio del dardo della kestrosphendone.
La corda lunga C, esattamente come nella fionda pastorale, era quella che, al momento del lancio, dopo la rotazione, veniva lasciata dal tiratore, facendo perciò aprire la fionda e partire il dardo per la sua tangente.
La corda corta A, diversamente dalla fionda, non terminava fissata alla tasca, ma a un anello o a un cappio nel quale si inseriva la coda del dardo fino all’impennaggio. Al momento del lancio, restava nella mano del tiratore, imprimendo cosí l’ultima spinta propulsiva.
C
B
A La rotazione che la fionda impartiva al dardo serviva a imprimergli una sufficiente velocità iniziale, piú o meno analoga a quella impressa da un arco. Ma, a differenza di questo, non era fornita dalla cessione di energia potenziale elastica accumulata durante la messa in tensione precedente, ma dall’energia cinetica prodotta dalla velocità di rotazione.
assicuravano una leggera preponderanza anteriore, ottimale per il corretto assetto di volo. L’asta, a sua volta, risulta di 19 cm, per una lunghezza complessiva di circa 30, compresi i 7,5 che, appuntiti, finivano nella gorbia. Circa le tre alette, fungenti da governali, sia Polibio che Livio le ricordano poste al centro, senza però precisare se dell’asta o dell’intera freccia. La razionalità porta a preferire la prima interpretazione, ritrovandosi altrimenti ad appena 4 cm dietro la cuspide, collocazione assurda per
l’aerodinamica e il bilanciamento. Le alette, perciò, si sarebbero trovate a 10-12 cm dall’estremità posteriore dell’asta.
Il legno per fare a meno della faretra Quanto al ribadirne la piccolezza, si deve immaginare relativa non alla loro lunghezza, ma alla larghezza, cioè a quanto esse fuoriuscivano dall’asta, che una serie di considerazioni porta a stimare in un paio di cm, pari a quella delle penne delle tradizionali frecce. Il dettaglio, poi, che fossero di legno non deve ritenersi
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terra
giavellotti e dardi cuspidi di giavellotti e dardi di catapulta con innesto sull’asta a gorbia
cuspidi di ferro con innesto a codolo
peculiarità che sembra ricercata proprio con l’allungamento della cuspide. La fionda, che sarebbe piú esatto chiamare propulsore flessibile, ricordata da entrambi gli storici, doveva tale anomalia alla diversa connotazione del proietto. Sulle modalità di realizzazione non tutti gli studiosi del settore concordano e l’ipotesi piú condivisa la vuole di un’unica correggia, ma spartita in tre segmenti. Il primo, A, la cui estremità restava nella mano, terminava con un piccolo cappio, o un anello, nel quale si infilava la coda della freccia. Il secondo, B, lungo poco meno della freccia, terminava a sua volta con una sorta di tassello di cuoio, contro il quale si sistemava la punta della freccia. Il terzo, C, infine, piú lungo del primo, terminava nella mano e si mollava per il lancio (vedi disegno a p. 61). Supponendo una correggia di 1 m e una rotazione di 5 giri al secondo, al momento dello sgancio la freccia avrebbe avuto una velocità di 30 m/sec. Per dedurne le prestazioni pratiche è interessante ricordare che frecce di circa 50 g scagliate dagli archi impattano, a 50 m/sec, a 150 m, mentre palle di piombo di 120 g scagliate dalle fionde, impattano, a 30 m/sec, a 120 m. È probabile, quindi, che fra questi due estremi vi fosse la potenzialità balistica del kestros.
Un eccellente rapporto costo/beneficio
derivante da esigenze aerodinamiche, bensí meccaniche, di robustezza nel trasporto, evitando cosí la faretra. L’accorto dimensionamento della cuspide, metà al puntale e metà alla gorbia, la posizione delle alette e la lunghezza dell’asta, sembrano scaturire da una stringente condizione di equilibrio in fase di volo, indispensabile per il corretto assetto dopo il lancio per rotazione. Il peso complessivo è stato calcolato in circa 120 g, oltre il doppio delle frecce normali,
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A prima vista, sembrerebbe un’arma tecnicamente scadente rispetto all’arco tradizionale, ma, per valutarla correttamente, occorre esaminarne, come per tutte le armi, il rapporto costo/beneficio, che ostenta a suo vantaggio varie peculiarità. Innanzitutto il costo, modestissimo e incomparabilmente minore di quello di un mediocre arco. Poi la validità, sintesi della leggerezza, resistenza e minimo ingombro. Infine la letalità degli impatti, per il suo maggior peso. Non sappiamo se l’arma nei secoli che seguirono conobbe ulteriori impieghi, ma, considerando che i Romani in genere disdegnavano le armi da lancio individuali, lasciandole ad appositi reparti ausiliari, si deve presumere che entrò in una lunga fase di quiescenza, dalla quale uscí, come accennato, col nome di plumbata.
La plumbata era una freccia, con una lunga cuspide di ferro, in ciò simile alla precedente ma un po’ piú lunga, circa 50 cm, munita presso la sua estremità posteriore, poco prima dell’innesto con l’asta di legno, di un ingrosso di piombo fusiforme o sferico di varie dimensioni, non eccedente i 200-300 g. L’arma acquistava cosí una discreta violenza d’impatto, pur essendo scagliata solo con la mano. Essendone stati ritrovati alcuni esemplari, ovviamente limitati alla sola parte metallica, con le descrizioni delle fonti è stata possibile una puntuale ricostruzione.
I «martiobarboli» di Vegezio Stando a Renato Vegezio Flavio di «dardi piombati, chiamati “martiobarboli”…[erano armate] due legioni di seimila effettivi di stanza in Illiria (…) capaci di scagliarli con rara potenza e abilità. (…) Questi legionari portarono a termine con grande capacità tutte le guerre ingaggiate, tanto che Diocleziano e Massimiliano (…) a premio del loro valore disposero che avessero gli appellativi di Gioviani ed Ercoliani e avessero rango preminente su tutte le altre legioni (…) erano soliti portare all’interno degli scudi cinque dardi
piombati che, se lanciati con la dovuta efficacia, consentivano a essi di svolgere la funzione degli arcieri» (Lib I, XVII). A sua volta l’Anonimo del De rebus bellicis cosí la descriveva: «questo tipo di proietto, che appare dotato di penne come la saetta, solitamente non viene scagliato né dall’impulso dell’arco, né da quello della ballista; lanciato invece dall’impeto e dalla forza della mano, piomba sul nemico a breve distanza (…) È fatto di legno lavorato a mo’ di saetta, su cui viene accuratamente conficcato un ferro forgiato a forma di spiedo; l’estremità cava [gorbia] di questo ferro sporge un po’ (…) Nella parte superiore di questo proietto sono fissate le penne per accrescerne la velocità, lasciando al di sopra delle stesse tanto spazio quanto basta alle dita di chi l’impugna». Da entrambe le descrizioni risulta evidente la somiglianza della plumbata con il kestros, lasciando propendere per una derivazione ottenuta tramite una ulteriore semplificazione. Abolita la fionda e appesantito il kestros con un pezzo di piombo, la plumbata veniva scagliata roteando il braccio teso, con una velocità prossima ai 20m/sec, provocando per la sua massa gravi lesioni nei colpiti, spesso mortali.
la plumbata I resti di una plumbata (a destra) e la sua ricostruzione grafica (in basso).
La coda della plumbata era costituita da una breve asticciola di legno, necessaria soprattutto per sostenere l’impennaggio, indispensabile per stabilizzarne il volo in modo da percuotere il bersaglio sempre di punta. La cuspide della plumbata era forgiata ad arpione, in modo da renderne difficoltosa e dolorosa l’estrazione, mettendo in tal modo fuori combattimento il colpito, anche quando non in pericolo di vita.
La massa centrale, generalmente di piombo, serviva ad accrescere l’energia cinetica residua al momento dell’impatto, quindi a incrementare la letalità dell’arma.
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dominare il grande
blu
acqua
la messa a punto delle prime tecniche di immersione permise all’uomo di rendere ancor piú articolato il suo rapporto con l’acqua. e, ostacolo da superare o elemento vitale indispensabile, il «sesto continente» fu uno degli ambiti in cui piú attive furono le sperimentazioni di scienziati e ingegneri
Rilievo dal palazzo nord-occidentale di Assurnasirpal II a Nimrud raffigurante alcuni uomini che nuotano con otri utilizzati come riserve d’aria per prolungare la permanenza sott’acqua. IX sec. a.C. Londra, British Museum.
acqua
quando l’uomo si fece subacqueo
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L
a constatazione che si potesse nuotare anche sott’acqua, trattenendo il respiro e restando ad appena pochi metri di profondità, fu senza dubbio contemporanea alla stessa pratica del nuoto. Non si trattò della risposta naturale a uno stimolo ludico, ma di un’esigenza connessa a vario titolo con la pesca, con la navigazione, e, soprattutto, con il recupero di funi impigliate o di oggetti caduti sul fondo. Anche se certamente non dovette mancare il piacere di gettarsi a capofitto da una piccola altura in quel liquido elemento senza riportarne alcuna conseguenza, un gesto spesso scelto come metafora del passaggio dalla vita terrena a quella dell’oltretomba. Le prime testimonianze di attività svolte prevalentemente sott’acqua, sono le esostosi uditive, ovvero le escrescenze ossee che si formano nel condotto uditivo in seguito a immersioni in acque fredde. Se ne sono trovate le tracce persino nel cranio di un uomo di Neandertal di circa 50 000 anni fa. Tuttavia, per rintracciare riferimenti certi a esperienze subacquee, occorre attendere il IX secolo a.C., quando su alcuni bassorilievi assiri vennero scolpite le immagini di uomini che nuotano in un fiume con in bocca un cannello collegato a un otre, fissato sotto il torace con una robusta cinghia. Si trattò, forse, di un rudimentale boccaglio, per poter respirare l’aria contenuta nell’otre e compressa dall’acqua. Se i sommozzatori assiri respiravano dall’otre l’aria compressa dall’acqua per mezzo di un cannello, l’idea che, costruendolo molto piú lungo e facendolo fuoriuscire dall’acqua, fosse possibile respirare restando immersi non dovette richiedere tempi lunghi, se non addirittura anticipare l’impiego degli otri come antesignane «bombole». Una canna forata o uno stelo svuotato tenuti ben aderenti alle labbra mentre si restava sott’acqua erano perfettamente in grado di assolvere tale funzione, trasformandosi cosí in rudimentali aeratori o, con una definizione oggi piú diffusa,
primitivi snorkel. Aristotele (384-322 a.C.) menziona l’esistenza di un aeratore di quel tipo, usato dai coevi subacquei per respirare durante le immersioni a piccola profondità, e lo paragonò alla proboscide dell’elefante con queste parole: «D’altra parte, quale che sia la grandezza della proboscide, non è per l’elefante meno necessaria alla vita sulla terra o sott’acqua. Infatti i sommozzatori utilizzano alcune volte degli strumenti per respirare e poter restare lungo tempo sul fondo del mare, aspirando l’aria per loro tramite, nella stessa maniera che la natura ha dato in cosí grande dimensione al naso dell’elefante, per un impiego analogo. Quando gli elefanti vogliono camminare nell’acqua, lo alzano fuori dalla stessa, e respirano cosí; il tubo dell’elefante, come detto, è il loro naso».
Pescatori di rame Che l’impiego di antesignani aeratori fosse diffuso già dal V secolo a.C. tra i subacquei, e in particolare tra quelli che oggi definiremmo incursori, lo confermano le molte menzioni e i numerosi riferimenti ad azioni di sabotaggio sottomarino. Nel 480 a.C., per esempio, presso il promontorio dell’Artemisio un certo Scilla di Scione, che andrebbe considerato un uomo rana ateniese, riuscí a tranciare le corde delle ancore della flotta persiana costringendo di lí a poco a sostituirle con catene. Quasi nello stesso ambito storico si colloca anche un’altra narrazione singolare, che ricorda delle incredibili estrazioni minerarie sottomarine, nella fattispecie di rame. Piú che di estrazione si dovrebbe parlare di raccolta di noduli metallici, scoperti peraltro dopo il 1868, di straordinario valore per la purezza del minerale. È ancora Aristotele a riferire della singolare pesca, precisando però di scriverne solo per sentito dire: «C’è del rame sottomarino a due tese [3,60 m] di
In alto un elefante africano avanza nell’acqua utilizzando la proboscide come una sorta di naturale aeratore. Nella pagina accanto particolare di un rilievo raffigurante il recupero dal mare di una statua di Ercole, dal tempio di Ercole a Ostia. Età imperiale. Ostia Antica, Museo Ostiense. In basso noduli sottomarini di rame. Della raccolta del minerale in questa forma in età antica abbiamo testimonianza da Aristotele.
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tempi di permanenza sott’acqua (rispettivamente sempre inferiori ai 20 m e al paio di minuti), non richiedevano alcuna decompressione in fase di risalita.
E per zavorra una grossa pietra Si impongono tuttavia alcune osservazioni: dal momento che il blocco respiratorio va dall’istante della completa immersione in acqua fino a quello dell’uscita, per aumentare il tempo disponibile per l’attività sul fondo si
profondità nel mare. Ne sono stati tratti [i quantitativi necessari per la fusione della] statua che è a Scione [presso Corinto] nel tempio vecchio di Apollo, e i cosiddetti oricalchi di Fenco [in Arcadia], sui quali è scritto “Ercole di Anfitrione presa Elide dedicò”. Chi scava quel rame diventa di vista acutissima, e se non ha palpebre gli ricrescono». In epoca ancora piú recente, come certifica una epigrafe su una lastra marmorea rinvenuta presso il Portus Tiberinus, saranno i Romani a dotarsi di un corpo di urinatores, cioè di subacquei specializzati in recuperi da navi affondate e, all’occorrenza, in incursioni. Il loro curioso nome derivava dall’arcaica voce verbale latina urinari, cioè immergersi in acqua. In base alle scarne testimonianze disponibili, sembrerebbe che gli urinatores indossassero sopra una sorta di rozza muta un cappuccio, fungente da antesignano elmo da palombaro. La sua cuspide terminava con un lungo budello, la cui estremità superiore era costantemente tenuta fuori dall’acqua tramite un adeguato galleggiante, simile in sostanza a un aeratore. Di un casco siffatto riferiscono, sia pur confusamente, alcuni scrittori romani, stigmatizzandone l’infima impermeabilità, per via della rudimentale chiusura intorno al collo. Le immersioni finora ricordate, per la modestia delle profondità raggiunte e per la brevità dei
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devono ridurre al massimo sia quello di discesa che quello di risalita. Essendo la densità del corpo umano inferiore a quella dell’acqua, ne consegue che per immergersi occorre aumentarla, risultato che si ottiene grazie a una zavorra adeguata, che determina perciò una rapida discesa verso il fondo; una zavorra di cui liberarsi per riemergere, risucchiati verso l’alto. Le due fasi contemplano un unico elementare mezzo, cioè una grossa pietra: trattenuta dal sub, ne provoca la discesa rapida; abbandonata sul fondo la risalita quasi altrettanto rapida. Per evitare di perderla veniva legata a una fune che ne consentiva il recupero dopo l’emersione del sommozzatore, fornendogli sia la direzione piú breve di risalita sia la possibilità di farsi issare in superficie suo tramite. Ancora Aristotele in uno dei suoi Problemata, descrisse il vaso da immersione o lebete, una caldaia di bronzo o di rame, usata per riscaldare l’acqua. Semplice è il suo funzionamento: il sommozzatore dopo avervi infilato dentro la testa, come in un elmo da palombaro, si immergeva; l’acqua esterna vi comprimeva l’aria contenuta e facendole equiparare la sua pressione consentiva al sommozzatore di inspirarla senza sforzo fino all’esaurimento dell’ossigeno. Se i lebeti minori garantivano, nella migliore delle ipotesi, poche boccate d’aria, incrementando di ben poco l’autonomia del subacqueo, sempre che fosse riuscito a mantenere il recipiente con la bocca perfettamente orizzontale, quelli maggiori, fissati con cinghie passanti sotto le ascelle, consentivano alcuni minuti di respirazione a piccole profondità. Volendo esemplificare, l’aria contenuta in un pentolone di 100 l, di circa 60 cm di diametro per 40 di altezza, si riduce a soli 33 l a 20 m di profondità, consentendo cosí un paio di minuti di respirazione. Va però osservato che la spinta di galleggiamento di un simile vaso, trascurandone il peso proprio è di circa 100 kg, da vincere con una piú grave zavorra, che, tra l’altro, deve anche contribuire a mantenerlo in assetto verticale. Tra i reperti di Ercolano vi è un grosso recipiente del genere, grezzo e svasato realizzato con lamiere di bronzo rivettate fra
In alto ricostruzione ipotetica della muta degli urinatores, i sommozzatori attivi in età romana. Nella pagina accanto contenitore in lamiera di bronzo rinvenuto a Ercolano che, solitamente interpretato come caldaia, potrebbe invece essere stato utilizzato per effettuare immersioni. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante Alessandro Magno che si cala in mare all’interno di una campana di vetro. XVI sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.
loro, identificato per una caldaia: non avendo tuttavia supporti d’appoggio ma soltanto resti di maniglie, appare invece plausibile ipotizzare che si tratti proprio di un vaso da immersione con cinghie fissate alle stesse.
Le norme sui recuperi Una serie concomitante di considerazioni fanno concludere che col lebete si potevano raggiungere profondità dell’ordine dei 10-15 m, piú raramente di 20 e oltre, quote che, pur avendo respirato aria compressa, non chiedevano alcuna decompressione nell’emersione per la scarsa profondità e la brevissima permanenza. Prestazioni che trovano conforto in una precisa giurisprudenza relativa ai recuperi dei beni affondati e al relativo compenso. Per il diritto romano, infatti, ciò che per forza maggiore veniva gettato in mare, quasi sempre per l’infuriare di una tempesta che metteva a repentaglio la sicurezza della nave, non poteva considerarsi un vero abbandono, mancando la libera volontarietà della rinuncia alla sua proprietà, per cui non apparteneva automaticamente a chi se ne fosse in qualche modo impossessato. Volendo attualizzare somigliava allo smarrimento di un oggetto, che non per questo diventa proprietà di chi lo trova. Pertanto, quando ciò avveniva, non determinava alcuna perdita di possesso, e quanto gettato, o caduto, in mare restava pur sempre del suo legittimo proprietario, e la pratica dell’usucapione pro derelicto operata da terzi restò sempre illegale, come con chiarezza recitavano le norme 41.1.9.8 del Digesta. La mercanzia scagliata in mare per alleggerire
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la nave in una tempesta restava, quindi, di piena proprietà del padrone che non la gettò per abbandonarla, ma per salvarsi, per cui chiunque se ne fosse appropriato con una qualsiasi modalità avrebbe commesso un furto. Una connotazione criminale che si estendeva anche al recupero di oggetti sbattuti a riva dalle onde e perciò di ignota provenienza. Per il diritto romano gli unici a poterne reclamare il possesso erano i legittimi proprietari, che potevano tentare il recupero dei beni naufragati, una facoltà ribadita da una legge promulgata da Antonino Pio (138-161) e riportata da Ulpiano, giureconsulto romano del III secolo (Digesta 47.9.12). La norma scaturí dall’esigenza di porre fine ai conflitti giuridici determinati, da un lato, da una indeterminazione sul possesso dei beni naufragati recuperati e, dall’altro, dal voler tutelare i proprietari da eventuali razziatori di mercanzie, solo in apparenza abbandonate.
Premi proporzionali alla profondità La Lex Rhodia de iactu tentò pertanto di fissare chiare norme in materia, entrando in sottili questioni di diritto che sembrano confermare la frequenza di tali eventi. Pertanto è significativo che una norma della Lex Rhodia de iactu prescrivesse per il recupero dei preziosi affondati quale compenso per gli urinatores, una tariffa legata alla profondità degli interventi: dalla riva a 0,5 m, spettava loro la decima parte del valore; fino a 4 m, un terzo; fino a 8 m, la metà. È verosimile che per profondità maggiori, forse fino a 25 m, il compenso fosse contrattato di volta in volta. Intorno alla metà dell’VIII secolo quelle norme furono in qualche modo riprese sotto Leone III a Bisanzio, rientrando in alcune precise disposizioni per la navigazione, i Nomoi Nautixoí. Cosí in merito ai compensi per i sommozzatori e i palombari in questi termini: «Se dal fondo del mare di otto tese [15 m circa] vengano tratti oro, argento o quant’altro, chi lo recupera abbia la terza parte. Da un fondo di quindici tese [25 m circa], chi lo recupera abbia la metà per il rischio della profondità del fondale». Al di là del significato, peraltro abbastanza chiaro, quel che resta piú interessante è
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appunto la normativa sui recuperi subacquei e sui relativi indennizzi che, come accennato, dimostrano la relativa frequenza sia delle perdite che dei recuperi. In almeno un caso, quello inerente a una nave romana affondata nei pressi del porto di Mandrague, sulla costa nord occidentale di Giens, scoperta nel 1967 su di un fondale compreso fra i 18 e i 20 m, le attività archeologiche permisero di riportare in superficie una buona parte del carico, circa 600 anfore, disposte in origine su tre strati, in una stiva lunga una quarantina di metri e larga una decina. Per la regolarità dello stivaggio fu agevole far ammontare il trasporto originario a circa 10 000 anfore simili, delle quali però non vi era ormai alcuna traccia. La presenza nei pressi del relitto di numerose pietre, come quelle usate per zavorra dagli urinatores e l’osservazione che la flora marina, particolarmente abbondante, era cresciuta dopo la scomparsa di gran parte delle anfore, furono interpretate come altrettanti indizi dell’avvenuto recupero effettuato poco dopo l’affondamento. Potrebbe, se mai, stupire il troppo ricorrente naufragio su fondali molto bassi, ma bisogna ricordare che la navigazione, fin quasi al XIX secolo, avveniva soltanto a vista, di capo in capo, non esistendo alcuna possibilità di calcolare con discreta precisione la posizione della nave. Quindi nessuna imbarcazione si allontanava piú di un miglio dalla costa, anche per sfuggire alla costante insidia dei corsari, e vi atterrava sistematicamente sul far della sera, per cui gli affondamenti inevitabilmente si concentravano proprio in questa ristretta fascia, dai fondali alquanto modesti.
Un’immagine del relitto individuato nel 1967 nei pressi del porto di Mandrague (Francia). È stato calcolato che avesse a bordo un carico di 10 000 anfore circa, che fu in larga parte recuperato dopo l’inabissamento.
i ponti galleggianti
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n alternativa al discusso ponte sospeso, è stato di recente proposto un progetto di ponte galleggiante per lo Stretto di Messina, non privo di vantaggi, ma, forse, non del tutto originale. Motivate ragioni, infatti, lasciano credere che un’opera simile sia stata costruita sullo stesso braccio di mare, nel 251 a.C., dal console Lucio Cecilio Metello, il quale, sconfitti i Cartaginesi espugnando Palermo, si trovò a disporre di un centinaio di pachidermi africani. Un bottino suggestivo e degno di sfilare nel
Un ponte di barche realizzato dai soldati romani per attraversare il Danubio, incisione di Pietro Santi Bartoli per l’opera Colonna Traiana eretta dal Senato e Popolo Romano all’Imperatore Traiano, pubblicata a Roma, nel 1673, dall’erudito Giovanni Pietro Bellori. La struttura appartiene alla categoria dei «ponti d’equipaggio», di cui si conserva una dettagliata descrizione nell’Anabasi di Alessandro dello storico greco Flavio Arriano.
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ponte di navi La chiglia delle triremi era, in genere, a 1,5 m sotto la linea di galleggiamento, per cui, utilizzandole per formare un ponte, si potevano accostare solo alle sponde rocciose, che, per la loro altezza, richiedevano rampe d’accesso e di uscita e molto inclinate.
suo trionfo a Roma, dove gli esotici animali erano ancora ignoti, a patto di poterveli portare... Poiché sarebbe stato impossibile farli viaggiare via mare, essendo i proboscidati troppi, troppo pesanti – 4-5 t ciascuno – e troppo voraci – 3 q di cibo al giorno – per le navi di cui Metello disponeva (e, per giunta, di carattere irascibile, con intuibili conseguenze a bordo), sarebbe stato piú facile condurli a Roma sulle loro zampe. Occorreva, però, attraversare lo stretto, ed escludendo dunque l’impiego di imbarcazioni, mercantili o militari, s’imponeva un ponte galleggiante, mai fino ad allora gettato di tali dimensioni. Plinio il
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Sebbene le coperte delle triremi, affiancate fra loro, già costituissero un ponte, per renderlo idoneo a sopportare i carichi non omogenei in transito, vi si fissavano sopra numerose funi parallele, ancorate e tesate fra le opposte rive, e, su queste, si collocava il tavolato.
Vecchio, per la verità, parla di varie zattere precisando che «furono 142 o, come alcuni dicono, 120 gli animali trasportati su zattere che Metello aveva fatto costruire con file di botti unite fra loro» (Storia Naturale, III, 6).
250 botti per una decina di elefanti Le botti dei Romani avevano una capacità di 200 l circa e, poste sotto i tronchi di una zattera, ne avrebbero incrementato la portata
Lo Stretto di Messina fotografato dal capoluogo siciliano.
Le funi destinate a sostenere il tavolato, e, al contempo, a mantenere affiancate le navi, erano saldamente ancorate alla riva di spiegamento e tesate dalla riva opposta, alate con poderosi paranchi.
propulsione, sarebbe stata facilmente portata alla deriva e non necessariamente verso la costa calabra. Inoltre, sarebbe stato necessario ripetere il traghettamento almeno una dozzina di volte! Appare dunque piú ragionevole, come molti studiosi ritengono, ipotizzare un sistema di zattere collegate fra loro che, procedendo da entrambe le sponde, distanti 3200 m fra Gazirri e Punta Pezzo, una volta congiunte, avrebbero formato un ponte galleggiante sul cui impalcato, in tutta sicurezza, sarebbero transitati gli elefanti, i carriaggi dell’esercito e gli stessi legionari. La struttura si sarebbe mantenuta stabile grazie a una rete di ancoraggi, alcuni fra le zattere e la riva, altri fra le stesse e il fondale, oscillante lungo tale direttrice fra gli 80 e i 120 m. In tutti i casi, si sarebbero utilizzate funi non eccedenti i 200 m di una normale gomena, ottenendo cosí un ponte galleggiante solo piú lungo dei tanti da oltre due secoli correntemente adottati nelle operazioni campali.
Il passaggio dell’Ellesponto
in ragione di 2 q ciascuna: per trasportare una decina di elefanti per volta, ne sarebbero dunque occorse almeno 250, una quantità reperibile, ma difficile da assemblare solidamente. Una zattera di 10 x 25 m, per esempio, le avrebbe viste disposte in file da 10 x 25 righe: si sarebbe ottenuto un natante appena idoneo al carico, ma ingovernabile in quelle acque, la cui corrente raggiunge e spesso supera i 2 m/s. Una zattera priva di
Alla tipologia, infatti, appartennero i due ponti gettati per ordine di Serse sull’Ellesponto, nel 480 a.C., presso Abido, dove la distanza fra le due sponde è di circa 1200 m. Stando a Erodoto, la loro costruzione richiese complessivamente 674 navi, fra triremi e pentecontori: «360 dalla parte del Ponto Eusino, 314 dall’altra, obliquamente rispetto al Ponto, ma secondo la corrente dello stretto, affinché questa mantenesse in tensione le funi: dopodiché gettarono ancore enormi, sia verso il Ponto, per via dei venti che soffiano dal largo, sia verso ovest e l’Egeo contro i venti di Zefiro e Noto. In tre punti fra le pentecontori
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lasciarono un varco di passaggio, perché volendo con imbarcazioni leggere si potesse tanto navigare verso il Ponto che dal Ponto entrare nello stretto. Ciò fatto, da terra tesero i cavi, avvolgendoli intorno ad argani di legno, senza piú separare l’impiego delle funi, ma destinando a ciascun ponte due cavi di lino bianco e quattro di papiro. Identici erano lo spessore e la bellezza delle funi, ma in proporzione quelle di lino erano piú grevi: pesavano un talento per cubito. Congiunte le due rive, segarono tronchi di legno in misura pari alla larghezza della struttura portante e li posero in fila sopra i cavi in tensione; allineati uno accanto all’altro, li fissarono, di nuovo, insieme. Infine vi misero sopra fascine di legna, che distribuivano anch’esse, per bene, e sopra le fascine pressarono la terra e sui due lati del ponte alzarono uno steccato, perché gli animali e i cavalli non si spaventassero a vedere sotto di sé il mare» (Storie, VII, 8-10). Sebbene Erodoto non lo dica, quelle navi si devono supporre strettamente affiancate fra loro: larghe fra i 5-6 m, avrebbero formato un ponte di 1500 m le prime e di 2000 m le seconde, entità congrue all’ampiezza dello
ponte di otri
stretto tenendo conto della concavità impressa ai ponti dalla corrente. È interessante osservare che Persiani, Assiri e Greci gettavano i loro ponti galleggianti in maniera diversa dai Romani: posizionavano, infatti, gli scafi – barche o navi che fossero –, bordo contro bordo, poggiando sulle loro coperte le gomene sottostanti all’impalcato, per ripartire i carichi in moto. I Romani, invece, distanziavano alquanto le imbarcazioni, mantenendole allineate con funi correnti fra le due rive e tesate con paranchi, trasformandole in piloni galleggianti. Su di esse collocavano l’impalcato e la transenna (cancellorum tutamen), che contribuiva a irrigidire la struttura comportandosi come una moderna trave reticolare di ferro.
Con la poppa in avanti Circa lo spiegamento, questa è la puntuale descrizione che si legge in Arriano (storico greco che scrive nel II secolo d.C.): «A un comando le barche sono fatte scendere con la corrente, con la poppa in avanti, la direzione è governata da una barca a remi che le manovra in posizione. Quando sono posizionate, cesti piramidali di vimini ripieni di sassi vengono
Gli otri venivano fissati sotto una sorta di griglia, mantenuta in posizione da varie funi parallele, tese fra due rive. Su questa struttura galleggiante si disponevano, uno a fianco all’altro, fusti di piccoli alberi ottenendo cosí un tavolato.
Disegno di un ponte di otri, da una edizione del De rebus bellicis.
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Oltre alle funi trasversali, le singole portiere erano mantenute in posizione da ancore a monte, ottenute in genere con ceste di pietre, nonché con altre funi diagonali fissate alle sponde.
affondati per trattenerle. Appena una imbarcazione viene ancorata, un’altra viene accostata con la prua verso la corrente, a una distanza sufficiente per assicurare una forte base per le sovrastrutture; poi alcune travi vengono rapidamente appoggiate di traverso tra una imbarcazione e l’altra con sopra un tavolato per renderne rigida la struttura» (Anabasi di Alessandro, V, 7). Ponti del genere, costruiti con apposite barche e attualmente definiti «ponti d’equipaggio», conobbero vasto impiego nell’esercito romano. Uno di essi è raffigurato in maniera particolareggiata sulla Colonna Traiana (vedi l’illustrazione a p. 71). Anche i Romani realizzarono, sia pure saltuariamente, ponti galleggianti con navi: uno enorme, di oltre 4
km, fu fatto spiegare nel 39 da Caligola, fra Baia e Pozzuoli, utilizzando battelli da carico e fu cosí ricordato da Svetonio: «Fece costruire tra Baia e la diga di Pozzuoli, che separava uno spazio di circa tremila e seicento passi, un ponte formato da navi da carico, riunite da tutte le parti e collocate all’ancora su due file; poi le si ricoprí di terra dando a tutto l’insieme l’aspetto della via Appia. Per due giorni di seguito non la smise di andare e venire su questo ponte» (Vite dei Cesari, Caligola).
In soccorso di Senofonte Vi era ancora un altro tipo di ponte galleggiante, definibile «pneumatico», non sostenuto da imbarcazioni, ma da otri o botti, in pratica dall’aria che contenevano. Ne possediamo due descrizioni, che, essendo distanziate da quasi otto secoli, ne confermano sia la validità che la persistenza d’impiego. Nella prima Senofonte rievoca un episodio del 340, quando i suoi mercenari si trovarono costretti fra un grande fiume e il nemico. Al suo stato maggiore angosciato sul da farsi, si presentò un uomo di Rodi che cosí parlò: «Signori, io posso farvi passare il fiume, 4000 opliti per volta: basta che mi
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Incisione ottocentesca raffigurante il ponte di barche allestito a Roma, all’altezza del porto fluviale di Ripetta (oggi non piú esistente), per il ritorno nell’Urbe di papa Pio VII, il 24 maggio 1814 (il pontefice era stato deportato dopo la scomunica della Francia di Napoleone, che aveva annesso la capitale ai territori dell’impero). Roma, Museo Napoleonico.
forniate quel che vi chiederò, oltre a 1 talento come compenso (26 kg circa d’argento)». Alla domanda su che cosa gli occorresse, rispose: «Mi servono 2000 otri. Vedo che da queste parti ci sono molte pecore e capre e buoi e asini. Una volta scuoiati, basterà gonfiare le pelli per consentire un facile passaggio all’esercito. Poi mi serviranno le corregge che usate per le bestie da soma: con esse terrò stretti gli otri uno all’altro e ormeggerò ciascun otre appendendoci una pietra e poi lasciandola colare al fondo come se fosse un’ancora. Quindi taglierò il fiume con la fila degli otri che legherò a entrambe le sponde. Infine vi getterò su sterpaglie e, al di sopra, terriccio. Vi accorgerete che con questo marchingegno non annegherete: ogni otre potrà reggere due uomini senza affondare, mentre gli sterpi e il terriccio serviranno a non scivolare» (Anabasi, III, V, 8-11). Anche in questo ponte le portiere sono ancorate al fondale con pesanti sassi e sostengono un impalcato ligneo superiore coperto di terriccio per agevolare il transito dei cavalli, all’epoca senza ferri.
Otri gonfi d’aria Nel De rebus bellicis (opera di uno scrittore romano anonimo del IV o V secolo sulle macchine da guerra, n.d.r.), un uguale ponte è
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proposto con finalità tattica con queste parole: «Con pelli (...) accuratamente cucite, si confezionano otri della grandezza di tre piedi e mezzo, in modo che, quando questi otri, insufflati d’aria, si saranno gonfiati, non formino protuberanze; al contrario il loro rigonfiamento dovrà produrre una forma piatta, distendendosi in modo uniforme; gli otri saranno collegati l’uno all’altro con cinghie attaccate ai lati nella parte inferiore, mentre, nella parte superiore, uncini posti su un lato, saranno agganciati ad anelli posti sull’altro; in questo modo gli elementi collegati tra loro prendono la forma di un ponte». «Questa stessa opera, grazie all’impeto della corrente, si estenderà piú facilmente fino all’altra riva, in senso obliquo al fiume: una volta fissati pali di ferro sulle due rive e stese corde robuste nella parte centrale sotto gli stessi otri (per sostenere il peso di coloro che vi passano sopra) e nelle parti laterali sopra gli otri (per motivi di stabilità), questa struttura offrirà in breve tempo libera facoltà di attraversamento di un fiume con un sistema di passaggio nuovo e originale. Dobbiamo inoltre avvertire che è opportuno stendere coperte sulla superficie degli otri, sotto i piedi di chi passa, affinché le pelli scivolose per il tipo di lavorazione non pregiudichino la stabilità del procedere» (De rebus bellicis, XVI).
laghi di Rugiada S
ulla piana di Telese, ad appena 50 m slm e a ridosso dei ruderi delle mura della Telesia romana, iniziano le pendici di monte Acero, un tozzo rilievo conico che, con i suoi 736 m, sovrasta l’intera contrada, separato dai contrafforti del massiccio del Matese dalla netta incisione erosa sul versante orientale dal torrente Titerno. Una connotazione ideale per esaltare potenzialità difensive passive di tipo arcaico e, infatti, il luogo non sfuggí alla visione tattica dei Sanniti, che ne fecero il sito ideale per la collocazione di una delle loro maggiori fortificazioni. Tecnicamente si tratta, e i cospicui ruderi lo lasciano facilmente intuire, di una cerchia apicale, che si sviluppa intorno alla cima bicuspide, con un circuito di oltre 3 km di mura poligonali, alte in origine 3-4 m di media, e provviste di un paio di varchi. Per molti studiosi la cinta appartenne alla Telesia sannita, ricostruita a valle dai Romani al termine delle guerre. L’ipotesi, suffragata dal vistoso arroccamento, a una piú ponderata riflessione e proprio per tale impervia ubicazione non sembra congrua a un abitato stabile, ma, al massimo, a un ricetto di ragguardevoli capacità, un recinto per salvaguardare greggi e uomini dalle stragi e dalle razzie belliche. Una struttura ostativa, in definitiva, certamente di enorme sviluppo, ma non per questo diversa dalle centinaia di matrice sannita e italica, disseminate sulle propaggini degli Appennini e delle Alpi. Recinti, ricetti, cerchie poligonali, arce, castellieri, e ancora altre denominazioni persino piú saccenti, che però nulla aggiungono alla comprensione della loro funzione, in ogni caso connessa con una belligeranza rudimentale. Appare, infatti, difficile attribuirgli tattiche d’impiego meno rozze e resistenze ossidionali piú prolungate, dal momento che sono sprovviste persino del requisito basilare per un uso di quel genere: la disponibilità di un’adeguata riserva d’acqua. Le concavità artificiali, peraltro di modesto volume e immancabili tra quelle cerchie, pur essendo state sistematicamente interpretate
come altrettante conserve per la raccolta e la conservazione dell’acqua, lasciano fondati dubbi sul reale apporto, quale che fosse il contesto cronologico. Non esistendo fonti che garantissero il reintegro dell’acqua prelevata, infatti, l’accumulo dipendeva esclusivamente dalla pioggia, convogliata alla meno peggio, e dalla tenuta dell’impermeabilizzazione di fango o argilla. Ma quanti giorni di sopravvivenza avrebbero garantito ad armenti e uomini chiusi in quelle cerchie cisterne tanto arcaiche?
Acqua per gli uomini e gli animali La fame, infatti, non comprometteva la resistenza né degli uni né degli altri: il pascolo non mancava all’intorno e gli stessi animali, acuendosi l’inedia, si sarebbero trasformati in alimenti! Ma nessun aiuto adeguato sarebbe venuto dalle piogge in quelle regioni rare e misere in estate, la stagione della guerra e delle razzie, mentre si sarebbe avuta un’evaporazione costante e cospicua, con una conseguente e grave decurtazione della conserva, pur senza considerare l’abbeverata degli animali. Che, tuttavia, non era affatto trascurabile: una vacca da latte beve circa 200 litri al giorno, un bovino o un cavallo circa 50, un maiale almeno 20 e solo 10, si fa per dire, una pecora, quantità minima equivalente a quella ritenuta indispensabile per un uomo.
Resti di una cerchia di mura poligonali di epoca sannitica sul monte Acero, nella Valle Telesina (Campania).
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Un modesto assembramento di rifugiati e di bestiame, pertanto, di concerto col calore e le dispersioni, avrebbe prosciugato i circa 300 mc di una conca del genere, in meno di un paio di settimane. Acqua scarsa per quantità e ributtante per qualità, soprattutto dopo i primi giorni, quando la conserva si trasformava in una fangosa pozzanghera e la fortificazione in trappola. Ma fu realmente cosí? Nell’antichità classica, sfruttando un unico fenomeno, si conoscevano, da secoli, almeno due modi per estrarre l’acqua dall’aria in discreta quantità, una procedura apparentemente «magica» ai nostri occhi. In realtà, tutti ne abbiamo quotidiana esperienza, specialmente in estate, quando giudichiamo l’accattivante freddezza di una bibita dal velo d’acqua intorno al suo contenitore; o quando, dopo una notte stellata trascorsa all’aperto, la nostra auto somiglia al mattino a un pesce appena pescato; o, ancora, restando a confabulare nella stessa auto in pochi minuti se ne appannano i vetri, lasciando colare piú di un rivoletto! Acqua estratta, in tutti i casi, dall’aria, che sempre ne contiene, ma in quantità variabili.
Ostacolare il moto dell’aria Definendosi «punto di rugiada» la temperatura limite sopra la quale il vapore nell’aria è alla saturazione e, sotto la quale, si condensa in minute goccioline sulle superfici piú fredde, la produzione di acqua per deumidificazione fu denominata «stagno di rugiada» se ottenuta con ampie conche e «pozzo ad aria» se in alte torri. Al di là delle etichette, si trattava, in pratica, di lambire o di ostacolare il moto dell’aria con ampie superfici piú fredde dell’ambiente circostante, per farvi condensare il vapore acqueo: strutture prive di parti metalliche o comunque complesse, per la cui costruzione erano sufficienti pietre grezze, argilla, paglia e, quando disponibili, bitume o calce spenta. Va osservato che tanto gli stagni di rugiada che i pozzi d’aria producevano acqua purissima, per l’esattezza distillata, la quale pur fluendo in tubi, di cotto o di piombo, a bassa pressione non sedimentava.
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stagni come... cipolle A destra uno «stagno di rugiada», ampia conca artificiale contenente acqua ottenuta per condensazione del vapore acqueo atmosferico, utilissimo laddove non si disponga nelle vicinanze di sorgenti o di pozzi. In basso ricostruzione planimetrica parzialmente sezionata. Nella pagina accanto, in basso ricostruzione assonometrica sezionata di uno «stagno di rugiada». argilla
pietre
battuto di calce
basoli
paglia
mattoni
Bordo della conca di argilla allargato orizzontalmente per proteggere gli strati sottostanti dalle eventuali infiltrazioni di acqua piovana.
Cordolo di mattoni, posto al di sotto del battuto di calce – non sempre presente –, necessario per irrobustire la conca e formare una sponda per la paglia, a sua volta collocata sopra un vespaio di pietrisco.
Per sfruttare meglio il fenomeno della condensazione, la conca doveva essere abbastanza larga e poco profonda, obbligando a costruirla a sezione ellittica, cosĂ da poterle conferire una discreta cubatura.
Intorno al bordo di argilla col terreno di riporto dello scavo si formava una sorta di argine, a sezione triangolare, indispensabile per impedire alle acque piovane di infiltrarsi fino allo strato isolante di paglia compromettendone la coibenza.
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il pozzo ad aria di friedrich zibold Ricostruzione assonometrica di un «pozzo ad aria» secondo la concezione dell’ingegnere forestale ucraino Friedrich Zibold.
Il terreno su cui veniva costruito l’impianto doveva essere abbastanza saldo e privato di qualsiasi vegetazione, idoneo perciò a sopportare senza cedimenti parziali il peso del cumulo di pietrisco.
Al di sotto del cumulo di pietrisco stava una sorta di piattaforma concava di conglomerato impermeabile, suddiviso in spicchi per comodità di realizzazione, munito al centro di un foro che convogliava l’acqua in un collettore. Il collettore era costituito da un sottile solco che, dopo aver raccolto tutta l’acqua condensata dal pietrisco, la conduceva all’esterno della base del cumulo, immettendola in una tubatura o in una canaletta.
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La sommità dei cumuli di pietrisco aveva al centro un incavo imbutiforme, che facilitava la circolazione dell’aria e quindi la successiva condensazione del vapore in essa contenuto, che, gocciolando verso l’interno, contribuiva ad abbassare ulteriormente la temperatura del pietrisco medesimo.
Intorno al cumulo correva un basso muretto di pietra volto a impedire l’avvicinamento alla sua base di uomini e di animali, per evitare che inquinassero l’acqua, e, al contempo, che l’acqua piovana fangosa finisse nella conca.
paglia secca ben costipata, per coibentare la conca. Quindi un terzo strato, di argilla impastata e sagomata a calotta sferica, detto «crosta», spesso una ventina di centimetri, eseguito per comodità a spicchi. Su questo, per proteggerlo dagli zoccoli degli animali, poggiava un ultimo strato di lastre di pietra, simili a scandole. Intorno alla conca, il terreno si rialzava come un piccolo argine, per impedire all’acqua piovana di raggiungere la paglia: per lo stesso scopo, il bordo della stessa era accuratamente coperto d’argilla, in quanto si aveva consapevolezza del fatto che il funzionamento dell’impianto dipendeva dalla sua assoluta secchezza. Il diametro della conca scendeva perciò intorno ai 20 m, con una profondità effettiva di appena 1,2 m al centro, e un volume complessivo oscillante fra i 300-600 mc, spesso anche inferiore, dunque una cubatura in genere minore delle anzidette conserve.
Il raffreddamento notturno
In alto il deumidificatore a torre realizzato dall’ingegnere belga Achille Knapen nel 1930, sulla cima di una collina a Trans-en-Provence, in Francia, sulla base dei progetti di Friedrich Zibold.
La realizzazione di uno stagno di rugiada, nota probabilmente dalla preistoria, iniziava con lo scavo di una conca, di una trentina di metri di diametro, di primo acchito piú ampia del necessario, e profonda un paio. La costruzione propriamente detta constava di vari strati sovrapposti, a cipolla, collocati a partire dal fondo della conca. Il primo consisteva in un vespaio di pietrisco, spesso una decina di centimetri, sul quale era steso un mantello di calce spenta o argilla battuta, per omogeneizzarne la superficie e interdire le risalite per capillarità. Seguiva un secondo strato, spesso una trentina di centimetri, di
Dal punto di vista funzionale, la conca di argilla, isolata termicamente dalla paglia, pur ricevendo la medesima insolazione del terreno circostante, si manteneva a temperatura alquanto piú bassa. L’argilla, infatti, seccandosi per l’evaporazione dell’acqua d’impasto, si raffreddava, per cui, sopraggiunta la notte, risultava sensibilmente piú fredda del terreno. Essendo la quantità di vapore che l’aria può contenere direttamente proporzionale alla sua temperatura, come questa scendeva per il contatto con la conca, cosí il vapore vi si condensava. Le goccioline d’acqua depositate sulla sua superficie scivolavano, perciò, verso il centro, depositandosi sul fondo, e, per facilitarne lo scorrimento, alcune conche ebbero un’incisione a spirale. Nel corso della giornata parte di quell’acqua evaporava, ma la quantità era minore di quella che nella nottata successiva vi si sarebbe ancora condensata. Pertanto, notte dopo notte, nonostante le perdite e i prelievi quotidiani lo stagno si riempiva, al contrario delle conserve, quasi come un pozzo artesiano. È però probabile proprio per quanto delineato, che le supposte conserve fossero in realtà
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Il nucleo interno della «torre» costruita a Trans-en-Provence, che, rimanendo piú freddo, avrebbe dovuto potenziare la deumidificazione.
l’alloggiamento, scavato nella roccia, di una conca, dissoltasi in seguito completamente: si restituirebbe cosí una logica fruizione per quelle fortificazioni, altrimenti assurde! Gli stagni di rugiada non sono mai stati del tutto abbandonati, tanto che in Inghilterra, agli inizi del secolo scorso, giravano ancora squadre specializzate nella loro costruzione. Vi era poi, come accennato, un secondo deumidificatore per estrarre acqua dall’aria, il pozzo ad aria: il primo a darne notizie, nell’estate del 1900, fu l’ingegnere forestale ucraino Friedrich Zibold. Effettuando rilievi sul monte Tepe-Oba, in Crimea, presso gli scavi di Theodosia (l’attuale Feodosiya), s’imbatté in enormi cumuli di pietre, ciascuno di oltre 600 mc. Dell’antica città, fondata intorno al VI secolo a.C. dai Greci di Mileto sulle coste del Mar Nero, e distrutta un millennio dopo dagli Unni, restavano ormai solo i ruderi e un misero villaggio, adiacente alla colonia genovese di Caffa. Gli scavi, condotti fra il 1900 e il 1907 e gratificati da una certa risonanza internazionale, ne avevano portato alla luce una parte, insieme a una articolata rete di tubi di terracotta, di una decina di centimetri di diametro. Alcuni partivano dai cumuli e terminavano nelle cisterne e nelle fontane della città, di cui si disse che Theodosia fosse ben dotata, pur non ritrovandosi nei paraggi
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tracce di torrenti o sorgenti, anche seccati da tempo: un’anomalia che forse suggerí allo Zibold l’interpretazione dei cumuli. Quelli ancora osservabili erano una decina, conoidi alti 10 m e con una base di circa 20 m di diametro, formati con pietre di piccola pezzatura. Ciascuno di essi insisteva su una piattaforma concava di circa 300 mq, simile a quella degli stagni di rugiada, dal centro della quale si dipartiva una canalizzazione. Il funzionamento di quelle collinette artificiali risulta abbastanza semplice: l’aria calda e umida esterna, infiltrandosi nell’ammasso di pietre, entrava in contatto con quelle interne, piú fredde perché al riparo dai raggi solari, e vi si condensava sopra, gocciolando nella conca, da dove un collettore l’immetteva nelle tubature. Stando ai calcoli dell’ingegnere, l’intero impianto, in condizioni ottimali, doveva produrre 50 000 litri di acqua al giorno, in pratica 4 mc per cumulo.
Una conferma e un fallimento Per verificare quanto ipotizzato, Zibold facendosi aiutare dai contadini locali, costruí in cima al vicino monte Tepe-Oba, a 228 m di altezza, un similare condensatore, poggiando su una conca di conglomerato un cono di ciottoli marini, compresi fra i 10 e i 40 cm, di 8 m di diametro di base e 6 m di altezza. La verifica ebbe successo e, dal 1912, l’impianto produsse 360 l di acqua al giorno, fino al 1915, quando, rottasi la conca, che si può ancora osservare, fu smantellato. Dal condensatore di Zibold derivarono vari progetti di pozzi ad aria: il piú appariscente fu quello realizzato nel 1930 su di una collina di Trans-en-Provence in Francia, per iniziativa dell’ingegnere belga Achille Knapen. Un corpo turriforme di 14 m di altezza e 3 m di spessore, simile a una colombaia per le sue innumerevoli feritoie, con un nocciolo interno di cemento, che, restando piú freddo, avrebbe dovuto esaltare la deumidificazione. Tuttavia, poiché la superficie laterale complessiva del nocciolo era di gran lunga minore di quella delle pietre dei cumuli, il risultato fu un fallimento, non ricavandosi piú di una ventina di litri al giorno.
Patara (Turchia meridionale). Un tratto dei blocchi in pietra che formano il sifone inverso dell’acquedotto di epoca romana, esempio magistrale di condotta forzata.
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egli acquedotti romani il deflusso dell’acqua avveniva abitualmente per gravità, cioè come nei fiumi, e richiese perciò alvei con identica pendenza, non eccessiva, per evitare danni, né infima, cosí da impedire sedimentazioni. Fu individuata intorno ai 3-4 m a km, un’entità che testimonia l’estrema complessità vigente nella progettazione degli acquedotti, il cui sviluppo non di rado eccedeva i 100 chilometri. Solo per fare un esempio, su una tale distanza occorreva stabilire con esattezza le quote di partenza e di arrivo, tra le quali vi era uno scarto di appena 300 m! I coevi strumenti topografici, peraltro estremamente semplici, potevano garantire tale risultato, che tuttavia non costituiva un esito eccezionale ma piuttosto la prassi vigente, solo se affidati a mani esperte. A complicare ulteriormente l’operazione interveniva la morfologia ambientale, che non era una landa piatta, bensí un susseguirsi altimetricamente mosso, con colline e vallate lungo le quali l’acquedotto doveva passare sempre con la medesima pendenza. Allo scopo ci si avvalse di lunghe fughe di archi, simili a ponti con numerose campate, superando col traforo le colline e scavalcando con arcate a piú ordini, fino a 60 m di altezza, le
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vallate. Soluzioni grandiose, ma spesso insufficienti, quando l’ostacolo era una gola di 200 m di profondità e il tracciato non poteva essere modificato.
I vasi comunicanti Si faceva allora ricorso a un principio dell’idraulica già noto: quello dei vasi comunicanti. La livella di Erone funzionava proprio con un tubo a U all’interno del quale il liquido si disponeva alla stessa altezza nei due bracci, indicando con la loro congiungente una linea orizzontale, un dispositivo che venne definito in greco «sifone». Per noi, invece, il sifone è un tubo, di qualsiasi dimensione ma sostanzialmente a forma di Π, ovvero di U rovesciato, nel quale fluisce un liquido che vi sale da una delle estremità posta a una quota inferiore rispetto al dorso e ne discende dall’opposta, indipendentemente dalla sua altezza. Nel caso degli acquedotti bloccati da una gola l’esigenza era esattamente inversa: l’acqua doveva prima scendere e poi salire! E si pensò che il sifone potesse funzionare anche al contrario, inverso, con la sola differenza che la quota di uscita si confermava per le varie resistenze prodotte dalla condotta leggermente inferiore a quella di entrata, una
In alto, a sinistra e a destra altre immagini del sifone inverso realizzato a Patara, fiorente città sulle coste della Licia (oggi nei pressi di Antalya, Turchia meridionale).
tubi in acciaio, chiodati o saldati; infine per le alte e altissime pressioni cioè dell’ordine della ventina di atm, vengono impiegati tubi saldati e blindati. Le giunzioni tra i diversi segmenti si ottengono perlopiú con flange saldate o con chiodatura a sovrapposizione.
Tubazioni a incastro
differenza definita «perdita di carico». Il problema, quindi, almeno in via teorica, ammetteva una soluzione, ma, da questo punto in poi, finivano le elucubrazioni degli scienziati e iniziavano le difficoltà dei tecnici. L’acqua, infatti, ha un peso che sul fondo del recipiente che la contiene è pari a 1 kg a cm² per ogni 10 m di dislivello: nel caso di un tubo disceso in una gola a 200 m di profondità per risalirla dall’opposto versante, la sua tratta orizzontale avrebbe dovuto sopportare una pressione di 200 kg a cm². Per un tubo di appena 20 cm di diametro e lungo solo 10 m, la pressione esercitata dall’acqua sulla sua parete sarebbe stata dunque pari a ben 600 t! Nel linguaggio tecnico, una condotta in grado di resistere a una forte pressione, con la forza della sua costruzione, si definisce «condotta forzata», e si è soliti considerarla una nostra recente invenzione, resasi necessaria per le centrali idroelettriche. Per l’esattezza una condotta forzata è formata da una serie di tronchi di tubazione in acciaio, in cemento armato o in ghisa, uniti fra loro con adeguati giunti. Quando in cemento armato, sopportano pressioni inferiori alle 2 atm; se in cemento armato precompresso, pressioni fino a 5 atm, ma per pressioni superiori, si usano
Per reggere alla pressione di 20 atm gli ingegneri romani fecero ricorso alla pietra, costruendo condotte derivanti dall’incastro di blocchi di pietra squadrati, con al centro un foro circolare. Ciascun blocco misurava mediamente 90 x 90 x 50 cm, con un foro del diametro di 30 cm, come nel sifone di Madradag dell’acquedotto di Pergamo in Turchia profondo oltre 190 m. I conci venivano uniti tra loro con un incastro maschio-femmina, sigillato con calce idraulica a forte dosaggio. Negli impianti migliori, nel foro della pietra era incastrato un tubo di ceramica smaltata per attenuare la sedimentazione. Oltre che dalla condotta forzata, il sifone era costituito da due serbatoi, uno di ingresso e uno di uscita: nel primo, poco piú in alto del secondo, scaricava l’acquedotto a pelo libero, che da un foro sul fondo imboccava la condotta per riaffiorare nel secondo serbatoio, dal quale ripartiva col resto dell’acquedotto a pelo libero. Vitruvio non manca di descriverlo in questi termini: «Se gli avvallamenti fossero profondi, si diriga il tracciato dei tubi lungo la pendenza. Una volta in fondo, si farà una fondazione alta tanto da consentire che il percorso orizzontale sia il piú lungo possibile; quest’ultimo si chiama “ventre” ed è quello che i Greci chiamano “koilia”. Quando l’acqua arriva dalla parte opposta, nel tratto rettilineo del ventre il suo volume [pressione] aumenta in modo da essere spinta verso la sommità del pendio. Se non si facesse il ventre negli avvallamenti e se questo non avesse la fondazione perfettamente orizzontale ma fosse a gomito, la pressione dell’acqua farebbe esplodere i giunti dei tubi» (De architectura, VIII, 6). A oggi si conoscono una sessantina di acquedotti romani dotati di sifoni inversi, che rappresentatno perciò il 10% dei 600 di cui si stima l’esistenza.
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ghiaccio a volontà P
er un’abusata associazione d’idee, all’imperatore Claudio Cesare Augusto Germanico, in arte Nerone, si fanno corrispondere fuoco e fiamme, non certo ghiaccio e gelati: eppure tanto sono improbabili i primi quanto probabili i secondi! L’imperatore, infatti, fu forse un piromane, ma fu, certamente, se non l’inventore, il divulgatore del sorbetto, o, per dirla alla romana, della mitica grattachecca, e, alla partenopea, del cazzimbocchio. Secondo Quinto Massimo Gorgo, un misconosciuto epicureo, proprio Nerone, nel 62, anno in cui sposò Poppea, fece servire per la prima volta il sorbetto, prodotto secondo una sua ricetta. Del resto una eco di quel debutto la si coglie pure in un suo duro critico, Gaio Plinio Secondo, che, nella Naturalis Historia, XXXI, 23, cosí precisava: «È un’invenzione dell’imperatore Nerone far bollire l’acqua, metterla in un recipiente di vetro nella neve e raffreddarla; cosí il piacere del freddo si coglie senza i difetti della neve. È comunque riconosciuto che ogni acqua (...) si raffredda di piú dopo essere stata riscaldata – raffinatissima invenzione». Il brano, al di là dell’implicito riferimento, se non al sorbetto, al ghiaccio, è alquanto oscuro per l’aspetto scientifico, sebbene ribadisca quanto già
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affermato in un precedente passo (XIX, 19), con queste parole: «Si conserva il freddo nella stagione calda, e si trovano procedimenti per mantenere gelata la neve nei mesi che non le sono propri; altri fanno bollire l’acqua e poi subito la ghiacciano». In ambedue le citazioni l’acqua calda sembra preferibile alla fredda per il congelamento, stranezza della quale, però, il Naturalista non sa spiegare la ragione, limitandosi a riferirla.
La scoperta di uno studente
Qui sopra bicchiere in vetro verde con orlo arrotondato e parete decorata con depressioni verticali, da Pompei, Casa della Statuetta Indiana. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Il fenomeno sotteso, tuttavia, lungi dall’essere una sua ennesima strampalata notizia, consiste nel piú rapido raffreddamento dell’acqua calda rispetto a quella gelata! Attualmente è definito «effetto Mpemba», dal nome di uno studente della Tanzania che, nel 1963, osservò, del tutto casualmente, come ponendo in un congelatore due contenitori pieni d’acqua, in uno a 35° e nell’altro a 90°, nel secondo questa gelava per prima! Alla medesima conclusione era pervenuto anche Aristotele, che descrisse il paradossale fenomeno nella sua Meteorologica I, 12.17, con queste parole: «Le grandinate hanno luogo a volte sul finire dell’estate. Ciò che contribuisce allora alla rapidità del congelamento deriva dal fatto che l’acqua è stata precedentemente riscaldata; e ciò la fa raffreddare piú
In alto, sulle due pagine veduta panoramica della sommità del monte Faito, nella catena dei monti Lattari. A sinistra testa di Nerone pertinente a una statua colossale. Dopo il 63 d.C. Monaco, Glyptothek.
velocemente. Ecco perché quando alcuni vogliono avere rapidamente dell’acqua fresca, l’espongono al sole». Se è ovvio equiparare il formarsi della grandine a quella del ghiaccio, non lo è la deduzione: affinché si verifichi, infatti, è necessario che l’acqua sia in un vaso poroso chiuso, posto all’aperto in una nottata limpida. Trasudando, evapora, ma, non potendo attingere calore dall’esterno, lo trae da se stessa, abbassando perciò la sua temperatura, cosí come avviene col sudore, che forse ispirò il processo.
Un sorbetto per Nerone Le fonti lo attestano praticato soprattutto in Egitto, nelle secche notti estive: reiterandolo varie volte con una corrente d’aria, portava sul far dell’alba alla formazione di un sottile strato di ghiaccio nel vaso. Questa, forse, la presunta invenzione di Nerone, confusamente descritta da Plinio: triturare poi il ghiaccio e aggiungervi succhi di frutta addolciti con miele, ricavandone un antesignano sorbetto (sorbitium), non costituiva una notevole difficoltà. Esiste ancora una semplice procedura per ottenere ghiaccio puro da ghiaccio sporco o da neve lurida: riempitone un bacile e postovi al centro un contenitore di rame pieno d’acqua pura, aggiungendo alla poltiglia un’abbondante
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quantità di sale, la sua temperatura precipita a -22° (miscela eutettica), congelando l’acqua. Il procedimento fu introdotto in Sicilia dagli Arabi, sebbene varie allusioni lo facciano reputare già noto in precedenza. In ogni caso il modo per ottenere ghiaccio in quantità, e Plinio non mancò di stigmatizzarlo, in città e in estate, consisteva nel conservare la neve in adeguate cavità, dette neviere, ubicate ad altezza rilevante. La procedura, solo in apparenza rudimentale, sembra praticata sin dal III millennio a.C., come testimoniano alcuni vani razionalmente adattati, rinvenuti a Ur e a Mari, e cessò soltanto intorno alla metà del secolo scorso, con la diffusione generalizzata delle macchine frigorifere. La ragione di tanta longevità va ravvisata nella costante e variegata domanda di ghiaccio, da quella squisitamente alimentare, alla medica o alla conservazione dei cibi deperibili. Esigenza che s’impennava nella stagione calda quando, eccezion fatta per le alte cime, non vi era alcuna possibilità di reperirne.
Vino raffreddato con la neve Il ghiaccio ricavato dalla conservazione della neve negli anfratti apicali costituí in principio uno dei rarissimi piaceri dei poveri, essendo la sua disponibilità ristretta ai soli miserabili villaggi montani, dall’Anatolia all’Appennino. Grazie alla capacità speculativa dei Greci, però, s’innescò ben presto il commercio della preziosa risorsa: i blocchi stipati in cassette di legno isolate con paglia, riuscirono a raggiungere le città, spuntando lauti compensi. Il vino raffreddato con la neve è testimoniato dal VI-V secolo a.C. dal diffondersi di un tipo di brocca refrigerante, lo psykter, e dalle allusioni nelle fonti coeve, da Ateneo a Platone. Il consumo del ghiaccio aumentò vistosamente presso i Romani, reputandosi indispensabile nella mescita del vino, nel raffreddamento dell’acqua del frigidarium o nella terapia dei traumi. Crebbe ancora dopo la presunta trovata di Nerone, assurgendo a portata canonica in tutti i pranzi, imponendo
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una netta miglioria nell’approvvigionamento e nelle tecniche di trasporto, al fine di minimizzare le perdite. Verosimilmente, il sorbetto di Nerone debuttò durante un suo soggiorno estivo a Baia, per cui il ghiaccio utilizzato poteva provenire soltanto dai prospicienti monti Lattari, in particolare dal Faito, di oltre 1300 m. Coperto da una faggeta lussureggiante, da cui il nome, sovrasta l’insenatura di Vico Equense formando un porto naturale. E, grazie all’altezza e alle faggete, la cima divenne ideale per conservare la neve, in apposite fosse rozzamente isolate, la cui proliferazione è ascrivibile proprio ai Romani. Si trattava di grotte artificiali e, soprattutto, di buche profonde, scavate tra alberi secolari, affinché fossero sempre all’ombra, a discreta profondità rispetto alla superficie del terreno e con l’accesso sistematicamente rivolto a nord. All’interno si conservava la neve, dopo averla
A sinistra uno psykter, vaso che si inseriva in un cratere (grande vaso per miscelare) per mantenere fresco il vino. Conteneva o il mezzo refrigerante (neve, acqua ghiacciata) o il vino non ancora mescolato, e in questo caso, il cratere veniva riempito d’acqua fresca.
In alto Monte Tezio, Perugia. Una antica neviera, a quota 917 m, ridotta allo stato di rudere. In basso il pilone maggiore della teleferica neviera del Faito; in basso sul mare il porticciolo e l’abitato di Vico Equense. La struttura era utilizzata per il trasporto a valle del ghiaccio.
compattata fino a trasformarla in ghiaccio, evitando di contaminarla con il terreno e le relative impurità.
Da monte a valle Quale fosse l’entità dell’attività lo testimonia un contratto pubblico del 1692 implicante la fornitura di 10 000 salme di ghiaccio l’anno, circa 1500 t, tratto dalle fosse del Faito! Dal documento si evince che la capacità di ciascuna oscillava tra un minimo di 5 e un massimo di 35 mc: volumi abbastanza modesti, forse suggeriti da una piú facile coibentazione. Per stivare la neve nelle fosse, infatti, si procedeva preliminarmente a foderarne, con uno spesso strato di foglie secche, il fondo e le pareti laterali, deponendovi un primo strato di neve. Al di sopra, un secondo strato di foglie secche, quindi di neve, e cosí via fino al colmo. Esaurito il caricamento si copriva la fossa con uno strato di foglie piú spesso e poi con un cumulo di terreno. Con l’inizio dell’estate si riaprivano, e il ghiaccio, tagliato in blocchi regolari, si trasportava a valle alla massima velocità possibile. Oltre alle neviere scavate ve ne erano pure di costruite in muratura, simili a casette rurali senza finestre o a forni per la calce. All’interno una profonda buca, destinata alla conservazione della neve, sempre dopo averla trasformata in ghiaccio. Quale che fosse la forma, la neviera era, in ultima analisi, un grosso thermos, al cui interno
la fusione del ghiaccio avveniva con estrema lentezza. Estrema rapidità, invece, richiedeva il suo trasporto, pena la perdita di una parte cospicua del prodotto: e proprio sulle pendici del Faito si stagliano enigmatici ruderi in opera incerta, direttamente connessi con il trasporto a valle del ghiaccio. Di essi un enorme torrione, alto 20 m circa, è il manufatto piú imponente ancora in sito. A prima vista non suggerisce alcuna plausibile interpretazione architettonica, meno ancora la sua denominazione dialettale: i’ paluorcio. Al di là dell’apparente assonanza napoletana, il vocabolo non è indigeno, ma si ritrova quasi identico anche nell’italiano palorcio, senza essere neppure toscano: si tratta, infatti, del greco bizantino párolkion, diminutivo di parolxos («gomena») o, per meglio dire, fune di rimorchio tesa fra due imbarcazioni. Fune che, con grande equilibrio e abilità, consentiva anche il trasbordo. Stando al nostro dizionario, invece, il palorcio è il piú rozzo impianto a fune, detto anche filo a sbalzo o teleforo: una teleferica embrionale, il progenitore di tutte le tipologie di funivie! La sua fune, pertanto, deve essere tesa tra due supporti, quello superiore di partenza e l’inferiore d’arrivo, scorrendovi sopra per gravità i ganci o, dove la pendenza è scarsa, le carrucole dei carichi inviati a valle, perlopiú legna, carbone, foraggio e, nella fattispecie, ghiaccio. Nessun vagoncino, nessuna fune di trazione, nessuna fune di risalita e, connotazione dirimente, nessun cavalletto o pilone intermedio. Appaiono intuibili tutti i vantaggi di tale mezzo di trasporto rispetto alla mulattiera, compreso il piú importante per la discesa del ghiaccio: la velocità. In pochi secondi, i contenitori dei blocchi di ghiaccio piombavano dalla sommità della montagna alla sua base lambita dalle onde, finendo subito nelle stive delle veloci liburne addette all’approvvigionamento. I piloni delle pendici del Faito, però, proprio perché tali, non appartennero a un palorcio, ma a una teleferica vera e propria, adibita al trasporto a valle del ghiaccio, cosí decantata, intorno al 1750, da Antonio Genovesi nel suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze: «Io spero che il Palorcio, una di quelle
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acqua
le carrucole per la teleferica Prospetto laterale di bozzello apribile, detto anche pasteca, per teleferica neviera: la bandella di ferro battuto di rinforzo serve a sopportare il sottostante carico di ghiaccio, che poteva raggiungere i 5 q. Il congegno dispone di bloccaggio di sicurezza, a spina, per evitare il rischio di aperture accidentali.
Prospetto frontale del bozzello apribile: la carrucola di bronzo ha la gola alquanto profonda, per impedire accidentali strofinii della corda sulle guance del bozzello, con rischio di rapida bruciatura.
Corda portante, costituita da numerosi trefoli in fibra tessile. Sebbene a Pompei siano stati rinvenuti frammenti di funi di rame a tre trefoli, quella degli antichi palorci era vegetale.
Gancio di sospensione della cesta del ghiaccio: doveva permettere rapidi agganci e sganci, nonché un’assoluta sicurezza durante la corsa, consentendo al carico sospeso di potere oscillare liberamente per l’azione del vento.
macchine, che l’umano ingegno si ha fabbricate contro la rapidità del tempo (...) [e che è stata] sí migliorata da poter servire in tutti i luoghi e in tutti i siti (...) voglia essere un poco meglio conosciuta (...) niuna nondimeno mi pare piú per ciò acconcia, quanto il Palorcio, per la cui opera io ho veduto in coteste montagne di Vico fare in un giorno ciocché difficilmente senza di lui farebbesi in cento». I piloni suddetti sono piú recenti del palorcio che vide il Genovesi, macchina che, a suo dire, era stata «con molta cura, fatica e spesa (...) sí migliorata da poter servire in tutti i luoghi e in tutti i siti (...), lasciandocene ipotizzare di piú antichi e arcaici, forse d’età romana». A essi sembra alludere il contratto del 1692 quando
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Parte mobile del bozzello apribile, rotazione ottenuta tramite solide cerniere di ferro battuto saldate alle bandelle, con una robusta spina di bloccaggio. Il corpo del bozzello, fisso e mobile, era ricavato da un unico blocco di quercia ben stagionato.
addebita al conduttore anche le funi e i giunchi, per la tratta delle nevi dalle montagne di Vico. Ma esistevano i presupposti del trasporto su fune in tale epoca?
Una pratica antichissima In linea di larga massima spostare oggetti, e non di rado persone, su funi, è una pratica antichissima. Seneca, per esempio, nell’Epistola 88, menzionando le macchine per calare gli attori, ricorda pure quelle che permettevano agli stessi di librarsi nell’aria. Si trattava di voli apparenti, consentiti da una carrucola corrente su di un filo, come nel volo della Colombina di Venezia: una inequivocabile
In alto bozzello apribile, o pasteca, settecentesco, non dissimile per concezione e materiale – corpo in legno di quercia, bandelle in ferro battuto e carrucola in bronzo –, da quelli di età romana, destinato a sostenere sforzi di trazione dell’ordine della decina di quintali.
Ricostruzione grafica del bozzello apribile impiegato nelle teleferiche neviere sin dall’antichità. L’adozione di carrucole di bronzo su perni di ferro attenuava l’attrito e ne impediva il bloccaggio per la ruggine. Il perno poteva essere facilmente sfilato rimovendo il ritegno.
Cesta per il ghiaccio, realizzata verosimilmente in pelle, del tipo usato per le tende militari, cucita lateralmente con corde e munita di nervatura rigida superiore, necessaria per accelerare il caricamento e per evitare che lo strato di coibentazione volasse via durante la veloce discesa.
funivia, sia pure brevissima. Il palorcio, invece, essendo una gomena si sviluppava per la sua intera lunghezza, 200 m circa, richiedendo per tratte maggiori il trasbordo dei carichi o l’impiombatura con altre gomene. Su quelle funi potevano scendere carichi sospesi a ganci, ma il forte attrito generato dalla velocità ne avrebbe presto usurato le fibre, dal che l’adozione di carrucole. In un impianto senza fune di risalita queste dovevano essere apribili, simili alle pasteche, già usate all’epoca. L’attuale normativa limita a 50-100 kg il carico singolo che cosí può scendere, entità che può ritenersi identica anche in età classica.
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prodigi ad alta
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quota
Il suggestivo spettacolo dell’innalzamento di un gran numero delle cosiddette mongolfiere di carta cinesi.
È forse impossibile stabilire quando l’uomo si sia librato in volo per la prima volta. piú certe, invece, appaiono le date di nascita di apparecchi e ordigni bellici che, di volta in volta, vollero «organizzare» il cielo o sfruttare al meglio le proprietà aerodinamiche di frecce e proiettili
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Il volo umano D
al punto di vista cronologico le tracce del sollevamento umano nell’aria, tramite un qualsiasi mezzo, spaziano fra la fine del II millennio a.C. e l’inizio della nostra era. Dal punto di vista geografico vanno dalla Cina al Giappone e quindi al Perú, coinvolgendo anche l’area mediterranea. Dal punto di vista fisico, infine, si possono riferire soltanto a due modalità, nettamente diverse fra loro e concordi unicamente nella finalità di consentire
all’uomo, se non di volare, almeno di librarsi nell’aria: con ausili piú leggeri dell’aria l’una, piú pesanti l’altra. In sostanza, le stesse modalità che bipartiscono le tecniche di volo, che, piú in generale, è l’alternativa del moto in un fluido: galleggiarvi sopra passivamente o sostenersi attivamente al suo interno, generando una portanza. Si tratta, in pratica, della differenza che corre tra una mongolfiera e un aeroplano, concettualmente analoga a quella che vige tra una barca e un aliscafo.
Come le foglie portate dal vento A posteriori, è stato ipotizzato che il distacco dal suolo con un mezzo piú pesante, dal momento che richiede un’integrazione meccanica, fosse perciò il piú recente. L’osservare il sollevarsi delle foglie spinte dalle raffiche di vento precedette di sicuro il contemplare la cenere innalzata dalla corrente ascensionale di un rogo.
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di piccola costituzione sarebbe bastato un pallone di una decina di metri di diametro: sull’attuazione dell’ipotesi, tuttavia, almeno per l’Estremo Oriente, non abbiamo riscontri significativi. Di gran lunga piú circostanziata, reiterata e attendibile la notizia circa il sollevamento che, nelle stesse regioni, era ottenuto con i cervi volanti.
La testimonianza di Marco Polo
In alto Modo de volar, una delle incisioni facenti parte della serie Los Disparates di Francisco Goya. 1815-1823. In basso disegno ricostruttivo di una macchina volante ispirato a quelli realizzati da Leonardo da Vinci.
E da qui iniziano le constatazioni che, per comodità, seguiremo in ordine cronologico. In Cina, forse per la disponibilità di ottima carta, si realizzarono sin dall’antichità rozzi palloni simili agli attuali sacchetti per la spesa: in corrispondenza della loro apertura, orientata verso il basso, si collocava una sorta di torcia, la cui fiamma riscaldava in pochi istanti tutta l’aria contenuta nell’involucro, rendendola piú leggera della circostante. Ne scaturiva un’antesignana minimongolfiera che, appena liberata, si sollevava subito con crescente velocità. I lanci avvenivano con le tenebre e si proponevano come una surreale inversione delle stelle cadenti, che, dopo una breve parabola luminosa, svanivano. Anche i palloncini, infatti, svanivano nel giro di pochi minuti, giusto il tempo necessario alla torcia per esaurirsi. Come in tutti i giochi di successo, si incrementarono via via le dimensioni dell’involucro e delle torce, che ben presto si trasformarono in veri bracieri, essendo evidente la stretta correlazione tra la forza ascensionale e la grandezza del pallone. Pertanto, in Cina o altrove, trattandosi di una semplice esperienza, non dovette richiedere un acume particolare immaginare e costruirne un esemplare abbastanza grande da sollevare un uomo. Per una persona
Tuttavia, per rintracciare riferimenti certi e cronologicamente determinati in merito agli aquiloni giganti con equipaggio a bordo, si deve attendere il 1285 e il Milione di Marco Polo. Stando alla sua narrazione, infatti, quando una nave si accingeva a intraprendere un lungo viaggio, i marinai, per trarre auspici sul propizio spirare del vento, costruivano un aquilone gigante, fissandolo a ben otto funi di manovra. La macchina, sebbene di vimini e carta, pesava alcune tonnellate, stazza che cresceva ulteriormente quando vi si vincolava con molte corde il pilota, quasi sempre del tutto inconsapevole. All’epoca, infatti, i locali ritenevano, e non senza ragione, che solo un folle o un ubriaco potesse sollevarsi su di un siffatto veicolo. A ogni buon conto, vincendo le intuibili resistenze e difficoltà, se il decollo avveniva regolarmente e rapidamente il viaggio non avrebbe incontrato ostacoli, in caso contrario sarebbe stato meglio rinviarlo. Marco Polo, non si sofferma a ricordare la sorte dell’aviatore coatto, ma se ne deve presumere l’abituale felice atterraggio; e il successo nella temeraria impresa gli faceva meritare vasta ammirazione e... nuove bevute. Del resto, nel XIII secolo l’aquilone gigante aveva alle sue spalle già un notevolissimo stato di servizio. Da altre fonti, abbastanza attendibili e concordi, si apprende che quei colossi di carta e vimini trovarono subito un ampio impiego militare: sul finire del III secolo a.C. Sembra, per esempio, che il celebre generale cinese Han Xin (II secolo a.C.) sia atterrato con il suo aquilone dinanzi alle truppe schierate, e, in altre circostanze, abbia misurato, sempre con un aquilone, la distanza delle fortificazioni nemiche. Quanto al criterio informatore degli aquiloni giganti, esso deve ricondursi quasi
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certamente alla vela: come questa, catturando il vento, spingeva sul mare una barca, cosí una simile, catturando le termiche, avrebbe sollevato una leggera navicella o il solo pilota. Il velivolo, termine mai come in questo caso calzante alla lettera, avrebbe assunto perciò l’aspetto di un’enorme vela orizzontale. In che modo, poi, fossero realizzati quei giganti dell’aria lo possiamo ricavare con precisione dai diretti discendenti dei remoti costruttori. I pescatori di un villaggio di un mare interno del Giappone, infatti, hanno continuato a costruirli, con bambú e carta, fino agli inizi del secolo scorso. Per l’esattezza fino al 1914, giusto in tempo per potercene lasciare un’oggettiva testimonianza fotografica. Proprio come nel passato la pregiata carta orientale, la cui resistenza non differiva da quella delle vele, giocò nella vicenda un ruolo basilare, tanto che, attualmente, pur non difettando il bambú, nessuno saprebbe piú dove procurarsela! Per secoli quel complesso lavoro collettivo iniziò, non a caso, proprio con l’approntamento degli spessi fogli destinati a coprire i circa 300 mq della grande orditura, e dei relativi bambú di supporto. Sebbene lo sforzo economico possa sembrare irrilevante, per quel misero villaggio rappresentava un onere gravosissimo, tanto piú che occorreva sacrificare diverse giornate lavorative per l’assemblaggio. Quasi tutti gli abitanti, infatti, si dedicavano a legare le canne del telaio, su di una apposita spianata, per realizzare cosí un reticolo solido e leggero al quale si fissava la carta con stringhe vegetali. Ultimata la costruzione, si attendevano con ansia le prime giornate estive, caratterizzate da forti venti di mare: trasportato sulla spiaggia, con immaginabili difficoltà, il gigantesco aquilone, pesante alcune tonnellate e largo piú di 30 m per oltre una decina di lunghezza, era in grado di sollevarsi non appena fosse stato anche solo leggermente inclinato. A trattenerlo e a manovrarlo provvedevano centinaia di persone, in pratica le stesse che lo avevano costruito, mediante numerose e spesse gomene. Le ultime ascensioni di aquiloni giganti, capaci di trasportare senza problemi due persone a bordo, avvennero nel
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1914, quasi un decennio dopo il primo fortunato decollo della macchina volante dei fratelli Wright.
La sfida di Simon Mago Qualcosa del genere, ma di dimensioni molto piú modeste, era conosciuto forse anche in Occidente agli inizi del I secolo d.C., per l’esattezza al tempo di Nerone, come testimonia la curiosa vicenda di Simon Mago. Stando alle fonti, per dare prova delle sue capacità, il sedicente mago si volle produrre in un volo librato dinanzi all’imperatore, gettandosi da un traliccio fatto appositamente costruire, come dipinse Cimabue, o come è piú probabile dalla cima di un edificio vicino. Stando alle laconiche notizie tramandate sulla temeraria dimostrazione piú che sulle potenze infernali, Simone faceva affidamento su di una misteriosa macchina alare. Forse erano delle ali posticce, forse un embrionale paracadute, del tipo di quelli che, circa dieci secoli piú tardi,
In basso uno dei grandi geoglifi dell’altopiano peruviano di Nazca. Il fatto che delle composizioni si possa avere una vista completa solo dall’alto ha suggerito l’ipotesi che fossero stati messi a punto dispositivi capaci di consentire il volo da parte dell’uomo.
In alto il gonfiaggio con aria calda di un aerostato sperimentale sull’altopiano di Nazca e un momento del suo volo.
risultano già da tempo impiegati da acrobati cinesi nei loro spettacolari salti e che forse ispirarono quelli disegnati dagli ingegneri del XV secolo. Un dispositivo, comunque, che avrebbe dovuto trasformare una mortale caduta in un’innocua planata. I testimoni, infatti, descrivendo l’episodio non accennano minimamente a una fase ascendente della performance, che sarebbe stata, invece, molto piú sbalorditiva della discendente. Quale che fosse il congegno, di certo non funzionò e il temerario stregone si schiantò al suolo, accreditando la leggenda di un intervento diretto di san Pietro, per porre fine al blasfemo volo.
Una lavagna fatta di roccia Dove però le tracce a terra del sollevamento umano sono per molti studiosi di gran lunga piú enigmatiche, o, invece, piú eloquenti per molti altri, è in Perú, sul deserto altipiano di Nazca, nel Sud del Paese. Lí, centinaia di linee rette lunghe fino a 65 km, disegni e composizioni geometriche di proporzioni colossali si susseguono sopra quella sorta di immensa lavagna. A prima vista l’inestricabile groviglio di innumerevoli striature sembra suggerire un faticoso passatempo collettivo o un condiviso rituale religioso. Per dare un’idea dimensionale del fenomeno, si tratta di oltre 13 000 linee, che formano circa 800 disegni, alcuni dei quali lunghi quasi 200 m! Ma, per i remoti esecutori, quegli enormi graffiti, al di là della intuibile difficoltà di un corretto tracciato, implicarono comunque lo spostamento di diverse migliaia di metri cubi di
pietrisco. Una fatica compiuta sotto il sole battente e senza il benché minimo refrigerio, fosse pure la modesta ombra di un albero. Ma perché compiere un tale spossante lavoro, in un contesto in cui occorreva portarsi persino l’acqua da bere, per non parlare del cibo, essendo inevitabilmente necessaria una permanenza di diversi giorni? Quei «geoglifi», neologismo coniato per tentare di definirne la mera tipologia, possono supporsi di finalità rituale, specialmente quando a soggetto animale, ma nel caso di linee lunghissime o di complesse composizioni geometriche a che cosa potevano servire? Vi è poi un’altra e risaputa constatazione: tutti i tracciati appaiano nitidi se osservati da un centinaio di metri d’altezza. Al di sotto, però, sono indistinguibili e molto al di sopra invisibili. Se ne deduce, perciò, che chiunque li abbia eseguiti, doveva poterli rimirare dall’alto, magari per dirigerne l’esatta esecuzione: ma in che modo si sarebbe sollevato sul deserto? E, ancora una volta, si ripresentarono le due diverse modalità di ascensione, entrambe compatibili con la tecnologia locale vigente, ed entrambe risolutive al riguardo. In particolare sono stati ipotizzati grandi aquiloni, agevolati dalle impetuose termiche che l’arroventarsi diurno della sterminata pietraia esalava, come pure rudimentali mongolfiere, gonfiate con l’aria calda, prodotta da roghi le cui vestigia nerastre ancora si distinguono, nel crepuscolo mattutino. Circa la prima ipotesi, va osservato che le scarne fonti disponibili sembrano in varie circostanze alludere proprio a grandi cervi volanti, ottenuti con nervature vegetali rivestite di un tessuto speciale, simile alla seta. Alcuni rinvenimenti in tombe hanno permesso di accertarne l’elevata resistenza e la straordinaria leggerezza, superiore a quella degli attuali paracadute. Quanto ai palloni ad aria calda se ne è effettuata la verifica sperimentale, constatandone la perfetta congruità. In questa seconda ipotesi, i lunghissimi allineamenti potrebbero essere interpretati forse alla stregua di rotte da percorrere, tra un sollevamento e l’altro, per un circuito rituale o propiziatorio.
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vietato cavalcare A
partire dall’ultima fase dell’agonia dell’impero romano d’Occidente, cresce il ricorso alla fortificazione elementare, persino in edifici che mai prima ne avevano avuto bisogno. Dalle masserie periferiche, agli ovili isolati, dai santuari remoti ai monasteri appartati, l’adozione di espedienti architettonici difensivi s’impose per garantirsi un minimo di protezione dai predoni e da barbari sbandati. Fortificazione leggere, di scarsa resistenza, che, tuttavia, si dimostrarono talmente efficaci da dilagare, adattandosi pure a impieghi originali in breve tempo, e sempre risarcendo il loro onere d’impianto. Furono dunque protetti pozzi, granai, ponti, darsene, ricetti per il bestiame e in particolare le grandi fattorie, definite all’epoca ville rustiche. Con una duplice motivazione: impedirne la distruzione ed evitare che le relative conquiste favorissero gli aggressori.
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I prodromi della vicenda si manifestarono nelle regioni agricole del Nord Europa e quella inedita architettura rurale sembra anticipare di quasi un millennio il castello svevo, un quadrato con quattro torri quadrate ai vertici. Le connotazioni che maggiormente distinguevano le villa rustiche del III e IV secolo dalle precedenti erano, infatti, l’adozione della pianta quadrilatera chiusa, con alte mura cieche lungo la base e torrette ai vertici, che conferivano un aspetto di fortificazione civile.
Fattorie trasformate in fortini Non fu un’elaborazione improvvisa, bensí l’esito di mutazioni progressive, a partire dalla tradizionale pianta a «U», che, dopo un’effimera modifica ottenuta chiudendo con un muro il giardino e incrementando le due colombaie, nell’ultimo stadio della trasformazione era divenuta una sorta di
Nella pagina accanto lunetta a mosaico con la raffigurazione di una villa rustica, da Tabraca (oggi Tabarka, Tunisia). Inizi del V sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. In basso veduta aerea del fortino di Jublains (Mayenne, Paesi della Loira, Francia nord-occidentale), ritenuto un granaio fortificato del III sec. d.C.
quadrilatero, con quattro corpi di fabbrica cingenti una corte centrale. Unico era il vano d’accesso carraio, serrato da un solido portone ferrato e, ai quattro spigoli, svettavano altrettante colombaie, trasformatesi in vere e proprie torri per la loro maggiore ampiezza e altezza. Sotto il loro tetto a padiglione si sviluppavano grandi logge, ideali per essiccare le derrate, ma anche per la difesa piombante, poiché permettevano il fiancheggiamento dalle tante saettiere lasciate nei muri esterni insieme alle cellette per i colombi, fonti di concime pregiato e mezzo di comunicazione rapido e sicuro. Dal punto di vista giuridico, l’avvento, e il diffondersi, alle spalle dei limites e in tutte le regioni marginali dell’impero di quella sorta di castelli rurali – con il loro nutrito corollario di armi proprie e improprie, quali archi, fionde e attrezzi agricoli modificati – sembrano tramandare una tacita autorizzazione del potere centrale alla difesa civile organizzata. Una vera deroga alla rigidissima normativa che, nei secoli precedenti, aveva affidato quella vitale incombenza alla sola istituzione militare, criterio abbracciato anche in età moderna e da allora mai piú modificato, tranne che in alcuni snodi storici particolarmente critici. In breve, prese corpo una sorta di difesa delegata
suggerita, forse, proprio dalla precarietà innescatasi nel III e manifestatasi pienamente nel IV secolo, epoca alla quale risale la maggior parte di tali ville rustiche e che sembra ribadire una singolare iniziativa di Valentiniano, estesa all’intera Italia meridionale, regione ormai periferica e vessata dell’impero nella quale, non a caso, le masserie fortificate si sono avvicendate fino al secolo scorso.
Emergenza sicurezza Nato in Pannonia nel 321, già militare di carriera, Valentiniano fu acclamato imperatore nel 364 e si distinse nel contrastare i barbari lungo i confini e nel reprimere il brigantaggio nei territori dell’impero, avviando subito il recupero della sicurezza, pubblica e privata. Per quest’ultima promulgò costituzioni originali, tese a debellare la criminalità organizzata, ormai dominante nel meridione della Penisola: per la riconosciuta efficacia, quelle norme furono recepite anche dal codice di Teodosio II, in vigore dal 439. Semplice era il principio che le ispirava: poiché le bande di briganti usavano spostarsi rapidamente a cavallo, Valentiniano suppose che privandole delle cavalcature, le avrebbe costrette all’inazione. In poche settimane, divenne perciò operativo un articolato dispositivo ostativo, genericamente battezzato Usus equorum, che proibiva, nell’intero meridione d’Italia, pena la morte, l’allevamento, la proprietà e, soprattutto, l’utilizzo dei cavalli come mezzo di trasporto. Dal punto di vista cronologico, la promulgazione dell’intero gruppo di costituzioni si estrinsecò fra il 364 e il 365-367, con l’emissione delle varie norme particolari. Di esse ce ne sono pervenute quattro, insieme alla memoria di una quinta, sia pure nella breve riformulazione teodosiana. Va ribadito che non si trattò, come l’ampio arco di tempo lascerebbe credere, del mero reiterarsi per inattuazione della stessa normativa, ma di una ponderata riformulazione sostenuta dai positivi riscontri. Il dispositivo, infatti, divenne via via piú stringente con il verificarsi della sua validità, prendendo l’avvio dall’iniziale promulgazione del 30 settembre 354, il cui
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testo sintetico cosí recitava: «Eccezion fatta per i senatori e i nobili, come pure per i governatori provinciali, i veterani in servizio di milizia territoriale e i decurioni, ordiniamo che a tutti gli altri residenti nel Piceno, nella Flaminia e ancora nella Puglia, Calabria, Abruzzo, Sannio e Lucania, sia proibito il possesso di uno o piú cavalli. Chi ardisca infrangere, anche minimamente, tale disposizione sarà passibile di pena capitale».
evoluzione di una villa rustica
Gli obiettivi della legge La finalità esplicita della legge non è menzionata, ma la si intuisce in base a quanto delineato e, del resto, fu meglio precisata nella seconda costituzione del 5 ottobre successivo. Il suo il testo è andato perduto, ma sappiamo che elencava gli autorizzati all’uso in deroga del cavallo. Seguí la terza, in data 21 giugno 365, che, colmando le lacune interpretative della prima e della seconda, ne ripropose la prescrizioni in questi termini: «Avendo desiderato che tutte le regioni vicine alla città fossero liberate dai molteplici crimini e rapine degli abigeatari, la nostra intenzione contemplando ciò, stabilí che in quei luoghi fosse lecito l’uso del cavallo soltanto a coloro che per la carica o per la dignità risultassero immuni da ogni sospetto delinquenziale. Ma in un secondo momento sancimmo che anche gli agenti dell’annona potessero usare i cavalli, e fossero però a conoscenza del rischio loro derivante da ciò, essendo ritenuti responsabili di qualsiasi delitto accada in quelle regione. Ora poiché apprendiamo dagli stessi agenti che attendono ai loro compiti, che questa limitazione debba essere rimossa, la tua eccellenza cosí come fu data la facoltà dell’uso dei cavalli a quelli, sappia che nessun timore abbiano delle precedenti sanzioni nei luoghi bonificati, che né dagli abigeatari né da altri delitti sono contaminati». Da quest’ultima citata costituzione, destinata
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Ricostruzione grafica di una villa rustica romana, che si articola secondo lo schema ampiamente attestato della pianta a «U», con il corpo principale della struttura a fare da base e due bracci paralleli porticati affacciati sul giardino.
al prefetto pretorio dell’Italia, si traggono alcune deduzioni: il divieto comprendeva anche la zona suburbana; l’esenzione a carico degli agenti dell’annona, in servizio nelle località infestate, fu accordata solo in un secondo momento e a loro responsabilità; il successo delle misure adottate si confermò immediato e pieno, dal momento che, appena l’anno dopo, vennero dichiarati bonificati i territori infestati; il dispositivo non decadde con il
conseguimento dell’obiettivo, ma fu solo attenuato con il ristabilimento della normalità, autorizzando altre categorie professionali al beneficio della cavalcatura.
Una limitazione poco efficace
In alto una villa rustica romana in cui la chiusura del lato aperto del giardino, l’innalzamento di due colombaie e altri interventi permettono una migliore difesa della struttura. L’ulteriore accentuazione del carattere difensivo della villa rustica: i muri di cinta si presentano ancora piú alti e massicci e le quattro torri angolari ospitano logge coperte dalle quali è possibile rispondere, protetti, a eventuali incursioni.
Per i pastori, invece, non vi fu alcuna deroga, ma il drastico divieto anche nella promulgazione di Onorio del 399 in questi termini: «Ordiniamo che i pastori della provincia della Valeria o Piceno non utilizzino cavalli. Qualora venga eluso il divieto, riterremo responsabili e quindi passibili di pena anche i proprietari e i procuratori dai quali dipendono i pastori». La grave limitazione, contrariamente a quanto si potrebbe credere, inferse scarsi danni ai coltivatori e meno ancora agli allevatori, poiché i primi da tempo si avvalevano dei buoi e rare erano le aziende dei secondi, per lo piú vincolate a forniture militari. Gravissimo, per contro, il colpo inflitto alle bande, impossibilitate a reperire altrove le cavalcature e a servirsene indisturbate. Pertanto cosí recita l’ultima costituzione: «Affinché tutti i tentativi già debilitati dei ladroni abbiano completamente fine, ai pastori delle nostre fattorie, cioè ai custodi delle pecore, nonché ai procuratori e ai factotum dei senatori interdiciamo la facoltà di possedere bestiame equino; sotto questo divieto quelli che tenteranno di violare le disposizioni della nostra mansuetudine siano costretti a subire le pene spettanti agli abigeatari». Il provvedimento, senza dubbio per il suo positivo riscontro, ebbe una longevità straordinaria, tanto che, trascurando le cooptazioni di Teodosio e di Onorio, rimase pressoché immutato fino al 534, cioè fino alla promulgazione del codice di Giustiniano. È altresí probabile che la mancata conferma da parte del grande legislatore debba ascriversi al venire meno dell’esigenza, cioè allo spegnersi del fenomeno criminoso. Tuttavia, tra le cause plausibili, non si può escludere che a far decadere la proibizione sia stato il dissolversi del benessere economico, provocato dai Vandali e dai Goti.
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il carro che indica il sud A destra padre Matteo Ricci, nel ritratto dipinto da Yu Wenhui, detto Pereira. 1610. Roma, Chiesa del GesĂş. Il missionario gesuita giunse in Cina nel 1582 e vi rimase fino alla morte, nel 1610.
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a conoscenza diretta della Cina e della sua cultura fu trasmessa in Occidente dai Gesuiti, che vi avevano insediato le loro missioni dal 1582. Fino a tale data, quanto si sapeva sul Celeste Impero risaliva, perlopiĂş, ai racconti di Marco Polo e alle testimonianze dei mercanti che lo frequentavano, per il commercio della seta. Contatti superficiali e, per giunta, effettuati da personaggi intraprendenti, ma privi di preparazione e
India, Giappone, Cina, Americhe e Africa, sempre con un preciso criterio guida: la padronanza della lingua locale e il rispetto delle tradizioni vigenti. In Cina questi capisaldi si concretizzarono nella figura di padre Matteo Ricci (1522-1610), matematico, cartografo ed esploratore, reputato la vera anima della missione tra il 1582 e il 1610, anno della sua morte a Pechino.
Un missionario alla corte imperiale
interesse per comprendere, in maniera meno epidermica, quanto a mala pena intravedevano. Con i Gesuiti la situazione cambia nettamente, per la durata dei rapporti, ininterrotti fin quasi al termine del XVIII secolo, e per l’alto livello sociale coinvolto: si consolida una presenza perciò ben diversa dalle effimere missioni francescane di trecento anni prima, peraltro finalizzate alla mera evangelizzazione. Essendo, invece, scopo precipuo della Compagnia di Gesú, riconosciuta nel 1540, la propagazione della cultura in generale e cristiana in particolare, i suoi membri avevano la necessaria preparazione scientifica per vagliare le civiltà in cui si andavano a inserire. L’opera missionaria iniziò pochi anni dopo in
Qui sopra ricostruzione in grandezza naturale di un carro che indica il Sud. Nella pagina accanto, in alto ricostruzione virtuale di carro che indica il Sud con trasmissione a cinghia.
E proprio facendo leva sulla curiosità del ceto dirigente cinese per la tecnologia, in particolare per gli orologi, il dotto missionario riuscí a entrare in contatto persino con l’imperatore. Duplice fu la sua attività di promozione culturale, in quanto contribuí a diffondere in Cina i capisaldi del sapere occidentale e in Occidente di quello cinese, esempio presto imitato da molti altri confratelli che avviarono cosí un vero processo osmotico, il cui unico limite consisteva nelle loro nozioni di base. Un esempio di tale relativismo interpretativo si coglie nel cosiddetto «carro che indica il Sud», che i religiosi edotti sul magnetismo e sulla bussola, finirono per interpretare come un arcaico congegno a calamita. Un’antesignana bussola magnetica, che, al posto dell’ago, indicava la direzione col braccio teso di una statuetta: un’aberrazione interpretativa che da allora, nonostante la sua palese assurdità, domina i trattati di storia della tecnologia, della bussola e di topografia. Quanto al congegno si trattava, in linea di larga massima, di una sorta di calessino sormontato da una statuetta il cui braccio teso forniva una rotta precisa. A ogni voltata del carro anche la statuetta voltava ma nel verso opposto, per cui il braccio indicava sempre lo stesso punto cardinale. Dalla prestazione simile alla bussola, la coerente conclusione dei religiosi, che, verosimilmente, l’avevano visto in funzione: nel braccio stava collocata una barra calamitata che orientandosi nel campo magnetico terrestre ne determinava la rotazione! Il calessino divenne un carro magnetico e il suo criterio informatore, una remota quanto ignota premessa della bussola amalfitana (cosí chiamata perché, lo ricordiamo, se ne
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ruote dentate per una maggiore precisione
Ricostruzione virtuale di carro che indica il Sud con trasmissione a lubecchi e lanterne. Questa sorta di antesignane ruote dentate eliminavano gli slittamenti della cinghia, frequente causa di eccessive approssimazioni dell’indicazione, dando perciò al congegno un’accettabile attendibilità.
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attribuisce, erroneamente, l’invenzione al navigatore di Amalfi Flavio Gioia, n.d.r.). Numerosissime sono le menzioni del singolare carro nei testi storici cinesi, la piú antica delle quali viene attribuita a Huang-ti, il semileggendario Imperatore Giallo, che sarebbe vissuto intorno al 2600 a.C. Per logica conseguenza a quella stessa data fu fatta risalire pure l’invenzione della bussola magnetica, sia pure rudimentale ed embrionale. Altre menzioni del carro, ormai magnetico per antonomasia, si rincorrono nel corso dei secoli: si ritrova sotto Cheng Wang (secondo imperatore della dinastia Chou), intorno al 1100 a.C., e poi ancora nell’opera del filosofo Han Fei Tsi (attivo nel III secolo a.C.), in cui finalmente se ne precisava il nome, Sse-nan.
Riferimenti ricorrenti Altre allusioni a carri del genere si rintracciano nel I secolo a.C. e, con piú insistenza e chiarezza, nel 255 d.C., quando l’imperatore del momento ne ordinò, a un suo scienziato, Ma Jun, la costruzione. Per alcune fonti coeve in quella circostanza si trattò piuttosto di una riscoperta, poiché, nel frattempo, sotto la dinastia Han se ne era persa completamente la memoria. Non a caso da quel momento i riferimenti a carri che indicano il Sud divengono, se non
frequenti, almeno ricorrenti, in quanto tutti gli imperatori che si avvicendarono sul trono cinese ne sollecitarono la costruzione, vuoi per uso personale vuoi per donarli ai loro dignitari. A partire dal VII secolo quei carri affiorano anche nelle cronache giapponesi e l’invenzione o la costruzione, eventi per l’epoca sostanzialmente simili, risultano attribuite a un monaco buddhista. Senza proseguire nell’elenco, va solo ribadito che gli studiosi occidentali continuarono a definire quei carri «magnetici», pur non ravvisando nelle fonti cinesi nulla che lo giustificasse. «Carri magnetici» li chiama nel 1893 padre Timoteo Bertelli (1826-1905) nei suoi Studi intorno alla bussola nautica, citando il nome Sse-nan, o Isi-nan («indicatori del Sud»), e ricordando che «tali fantocci, come si vede, erano portati da un asse verticale di legno, il quale passando per un foro praticato nel coperchio di una scatola, riusciva a quanto pare, colla sua estremità inferiore, entro un incavo fatto sul fondo della scatola stessa. Ora i forti attriti inerenti a tale apparecchio, oltre gli sbattimenti continui succussori del carro, dovevano rendere assai incerta la direzione del cammino, data da quell’istrumento».
A destra modello in scala di un carro che indica il Sud.
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il prototipo Precisava inoltre che il congegno «consisteva in una piccola figura umana di legno, alla quale era connessa una sbarretta magnetica. In virtú dell’azione direttiva di questa, quel fantoccio girevole sopra un rozzo perno, con un bracco disteso segnava, presso a poco, la regione meridionale. Egli è vero che da questo istrumento era poi facile il passaggio alla bussola marina; ma da quanto risulta dalle memorie cinesi, questa applicazione non apparisce che assai posteriore, giacché i primi indizi certi della descrizione e uso della bussola non si trovano che in due documenti l’uno del principio del secolo XII e l’altro della fine del secolo XIII».
Prospetti laterale e frontale del carro che indica il Sud del tipo piú arcaico. Per il suo corretto funzionamento, le due ruote a raggi dovevano essere rigorosamente uguali fra loro, cosí pure le due pulegge verticali a esse solidali e le due pulegge orizzontali coassiali all’interno del telaio.
La scoperta del magnetismo Lo stupore per quel mancato perfezionamento, a quel punto fin troppo facile, contrasta però con la tardiva scoperta del magnetismo, che cosí puntualizzava, poco piú avanti: «[abbiamo solo] nel secolo XI l’unico documento cinese (...) intorno alla calamita (...) [e] il modo che tenevano a calamitar l’ago, per confricazione della magnete». E concordando quest’ultima fondamentale indicazione con molte altre similari, si può concludere che i Cinesi pervennero alla bussola magnetica, in una forma rudimentale, fra il XII e il XIII secolo, dopo aver iniziato a sperimentare le possibili applicazioni del magnetismo soltanto nel
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Monumentoriproduzione in scala gigante della primitiva bussola magnetica cinese.
secolo precedente. In definitiva i Cinesi non compirono il facile passaggio dalla statuina rotante all’ago rotante semplicemente perché nella prima, a differenza che nel secondo, il magnetismo non c’entrava affatto, né mai avrebbe potuto! Dal punto di vista dinamico, infatti, il perno che sosteneva la statuina, e su cui avrebbe dovuto girare, per darle stabilità doveva penetrarla quasi per l’intera altezza, ma il peso dell’ipotetico magnete a sbalzo, l’avrebbe fatta strisciare sul perno stesso, bloccandola. Sebbene consci della frustrante resistenza, le attribuirono, semplicemente, una scarsa attendibilità nell’indicazione, accresciuta dai sobbalzi del carro. In tal caso, però,
fermatosi il carro e cessate le sollecitazioni, il braccio proprio perché magnetico, si sarebbe subito orientato correttamente, ed essendo le soste, non solo frequenti, ma sistematiche, il congegno non avrebbe differito gran che da una normale bussola magnetica navale, durante una tempesta. Inevitabile la domanda: da che cosa era mosso allora il braccio della statuetta del carro che indica il Sud? La rotazione del braccio, e lo dimostrano le numerose ricostruzioni del congegno, ebbe un’attivazione meccanica, e dipese da un antesignano rotismo differenziale, un treno di ruote dentate, lubecchi e rocchetti, o lanterne, connessi fra loro, a formare un congegno analogo a quello che oggi troviamo fra le ruote motrici delle autovetture. Chiunque abbia dimestichezza con la guida, sa che cosa sia il differenziale e a che cosa serva, ma pochi conoscono il principio che ne permette il funzionamento, e quasi nessuno che sia comparso quasi quattromila anni fa. Restando all’ambito della nostra attività di conducenti, ricordiamo che si tratta del dispositivo con cui si trasferiscono in curva i giri in eccesso della ruota interna, che descrive una minore traiettoria, alla ruota esterna che li richiede, in quanto ne descrive, invece, una maggiore. Nella fattispecie, il rotismo differenziale era azionato dalle due opposte ruote del carro, di pari diametro e in grado di girare indipendentemente l’una dall’altra. Solidali a esse erano due lubecchi identici, collegati entrambi ad altri due minori uguali e orizzontali. Questi, a loro volta, ponevano in rotazione due
planetari simmetrici, orizzontali e in folle sul medesimo perno. Fra i planetari stavano uno o piú satelliti, in folle, sopra un supporto solidale allo stesso perno, recante in sommità la statuina. Quando il carro avanzava in direzione rettilinea, i due planetari, girando con uguale velocità angolare e verso opposto, ponevano in rotazione i satelliti, che giravano però solo intorno al proprio asse, lasciando fermo il perno verticale e la relativa statuetta; quando, invece, il carro voltava, le ruote imprimevano una diversa velocità angolare ai planetari, provocando in tal modo, insieme alla rotazione dei satelliti, anche quella del loro supporto. Questo, insieme alla statuina, descriveva perciò un angolo uguale a quello della voltata, ma opposto, per cui il braccio teso non mutava orientamento.
I primi esemplari Come ogni meccanismo complesso, anche il differenziale del carro cinese fu l’esito di una lunga evoluzione: se ne conosce, infatti, una tipologia piú arcaica, basata sull’impiego di pulegge con funi al posto dei lubecchi. Un’altra, forse persino piú antica, constava di due lubecchi, solidali alle ruote, uno centrale col perno della statuina, e altri due di collegamento, la cui rotazione, però, veniva attivata e disattivata dalla stanga mobile del calesse. Un congegno del genere risulta certamente di scarsa precisione, e il suo funzionamento ottimale poteva avvenire soltanto in assenza di strisciamenti delle ruote del carro e senza asperità della strada. Pur trattandosi di condizioni ideali, nella realtà gli scarti restavano limitati e poiché in un giorno di marcia un carro percorreva una ventina di chilometri, la deviazione nel piatto deserto dei Gobi era trascurabile, compensata per giunta ogni mattina al sorgere del sole e ogni mezzogiorno quando con la sua ombra minima indicava il Nord. Quanto al rotismo differenziale, dopo un’effimera apparizione nel I secolo d.C., nel meccanismo di Anticitera, e qualche confuso accenno fra gli schizzi di Leonardo da Vinci, ricomparve in Occidente solo nel 1827, quando un orologiaio francese lo brevettò per l’installazione su di un veicolo a vapore.
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LE Forche Caudine E IL BOATO MISTERIOSO N
ella primavera del 321 a.C. un esercito consolare romano si è incuneato nel Sannio, per una ennesima campagna offensiva. La sua base è presso Caiatia (oggi Caiazzo, in provincia di Caserta), a fianco al Volturno dove, nell’imminenza dell’avvio delle operazioni, giunge una tragica notizia: i Sanniti hanno stretto d’assedio Lucera, ultima città non ostile ai Romani nel Meridione. Senza immediati aiuti, capitolerà in pochi giorni. Per scongiurare l’infausto evento è necessario accorrervi al piú presto, superando il prospiciente massiccio del Taburno, per poi proseguire verso Levante per
Modellino in bronzo di guerriero sannita, equipaggiato con l’armamento in uso all’epoca dell’episodio delle Forche Caudine. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto carta geografica del Sannio, tratta dall’opera dello storico Gianfranco Trutta, pubblicata nel 1776. In basso a destra, evidenziata dal riquadro, la zona a ridosso del Monte Taburno, in cui è compresa la Valle Caudina.
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un centinaio di miglia. Essendo l’urgenza la priorità assoluta, occorre evitare qualsiasi scaramuccia con i Sanniti lungo i due possibili itinerari, dei quali uno, discreto, per la Valle Caudina, sicuramente presidiato; l’altro, pessimo, lungo il greto del Calore, e non meno controllato. Ci si ricorda allora di un remoto tratturello per le capre che valica la montagna, noto da millenni ai pastori, reputato però impercorribile per uomini in armi, che Tito Livio cosí descrive: «la seconda via, piú breve attraverso le
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Carta dell’Italia centro-meridionale sulla quale sono indicati i principali insediamenti sanniti. Non sempre ne sono note la denominazione in lingua osca e l’ubicazione e ciò spiega la presenza dei punti interrogativi.
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strettoie di Caudio. Ma la configurazione naturale di questa è la seguente: due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l’una all’altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura abbastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l’abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorrere lo stesso cammino o, se vuoi continuare in avanti, superare l’altra gola, piú stretta e irta di
| Chi erano i Sanniti | Popolo italico insediato sugli aridi altipiani dell’Appennino meridionale, parlante una lingua del gruppo osco, i Sanniti – propaggine del piú ampio gruppo dei Sabini – erano a loro volta un popolo dalle molte ramificazioni: i piú importanti erano gli Irpini, i Caraceni, i Pentri e i Caudini. Nel V e IV secolo a.C. alcune tribú si staccarono dal gruppo originario, dirigendosi verso le zone costiere, alla ricerca di terre piú fertili e ricche: un gruppo di Irpini si stabilí tra il Sele e il Bradano, dando origine al popolo dei Lucani; un ramo di questi, i Bruzi, invase la Calabria sottomettendo parecchie città greche, tra cui Sibari; altri gruppi occuparono invece la Campania, dove si amalgamarono velocemente con Etruschi e Greci, dando origine alla civiltà osca. A differenza di questi gruppi di invasori, che assimilarono facilmente la civiltà greco-etrusca, le tribú rimaste nel Sannio conservarono abitudini e forme di vita primitive: dedite alla pastorizia e distribuite in villaggi (tra cui la capitale Bovianum Vetus, oggi Pietrabbondante), non riuscirono mai a costituire un’unità politica o amministrativa; i vari gruppi, a capo di ognuno dei quali era un meddix (giudice), erano però riuniti in una forte federazione. Nel 354 a.C. strinsero un patto di amicizia con i Romani, ma la politica di espansione che entrambi i popoli perseguivano li portò inevitabilmente, nel giro di pochi decenni, alla guerra, che si risolse a favore di Roma dopo una lotta molto aspra, che durò con alterne vicende e fasi dal 326 al 304. Nel 295, alleatisi con Etruschi, Sabini, Umbri e Galli, i Sanniti tentarono di ribellarsi a Roma, ma la coalizione fu sconfitta a Sentinum in Umbria. In seguito il dominio romano nel Sannio andò sempre piú consolidandosi, specialmente attraverso gli insediamenti di colonie latine, tra cui notevoli furono quelle di Benevento (268) e di Isernia (263). Tuttavia, durante la guerra sociale (90-88 a.C.) i Sanniti furono ancora tra i piú bellicosi avversari di Roma e fu Silla a obbligarli alla resa dopo massacri e rappresaglie. Per questo, nella lotta successiva tra Mario e Silla, appoggiarono il partito mariano tanto che Preneste, dove si erano arroccati, divenne il centro della resistenza democratica; ma, nuovamente sconfitti, furono debellati definitivamente da Silla davanti alle mura di Roma. (red.)
ostacoli» (Ab Urbe condita, IX, 2). Un corpo di spedizione, con equipaggiamento ridotto, potrebbe riuscirci: una scelta temeraria, ma la sola che, eludendo i Sanniti, consentirebbe di raggiungere in tempo utile Lucera.
Un racconto con molte incongruenze Alle spalle della vicenda delle Forche Caudine si impongono due quesiti poco considerati: l’agguato nella stretta di Caudio fu per i Sanniti una fortunata sorpresa tattica o il prodromo di un piú ampio disegno strategico? Nel primo
caso, sarebbe stato un capolavoro di sfruttamento di una occasione irripetibile, avallando perciò la retorica visione di astuti Sanniti e di stolti Romani: gli uni tanto scaltri da organizzare in poche ore una trappola micidiale e gli altri tanto ottusi da finirvi dentro a migliaia. Entrambi dunque sarebbero ottimi figuranti per una farsa, ma scarsamente verosimili dal punto di vista militare. Nel secondo caso, invece, la disfatta romana non può ascriversi né all’insipienza, né alla temeriarietà dei consoli, poiché il dispositivo del sannita Gaio Ponzio Telesino si basava su due alternative, entrambe gravide di funeste conseguenze per i Romani. Non correre in aiuto di Lucera, o farlo con lentezza, aprendosi con le armi la strada fra gli avamposti sanniti, avrebbe implicato la perdita dell’intero Meridione. Valicare d’impeto la montagna, possibilità implicitamente suggerita, li avrebbe portati nella trappola. I Romani, infatti, convintisi di disporre solo di quella azzardata manovra, pur non ignorando i rischi di una imboscata, procedura cara ai Sanniti, supposero di poterne contenere le perdite partendo all’improvviso e senza vistosi preparativi. Del resto, proprio per questa ragione, la tattica vede nella strada Antica carta del percorso dell’Appia nella quale sono riportate le posizioni di Calatia presso il Volturno e di Galaria lungo la stessa consolare, dopo Caserta.
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una perfetta macchina da guerra
peggiore la migliore, capace per la sua imprevedibilità, di rovesciare le sorti di una situazione compromessa. Emergono cosí gli estremi teorici militari dell’indagine che segue, e che vuole distinguersi da quelle di matrice umanistica. L’incipit è il tentativo di definire, per esclusione dei siti tecnicamente non idonei, il meno improbabile per il mitico agguato. La strettoia dell’agguato fu non lontano dalle pendici o persino sul valico del Taburno e Tito Livio, fornendone un identikit morfologico apparentemente evidente – una gola singolare percorsa da un cupo sentiero – ne ha fatto ritenere facile l’identificazione. In realtà, le sue descrizioni, dell’una e dell’altro, sono cosí tanto generiche, che, volendo, potrebbero ben riferirsi al Gran Canyon o a Roncisvalle! Siamo insomma di fronte a una elusività per supplire alla quale occorre procedere sulla base della congruità delle singole variabili in gioco nella vicenda. La prima variabile riguarda l’entità dei Romani finiti nella sacca, che oscilla fra il migliaio e i
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quasi 50 000 legionari delle stime piú generose. Per molteplici conclusioni appare verosimile un corpo di spedizione formato da 10 000 uomini, due legioni circa, con 600 cavalieri, ridotto equipaggiamento e viveri individuali. Salmerie, attrezzi ed eventuali ausiliari, perciò, sarebbero rimasti nella base.
Il problema del disarmo Di gole in grado di fagocitare piú di 10 000 uomini, tra la Campania e la Puglia se ne trovano molte, ma tale capacità costituisce la connotazione necessaria, ma non certo sufficiente all’agguato, poiché il vero problema non è il contenimento, ma il disarmo di tanti uomini! In una stretta gola, in via puramente teorica, si può pensare che dopo la resa per fame, le schiere, una dopo l’altra, depongano le armi presso il varco d’uscita, vedendosi impedita dalla mancanza di spazio una ultima reazione disperata. Ma è mai esistita una gola dalle pareti cosí ripide da non poter essere scalate? Il discorso si fa ancor meno sostenibile nel caso di una gola molto ampia
L’organico di una legione manipolare, che sarà modificata nel corso della seconda metà del IV sec., proprio per meglio adattarla alla guerra nel Sannio: 1. manipoli; 2. hastati.
dove, invece, la renitenza degli sconfitti al disarmo avrebbe potuto attizzare uno scontro all’ultimo sangue. La gola perciò, considerata come mero supporto tattico e non come improbabile reclusorio inviolabile, non presenta connotazioni singolari. Del resto anche far derivare il toponimo di Forchia, paesino fra Arienzo e Arpaia nella Valle Caudina, dal mitico agguato è una forzatura poiché «forca», etimologicamente frequente, indica una biforcazione viaria. Una forzatura simile a quella che identifica la Caiatia di Livio, con Calatia, ubicandola per assonanza nel sito di Galazia o Galazze, abitato romano i cui ruderi affiorano vicino Maddaloni, una decina di chilometri piú a sud, lungo l’Appia, spostando perciò la base di partenza dai pressi dell’attuale Caiazzo, a fianco al Volturno. Al riguardo vi è confusione già sulla Tavola Peutingeriana, che li riporta rispettivamente come Gahatia e Calatia, ma mentre la prima identificazione è congrua ai vigenti criteri militari, in quanto un campo legionario poteva essere impiantato soltanto nelle adiacenze
A destra particolare di un affresco tombale raffigurante un cavaliere sannita con scudo rotondo e lancia, da Paestum. IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il guerriero, vestito con una corta tunica stretta alla vita da una cintura, presenta un elmo crestato munito di paraguance, gambe coperte da schinieri e piedi nudi.
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dell’acqua – condizione imprescindibile per potere ospitare tanti uomini e animali –, la seconda, oltre a difettarne del tutto, contrasta anche con la dinamica dell’episodio. Occorre precisare che, sebbene i castra romani siano attestati dalla fine del IV secolo a.C., strutture tanto complesse non apparvero all’improvviso, ma dopo ripetute migliorie.
Soldati, non giovani esploratori... È perciò logico supporre che, pochi decenni prima, qualcosa di molto simile fosse già utilizzato e che dunque non vi sia alcun anacronismo in Livio quando lo ricorda a Caiatia, né a ritenerlo utilizzato dal corpo di spedizione. Né si può immaginare un migliaio di tende, in zona nemica, sparpagliate come quelle dei boy scout! Ciò premesso, dove poteva trovarsi quel grande accampamento per due legioni? Dopo le prime campagne nel Sannio, i Romani compresero che qualsiasi loro movimento era spiato e che nessuna iniziativa poteva effettuarsi di sorpresa, a meno che non fosse fulminea e apparentemente dissennata. Il dirigere perciò verso una strettoia impervia non può essere interpretato come una stupida ingenuità, ma come una precisa scelta tattica: se i Romani si addentrarono nelle Forche non fu perché non le conoscevano, ma perché, conoscendole, ne Stralcio cartografico della tavoletta al 25 000 dell’IGMI relativa alla Piana di Prata, con i due sentieri, ascendente e discendente, tra Frasso Telesino e Cautano.
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avevano ponderato difficoltà e rischi. In caso contrario, nessun console avrebbe agito in maniera tanto avventata, in nessuna circostanza e per nessuna ragione. Prassi che porta a supporre il campo base sulla riva sinistra del Volturno, come una sorta di testa di ponte, da cui in qualsiasi momento, e senza evidenti preparativi, poteva scattare un’avanzata aggressiva, non impacciata da un esasperante guado, che infatti Livio non ricorda. E appunto sulla riva sinistra, di fronte a Caiazzo, in un’area perfettamente pianeggiante, sulla già citata Tavola Peutingeriana si legge uno strano toponimo: Castra Aniba. Per gli studiosi, Castra Aniba ricorda il luogo in cui Annibale pose il suo campo nel corso delle operazioni contro Caiazzo, nel 216 a.C., un campo quindi prossimo a Caiatia, mutatosi poi in toponimo per la sua lunga permanenza. Dal momento che i Cartaginesi non ne costruivano si può concludere che Annibale si limitò a riutilizzarlo quando, in possesso di un enorme bottino, volle custodirlo in un luogo sicuro e riparato. Ideale, perciò, la vecchia base legionaria che, per l’ubicazione e le residue fortificazioni, rispondeva ottimamente all’esigenza. Secondo questa ipotesi, da lí sarebbe partito, inerpicandosi verso il valico del Taburno, il corpo di spedizione che poche ore
le guerre sannitiche 343-341 a.C. Prima guerra sannitica. 343 a.C. Il conflitto ha inizio quando i Sanniti cercano di conquistare la Campania e assediano Capua. I Romani intervengono in difesa della città campana. 341 a.C. Vittoria dei Romani a Suessola per merito del tribuno militare P. Decio Mure. I Sanniti si ritirano dalla Campania. 327-304 a.C. Seconda guerra sannitica. I Romani intervengono contro Napoli che si è posta sotto la protezione dei Sanniti. 321 a.C. Imboscata delle Forche Caudine e umiliazione dei Romani costretti a passare sotto il giogo dei nemici comandati da Gaio Ponzio. 305 a.C. Sconfitta dei Sanniti a Boviano. 298-291 a.C. Terza guerra sannitica. 298 a.C. Alleanza dei Sanniti con gli Etruschi, gli Umbri, i Sabini, i Lucani, i Galli Sènoni per sconfiggere i Romani. 295 a.C. Vittoria dei Romani a Sentino (Marche) contro gli Italici. I Romani sono guidati da P. Decio Mure, figlio del vincitore di Suessola, che muore in battaglia. 291 a.C. Fine dei conflitti per opera del console M. Curio Dentato.
dopo finí nella sacca di Caudio. Un ulteriore argomento a sostegno di tale ubicazione si ricava dalle distanze relative tra campo base e sacca. In dettaglio, sebbene la Calatia prossima a Maddaloni risulti ubicata favorevolmente per Montesarchio attraverso la Valle Caudina, 12 km dell’Appia la separano da Arienzo, 13 da Forchia e 15 da Arpaia: distanze al limite della marcia giornaliera di un esercito romano in trasferimento, soprattutto se in territorio nemico e in salita.
Un sito adatto all’accampamento Per conseguenza, se il primo sbarramento fosse stato a Forchia – peraltro priva di prati e di acqua – quasi al termine della tappa, quando la testa della colonna lo avesse raggiunto, la coda sarebbe stata ancora nella piana
sottostante, dove, per l’ampiezza del luogo, mai si sarebbe potuto erigere il secondo sbarramento. E sarebbe stato altrettanto assurdo rinviare la scoperta del primo sbarramento al giorno successivo, dopo una sosta notturna, poiché sarebbe stato subito scoperto dagli esploratori senza che alle spalle vi fosse alcun punto idoneo al secondo sbarramento. Partendo, invece, da Castra Aniba e dirigendo verso il valico del Taburno, dopo 12 Km circa di percorso, indubbiamente piú duro e spossante, si sarebbe però raggiunta la Piana di Prata, racchiusa fra le cime dei monti. Qui sono molte e abbondanti le sorgenti, rigoglioso il pascolo, ampio e piatto il terreno, ideale per accamparsi. Tempi di percorrenza uguali, dunque, ma siti d’arrivo completamente diversi.
Veduta dall’alto del tratturo che da Frasso Telesino risale sulla Piana di Prata.
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secondo schema
DIREZIONE DI MARCIA
Lo schema di marcia di una legione romana ricostruito secondo quanto scrive lo storico greco Polibio (attivo nel II sec. a.C.) 1. Ausiliari-arcieri 2. Cavalleria-fanteria pesante 3. Genio pionieri 4. Genio zappatori 5. Salmerie 6. Comando generale e scorta 7. Cavalleria legionaria 8. Artiglieria e macchine ippotrainate 9. Comandi reparti 10. Insegne e scorta 11. Trombettieri 12. Fanteria legionaria 13. Trasporti e servi 14. Mercenari 15. Retroguardia
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Un altro schema di marcia di una legione, ricostruito anch’esso sulla base delle informazioni fornite da Polibio.
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Le ipotesi finora esposte, per potersi ritenere verosimili, devono risultare compatibili con la percorrenza quotidiana e con la lunghezza delle legioni in marcia, obbligando perciò a una breve digressione sulle loro modalità di trasferimento, dal «pronti a muovere» all’«alt».
In marcia dopo una colazione frugale Dalle fonti si apprende che, dopo una frugale colazione all’alba, al terzo squillo di tromba, i Romani si muovevano, avanzando per circa sette ore, completando poi la costruzione del
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campo. Nulla era lasciato alla discrezione, soprattutto quando la marcia avveniva in territorio nemico, caso in cui la cavalleria effettuava ricognizioni a medio raggio e incessanti andirivieni sui fianchi della colonna, per evitare sbrancamenti. La tappa doveva essere sempre inferiore alle potenzialità di marcia dei legionari per lasciare loro, in ogni circostanza, energia fisica sufficiente per respingere eventuali assalti (una precauzione che giustifica la breve distanza fra i campi notturni). Tuttavia, e non di rado, si legge di
A sinistra ricostruzione grafica di una legione romana in procinto di mettersi in marcia.
Dall’alto in basso raffigurazione di due manipoli in procinto di muoversi e poi in marcia: è facile constatare il loro notevole allungamento.
legioni capaci di percorrere anche 30 km al giorno, prestazioni eccezionali, ma certamente agevolate dalla mancanza delle salmerie e dalle strade, la massima infrastruttura militare della storia. Nel 321 a.C., però, quella superba rete viaria non esisteva ancora e qualsiasi spostamento, anche di pochi chilometri, incontrava difficoltà immense, al punto da far definire impedimenta tutti gli indispensabili carriaggi. E se in pianura una legione veniva suddivisa in colonne parallele, accelerandone l’avanzamento, in montagna si trasformava in
un interminabile serpentone, di lunghezza imprecisata. Per tentare di valutarla, occorre osservare che lo stesso reparto in marcia risultava molto piú esteso che da fermo, per una ragione abbastanza semplice, ma che ha una rilevanza notevole nella vicenda. Un gruppo di automobili ferme davanti a un semaforo rosso, non riparte all’unisono, come le carrozze di un treno, per cui, a differenza di queste, al crescere delle distanze reciproche aumenta l’estensione collettiva. Per i veicoli autonomi, quindi, l’estensione
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In alto, a sinistra il versante del Taburno che discende verso Cautano. In alto, sulle due pagine fotopiano dell’area compresa tra la confluenza del Calore con il Volturno. Il cerchio indica il Castra Aniba, mentre il riquadro evidenzia il massiccio del Taburno con la Piana di Prata. Nella pagina accanto, in basso scorcio del tratturo, in uso già da epoca preistorica, che da Frasso Telesino sale alla Piana di Prata.
statica e quella dinamica non coincidono, a differenza di quelli vincolati sempre uguali. Un susseguirsi di soste e di ripartenze produce un alternarsi di costipazioni e diradamenti, definito traffico «a fisarmonica», con un andamento che trova un esatto corrispettivo anche nelle colonne di uomini, il cui allungamento cresce proporzionalmente alla loro entità numerica e alle interruzioni. La sola contromisura, che comunque risolveva solo parzialmente il problema, consisteva nel frazionare le grandi unità in tanti gruppi piú piccoli, piú semplici da gestire e sincronizzare. All’epoca delle legioni, dunque, è plausibile stimare per una grande unità in trasferimento, su di un terreno pianeggiante o appena inclinato, una velocità media non superiore ai 3 km/h nella migliore delle ipotesi. Poiché, però, anche la minima pendenza rallentava i carriaggi, appare sensato ridurla a un paio di km/h. Pertanto, un itinerario montano di 12 km circa veniva percorso da una lunga colonna in 7-8 ore consecutive, confermandosi cosí pari alla tappa quotidiana. Un’entità modesta, imposta, piú che dalla lentezza della marcia, dalla frequenza dei corsi d’acqua da superare: il guado di un fosso di pochi metri di larghezza, imponeva ore di fatiche. Come se non
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bastasse, poiché cavalli e muli richiedevano una razione quotidiana in peso decupla di quella di un uomo, per ridurre le grandi quantità di foraggio altrimenti necessarie, venivano lasciati pascolare ovunque possibile, rallentando ulteriormente l’andatura.
Un convoglio lunghissimo Da quanto fin qui delineato, si ricavano almeno due prime conclusioni parziali circa il movimento di un esercito romano o di una sua grande unità. Innanzitutto, avanzando su di un’unica colonna, situazione inevitabile nei percorsi angusti, sia che si inerpicasse verso la sella di Arienzo che verso il pianoro sommitale del Taburno, la sua lunghezza non poteva scendere sotto i 6‑8 km, soprattutto sostituendo ai carri carovane di muli. Un serpentone, quindi, di uomini e animali, che arranca sotto il sole e sotto gli occhi di un nemico, con uno sfalsamento fra la testa e la coda di almeno tre ore. Pertanto, mentre gli exploratores si devono immaginare già sul sito del nuovo campo, è probabile che la retroguardia fosse ancora presso il vecchio. In generale, quindi, negli itinerari montani l’intero sfilamento da un campo al successivo occupava spesso i due terzi della relativa
distanza, con pattuglie montate che ne proteggevano i fianchi fino al termine del trasferimento, a pomeriggio inoltrato. Solo da questo momento in poi, la pista alle spalle dell’esercito tornava libera e poteva essere impegnata da eventuali nemici, senza eccessivi rischi di venire scoperti o intercettati dai cavalieri. La costruzione del secondo sbarramento, che avrebbe dovuto interdire la ritirata ai Romani, quando l’avanzata fosse stata già bloccata dal primo, si sarebbe perciò potuta avviare solo da quel preciso momento. Considerando la brevità della notte estiva, quella sorta di diga ammorsata alle opposte pendici della gola avrebbe dovuto essere innalzata in poche ore: piú che scienza, fantascienza! Volendo verificare, dal punto di vista militare, la compatibilità della sella di Arienzo-ForchiaArpaia con l’agguato, la prima incongruenza consiste nel dover prolungare la marcia dalla Calatia di Maddaloni ben oltre i 15 km, eliminando il campo notturno. In tal caso, infatti, gli esploratori si sarebbero necessariamente dovuti imbattere, e con notevole anticipo, nel primo sbarramento, quello che precludeva la fuoriuscita dalla stretta – si fa per dire, con i suoi 500 m di larghezza minima – verso Caudio.
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tra Melizzano e Dugenta, il corpo di spedizione, dopo le fatidiche sei-sette ore di marcia, inerpicandosi lungo il preistorico tratturo, sarebbe pervenuto sul pianoro di Prata: nessun allarme dalle pattuglie in ricognizione, nulla di sospetto sulle pendici laterali, peraltro troppo distanti per tiri insidiosi di dardi, e nulla neppure all’imbocco del tratturo discendente. Nulla di sospetto se non l’endemica e sfuggente presenza nemica: e sarebbe stato inutilmente rischioso spingersi oltre nel sentiero discendente coperto dalla vegetazione. Una trascuratezza giustificabile, che diverrà il prodromo della disfatta e, probabilmente, la sua principale concausa. In quelle stesse ore, infatti, appena piú innanzi di dove le pattuglie si erano spinte in ricognizione, il tratturo era già ostruito e presidiato da Sanniti in assetto di combattimento. Questa allora la probabile scansione della vicenda.
La formazione del campo insediamenti preistorici Fotografia zenitale della Piana di Prata con, in evidenza, il probabile sito del campo, le sorgenti e gli insediamenti preistorici.
sorgenti perenni principali
Ne sarebbero risultati una marcia interminabile, una grave penuria di acqua, l’assenza assoluta di ricognizione limitrofa, e il mancato impianto del campo per la notte: una sequenza di gravissime infrazioni alla tassativa normativa militare, che, peraltro, non risolve ancora il grande enigma dell’altro sbarramento, destinato a bloccare la retromarcia. L’altra incongruenza consiste nel supporre l’impatto con il primo sbarramento nel corso della stessa mattinata, evento che, per coerenza cronologica, deve inevitabilmente collocarsi in prossimità della sosta. In caso contrario, infatti, la coda della colonna sarebbe stata ancora tanto vicina al campo-base, da potervi fare pronto ritorno al primo dietrofront. Il che oltre a comportare un’assoluta mancanza di ricognizione, implica, soprattutto, che il secondo sbarramento avrebbe dovuto essere eretto nella parte residua della mattinata, subito dopo il transito della colonna e prima del suo arresto e conseguente dietrofront. Cioè di giorno e in meno di un paio di ore! Partendo, invece, dalla riva sinistra del Volturno,
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Tra la metà mattinata e il primo pomeriggio, l’intero corpo di spedizione romano raggiunge la Piana di Prata. Liberati dai basti gli animali per lasciarli pascolare e abbeverare, mentre alcune coorti si dispongono a difesa, altre avviano la formazione del campo. A prescindere dalla minore o maggiore idoneità dei siti di Arienzo-Arpaia e di Prata a ospitare un accampamento legionario, volendo ricostruire la vicenda secondo una meno forzata scaletta cronologica, appare evidente che, in entrambi i casi, il primo sbarramento si deve supporre, inevitabilmente, al di là del raggio di marcia giornaliero di un esercito romano. Ne consegue la necessità di collocare la sua scoperta nella mattina successiva, nel corso della quale deve compiersi la prima parte della vicenda dell’agguato alle Forche Caudine, quella del completo accerchiamento. Sebbene, come in precedenza evidenziato, la narrazione di Livio sia compilata in modo da impedire qualsiasi riscontro spazio‑temporale, la sensazione che si è sempre ricavata dalla lettura dell’episodio ha indotto tutti gli studiosi a inquadrare l’insaccamento dei Romani in un’unica giornata, la stessa della partenza da Caiatia. In realtà nessuna delle parole dello
storico avalla tale interpretazione o smentisce l’ipotesi che, invece, sia avvenuto nella mattinata del giorno successivo. Anche ammettendo che i legionari avessero marciato per l’intera giornata, sarebbero pervenuti al primo sbarramento sul finire della stessa. Ma, a quell’ora, il sito per il campo avrebbe già dovuto essere stato individuato e delimitato dai pionieri. È poi impensabile che il corpo di spedizione non costruisse un campo blandamente fortificato: sostenerlo sarebbe un’ottusa saccenteria, trattandosi di oltre un migliaio di tende e piú ancora di quadrupedi, altrimenti esposti a ogni aggressione notturna. Tuttavia, nella descrizione di Livio, vi è la menzione di un «campo erboso e acquoso, un prato pianeggiante attraversato al centro dal sentiero». Non un campo adiacente un fiume, un torrente o un lago, designati sempre con il loro nome generico e, spesso, con quello proprio, ma vicino all’acqua, un’indicazione che calza con le vicine sorgenti, di grande portata (che non a caso furono poi canalizzate per alimentare le cascate della Reggia di Caserta). L’inconsueta specificazione si trasforma in un indicatore geografico significativo, con il quale molti studiosi alle prese con la vicenda si sono dovuti cimentare, spesso senza venirne a capo. E che non fosse una presenza abituale è confermato dall’insistenza di Livio, che ricorda come il castra propter aquam costruito in precedenza, venne fortificato. Una connotazione che non si attaglia affatto all’arida Valle Caudina fra Arienzo e Arpaia, né alla piana ai piedi di Montesarchio.
valanghe artificiali In alto schema delle valanghe artificiali di sassi. In basso scorcio di un terrazzamento sannita in opera poligonale sul Monte Cila, a Piedimonte Matese.
Una versione poco convincente Per la propaganda di Roma esulava dalle capacità dei Sanniti, primitivi e rozzi, concepire un piano tanto efficace da catturare un intero esercito romano. Secondo la versione ufficiale, si trattò, se mai, del fortunatissimo esito di un’imboscata, favorita dalla inadeguatezza dei consoli. Ma è credibile immaginare che i Sanniti si attivassero per organizzare una sacca per tanti legionari, poche ore prima del loro sfilamento? E, piú ancora, che ambedue i consoli fossero cosí avventati da imboccare un
percorso ignoto, e sinistro, senza l’abituale avanguardia e per giunta in base alle indicazioni di pastori locali? L’episodio delle Forche Caudine è frutto dell’applicazione di una tattica archetipale dei montanari, ma non per questo può ritenersi banale e facile da organizzare. Le Forche Caudine, inoltre, per la loro rilevanza, non
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vanno valutate alla stregua della piú grossa trappola primitiva, ma della piú grande manovra a tenaglia dell’antichità. È perciò logico immaginare che l’operazione fosse stata accuratamente pianificata, in particolare per ciò che riguarda il secondo sbarramento che, per quanto fin qui detto, non poteva essere costruito in alcun modo. Un sistema alternativo consisteva nel provocare frane artificiali, innescando valanghe di pietre precariamente accatastate. Secondo tale ipotesi, il secondo sbarramento, a differenza del primo, non sarebbe mai stato innalzato, né nello stesso giorno, né nella notte successiva, ma solo predisposto, dandogli la parvenza di un tipico ballatoio difensivo sannita in opera poligonale. I materiali da far precipitare in basso sarebbero stati accumulati alle spalle di due mura di grossi massi, collocate in alto sulle opposte pendici, nel punto piú stretto della gola, in ragione di circa 800 mc ciascuna. Ne avrebbero impedito la caduta prematura, robusti puntelli di legno trattenuti da funi, accortamente mimetizzate. Una trappola inesorabile, pronta a scattare senza alcun preavviso, micidiale e fulminea.
Tronchi e macigni sbarrano la marcia Il fallito tentativo di fuoriuscita dalla prima strettoia, pertanto, dovette essere preceduto da un episodio del tutto ignoto, o ignorato, dalla rievocazione classica, che può ipotizzarsi come segue, sulla falsariga di Tito Livio che cosí lo descrisse: «I Romani, discesi con tutto l’esercito nella radura per una strada ricavata nelle rocce, quando vollero attaccare senza indugi la seconda gola, la trovarono sbarrata da tronchi d’albero e da ammassi di poderosi macigni. A codesta constatazione dell’imboscata nemica si aggiunse anche la vista di presidi armati sulle alture circostanti. In gran fretta quindi ritornano sui loro passi per uscire di là dove erano entrati: ma trovano anche la prima gola chiusa allo stesso modo e presidiata da armati. Senza che ne venga dato l’ordine si arrestano: gli animi sono presi da sgomento, le membra irrigidite da una specie di torpore; si guardano gli uni con gli altri come se ciascuno cercasse
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nel viso del compagno un’idea o un progetto di cui si sente privo: immobili in lungo silenzio. Poi, quando videro che si rizzavano le tende pretorie, che alcuni si accingevano ai lavori di fortificazione, pur essendo convinti che in quelle condizioni disperate senza via d’uscita quel lavoro sembrava quasi una beffa (...) tutti (...) si accinsero all’opera, circondando il campo con un terrapieno, nelle vicinanze dell’acqua: ma essi stessi ammettevano (...) l’inutilità di quella fatica, alla quale, per di piú, anche i nemici irridevano con disprezzo. Legati e tribuni si raccolgono spontaneamente intorno ai consoli che neppure pensavano a radunarli a consiglio, quando né di consigli né di aiuti si vedeva la possibilità: anche i soldati, lo sguardo fisso alla tenda pretoria, chiedono ai loro comandanti un soccorso che appena appena poteva giungere dagli dèi immortali» (Ab Urbe condita, Libro IX).
Un groviglio di uomini e di animali Dopo il tranquillo pernottamento sul pianoro di Prata, all’alba la marcia riprende, lungo il sentiero discendente. La testa della colonna, però, si arresta bruscamente quasi subito, confondendosi con gli esploratori che, attoniti, non hanno avuto il tempo per dare l’allarme. Alle loro spalle i cavalli e i muli si urtano e scalciano nervosi. Gli uomini, dal canto loro, si accalcano senza una precisa ragione e la marcia cessa del tutto. Prima la curiosità e poi il timore iniziano a propagarsi insieme al caos: la colonna è ormai un groviglio di uomini e di animali, di improperi e di ordini urlati, di ragli e di nitriti. A quanti possono vederlo direttamente, l’ostacolo incute un immediato terrore, non già per la sua mole, ma per la sua evidente fattura. Dal centro dell’assembramento si cerca di capire che cosa stia accadendo appena al di sotto dell’imbocco del tratturo, magari tentando di guadagnare la testa della colonna, ma la ressa lo impedisce. I pochi centurioni che riescono a farlo, allibiscono. Uno sbarramento minaccioso, una sorta di alta e massiccia muraglia di massi, tronchi d’albero e terriccio, che corre da una pendice all’altra dell’angusta gola, ne blocca il passaggio. Neppure per un istante ci si illude
Scena di battaglia in cui si fronteggiano due schiere di guerrieri armati, in un ambiente montagnoso, probabilmente una scena legata all’episodio delle Forche Caudine. Particolare della lastra nord della tomba a cassa n. 114 rinvenuta nella necropoli di Andriuolo, nei pressi di Paestum. IV sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.
che sia una frana e a fugare gli estremi dubbi sono le grida di scherno dei Sanniti, comparsi all’improvviso sulla sua sommità e ai suoi lati brandendo i loro terribili giavellotti. Un rapido sguardo all’intorno basta ad annientare la piú temeraria illusione di aggirare l’ostacolo. Le opposte pendici, non solo appaiono ripidissime, ma presidiate dalle consuete fortificazioni gradonate, che pullulano di nemici ansiosi di colpire chiunque sia tanto incauto da tentarne la scalata. Minaccia che, per la vicinanza, si conferma di facile attuazione.
Una reazione disperata Nonostante ciò, alcuni tra i piú coraggiosi si inerpicano con il gladio in pugno, cercando di raggiungere i nemici. Pochi passi appena e un nugolo di aste, dalle loro lunghe cuspidi di ferro l’inchioda al suolo, originando piccoli rivoli di sangue. Brevi parole e l’ordine tassativo di dietrofront immediato: la rapidità della manovra è la sola speranza di contenere le perdite. Grazie alla disciplina e all’addestramento, la direzione di marcia è invertita in pochi istanti e la coda della colonna ancora a ridosso del campo ne diviene la testa. Tra i legionari inizia a serpeggiare la rabbia, non potendosi in alcun modo spiegare la mancata scoperta dello sbarramento. Ricompostasi l’ordinanza, si intraprende la discesa sul tratturo del giorno prima. Alla rabbia si è sostituita una crescente angoscia, ricordando la forra che li attende, poco piú in basso. Le fortificazioni sannite che la sovrastano nel punto piú stretto, già osservate con apprensione all’andata, ora incutono terrore. Stranamente, però,
avvicinandovisi appaiono deserte, senza alcun difensore. È l’ennesima conferma, se mai ve ne fosse bisogno, della ottusità dei Sanniti, incapaci persino di sfruttare un successo cosí vistoso. A ogni passo, aumenta nei legionari la speranza di riguadagnare la pianura ma, quando gli uomini che guidano la formazione si sentono ormai al sicuro, dai sovrastanti terrazzamenti poligonali, scaturisce un crescente e terrificante boato, mentre un tremore orrendo scuote il suolo. Il tempo di sollevare gli occhi e una nube di polvere li avvolge, prima che la possente ondata li maciulli inesorabile, ostruendo in pochi secondi quell’unica uscita. Il rombo, riecheggiato a lungo dalla valle, raggiunge in pochi istanti le orecchie dei commilitoni ancora sul pianoro, sommando terrore a terrore. Gli scampati, altrettante spaventose maschere di polvere e sudore, risalendo sconvolti la colonna divulgano in maniera sconnessa l’accaduto. Come scrive Livio, ai consoli bastano pochi attimi per concludere di essere in una sacca senza via d’uscita. Inutile nascondere la situazione: meglio che ognuno sappia con esattezza quanto accaduto. Molti legionari sono presi da sgomento, con le membra irrigidite da una specie di torpore; si guardano, come se ciascuno cercasse nel viso del compagno un’idea o un progetto di cui si sente privo. Nel frattempo si rizzano le tende pretorie dei consoli e si avviano i lavori di fortificazione.
Nella trappola del nemico Dopo la tragica constatazione di essere caduti in una trappola ordita dal nemico, esauritosi l’iniziale sconforto, in un sussulto di orgoglio, i legionari applicano la procedura regolamentare. Potenziano perciò le difese dell’accampamento in cui hanno trascorso la notte, trasformandolo in una sorta di fortino. Alcuni, ovviamente, reputando inutile quel lavoro, lo abbandonano, gettando gli arnesi. Gli ufficiali evitano di intervenire, essendo anch’essi dubbiosi al riguardo. Alla prima esposizione a caldo dei consoli ne è seguita una seconda, piú razionale e ottimista. Senza dubbio sono circondati, ma da un
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nemico inferiore per numero ed esperienza. A poche miglia di distanza vi è la loro base, con un gran numero di commilitoni e inviare i corrieri di notte, attraverso la montagna, è rischioso, ma possibile. Se mai dovessero fallire tutti, si potrebbero innalzare colonne di fumo, che, scaturendo dal loro itinerario in una località disabitata, suggeriranno al comando di Caiatia l’invio di esploratori. Tra il ricevere la richiesta d’aiuto, il riscontrarla attendibile, l’organizzare la spedizione di soccorso, l’eliminare il nemico, sarebbero intercorsi diversi giorni: occorre quindi adattarsi ad aspettare. Nessun problema per l’acqua, né per i viveri: le razioni già rinforzate, qualora insufficienti, saranno integrate macellando i cavalli e i muli, che, nel frattempo, pascolano liberamente sulla prateria. Quanto a un intervento diretto dei Sanniti, inutile preoccuparsene e inutile augurarselo. Disarmare 10 000 soldati liberi equivale a combattere con loro, soluzione antitetica all’agguato.
Una resa all’apparenza inspiegabile Pochi giorni dopo, però, i Romani si arresero per fame. Piú che una precisazione, ciò appare come una giustificazione, dal momento che le razioni erano pressoché intatte e la carne abbondante, oltre 2000 q. Né era stata sostenuta alcuna marcia spossante, o ingaggiato alcun combattimento. Ciononostante, presto i Romani si arresero, ignominiosamente! Una simile conclusione non trova spiegazioni plausibili e ha dunque finito per avallare l’anzidetto risibile pretesto, il che lascia presumere che proprio in tale enigma si celi la chiave della vicenda, sempre meno inquadrabile come l’esito imprevisto di un agguato tattico fortunatissimo, e sempre piú leggibile come l’esatta conclusione di un disegno strategico ambiziosissimo, basato su di un elemento di micidiale dissuasione, volutamente rimosso. Occorre precisare che trappola, strettoia e forra definiscono la connotazione geomorfologica di un sito, non la sua idoneità reclusiva, che è tutt’altra cosa. Le falde pedemontane appenniniche in generale e quelle del Taburno in particolare, per la loro orogenesi, hanno
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pendenze modeste, intorno ai 45°, agevolmente superabili da ogni escursionista e oggi persino da molti fuoristrada. Come si può allora immaginare che legionari abituati al moto e alla fatica, giovani, addestrati e scelti per quella missione in base alla prestanza fisica, non ebbero l’ardire di avventarsi su quelle pendici in ondate d’assalto, entrando in contatto col nemico? Una forra lunga alcuni chilometri con alte pareti di roccia nuda e perpendicolare, è per lo meno irreale! Per cui, scartata la fame, scartata la reclusione, scartato l’assalto, si deve imputare la repentina resa all’impiego di armi micidiali da parte sannita. Nugoli di dardi e soprattutto di giavellotti, come pure di pietre scagliate con le fionde pastorali, spiegano l’impossibilità dei Romani di guadagnare il contatto fisico e l’apparentemente imbelle permanenza nella sacca. Spiegano, almeno fino a un certo punto, le migliaia di morti ricordate da Diodoro Siculo, ma non spiegano affatto perché i tentativi di rompere l’accerchiamento non vennero compiuti di notte, quando i lanci erano impossibili. E, meno che mai, spiegano la motivazione di una resa tanto subitanea e incondizionata, dal momento che l’interno del campo non era raggiungibile per quei tiri.
L’arma segreta del Molosso La spiegazione meno inverosimile lascia immaginare l’avvio del sistematico massacro dei legionari intrappolati, in attesa della resa ufficiale. Tuttavia poiché i Romani non erano ancora fisicamente in mano dei Sanniti, la strage poteva perpetrarsi soltanto a distanza, con tiri molto lunghi, dall’alto in basso, non di aste, né di archi, ma di dardi e palle di artiglierie elastiche di cui, almeno fino ad allora, i Sanniti non disponevano, pur non ignorandole. È probabile, infatti, che ne fossero venuti in possesso appropriandosi dell’armamento di Alessandro il Molosso il quale, dal momento che quelle armi si erano evolute proprio in Macedonia pochi decenni prima, ne aveva sicuramente al seguito. Una significativa conferma di tale ipotesi viene da un curioso reperto custodito presso il Museo Nazionale di Chieti, col numero d’inventario 18572.
Ricostruzione virtuale di una probabile lanciasassi monoancon, che in seguito sarà ribattezzata dai Romani «onagro». La resa immediata e incondizionata dell’esercito romano, accerchiato dai nemici alle Forche Caudine, dipese, probabilmente, dall’uso da parte sannita di armi letali, come catapulte e baliste. Tali armi, che spiegano le migliaia di morti ricordate da Diodoro Siculo, sarebbero finite in possesso dei Sanniti, in seguito all’invasione dell’Apulia, pochi anni prima, di Alessandro il Molosso, re di Sparta, che le aveva probabilmente al seguito.
la lanciasassi di alessandro il molosso All’estremità del braccio, in maniera analoga alla mazza-fionda, era montata una fionda fissata con tre catene, due fisse e la terza a sgancio automatico durante il lancio. L’affusto della balista monoancon, terminava con un grosso sacco imbottito di paglia, sul quale andava a battere il braccio della macchina al termine della sua corsa.
Rinvenuto intorno agli anni Settanta del secolo scorso, in agro di Casalbordino (in provincia di Chieti), è un cilindro di bronzo che funzionava forse come rotore del verricello di caricamento di una catapulta, e che reca incisi col bulino, quindi applicati in una seconda fase, caratteri alfabetici oschi. Le lettere, all’epoca equivalenti ai numeri, avrebbero indicato la gittata dei proietti dalla tensione impartita alle matasse. La sua datazione si può ricavare dalla testa femminile, che trova precisi riscontri in orecchini di fabbricazione e di provenienza tarantina, databili alla seconda metà del IV
secolo a.C., epoca e ambiente confermati anche dall’orecchino a pendente conico. Una datazione cronologicamente compatibile con la presenza di catapulte e baliste tra i Sanniti. Da Filone di Bisanzio (III‑II secolo a.C.), si apprende anche dell’esistenza di una macchina lanciasassi a un solo braccio, che, a suo dire, consentiva negli assedi di scagliere pietre enormi a distanze notevoli e che forse costituiva lo sviluppo di un archetipale trabucco a strappo. È logico presumere che anche una
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macchina siffatta facesse parte delle armi del Molosso, finite in mano ai Sanniti. Dopo l’onesta esposizione dei consoli, il morale degli uomini non è piú in caduta libera e la fortificazione del campo lo conferma. Trascorre cosí la seconda notte, interrotta ogni tanto da schianti e urla agghiaccianti. Il buio impedisce di avere un quadro esatto della situazione: si dice che alcuni legionari siano stati uccisi nelle loro tende, colpiti da dardi micidiali. Secondo altre versioni, invece, sono stati schiacciati, sempre nelle loro tende, da pietre enormi. Alle prime luci dell’alba entrambe le voci risultano tragicamente vere. Quanto ai Sanniti non sanno esattamente cosa fare: piú in basso vi è una parte consistente dell’intero esercito nemico e il suo annientamento già garantirebbe una lunga tranquillità. Il problema è soltanto di valutare l’esatta convenienza di un simile massacro. L’anziano padre di Gaio Ponzio, il generale sannita al comando delle truppe, consultato per la sua saggezza, ha dato due risposte antitetiche e sibilline: rimandarli tutti liberi o ucciderli tutti! Interrogato ne spiega la ragione: nel primo caso si sarebbe potuta stabilire un’amicizia con Roma che avrebbe evitato la guerra. Nel secondo, per ovvi motivi, si sarebbe evitata la guerra!
Frustrare qualsiasi speranza Il tempo gioca a favore dei Romani e questo i Sanniti, sia pur confusamente, lo hanno rapidamente intuito. Occorre abbreviare al massimo la resistenza dei prigionieri, in modo da ottenerne la resa incondizionata. Solo cosí, trattenendo come ostaggio l’intero patriziato equestre, si sarebbe imposta la pace a Roma, senza aizzarne la brama di vendetta. Affinché ciò avvenga, occorre stroncare ogni speranza di salvezza all’interno del campo. Ideale, pertanto, batterlo incessantemente con le artiglierie del Molosso, tenute fino a quel momento gelosamente segrete. Nella notte le grosse baliste iniziano a scagliare pesanti palle di pietra, mentre le catapulte lanciano tozzi dardi dalla cuspide di ferro. I tiri scavalcano facilmente il terrapieno, abbattendosi sulle tende: pochi colpi vanno a vuoto e molti
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Romani perdono la vita in quella tragica nottata. Di fronte a tanta ottusa testardaggine, Gaio Ponzio ha uno scatto d’ira: gli ripugnano tante morti inutili che, per giunta, vanificano la sua decisione di risparmiare i Romani per ricavare il massimo utile politico-militare dalla liberazione. Il tiro viene perciò intensificato al massimo, onde costringere tutti a rendersi
l’arma vincente? Dettagli ricostruttivi del reperto di Casalbordino.
Cilindro di bronzo che reca incisi caratteri alfabetici oschi, rinvenuto a Casalbordino (Chieti). Seconda metĂ del IV sec. a.C. Chieti, Museo Nazionale. Il reperto funzionava forse come rotore del verricello di caricamento di una catapulta e le lettere incise, equivalenti ai numeri, avrebbero indicato la gittata dei proietti.
conto della loro irreversibile sconfitta. E quando, finalmente, i rappresentanti romani si degnano di trattare la resa, quasi fosse in loro potere negoziarla, Gaio Ponzio li accusa che, neppure vinti e prigionieri, sanno confessare la loro sventura. E per dargliene evidente contezza, li avrebbe fatti passare sotto il giogo, disarmati e seminudi.
Veduta laterale del cilindro
Trasposizione delle lettere osche in numeri e gradi.
Ricostruzione virtuale di una probabile catapulta sannita.
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la scoperta del fuoco cambiò radicalmente la vita dell’uomo, rendendo meno dura la sua esistenza e piú digeribili le sue pietanze. al tempo stesso, però, la capacità di padroneggiare il prezioso elemento aprí la via alla sperimentazione di ordigni bellici micidiali, dai proietti incendiari ai primi, rudimentali lanciafiamme
Ricostruzione virtuale di una nave da guerra equipaggiata con un dispositivo incendiario che, sporgendosi ben oltre la prua, permetteva di attaccare il legno avversario mantenendosi a debita distanza di sicurezza.
bagliori da
combattimento
fuoco
fiamme SULL’ACQUA
P
uò sembrare paradossale, ma proprio la guerra sull’acqua, ovvero i combattimenti navali, suggerí e fece sviluppare armi capaci di innescare e propagare rapidamente il fuoco agli scafi. A differenza della guerra terrestre, quella sul mare non ha come fine la sua conquista, assurda per ovvie ragioni, bensí il controllo delle rotte del traffico mercantile che su esso si dipanano. E poiché senza navi non si può restare sull’acqua, gli scontri non mirarono mai alla soppressione dei combattenti, tatticamente sterile ed effimera, ma alla distruzione delle stesse navi che li consentivano. Fin quasi al secolo scorso, le navi si costruivano in legno e il fuoco assurse quindi ad agente distruttore per antonomasia. Molti storici di età classica che si sono cimentati con la guerra sul mare, non hanno mancato di far notare come di tutte fosse la piú terrificante, in quanto i due elementi antitetici, l’acqua e il fuoco, congiuravano per distruggere uomini e mezzi. Si moriva sulle navi che andavano a fuoco come su quelle che, consunte dalle fiamme, andavano a fondo.
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A dimostrarlo basterebbero le parole di Renato Vegezio Flavio che precisava: «La battaglia navale non soltanto pretende piú specie di armi, ma anche macchine e congegni, come quando si combatte sulle mura e sulle torri. Cosa è infatti piú crudele di uno scontro navale, nel quale gli uomini sono uccisi sia dalle acque sia dalle fiamme? Pertanto deve essere precipua la cura dei materiali protettivi, affinché i soldati siano ben armati e provvisti di corazza, nonché di elmi e di schinieri. Infatti nessuno deve o può lamentarsi del peso delle armi, perché combatte stando fermo sulle navi. Si prendano anche gli scudi piú robusti, in funzione dei sassi, nonché piú larghi, per la difesa dalle falci, dagli uncini e dagli altri tipi di armi navali. Si scagliano reciprocamente dardi e sassi, combattendo con frecce, giavellotti, fionde, mazzafionde, dardi di piombo, onagri, balestre, scorpioni (…) Nelle piú grandi galee si costruiscono anche parapetti e torri affinché, come da un muro, cosí dai piú alti tavolati si feriscano o si uccidano i nemici piú facilmente.
Pompei, Casa dei Vettii. Particolare di un affresco raffigurante navi da guerra che lasciano il porto. I sec. d.C.
Per mezzo di balestre si infiggono nelle carene delle navi avversarie frecce ardenti avvolte di stoppa con olio incendiario, zolfo e bitume, sicché le tavole unite di cera, pece e resina, con siffatto fomento di fuoco, subito si accendono» (Epitome de re militari, IV, 44).
Colpire a distanza Scafi di legno stagionato e frequentemente calafatati con pece, stoppa e olio, risultavano prede ideali per le fiamme. Fu logico, quindi, l’ampio ricorso a varie sostanze incendiarie solide e liquide, dapprima scagliate e poi irrorate sulle imbarcazioni avversarie da appositi congegni, perlopiú macchine da lancio e sifoni. Per distruggere al di là della portata del rostro era infatti necessario ricorrere ai proietti incendiari, il che non impedí di elaborare tattiche per incenerire i nemici piú da vicino, tramite rudimentali quanto efficaci lanciafiamme. Per analogia materiale, parimenti vulnerabili al fuoco si dimostravano le tante macchine d’assedio lignee coeve, che divennero perciò bersagli principali per le
baliste caricate a proietti incendiari e per i proiettori di getti ardenti. Tra gli archetipi di questi ultimi Tucidide ce ne descrive uno inventato dai Beoti, nel corso della guerra del Peloponneso, per attaccare il campo trincerato ateniese di Delio, un modesto villaggio della Boezia meridionale prossimo al confine con l’Attica, a circa 6 km dall’isola d’Eubea. L’episodio si svolse nel 424 a.C. e, stando ad alcune fonti, annoverò tra i combattenti lo stesso Socrate che forse portò in salvo, sulle spalle, il suo allievo ferito Senofonte (o viceversa secondo altre versioni). In linea di larga massima, il congegno descritto, piú che un lanciafiamme propriamente detto, va considerato come un gigantesco cannello ferruminatorio (atto a saldare, n.d.r.), del tipo di quelli usati già da millenni dagli orafi egiziani e da cui verosimilmente trasse ispirazione. In quanto tale poteva emettere una fiamma dardiforme ad altissima temperatura, capace di calcinare persino le pietre delle muraglie e di incendiare, in pochi istanti, ogni struttura di legno.
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Il rudimentale lanciafiamme constava di un lungo tubo di legno rivestito di lamiera alla cui estremità posteriore stavano collegati tramite delle apposite manichette di pelle dei grossi mantici e dinanzi a quella anteriore un largo braciere. In dettaglio, stando allo storico: «Tagliata in due per lungo una grossa trave, la svuotarono tutta e la lavorarono come fosse un flauto. A una estremità per mezzo di catene vi appesero un braciere e posero in esso un tubo di ferro che proveniva dalla trave; ed era rinforzato di ferro per gran tratto anche il resto della trave. Coi carri la accostarono alle mura da lontano, là dove esse erano costruite soprattutto con le viti e il legname. Quando la macchina fu vicina, introdotti dei grossi mantici alle estremità della trave dalla parte loro vi soffiavano. Con il soffio, arrivato violentemente al braciere pieno di carboni ardenti, zolfo e pece, fece sorgere una gran fiamma e diede fuoco al muro, sí che nessuno poté restarvi, ma dovettero abbandonarlo e darsi alla fuga: in tal modo il muro fu preso» (Tucidide, Storie, IV, 100,1-4)
Testimonianze dipinte e scritte Per la sua semplice quanto terribile efficacia, trovò pochi anni dopo un sicuro e ampio impiego nei combattimenti navali, con alcune modifiche. La trave cava divenne perciò una sorta di bompresso, che sorreggeva un grosso braciere ben al di fuori della prua, per intuibili ragioni di sicurezza, capace perciò di dare alle fiamme qualsiasi battello nemico si fosse incautamente lasciato avvicinare a meno di una decina di metri. Un eccezionale graffito fatto risalire al I secolo a.C. e rinvenuto sulle pareti affrescate della necropoli di Anfushi, presso Alessandria d’Egitto, attribuito motivatamente a un legionario di Giulio Cesare, raffigura una prora di nave da guerra sormontata da una curiosa torre da combattimento. Da essa, infatti, si protende anteriormente un lungo palo che, appena piú innanzi della prua, sorregge un recipiente simile a un calderone, da cui si innalzano numerose lingue di fuoco. È facile identificarlo, pur nell’approssimazione della incisione, con un lanciafiamme del tipo di quello descritto, sia
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pure modificato e alleggerito per renderlo idoneo all’impiego navale, restando all’interno della torre il gruppo dei mantici. Che non si tratti di una mera invenzione lo testimoniano oltre al precedente graffito, abbastanza facile da interpretare, alcuni brani altrettanto agevoli da comprendere: «Cinque [navi] riuscirono a fuggire aprendosi un passaggio tra l’agglomerato di quelle nemiche che atterrivano con il lampeggiare di fiamme; ciascuna di esse infatti portava su due pertiche sporgenti dalla prora recipienti di ferro pieni di fuoco divampante» (Appiano di Alessandria, Storia Romana, Guerre Esterne, lib. IX-XII).
A sinistra Anfushi (Egitto). Particolare di una pittura murale identificabile con una nave equipaggiata di lanciafiamme. In basso particolare di una miniatura in cui si vede in azione un ordigno simile a un lanciafiamme.
frecce incendiarie
Ricostruzione virtuale di una freccia incendiaria. L’occhiello situato in prossimità della punta alloggiava una sorta di stoppino che avviava la combustione della carica infiammabile.
«Soprattutto incutevano spavento ai nemici quelle che portavano fuoco sulla prora: quel solo artifizio, che era bastato a salvarli quando a Panormo si trovavano circondati dai nemici, fu ora di somma importanza per conseguire la vittoria. Le regie navi infatti per paura del fuoco opposto deviavano per non essere investite dalle prore, e cosí esse non potevano colpire con il rostro le navi nemiche e prestavano esse stesse il fianco all’offesa; che se qualcuna vi si cimentava, veniva avvolta da una pioggia di fuoco e avevano un gran daffare piú per difendersi dal fuoco che dal nemico» (Tito Livio, Ab urbe condita, XXXVII-XXXVIII). In altri numerosi riferimenti all’impiego del fuoco nella guerra navale sembra farsi riferimento all’uso dei menzionati proietti incendiari di vario tipo e di varia pericolosità. In mare e in terra essi trovavano adozione contro strutture lignee, come le navi appunto, come le protezioni posticce delle fortificazioni o come le anzidette macchine ossidionali.
La distillazione della nafta Dal punto di vista meramente storico, i liquidi pirofori traggono origine da sostanze infiammabili presenti in natura, la cui peculiarità veniva esaltata tramite empiriche
miscelazioni. Le piú antiche risultano essere quelle ricavate dalla resina colata dalle conifere e dal bitume raccolto negli affioramenti spontanei, frequenti in Asia Minore. Di quest’ultimo si trova esplicita menzione già in una leggenda sumerica molto simile alla mitica narrazione biblica del Diluvio. È dunque assodato che liquidi infiammabili a base di idrocarburi erano noti in tutto il Vicino Oriente sin dal IV secolo a.C. Meno nota è la cronologia della sua distillazione e, piú ancora, di quella della nafta, a cui sembrano essere già pervenuti gli alchimisti bizantini sul finire dell’età classica, con l’isolamento della sua frazione piú leggera e volatile, mediante alambicchi raffreddati ad acqua. In pratica, perciò, il liquido infiammabilissimo che noi chiamiamo benzina sarebbe stato disponibile forse persino prima del 500, assumendo subito un ruolo preminente nella preparazione dei pirofori. Tornando ai proietti incendiari, il tipo piú semplice e arcaico era costituito da una discreta quantità di brace incandescente, trasportata tramite un apposito contenitore e fatta aderire alle superfici da bruciare. Appartenevano a questa tipologia proietti arroventati o vasi di metallo o di terracotta
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colmi di carbone acceso. Dal momento che l’effetto riusciva tanto piú efficace quanto piú duraturo era il contatto fra proietto e legno, oltre ai modelli piú elementari, comunque efficaci nell’impatto sui ponti, se ne devono supporre altri muniti di appositi arpioni, aculei o pungiglioni per inchiodarsi anche all’esterno degli scafi, sulle alberature e piú in generale, sulle protezioni difensive e sulle strutture delle macchine ossidionali Il loro esito si confermava sempre micidiale, essendo difficile per i difensori svellere quei proietti dai tavolati, spesso troppo esposti e neppure raggiungibili, ammesso pure che se ne accorgessero per tempo. La loro configurazione sarebbe stata, pertanto, quella di una sorta di semicilindro, chiuso alle estremità, ma aperto superiormente, tramite una griglia con, all’interno, una discreta quantità di carbone ardente, misto a zolfo, resina e bitume. All’istante dell’impatto, il pungiglione penetrava nel legno, consentendo perciò alla mistura di appiccargli il fuoco.
Fragili e solidi al tempo stesso Quanto ai pirofori liquidi o gelatinosi, costituiti in genere da un miscuglio a base di nafta erano contenuti in appositi vasi di terracotta o bottiglie di vetro, recipienti che dovevano risultare sufficientemente fragili da rompersi in seguito all’urto, ma abbastanza solidi da sopportare l’accelerazione di lancio. Allo scopo, quasi certamente, si collocarono dentro gabbie metalliche, di ferro o di bronzo, lasciandone fuoriuscire posteriormente il collo, nel quale doveva trovarsi uno stoppaccio acceso. Un proietto concettualmente simile ai dardi incendiari e alle sarisse, ma che assumeva l’aspetto e il comportamento di una antesignana bottiglia molotov. All’impatto, infatti, mentre la gabbia metallica si deformava appena, inchiodandosi al legname, il contenitore si frantumava, spargendo all’intorno il suo liquido vischioso e appiccicoso, che prendeva immediatamente fuoco a contatto con lo stoppaccio ardente. Anche in questo caso l’incendio era difficile da scorgere in fase iniziale e ancora piú difficile da
estinguere per la sua vasta estensione e per la rapida infiammabilità dei ponti e degli scafi. Con la disponibilità della benzina prima e dell’alcool etilico poi, si ebbero liquidi realmente pirofori, che divennero i componenti fondamentali per la preparazione delle miscele incendiarie e dei pirofori piú efficaci, primo per tutti il micidiale fuoco greco (vedi a p. 141). Per ottimizzarne il lancio si realizzarono sofisticati proiettori idraulici, utilizzando la pompa a doppio effetto di Ctesibio, che divenne cosí una micidiale arma per la guerra navale. Sono state rinvenute varie pompe del genere; una, in particolare, trovata in una miniera di Valverde (Spagna), sembrerebbe ideale per tale compito. Ma ne esiste anche una variante monocilindrica, custodita nei Musei Capitolini di Roma, di notevole interesse per la sua accorta elaborazione tecnica di cui si fornisce soltanto una ricostruzione virtuale. Quel che resta inoppugnabile è il ruolo progressivamente esclusivo che il fuoco greco assunse negli scontri navali, dove, a onta della scomunica comminata per il suo impiego, restò praticamente in servizio fino all’avvento delle artiglierie a polvere.
In alto materiali facenti parte dell’armamento navale bizantino, tra cui si riconoscono alcuni contenitori utilizzati per il lancio del fuoco greco. X-XI sec. Nella pagina accanto un affioramento di gas naturale nei pressi di Baku, in Azerbaigian. A sinistra ricostruzione di un grande dispositivo per il lancio del fuoco greco.
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la balista a molle d’aria Nella pagina accanto litografia nella quale si immagina l’assalto a un forte da parte di un contigente di soldati romani. In un frangente simile, la balista a molle d’aria descritta da Filone fra le macchine da guerra ideate da Ctesibio si sarebbe potuta rivelare notevolmente piú efficace di molte delle armi che si vedono impiegate nella ricostruzione. In basso palle di balista ritrovate a Pompei. I colori diversi si spiegano con la provenienza da piú cave di pietra, verosimilmente distanti fra loro. Si può quindi immaginare che, negli assedi, si ricorresse al continuo approvvigionamento di munizioni, risultando insufficienti quelle prodotte sul posto.
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ilone di Bisanzio, scrittore e inventore greco vissuto ad Alessandria intorno al III secolo a.C., descrive un’originale balista che, pur non discostandosi da quelle tradizionali per architettura e leverismi, ne differiva per il suo propulsore, in quanto la torsione e il rilascio di matasse nervine erano sostituiti da compressione ed espansione dell’aria. Motore dell’arma, infatti, era una coppia di cilindri ciechi con i relativi stantuffi, ma – a differenza di ogni arma pneumatica, concettualmente simile a una cerbottana –, l’aria non fuoriusciva col proietto, restando nei cilindri, ad alta pressione prima del tiro e a bassa dopo, sempre la stessa e nella stessa quantità, come la molla all’interno di un respingente ferroviario. È perciò appropriata la definizione di «balista a molle d’aria» nel testo che la descrive in due sezioni. Cosí scrive Filone, nel trattato sulle armi da lancio Belopoeica: «Ora noi passeremo preliminarmente e sommariamente a esporre una breve spiegazione circa quella che si chiamò la catapulta a molle di aria, una balista, e successivamente ne approfondiremo in un’altra sezione il meccanismo. Questo congegno inventato sicuramente da Ctesibio, [ingegnere greco vissuto ad Alessandria nel III secolo a.C., maestro di Filone, n.d.r.] fu un’opera meccanica e fisica notevolissima. Egli osservò nelle cosiddette “esperienze pneumatiche” (...) che l’aria è perfettamente elastica, potente e comprimibile soprattutto se chiusa in un robusto recipiente. Pertanto essa può essere compressa con forza e, viceversa, espandersi con forza fino alla capacità del recipiente. Essendo un ottimo esperto in questioni meccaniche, ritenne che con questa grande tensione e veemenza fosse possibile far muovere i bracci [di un’arma]». Per Ctesibio l’aria è elastica, in quanto può essere sottoposta infinite volte a compressione e a espansione. Il concetto
In alto Pompei, mura settentrionali presso Porta Vesuvio. Cratere in un concio di tufo causato dall’impatto di una palla di balista di grosso calibro. Il foro, infatti, ha un diametro di 160 mm circa, per cui la palla si deve presumere pesante 5,5 kg circa. Tenendo conto della velocità residua d’impatto, dell’ordine di 50 m/s, è spiegabile la penetrazione di quasi 120 mm.
è esposto col gergo dell’epoca, per cui il volume iniziale diviene la «capacità del recipiente» e l’espansione il «desiderio dello stato naturale». Un ciclo perfettamente reversibile elastico, se il contatto fra i cilindri e stantuffi fosse stato a tenuta di gas, vero problema tecnologico dell’arma che, in compenso, risultava efficace anche sotto l’acqua battente, ambito precluso alle artiglierie nervine, che erano fortemente igroscopiche.
La martellatura dopo la fusione «Pertanto costruí dei serbatoi di forma identica a un vaso per medicinali, prima di cera spessa poi vi gettò il bronzo fuso; esternamente martellò il bronzo perché fosse piú resistente alle rilevanti sollecitazioni; poi ne lavorò la parte interna al tornio, la regolarizzò mediante un regolo, la levigò con l’abrasivo e la lucidò»: inizia cosí la descrizione dei cilindri e dei relativi stantuffi, che, non essendoci alcun accenno a bielle di sorta, si devono immaginare identici ai cilindri, ma appena piú stretti e, stando a Filone, mentre questi ultimi si martellarono esternamente per esaltarne la resistenza, alesandoli poi col trapano, gli stantuffi furono solo torniti. Minime erano perciò le tolleranze, che rinvenimenti archeologici di pezzi siffatti
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Ricostruzione virtuale dei due cilindri, con i relativi stantuffi, usati da Ctesibio per comprimere l’aria, e dell’ipotetico dispositivo meccanico a cremagliera, necessario per effettuarne la manovra.
il ruolo dei cilindri
Qui sopra sezione verticale longitudinale della balista a molle d’aria, da cui si evince la collocazione dei cilindri rispetto al fusto dell’arma. Le linee rosse indicano gli assi di sezione orizzontali.
Qui sopra sezione orizzontale della ricostruzione ipotetica della balista a molle d’aria vista dall’alto. La linea perpendicolare rossa indica l’asse della sezione trasversale.
Qui sotto sezione orizzontale della balista al livello dell’ingranamento dei settori dentati sulla cremagliera. Lo stesso movimento poteva essere ottenuto anche con altri leverismi, ma questo è il piú semplice tanto che si usa nei comuni cavatappi.
A sinistra sezione verticale trasversale che mostra la collocazione dei bracci e dei relativi settori dentati per la movimentazione della cremagliera.
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hanno confermato dell’ordine di 0,1 mm, simili alle attuali. «In questo modo inseriti i cilindri di bronzo l’uno nell’altro potevano compenetrarsi con forza e pressata contro la circonferenza [una guarnizione] divenivano loro stessi lisci e precisi. In tal modo il gioco fra cilindro e stantuffo era cosí perfetto che l’aria pur facendo forza non riusciva a trovare una via d’uscita, anche quando raggiungeva la massima pressione». Filone tralascia di ricordare, lo farà in seguito, la collocazione di una guarnizione sulla bocca del cilindro prima dell’inserimento dello stantuffo che, schiacciata da una flangia, vi aderiva saldamente, garantendo la perfetta tenuta dell’aria. Un’altra guarnizione stava applicata allo stantuffo, per consentirgli una compressione accurata, per cui entrambe cooperavano per frustrare fuoriuscite d’aria, ma in due distinti momenti: in fase statica, cioè una volta raggiunta la massima pressione e in fase dinamica, cioè durante la compressione, a conferma dell’assoluto isolamento dell’aria interna. Quanto al materiale impiegato per le guarnizioni si trattava verosimilmente di un sottile strato di adesivo semiplastico, quale, per esempio, la colla di pesce.
Un movimento violento e veloce «Ctesibio ci spiegò e dimostrò le naturali proprietà dell’aria vale a dire che essa aveva un movimento violento e veloce dipendente dalle caratteristiche del cilindro che la comprimeva.
Ricostruzione virtuale della balista a molle d’aria, privata di parte della corda arciera per evidenziare l’adozione del tradizionale dispositivo di scatto. I cilindri dell’aria sono fissati al fusto, in un apposito alloggiamento, mediante listelli di ferro e legature di corde.
In particolare lui aveva reso levigato il cilindro e, con colla da carpentiere, aveva realizzato una bordatura protettiva sopra la sua bocca circolare». Compare cosí la guarnizione di bocca, cremosa, appena applicata e abbastanza elastica in seguito da aderire a una superficie metallica levigata e lubrificata. «Colpendo con una mazzola un apposito braccio fece entrare dentro lo stantuffo con una grandissima violenza. Fu possibile osservare lo stantuffo scendere continuamente ma, quando l’aria che era stata premuta all’interno fu compressa, essa esercitò sul braccio una spinta non minore della piú potente matassa elastica. Cessata la forza e liberato il braccio, lo stantuffo fu espulso con violenza dal cilindro. Successe però che venne fuori anche del fuoco dall’aria che aveva strofinato contro il cilindro nella velocità del suo moto». Il brano è illuminante e prova la veridicità della testimonianza: facendo penetrare lo stantuffo nel cilindro, con poderosi colpi di mazzola assestati su di una leva, l’aria si comprimeva al suo interno, fin quando non cedeva ulteriormente. A quel punto esercitava sulla leva una trazione non inferiore a quella esercitata dalle matasse di tendini delle baliste piú potenti, e fatto fuoriuscire lo stantuffo, Ctesibio constatò, fenomeno per lui ignoto, la fuoriuscita di fiamme dal cilindro.
Dalle parole di Filone si deduce che i cilindri dovessero avere una configurazione snella, con diametro di una decina di cm e corsa di una cinquantina: contenuto l’uno per poterlo costruire e lunga l’altra per raggiungere il volume necessario. Con tali dimensioni, quando lo stantuffo fosse penetrato fino a un pollice dal fondo, la pressione avrebbe toccato i 30 kg/cmq e la temperatura gli 800°, valori sufficienti a spiegare le fiamme.
Saldezza ed estetica Tornando alla costruzione dei cilindri, Ctesibio «allestí due di siffatti involucri, nella maniera suddetta, e li costruí di forma identica a un vaso per unguenti, trapanati e uniti alla base e li rinforzò congiungendoli intorno al fusto di legno con legami e cerchiandoli insieme con ceppi di ferro, e non mirò unicamente alla saldezza, ma anche all’estetica, al punto che il congegno sembrava un organo». I due cilindri vennero fusi su un’unica base, appena discosti fra loro e perfettamente paralleli, e applicati al fusto di una normale balista: una conferma di tale disposizione si ricava dall’essere l’intera arma somigliante a un organo. Gli stantuffi ebbero in testa una sorta di gomito, per consentirgli di azionare i bracci dell’arma. «E ancora alla base dei gomiti applicò degli zoccoli di ferro ricurvi congiunti agli stantuffi. I gomiti erano uguali a quelli che ruotano intorno alle già descritte molle di bronzo, sostenuti da una forcella di ferro. Quando lui ebbe costruite le parti menzionate vincolata
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attorno la corda e fissata alla slitta la tirò indietro alla maniera degli altri propulsori. Quando la corda fu tirata indietro i gomiti premettero la loro estremità contro gli stantuffi facendoli naturalmente rientrare e l’aria cominciò a comprimersi dentro il cilindro alla maniera che io ho detto e in una densità enormemente accresciuta fu premuta con il desiderio del suo naturale stato. Caricata la palla e rilasciato l’uncino i gomiti indietreggiarono con grande potenza e la scagliarono realizzando un tiro molto soddisfacente».
Un’idea rimasta sulla carta Filone ricorda i bracci dell’arma col termine anxon (letteralmente «gomito» e, per estensione, qualsiasi leva arcuata). Per renderne piú saldo l’innesto sullo stantuffo, Ctesibio li muní di un giunto di ferro, che definí «zoccolo». Nella ricostruzione virtuale, per facilitare la comprensione del movimento essendo lunga la corsa dello stantuffo, se ne è immaginato un innesto a cremagliera. Tuttavia quel risultato si poteva conseguire anche con i soliti leverismi, azionati dallo stesso verricello di caricamento, munito di arpionismi d’arresto che ne impedivano il rilascio accidentale. «Cosí come noi ti abbiamo spiegato il progetto della balista a molle d’aria e siamo stati scrupolosi, crediamo che sia auspicabile concludere il nostro trattato sulla costruzione delle artiglierie e passare a un’altra sezione dei meccanismi». Forse per la sua astrusa complessità, forse per la sua improba manutenzione, forse per il suo costo eccessivo, non risulta che la balista a molle d’aria abbia avuto diffusione. Restò a livello di prototipo o, verosimilmente, se ne limitò la costruzione a pochissimi esemplari. In ambito scientifico, tuttavia, suscitò una vasta curiosità, che finí per trasformarla in una leggenda priva di concretezza. Particolare della copia di un rilievo di sarcofago raffigurante un organo idraulico. Roma, Museo della Civiltà Romana. Simili strumenti, descritti da Ctesibio di Alessandria e Filone di Bisanzio, funzionavano grazie all’impiego di cilindri analoghi a quelli utilizzati nella balista a molle d’aria.
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a guerra navale ha come fine il controllo delle rotte per il traffico mercantile e poiché senza navi sull’acqua non si può combattere, il confronto mirò sempre alla distruzione delle imbarcazioni. E poiché le navi, fin quasi al secolo scorso, si costruivano in legno, il fuoco assurse ad agente distruttore per antonomasia. Già Tucidide descrisse un rozzo lanciafiamme navale, ma l’arma incendiaria piú efficace debuttò quasi un millennio piú tardi con il fuoco greco. Per le cronache medievali si trattò di una miscela incendiaria inventata dai Bizantini e adottata dal 637 per la guerra navale, in grado di accendersi al semplice contatto con l’acqua e di bruciare senza potersi spegnere persino sulla superficie del mare. La leggenda vuole che un angelo ne avesse suggerito la formula all’imperatore Costantino per meglio difendere la sua nuova capitale. Per la storia, invece, fu papa Innocenzo II che, nel 1139, la proibí, per la sua ingiustificata efferatezza, nel Secondo Concilio Lateranense. Come spiegare, però, una presa d’atto cosí tardiva per atrocità subito tanto evidenti? E perché un’arma dimostratasi risolutiva negli scontri navali venne rapidamente dismessa appena pochi decenni piú tardi? Verosimilmente, l’interdizione prima e il
progressivo abbandono poi non scaturirono da improbabili motivazioni umanitarie, bensí dal parallelo evolversi della polvere pirica che, con il conseguente imporsi di artiglierie capaci di colpire a distanza le navi nemiche, inibiva la tattica dei lanci di fuoco, subordinata invece alla loro adiacenza.
Un salto tecnologico prevedibile
Dromone bizantino con sifone per fuoco greco, particolare di una miniatura dalla Sinossi della storia del bizantino Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
Si trattò di un salto tecnologico non inverosimile e neppure improvviso, dal momento che, come ritengono molti studiosi, la polvere da sparo faceva già parte della formula piú avanzata della miscela. Infatti Marco Greco – autore sulla cui reale esistenza permangono forti dubbi –, nel trattato Liber ignium ad comburendos hostes (probabilmente redatto sul finire del XIII secolo, n.d.r.), cosí ne precisava la composizione, alla XIII ricetta: «Una parte di zolfo, sei di sale di pietra (salnitro) e due di carbone di legna di tiglio o di salice», aggiungendo che il piroforo da lui definito ignis volabilis, andava considerato un propyron, una sorta di pre-fuoco del fuoco greco, cioè, con definizione moderna, l’«innesco»! Un sistema d’arma, quindi, che pone almeno tre interrogativi: qual era la vera formula del fuoco greco, detto anche «liquido» o «marino»;
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perché si accendeva a contatto con l’acqua; e come veniva proiettato? Dal punto di vista storico, tutti i liquidi incendiari, tecnicamente definiti «pirofori», traggono origine da sostanze infiammabili già disponibili in natura, una potenzialità progressivamente esaltata con empiriche miscelazioni. Spicca fra tutte la nafta che affiora spontaneamente, spesso frammista al bitume, in vari luoghi dell’Asia Minore e, distillata forse fin dal VI secolo dagli alchimisti bizantini, forniva un liquido leggero e volatile, fortemente infiammabile e a noi ben noto con il nome di benzina. In breve divenne la componente imprescindibile per la preparazione di qualsiasi piroforo.
metallo cosí avido di ossigeno da sottrarlo all’acqua con emissione di idrogeno, subito acceso dal calore sviluppato, o un qualche suo composto, come la soda caustica, che ha un comportamento simile ed è perciò altrettanto idonea ad accendere la polvere pirica. Si spiegherebbe forse cosí la rievocata terrificante capacità del fuoco greco non solo di bruciare sul mare, ma anche di infiammarsi tra violenti scoppi e acre fumo nero, se asperso con acqua. E tanto il sodio che la soda caustica sembrano nella disponibilità dei tecnici bizantini, confermando perciò indirettamente anche questa seconda ipotesi. A una miscela tanto complessa e pericolosa non si giunge per un’invenzione fortuita, ma attraverso sperimentazioni forse protrattesi per
Un antenato del napalm Stando però alla stragrande maggioranza delle testimonianze sul fuoco greco, le sue piú temute peculiarità erano la capacità di aderire a qualsiasi superficie e di continuare a bruciare anche se cosparso d’acqua. La benzina non si concilia con la prima connotazione e meno che mai con la seconda, per cui si deve ipotizzarne l’integrazione con un additivo gelatinizzante, tratto da oli animali o vegetali e con un forte reagente esotermico all’idratazione. L’aggiunta alla benzina di palmitato, tratto dall’olio di palma, risponde all’esigenza, poiché la rende densa e appiccicosa, dalla violenta combustione difficilmente estinguibile. Non a caso, una composizione del genere si ritrova nel napalm, elaborato nel 1942 e cosí battezzato dalle sillabe iniziali di na-fta (anche se altri sostengono che derivi da Na, simbolo chimico del sodio) e palm-itato. Per l’autoaccensione a contatto con l’acqua, l’ipotesi meno astrusa contempla l’impiego del ricordato pre-fuoco, cioè dell’embrionale polvere pirica. Con una ulteriore aggiunta di calce viva: il rilevante calore di quest’ultima, infatti, sviluppato dalla sua idratazione, era insufficiente per incendiare un idrocarburo, ma non la polvere pirica, cosicché la miscela, dopo una esplosione iniziale, bruciava furiosamente. Né si può escludere che il medesimo risultato si ottenesse utilizzando al posto della calce viva il sodio,
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dromone lanciafiamme A destra ricostruzione grafica ipotetica della prua di un dromone lanciafiamme con il relativo sifone e serbatoio del liquido piroforo. In basso involucro in terracotta di granata a mano incendiaria per fuoco greco. Le cronache attestano l’uso di ordigni simili, per esempio, nell’assedio crociato di Gerusalemme del 1099. I due cilindri muniti di stantuffi erano azionati da una leva oscillante, servita da due uomini. Costituivano perciò una pompa alternativa: uno, salendo, aspirava il liquido incendiario; l’altro, scendendo, lo espelleva. Una scatola di accumulo ne stabilizzava l’emissione, immettendola in una lancia munita di ugello anteriore direzionabile.
Il liquido incendiario era contenuto in una sorta di serbatoio ermetico, quasi certamente di rame come le caldaie, posto sul fondo dell’imbarcazione, dove risultava piú protetto dai dardi nemici che, forandolo, avrebbero prodotto una istantanea e terrificante fiammata.
secoli, per cui la data del 637 può segnare il debutto della sua composizione ottimale. È dunque verosimile che i Bizantini disponessero del piroforo forse già nel IV secolo, come alcuni storici sostengono, epoca a partire dalla quale furono apportate continue migliorie che permisero la realizzazione di tipologie idonee a vari impieghi. L’imperatore Leone VI (886-912) infatti, nel suo trattato Tactica, ne menziona tre varianti, evitando con
cura di entrare nei dettagli chimici, ma precisandone la destinazione.
Le tre versioni di un’arma micidiale La prima, il fuoco greco per antonomasia, era riservata alla guerra navale e negli scontri sul mare la si proiettava dalla prua dei dromoni (navi da corsa e da guerra a remi e vele in uso nell’Alto Medioevo, soprattutto presso i Bizantini, n.d.r.) lanciafiamme tramite lunghi
Il tubo metallico che fuoriusciva dalla scatola di accumulo era raccordato tramite giunti flessibili, verosimilmente in cuoio, ed era munito di lungo braccio di manovra che consentiva al servente di dirigerne il getto sul bersaglio.
I tubi che fuoriuscivano dalla scatola di accumulo terminavano con un ugello a delta. Ugelli del genere sono ancora in uso per le lance antincendio, poiché consentono di incrementare la gittata del liquido, accentuandone la pressione e favorendone la nebulizzazione, presupposto per una combustione piú violenta e immediata.
A protezione della pompa alternativa e dei suoi serventi, oltre che del puntatore, si deve ipotizzare una spessa scudatura di ferro, per schermarli dal tiro nemico, che per ovvie ragioni convergeva su di loro, e per proteggerli da eventuali ritorni di fiamma, provocati da repentini cambiamenti del vento.
Un tubo di bronzo, collegato alle valvole di aspirazione dei cilindri della pompa alternativa, succhiava il liquido dal serbatoio, munito alla sua estremità inferiore di una valvola di non ritorno, per evitarne il disinnesco.
I cilindri e i relativi stantuffi della pompa alternativa erano realizzati in bronzo, con un grande cura. I primi venivano alesati internamente e i secondi torniti esternamente, riducendone cosí la tolleranza fino a 0,1 mm, che si annullava del tutto con guarnizioni di cuoio.
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fuoco
Il meccanismo di huelva In alto il meccanismo in bronzo ritrovato in una miniera romana nei pressi di Huelva Valverde (Barcellona). Età imperiale. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. A destra ricostruzione virtuale del meccanismo di Hueva Valverde, identificabile con il sifone di un lanciafiamme. Gli stantuffi e i cilindri non eccedevano fra loro di 0,1 mm di tolleranza, neutralizzata da guarnizioni di cuoio, e il liquido faceva da lubrificante.
Ugello di lancio a forma di «Y», capace di ruotare sui due bracci d’innesto con il tubo di lancio. La strana forma farebbe pensare a un antesignano nebulizzatore a contrasto, capace di esaltare le prestazioni dell’arma.
Alloggiamento per l’innesto a frizione del tubo di lancio collocato sul coperchio della scatola di compensazione, che ne consentiva l’orientamento preciso.
In basso ricostruzione virtuale della ipotetica adozione del meccanismo di Huelva Valverde in un lanciafiamme a zaino.
Contenitore a doghe di legno, cerchiature di ferro e protezioni di rame, utilizzato come serbatoio a zaino nell’interpretazione a lanciafiamme manesco della pompa di Huelva Valverde. Nella ricostruzione virtuale si è supposto che venisse indossato sospendendolo anteriormente alle spalle e fissandolo con una cinghia intorno alla vita.
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Bilanciere a manopola asimmetrica, utilizzato per l’azionamento alternativo degli stantuffi all’interno dei cilindri della pompa a doppio effetto di Huelva Valverde. La lubrificazione era garantita dallo stesso liquido piroforo.
Il tubo di lancio, grazie ai sui innesti a frizione, consentiva un orientamento discrezionale dell’ugello a «Y», a sua volta in grado di ruotare intorno ai supporti per circa 180°. La lunghezza del tubo deve porsi in relazione alla necessità di mantenere una minima distanza di sicurezza tra fiamma e serbatoio.
tubi di rame. La seconda, invece, si usava per riempire gli ordigni incendiari, vasi di terracotta o di vetro muniti di una rozza miccia, come antesignane bottiglie molotov, da scagliarsi con le normali baliste. Armi che rapidamente si diffusero dal Vicino Oriente all’India. La terza, infine, forse piú fluida e che, stando alle sue parole, sembra essere l’esito di una invenzione recentissima, è il sifone a mano o micron sifonon, una sorta di lanciafiamme manesco o portatile. Raffigurato in una miniatura si potrebbe definire d’assalto, utilizzato forse per incendiare le macchine d’assedio o i tavolati difensivi, entrambi di legno. Ma che cos’era esattamente un sifone? Un congegno simile, concettualmente e per funzionamento, alle pistole ad acqua giocattolo! Anna Comnena (1083-1148 circa), figlia dell’imperatore Alessio I Comneno, nella sua Alessiade (opera in cui narra la storia del regno paterno, dal 1081 al 1118, n.d.r.), afferma che i lanci avvenivano attraverso gli strepta e per mezzo di tubi. Il segreto rimane tale, poiché la principessa si limitava a ricordare ciò che tutti vedevano. Aggiungeva ancora, però, che nella battaglia navale combattuta presso Rodi nel 1103, fra Bizantini e Pisani, il terrore prodotto dai lanci scaturiva, piú che dalle fiamme, dal loro non essere ascendenti, ma innaturalmente orizzontali, orientate a discrezione del direttore del tiro, dall’alto in basso e da destra a sinistra. Nonostante la laconicità del testo, sono comunque possibili alcune osservazioni: la combustione a fiamme orizzontali prova che il fuoco si accendeva subito dopo l’espulsione dal sifone e non al suo arrivo sul bersaglio, per cui il contatto con l’acqua doveva avvenire alla sua fuoriuscita dall’ugello dell’arma, forse sempre bagnato per raffreddarlo. Inoltre il brandeggio e l’alzo del sifone sembrano testimoniare la presenza di un giunto universale e quindi di una manichetta flessibile tra il serbatoio del liquido e il sifone stesso. Non a caso, con il termine «flessibile» viene abitualmente tradotto l’enigmatico vocabolo greco strepta, una manichetta di pelle o di tela rinforzata, munita anteriormente di una lancia di rame. Quanto alla pressione necessaria per i lanci del piroforo, l’unica risposta soddisfacente è
data dall’impiego di una pompa del tipo di quelle già adottate a Roma per spegnere gli incendi. Congegno che Vitruvio attribuisce a Ctesibio, vissuto nel III secolo a.C., di cui ci sono pervenuti i resti di numerosi esemplari, tutti meccanicamente concordanti essendo costituiti sempre di due cilindri con i relativi stantuffi e valvole. Non manca chi si ostina a tradurre il termine sifonon con «tubo», designazione fin troppo generica per una pompa nota col nome del suo inventore sin dal I secolo a.C. agli uomini di mare e ai coevi vigili del fuoco. Il senso, che sembra indiscutibile per il greco e per il latino decadenti, non lo è per il latino raffinato e il greco classico, per i quali la voce verbale sifonizo sta per «aspiro come un sifone», azione traente che solo il tubo di una pompa può esercitare. In latino, per contro, il tubo si chiamava fistula, essendo il sifone sempre la pompa alternativa a doppio stantuffo che Erone e Plinio il Giovane ravvisano in quella antincendio.
Il misterioso ordigno di Huelva E appunto a essa aderisce per criterio informatore, ma se ne discosta per connotazioni materiali, un singolare reperto rinvenuto in una miniera romana presso Hueva Valverde (Spagna), interamente in bronzo e di pregevole fattura, tanto accurata da non potersi assolutamente equiparare alle suddette, se non altro per il suo intuibile altissimo costo. Grazie alla perfetta compressione, l’arnese era in grado di proiettare un liquido a una ventina di metri di distanza, una gittata coincidente col raggio offensivo dei dromoni. Che quel singolare reperto potesse essere un proiettore per fuoco greco potrebbe sembrare una forzatura, ma la constatazione che i Bizantini ebbero sovranità su quella parte della Penisola iberica proprio dal VI al VII secolo rendono l’ipotesi meno peregrina. La breve parentesi, conclusasi con una rapida evacuazione, parrebbe suggerire che, dopo l’esaurimento del liquido, l’arma, ormai inutile, finí nascosta in una miniera, in attesa di un successivo recupero, dopo la riconquista. Una speranza rimasta tale.
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