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MONOGRAFIE
CONQUISTA
Alla del
QUANDO L’UOMO ADDOMESTICÒ LA MATERIA L’invenzione del fuoco e della ceramica • Sale, seta e miele • I metalli: rame, ferro e piombo • La lana e il cuoio • Avorio, selce e bitume • L’olio e il vino • La palma, pianta perfetta •
di Massimo Vidale
€ 7,90 N°19 Giugno 2017 Rivista Bimestrale
ALLA CONQUISTA DEL MONDO
MONDO
IN EDICOLA IL 20 MAGGIO 2017
ARCHEO MONOGRAFIE
O A M O TUR U L’ NA O D LA N A NÒ U Q MI DO
CONQUISTA
Alla del
MONDO
quando l’uomo addomesticò la materia di Massimo Vidale
6. Presentazione
70. Olio
Homo ludens, faber, pestifer
Tesoro mediterraneo
14. Sale
80. Palma da dattero
I mille riflessi dell’oro bianco
La pianta «perfetta»
22. Tessitura
88. Lana
Lungo il filo della storia
Questioni di lana caprina
30. Rame e ferro
96. Cuoio
Il rosso e il nero
La seconda vita della pelle
38. Miele Alla conquista della dolcezza
104. Vino
46. Intonaco
E l’uomo scoprí l’ebbrezza
Il pallido volto del potere
54. Selce e pietre dure Trasparenze di pietra
62. Avorio e corno Fra arte e superstizione
114. Piombo Pallore mortale
122. Ambra e bitume Storie di resine e di giganti
Homo ludens, faber, pestifer I
mmaginate un ragazzino di 10 o 11 anni, di media statura, che, a New York, alzi lo sguardo alla volta delle nubi, cercando di vedere la vetta dell’Empire State Building, a 381 m di altezza: ebbene, il rapporto delle grandezze tra il ragazzo e il grattacielo è pressappoco quello che esiste tra i sette millenni e mezzo passati da quando i nostri antenati – in un enorme teatro continentale che si estendeva dall’Anatolia ai piedi delle montagne dell’Hindukush, tra Afghanistan e Pakistan – iniziarono a fondere il rame, e il tempo trascorso dall’inizio della «vita tecnica» di Homo, cioè dalla comparsa delle prime pietre scheggiate in Africa e dei corrispondenti segni di taglio sulle ossa degli animali scarnificati o macellati, circa 2,5 milioni di anni fa. Proseguendo nella similitudine, nel nostro grattacielo, dall’altezza del banco della reception alla sommità dell’edificio, si celerebbe un abisso temporale durante il quale Homo, almeno in apparenza, non avrebbe fatto altro che cercare
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Disegno ricostruttivo della fabbricazione di vasi in ceramica all’interno di una grotta. La scoperta delle potenzialità offerte dall’argilla fu tra quelle che maggiormente rivoluzionarono il modus vivendi delle piú antiche comunità umane e viene oggi collocata nel Paleolitico Superiore, ma la fabbricazione standardizzata di vasellame è invece ascrivibile al Neolitico.
radici e carne, e scheggiare – se fossero state disponibili nei pressi del proprio territorio – pietre silicatiche del gruppo del quarzo, per ricavarne margini di taglio. Lo scenario storico (perché di storia dobbiamo comunque parlare) sarebbe quindi quello di sparute bande di Ominidi, ancora coperti di pelame e incerti sul da farsi, che, per oltre 1 milione di anni, avrebbero ciondolato tra savane e sponde lacustri invocando la fortuna di imbattersi in un ippopotamo decomposto da contendere tra urla, fughe e sassate alle iene. In realtà, questo immaginario un po’ deprimente corrisponde a una nostra profonda e persistente ignoranza sulla vita degli Ominidi che si diffusero prima delle forme umane moderne. Un esempio? Nel 1948 l’archeologo statunitense Hallam Movius (1907-1987), un bel mattino prese un righello e tracciò su una carta geografica una linea obliqua che correva da nord-ovest a sud-est, lungo il margine settentrionale dell’India. Quella linea separava una
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parte del mondo – Africa, Europa e India – molto ricca di amigdale (le pietre scheggiate su due lati a forma di mandorla, tipiche del Paleolitico Inferiore) dal resto dell’Asia, in cui, al contrario, si trovavano solo ciottoli infranti e schegge informi. La separazione è in qualche modo corretta, anche se la linea immaginata da Movius, col progredire delle esplorazioni, è divenuta un’ipotesi sempre meno sostenibile, trasformandosi in una complicata linea curva. Ma mentre molti interpretarono la differenza in termini razzisti, facendone la prova di una presunta arretratezza delle popolazioni preistoriche dell’interno dell’Asia, altri (tra cui chi scrive) pensano che le amigdale siano solamente i nuclei super-sfruttati dai quali si ottenevano le schegge per tagliare, e non strumenti intenzionalmente fabbricati. La forma a mandorla o goccia affilata, infatti, rappresenterebbe per varie ragioni la soluzione piú razionale per lo sfruttamento integrale della pietra, e non la realizzazione mentale di un’idea di simmetria. Le amigdale rifletterebbero, quindi, solo la rarità della materia prima e la necessità dei gruppi di cacciatori di spostarsi su distanze sempre crescenti, risparmiando il piú possibile la selce; mentre a nord della linea di Movius l’abbondanza di pietre silicatiche ne permetteva uno sfruttamento piú «spensierato» e certamente meno programmatico. La questione può sembrare sottile, ma se la seconda ipotesi fosse quella giusta, si dovrebbe riscrivere buona parte dei manuali di preistoria esistenti.
Le prime rivoluzioni Saltando molto avanti nel tempo, dovremmo pensare che tutto ebbe, quindi, inizio dal metallo fuso? La luminescenza dorata del rame improvvisamente apparsa nei crogioli degli artigiani intorno al 5500 a.C. si accende, quasi simbolicamente, a metà tra quelle che il grande archeologo preistorico Vere Gordon Childe (1892-1957) aveva rispettivamente chiamato «Rivoluzione neolitica» e «Rivoluzione urbana». Childe aveva cosí delineato un chiaro legame (sebbene indiretto) tra la rapida invenzione delle economie di produzione del cibo e il sorgere della diseguaglianza sociale, dello Stato e, infine, delle dinastie regali e imperiali dell’età del Bronzo nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo orientale. Eppure, come in tutte le semplificazioni storiche, all’efficacia delle spiegazioni si accompagnano debolezze e anomalie scientifiche che, a lungo andare, e dopo sessant’anni di nuove ricerche archeologiche, si fanno sempre piú evidenti. Non appare piú molto credibile che, in un briciolo di tempo recente, comunità umane improvvisamente armate di tecnologie ad alto impatto ambientale si siano scagliate sulle immense e intatte risorse di questo pianeta, esplorandone ogni potenzialità, da quelle delle pietre e delle argille all’elettricità e al nucleare, in un parossismo di creatività inedita e quasi feroce. I miei corsi sulla storia delle tecnologia antica iniziano sempre con queste frasi: «In linea di massima, e ai nostri scopi, non esistono “tecniche primitive”; ogni tecnica umana è adattata a un ambiente socio-tecnico ed è affinata da milioni di anni di esperienza».
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Sulle due pagine immagini della grotta di Wonderwerk, nella Provincia del Capo Settentrionale (Sudafrica). Nella cavità è stato scoperto un deposito stratigrafico che ne prova la frequentazione da parte dell’uomo per l’intero arco del Paleolitico e che si è protratta sino all’età moderna. In particolare, vi sono state trovate le prime tracce a oggi note del controllo del fuoco, risalenti a 1 milione di anni da oggi. Le pitture parietali (foto nella pagina accanto) sono riferibili alle fasi di occupazione recente e sono state forse realizzate un migliaio di anni fa.
E all’inizio dobbiamo porre il vero protagonista di questa narrativa, il fuoco. Mentre il focolare «strutturato» (cioè preparato e fornito di una sponda frangivento) piú antico che si conosca è stato scoperto da un altro padre dell’archeologia preistorica, André Leroi-Gourhan (1911-1986) in quello che oggi è il centro di Nizza (Francia), le frontiere dell’invenzione e dello sfruttamento del fuoco si spostano in quinte cronologiche che si fanno sempre piú remote.
La propensione per il gioco Nella grotta di Wonderwerk, in Sudafrica, lo studio di campioni di sezioni sottili dei suoli di occupazione preistorica (sottilissime fette di deposito osservabili in trasparenza sotto appositi microscopi) rivelano ceneri e frammenti di ossa animali combuste che postulano un avanzato controllo del fuoco già 1 milione di anni fa. Tracce analoghe sono state trovate nel sito di Gesher Benot Ya’qov, sulle sponde del Giordano (Israele), un campo di cacciatori frequentato 700 000 anni fa. Dobbiamo quindi immaginare infiniti giorni e infinite notti davanti alla danza ipnotica delle fiamme e al baluginare delle braci, in cui i nostri antenati ebbero l’agio e la curiosità di sperimentare le trasformazioni al calore di ogni genere di materiali. Nel 1938, lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945), morto in una prigione nazista, diede alle stampe un celebre saggio, intitolato Homo ludens (letteralmente, l’«uomo che gioca»; l’opera fu pubblicata per la prima volta nel 1946 in Italia), nel quale sosteneva che, alla radice della creatività tecnica e sociale e della ricerca umana, si collocava un’inesauribile propensione per il gioco e l’esperimento che, tra l’altro, noi condividiamo con buona parte del mondo animale. Ancora oggi diciamo «scherzare col fuoco» per suggerire la tentazione di mettere mano a qualcosa di
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affascinante, ancorché mortalmente pericolosa. E forse, come parte della popolazione maggiormente legata alle fatiche della cura dei figli nei campi di caccia, dovremmo «mettere a fuoco» il ruolo della donna, come Foemina ludens, come probabile protagonista di molte e ripetute momentanee scoperte. E la gente, se davanti alla televisione tace, davanti al fuoco parla. È recentissima la scoperta che già sulla soglia dei 2 milioni di anni fa i nostri antenati africani ed europei erano in netta prevalenza destrimani, proprio come le popolazioni moderne. Infatti, solo il lato destro della dentatura risulta striato dal filo degli strumenti in pietra usati per distaccare la carne tenuta con la sinistra. L’uso preferenziale della mano destra o sinistra è notoriamente conseguenza dell’asimmetria nelle funzioni cerebrali causata dallo sviluppo del linguaggio. La prova materiale lascia quindi pochi dubbi sul fatto che il linguaggio umano ha una preistoria molto piú lunga di quanto non si potesse prima immaginare. Fatti ed eventi della vita, incluso tutto ciò che riguarda l’interazione con il mondo naturale, sono stati oggetto, da sempre, di commenti ed elaborazione concettuale. E quali furono i risultati di questi lunghi stage di esperimenti e comunicazione?
Un «parente» sempre piú prossimo Se l’efficiente controllo del fuoco permise ai nostri antenati neandertaliani di sopravvivere agli effetti della lunga glaciazione di Riss (tra i 350 000 e i 130 000 anni fa), lo stesso fuoco fu usato non solo per cuocere il cibo, ma anche per trasformare legno e osso, per calcinare e raffinare pigmenti, per sciogliere e mescolare grassi, per estrarre resine vegetali e mescolarne i prodotti. Oggi, dopo che la genetica ha svelato i nostri parziali, ma stretti legami di consanguineità con l’Uomo di Neandertal, esso si è improvvisamente trasformato, dopo essere stato a lungo denigrato, in un autentico eroe culturale. Nelle ultime ricostruzioni, infatti, i Neandertal appaiono come simpatici «Irlandesi» dai capelli rossi e dagli occhi verdi (come sembrano indicare alcuni tratti genetici), in famiglie nelle quali i bambini sono intenti ad ascoltare i canti e le storie dei genitori: cacciatori adorni di piume e collane fatte di unghie di rapaci (come gli Indiani nativi del Nordamerica, anch’essi promossi e fortemente idealizzati, ma solo dopo due secoli di spietati massacri), e donne ammiccanti, coperte di ornamenti e colorati cosmetici. Al di là delle piú facili mode scientifiche, spesso divulgate in forma di scoop, resta la nuda realtà dei dati archeologici: siti che mostrano come i Neandertal avessero strategie di caccia e raccolta estremamente efficienti, che nulla avevano da invidiare a quelle delle forme umane moderne (in Spagna e a Gibilterra, caccia a mammiferi terrestri e cetacei, raccolta di molluschi e
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Qui sotto lame in osso sulle quali corrono fasci di striature parallele, ascrivibili a Homo erectus, da Bilzingsleben (Germania). Paleolitico Inferiore, 370 000 anni fa circa.
In basso la statuetta femminile in pietra trovata a Tan Tan, in Marocco, forse databile tra i 500 000 e i 300 000 anni fa.
In alto ricostruzione di un Uomo di Neandertal. In basso la possibile statuetta trovata a Berekhat Ram, Israele, piú discussa, in quanto non è del tutto certo che si tratti di opera umana.
tartarughe; nel Levante, raccolta di legumi, pistacchio e altri vegetali, probabilmente già cotti in «minestroni», nonché di piante aromatiche e medicinali come la camomilla e l’achillea). Vi è il sospetto che già centinaia di migliaia di anni fa i nostri antenati costruissero e usassero imbarcazioni per attraversare lunghi bracci di mare, mentre gli esempi arcaici di ciò che oggi consideriamo «arte figurativa» in età davvero remote si stanno sommando gli uni agli altri. Si va da una conchiglia bivalve incisa, risalente a mezzo milione di anni fa, trovata in Indonesia a una possibile statuetta femminile in pietra trovata a Tan Tan, in Marocco, forse databile tra i 500 000 e i 300 000 anni fa, alle ossa incise con disegni geometrici trovate in un campo di cacciatori di elefanti a Bilzingsleben, in Germania (350 000 anni fa circa); per giungere alle scoperte fatte nel sito di Peche de l’Azé, in Francia, un giacimento scavato nel XIX secolo e ignorato sino a tempi recenti, con ben 500 blocchi e frammenti di sostanze coloranti che rappresentano forse meno della metà dei pigmenti lasciati in loco dai Neandertal. Tra i 120 000 e gli 80 000 anni da oggi furono inventate colle a due componenti (resine vegetali e polvere d’ocra), necessarie a immanicare sul legno punte e lame in selce, mentre la resina di betulla veniva forse estratta con un complesso sistema per l’essudazione a caldo del prodotto mediante contenitori sovrapposti. Riusciamo a stabilire quando l’uso delle vesti si propagò nelle comunità umane grazie a una testimonianza insolita: il DNA dei pidocchi. Al periodo compreso tra i 170 000 e gli 80 000 anni fa, i genetisti fanno risalire la separazione tra i pidocchi della testa e quelli dei vestiti, oggi due specie separate. Il senso della moda, da allora, continuò a prosperare: a circa 80 000 anni da oggi, si datano perline in conchiglia marina perforate e arrossate dall’ocra e altre fatte con dischetti di uova di struzzo trovate in scavi preistorici in Marocco, Tanzania e Sudafrica, dove, contemporaneamente, i cacciatori-raccoglitori incidevano complesse geometrie su blocchi di pietra rossa. L’emergere di un’arte rappresentativa e di una cultura materiale con forti significati simbolici è generalmente considerata in rapporto a un graduale aumento della complessità sociale nelle tribú dei cacciatori-raccoglitori.
L’invenzione della ceramica Quando i gruppi dell’ultima era glaciale (110 000-13 000 a.C. circa) inventarono in Moravia fornaci e ceramica per produrre statuette in terracotta di esseri umani e animali (23 000 a.C. circa), e i loro equivalenti nella Cina meridionale crearono i primi vasi in ceramica, tra il 18 000 e il 16 000 a.C., tutti sfruttavano centinaia di migliaia di anni di esperienza precedente degli effetti del fuoco costretto in piccoli focolari e fornaci chiuse. La comparsa prima dei collanti, poi di ceramica e calce ottenuta dalla cottura ad alta temperatura delle pietre calcaree (quest’ultima comparsa nel Levante sulla soglia dell’11 000 a.C.) segna, a tutti gli effetti, con la creazione di materiali artificiali, inesistenti in natura, la nascita della mente moderna di Homo faber, l’«uomo creatore».
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Caverna del Pettirosso
Caldeirao
Baume Fontbrégoua Abri Pendimoun ? Peiro-Signado Chateaneuf les Martigues Draga
Jamina Sredi
Pena Agua Cabranosa
Covina
Smilcic Zelena Pecina Crvena Stijena
Basi
?
?
Cova de l’Or Cendres Cova del la Sarsa Carigüeta
? Sidari
El Khril
Yarimburgaz Ilipinar
Otzaki Magoulitsa
Cheirospilia
?
Mersin
Tarsus Ras Shamra
Levante
Regione adriatica occidentale
Marmara
Calabria e Sicilia (Stentinello)
Tessaglia (Magoulitsa)
Regione tirrenica e atlantica (Cardiale)
Epiro e isole Ionie (Sidari)
Africa del Nord
Byblos
Mar Mediterraneo
Regione adriatica orientale (Smilcic)
Molti, al giorno d’oggi, sull’onda di crescenti paure per l’inarrestabile squilibrio ecologico del pianeta, preferirebbero piuttosto l’etichetta di Homo pestifer, l’«uomo distruttore». Insomma, l’alba dell’industria umana – la capacità di estrarre, manipolare, mescolare e trasformare una quantità crescente di materie prime per la creazione di beni e merci sempre nuovi – non dovette attendere l’arrivo della metallurgia, verso la fine del Neolitico, per dispiegare le proprie ali. La metallurgia, piuttosto, come già perfettamente intuito da Vere Gordon Childe, ebbe piuttosto l’effetto di dilatare le disparità sociali e favorire l’insorgere di società sempre piú gerarchizzate.
L’impatto ambientale dell’agricoltura Sorta a lato di economie di caccia intensiva che, a giudizio di molti, già 20 000 anni fa, causavano disastri ecologici (si pensi, per fare solo un esempio, all’estinzione di massa dei grandi mammiferi di interesse alimentare nelle pianure del Nordamerica) l’industria divampò nei nuovi ambienti socio-tecnici delle comunità sedentarizzate del Neolitico (in Oriente, 10 000-6000 a.C. circa), a loro volta sostenuti dall’inesorabile e inarrestabile affermazione di agricoltura e allevamento degli animali addomesticati. Mentre siamo soliti accusare l’inquinamento industriale (a torto o a ragione) dell’attuale sconvolgimento della nostra Terra, non dovremmo dimenticare che è la «pacifica» agricoltura a causare, sotto i nostri occhi, una vera e propria estinzione di massa della variabilità biologica planetaria, tramite la sistematica devastazione delle grandi foreste pluviali delle regioni equatoriali e la cancellazione quotidiana di centinaia di specie di piante e animali. E non si vedono, all’orizzonte, soluzioni facili. Con una punta di amarezza, dovremmo forse tornare a leggere le pagine del Saggio sul Principio di Popolazione dell’economista inglese e pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834), secondo il quale, poiché sotto l’effetto della spinta dell’agricoltura le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo prodotto solo aritmeticamente, il futuro che si prospettava all’umanità sarebbe stato costellato da penuria, carestie e guerre. L’unico rimedio proposto dal pastore, in realtà davvero poco plausibile, era un generale ricorso alla castità. Alle fosche predizioni di Malthus, il filosofo e
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In alto cartina nella quale sono sintetizzati i possibili rapporti tra le culture neolitiche caratterizzate dalla produzione della ceramica impressa, una delle tipologie piú diffuse nel corso di quella fase. Nella pagina accanto ricostruzioni di momenti di vita dell’Uomo di Neandertal realizzate nel Prehisto Parc di Tursac, in Dordogna (Francia).
poeta statunitense Ralph Waldo Emerson (1803-1882), oppose l’obiezione che la creatività e la mente umana, riflesse nel continuo mutare della tecnologia, erano altrettanti fattori e agenti attivi nell’economia politica, e che l’industria, se non le forme tradizionali di agricoltura, avrebbe sempre trovato qualche soluzione. Molti archeologi odierni, soprattutto quelli piú influenzati dall’archeologia detta «post-processuale» (idealista e non materialista) sottoscriverebbero appieno, con ogni probabilità, le visioni di Emerson. Altri intellettuali conservatori, invece, da sempre sostengono che l’economia e il mercato, quasi magicamente e prima della tecnologia, sarebbero in grado di autoregolarsi all’infinito, evitando i guai peggiori. Facendo un altro esempio, intorno alla metà del XIX secolo, all’apice della Rivoluzione industriale, l’illuminazione pubblica urbana era a base di grasso di balena (!), una pratica che aveva portato la popolazione mondiale dei cetacei sull’orlo dell’estinzione. L’improvvisa scarsità (e i crescenti costi) della materia prima determinarono il passaggio all’uso del petrolio (tuttora si discute se sia stato un effetto automatico dell’economia di mercato, oppure di accorte e tempestive decisioni politiche). È sperabile che gli archeologi «post-processualisti» e gli economisti conservatori stiano vedendo giusto, e che parte della cultura umana, e del suo potere di sopravvivere amplificando la propria portata, risieda in una tecnologia in qualche modo superiore e per qualche innata virtú indenne dalle leggi naturali. Tuttavia, non dimentichiamo che le attuali migrazioni, per quanto ci spaventino, altro non sono che parte di un generale quanto necessario processo di ri-equilibrio demografico ed economico del pianeta, e, a quanto pare, il progresso tecnologico non c’entra per nulla; né sembra che gli Stati europei siano in grado di affrontare l’esodo epocale in termini di una razionale pianificazione economica. Nel frattempo, riscoprire e ripercorrere i passi dell’evoluzione tecnica umana, come essi traspaiono dall’oscurità dei malridotti archivi delle testimonianze archeologiche, e si riflettono in piena e frammentaria libertà nelle pagine che seguono, può rimanere continua fonte di informazione, ispirazione e, perché no, di divertimento. Massimo Vidale
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I mille riflessi dell’ bianco
oro
Elemento essenziale nell’alimentazione dell’uomo e degli animali, il sale divenne, fin dall’antichità, anche un prezioso bene di scambio. Non deve quindi stupire che il suo controllo sia stato sempre perseguito da regni e imperi, che, tassandolo, ne fecero al tempo stesso una fonte di introiti strategica | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 14 |
R
icordo un «antico» incontro col sale, avvenuto ormai piú di trent’anni fa. Partecipavo a uno scavo nel cuore dell’Iran, non lontano da Kerman, ai margini del Dasht-i Lut («il deserto di fango»). Un giorno, con un pick up, ci inoltrammo nel deserto, tra banchi di argilla e dune di sabbia. Dopo circa tre ore di viaggio, le dune, a forma di mezzaluna, si erano fatte enormi; era cessato qualsiasi segno di vita vegetale, e il panorama si apriva su guglie e pinnacoli di fango alti anche decine di metri. Erano rilievi erosi a formare quelle che gli Iraniani chiamano le «Città del Lut»: illusioni architettoniche create dal vento, in uno dei luoghi piú inospitali del Pianeta. Alla base di uno dei pinnacoli, trovammo ciò che cercavamo: tra coltri di argilla e croste gessose vi erano strati cristallini di un sale candido e luccicante. Staccammo le croste bianche a colpi di piccozza, e ne riempimmo il pick up: secondo i miei colleghi iraniani, nessun sale commerciale poteva eguagliare le proprietà di quello raccolto nel cuore del deserto. Il sale, negli organismi, è un insostituibile regolatore di varie funzioni cellulari.
Valori simbolici e valore reale
S I caratteristici coni di sale marino allineati in una salina. Ricavato da depositi minerali naturali o dall’acqua di mare, il sale, o cloruro di sodio (NaCI), è, fin dalla preistoria, un componente prezioso della dieta alimentare dell’uomo e di molti animali.
e oggi il sale sembra aver perso il grande valore che aveva nel mondo antico, ciò è dovuto al fatto che si usano meno gli impianti estrattivi marini (legati a una tecnologia di tipo necessariamente artigianale), e molto di piú grandi depositi di salgemma del sottosuolo, che consentono l’uso di moderne tecniche estrattive di vasta scala; ma anche a un costo dei trasporti nettamente inferiore a quello del mondo pre-industriale. Non sbagliamo se nello scintillio dei suoi cristalli cogliamo l’essenza stessa del lavoro, dello scambio e della vita civile. È per questo che Omero, nell’Odissea, disprezza le genti che ignorano il mare, e non mettono sale nel cibo.
Il basso costo del sale oggi misura l’elevato livello di organizzazione e il relativo benessere del nostro mondo. L’«oro bianco» rappresentato dal sale ebbe, nel mondo antico, un ruolo altrettanto importante di quello che nel mondo moderno riveste il petrolio, l’«oro nero» di oggi. In passato, la posizione centrale del sale nelle tecniche e nell’economia fu all’origine di importanti pagine di storia. Stati di ogni natura e di ogni periodo praticarono forme di monopolio commerciale ed esasperanti forme di tassazione fiscale sul sale, spesso imposta all’estrazione, durante il trasporto e all’atto della vendita (proprio come oggi avviene, ahimé, con la benzina).
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CAPITOLO
Una donna trasporta un cesto di cristalli raccolti dal bacino del lago salato di Sambhar, nel Rajasthan (India). In basso raccolta e accumulo dei cristalli in una salina dell’isola di Lanzarote (arcipelago delle Canarie).
Il fabbisogno giornaliero, per un essere umano, è ridotto: da un minimo di 4-6 g a un massimo di 15-20 g (mediamente da 1,5 kg a 2 kg annui). Le popolazioni con diete basate sulla carne o sul pesce non hanno bisogno di integrazioni, mentre per quelle che usano diete vegetariane (soprattutto, quindi, gli strati sociali piú poveri) regolari rifornimenti di sale sono essenziali. Al Nord, dove i mari sono poco salini e le condizioni sfavorevoli all’evaporazione, il sale è un bene piú raro; in compenso, sono le popolazioni del Sud, nei climi piú caldi, a consumarne di piú. Il sale oggi costa poco. Siamo cosí abituati a vederlo nelle nostre cucine, che la massima emozione che esso ci dà insorge quando ci accorgiamo che è finito, e dobbiamo fare la grande «fatica» di andare ad acquistarlo. Basta entrare in un supermercato per vedere sui banchi di vendita confezioni di sale di ogni tipo: sali provenienti da sponde lontane e vicine dei nostri mari, a cristalli grossi e fini, sali integrali,
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iodati, dietetici e iposodici, sali aromatizzati con complesse miscele di erbe. Per gli antichi le cose non stavano cosí. Il sale non era solo una risorsa dietetica fondamentale, ma anche, a lato delle prime e rudimentali tecnologie di refrigerazione, un elemento indispensabile per conservare la carne (soprattutto di maiale), il pesce, il burro, il formaggio, le verdure (in salamoia) e persino le uova.
Nella «stanza degli orchi» I salatoi – maleodoranti e buie dispense – erano cosí comuni che le fiabe di una volta, per spaventare e tenere lontani i bambini, vi collocavano le stanze degli orchi. Conservare significava commerciare e distribuire i cibi anche su lunghe distanze; senza sale, le carestie che periodicamente afflissero il mondo antico sarebbero state ben piú esiziali. Con lo sviluppo delle città e delle sofisticate produzioni artigianali, nell’età del Bronzo, il sale trovò nuovi usi nella fabbricazione del pane, dei tessuti, delle pelli, nella metallurgia, nelle industrie della ceramica e del vetro.
Le regioni che vivevano di pesca e allevamento ma che si affacciavano su mari scarsamente salini – come Inghilterra, Paesi Bassi, Scandinavia – iniziarono scambi sistematici con i Paesi alpini e mediterranei; e proprio sul sale la Repubblica di Venezia costruí gran parte della sua fortuna. Il sale era utile a tutti, e tutti sapevano quanta fatica costava la sua produzione. La sua estrazione, raccolta, raffinazione e distribuzione dipendevano dal duro lavoro di masse di operai specializzati, da chi lo trasportava in città e nelle campagne, e quindi dalla praticabilità delle strade, come dalla sicurezza della viabilità, che solamente gli eserciti e le polizie degli Stati, piccoli o grandi, potevano garantire. Facilmente riconoscibile e suddivisibile in frazioni minori, compresso in blocchetti di forma e peso standardizzato, fu spesso usato come mezzo di scambio, e già Plinio il Vecchio ricorda che la parola latina «salarium», che noi continuiamo a usare, risaliva all’uso del sale come moneta nella remunerazione dei soldati. Ai tempi di Erodoto (V secolo a.C.), carovane di
Un triangolo «fatale»
S
ocietà umane, animali e sale: in antico, fra questi tre elementi si stabilirono interazioni complesse. I cacciatori-raccoglitori della preistoria impararono a controllare e prevedere gli spostamenti dei branchi di erbivori anche sulla base della localizzazione degli affioramenti salini, che erano intensamente frequentati da alcune specie di ruminanti. Con il tramonto della caccia come fonte primaria di sussistenza e il passaggio a diete integrate da carboidrati, le società mesolitiche e neolitiche si trovarono coinvolte nel commercio del sale. Lo sviluppo dell’allevamento fu un altro incentivo. Una capra o un vitello abbisognano di circa 25 g di sale al giorno, un cavallo ne consuma 50 e un bovino adulto può richiederne 100. Proprio la capacità dei gruppi preistorici di raccogliere e conservare il sale può aver favorito e accelerato i primi processi di domesticazione.
In alto vacche di razza maremmana al pascolo nell’area di Pian della Conserva, sui Monti della Tolfa (Roma). Un bovino ha bisogno di circa 100 g di sale al giorno e lo sviluppo dell’allevamento degli erbivori costituí, fin dalla preistoria, un incentivo alla raccolta e alla conservazione del sale.
sale attraversavano regolarmente le distese del Sahara, lungo la stessa «via dell’oro» che trasportava il prezioso metallo alla volta delle coste mediterranee.
Testimonianze preziose Lo sviluppo di speciali tecnologie legate all’estrazione e alla raffinazione del sale deve aver avuto un ruolo considerevole nella rivoluzione che, 12 000 anni fa circa, coinvolse i cacciatori-raccoglitori della tarda preistoria (cioè il passaggio alla pratica dell’agricoltura e dell’allevamento, n.d.r.). Curiosamente, questo aspetto è stato trascurato dagli archeologi. Per fortuna, grazie alle testimonianze degli scrittori del passato e all’osservazione etnografica, sappiamo che gli antichi disponevano di un repertorio di tecniche molto piú vasto di quanto comunemente si pensi. Uno dei possibili modi di affrontare il problema dell’approvvigionamento del sale consiste nel cercare di estrarre quello già contenuto in altri
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SALE
La versatilità del «parente» egiziano
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ffini al normale sale da cucina sono la potassa e la soda (soda caustica o carbonato di sodio). Entrambe si ottenevano dalla combustione di alcune varietà di piante, o potevano essere raccolte nelle zone aride come incrostazioni naturali. L’esatta natura chimica di queste sostanze venne definita solo agli inizi del XIX secolo. Col nome natron (che viene dallo Uadi Natron, località del Basso Egitto dove si concentrano i letti di una dozzina di laghi salati) sono tradizionalmente indicati composti di soda e potassa formati naturalmente dall’evaporazione. Il natron era un ingrediente delle ricette usate in Egitto nella mummificazione; era impiegato nella preparazione di colori usati per le stoffe, su legno, su ceramica e per conservare i collanti; inoltre, nel mondo antico come nell’attuale, veniva usato nelle industrie del vetro e della faïence (come fondente) come in quella dei detersivi. In India, il natron è usato da sempre in raffinati processi chimici, tra i quali l’incisione a fuoco e la sbiancatura della cornalina, un materiale durissimo. Plinio il Vecchio, nella
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Naturalis Historia (XXI, 14), cita come ingredienti della materia pittorica detta «cera punica», oltre alla cera d’api e all’acqua di mare, e a raggi di sole e di luna, un prodotto chiamato «nitrum», che per molti era natron naturale. Nel 1946, scavando ai margini della piramide di Djoser, a Saqqara, in una camera sotterranea vennero in luce 5 grandi giare grossolane, alcune delle quali ancora sigillate da tappi in ceramica, stuccati con gesso. Le giare (XXV dinastia, VIII-VII secolo a.C. circa ) erano piene di una polvere bianca; alcune contenevano stracci e vasetti, interi o rotti, e frammenti di paglia carbonizzata. In altre si trovarono fagottini o tamponi di tela annodata, che contenevano, a loro volta, polveri di vario colore: giallo, bruno, rosa. Sui vasetti figuravano iscrizioni che forse riportavano ricette. Tra gli ingredienti vi erano termini traducibili come cera, incenso, terebinto, olio di cedro, olio del Libano, e natron. Si tratta del ripostiglio di un imbalsamatore o dei materiali di un semplice pittore di cappelle funerarie?
In questa pagina tre tavole di un’edizione del Pen Ts’ao, un trattato cinese di farmacologia, che illustrano l’estrazione del sale da vasche scavate in riva al mare (in alto, a sinistra), una fase della lavorazione (a destra) e una scena di commercio (qui accanto). XVI sec. Nella pagina accanto, in alto una delle grandi macchine in uso nella miniera di sale di Wieliczka (Cracovia, Polonia), il cui sfruttamento ebbe inizio nel XIII sec. Nella pagina accanto, al centro rilievo delle giare scoperte a Saqqara nel 1946. XXV dinastia, VIII-VII sec. a.C. circa.
organismi viventi. La soluzione piú frequente, quando il sale era scarso (oltre a trattare e ingerire il sangue degli animali) fu quella di estrarre sostanze saline cuocendo alcune specie di piante o alghe, che ne trattengono una certa quantità, e raccogliendone le ceneri.
Le possibili alternative Nel Medioevo, soprattutto nel Settentrione europeo, si diffuse la cottura della torba palustre, le cui ceneri erano usate per la salatura e il commercio delle aringhe. Erano tecniche laboriose e poco redditizie: nei mari del Nord, da 24 kg di alghe si ricavano 8 kg di cenere, e da questi 1 kg di sale (un procedimento che, inoltre, obbligava a
misurarsi con il problema del combustibile). Un’altra possibile soluzione era l’estrazione del salgemma solido dal sottosuolo. I problemi principali di questo tipo di estrazione sono quelli di sempre: la mancanza d’aria, i crolli e la necessità di sostenere le gallerie con costose impalcature lignee, le infiltrazioni d’acqua. Solo un’organizzazione sociale complessa può aver sostenuto le attività dei minatori di sale di Hallstatt e di altre località minerarie già intensamente usate in età protostorica; eppure, con l’avvento dello Stato romano, divenne piú conveniente e sicuro usare le saline sulle coste mediterranee, e le miniere di sale dell’entroterra europeo vennero in larga misura abbandonate. Molte furono riattivate
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SALE
Dalle gerle dei minatori
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l salgemma, che oggi fornisce circa il 70% della produzione mondiale, in antico poteva essere estratto, macinato e consumato. Spesso era ricco di impurità e quindi, dopo l’estrazione, si doveva ricorrere all’evaporazione per bollitura. L’uomo iniziò a estrarlo già in età neolitica, dapprima seguendo gli strati in superficie, poi scavando gallerie e allargandole in vaste camere. I primi minatori usavano picconi di corno di cervo; con la metallurgia, vennero usati strumenti con il manico di legno e la punta in bronzo e in
solo nel Medioevo. La presenza di acque sotterranee, anche nei pozzi scavati dai minatori, spinse questi ultimi a raccogliere l’acqua satura di sale, e a farla evaporare tramite cottura. L’inondazione dei pozzi e la raccolta per evaporazione oggi permettono di abbassare notevolmente i costi. La raccolta di acque provenienti da fonti salate e la loro cottura erano state comunque intensamente praticate in Europa, Asia e Africa da tempo immemorabile. Queste fonti erano preziose, ed erano gelosamente custodite dalle popolazioni interne, che le consacravano spesso a importanti divinità. In Europa, erano famose le sorgenti di Halle e Lunenburg, che in età medievale rifornivano la Sassonia, la Turingia, la Prussia e le regioni costiere della Scandinavia; le saline di Lorena, nella Mosella, sfruttate dalle popolazioni celtiche e gallo-romane; quelle di Salins, ai piedi del Giura. In altri casi era l’acqua di mare, oppure l’acqua di grandi laghi salati, a essere raccolta e bollita.
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In alto una miniera di salgemma a Hallstatt (Austria). Sulle pareti rocciose si possono tuttora vedere tracce dell’estrazione dei blocchi lasciate dai minatori. VIII-III sec. A sinistra la scarpa di un minatore rinvenuta in una delle gallerie di Hallstatt. Come altri oggetti e utensili, si può datare fra il IX e il VI sec. a.C. Vienna, Naturhistorisches Museum.
Plinio racconta con meraviglia che Galli e Germani usavano evaporare acque salate su fuochi di legna, sia nell’entroterra, sia lungo le coste. In molte località le antiche fabbriche di sale si svelano agli archeologi grazie a grandi concentrazioni di resti di fornaci e cumuli di frammenti dì vasi in terracotta appositamente prodotti e usati per la bollitura delle acque saline. Questa bollitura richiedeva enormi quantità di legna, il cui rifornimento, nell’avanzato processo di deforestazione del continente europeo, creò ben presto gravi problemi economici e aspri conflitti. La tecnica della bollitura è attestata in Europa occidentale, lungo le coste africane, in Mesopotamia, in Cina, e persino presso le popolazioni delle grandi pianure nordamericane.
Dalla terra e dalla sabbia Gli scrittori classici menzionano anche l’uso di estrarre il sale da depositi di terre e sabbie naturalmente salate. I sedimenti venivano scavati, raccolti in vasche e mescolati ad acqua; le soluzioni venivano poi lasciate decantare e riversate in altri bacini, sino alla formazione di
A sinistra gerla da minatore, da Hallstatt. II-I mill. a.C. Hallstatt, Hallstatt Museum. A destra una piccozza e una paletta in legno, rinvenute anch’esse nelle miniere di salgemma di Hallstatt. X-VI sec. a.C. Hallstatt, Hallstatt Museum.
spessi strati salini. Le soluzioni erano filtrate mediante spessi strati di fascine e di paglia di cereali tritata, e quindi avviate alla bollitura. L’evaporazione delle acque marine in bacini naturali e artificiali è un’altra tecnica di raccolta usata sin dalla preistoria. Nelle acque oceaniche, l’eccesso di umidità inibisce la cristallizzazione: perciò le saline sono piú produttive lungo le sponde dei mari interni. I luoghi prescelti dovevano avere spiagge pianeggianti, con maree prevedibili e controllate, naturalmente protette dai venti (che non dovevano sporcare il sale con la polvere) come dalla pioggia e dalle piene dei torrenti. La tecnologia delle saline è rimasta pressoché invariata per millenni: esse appaiono come immense griglie ortogonali, fatte di basse sponde rialzate in argilla e pietra, a volte estese per centinaia di ettari. Le vasche comprendono vasti bacini che trattengono, all’ingresso, l’acqua del mare.
Qui sopra altri utensili recuperati nelle miniere di salgemma di Hallstatt: una piccozza in ferro (a sinistra) e un’ascia martello in bronzo. X-VI sec. a.C. Bad Buchau, Federseemuseum.
ferro, mentre i blocchi di sale venivano divisi e squadrati con asce. La miniera di salgemma piú conosciuta è quella di Hallstatt, nelle Alpi Austriache, le cui gallerie si spingono a 360 m di profondità; all’interno, il sale aveva perfettamente conservato le calzature, i guanti, le gerle e gli zaini dei minatori di 3000 anni fa. Altre importanti miniere si trovavano a Reichenhall (Baviera), a Hallein (in Austria, a poche decine di chilometri da Hallstatt), entrambe sfruttate dall’età del Ferro; quelle di Hall, in Tirolo; quelle di Wieliczka e Bochnia (Galizia, Polonia).
Questi alimentano bacini intermedi, nei quali si formano le prime soluzioni concentrate, e, quindi, vasche minori, dette «caselle salanti», dove si accumula il sale. In inverno e in primavera si riparano le vasche; d’estate, a piú riprese, il sale viene accumulato su spazi sopraelevati e infine ammassato in candidi coni. Si tratta di un mestiere tradizionalmente maschile. Il salinaio adopera ancora oggi uno strumentario che potrebbe essere stato usato da un artigiano neolitico: una serie di rastrelli e pale lignee dai lunghi manici, spatole e mazzuoli lignei, secchi e semplici canestri. Gli scrittori antichi ricordano le saline degli Egizi, quelle usate dagli Sciti e dai Frigi sulle coste del Mar Nero, e quelle costruite dai Fenici sulle coste orientali del Mediterraneo, successivamente «esportate» in Libia, in Tunisia e lungo le direttrici dell’espansione commerciale fenicia sulle coste atlantiche. A Roma, la via Salaria fu la prima arteria che collegava le saline di Ostia con le popolazioni e i mercati dell’Italia centrale.
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Lungo il filo della
storia
La tessitura è una delle piú antiche «tecnologie avanzate» messe a punto dall’uomo. Un’attività che, al di là degli aspetti pratici, ebbe sempre implicazioni simboliche e religiose, dettate dal suo essere associata alla donna | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 22 |
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Pali (Rajasthan, India). Dopo che sono state effettuate la tintura e la stampa dei motivi decorativi, una donna stende su rastrelliere di bambú i teli destinati alla fabbricazione del sari, il tipico costume indiano, impostosi come indumento nazionale almeno a partire dal X sec.
e piú antiche ceramiche a oggi note sono quelle che l’archeologo ceco Karel Absolon (1877-1960) scoprí, suo malgrado, nel sito paleolitico di Dolni Vestonice, in Moravia, non lontano da Brno. La frequentazione dell’insediamento risaliva a 25 000 anni fa circa e possiamo soltanto immaginare l’imbarazzo dello studioso quando dalla trincea dello scavo affiorò la famosa Venere in terracotta, con i suoi volumi astratti e le sue superfici levigate (e che rientra nel novero delle «Veneri» paleolitiche, statuette che ritraggono figure femminili con tratti somatici particolarmente accentuati, n.d.r.). Nessuno, infatti, aveva ancora ipotizzato l’invenzione della ceramica nel Paleolitico Superiore. E risultava piuttosto arduo sostenere che nelle remote pianure dell’Europa Centrale i cacciatori di quella fase della preistoria avessero inventato la ceramica, mentre non ve n’era traccia nelle splendide grotte dipinte dei Pirenei, frequentate dall’uomo nel medesimo orizzonte cronologico. Absolon si trasse dall’impaccio affermando che la statuetta era stata cotta al sole, e che era stata fatta con loess impastato con grasso e ossa di mammut, una circostanza che le conferiva un’aura magica compatibile con le concezioni ufficiali dell’arte paleolitica (la vicenda ebbe peraltro un esito esemplare: gli scavi portarono in luce non soltanto migliaia di altri oggetti in terracotta, ma anche due fornaci; le analisi, condotte alcuni decenni piú tardi, dimostrarono che le ceramiche erano state cotte ad alte temperature e che di grasso e ossa, nella Venere, non v’era traccia alcuna). Ma che cosa c’entra tutto questo con la tessitura? Le ceramiche di Dolni Vestonice erano state fabbricate adottando la tecnica detta «delle masserelle», cioè preparando una serie di blocchetti di argilla e saldandoli l’uno all’altro, sino a creare statuette e contenitori. Si tratta di un processo che si svolge per addizioni graduali e che dà origine, anche grazie alla fase finale della cottura, al primo materiale del tutto artificiale della storia dell’umanità. La tessitura nasce grazie alla medesima logica
di addizione graduale: i peli degli animali, come le fibre strappate alle piante, vengono attorti e fissati gli uni sugli altri, quindi gradualmente interconnessi, secondo regole precise, a formare strutture e materiali non esistenti in natura, come gli intrecci e i tessuti. In questa luce, si sarebbe tentati di identificare due grandi ambiti nelle tecnologie del Paleolitico Superiore. Il primo comprende le attività che procedevano per estrazione e per riduzione, cioè prelevando dall’ambiente naturale le materie prime e frammentandole progressivamente. Tale ambito include, in primo luogo, la caccia e la scheggiatura della selce, attività che ricadrebbero nella sfera maschile. Un secondo ambito potrebbe invece includere attività femminili, quali la fabbricazione della ceramica e la tessitura, che avrebbero potuto procedere in senso esattamente contrario, cioè aggregando parti minori in strutture complesse, e nell’invenzione di materiali artificiali.
Interpretazioni rischiose Il rischio di queste interpretazioni è che esse si basano sui modelli di divisione del lavoro del mondo moderno; nessuno può escludere, in realtà, che esistessero cacciatrici abilissime, o che gli splendidi coltelli solutreani fossero stati fabbricati da donne (il Solutreano è una delle maggiori culture del Paleolitico Superiore, che prende nome dal sito di Solutré, nel dipartimento di Sâone-et-Loire, in Aquitania, n.d.r.) È certo, invece, che i piú antichi ornamenti, che dovevano essere affissi mediante fili (perline, alamari, bottoni), si datano a 30 000 anni fa circa; mentre le piú antiche raffigurazioni di copricapi e perizomi intrecciati, e forse di tessuti, si ritrovano proprio sulle statuette delle Veneri che, come quella di Dolni Vestonice, risalgono a 23 000 anni fa circa, quando fanno la comparsa anche i primi aghi in osso. Lavorazione delle pelli, cucitura, intreccio delle fibre, decorazione mediante affissione di perline e conchiglie: il panorama tecnologico della creazione degli abiti si è fatto, quasi di
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TESSITURA
L’«invenzione» della pecora
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colpo, notevolmente complesso. I tessuti servono per gli abiti e questi, per gli esseri umani – al di là delle piú immediate esigenze della protezione dagli agenti atmosferici –, sono regolatori della vita sociale, dalla sfera sessuale a quella politica. L’industria degli abiti e quella della fabbricazione degli ornamenti crebbero in complessità mentre aumentava, in parallelo, la complessità sociale. Nel Mesolitico europeo, nell’arco cronologico compreso tra i 12 000 e i 10 000 anni fa, avvenne una radicale rivoluzione: estintesi le grandi mandrie di renne e cavalli che avevano rappresentato «inesauribili» riserve di carne da caccia, i gruppi di cacciatori-raccoglitori dovettero rivolgersi a nuove risorse alimentari e a uno sfruttamento piú intensivo del territorio.
l Mesolitico è la fase di piú intensa pressione sulle specie vegetali e animali che in seguito popolarono il mondo del Neolitico. La domesticazione di pecore e capre comportò la selezione graduale di animali con un vello formato da peli ritorti, fatti a scaglie invece che lisci, in modo da potersi attaccare efficacemente gli uni agli altri nel corso della torcitura e formare fili compatti e resistenti, e da trattenere miriadi di minutissime tasche di aria che svolgessero funzioni di isolamento termico. «Inventare» una pecora che, oltre a essere mansueta e buona fornitrice di latte e carne, fornisse anche lana di queste caratteristiche, richiese esperimenti genetici che si protrassero per tremila anni, dal 10 000 al 7000 a.C. circa; vi si impegnarono le comunità mesolitiche e neolitiche di una regione molto vasta, estesa dall’Anatolia all’attuale Pakistan. Le pecore selvatiche hanno colorazione bruna, grigia o rossastra, e queste lane sono difficili da tingere: bisognava selezionare animali con lana bianca. Ancora oggi non si sa se pecore e capre siano state domesticate principalmente per la carne e il latte, se la tecnologia della lana sia stata uno sviluppo collaterale, o se non sia avvenuto l’esatto contrario. È però certo che, alla fine di questo processo, i caprovini «mutanti» necessitarono per la propria sopravvivenza dell’uomo, esattamente come le comunità sedentarizzate non poterono piú farne a meno.
Nuovi ruoli e nuove gerarchie Le società, dominate per millenni dai giovani cacciatori maschi, divennero piú articolate e varie, perché anche i vecchi, le donne e i bambini contribuivano in modo fondamentale alle attività di raccolta. Il costume si arricchí per segnalare nuovi ruoli e nuove gerarchie; alle Arene Candide (importante insediamento italiano in grotta, situato presso Finale Ligure, in provincia di Savona, n.d.r.), per esempio, un capo scese nella tomba avvolto in un manto funebre fulvo, fatto di code di scoiattolo. La graduale sedentarizzazione e l’incremento demografico promossero la conoscenza delle specie animali e vegetali, e la creatività degli artigiani, maschi o femmine. Parte delle fibre usate nel corso della preistoria
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In alto tre pesi da telaio dell’età del Bronzo II-I mill. a.C. Gerusalemme, Israel Museum. A destra statuetta in terracotta raffigurante un pastore che porta un agnello, da Girsu (l’odierna Tello), Mesopotamia. Fine del III-inizi del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Artigiani e tessitori preistorici si servivano di fibre ricavate da specie selvatiche, sia animali, sia vegetali continuò a essere ottenuta da specie selvatiche, sia animali sia vegetali. Vi erano fibre trattate e usate individualmente (come i tendini animali), mentre altre dovevano essere saldate le une alle altre a formare corde, intrecci e tessuti. Progressi evidenti nella fabbricazione di archi, arpioni e ami da pesca fanno presupporre una fase di progresso tecnico nella preparazione di vari tipi di corde; cacciatori e pescatori dovevano essere ormai diventati esperti fabbricanti di reti, strumenti costosi e che richiedevano, sia nella fabbricazione, sia nella manutenzione e nell’uso, la cooperazione di gruppi allargati. Alcuni dei piú antichi frammenti di tessuto trovati dagli archeologi sono in fibre di lino
(Linum usitatissimum). A Çatal Höyük, in Anatolia, come nei villaggi del Neolitico Antico dell’area siro-palestinese, resti di tessuti in lino si datano al 7000 a.C. circa; in Egitto, al 5000 a.C. circa, mentre nei siti neolitici su palafitta dei laghi europei i resti piú antichi non risalgono oltre il 3000 a.C. Le fibre venivano estratte dopo aver macerato a lungo le piante in apposite vasche e dopo In alto rilievo elamita da Susa, con, al centro, una donna che fila servendosi di una conocchia. VIII-VII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra scultura in legno dipinto raffigurante una donna che conserva resti del tessuto che la copriva, dalla tomba di Pakhetemhat ad Antinoe, Egitto. Medio Regno, XXI-XVII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
TESSITURA
Sfida all’ultimo ordito
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on la maturazione della democrazia ad Atene, il mutare della natura della ricchezza che circolava in città cambiò le usanze matrimoniali, e la donna perse qualsiasi diritto civile, finendo per essere costantemente relegata in casa. Si praticava spesso il matrimonio «obliquo», nel quale ragazze poco piú che adolescenti venivano date in sposa a uomini anziani, spesso della generazione precedente. La tessitura rimase un’attività economica fondamentale, ma le donne erano condannate a svolgerla, con o senza l’aiuto di serve, nell’oscurità dei ginecei. Conocchia e telaio divennero metafore dell’asservimento della donna a una società che tollerava l’omosessualità maschile, ma era maschilista fino all’ottusità. Questa trasformazione è pienamente riflessa nel cupo mito di Aracne. Aracne («Il ragno»), abilissima tessitrice, ha il coraggio di sfidare la dea Atena in una gara di
averne strappato le parti morbide (gli abitanti delle palafitte usavano a tale scopo speciali spatole in osso o in legno armate di spine). Le fibre venivano arrotolate torcendole sull’interno della coscia, cosí da ricavare cordoni grossolani dai quali venivano formati i gomitoli, che venivano poi collocati in speciali vasi, dotati di un’ansa o di un anello interno, nel quale si faceva poi scorrere la fibra, che in tal modo veniva stirata e assottigliata per trazione. Per la filatura si usavano fusi di legno coronati da grandi fusaiole in legno o in pietra. Legata alla produzione delle fibre di lino era l’industria dei coloranti: il guado (Isatis tinctoria; una pianta erbacea tipica delle zone submontane) tingeva in blu; la robbia (Rubia tinctorium; pianta erbacea che, anche in Italia, cresce spontanea in luoghi boscosi) in rosso; altre sfumature rosse si ottenevano dalle ocre, mentre i gialli si basavano sul Carthamus tinctorium, l’henné, sullo zafferano o sulla ruggine. Come mordente si usava l’allume. Gli Egiziani, per i quali il lino fu sempre la fibra piú importante, producevano tessuti di colori
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tessitura. Nella gara, Aracne tesse le immagini delle degradanti trasformazioni compiute dagli dèi in animali per ingannare e sedurre i mortali. Le due opere – di Aracne e di Atena – sono ugualmente perfette. Atena, furiosa, colpisce Aracne con una spoletta in mezzo alla fronte, e la trasforma in ragno. Come i ragni, le donne ateniesi saranno condannate a tessere da sole, relegate nell’oscurità delle stanze della casa, dalla quale non potranno mai uscire. La natura infelice di molti matrimoni, nelle immagini dei vasi, veniva sublimata da immagini romantiche: in alcuni vasi, si vedono eroti alati che calano dal soffitto per legare le donne... con lacci di lana rossa.
variabili, dal bruno al bianco. Vi erano fitti tessuti in «lino reale», tessuti di buona qualità chiamati «bella stoffa fine», tessuti di «stoffa fine» e, infine, la «stoffa ordinaria», che veniva utilizzata dalla gente comune. Per gli Egiziani, il caos primigenio era terra mescolata ad acqua. Che dal buio informe delle vasche di macerazione del lino emergessero le vesti della vita civile e le bende che proteggevano la mummia nel viaggio ultraterreno del defunto, aveva per loro profonde implicazioni simboliche: tessere significava non solo creare, ma anche ordinare.
Un osservatorio privilegiato La terra del Nilo, insieme ad alcune regioni dell’America Meridionale, rappresenta la principale fonte di informazioni sulla pratica della tessitura in epoca preistorica e protostorica. Ciò si deve all’importanza dei riti funebri nella società egiziana, e alle offerte di tessuti ai defunti; ma, soprattutto, al clima caldo e arido del Paese, che ha favorito la conservazione dei materiali organici.
In alto epinetron (conocchia) in terracotta decorato a figure nere con scena di lavori femminili. 500 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
In basso pisside attica a figure rosse con una scena di lavoro domestico: una donna, seduta, lavora con la conocchia, mentre un’altra, in piedi, regge un piccolo telaio a mano. Pittore della Centauromachia, 430 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
Inoltre, la necessità di esplicitare il ruolo svolto dai funzionari che gestivano le antiche industrie artigianali per conto del faraone spinse gli Egiziani a rappresentare la produzione di fibre e tessuti nelle tombe. Il cibo e gli abiti, che costituivano il nutrimento dell’individuo e quello della sua vita sociale, forse prima ancora degli amuleti e dei gioielli, erano necessari nell’universo della tomba. Nel corso di innumerevoli saccheggi, ma anche durante gli scavi archeologici, i fragili involucri dei corredi tessili – sudari e lenzuoli, manti, vesti, biancheria intima e persino calze e guanti – sono stati danneggiati, scartati o messi da parte, quando forse rappresentavano i beni un tempo piú preziosi. Ancora oggi, si possono fare molte scoperte proprio nei magazzini dei musei e nei laboratori di restauro.
orizzontali. Forse i sigilli appartenevano a facoltosi mercanti, oppure a funzionari statali che sottolineavano in tal modo il loro ruolo di efficienti «controllori» della produzione tessile. Nei millenni successivi, i testi economici redatti in caratteri cuneiformi indicano una produzione diffusa, spesso intensiva, di filati e stoffe in templi, palazzi e case private. Lana grezza, fibre e tessuti viaggiavano tra case, palazzi e città, scambiati con metalli preziosi e cereali. I magazzini dei templi, che spesso fungevano come veri e propri «istituti bancari» ante litteram, dal momento che concentravano ricchezze e le redistribuivano sotto forma di prestiti e investimenti, gestivano imprese o stabilimenti tessili che potevano impiegare centinaia di persone, sia liberi, sia schiavi. Esistevano listini ufficiali, con le equivalenze
Il controllo della produzione La tessitura, nell’antico Oriente, viene rappresentata, a partire dal IV millennio a.C., nei sigilli a cilindro, o nelle loro impronte: la scena che ricorre con maggior frequenza vede donne o uomini al lavoro su grandi telai
Il mondo alla rovescia
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er i Greci, l’antico Egitto fu un inesauribile pozzo di curiosità, nel quale potevano essere collocate ogni genere di inversioni: il Nilo, per esempio, scorreva da sud, invece che da nord, e non c’era alcun bisogno di irrigare, perché le esondazioni stagionali lo facevano naturalmente. Molte di queste inversioni riguardavano proprio la tessitura. In Egitto, la «lana» cresceva sugli alberi, invece che sugli animali (si trattava del cotone); nella filatura, la fusaiola egiziana si collocava in cima al fuso, e non in basso; le fibre si torcevano sfregandole all’interno della coscia, e non sull’estreno dello stinco, come facevano le donne ateniesi; accadeva spesso che fossero gli uomini a restare a casa a tessere, mentre le donne andavano al mercato (in Grecia succedeva ovviamente il contrario); il piú comune telaio si allungava, orizzontale, sui pavimenti, e non si innalzava lungo le pareti.
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TESSITURA
numeriche e ponderali tra partite di lana e frazioni di metallo, soprattutto di argento.
Un bene indispensabile La lana serviva a tutti: la sua trasformazione e distribuzione attraversava ogni strato sociale. I rifornimenti di lana mettevano in contatto il mondo delle città con le popolazioni di allevatori nomadi che si muovevano dalle pianure alle montagne circostanti. I leader di potenti comunità nomadi, che controllavano migliaia di capi di bestiame, stringevano spesso alleanze strategiche con le case regnanti, ma non erano rari i casi di conflitti armati, che non di rado ebbero esiti catastrofici per gli Stati delle pianure. Le tavolette scritte in Lineare B – tanto a Creta quanto in Grecia – ci dicono che nei palazzi dei signori micenei, intorno alla metà del Il millennio a.C., decine di servi e schiavi erano destinati alla lavorazione della lana. Le donne tessevano in apposite stanze, mentre altri artigiani costruivano carri in legno, lavoravano il bronzo e l’avorio, e producevano olio e vino. La filatura e la tessitura rimasero attività di grande rilevanza economica e sociale anche nel trapasso tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro. La divinizzazione del potere politico collocò anche le donne della casa regnante in un’aura sacra: esse furono rappresentate, nelle tombe come nell’arte di propaganda, con gli strumenti della filatura, riaffermando allo stesso tempo la ricchezza dei signori, la loro correttezza morale e il loro ruolo di ordinatori del mondo sociale. In Grecia, agli inizi dell’età arcaica (VII secolo a.C.), le ceramiche corinzie mostrano donne che partecipano a grandi cortei pubblici comprendenti il sacrificio di pecore o capre, il suono del flauto e la vestizione rituale di
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Sulle due pagine immagini tratte dallo Yuzhi gengzhi tu (Illustrazioni dell’agricoltura e della sericoltura commissionate dalla corte imperiale): dalla raccolta delle foglie del gelso alla coltivazione del baco da seta, dalla filatura dei bozzoli alla tessitura. 1696. Londra, British Museum.
Di fibra in fibra
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ltre alla lana, l’uomo ha usato per tessere svariati tipi di fibre animali: lana di cammello, pelo di coniglio, di cane e crine di cavallo; in Egitto vennero usati anche peli di elefante e di giraffa. La seta viene ottenuta dallo svolgimento del bozzolo di una farfalla, il Bombyx mori: da un solo bozzolo si srotolano anche 100 m di filo. La sua produzione è attestata già nel 5000 a.C. presso gli agricoltori neolitici del Fiume Giallo, in Cina; in seguito, essa divenne oggetto
del commercio internazionale della celebre Via della Seta, un insieme di rotte carovaniere che connettevano la Cina interna con le coste siro-palestinesi e le città costiere dell’Asia Minore. Resti di seta sono stati identificati in abitati della Battriana (oggi nell’Afghanistan settentrionale) che risalgono al III millennio a.C. Il cotone venne addomesticato nel
Subcontinente indo-pakistano a partire dal V millennio a.C.; la fibra, in natura, avvolge i semi delle piante del genere Gossypium. In Occidente, il cotone viene nominato dalle fonti assire nell’VIII secolo a.C., e divenne comune in Egitto nei due secoli successivi. Lo sparto, invece, è una fibra erbacea usata in Egitto almeno dal IV millennio a.C., soprattutto per stuoie, cesti e corde. Nel mondo greco vennero filate e tessute anche fibre di amianto, capaci di resistere al fuoco; e i tessuti piú preziosi comprendevano anche fili d’oro.
statue di dee; vi compare l’immagine della filatrice con la conocchia innalzata nella mano sinistra. Divinità femminili in trono (Demetra, sua figlia Kore, le Moire o le Parche, una delle quali doveva tagliare il filo della vita) esibiscono gli strumenti della filatura. Anche le piú antiche ceramiche attiche continuano a presentare la tessitura e il lavoro delle ancelle come un motivo di vanto e pregio. Pur essendo una «proprietà» del marito, la donna riveste un ruolo importante nel celebrare pubblicamente, con l’esibizione dello sfarzo dei tessuti, il rango della casa. I grandi telai verticali che compaiono su pochi vasi simboleggiano, forse, la tessitura dei sontuosi pepli che le donne delle case aristocratiche, in competizione, creavano con mesi di duro lavoro per dedicarlo alle divinità cittadine. Nel V secolo a.C., a giudicare dalle scene dipinte sui vasi figurati, il lavoro della lana viene progressivamente svalutato. Le immagini dei telai risultano contrapposte al mondo «selvaggio» di Dioniso, dio del vino e dell’ebbrezza, della passione incontrollata, suggerendo che se la donna si distacca dal telaio, dalla tessitura domestica, verranno sovvertite le regole della vita civile. Le rappresentazioni delle filatrici acquistano una valenza erotica, dipinte come donne giovani e attraenti, e ben presto equiparate a prostitute, alle quali gli uomini si rivolgono con familiarità, offrendo borse di denaro. Anche i dettagli tecnici che illustrano il lavoro della lana acquistano un valore sempre piú simbolico. Scomparse le immagini dei grandi telai verticali, vedremo ben presto le donne di Atene curve negli spazi angusti dei ginecei, tra cofanetti e profumi, nell’atto di tessere, lavorare a maglia o ricamare non piú i grandi pepli delle dee piú potenti, ma le cuffiette di lana (sakkoi) che si indossavano nell’intimità domestica.
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RAME E FERRO
Il il
rosso e nero
Le tecnologie del rame e del ferro, al di là degli aspetti prettamente tecnici, si oppongono per simbolismi diametralmente opposti: da un lato, i valori delle casate aristocratiche dell’età del Bronzo, dall’altro quelli delle città-stato militariste del I millennio a.C.
A
vete presente il vecchio luogo comune degli esploratori bianchi che giungono sulle coste di una terra sconosciuta abitata da indigeni, scaricano i loro cesti e riescono a ottenere beni preziosi come oro, avorio e pellicce in cambio di banali perline di vetro? Come in molti stereotipi del genere, c’è un fondo di sostanziale verità. La navigazione, nel mondo antico, era un’attività rischiosa e costosa. Le probabilità di perdere imbarcazioni, carichi, la libertà o la stessa vita, a causa delle intemperie, dei contrasti con i partner commerciali e delle «attenzioni» dei pirati, erano elevate. Inoltre, solo canali commerciali capaci di garantire un ritorno elevato (5 o 10 volte le ricchezze investite) permettevano di coprire i frequenti insuccessi e le perdite, e di ricavare profitto e prestigio. Molti, per esempio, pensano che, negli ultimi secoli del Il millennio a.C., i navigatori greci che si spingevano dalle coste della Calabria alla volta dell’Adriatico scambiassero vetro con ambra (cesti di perline azzurre contro partite della preziosa resina fossile del Baltico, del colore del miele), e ferro con rame (un metallo dalla lucentezza bluastra contro un
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altro metallo, anch’esso dal colore rossodorato). La logica è sempre la stessa: il controllo di tecniche elaborate, protette da segreto professionale, permette ai nuovi arrivati di barattare merci fabbricate in grandi quantità, a un costo vicino allo zero, con materie prime che in patria hanno un valore elevatissimo.
Simboli dello status sociale Gli scavi delle necropoli dell’Italia meridionale della fine dell’età del Bronzo e delle epoche immediatamente successive mostrano con chiarezza che i primi oggetti in ferro importati o prodotti su suolo italico furono «adottati» dai ricchi come preziosi simboli di status: si tratta di asticelle, fettucce, ganci, anellini, e, in seguito, fibule (spille di sicurezza per gli abiti), che, con il seppellimento nel terreno, si sono trasformati in grumi di incrostazioni rossastre, ma che, al tempo del funerale, dovevano apparire scintillanti e argentati. A partire da questi timidi inizi, la tecnologia del ferro iniziò – nella nostra penisola come in gran parte dell’Europa – una «lunga marcia», che si protrasse per quasi un millennio, finendo per trasformare non
Fusione del rame in una fonderia. In termini archeologici, i primi oggetti fusi in rame con la tecnica detta a «cera persa» si datano, in Asia, al 5500 a.C.; la diffusione di questa tecnologia in Europa avvenne nel corso del III mill. a.C
soltanto le attività dei metalli e il mondo delle armi, ma anche altri fondamentali settori della vita economica e sociale. La piú antica forgia (focolare per la lavorazione a martello del ferro incandescente) sinora nota in Italia è stata rinvenuta negli scavi dell’abitato protostorico di Broglio di Trebisacce, nella Sibaritide (sempre in Calabria), e si data tra l’XI e il X secolo a.C. Si tratta di una fossetta, con pareti debolmente arrossate dal fuoco, forse scavata nei pressi della porta di una capanna: sull’imboccatura giacevano i pezzi di un tubo in terracotta. All’interno e tutto intorno alcune decine di scorie grigie e rosse, sparpagliate dalla lama di un aratro moderno, erano i residui del lavoro di una giornata. Questo impianto rappresenta, in realtà, l’onda piú lontana e meno
percettibile di una vera e propria rivoluzione tecnologica (e non solo) maturata duecento o trecento anni prima in terre che, per quanto oggi ne sappiamo, dovevano trovarsi piú a est, forse attorno alle coste nord-orientali del Mediterraneo. Pochi periodi, nella storia dell’umanità, furono «terribili» come quello compreso tra il 1300 e il 1100 a.C. In questo arco di tempo crollò rovinosamente l’impero ittita; lungo la fascia siro-palestinese innumerevoli città e villaggi furono bruciati, spogliati di ogni ricchezza e momentaneamente abbandonati; la stessa sorte toccò alle grandi e belle dimore fortificate delle famiglie reali micenee. L’Egitto, secondo le cronache propagandistiche incise sulle pareti dei templi funerari dagli stessi faraoni, fu invaso
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RAME E FERRO
Tutto nasce dal mare
L
o spazio che la mitologia greca associa, sin dai primordi, al mondo della metallurgia, è il mare. Teti, la madre di Achille, appartiene a una schiera di antichissime divinità marine che precedono la generazione degli dèi olimpici: nel ruolo di forgiatrice della volta celeste, immaginata come una immensa semisfera metallica tesa su terra e acque, Teti era vista come creatrice cosmica. Anche Efesto, già citato con questo nome nelle tavolette micenee in Lineare B, era una divinità pre-ellenica, forse ampiamente venerata presso le società protostoriche dell’Egeo. Menomato al piede, Efesto nasce negli spazi celesti, ma viene scagliato dalla madre nellle profondità dell’oceano, dove, in una cavità inaccessibile, sotto la protezione di Teti ed Eurinome, apprende i segreti della metallurgia. La natura piú profonda di questo dio, arcaico ma costantemente rinnovato dalla fede e dalla politica della comunità ateniese, consiste nella capacità di dare vita e movimento a insidiose creazioni artificiali e, al contrario, di bloccare e imprigionare ciò che ha vita: tutte le sue imprese divine sono trasposizioni del
da immense carovane di nomadi immigranti, chiamati «Popoli del Mare» per indicarne la provenienza settentrionale. Dopo aver affrontato ripetuti attacchi dei Libici, Ramesse lII (1186-1155 a.C.) sarebbe riuscito, a suo dire, a respingerli, ma sta di fatto che, dopo le sue imprese, lo Stato unitario si spezzò, e non riuscí piú a conquistare l’antica grandezza. Per gli archeologi, tutto ciò significa la transizione dall’età del Bronzo all’età del Ferro. Chi fossero realmente i «Popoli del Mare» rimane uno dei grandi misteri dell’archeologia, anche se indizi linguistici e alcune antiche immagini li
La vera identità dei «Popoli del Mare» costituisce tuttora uno dei misteri dell’archeologia | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 32 |
principio base della lavorazione del rame, la capacità di rendere liquido e mobile il metallo con la fusione, e dl imprigionarne la materia nelle forme volute dall’uomo. Venerato sull’isola di Lemno, dove accendeva la sua forgia nel ventre vulcanico del Monte Mosiclo, Efesto, come un maestro fabbro, veniva accudito da esseri misteriosi, come i Dattili (il cui nome allude forse alle dita della mano), i Cabiri (oggetto di culti misterici) e i Telchini. I Cabiri erano spesso assimilati ai granchi: e proprio alla pinza del granchio era associata quella utilizzata dal fabbro, chiamata karkinos in greco. Non meno strani erano i Telchini, creature vagamente antropomorfe, ma simili a pesci o serpi dalle mani palmate, probabilmente trasposizioni mitiche di foche e altri grandi mammiferi marini. La stranezza è solo apparente. Infatti sia i granchi, sia le foche condividono con Efesto, il dio zoppo, l’incedere lento e impedito. Entrambi, inoltre, vivono sulle spiagge, cioè al limife fra terra e oceano, esattamente a metà tra i due domini metellurgici di Efesto: lo stato solido e quello liquido.
collegano a diverse popolazioni che avrebbero avuto ruoli di primo piano nell’età del Ferro del Mediterraneo. La storiografia degli antichi semplifica sempre, appiattendole sul piano etnico, trasformazioni sociali di vasta portata.
Una crisi epocale Tuttavia, nell’arco di alcune generazioni, il vecchio mondo delle dinastie aristocratiche, dei palazzi, degli scribi e degli archivi – lo stesso che aveva fatto nascere le prime città e gli Stati protostorici piú antichi – era stato politicamente travolto e ideologicamente delegittimato: una sconfitta, questa, che il modo di pensare dei nobili rendeva ancor piú rovinosa e definitiva. Prima di questa crisi epocale, il rame aveva avuto un ruolo economico e simbolico centrale; oltre questa soglia, venne usato soprattutto per le arti decorative e le monete. Le miniere di rame note agli antichi erano localizzate in aree ristrette, e da secoli le case aristocratiche ne controllavano lo sfruttamento con gli strumenti
In alto cratere raffigurante Efesto ubriaco, ma con la sua pinza da fabbro, che, sostenuto da un Satiro, torna all’Olimpo. V sec. a.C. Monaco, Antikensammlungen und Glyptothek. Nella pagina accanto, a sinistra asce in rame della cultura di Rinaldone. Età eneolitica. Roma, Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini». Nella pagina accanto, a destra ricostruzione grafica di una forgia protostorica.
tipici della nobiltà di ogni tempo. Si tessevano alleanze matrimoniali e politiche con le genti che possedevano le aree di estrazione, come con le comunità mercantili che distribuivano il metallo, trasmettendo tali alleanze da una generazione all’altra; ci si «obbligava» l’un l’altro scambiando spose, animali di lusso, doni prestigiosi e favori; in caso di necessità, si intraprendevano costose spedizioni e conquiste militari. Il rame veniva raffinato presso i punti di estrazione e colato in lingotti a calotta o a pelle di bue, di peso standardizzato. Questi lingotti e i loro frammenti potevano essere scambiati con metalli piú preziosi, lotti di lana, tessuti o altri prodotti, svolgendo le funzioni di una primitiva moneta (nel mito della fondazione di Cartagine, i Fenici allargano al suolo pelli di bue per misurare la terra, in una ovvia allusione al pagamento in metallo) e venivano accumulati nelle «camere del tesoro» dei signori dell’età del Bronzo, insieme a preziosi oggetti finiti. La qualità fondamentale del rame era la relativa facilità con cui poteva essere riciclato, rifuso e trasformato in nuovi oggetti: a un metallurgo sufficientemente esperto, infatti, bastava disporre di una piccola fornace, dei mantici e degli stampi in pietra o in terracotta per trasformare i lingotti in armi, ornamenti o altri oggetti, o, al contrario, rifondere il tutto, con rapidità, in altri semifiniti. Il sapere tecnico fondamentale consisteva nelle tecniche di fusione e creazione delle leghe. Nell’Europa della tarda età del Bronzo, i molteplici rinvenimenti di ripostigli di oggetti in rame, molti dei quali frammentati e non piú utilizzabili, testimoniano altrettante trasformazioni fallite, ma ci fanno intuire quanto comune e dinamica fosse questa tecnologia. Fino all’ultimo secolo del Il millennio a.C., il metallo e le sue leghe rimasero la materia prima fondamentale per gli ornamenti, gli oggetti di lusso, le armi e per qualche strumento usato dai piú ricchi; il colore rosso-dorato del rame e quello piú luminoso del bronzo simboleggiavano, probabilmente, la supremazia «immortale» delle élite,
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RAME E FERRO
L’ematite derivò il suo nome dalla credenza che potesse fluidificare il sangue
In alto chiodi e una catena in ferro di produzione gallo-romana. Châtillon-sur-Seine, Musée du Pays Châtillonnais. A sinistra figurina di guerriero in bronzo e oro, da Biblo (Libano). II-I mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto Timma, Deserto del Negev (Israele). I cosiddetti «Pilastri di Salomone», presso le omonime miniere di rame.
costantemente esibita e riaffermata nel corso dei momenti cruciali della vita di ognuno. Questo mondo, molto complesso e allo stesso tempo ingenuo, venne improvvisamente incrinato dalla scoperta delle potenzialità di un metallo meno versatile e certo molto piú brutto, ma estremamente piú comune. Il ferro è uno degli elementi piú comuni del nostro pianeta e, di conseguenza, è presente in molte forme diverse. Gli antichi lo conoscevano da età immemorabili sotto forma di ossido: minerali di consistenza terrosa come limonite e goethite erano stati raccolti, scaldati, macinati e mescolati a liquidi per ricavare pigmenti rossi e gialli sin dal Paleolitico, e, certamente, ai cacciatori della preistoria non erano sfuggite le proprietà magiche della nera magnetite. L’ematite, cosí chiamata perché gli antichi credevano che potesse fluidificare il sangue, si trovava in forma di noduli compatti di colore nero o grigio, dall’attraente lucentezza metallica; era stata usata in Egitto per fabbricare perline già 6000 anni fa.
Il metallo venuto dal cielo In alcune regioni dell’Europa settentrionale, nei fondi delle paludi, processi naturali di deposizione selezionavano spessi accumuli di sabbie ferrose (il bog iron, o «ferro di palude», sfruttato dagli abili fabbri scandinavi). Magico era anche il ferro puro che piombava dal cielo nel lucore dei meteoriti, giudicato particolarmente prezioso e trasformato in amuleti, ornamenti e piccoli strumenti per mezzo di faticose operazioni di martellatura. Ancora oggi, in italiano, parole derivate dal greco come «siderale» e «siderurgia» alludono all‘origine celeste del ferro (mentre il nome del principale solfuro di ferro, la pirite, ossia «pietra del fuoco», è dovuto alla credenza che la pietra bruciasse la mano di colui che la impugnava). I cercatori e i raffinatori del rame, a furia di cuocere solfuri misti di rame e ferro, come la
Nel segno del chiodo
P
artita da piccoli ornamenti e sviluppatasi negli ambiti degli armamenti e della loro esibizione simbolica, la rivoluzione del ferro avanzò con grande lentezza nella sfera della vita comune. Per secoli, infatti, la metallurgia rimase appannaggio delle classi piú elevate: in Italia si dovette attendere la maturazione dello Stato romano e l’unificazione politica della Penisola affinché il costo dei manufatti in ferro li ponesse alla portata della «classe media», dei settori agricoli e artigianali. Non è un caso che una delle direttrici di espansione piú intensamente perseguite da Roma sia stata quella di nord-est, che portò alla veloce fondazione di Aquileia, con deportazioni di massa dall’Italia centrale, già nel 181 a.C., e una seguente rapida espansione alla volta del Norico e della Pannonia. Qui, nel cuore dell’Europa, si trovavano quelli che
allora erano i piú importanti giacimenti di minerali ferrosi del continente. Il crollo dei costi del ferro fu reso possibile dall’accesso a queste miniere, dal miglioramento delle tecniche manifatturiere, dallo sviluppo e dalla manutenzione delle reti stradali e dalla generale sicurezza dei traffici. Chiunque abbia partecipato allo scavo di un abitato che abbia stratigrafie protostoriche coperte da livelli romani, sa che l’arrivo di Roma, piú che dalle ceramiche e dai mosaici, è segnalato dal rinvenimento, nei depositi, di umili chiodi arrugginiti. I Romani, infatti, furono grandi fabbricanti e utilizzatori di chiodi in ferro: prodotti in enormi quantità con tecniche semplici e ripetitive, essi agevolarono la carpenteria e, soprattutto, il lavoro nei grandi cantieri edilizi che, sulle ali degli interessi di Roma, iniziarono a fiorire in ogni angolo d’Italia.
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RAME E FERRO
calcopirite, accumularono una crescente consapevolezza della presenza del secondo metallo. Il ferro, in altre parole, era sotto gli occhi di tutti, e i giacimenti, molto piú diffusi di quelli del rame, non potevano obbedire alle tradizionali geografie politiche stabilite dalle aristocrazie dell’età del Bronzo. A differenza del rame, il ferro non fonde: o, meglio, fonde a temperature molto elevate, che richiedono combustibili efficaci, un perfetto controllo delle fornaci e la conoscenza delle leghe ferro-carbonio (conoscenze che in Europa maturarono solo dopo il Medioevo). Chi estraeva il rame, lo faceva portando le rocce oltre la soglia dei 1100°, temperatura alla quale il silicio che compone le rocce si scioglie in flussi vetrosi e lascia liberi i metalli. Le masserelle di ferro non fuso che, sotto forma di residui spugnosi, restavano nelle piccole fornaci usate per i minerali di rame potevano essere ulteriormente purificate portandole al calor bianco, e martellandole con forza sino a espellerne le impurità; con lo stesso principio, e mediante un continuo raffinamento nelle tecniche di forgiatura, il
Dalle zappe alle staffe
Q
uale rapporto vi può essere tra le glaciazioni pleistoceniche e l’emergere del feudalesimo europeo, e quale relazione può mai avere tutto questo con la tecnologia del ferro? Congelando enormi masse d’acqua nei ghiacci, le glaciazioni determinano, oltre il fronte dei ghiacciai, condizioni di forte aridità, nelle quali il vento prende in carico le parti piú fini dei suoli e le rideposita sotto forma di finissimo loess. Proprio questi banchi di loess sono usati dai geomorfologi per tentare di correlare, lungo l’intera estensione del continente euroasiatico, le fasi di avanzata e ritiro dei ghiacci. Ora, i suoli a loess coprono la vallata dello Huang Ho, o Fiume Giallo, la culla della civiltà cinese. Questi suoli sono notevolmente fertili, ma, a causa della finezza delle particelle che li compongono, sono pesanti, e richiedono di essere zappati e frantumati con intensità. Fu probabilmente per questo motivo che le società degli agricoltori cinesi scoprirono il principio della fusione del ferro molto prima degli Europei: nelle leghe ferro-carbonio, infatti, quando questo secondo elemento è presente in percentuali superiori al 4%, si produce la ghisa (in inglese pig iron), durissima, pesante e fragile. I Cinesi iniziarono a produrre zappe di ferro colato o ghisa già nel periodo detto degli Stati Combattenti (402-221 a.C.). In seguito, lungo le frontiere nord-occidentali del mondo cinese, la tecnologia della fusione del ferro venne fatta propria dalle popolazioni nomadiche che,
ferro, sempre piú puro, poteva essere sagomato nelle forme volute. Il ferro forniva oggetti dal margine tagliente, ma troppo morbidi ed elastici. Tuttavia, i fabbri notarono ben presto che le superfici delle masserelle che, per qualche motivo, erano rimaste piú a lungo a contatto con il carbone di legna, fornivano il ferro piú duro, e diedero cosí vita alla tecnologia dell’acciaio.
Segreti gelosamente custoditi
Rilievo in marmo raffigurante la bottega di un calderaio, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Da sinistra, le varie fasi della lavorazione: la pesatura del metallo su una grande bilancia sospesa; il metallo martellato sull’incudine; la rifinitura degli oggetti pronti.
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Se la materia prima era infinitamente meno costosa, e la raffinazione – cioè la separazione del metallo dal resto delle rocce – continuava a usare principi rudimentali, la forgiatura si fece complessa, e si ammantò di aloni magici e di segreti gelosamente custoditi; la sua comprensione richiese anni di apprendistato, che solo l’ereditarietà della professione del fabbro entro le famiglie poteva permettere. La tecnologia del ferro passò rapidamente dagli
nell’arco di pochi secoli, riversarono con esiti rovinosi sulle frontiere orientali dell’impero romano. Con la ghisa, i nomadi dell’Asia Centrale impararono presto a fondere le staffe delle selle: questo strumento era ignoto ai cavalieri romani, i quali avevano continuato a cavalcare sulle selle stringendosi alla schiena dei destrieri con la semplice forza delle gambe. Nei secoli successivi al crollo di Roma, le staffe in ghisa permisero di armare massicciamente i cavalieri e di concepire per la prima volta le cavalleria non piú come un corpo leggero e veloce, ma come un’«arma pesante», capace di operazioni di sfondamento, anticipando cosí la logica delle divisioni corazzate. Tutto questo enfatizzò l’importanza militare del cavallo: le aristocrazie, di conseguenza, dovettero premunirsi e assicurarsi fonti costanti e inesauribili di foraggio. La scelta fu quella di vincolare istituzionalmente le comunità agricole alle proprietà fondiarie, varando in tal modo il principio base del mondo feudale. Come in tutte le ricostruzioni rigidamente deterministiche, basate cioè su semplici rapporti di causa ed effetto tra diversi fattori, questa spiegazione contiene un fondo di verità e un po’ di forzatura.
ornamenti alle armi; molto piú lentamente, nei secoli successivi, dalle armi agli strumenti del lavoro e agli utensili della vita di ogni giorno. Alla periferia dei vecchi Stati, molte comunità svilupparono le proprie tecnologie metallurgiche, in totale autonomia dalle attitudini centralizzatrici dei palazzi e dei templi delle generazioni passate. Le mitologie e le implicazioni magiche del lavoro dei fabbri dotarono le stesse comunità di ulteriori motivi di orgoglio e di autoidentificazione. Il ferro costituiva una ricchezza metallica che, al contrario di quella del rame, era inutile accumulare e lasciare in eredità; poiché il ferro non poteva essere rifuso, essa non poteva essere fatta facilmente confluire da una classe di manufatti all’altra. L’opposizione non potrebbe essere piú chiara: laddove il rame forniva capitali accumulabili e permanenti, costantemente frazionabili e intercambiabili, il
Qui sopra staffe in rame dorato e smaltato, dall’Africa del Nord. XVII sec. Madrid, Instituto Valencia de don Juan. In alto disegno a inchiostro su carta raffigurante un cavaliere che attacca un drago, dall’Iran. 1595. Toronto, Aga Khan Museum.
ferro era fulcro di investimenti momentanei, di interessi strategici e contingenti. Il minor costo dei cicli produttivi allargò, col passare del tempo, il novero di chi si poteva armare; e si innescò, di conseguenza, la spirale della corsa al riarmo. La metallurgia del ferro necessitava di crescenti quantità di carbone di legna, e ciò portò gli Stati a intensificare il controllo sulle foreste di confine, il che richiedeva, fatalmente, piú soldati e piú armi. In un certo senso, il rame sta al ferro come le vecchie scritture ideografiche e sillabiche del III e Il millennio a.C. stanno agli alfabeti nati alle soglie del I millennio a.C. Nel corso di un’intervista rilasciata nel 1969, il sociologo Marshall McLuhan (1911-1980) affermò che le lettere degli alfabeti sviluppati dalle prime città-stato dell’età del Ferro corrispondevano, nel mito, ai denti del drago. Cadmo seminava i denti del drago nel terreno, e da essi scaturivano magicamente guerrieri coperti di metallo. Per McLuhan, le lettere dell’alfabeto, nella loro capacità di rendere chiunque capace di aggredire e descrivere la realtà, fissando le informazioni in modo permanente, erano uno dei fattori che avevano promosso il militarismo. Per noi, i denti del drago luccicano del colore bluastro del ferro, e non dei rossi bagliori del rame.
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Alla conquista della
dolcezza Le api e i preziosi prodotti dei loro alveari – una delle poche fonti di zuccheri in natura – furono sfruttati dai raccoglitori preistorici con tecniche e forme di collaborazione di complessità difficilmente immaginabile | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 38 |
I
n una scena del film Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (1991), la protagonista si avvicina scalza al fusto di un albero che ospita un enorme alveare, e, senza paura, immerge le mani nei favi, tra nuvole di insetti. «You are a beecharmer» («Sei un’incantatrice d’api»), le dice un’amica, vedendola emergere sorridente e radiosa, senza essere stata punta, con le mani stillanti gocce di miele illuminate dai raggi solari. Quella sequenza compendia, in forme minimaliste, la struttura dei miti di sempre, da quello del Labirinto di Minosse a quelli dei videogame affollati di mostri o ai libri di Stephen King: l’eroe affronta con coraggio un pericolo letale e, grazie alle sue virtú fisiche e spirituali, ne esce incolume e ricompensato. Un’immagine dalla quale possiamo partire per un breve viaggio che, passando per api, cera e miele, ci guida nella storia della dolcificazione nel mondo antico, ma anche tra le quinte di simbolismi a volte inquietanti.
Il fuoco facilita l’impresa
Nepal. Sospeso a 50 m dal suolo, attaccato a una scala di corda, un uomo dell’etnia dei Gurung raccoglie il miele, sventrando i nidi con l’aiuto di lunghi bambú. La tecnica replica sistemi in uso fin dalla preistoria.
Oggi sappiamo che l’uomo, prima ancora che cacciatore, fu un onnivoro e poco eroico consumatore di tutto quanto «passava il convento»: frutti, radici, tuberi, foglie. Fu anche un grande scarnificatore di carogne di animali morti per cause naturali. I dolci favi delle api selvatiche devono aver rappresentato per centinaia di migliaia di anni una tentazione irresistibile; non sapremo mai quanti incontri ed esperimenti, spesso molto spiacevoli, abbiano sostenuto i nostri antenati su questo peculiare sentiero del progresso. Poiché gli Ominidi, col tempo, si fecero sempre meno pelosi, possiamo immaginare che l’assalto ai favi sarebbe divenuto piú difficile e doloroso, se, circa mezzo milione di anni fa, l’Homo erectus non avesse imparato a dominare il fuoco. Fuoco, ramoscelli e fumo, infatti, si rivelarono certamente I’«arma finale» per la conquista del dolce bottino. Solo con il Mesolitico (12 000-10 000 anni fa circa) abbiamo prove certe della raccolta del miele. Nelle pitture rupestri di tale età, in
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MIELE
diverse parti del mondo, una delle attività illustrate con maggior passione è proprio la raccolta da nidi di api selvatiche. Chi erano i raccoglitori preistorici del miele? Il capostipite piú famoso, strano a dirsi, è Giovanni il Battista, descritto nei Vangeli come un selvaggio cacciatore-raccoglitore: vestito di pelli, si nutre di cavallette e miele selvatico. Ancora oggi, in Africa e in India, la raccolta è una importante attività specialistica stagionale. Le api nidificano in cavità e fessurazioni su pareti rocciose, spesso difficilmente accessibili, nei cavi degli alberi o in tane sotterranee. I cercatori di miele devono possedere una conoscenza perfetta del territorio, buone capacità di arrampicata e senso dell’equilibrio, e una accentuata resistenza alle punture. In Africa, l’individuazione dei favi viene facilitata dalla simbiosi dei raccoglitori con uccelli indicatori, che segnalano loro la presenza del miele ricevendone in cambio le larve estratte e scartate sul posto dalle celle di cera. In Nepal, dove i maestri cercatori di miele si calano da dirupi alti piú di 100 m, si usano
In questa pagina restituzione grafica di un’incisione rupestre che raffigura uno sciame di api e, forse, un alveare, identificabile con la sagoma di forma quadrata sulla sinistra, dal sito di Cullen’s Wood (Drakensberg, Sudafrica).
lunghissime funi e scale di corda, grandi canestri rivestiti internamente di pelli di capra, lunghe pertiche, strumenti fatti di bastoni e corda; la raccolta viene propiziata con preghiere, sacrifici e mantra (formule magiche). Sotto al dirupo attendono gli altri cercatori, pronti a raccogliere con pentole e vasi una fitta «pioggia di miele». In età preistorica, la raccolta del miele può avere richiesto uno strumentario che comprendeva anche pietre focaie o acciarini,
Quello di Tutankhamon era «di buona qualità»
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ell’antichità il miele era un alimento raro e costoso, riservato agli aristocratici e alle mense reali. Nel Vicino Oriente e nell’Asia Meridionale, almeno dal 5000 a.C. si usavano i datteri, dai quali si otteneva uno sciroppo denso e dolcissimo. Impianti di raffinazione databili agli inizi del Il millennio a.C sono stati trovati a Failaka (Kuwait) e Ras al Qala’a (Bahrein), nel golfo tra Iran e Penisola Arabica. Dalla frutta secca, fermentata e bolllita, si ricavavano composte e sciroppi fortemente zuccherini. Nell’antico Egitto, i ceti piú bassi si addolcivano il palato con fichi, carrube e derivati. Il miele, sacro al dio Min, era in larga misura riservato ai faraoni: esso figura in numerosi testi, in
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provvigioni e razioni destinate a templi e funzionari e liste di bottini di guerra. Lo si usava in medicina, nei cosmetici, nelle imbalsamazioni e nei rituali dei vivi e dei morti. Nella tomba di Tutankhamon sono state trovate giare sulle quali è scritto «Miele di buona qualità». L’ape era tanto importante da figurare anche nel titolo che accompagnò per millenni i faraoni: quello che di solito si legge «Re dell’Alto e del Basso Egitto» si traduce infatti, letteralmente, «Colui che possiede il lino e le api». Nell’Egitto ellenistico l’apicoltura divenne un’industria importante: nel Fayyum esistevano stabilimenti che comprendevano sino a 5000 arnie, di proprietà reale, privata o templare.
In basso Tebe, Egitto, tomba del funzionario Pabasa. Particolare di una pittura murale raffigurante una scena di apicoltura. XXVI dinastia, regno di Psammetico I, 664-610 a.C.
fascine portatili per affumicare le api, tessuti, pelli o stuoie per la parziale protezione del raccoglitore dalle punture, canestri o intrecci vegetali da usare come filtri, contenitori portatili impermeabili come zucche o borse per la custodia di favi e miele. Pur avendo carattere predatorio, la raccolta deve garantire la sopravvivenza degli alveari, lasciandovi una parte del miele; da questo punto di vista, si tratta di una tecnologia vicina a una domesticazione incipiente degli insetti.
In tal modo, chi diventava raccoglitore era portatore di una tecnologia elaborata, trovava un posto molto particolare nel suo ambiente sociale, e, allo stesso tempo, si impegnava in un’attività che poteva rivestire un notevole valore economico. Il miele poteva essere facilmente raccolto, suddiviso, scambiato con altri cibi e prodotti, e conservato a lungo. Forse a tutto ciò si accompagnava l’ingresso dei raccoglitori in un’aura magica e misteriosa. Agli occhi degli antichi, l’ape era dotata dei poteri che le consentono di estrarre una meravigliosa ricchezza dalle piante, dalla luce e dal volo, e di accumularla nei recessi della roccia e della terra; di creare belle geometrie nelle celle degli alveari; ma anche di causare punture dolorose, velenose. Non sorprende, quindi, che questa tecnologia sia stata ampiamente riprodotta dalle pitture nei pressi delle zone di raccolta, né che la sua illustrazione sia stata permeata da pervasive associazioni simboliche.
Gli «uomini-scimmia» Una delle piú belle pitture del Mesolitico indiano, nelle colline dell’India centrale, mostra un «raccoglitore di miele fortunato», che sembra recare sulle spalle un arco dal quale pendono 9 file di 5 o 6 favi di miele ciascuna, mentre una decima fila di favi piú grossi gli pende dietro la schiena. Intorno ai favi ronzano gli insetti. In altre pitture preistoriche indiane sono raffigurati grandi alberi dai cui rami pendono alveari circondati da api, dipinti in bianco e rosso, su cui si arrampicano creature descritte come «uomini-scimmia». Queste immagini sono state accostate a miti delle popolazioni tribali dell’India centrale nei quali le api svolgono importanti ruoli di ordinatrici del mondo, nelle vesti di mediatori in processi creativi di vasta portata: nella genesi di divinità e diverse creature, tra le quali l’uomo; nella genesi di istituzioni come la famiglia, il clan, e in senso lato della cultura e della vita sociale; e persino come creatrici della morte stessa, altro fondamentale elemento di ordine cosmico . L’apicoltura fu importantissima per gli antichi.
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MIELE
Oltre al miele e ai suoi usi dolciari, e all’impiego nella produzione di sostanze alcoliche (per fermentazione), dobbiamo ricordare l’utilizzo di miele e cera nell’imbalsamazione. La seconda si usava anche nella creazione di sfondi per scrivere e dipingere, nella fabbricazione di pigmenti, cosmetici, medicine, e nella metallurgia del bronzo (tecniche a cera persa). Le aree nelle quali l’apicoltura venne sviluppata con maggior successo furono l’altopiano anatolico e la fascia siro-palestinese: nell’area ittita, il miele è menzionato nei piú antichi testi hattici (2000 a.C. circa); nello stesso periodo, l’egiziano Sinhue parla del distretto di Yaa, in Palestina, e lo descrive come «ricco di miele». Proprio da Siria e Palestina gli invasori del Nilo ricavavano, durante le frequenti scorrerie, grandi carichi di miele.
Le vanterie di un governatore In Mesopotamia si venerava Lulal, «l’uomo del miele», identificato con il dio Latarak, adorato a Uruk e in seguito assimilato alla costellazione del Leone. Curiosamente, secondo le fonti scritte, l’apicoltura giunse molto tardi in Mesopotamia: la prima attestazione certa di api domestiche risale all’VIII secolo a.C., quando un certo Shamanash-Resh-Usur «governatore di Mari e Suki» per conto del sovrano assiro, si vanta di essere stato il primo ad avere introdotto – importandole dai monti del Tauro – api e arnie, e di padroneggiare una tecnica per la separazione di miele e cera tramite bollitura (tali informazioni non vanno tuttavia prese troppo sul serio: è facile immaginare che la gente sapesse benissimo come trattare api e miele da secoli, e che la vanteria del politico assiro avesse altre finalità). Nell’Africa settentrionale e nel mondo indiano l’apicoltura fu probabilmente l’esito
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In alto pendente in oro in forma di due api accostate, dalla necropoli reale di Mallia, Creta. XVII-XV sec. a.C. lraklion, Museo Archeologico. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una scena di apicoltura, da un’edizione della Cynegetica di Oppiano di Apamea. XI sec. Venezia, Biblioteca Marciana. In basso dritto di un tetradramma greco in argento con la raffigurazione di un’ape. IV sec. a.C. Londra, British Museum.
naturale della raccolta del miele selvatico, praticata da tempo immemorabile. E la Cina? Il fatto che la parola cinese per miele, mi, somigli all’ittita milit e al vocabolo protoindoeuropeo medhu è stato addotto a prova dell’ipotesi secondo la quale i Cinesi importarono l’apicoltura da altre parti del mondo, ma, anche in questo caso, è davvero difficile crederlo. I Greci attribuivano l’apicoltura a Solone, che l’avrebbe «copiata» dagli Egiziani, per diffonderla in patria. La tecnologia del miele era certamente nota in età omerica, ed Esiodo parla di arnie. In età classica, si consumavano regolarmente i mulloi, dolci fatti di olio di sesamo, olio di lino e miele, che gli Spartani disprezzavano in quanto cibo da schiavi. Un altro cibo popolare era fatto con miele giallo e dolce, formaggio di capra e farine. Il miele costituiva un cibo ideale per atleti e bambini, secondo il motto «miele dentro, olio fuori». Il miele attico era considerato uno dei migliori: le api attiche venivano regolarmente importate in Magna Grecia. Altre produzioni di qualità si effettuavano a Salamina, Leros, Calymna, in Licia e in Caria. Gli Etruschi, invece, importavano il miele dalla Corsica, ma il prodotto aveva la nomea di essere a volte velenoso. Ugualmente velenoso, secondo le fonti, era il miele del Ponto; Strabone racconta del suo uso come «arma chimica». I Mossynoeci ne lasciarono grandi scorte all’armata di Pompeo. I soldati si ingozzarono, e, colti da malore, furono attaccati e sgominati. Vi è, al proposito, una base di realtà: nella regione abbondano fioriture che possono risultare velenose, e le api sono in grado di trasmettere il veleno al miele. A Roma, le prime pasticcerie furono aperte con scandalo dei soliti benpensanti agli inizi del Il secolo a.C. Il miele venne usato nelle conserve, per fare marmellate di frutta,
Come un nugolo di guerrieri
O
ltre alle api, Greci e Romani tennero nella dovuta considerazione anche le vespe e i calabroni, che godevano di una fama ben peggiore ed erano considerati sinonimi di temperamento irritabile, aggressivo e imprevedibile. I Greci parlavano della sphex e dell’anthrene (ma anche di simili insetti pericolosi chiamati tenthredon, seiren, bombylios, bombyx), i Romani della vespa e del crabro. Spesso si faceva una gran confusione. L’Iliade paragona le vespe a un nugolo di guerrieri che si gettano improvvisamente all’attacco.
Le leggende raccontavano delle vespe di Nasso (la piĂş grande delle Isole Cicladi), che, nutrendosi di carne di vipera, maturavano pungiglioni mortali, e potevano mettere in fuga intere popolazioni. Gli scrittori classici li consideravano animali infestanti che si cibavano delle api domestiche e della frutta: per catturare le vespe, si dovevano appendere davanti ai favi trappole armate con pesci come esca, ed essere pronti a cospargerle di olio, magari proteggendosi con amuleti (come il becco di un picchio o parte del corpo di una civetta).
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MIELE
con semi di lino e papaveri arrostiti, e trovò ben presto un impiego crescente nell’industria dei liquori e in gastronomie sempre piú elaborate. L’esclamazione «Possa il miele colarti addosso!» divenne un’espressione di buon augurio. La diffusione delle candele nel culto cristiano, in età tarda, fu un ulteriore grande stimolo allo sviluppo dell’apicoltura. Ma come facevano le api a produrre «dal nulla» un bene tanto dolce e prezioso? Gli scrittori greci (che raccoglievano millenni di speculazioni in merito) ci hanno lasciato teorie contrastanti. Per alcuni, la dolce sostanza era essudata dalle foglie di alberi come le querce; altri pensavano che le api la raccogliessero dai fiori; altri ancora invece pensavano che fosse il precipitato di un «miele aereo» (aerameli), diffuso naturalmente nell’aria e concentrato sulle foglie delle querce e dei tigli. Aristotele parlò della cosa in termini piú poetici, sostenendo che il miele si formava dall’aria, sotto l’effetto del sorgere delle costellazioni e dell’arcobaleno. Altrettanto misteriosa e confusa era la generazione delle api. Nessuno riusciva a decifrare lo strano gioco di ruoli che esisteva nelle loro società, per quanto evidentemente stratificate. È rimasta celebre, al proposito, la grande confusione che fece Aristotele, grande teorico e classificatore del reale, ma privo di una cultura scientifica basata sull’osservazione empirica: nella Generazione degli animali, infatti, egli asserisce che le api comuni non possono essere femmine, perché a questo mondo mai se ne sono viste di armate (in questo caso, di pungiglione). Per lo stesso motivo i miti fuchi, privi di pungiglione, non potevano essere maschi. D’altra parte, le api operaie che si prendevano cura dei piccoli non svolgevano certo funzioni maschili: di conseguenza, le operaie dovevano essere ermafroditi che si riproducevano per partenogenesi. E poiché, prosegue Aristotele, con le sue analogie di vasto respiro, a questo mondo non sta bene che vi siano società dominate dal sesso femminile, ogni arnia doveva essere dominata da un re, e non da una
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regina... Si deve comunque riconoscere che il filosofo non accettò la diceria forse piú diffusa nella sua terra. Nell’antica Grecia, per i piú le api erano bougenneis, ossia «nate dai buoi».
La «ricetta» di Virgilio Lo stesso pensavano gli antichi Romani. Varrone, ma anche Virgilio e Ovidio non avevano dubbi sul fatto che le api nascessero dalle carogne dei bovini putrefatti (Ovidio racconta anche che i calabroni nascevano da cavalli da guerra sepolti sotto terra). Virgilio amava le api di sincera passione: «Quando il sole dorato ha allontanato l’inverno sotto la terra, e aperto il cielo alla luce estiva, veloci le api iniziano a volare per selve e boschi, succhiando fiori purpurei, e scendono a bere sfiorando il pelo dell’acqua (...) curano con lieto amore i figli e i nidi, e con arte plasmano cera fresca, e creano solido miele» (Georgiche, Libro IV). Ma, nella stessa opera, il poeta forní anche una macabra «ricetta» per fabbricare gli sciami: «Scegliete uno spazio ristretto, circondato da pareti e coperto da un tetto; sulle
Miniatura raffigurante una donna che accudisce due arnie e viene attaccata dalle api, mentre sopraggiunge un orso, attirato dall’odore del miele, dall’Erbario Estense, un codice basato sull’opera di Pedanio Dioscoride e sugli scritti della Scuola Medica Salernitana. XV sec. Modena, Biblioteca Estense.
pareti si apriranno quattro finestre che ricevono luce obliqua dai punti cardinali (...) Vi si porti un torello dalle corna appena incurvate, e lo si uccida facendolo soffocare e battendolo, senza però strappargli la pelle. Lo si lasci morto e rinchiuso, adagiato su un letto di rami di timo e di santoreggia (...) la carne, riscaldata fino alle ossa, fermenterà, e si vedrà allora un nugolo di creaturine dapprima senza zampe, poi con le ali, alzarsi in volo con un forte ronzio». Questa nozione era contenuta nel mito di Aristeo, figlio della ninfa Cirene, il primo che avrebbe appreso l’arte di creare e allevare le api. Si pensa che la leggenda sia maturata in ambiente greco, ma nella Bibbia (nella storia di Salomone) compare una carcassa di leone contenente uno sciame d’api e grondante miele. La storia deve avere radici ben piú antiche e fondarsi su ancestrali credenze sul ruolo della decomposizione delle carni nel generare nuova vita e nei riti tesi a rinnovare il potere della fertilità. Nei sacelli neolitici di Çatal Höyük (7000-6000 a.C.), portati in luce dall’archeologo James Mellaart, vi sono immagini femminili di intonaco plasmate ad altorilievo nelle quali erano innestati parti di crani di avvoltoio e di volpi, creature selvagge che proprio dalle carogne traevano nutrimento. Nello stesso abitato vi sono pitture che mostrano crani dalle orbite vuote, e altre dove enormi avvoltoi scendono a cibarsi di corpi decapitati. Siamo di fronte alle radici degli stessi concetti? In alto, a destra miniatura raffigurante una scena campestre, da un’edizione delle Georgiche di Virgilio trascritta e poi illustrata a Bruges. XV sec. Holkham Hall, Lord Leicester Library. In alto si riconoscono alcune arnie e si vede uno sciame di api svolazzanti.
Nel piú nero degli alveari Nel mito greco di Aristeo, questo personaggio, il primo apicultore, ha un ruolo chiave nel mito di Orfeo: è lui, infatti, che cercando di violentare Euridice la mette in fuga, verso la serpe velenosa che la uccide. Dal serpente, simbolo di immortalità, nasce cosí la morte. Orfeo, l’eroe capace di addolcire e ammansire con la sua musica anche la belva piú feroce, ci ricorda la prodigiosa capacità delle api di produrre il miele. Per cercare la sposa perduta, l’eroe-ape dovrà penetrare nel piú nero degli alveari, spandere la sua dolcezza al cospetto delle divinità degli Inferi, e riprendere la via
della luce. Solo una umana debolezza, il desiderio di guardare Euridice, gli farà perdere per sempre la sposa. La via della resurrezione, in questa lettura, è la musica, intesa come miele della vita. Secondo Erodoto, i Babilonesi seppellivano i loro morti nel miele; le fonti storiche tramandano che simili sepolture ebbero alcuni re di Sparta e lo stesso Alessandro Magno. Secondo una tradizione birmana, i bambini morti sono tenuti un anno nel miele, prima di raggiungere la pira della cremazione. Risorgere nel miele: la stessa idea affiora nel mito cretese di Glauco, figlio di Minosse, che precipitò in una giara di miele per poi resuscitare, e nelle mitologie orfiche, secondo le quali i morti «cadevano nel miele». Alcuni studiosi, sulla base di simili suggestioni, hanno interpretato la forma delle tombe a tholos micenee come «arnie dei morti». Siamo forse alle soglie di miti di profondità incommensurabile. L’idea della morte si lega a quella della rinascita nella dolce essenza di una Grande Madre primordiale. Cosí, nel pantheon ittita, alla dea Hannahannas è sacra l’ape; la Grande Madre Cibele era venerata da apposite sacerdotesse chiamate melissai (api); i Greci continuarono a venerare divinità come Demetra Melaina (del miele) e Artemide Britomartis (la fanciulla del miele).
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Il pallido volto del
potere
Misteriose e antichissime statue scoperte in alcuni siti leggendari del Vicino Oriente rivelano l’importanza e il valore simbolico assegnato dalle comunità del Neolitico a un materiale ai nostri occhi «banale»: l’intonaco | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 46 |
C
A sinistra Gerico (Tell es-Sultan), Trincea I. Una torre circolare in pietra databile al Neolitico Aceramico A, 8500-7500 a.C. In alto statua in terracotta rinvenuta a Gerico da John Garstang, negli anni Trenta del Novecento. Neolitico Ceramico, 6000-4300 a.C.
i circonda nelle nostre case, di notte e di giorno, ma lo guardiamo senza notarlo, come se fosse invisibile; nelle strade e nelle piazze, dalle facciate di palazzi vecchi e nuovi, rende luminosi e regolari gli scorci dei panorami urbani, e, da sempre, protegge l’architettura dal degrado. Stiamo parlando dell’intonaco, un protagonista misconosciuto della nostra tecnologia che, strano a dirsi, rivestí (è proprio il caso di dirlo) un ruolo essenziale, come hanno da poco scoperto gli archeologi, nello sviluppo delle società stratificate del Vicino Oriente antico. Ma per capire la sua importanza, dobbiamo compiere una diversione geografica e passare prima per un momento nelle sconfinate distese dell’Asia Centrale. Da quando è crollata l’Unione Sovietica, gli archeologi occidentali hanno avuto la possibilità di visitare i territori ora costituitisi negli Stati indipendenti del Turkmenistan, dell’Uzbekistan, del Khazakistan e del Kirghizistan. È stato cosí possibile «toccare con mano» idee e pratiche dell’archeologia di Stato dell’ex URSS. Alcuni aspetti sono e saranno sempre ammirevoli: il grande intuito scientifico, le capacità lavorative in condizioni logistiche di estrema difficoltà, la costante attenzione per gli aspetti materiali e l’articolazione sociale della vita degli antichi. Ingenua, invece, appare la fede incrollabile in concezioni storiche letteralmente desunte dagli scritti storici di Friedrich Engels e Karl Marx, senza dubbio grandi antropologi e storici dell’economia, ma fermi agli scarsissimi dati disponibili intorno alla metà del XIX secolo. Tra queste interpretazioni, vi è l’idea pervicace che la società divisa in classi fosse emersa solamente agli albori della Media età del Bronzo (intorno al 2500 a.C.). Prima, e in particolare nel Neolitico, gli studiosi sovietici collocavano un insieme di società tribali egualitarie, non stratificate, che vivevano in una idilliaca e invidiabile condizione di «comunismo primitivo». Per i sostenitori di questa teoria, solo la
metallurgia, avrebbe permesso alle élite di accumulare crescenti ricchezze e innescare la differenziazione delle classi sociali. Vi sono invece studiosi secondo i quali lo sviluppo delle società gerarchizzate è una diretta conseguenza della crescita demografica, che richiederebbe di per sé lo sviluppo di forme di coordinamento politico.
La prima stratificazione sociale Poiché è accertato che la popolazione aumentò esponenzialmente con l’adozione dell’agricoltura, questi archeologi ricercano piuttosto nella «rivoluzione neolitica» (definizione ormai storica, coniata negli anni Venti dal paletnologo di origine australiana Vere Gordon Childe [1892-1957], n.d.r.) l’inizio della differenziazione e stratificazione sociale. La nostra accettazione di un mondo nel quale il lusso e molti vantaggi sono riservati a pochi privilegiati risale a 10 000 o a 5000 anni fa? Insomma, chi ha ragione? Il toponimo di Tell es-Sultan non vi dirà molto, ma cosí viene chiamata, in lingua araba, la collina di Gerico, poco a nord del Mar Morto,
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INTONACO
oggi nel territorio della Giordania. Gerico, che sorge a ridosso della stessa Rift Valley o frattura planetaria che in Africa Orientale espone i resti dei nostri antenati di milioni di anni fa, è un sito archeologico dai molti paradossi. Nella Bibbia, la città è ricordata per la celebre battaglia che, in un momento che storici e archeologi collocano alla fine dell’età del Bronzo, Giosuè vinse a suon di trombe, sbriciolandone le mura con un consistente aiuto divino; ma di queste difese non vi sono resti materiali. Grazie agli scavi condotti tra il 1952 e il 1958 dall’archeologa inglese Kathleen Kenyon (1906-1978), sappiamo invece che Gerico era stata parzialmente fortificata già nell’VIII millennio a.C.; questo, agli occhi di molti, la qualifica come «la piú antica città del mondo». Sembra certo che l’insediamento, tra il 10 000 e il 6000 a.C., fosse giunto a ospitare una popolazione di alcune migliaia di abitanti. Ma che cosa avevano di tanto prezioso i cacciatori di gazzelle, i raccoglitori di cereali selvatici e i primi tenaci agricoltori e allevatori della città, da richiedere lo sforzo della costruzione di grandi mura e torrioni difensivi? Nessuno ha saputo fornire una risposta convincente. Nel territorio della città, infatti, oltre a sale, bitume, rocce calcaree e infinite distese di fango e argilla c’era ben poco. Rocce, fango e argilla, appunto. Si dice che le popolazioni Inuit (gli Eschimesi) usino centinaia di parole diverse per indicare le varietà di neve e ghiaccio che tanta parte hanno nel loro mondo. Forse gli antichi abitanti neolitici di Gerico erano diventati altrettanto esperti delle rocce calcaree, e delle mille sfumature di colore e consistenza delle sabbie e delle argille, materiali con i quali realizzavano malte, mattoni e case, pozzetti usati per immagazzinare il cibo, recinti per gli animali e pigmenti.
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Una delle statue in intonaco di calce rinvenute ad ‘Ain Ghazal (Giordania) nel 1983. VII mill. a.C. Amman, Archaeological Museum.
Nel 1935, sul pavimento di una casa di un livello numerato come Xl, l’archeologo John Garstang rinvenne i resti di una statua a forma umana alta circa 1 m. La testa era la parte meglio conservata: era singolarmente piatta, ma misurava 22 x 15 cm, dimensioni prossime al vero. In un ambiente vicino furono trovate altre statue simili, troppo danneggiate per recuperarle (almeno con i mezzi di allora).
Un sorriso appena accennato Nessuno aveva mai ipotizzato l’esistenza di una statuaria monumentale in un periodo tanto antico. La modellazione della figura era stilisticamente disuguale: tratti del volto, accuratamente modellati in un accenno di sorriso con materiale finissimo, erano accentuati e vivificati da una serie di raggi bruni. Il volto era stranamente piatto, quasi concavo; la testa terminava in una strana appendice ristretta che – si ipotizzò – era stata forse destinata a ospitare un turbante, una parrucca o un’altra componente deperibile. Il corpo, in contrasto, benché sbriciolato, terminava in un paio di sgradevoli gambe larghe e tozze, innaturali. La cattiva conservazione della statua (oggi all’lsrael Museum di Gerusalemme), ne favorí la fortuna: la bella testa venne esibita e pubblicata, con orgoglio, per decenni; le gambe deformi, almeno per il momento, dimenticate. La scultura di Gerico, come si scoprí in seguito, era un intonaco a base di calce. I successivi decenni mostrarono che, nel corso del VII millennio a.C., le comunità neolitiche della regione siropalestinese e della parte sud-orientale dell’altopiano anatolico avevano inventato questo tipo di intonaco per fabbricare, oltre a statue enigmatiche come quelle di Gerico, statuette, piccoli amuleti, perline, palline e altri piccoli simboli geometrici usati come gettoni da conto, e vasi. L’intonaco era anche il materiale usato per
Gerico venne parzialmente fortificata già nell’VIII millennio a.C.: per questo è da molti considerata la città «piú antica del mondo»
la rimodellazione dei crani umani, uno dei piú misteriosi rituali delle prime società agricole del Vicino Oriente. L’invenzione di vasi di intonaco bianco (che gli archeologi chiamano col nome inglese di white wares) sembra quasi contemporanea allo sviluppo allargato della produzione di vasi in terracotta: e tra le forme delle «ceramiche bianche» si trovano le piú antiche coppe a piede rialzato sinora note, vasi
Veduta dell’oasi di Gerico, nella valle del Giordano, a nord del Mar Morto, ricordata nella Bibbia per la celebre e omonima battaglia. La città era già fortificata nell’VIII mill. a.C.
certo legati a particolari forme di esibizione del rango dei proprietari. Per comprendere appieno le implicazioni sociali della tecnologia degli intonaci è necessario osservarne in dettaglio i processi tecnici. L’intonaco è un materiale da costruzione applicato in stato plastico, che si indurisce con l’essiccazione. Gli abitanti neolitici del Vicino Oriente conoscevano tre tipi fondamentali di
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INTONACO
Rituali misteriosi
L’
uso forse piú misterioso dell’intonaco nell’area siro-palestinese riguardò complessi rituali di manipolazione, pulitura e rimodellazione dei crani umani, che ebbero inizio tra il 10 000 e l’8000 a.C., presso le comunità dette natufiane. A Gerico, in strati databili all’VIII millennio a.C., furono trovati gruppi di crani disposti in cerchio, messi a guardare verso il centro, altri gruppi che guardavano nella stessa direzione, e crani di bambini. Il rito spiega la frequente scoperta di scheletri privi della testa. I crani erano stati estratti dalle sepolture, a quanto pare, poco dopo il seppellimento (gli spostamenti subiti dallo scheletro durante l’operazione denunciano
la presenza di tessuti non ancora decomposti). Spesso la mandibola rimaneva accanto allo scheletro; se invece seguiva il cranio, se ne estraevano i denti. Le cavità craniche erano riempite, e sul volto si ricreavano le fattezze dei viventi, scegliendo l’intonaco piú fine e piú plastico, e mescolandolo abilmente con ocra fine per infondere nel pallore delle carni artificiali il soffio della vita; gli occhi ricevevano il bianco delle conchiglie; in qualche caso, vi si tracciavano col bitume i disegni di acconciature sontuose. I volti e le calotte potevano essere dipinte a
intonaco: a fango, a base di gesso e a base di calce. Buoni intonaci a fango potevano essere facilmente ottenuti mescolando argille e marne (depositi argillosi fortemente calcarei). Gli intonaci gessosi si ottenevano facendo decomporre col fuoco rocce di tipo alabastrino (contenenti gesso, o solfato di calcio). La cottura di questi gessi richiede temperature piuttosto ridotte (da 150 a 400 °C, a seconda della durata dei cicli di cottura), facilmente ottenibili sotto cataste di legna o cumuli di altro combustibile. Il materiale decomposto veniva poi semplicemente mescolato con acqua, e si poteva utilizzare già dopo 1 o 2 giorni di riposo.
Una tecnologia laboriosa In contrasto, la tecnologia degli intonaci a base di calce era molto laboriosa e, in assoluto, ben piú costosa. In primo luogo, bisognava estrarre notevoli quantità di solida roccia calcarea, romperla in piccoli pezzi, liberarla dalle impurità e trasportarla in prossimità delle fonti di combustibile, necessario in grandi quantità.
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Sul fiume d’asfalto
A
gli inizi degli anni Ottanta, importanti scoperte ebbero luogo nella grotta di Nahal Hemar («Il fiume d’asfalto»), non lontano dalle sponde meridionali del Mar Morto. Gli archeologi scoprirono che la cavità, 8000 anni fa, era stata usata come magazzino per riporvi importanti oggetti di culto da un gruppo neolitico esperto negli stessi misteriosi rituali di Gerico e Tell Ramad. La grotta, infatti, conteneva, ben conservati dall’aridità del clima, alcuni crani umani con il volto rimodellato mediante intonaco, una o piú statue di intonaco in dimensioni di poco inferiori al vero – simili a quelle di Gerico e ‘Ain Ghazal –, figurine in osso cosparse di bitume, maschere in pietra calcarea dai tratti scheletrici e con i margini perforati cosí da potervi fissare fasci di fibre vegetali, ciocche di capelli o peli animali. Una delle maschere era decorata con serie di linee simili a quelle tracciate sulla testa della statua di Gerico. Ma il reperto piú eccezionale di Nahal Hemar è una cuffia in fibre di lino annodate e lavorate probabilmente «a uncinetto», decorata in origine con conchiglie marine.
suggerire baffi o capelli. A volte il tutto era modellato su piattelli intrecciati a spirale, a mostrare come le teste cosi ricreate fossero rese mobili, per essere maneggiate ed esibite nel corso di rituali sconosciuti. Nel sito di Tell Ramad, i crani rimodellati erano rimontati su statuette umane acefale alte circa 25 cm. I depositi di crani si trovavano sotto i pavimenti delle case, sotto i focolari, o in spazi aperti che forse fungevano da cortili. A Mureybet, erano stati allineati alla base di un muro, e ciascuno posava su una base di argilla rossastra. Nel sito di Abu Hureyra, sull’Eufrate, vennero in luce tombe nelle quali lo scheletro e il cranio non appartenevano agli stessi individui.
La roccia veniva cotta a circa 800 °C, una temperatura ottenibile a fatica sotto cataste di legna: probabilmente si usavano fornaci apposite, dotate di condotti per l’immissione di aria forzata. A 800 °C, il calcare si decompone, trasformandosi in calce viva, e deve poi essere immerso nell’acqua per formare la calce spenta. In quest’ultimo stadio, la calce è fluida, e va lasciata riposare a lungo prima di tornare a essere lavorabile; nel frattempo rimane caustica e difficile da maneggiare. Alla fine, si devono aggiungere sabbia, ghiaino e altro materiale inerte cosí da ridurre la porosità e la tenuta dell’insieme. La calce, per essere stesa e plasmata, richiede inoltre notevole perizia. I garzoni dei pittori del Medioevo e del Rinascimento europeo, per esempio, erano abilissimi nel lisciare per ore e ore gli sfondi degli affreschi, in modo da segregare in superficie le particelle di calce piú fini, come in uno strato separato, lasciando all’interno della superficie pittorica le particelle piú grossolane e le porosità.
In alto uno dei crani neolitici rinvenuti in Giordania, ricoperti di intonaco bianco e ritoccati con bitume; gli occhi sono fatti di avorio. VII mill. a.C. Amman, Archaeological Museum. Nella pagina accanto due statue unite insieme facenti parte del gruppo trovato ad ‘Ain Ghazal, Giordania. VII mill. a.C. Amman, Archaeological Museum.
In conclusione, la produzione degli intonaci a calce richiedeva grandi quantità di lavoro collettivo per l’estrazione della roccia, la costruzione di fornaci, il taglio di grandi quantità di legname, l’opera di abili modellatori, pittori e lisciatori, e quella del coordinamento del lavoro nel suo complesso.
Pavimenti esclusivi Nelle fornaci del XIX secolo, per produrre una tonnellata di calce viva erano necessarie quasi 2 tonnellate di calcare e 2 di legna. Nel Neolitico, potendo disporre di fornaci certo meno efficienti, il materiale richiesto era sicuramente maggiore. Una tonnellata di calce poteva bastare a rivestire 1 o 2 ambienti. In questa luce, è possibile visualizzare meglio lo sforzo economico necessario a pavimentare di intonaco le case delle élite. Osservando la distribuzione dei reperti neolitici vicino-orientali fatti con intonaci, gli studiosi si sono accorti che le regioni siro-palestinesi, a nord-ovest della Mesopotamia, propendevano
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INTONACO
Questioni di status
N
el Neolitico del Vicino Oriente antico, lo stesso intonaco a calce era stato usato copiosamente nella decorazione architettonica, per coprire le tombe e i pavimenti delle case dei privilegiati, e i pavimenti forse dei piú antichi edifici di culto del mondo, con superfici piane e scintillanti. La cura riposta nella realizzazione dei pavimenti, nel VII millennio a.C., fu spesso sorprendente: solo poche abitazioni avevano pavimenti e muri interamente rivestiti di strati di intonaco accuratamente lisciato, e spesso colorati in rosso, arancio, bruno o rosa; le decorazioni parietali (con semplici motivi geometrici) sono invece rare. I pavimenti di intonaco posavano su substrati di ghiaia. Vi sono anche pavimenti fatti di mosaici di ciottoli color salmone, messi in opera con malte rosse e delimitati da fasce di ciottoli di marmo bianco: il tutto poi accuratamente spianato e lisciato. Non è strano, se ci pensiamo, che una delle piú antiche forme di esibizione del lusso abbia investito i pavimenti e i rivestimenti interni delle case. In società ancora dominate dalle ideologie solidaristiche degli antichi clan nel regolare la vita sociale, le differenze di rango di ricchezza dovevano maturare proprio all’interno dei clan medesimi, e i primi segni di differenziazione furono di conseguenza «attivati» negli spazi interni delle abitazioni, e non negli spazi pubblici.
per gli impasti a base di calce; mentre le regioni nord-orientali della Mesopotamia e le alture degli Zagros, in Iran, svilupparono le tecnologie piú semplici degli intonaci gessosi.
Dallo scavo al restauro ‘Ain Ghazal, alla periferia nord di Amman, in Giordania, è uno delle migliaia di piccoli monticoli o tell che costellano le pianure settentrionali della Mesopotamia. Nel 1983, quando la collinetta fu aggredita dalle lame e dai cingoli dei bulldozer di un cantiere, venne improvvisamente in luce un deposito formato da un gruppo di statue in intonaco di calce evidentemente molto simili a quelle trovate a Gerico nel 1935, e anch’esse databili al VII millennio a.C. Il gruppo fu sollevato, con la
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A sinistra statua da ‘Ain Ghazal, stante e frontale, in intonaco di calce. VII mill. a.C. Amman, Archaeological Museum. A destra er-Rahib (Giordania settentrionale). Resti di una capanna neolitica in corso di scavo: in alto, una veduta generale della struttura e, in basso, un particolare del pavimento in intonaco. 8500-8000 anni fa.
terra circostante, e portato nei laboratori di restauro del British Museum di Londra. Nel 1985 la fortunata scoperta si ripeté: gli archeologi impegnati nel recupero trovarono un secondo gruppo di grandi statue, che prese, questa volta, la via dei laboratori di restauro della Smithsonian lnstitution di Washington negli USA. Accuratamente scavate, consolidate e ricomposte grazie ad anni di lavoro in laboratorio, le statue di ‘Ain Ghazal rappresentano oggi uno dei piú straordinari «casi» nell’archeologia del Neolitico. La scoperta dimostrò che le scoperte di Gerico non erano bizzarrie casuali, bensí la testimonianza archeologica di pratiche e rituali diffusi presso tutte le comunità agricole dell’epoca. Le statue (in totale piú di 20) erano
state accuratamente deposte, allineate sui fianchi, entro fosse ovali, poi sigillate. Evidentemente le immagini, sebbene non piú utili, erano state messe da parte con un atteggiamento di forte rispetto. Spesso raggiungono il metro di altezza; rappresentano figure frontali asessuate, dai volti delicatamente modellati, con gli stessi tratti impersonali e il medesimo lieve, perenne sorriso. Gli occhi sono tracciati con sottili applicazioni di nero bitume. Le teste mostrano lo stesso enigmatico restringimento superiore già visto a Gerico. Le figure di ‘Ain Ghazal, come quella di Gerico, erano state modellate con estrema perizia, costruendo sostegni di canne palustri, avvolgendovi intorno uno strato di corde saldamente arrotolate, e rivestendo gradualmente il tutto con «cercini» o strisce di intonaco. Le analisi indicano l’uso di intonaco fine e puro all’esterno, e di un materiale lievemente diverso, contenente parti di argilla e inclusi piú grossolani all’interno. Le statue sono di due tipi. Vi sono figure stanti, frontali, nelle quali il volto delicato sorge da un torace squadrato; le braccia, accennate in modo rudimentale, scendono sui fianchi e si chiudono ad angolo retto verso il ventre; le gambe sono larghe e tozze, con le ginocchia accennate da lievi pieghe carnose e terminano in piedi corti, dove le dita sono frettolosamente segnate da tagli paralleli. Quelle del secondo tipo sono semplici busti squadrati, a una o a due teste (forse «gemelli»?), i cui tratti corporei sono accennati in modo ancor piú elementare. Molti hanno pensato che il corpo fosse stato lasciato «informe» perché doveva essere stato ricoperto da stoffe. Ma torniamo alla domanda iniziale: hanno ragione quanti vedono nel Neolitico una fase egualitaria, o chi, al contrario, vi cerca i segni delle
Ancora una statua di ‘Ain Ghazal, stante e frontale, modellata con intonaco di calce. VII mill. a.C. Amman, Archaeological Museum.
prime forme di stratificazione sociale? L’invenzione, circa 9000 anni fa, delle ceramiche bianche e la comparsa di ambienti interni lussuosi riservati a pochi privilegiati suggerisce la correttezza della seconda ipotesi. Certo Gerico non si arricchí con i suoi intonaci, ma tutto indica che le forme di economia praticate dal centro ebbero notevole successo e permisero di accumulare grandi quantità di eccedenze alimentari e altre ricchezze; beni usati anche per sostenere i costruttori di mura e torrioni, come l’opera dei pazienti e ingegnosi artigiani della calce.
Un enigma irrisolto Il significato del «culto dei crani» e dei rituali che prevedevano la costruzione, la vestizione e l’esibizione delle statue antropomorfe – usi anch’essi incentrati sulla tecnologia degli intonaci a calce – rimangono tuttavia misteriosi. Alcuni pensano che la rivisitazione delle tombe, la resurrezione dei crani, e la creazione delle statue facciano parte di riti nei quali diversi gruppi sociali facevano rivivere i propri antenati. La piattezza delle teste potrebbe essere stata simbolicamente opposta alla pienezza dei crani. Forse, mediante questi riti, si acclamava lo status sacro dei morti, affermando cosí il proprio diritto all’uso preferenziale di territori che i clan reclamavano come propri, contro antiche forme di proprietà tribale collettiva. Dalle statue di ‘Ain Ghazal agli orologi e alle automobili di lusso di oggi la strada sarebbe dunque la stessa: la ricchezza di pochi stimola lo sviluppo di tecnologie «inutilmente» elaborate, al solo scopo di marcare, ingegnosamente e indelebilmente, le distanze sociali. ALLA CONQUISTA DEL MONDO
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Giochi di perle di
pietra
La scheggiatura della selce, sperimentata dagli uomini della preistoria, segna il primo passo nel fondamentale e mai interrotto «rapporto di lavoro» con una materia prima fra le piú comuni e facilmente reperibili. «Sassi» che, tagliati e perforati, potevano trasformarsi in monili scintillanti | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 54 |
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Gemme di diversa natura, rinvenute in un ambiente della residenza imperiale degli Horti Lamiani a Roma, che impreziosivano un manufatto decorativo in lamine sbalzate. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. Vi sono ametiste, lapislazzuli, cristalli di rocca, agate, zaffiri, quarzi che provenivano dall’Estremo Oriente.
iamo nel tempo che chiamiamo Paleolitico Superiore, in un luogo oggi chiamato Étiolles, situato in un lembo dell’Europa occidentale che 18 000 anni piú tardi sarebbe appartenuto alla Francia (il sito si trova oggi 27 km a sud-est di Parigi). Si tratta di una vasta stazione di lavorazione della selce, dove, insieme alle loro famiglie, alcuni cacciatori di cavalli, cervi e renne maddaleniani (il Maddaleniano è una cultura del Paleolitico Superiore, attestata fra il 18 000 e il 12 000 a.C., che prende nome dal sito francese de La Madeleine, in Dordogna, n.d.r.) si recano – stagionalmente – per scheggiare la pietra e ricavarne nuclei, lame e altri strumenti per tagliare e perforare. Sono famiglie che da sempre hanno coltivato, in questa attività, un’abilità manuale superiore a quella dei comuni cacciatori. Vediamo un virtuoso della scheggiatura che, con la tecnica detta «a pressione» (spingendo con il diaframma un grande punzone in avorio sulla superficie di un nucleo preparato), si diverte a staccare lame di forma eccezionalmente regolare, lunghe piú di 50 cm, cosí lunghe da avere scarse possibilità di uso pratico; piú in là, su un cumulo di selce di scarso valore, ricca di impurità calcaree e difficilmente lavorabile, si cimentano i bambini, veri e propri apprendisti, intenti a esercitarsi in questa difficile arte. In molti si tagliano, e a terra cadono schegge macchiate di rosso; i segni dell’accanimento con cui i meno esperti hanno cercato di staccare schegge e lame da blocchi difettosi: saranno per gli archeologi di oggi la testimonianza di quella che è forse la piú antica, e probabilmente dolorosa e difficile, «scuola tecnica» del mondo. Scheggiare la pietra in modo efficiente e creativo richiede una particolare forma di intelligenza, percettività e sensibilità manuale, che non tutti gli individui della nostra specie possiedono. Se il quadro delineato dalle scoperte di Étiolles si riferisce alle fasi centrali del Paleolitico Superiore, individui particolarmente dotati nella scheggiatura e capaci di sfruttare la propria abilità per ricavarne vantaggi devono essersi distinti già a partire da
tempi ben piú remoti. I primi «artigiani specializzati» nella lavorazione di quarzite e selce furono senza dubbio creature capaci di parlare e di creare manufatti complessi, ma erano certamente molto diversi, almeno nelle fattezze, dall’uomo attuale.
Dall’amigdala al computer Il silicio, combinato con elementi, costituisce, in peso, quasi un terzo dell’intera crosta terrestre. Non sorprende quindi che questo elemento, nelle sue innumerevoli e spesso sorprendenti modificazioni, abbia accompagnato e costantemente condizionato l’evoluzione tecnica dell’uomo, in una traiettoria ininterrotta che si estende dalle prime asce a mano o amigdale (denominazione attribuita a strumenti bifacciali di forma allungata, dal greco amigdale e poi dal latino amygdala, cioè «mandorla», n.d.r.) del Paleolitico Inferiore, all’invenzione delle sostanze vetrose e a quella dei microchip delle industrie informatiche. Le forme piú frequenti in cui si presenta il silicio sono i silicati (una vastissima famiglia di minerali che compongono gran parte delle rocce piú comuni) e gli ossidi, che rientrano tutti nel grande gruppo del quarzo. Il quarzo ha caratteristici cristalli, formati da un prisma mediano e da due romboedri appuntiti alle estremità; ma la forma, le dimensioni e il modo di aggregarsi dei cristalli sono talmente variabili che le rocce del gruppo del quarzo sono a loro volta tanto diverse ed eterogenee, da rendere intricate le classificazioni dei geologi, alle quali si sovrappongono, per somma confusione, quelle ben piú variabili e incerte fatte da artigiani e mercanti di pietre dure. Per chi ama le classificazioni, il quarzo può essere macrocristallino (cioè formato da cristalli di grandi dimensioni), e comprendere varietà incolori (cristallo di rocca), violacee (ametista), gialle (quarzo citrino), brune (quarzo affumicato); oppure microcristallino. A quest’ultima suddivisione appartengono varietà traslucide con finissime strutture granulari opache, come la selce e il diaspro, nelle loro molteplici varietà cromatiche, varietà
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SELCE E PIETRE DURE
a struttura fibrosa, come il calcedonio (verde, rosso, giallo oppure azzurrognolo) o l’agata, che invece presenta zonature o bande di colore contrastante. L’opale costituisce un caso a se stante, grazie alla sua finissima struttura (che alcuni geologi definiscono sub-cristallina), che dona alla pietra le sue magiche iridescenze. Le caratteristiche piú importanti dei minerali e delle rocce del gruppo del quarzo sono dunque
In basso una scarpata nelle colline di Rohri (Sindh, Pakistan): sono visibili, stratificati nel calcare, i cosiddetti «arnioni», cioè masse di selce di forma lobata.
la durezza elevata, la struttura omogenea interna, causa, a sua volta, di fratture di tipo vetroso e di forma concoidale, e la straordinaria varietà dei colori, delle zonature e delle trasparenze. Se è chiaro che già i fabbricanti di amigdale del Paleolitico Inferiore, da almeno un milione di anni fa, avevano iniziato a sfruttare i colori e le bande interne delle pietre per ottenere effetti decorativi, fu con il Neolitico e
Pietre rotolanti
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uò sembrare strano, ma di un materiale comune come la selce non si conoscono fino in fondo i processi di formazione. Solitamente, quando ancora si trova nelle rocce di origine, esso compare sotto forma di irregolari masse arrotondate e lobate, dette arnioni, che formano orizzonti discontinui all’interno di massicce stratificazioni calcaree. La pellicola esterna di questi arnioni è calcarea e si chiama cortice. Sembra che la selce abbia origini organiche: si tratterebbe di strati formati da enormi quantità di miroscopici gusci silicei di microrganismi marini, accumulatisi in particolari condizioni sui fondali, e successivamente consolidati dal seppellimento. Le variazioni del colore (nero, bruno, bianco, grigio; per le varietà gialle e rosse si parla invece di diaspro) sono dovute alla deposizione dall’acqua di sostanze organiche e di ossidi metallici. Quando le stratificazioni sono incise ed erose dall’azione dell’acqua e della gravità, i blocchi di selce, molto piú duri della roccia calcarea, viaggiano rotolando verso il basso e si accumulano in tal modo, sotto forma di blocchi e ciottoli, nei letti dei fiumi e nei terrazzi che formano le alluvioni. Quanto all’agata, la formazione delle sue bande concentriche dai vivaci colori è altrettanto complessa: sembra che si tratti di ossido di silicio o silice che, in forma colloidale (cioè come una sorta di gel), penetra all’interno delle cavità bollose della lava e dei basalti, per dare inizio a un graduale processo di cristallizzazione. La densa soluzione silicea prenderebbe in carica ossidi metallici dalle pareti della roccia-madre, e, invece di diffondere in modo uniforme i nuovi composti nel riempimento, li farebbe ripetutamente precipitare in bande localmente sature. Questa teoria spiegherebbe anche perché l’interno dei noduli di agata (chiamati anche
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geoidi) è spesso vuoto e colmo di cristalli di rocca orientati come raggi: si tratterebbe degli effetti delle fasi finali dell’essiccamento. Anche i noduli di agata e calcedonio si possono trovare ancora annidati nelle rocce-madri (in questo caso vulcaniche), oppure trasportati e accumulati entro grandi strati di ciottoli resistenti all’erosione.
l’età del Bronzo che cristalli di quarzo, noduli di calcedonio e agata divennero insostituibili compagni della vanità e della fantasia umana.
Quando perforare è una scienza La storia degli usi di queste pietre molto dure è anche la storia della trapanazione, una delle prime tecnologie complesse dispiegate dalle società del passato; e forse non tutti sanno che dei fori trapanati e della perforazione esiste anche un’apposita scienza, la «tribologia». Se dell’Uomo di Neandertal non si conoscono, al momento, ornamenti perforati, a partire da alcune fasi iniziali del Paleolitico Superiore (in particolare dall’Aurignaziano, cultura datata tra i 40 000 e i 18 000 anni da oggi e che prende il nome da una caverna presso Aurignac, nell’Alta Garonna, Francia sud-occidentale), le vesti in pelle e in corteccia dei cacciatori iniziarono a essere abbellite di bottoni, alamari e pendenti perforati in osso e avorio, mentre denti di mammiferi potevano essere affissi a vesti e copricapi mediante perforazione, oppure incidendovi attorno solchi destinati a ospitare le fibre. Forse in questo periodo fu inventato il trapano sospinto da un archetto. In età neolitica (8000-5000 a.C.) i primi agricoltori asiatici impararono a sagomare e a perforare blocchetti o piccoli ciottoli in cristallo
In alto veduta delle colline di Rohri, uno dei piú importanti giacimenti di selce nel subcontinente indo-pakistano, sfruttati già nel Paleolitico Inferiore.
In alto, a destra un nucleo di selce del III mill. a.C. proveniente dai siti delle colline di Rohri (Pakistan). Qui sopra utensili neolitici in selce e ossidiana, dall’Anatolia. VII-VI mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
di rocca oppure in cornalina (calcedonio rosso), con punte che combinavano il moto rotatorio alla percussione. Sembra che in età calcolitica (5000-3000 a.C. circa) per fabbricare perle, sigilli e altri oggetti si continuassero a utilizzare pietre e materiali relativamente soffici, come rocce calcaree e conchiglie: in Mesopotamia, alcuni spessi sigilli a cilindro del periodo di Uruk (3500-3100 a.C. circa) sono certamente fabbricati con la spirale interna di conchiglie marine importate dalle coste indiane. A partire dalla seconda metà del III millennio a.C. ebbe inizio la sperimentazione su larga scala su pietre ben piú dure, come l’ematite, il granato, l’ossidiana (un vetro vulcanico naturale, con le stesse caratteristiche composizionali degli ossidi di silicio) e le pietre della serie del quarzo (soprattutto agata e calcedonio). I sigilli a cilindro, tra il III e il Il
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SELCE E PIETRE DURE
millennio a.C., iniziarono a diventare sempre piú vari per la qualità relativa del materiale e della lavorazione, esprimendo le necessità di corpi sociali e burocrazie che si facevano sempre piú complesse. È certo che già nel lII millennio a.C. gli artigiani piú esperti erano capaci di tagliare i minerali del gruppo del quarzo con l’ausilio di fili e seghe di rame. È anche possibile, sebbene non vi siano prove certe, che la trapanazione di pietre sempre piú dure abbia comportato l’estensione dell’uso di sostanze abrasive. Negli scarichi lasciati intorno al 2700 a.C. dai fabbricanti di perline in lapislazzuli, turchese e agata di Shahr-i Sokhta (Iran orientale), sono stati infatti trovati blocchetti di una specie di calcedonio di color verde mela, contenenti significative percentuali di corindone (un ossido di alluminio), il secondo materiale piú duro sulla terra, dopo il diamante. Poiché non sono state trovate perline in questo materiale, che forse proveniva dall’entroterra dell’Hindukush o del Kashmir, è possibile che si tratti di rocce destinate a essere polverizzate e usate come abrasivi su pietre del gruppo del quarzo. Si tratta, comunque, della piú antica attestazione sinora nota dell’uso del corindone.
Il segreto degli artigiani indiani Gli artigiani indiani, che si erano stabiliti nelle maggiori città della Mesopotamia e dell’Altopiano Iranico, erano comunque i piú grandi esperti in fatto di trapani e di abrasivi. Avevano scoperto una particolare pietra (che non ha ancora ricevuto un nome specifico) formata da una quarzite verde-giallastra, ricca di venature nerastre di ossidi di ferro e titanio, ma, soprattutto, di un minerale chiamato mullite (un altro ossido di alluminio), la cui eccezionale durezza permetteva di perforare con relativa facilità le diverse varietà di quarzo e, soprattutto, la rossa cornalina. Con questa pietra (le cui miniere o zone di raccolta erano probabilmente tenute segrete) gli artigiani indiani riuscivano a perforare, senza
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In alto occhio votivo, in agata, di età cassita, da Babilonia. XVI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. La pietra reca il nome del re cassita Kurigalzu. Il sovrano, che regnò intorno al 1400 a.C., conquistò Susa e scambiò ambasciatori e doni con il faraone Amenofi III. In basso occhio d’agata, da Babilonia, Età di Nabucodonosor II, 605-562 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto schegge e blocchi di agata zonata grigio-azzurra, in un laboratorio tradizionale di Khambhat (Gujarat, India).
romperle, perle in cornalina lunghe anche 13-14 cm: nessun altro ne era capace. Sia che tali pietre fossero usate per trapani, sia per abrasivi, esse erano ben note agli abitanti della Mesopotamia, che importavano gran parte delle pietre dure dall’Altopiano Iranico o dalle navi che giungevano da Oriente. In un grande mito sumerico chiamato convenzionalmente Lugal-e e trasmessoci dalle tavolette cuneiformi, il grande dio Ninurta, armato della sua mazza Sharur, combatte contro un mostro-montagna chiamato Asag, formato dalla raccolta di tutte le pietre del mondo, capitanate da un possente guerriero chiamato Re delle Pietre. Il regno di Asag, che assume la valenza simbolica di tutte le terre straniere e impure, è il regno del male. Naturalmente Ninurta riesce a battere Asag, a farlo a pezzi, a creare con esso nuove montagne, mentre con lo scioglimento delle sue nevi crea il Tigri. Quanto al perfido Re delle Pietre, Ninurta lo colpisce con una serie di maledizioni: sarà infranto, ammucchiato «come farina» e condannato a rendere per sempre lisce e luccicanti le altre pietre: ma la dannazione finale è quella di subire, per l’eternità, la sofferenza della perforazione della cornalina. Le allusioni a esotiche pietre capaci di perforare cornalina e quarzo sono piú che ovvie. Nel mondo mediterraneo, gli abrasivi tanto ricercati dai lapicidi erano invece strettamente legati all’isola di Nasso, nelle Cicladi, famosa, del resto, anche per le sue scuole di scultura: il celebre smeriglio dell’isola era una varietà di corindone resa nerastra da alte percentuali di ossidi di ferro. Nel corso del tempo, l’uomo non si è accontentato di imparare a scheggiare, tagliare, perforare queste pietre dure in modo sempre piú efficiente, ma inventò modi davvero ingegnosi per modificarne le caratteristiche e i colori. Alcuni ritengono che già centinaia di migliaia di anni fa gli Ominidi avessero imparato a rendere incandescente la
pietra per poi raffreddarla di colpo e sfruttare le crepe cosí ottenute per facilitare l’estrazione. L’uso del fuoco per liberare la selce dall’umidità interna e renderla molto piú omogenea nella scheggiatura è accertato nella preistoria del continente nordamericano; in India, la stessa tecnica risale ad almeno 10 000 anni fa. Per l’Europa, molti pensano che la selce usata per gli eccezionali coltelli e punte di lancia solutreani del Paleolitico Superiore (il Solutreano è cultura diffusa tra 22 000 e 17 000 anni fa circa, che trae nome dalla stazione di Solutré, Saône-et-Loire, nella Francia sudoccidentale, n.d.r.) venisse scaldata allo stesso scopo, e certo lo era quella usata per fabbricare i coltelli lunghi e piatti nell’Egitto predinastico, alla fine del IV millennio a.C. L’uso del fuoco sulla selce, per alcuni studiosi, sta alla base di tutte le industrie che prevedevano trattamenti a fuoco (come ceramica, lavorazione degli intonaci e metallurgia).
Rossa come il sangue Oltre a renderle piú lavorabili, il fuoco arrossa la selce e l’agata, mediante l’ossidazione dei composti di ferro. La cornalina, in natura, è una poco attraente agata verde-oliva dalle tonalità opache, ma se viene scaldata gradualmente e a lungo (la tradizionale tecnica indiana prevede l’uso di vasi in terracotta posti entro apposite fornaci), si trasforma in una pietra trasparente e rossa come il sangue. La creazione della cornalina deve essere rimasta a lungo un segreto professionale dei lapicidi indiani. In età romana, come dimostrano scoperte fatte ad Aquileia e Pompei, si importavano dall’India gemme semifinite, non incise, in cornalina e altre varietà di quarzo, per poi decorarle con incisioni e trasformarle in pietre da anello di larghissimo uso. Un’altra antica tecnica indiana di trasformazione cromatica consisteva nel mettere per mesi perle o altri oggetti in agata entro vasi colmi di miele, in modo che assorbissero lentamente sostanze zuccherine, e poi cuocere il tutto, cosí da carbonizzare le stesse sostanze e ottenere un «surrogato» di quell’onice nero e bianco che in natura, a
Ologrammi e altri prodigi
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er gli antichi, l’agata era un materiale affascinante, e si sforzavano di definirne le innumerevoli varietà coniando nomi curiosi quali diaspragata, ceragata, sardagata, leucagata, dendragata, corallagata, sardonice, carnelionice. Le «dendragate» si chiamano oggi agate muschiate, sono di colore madreperlaceo e traslucide, con venature verdastre arborescenti, nelle quali si leggevano figure tridimensionali, quasi «ologrammi» di paesaggi, alberi, figure di animali, oggetti. Si credeva che queste iridescenze avessero origine dai riflessi di oggetti e scene reali, specchiati sul pelo di acque che poi pietrificavano. Pirro, il conquistatore dell’Epiro, portava su di sé una di queste pietre che «conteneva» la figura di Apollo alla lira, attorniato dalle nove Muse. Queste agate arborescenti aiutavano il portatore a spezzare catene, abbattere alberi, aprire le porte chiuse. Anche le altre agate avevano grandi poteri magici: se affissa alle corna dei buoi, o sui fianchi del contadino intento ad arare, la pietra avrebbe reso copiosi i raccolti; guariva dalla febbre, in quanto capace di fluidificare il sangue, sino a dissolvere completamente carni e ossa; guariva da morsi e punture di animali velenosi; l’onice, ossia l’agata nera e bianca, infondeva coraggio e risolutezza; aiutava la vista; attirava le donne verso gli uomini, ma, se appesa al petto, avrebbe preservato la castità e scoraggiato imprese amorose illecite. Le agate persiane, con i loro profumi, tenevano lontane tempeste e fulmini, e arrestavano i torrenti piú impetuosi. All’eliotropio, diaspro rosso e verde, si attribuiva il potere di respingere i raggi solari e creare effetti di invisibilità; venne spesso usato, in età ellenisticoromana, per creare le gemme gnostiche, amuleti incisi dagli arcani poteri. Ancora oggi, in un manuale moderno che tratta dei «poteri delle pietre e dei cristalli», leggiamo: «Se avete bisogno di forza, protezione o sostegno morale, l’agata è sicuramente una pietra in grado di fornirvi tutto ciò».
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SELCE E PIETRE DURE
quanto pare, si era presto esaurito. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, già menziona l’uso di bollire le agate in soluzioni coloranti. Le industrie attuali, che molto hanno imparato da quelle antiche, ottengono effetti simili usando zucchero e acido solforico; per tingere le agate di blu (le agate azzurre, in natura, sono rarissime), usano prussiato di potassa e vetriolo di ferro; per il verde, l’ossido di nichel; per il rosso, l’ossido di ferro.
Perle scacciaguai In età protostorica i lapicidi impararono a sfruttare con grande abilità le venature interne di materiali policromi come il diaspro, l’eliotropio (una varietà di diaspro verde scuro, tempestata di macchie rosso-sangue), dell’onice (per alcuni, un’agata nera a bande lattee), delle altre varietà di agata per ottenere su perle, sigilli e piccoli contenitori effetti straordinariamente attraenti. Dagli strati di colore contrastante dell’agata, dalla Battriana alla Siria, con un taglio accurato si ottenevano immagini di magiche pupille, le «perle a occhio» necessarie a scacciare la malasorte. Si tratta delle prime forme di lavorazione a
Plinio descrisse una prodigiosa montagna dell’India, fatta interamente di calcedonio
In alto collana in cornalina, replica di un reperto del III mill. a.C. eseguita a Khambhat; all’interno del monile, gemme provenienti dagli Horti Lamiani a Roma. A sinistra collane in cornalina di artigianato tradizionale di Khambhat.
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L’essenza della vita
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razie alle sue bellissime bande interne, l’agata è un materiale di eccezionale bellezza, capace di suscitare la fantasia introspettiva di poeti e scrittori: basti pensare alla biglia di agata che, nella Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, regalata al Narratore dalla persona amata, viene a racchiudere, nella fluidità delle sue venature traslucide, l’essenza stessa della vita. Oltre a essere una materia prima ornamentale, è ancora oggi usata quasi ovunque – proprio grazie all’eccezionale resistenza della sua struttura fibrosa – per i piccoli mortai che, nei laboratori di chimica e geologia, vengono adoperati per macinare campioni di svariate sostanze senza il rischio di contaminarli con i materiali del mortaio e del pestello. Le bande interne dell’agata non sono sfuggite a inchieste scientifiche, che ci possono apparire piuttosto bizzarre. Già alla fine dell’Ottocento, alcuni chimici inglesi erano riusciti a replicare sperimentalmente il discontinuo processo di formazione delle bande dell’agata, mettendo soluzioni di nitrato di argento entro composti gelatinosi con acido citrico e bicromato di ammonio. Nel 1927, un certo Sir David Brewster tagliò invece dall’interno di un geoide di agata una colonna lunga circa 1 pollice (2,538 cm) e si mise con pazienza al microscopio a contarne, uno per uno, gli strati concentrici, raggiungendo la considerevole cifra di 17 000 bande di colore contrastante.
cammeo, una delle tecniche decorative piú care agli artigiani e alle case aristocratiche dell’età classica e dei due millenni seguenti. Di straordinari «vasi murrini» ottenuti con rare pietre traslucide e zonate ci parla l’ultimo libro della Naturalis Historia di Plinio, che collocava proprio in India una prodigiosa montagna fatta interamente di calcedonio: ancora oggi nello Stato del Gujarat (India nord-occidentale) sono attive importanti industrie artigianali che forniscono di agata i mercati dell’Africa, dell’Oriente e dell’Europa. Date le caratteristiche di queste pietre, le tecniche impiegate nel loro taglio e nella loro perforazione, malgrado lo sviluppo delle conoscenze dei materiali abrasivi, sono rimaste in parte costanti nel tempo e nello spazio. L’unica vera rivoluzione è avvenuta, a quanto pare, intorno al III secolo a.C., nel fervore
In alto diamanti usati per forare le perle di agata in un laboratorio di Khambhat.
tecnico dell’ellenismo. Alcuni artigiani si erano accorti che cristalli di diamante – praticamente inutili in quanto non lavorabili e spesso di tonalità opaca – facilmente reperibili in India, se fissati su aste o lame di metallo, si trasformavano in una materia da taglio e da perforazione dalle qualità senza precedenti.
L’«indistruttibile» In greco il diamante era «adamàs», cioè l’indistruttibile; curiosamente, poteva tagliare qualsiasi altro materiale, ma se esposto alle fiamme e a una temperatura di circa 900 °C si consumava. Mentre la trapanazione di una perla in agata, o l’incisione di una gemma, se effettuate con punte in quarzo, in materiali poco piú duri, o con strumenti in rame aiutati da abrasivi, potevano richiedere diverse ore, l’uso del diamante assicurava gli stessi risultati in pochi minuti. Sebbene usato come gemma ornamentale dai Romani solo dal III secolo a.C., il diamante, rivoluzionò in breve tempo la lavorazione dei sigilli e l’industria delle perline, anche perché rese per la prima volta purificabili e tagliabili pietre ben piú dure del quarzo. I primi furono i minerali cristallini del gruppo degli ossidi di alluminio (soprattutto corindone, rubino e zaffiro), che fino ad allora non avevano applicazioni pratiche. In tal modo, la moderna industria e i mercati dei gioielli dipendono dalla «sconfitta» inflitta dal diamante alle stesse pietre con le quali gli artigiani della protostoria, per la prima volta, avevano scalfito la durezza dei minerali del quarzo.
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Fra arte e
superstizione L’avorio e il corno sono da sempre ricercati per le loro qualità tecniche ed estetiche. Proprietà alle quali, nel tempo, si è aggiunta la convinzione che entrambi potessero funzionare come potenti talismani o come miracolosi ingredienti di pozioni capaci di guarire ogni sorta di malanno... | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 62 |
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Un artigiano intento nella lavorazione di zanne di elefante in Tanzania, in una foto scattata nell’aprile del 1963. L’accordo denominato CITES (Convention on International Trade of Endangered Species), firmato a Washington nel 1973, regolamenta, da allora, il commercio internazionale di fauna e flora selvatiche in pericolo di estinzione e ne include anche i prodotti da essi derivati, quale è appunto l’avorio.
gni volta che un’estate particolarmente torrida favorisce lo scoppio di incendi capaci di mandare in fumo interi boschi, abbiamo la triste conferma di come l’uomo stia perdendo il controllo del fuoco. E non è certo un buon segno, per la specie che dovrebbe esercitare la propria supremazia sul pianeta in equilibrio con la natura, e che aveva avuto il dono del fuoco direttamente dagli dèi. Lo racconta il piu famoso mito greco, con le vicende dei due fratelli Titani, Epimeteo («quello che ci pensa dopo») e Prometeo («quello che ci pensa prima»), intenti a fabbricare il mondo. Epimeteo, stoltamente, distribuisce a tutti gli animali artigli, denti, corna, zoccoli, pelli spesse, muscolature possenti; ma quando giunge all’ultimo arrivato, il genere umano, il sacco dei doni è ormai esaurito, e l’uomo si ritrova del tutto inerme. Prometeo, a questo punto, è costretto a rubare per lui dalla sfera celeste il divino principio del fuoco (il Fiore rosso, come lo chiamavano le sagge belve del Libro della Giungla di Rudyard Kipling). Prometeo avrebbe pagato la dabbenaggine del fratello e il suo furto con un feroce supplizio. Col fuoco, primordiale ispirazione di molte tecniche, l’uomo inventò, costrui e poi subí il mondo in cui oggi viviamo. Nei mammiferi, i denti e le unghie sono usati per strappare e rielaborare il cibo, oppure come arma di difesa; nei carnivori essi sono anche letali mezzi di caccia. Le corna (e i corni) sono armi da difesa ma anche, per diverse specie, il mezzo principale per segnalare lo status dei maschi e delle contese per l’accoppiamento; non mancano esempi di animali che usano le corna anche per raschiare il terreno in cerca di radici. Agli zoccoli è affidato il compito di garantire forza ed elasticità nella fuga, ma anche quello di rendere molto pericolosi i calci sferrati. I denti dei mammiferi, dal punto di vista biologico, sono una vera bizzarria. La struttura concentrica di questi elaborati strumenti per strappare, spezzare,
rompere, macinare – formata da tessuto nervoso, avorio o dentina, cemento e smalto –, secondo alcuni studiosi ricorda piú quella delle scaglie dei rettili che altri elementi o tessuti del corpo umano: si tratterebbe quindi di una ancestrale eredità del nostro trascorso evolutivo di rettili. Corna, unghie e zoccoli, invece, rappresenterebbero trasformazioni evolutive eccezionalmente efficienti di quei peli che formano l’orgoglio di noi mammiferi.
Fantasie e capricci tecnici Nella lunga storia dell’attacco alla natura, l’uomo, non pago del suo Fiore rosso, strappò spietatamente alle altre creature anche gli antichi doni di Epimeteo – corna, denti, artigli – per trasformarli in oggetti e prodotti a volte utili, ma piú spesso sotto l’ispirazione di bizzarre fantasie e artificiosi capricci tecnici. «Osteodontocheratico»: questa strana parola per un certo periodo fu in gran voga tra gli archeologi preistorici che avevano ipotizzato un uso sistematico di ossa, denti, corna (il termine viene appunto dalle parole greche che indicano rispettivamente i tre materiali) come strumenti, prima e durante il fiorire delle industrie su pietra. Tale ipotesi, oggi, è parzialmente ridimensionata, ma è certo che l’uomo fece larghissimo uso, almeno fin dal Paleolitico Superiore (a partire da 35 000 anni fa circa), dei denti degli animali, soprattutto a scopo decorativo. Denti di daino, di orso e di
In alto figura di felino lavorata da un corno di renna, rinvenuta nella grotta di Isturitz, nei pressi di Biarritz (Francia). Maddaleniano, 15 000 anni fa circa. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie nationale.
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cavallo venivano intagliati, incisi e perforati per sospenderli a cordicelle e abiti. L’uso piú sistematico e impressionante (e quello che piú incise sul piano delle industrie e della produzione «artistica») fu certamente quello dell’avorio di mammut. Ancor oggi, l’avorio fossile (cioè quello estratto dai resti dei grandi elefanti della fine del Pleistocene), non modificato dalla mineralizzazione, è una costosissima materia prima per la fabbricazione di oggetti ornamentali. Si ottiene (naturalmente in modo illegale) nelle piane siberiane, in particolare lungo il corso del fiume Lena e di altri corsi che sfociano nell’Artico (in Alaska, presso il fiume Yukon, si ricava invece avorio
In basso la «Venere dal Corno», rilievo su un grosso blocco roccioso, da Laussel (Francia). Perigordiano Superiore, 25 000 a.C. circa. Nella pagina accanto figurina femminile ricavata da un osso di coccodrillo. Età predinastica, Naqada I, 4000-3100 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
fossile dalle zanne di un altro grande mammifero preistorico, il mastodonte). Se guardiamo ai resti degli accampamenti dei cacciatori di mammut dell’Europa centroorientale, dalle piane dell’Ucraina alle colline della Moravia, si ha una immediata percezione di come l’uomo dipendesse strettamente dai grandi elefanti pelosi, al punto da sembrare uno spietato «parassita» di questi grandi animali: le abitazioni erano tende di pellami a base rotonda, fissate alla base da grandi mandibole e crani di elefante, mentre costole e zanne di avorio (che raggiungevano i 3 m di lunghezza) formavano i sostegni arcuati delle coperture. Le zanne erano usate nella fabbricazione di perline, placchette decorate o incise con tratti forse numerici, figurine umane stilizzate oppure con tratti sessuali accentuati, come mostrato dalle Veneri di Lespugue, Brassenpuy, Predmost e Pekarna (Moravia), oppure Avdeevo (in Ucraina). Ma certo i cacciatori del Paleolitico Superiore (che cacciassero solamente, oppure si dedicassero anche alla scarnificazione degli
Rimedi portentosi
L’
opera Le Pietre Magiche firmata da Emmanuel Napoléon Santini de Riols (1847-1908) attribuisce a uno scritto di Orfeo, tratto da uno dei Lapidari Alessandrini, un particolare uso delle corna di cervo. Definite «Opera meravigliosa creata dalla natura, prodotta dalla testa del cervo», possono essere usate per combattere la calvizie. Se le corna, ridotte in polvere e pestate con olio, saranno applicate in una pasta frizionata con forza sulle parti calve, la ricrescita dei capelli è garantita. La seconda parte della prescrizione di Orfeo va citata per intero, e senza commenti: «Se per la prima volta, o giovane, conduci al letto nuziale la giovane sposa, tieni questa pietra [le corna] come testimonio della tua felicità e allora un legame indissolubile d’amore vi legherà l’uno all’altra per tutta la vita».
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animali morti per cause naturali) facevano un uso molto piú sistematico (e meno visibile sul piano archeologico) delle risorse garantite dalle carcasse degli animali. Un esempio indiretto ma significativo viene dal Nepal, dove ancor oggi, con il corpo del rinoceronte, altro grande mammifero, si fa di tutto: la pelle viene usata per fabbricare boccali usati in speciali riti (tradizionalmente, in India la stessa pelle era anche usata nella fabbricazione degli scudi dei guerrieri); la carne viene consumata con le interiora, anche per ottenere rimedi medicinali e magici; il sangue secco allevia alle donne i dolori mestruali, e funge da afrodisiaco per gli uomini; l’urina è un analgesico, e dalle ossa si ricavano lampade sacre e preziosi talismani per gli sciamani (del corno, naturalmente, diremo poi); persino gli escrementi sono considerati intrisi di virtu magiche. In Africa, con i tendini dell’animale si fanno i frustini. I cacciatori del Paleolitico dovevano guardare al corpo di un mammut come noi guardiamo a un intero bancone di un supermercato.
Ideale per piccoli oggetti L’avorio (chimicamente formato da un fosfato di calcio vicino all’idrossiapatite) si forma gradualmente intorno alla cavità pulpare dei denti dei Vertebrati in senso concentrico. Forma un tessuto compatto, scarsamente fibroso, privo di capillari sanguigni, ma reso elastico e flessibile da microscopici canali filiformi, che, mentre l’animale è vivo, contengono una sostanza gelatinosa: l’avorio è un materiale ideale per fabbricare ogni genere di piccoli oggetti. Anche se molti di noi identificano l’avorio con la zanna di elefante, tecnicamente, oltre a quello fossile, si parla di avorio anche per quello ottenuto dai grandi molari degli elefanti, dai denti di ippopotamo. di grandi mammiferi marini come il tricheco e di cetacei (soprattutto i denti ricurvi del capodoglio Physeter catodon). L’uso dei capodogli a questi fini non è
certo un fatto recente: un esemplare di dente di capodoglio lavorato in età tardo-paleolitica, con l’incisione di due stambecchi a rilievo, fu trovato nella grotta francese del Mas D’Azil. Mentre le ossa (umane o animali) richiedono lavorazioni preliminari, l’avorio può essere direttamente tagliato con seghe, lavorato al tornio orizzontale, trapanato, intagliato con ceselli e scalpelli simili a quelli usati per il legno; nelle industrie tradizionali, viene levigato con pezze di pelle di ippopotamo intrise di olio e polveri abrasive (per esempio pomice), usate a mano o applicate su dischi rotanti di legno. Gli intagliatori di avorio, inoltre, raccolgono attentamente gli scarti che vengono venduti come materia prima ai fabbricanti di pigmenti, che ne ottengono, mediante bruciatura, il cosiddetto nero d’avorio. In India, le polveri e i trucioli che si ottengono dalla fabbricazione dei bracciali d’avorio sono anche venduti come sostanza medicinale, utile per esempio per fermare la dissenteria nei cavalli e nei bovini. Si tratta, dunque, di una tecnologia potenzialmente complessa e provvista di sistematiche applicazioni di riciclaggio, che rendono difficile (unitamente a sfavorevoli fattori di conservazione nel sottosuolo) il riconoscimento delle aree di lavorazione nei depositi archeologici. Eppure, le opere di artigianato artistico a noi giunte dal passato testimoniano un’arte antica, prestigiosa e ininterrotta. Oltre alla grande stagione scultorea del Paleolitico, basti pensare ai vasi rituali fatti con zanne d’elefante tempestati di intarsi in turchese dei sovrani Shang, in Cina (1300 a.C. circa), alle grandi statue composite del mondo classico, alla piccola scultura, alla realizzazione di scatole, oggetti sacri, strumenti musicali e piccoli mobili di età medievale e rinascimentale. In età moderna, la passione delle classi alte e
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medie delle società colonialiste europee per l’oggettistica in avorio – gretto e sciocco simbolo della spoliazione delle risorse di un intero continente – portò i grandi branchi di elefanti africani sull’orlo dell’estinzione. Fortunatamente, la ricerca di oggetti in avorio, almeno per molti di noi, è diventata quasi un capriccioso crimine.
Una figura trascendentale Nella preistoria, l’uomo fu affascinato dalle corna dei grandi quadrupedi almeno quanto lo fu dalle zanne degli elefanti. Il corno bovino difficilmente sopravvive nel terreno, ma certamente fu utilizzato dai tempi piu remoti. Una delle testimonianze piu affascinanti viene dal riparo francese di Laussel (Dordogna). Qui venne trovata una celebre lastra calcarea alta 43 cm con l’immagine di una donna nuda, dal corpo adiposo, senza tratti facciali, vista
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frontalmente, con la mano sinistra sul ventre e la destra levata a sostenere un corno animale, forse di bisonte (vedi foto a p. 64). Sul corno, di forma lunata, si leggono 13 tacche (un’allusione ai 13 mesi del calendario lunare?). Insieme a questo rilievo furono scoperte altre lastre con simili figure femminili, con animali (erbivori e predatori) e un rilievo frammentario che forse rappresentava un cacciatore nell’atto di scagliare una lancia: parti di narrazioni e mitologie paleolitiche che possiamo soltanto immaginare. La «Venere» di Laussel può essere comunque considerata la prima grande figura trascendentale che associa le idee della femminilità e della sessualità alle corna bovine e forse all’astro lunare. Nello sviluppo delle civiltà mediterranee, le corna bovine – dai misteriosi sacelli neolitici di Çatal Höyük, ai simboli delle corna stilizzati nei palazzi minoici, alla stessa figura divina
In alto il rinoceronte africano, raffigurato sulle rocce dell’alto Nilo, nel grande mosaico del tempio della Fortuna Primigenia a Praeneste. Età ellenistica. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso sigillo con figura di rinoceronte, da Mohenjo Daro (Pakistan). IV-III sec. a.C. Karachi, Museo Nazionale.
dell’egiziana Iside – saranno costantemente associate all’idea della fertilità e a temi astrali. Nel mondo mesopotamico, con molteplici corrispondenze, le stesse corna sono associate alla fertilità garantita dalle piogge e dalle tempeste, e in questa valenza compaiono, a coppie sovrapposte, nelle tiare delle principali divinità: e non va dimenticato l’iranico Mitra, dio solare che immerge la daga nel petto di un toro cosmico. Delle corna dei cervidi abbiamo invece innumerevoli testimonianze preistoriche. Del tutto misteriose sono simbologie e funzioni dei «bastoni di comando» della fine del Paleolitico e del Mesolitico, parti di palchi di corna di cervi e daini decorati da fitte incisioni geometriche e naturalistiche, con un ampio foro passante; facevano certamente parte dei simboli di dominio dei capi delle tribú di cacciatori del tempo. Il corno di cervo cresce e cade annualmente dall’estremità di un peduncolo osseo sulla fronte dei cervi maschi adulti; poteva essere raccolto nei boschi anche senza aver abbattuto l’animale. Fu un materiale essenziale nelle tecnologie del Neolitico e delle età dei metalli, quando forní
In alto due rinoceronti bicorni del Kenya. Dalla preistoria il corpo dei rinoceronti è stato usato dagli uomini in tutte le sue parti, compreso il corno, in Africa come nelle piane siberiane.
un mezzo ideale per immanicare prima accette e altri strumenti in pietra, poi lame di coltello; e in ogni tempo fu materia prima per ornamenti, intagli e intarsi. Anche il corno di cervo ebbe le sue antiche valenze simboliche: la leggenda di sant’Eustachio, nella quale una miracolosa croce di luce divina compare nelle corna dell’animale, ha tutta l’aria di un adattamento cristiano di una leggenda molto piú antica.
Quell’«orrido quadrupede»... In un certo senso, l’avorio sta all’elefante come il corno sta al rinoceronte; e non stupisce che mammut e rinoceronti lanosi siano stati raffigurati, a volte, nelle stesse grotte paleolitiche. Il rinoceronte sopravvisse sino in epoca moderna in cinque specie diverse: le due piú importanti sono il rinoceronte indiano, provvisto di un unico corno (Rhinoceros unicornis) e le varietà africane, che hanno invece due corni (Rhinoceros bicornis). Questa creatura fu «messa a fuoco» e identificata scientificamente dalla cultura europea solo per gradi e in tempi relativamente recenti, forse a causa degli aloni di fantasia e immaginazione che le sue
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singolari fattezze avevano creato. Ancora nel 1861, lo scrittore, cacciatore ed esploratore francese Jacques Arago (1790-1855) lo descriveva in termini a dir poco immaginifici: «Quest’orrido quadrupede è, come il maiale, proclive a diguazzar nel fango e a rotolarsi nella mota (...) Il corno del rinoceronte colpisce e sfonda, ma la sua testa colpisce e schiaccia, come il suo corpo in moto, che pare un macigno staccato da una cima (...) Tra le pieghe della sua pelle si annidano insetti, bestie con un’infinità di piedi, degli scorpioni e persino serpentelli. I suoi piedi giganteschi lo proteggono (...) e ha un membro rotto colui che riceve il terribile calcio». Piú rari sono gli scritti che pongono l’animale in una luce positiva. È il caso dell’opera Somiglianze, scritta dal teologo, agiografo e predicatore domenicano Giovanni Gorino da San Gimignano (1260/1270-post 1333) e pubblicata postuma nel 1477. Divise in 10 libri dedicati ad altrettante sfere del mondo reale, le Somiglianze, nello sforzo di mostrare l’estrema coerenza divina del creato, stabiliscono una serie di correlazioni davvero singolari per la nostra mentalità: per esempio, l’asbesto è assimilato al fuoco infernale (poiché la pietra fibrosa non brucia, si pensava che, una volta combusta, ardesse per sempre);
Come fenomeni da baraccone
F
orse per l’impressione suscitata dall’esibizione di un rinoceronte in occasione di una festa organizzata dal re Tolomeo Il Filadelfo, nel 309 a.C., i Romani iniziarono a importare questi animali nella Penisola italiana. A partire dalla dinastia giulio-claudia, e poi con gli Antonini e i loro successori, rinoceronti africani raggiunsero i moli di Ostia, con destinazione le arene dei giochi. I viaggi poi ripresero nel XVI secolo: nel 1515, infatti, approdò a Lisbona una nave partita da Goa, in India, che recava anche un rinoceronte indiano donato dal re del Gujarat a Manuel I il Grande, sovrano del Portogallo. Passati i primi entusiasmi, Manuel «riciclò» l’ingombrante regalo (che tra l’altro si era rifiutato di assalire un elefante) inviandolo al papa, ma la nave si inabissò davanti al porto di
In alto bracciali indiani maschili in avorio, da portare sopra il gomito, Nagaland. XIX-XX sec. Collezione Ghysels. A sinistra intagliatore di avorio nella Costa d’Avorio, Africa.
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Ostia, e il povero rinoceronte annegò. Una celebre incisione realizzata da Albrecht Dürer nel 1515 ritrae proprio questo infelice animale; ed è certo che l’incisore non lo vide di persona, ma si basò su uno schizzo fatto da altri, perché collocò un inesistente e assurdo cornetto tra le scapole della bestia. Piú fortunato fu un giovane esemplare catturato nell’Assam nel 1739, giunto in Europa nel 1741. Questo rinoceronte, detto l’«Olandese», girò le capitali d’Europa per ben sedici anni; il naturalista francese Georges-Louis Leclerc Bulfon lo fece disegnare dal vero, superando cosi le incongruenze dell’incisione di Dürer. Si tratta dello stesso animale che compare nel celebre dipinto a olio di Pietro Longhi datato al 1751, che subisce annoiato la curiosità di una compagnia veneziana vestita in maschera (vedi foto qui accanto).
il bitume è legato alla carità (perché è tenace, lega le cose insieme, e fu usato nell’arca per salvare la creazione); l’Ordine dei Domenicani al Libano (facile: entrambi sono elevati e generano acque di vita). E il nostro rinoceronte? Gorino aveva paragonato il collerico bestione a Gesú Cristo, perché, come molti del suo tempo, lo confondeva con l’unicorno, l’animale piú nobile e puro.
Confusione «biblica» La confusione tra unicorno e rinoceronte (e tra le corna delle due bestie) può essere fatta risalire ai testi biblici, che menzionano una creatura mitica chiamata reem a uno o due corni, che sarebbe stata poi ribattezzata dai
pachiderma). Circostanza senza dubbio curiosa è che l’unicorno – animale immaginario dal corpo di bovino o antilope, dal lungo corno sinuoso e corrugato – era stato scelto, nell’età del Bronzo della valle dell’Indo, cioè 2000 anni prima di Megastene, come uno dei simboli piú comuni utilizzati nei sigilli a stampo (vedi foto a p. 67).
Dicerie dure a morire
traduttori e dagli interpreti come liocorno, alicorno, monoceronte. La creatura compare nel Libro di Giobbe, nei Salmi e nel Deuteronomio. Alimentata da narrazioni leggendarie ambientate in India, in Cina, in Mesopotamia, l’idea dell’unicorno si saldò – di volta in volta – all’asino selvatico e a varie specie di antilopi. Nel mondo greco-romano, anche grazie ai racconti di Megastene, Ctesia e degli altri scrittori che tra la tarda età classica e l’ellenismo si erano occupati dell’India e dei suoi esotici animali, l’unicorno «approdò» al rinoceronte (anche se Plinio il Vecchio, nella Naturalis historia, diede del «monoceronte» una descrizione piuttosto calzante al vero
La mostra del rinoceronte, dipinto di Pietro Longhi (1702-1785). Venezia, Ca’ Rezzonico.
Se l’opera Cyranides dei Lapidari Alessandrini (una collazione di testi sulle magie delle pietre, redatta appunto ad Alessandria in età ellenistica), popolarmente attribuita all’arcano mago Ermete Trismegisto, considerava il «Rinoceronte» come una pietra allungata, a forma di corno, che si celava, appunto, nel corno dell’animale, gli antichi ebbero al proposito poche idee, ma molto chiare. Continuarono a pensare, per secoli, che il corno del rinoceronte avesse un potere antivelenifico, e che tazze scavate in esso avessero la facoltà di far ribollire ogni liquido velenoso; che la sua polvere fosse un prezioso farmaco polivalente, e che avesse uno straordinario potere afrodisiaco (altra curiosa diceria, come le altre del tutto priva di fondamento, fu che il rinoceronte odiasse profondamente, ricambiato, l’elefante, e che appena vedesse il rivale, si precipitasse sulla roccia piú vicina per affilare il corno come un arrotino). Eppure a tutto questo moltissimi credono ancora, al punto che la polvere di corno, ottenuta in genere da animali abbattuti illegalmente nelle riserve naturali africane, ha sul mercato nero un costo elevato. Meno noto è il fatto che il corno di rinoceronte è stato usato, per secoli, nelle impugnature dello jambya, pugnale cerimoniale usato presso le società tradizionali dello Yemen come indispensabile attributo del maschio adulto in diversi ambiti rituali e nella gestione delle dispute. Sino a poco tempo fa, circa il 40% del traffico internazionale di corni di rinoceronte approdava proprio nello Yemen, mettendo ancor piú a repentaglio la sopravvivenza degli animali.
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Tesoro
mediterraneo
La domesticazione dell’olivo e la conseguente produzione dell’olio hanno rappresentato una svolta decisiva nell’alimentazione, ma non solo, delle civiltà affacciate sul Mare Nostrum. Le olive e il loro nettare, infatti, acquisirono presto un valore economico di straordinaria rilevanza | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 70 |
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giudicare dai volantini distribuiti da alcuni gruppi religiosi, il paradiso dovrebbe essere uno spazio verde e immacolato, in cui carnivori, erbivori ed esseri umani vivono in assoluta serenità e nessuno – uomo o animale – è costretto a lavorare o affaticarsi per vivere. Ho sempre pensato che queste immagini siano la piú perfetta rappresentazione del metafisico e del soprannaturale. Il mondo in cui viviamo non è cosí: gli animali e le piante che l’uomo ha sfruttato per vivere sono creature sue, modificate nell’arco di secoli, a costo di aspre lotte e di esperimenti che furono difficili per l’uomo ed estenuanti per la natura stessa. In queste pagine ci occupiamo dell’olivo e dell’olio, cioè di una delle piú ingegnose e artificiali creazioni umane, e delle molteplici conseguenze di questa innovazione. Narra la leggenda che Mida, sovrano di Frigia, per aver dato ospitalità a Sileno, fosse stato ricompensato da Dioniso con il dono di mutare in oro tutto quanto toccava; ma il potere divino
si trasformò in condanna, non appena il re si accorse che anche il cibo e l’acqua si trasformavano nel metallo dorato, condannandolo alla morte per inedia. Simile, in fondo, fu la sorte che toccò all’ultimo wanax, o sovrano, della reggia micenea di Pilo, in Messenia. Durante il saccheggio finale del suo palazzo, le grandi giare ricolme di prezioso olio di oliva che la famiglia reale aveva accumulato nelle stanze situate dietro la parete del trono divennero altrettante bombe incendiarie, e contribuirono a seppellire il palazzo in nuvole di cenere e carboni incendiati. Insieme ai grandi pithoi (contenitori per derrate), forse esplosero le giare colme dell’olio speciale, profumato con erbe di collina, che rappresentavano il vanto della mensa regale e delle cerimonie.
Pregiato e polivalente Nel mondo miceneo, come in quello minoico, l’olio di oliva – insieme a orzo, farina, olive, miele, fichi, vino – era uno dei prodotti che il territorio rurale faceva incessantemente affluire ai magazzini dei palazzi e delle rocche, come delle provvigioni che il clero incamerava per offrirle agli dèi (cioè, in larga misura, a se stesso). L’olio di oliva si usava certo come alimento (le tavolette di Cnosso, per esempio, elencano in genere due diverse varietà di olive insieme all’orzo e ai fichi). Si usava anche come medicinale, cosmetico e detergente per il corpo (usi attestati anche in Mesopotamia e presso gli Ittiti); nel mondo antico, infatti, l’olio di oliva svolgeva la funzione di «solvente universale», che nell’industria moderna svolgono le sostanze alcoliche. Era anche un ottimo combustibile per lampade, un ingrediente del trattamento industriale delle fibre tessili e delle pelli, e aveva un ruolo di primo piano in tutti i rituali piú importanti. La produzione e il consumo dell’olio erano Sulle due pagine la raccolta delle olive rappresentata su un’anfora attica a figure nere del VI sec. a.C. (Londra, British Museum; qui accanto) e in un oliveto pugliese.
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OLIO
Le genti minoiche cretesi, come poi i Micenei, avevano fatto dell’olivo e dell’olio altrettanti cardini delle rispettive economie solitamente precluse agli strati inferiori della popolazione, anche se lavoratori e artigiani erano a volte pagati, a Micene, con razioni d’olio. Gli oliveti variavano da un minimo di 1-2 alberi (per un prodotto di 5-6 litri d’olio all’anno) a piantagioni piú consistenti, che erano oggetto di specifiche forme di tassazione; i templi potevano disporre di piantagioni ben piú estese e redditizie. John Chadwick (1920-1998), il «padre» dell’archeologia micenea, cita una tavoletta di Pilo in Lineare B in cui si registra che Eumedes ricevette da Kokalos 18 misure standard di olio, e da Eumedes 38 «giare» dello stesso liquido: il segno usato per queste giare indica con precisione un tipo di vaso detto «anfora a staffa», e tutto indica che la produzione, la distribuzione e la vendita dell’olio, a Pilo – e certo nelle altre regge dello stesso tempo – fosse accuratamente organizzata e controllata mediante l’uso di vasi di forma e capacità standardizzata. I Minoici di Creta, come nei secoli successivi i Micenei, diretti antenati dei Greci del mondo classico, avevano evidentemente fatto dell’olivo e dell’olio un cardine dell’economia. Mentre le contemporanee civiltà dell’età del
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Bronzo della costa siro-palestinese vivevano combinando l’agricoltura con i proventi del commercio e il controllo dei preziosissimi cedri del Libano, ed Egiziani e Babilonesi potevano contare sull’inesauribile potenziale agricolo delle loro fertilissime vallate, i Micenei avevano inventato e perfezionato un’agricoltura «rivoluzionaria».
Nasce la «dieta mediterranea» Vivendo nelle valli strette e aride della Grecia continentale e del Peloponneso, povere di terreni argillosi adatti alla coltivazione intensiva di grano e orzo, adottarono strategie di produzione mista e differenziata, in parti significative destinata a beni come vino, olive, fichi, miele, formaggi, che potevano essere prodotti in grandi eccedenze nelle annate favorevoli, immagazzinate in modo efficace (poco spazio per elevate rese caloriche) e conservate per tempi relativamente lunghi, in modo da compensare le annate di carestia che, a intervalli, colpivano disastrosamente la produzione cerealicola o altri settori produttivi primari. In questo senso, le antiche civiltà di Creta e Micene ebbero un ruolo fondamentale
In alto un oliveto nell’isola di Creta. Nella pagina accanto un magazzino del palazzo di Cnosso (Creta) adibito allo stoccaggio di grandi pithoi (contenitori per derrate) destinati alla conservazione dell’olio. II mill. a.C.
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OLIO
nello sviluppare quella «dieta mediterranea» che i Paesi dell’Europa mediterranea e del Nord Africa hanno variamente diffuso in vaste regioni del pianeta. Per risalire alle origini dell’«invenzione» dell’olivo e del suo olio dobbiamo brevemente pensare alle tecnologie di estrazione di grassi animali e vegetali, molte delle quali ebbero presumibilmente origine tra le ultime fasi del Paleolitico Inferiore e il Paleolitico Superiore (tra 100 000 e 20 000 anni fa). I popoli cacciatori contemporanei sono in grado di estrarre grassi da pesci, uccelli, mammiferi, cosí come da una varietà di piante selvatiche molto piú ampia di quanto comunemente si pensi, e di conservarli almeno per intervalli stagionali. È stato perciò ipotizzato che i primi esperimenti nella fabbricazione di vasi in ceramica compiuti dai cacciatori, tra 23 000 e 10 000 anni fa, fossero legati alla necessità di estrarre e bollire l’olio di salmoni e trote pescati nei fiumi euroasiatici (oltre alle ceramiche paleolitiche di Dolni-Vestonice, in Moravia, alcuni siti tardo-paleolitici siberiani hanno restituito manufatti in terracotta datati entro questo intervallo cronologico).
Le prove archeologiche Comunque stiano le cose, le prime concentrazioni significative di noccioli di oliva sono state rinvenute in strati della cultura natufiana (11 000-9000 a.C. circa) sul monte Carmelo e nella grotta di Nahal Hemar. In un sito sottomarino a sud della costa di Haifa (lsraele) gli archeologi si sono imbattuti in un pozzetto scavato nel terreno ricolmo di noccioli, databile intorno al 5500 a.C. I dati archeologici, quindi, collocano l’inizio dello sfruttamento sistematico dell’olivo a ridosso delle prime fasi dell’evoluzione di villaggi e città permanenti, cioè alle radici di quella «rivoluzione urbana» che ha creato il nostro stesso modo di vivere. Il problema è che gli studiosi, a differenza di quanto avviene per i cereali e per altri tipi di piante, sono discordi e scettici sulla reale In alto pressa per olio in pietra. III-I sec. a.C. Tel Aviv, Haaretz Museum.
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Una ricca gamma di alternative
L’
olio di oliva è un prezioso alimento che, nella dieta mediterranea, sostituisce quasi interamente le sostanze grasse di origine animale su cui tradizionalmente si basa l’alimentazione umana nelle regioni nordiche (in primo luogo lardo e burro). L’olio di oliva contiene miscele di acidi grassi dai nomi piú o meno difficili da ricordare (oleico, stearico, linoleico, palmitico), che forniscono la principale fonte di calorie; ma contiene anche una componente non grassa, detta «insaponificabile», che può raggiungere il 2,5% del totale. L’insaponificabile è particolarmente prezioso perché contiene numerose sostanze ad azione vitaminica. Nei processi di raffinazione industriale a cui l’olio viene sottoposto, queste sostanze vengono completamente distrutte; ciò non avviene, al contrario, nelle qualità «vergini», che sono appunto quelle raccomandate nell’alimentazione. Se l’olivo era la piú ricca fonte di grassi nota nell’età del Bronzo, nel mondo antico si usarono i grassi vegetali piú diversi. Non si sa, per esempio, se i semi di cotone databili intorno al 5000 a.C. e trovati a Mehrgarh (Pakistan) fossero sfruttati per estrarne l’olio, oppure fossero legati alla coltivazione della pianta per le fibre. In India, come in Mesopotamia e in Africa da tempi immemorabili si estraeva olio dal sesamo (ancora oggi ampiamente usato in Pakistan e India anche come «brillantina»); in Anatolia, dalle mandorle; in Egitto, dai semi di ricino e rafano; in Europa Settentrionale, dal lino; in Asia Centrale, dai semi delle Chenopodiacee, piante selvatiche del deserto; in altre regioni asiatiche, dalla soia e dalla palma da cocco. In Grecia si estraeva olio anche dalle noci e dal papavero domestico.
possibilità di dedurre dalle caratteristiche morfologiche e dimensionali dei noccioli di oliva del Neolitico se le piante fossero domesticate o coltivate, o se si trattasse invece di piante selvatiche oggetto di raccolta sistematica. Nel corso del V-IV millennio a.C., la presenza sempre piú frequente di noccioli e legno di oliva nei siti calcolitici della regione siropalestinese – per esempio nell’arida valle del Giordano – sembrerebbe implicare un avanzato stadio di domesticazione, reso possibile anche dall’applicazione di pratiche di agricoltura irrigua. Lo confermerebbero anche i rinvenimenti di bacini in ceramica interpretati come frantoi per le olive e speciali contenitori con beccucci versatoi sull’orlo, interpretati come schiumatoi per l’olio galleggiante.
Le culle dell’olivicoltura A partire dagli inizi del III millennio a.C., resti di legno e noccioli divengono relativamente comuni in tutta la zona. Le regioni libanese e israelo-palestinese, quindi, furono senza dubbio altrettante culle della domesticazione dell’olivo; ma forse non furono le sole. È infatti perlomeno ragionevole ipotizzare che esperimenti simili siano stati compiuti in epoche altrettanto antiche sul versante dei primi rilievi dell’altopiano anatolico, e forse anche a ovest. Infatti, mentre i termini semitici e indoeuropei per «vite» e «vino» derivano da una fonte comune, quelli per «olivo» e «olio» sono chiaramente divergenti. La radice semitica per «olio» è infatti shmn (ebraico shmm; accadico shamnu) e quella per «oliva» zt (nelle stesse due lingue, zyt e ze/irtu), che nulla hanno a che vedere con il greco elaia, elaion. A Occidente, le testimonianze archeologiche dell’olivo sono comunque leggermente piú tarde. A Creta, pollini e altri resti di olivo sono stati identificati in strati della
In alto un olivo forse secolare. La pianta è molto longeva, ma poiché il centro del fusto si decompone e diventa cavo con gli anni, non se ne può determinare l’età con gli anelli. In basso rametti d’olivo in oro, dalla regione del Mar Nero. III-II sec. a.C. Collezione privata.
prima metà del lII millennio a.C., mentre nell’entroterra miceneo evoluzioni simili si collocano tra la fine del lII millennio e la soglia del 2000 a.C. Nel Il millennio a.C., Creta, le isole e la Penisola greca divennero ben presto produttori intensivi ed esportatori di olio. Nella nostra Penisola, dobbiamo scendere fino alle ultime fasi dell’età del Bronzo, se non agli albori dell’età del Ferro, per identificare le prime tracce certe di olivo coltivato. Poiché l’Italia è costituita per circa l’80% del suo territorio da rilievi collinari, il rapido sviluppo delle colture dell’olivo e della vite, e delle tecnologie di sistemazione su vasta scala dei pendii destabilizzati dall’agricoltura, ebbe probabilmente un ruolo simile a quello giocato, in Oriente, dall’irrigazione artificiale. Il coordinamento degli investimenti agricoli fu essenziale nel legare ulteriormente i gruppi tribali ai propri territori, e si trasformò in uno stimolo essenziale di coagulazione politica. Rispetto ai terreni alluvionali sottostanti, gli oliveti, che salivano a ridosso degli insediamenti fortificati sulle sommità collinari, potevano essere piú facilmente controllati e difesi. Gli aristocratici scoprirono una nuova fonte di ricchezza ad alto reddito, e un simbolo di prestigio nobile ed esclusivo.
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OLIO
Ad Atene, agli inizi del VI secolo, Solone proibí l’esportazione di qualsiasi prodotto agricolo che non fosse olio d’oliva. Da allora, gli Ateniesi furono costretti a importare grano da altre regioni, squilibrando gravemente la propria economia e alimentando il divario economico e sociale tra i grandi e i piccoli proprietari. Ben presto, il paesaggio attico si colorò per sempre di bruno chiaro e bianco: gli olivi, infatti, non contribuivano al consolidamento dei terreni e alla formazione dello strato umico superficiale, e le frequenti arature su pendio finivano per alimentare erosione ed esporre i substrati di terreno calcareo sterile. Nel IV secolo a.C. Platone avrebbe commentato in toni sconsolati le distese In alto raccolta delle olive nella regione di Corinto, in Grecia. Nella pagina accanto resti di un frantoio del Il sec. d.C. a Thuburbo Majus, in Tunisia. A sinistra la raccolta delle olive raffigurata in uno dei riquadri di un grande mosaico pavimentale concepito come calendario agricolo, rinvenuto nel 1891 nei pressi di SaintRomain-en-Gal. III sec. d.C. Saint-Gemain-enLaye, Musée d’archèologie nationale.
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calcaree bianche e nude della sua terra, confrontandole con i pascoli e i verdi boschi del passato. Pianta creata dall’uomo, l’olivo aveva sconvolto non soltanto la società ateniese, ma anche le sue piú intime radici rurali.
L’antenato selvatico Il piú antico antenato dell’olivo domestico sembra essere I’Olea chrysophilla, una pianta ancora oggi assai diffusa, con molte varietà leggermente diverse, in Asia e in Africa. Il nome scientifico dell’olivo domestico è Olea europaea sativa; la pianta selvatica si chiama Olea europaea sylvestris o oleastro. I frutti delle varietà selvatiche sono in genere poveri d’olio e difficili da trattare, e solamente secoli di sforzi da parte di genti di ogni canto del Mediterraneo hanno permesso di ottenere le forme attuali e i benefici che esse comportano. L’olivo è una pianta sempreverde molto esigente: ha bisogno di abbondanti bagni di sole e di luce, di temperature medio-alte
d’estate e fredde – ma non troppo – d’inverno (un albero adulto può resistere a temperature di -11 °C, ma un esemplare giovane muore di solito a -7 °C). Si adatta a molti tipi di terreno, compresi suoli poveri di frazione organica e ricchi di frammenti rocciosi; tollera bene la siccità, ma non i ristagni idrici. È notoriamente una pianta longeva, che può vegetare per secoli, ma poiché con lo sviluppo il centro del fusto si decompone e si trasforma in una cavità, non se ne può valutare l’età contando gli anelli. Le caratteristiche climatiche dei vari Paesi mediterranei dettano regole piuttosto severe per le piantagioni: se in Grecia si ottengono mediamente 120 olivi per ettaro, in Galilea gli olivi si piantano a intervalli regolari di 10 m, con una densità media di 100 piante; in Spagna 90, in Italia circa 85, mentre nei terreni peridesertici di Tunisia e Libia si possono raggiungere densità di 30 piante (sempre per ettaro). Un albero produce mediamente da 8 a
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OLIO
30 kg di olive, sino a raggiungere, in casi eccezionali, i 50 kg. Il metodo tradizionale di coltivazione, descritto anche dagli agronomi romani Catone il Vecchio e Columella, si basa sull’innesto di rami e polloni sulle piante che l’esperienza indica come particolarmente fruttuosa. Gli olivi danno un raccolto abbondante ogni due anni, cosa puntualmente osservata e commentata dagli scrittori dell’antichità. Le olive si raccoglievano (e ancora si raccolgono) manualmente, oppure stendendo a terra, attorno ai fusti, reti e teli e battendo gli alberi per distaccare i frutti (bacchiatura). In un testo biblico, il Deuteronomio, si raccomanda, al proposito, che le olive cosí raccolte siano destinate al proprietario del fondo, mentre quelle rimaste sull’albero (presumibilmente, le meno mature) siano lasciate a disposizione degli stranieri di passaggio. Varrone prescrive di battere i rami delle piante con frasche, e non bastoni, per non danneggiarli; consiglia anche di raccogliere manualmente le olive migliori prima di procedere alla battitura.
La stagione della raccolta Come si svolgeva la lavorazione dell’olio nel mondo antico? La raccolta avveniva da ottobre ai mesi primaverili, a seconda del luogo, della maturazione e della qualità dei frutti e, spesso, era appannaggio della manodopera femminile. Gli uomini si occupavano delle altre attività, come la ripulitura e l’aratura del terreno, alla fine dell’inverno; l’arricchimento del terreno con piante vive interrate (il «sovescio»), a marzo; una seconda aratura in primavera avanzata, negli anni alterni della raccolta; la potatura delle piante e l’innesto di nuovi rami; la concimazione del terreno con i resti della spremitura delle olive; e, quando necessario, l’irrigazione artificiale.
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In alto ciotola piena di olive, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto le grandi leve munite di pesi di una pressa per l’olio a Maresha (Israele). Età ellenistica.
Le donne intervenivano anche nella prima fase di trasformazione delle olive, cioè la pigiatura e la rottura, che avveniva entro superfici o vasche scavate nella pietra dotate di canali di scolo e piccole cavità emisferiche o «cuppelle» per la raccolta dei liquidi, oppure in mortai di legno. Il pozzetto sottomarino colmo di noccioli (in parte rotti) scoperto al largo di Haifa (5500 a.C.) era a fondo concavo, e rivestito internamente di pietre larghe e lisce che forse fungevano da filtro per l’olio. La pasta oleosa che si otteneva dalla prima pigiatura e rottura era poi spremuta entro sacchi di fibra vegetale oppure di crine, che potevano essere collocati entro altre apposite vasche o canalette, e schiacciati coi piedi, con tavole lignee o anche con grosse pietre. Col passare dei secoli, la tecnologia dell’olio si perfezionò e divennero di uso comune dispositivi compositi in pietra e legno sempre piú complessi. Presse dotate di grandi leve lignee munite di grandi pesi, con vaschette di raccolta centrali o laterali, erano probabilmente in uso nella Creta minoica, ed erano già comuni nella tarda età del Bronzo (XlII secolo a.C.) del Levante, dalla Siria a Cipro. L’introduzione del frantoio rotante, azionato dall’uomo o dagli animali, è stata datata al secondo quarto del I millennio a.C., vale a dire alla media età del Ferro; i primi esemplari fecero la loro comparsa nella regione siro-palestinese e sul versante anatolico. Gli scrittori romani ci hanno tramandato, per i dispositivi di questo tipo, il nome della solea, letteralmente «suola da scarpa», associata a una infrastruttura chiamata canalis, delle molae, e di un dispositivo chiamato tudicula, descritto come una specie di macchina verticale adatta a schiacciare piccoli quantitativi di olive per volta; sarebbe stata riconosciuta in un dispositivo bronzeo di forma rettangolare rinvenuto frequentemente
Sogni premonitori
N
ato a Efeso e vissuto a cavallo fra II e I secolo a.C., il geografo Artemidoro, viaggiò dalla costa dell’Asia Minore alle isole e all’entroterra greco, come in Italia. Sembra che in ogni luogo si dilettasse a interrogare gli indovini girovaghi; quanto appreso gli permise di legare indissolubilmente il suo nome al piú famoso trattato oniromantico (cioè di interpretazione dei sogni) del mondo antico. Che cosa scrive dunque Artemidoro a proposito dell’olivo? Poiché l’albero, come la quercia, cresce lentamente, il sogno annuncia qualcosa che giunge altrettanto lentamente. Il presagio, se l’albero è fiorente e ben saldo sulle radici, è tutto sommato favorevole: l’albero è legato alla donna, alle gare sportive, al principio del comando e alla libertà: la corona di foglie d’olivo preannuncia matrimoni con donne libere, e figlie femmine che vivranno a lungo; fama agli atleti e benessere ai poveri. Ma i sogni, per essere favorevoli, devono essere coerenti. Artemidoro racconta di un tale che aveva sognato che dal suo orcio di vino nascesse un olivo; quanti bevettero il vino morirono, perché il sogno, in realtà, rivelava che nel vino era affogata una vipera. Al contrario, un altro sognò che dalla testa gli spuntasse un olivo: decise di darsi alla filosofia ed ebbe successo, perché l’albero era sacro ad Atena, dea della saggezza. Se l’albero è positivo, negativi sono le olive e l’olio. Sognare la raccolta delle olive non è un buon segno per gli schiavi: le olive si distaccano mediante battitura, e quindi per essi saranno bastonate. La raccolta delle olive preannuncia fatiche e pene, e bere l’olio avvelenamento e malattie. «Dei capperi, delle olive, degli intingoli e di ogni altra cosa del genere ho tralasciato apposta di parlare, perché è evidente che non sono di buon augurio».
in siti romani nordafricani che producevano grandi quantità di olio. Vi è infine il trapetum, che molti considerano un tipo di frantoio perfezionato, con fulcro rialzato e superfici concave, simile ai frantoi rinvenuti in molti siti della Penisola, tra cui la villa di Boscoreale presso Pompei. I dati indicano con chiarezza che i frantoi rotatori avevano raggiunto l’Italia dalla Grecia, in forma già pienamente evoluta.
Le sei varietà principali Anche per gli antichi l’olio ottenuto dalle prime olive raccolte – detto a Roma «olio verde» od «olio d’estate», oggi chiamato «olio vergine» – era piú saporito e verde di quello del successivo raccolto. Varrone e Catone il Vecchio raccomandano l’immediata spremitura delle olive raccolte; ma poiché la cosa era in genere impossibile, le olive di qualità inferiore venivano immagazzinate all’interno degli edifici rurali o sui tetti. Dopo la rottura, il prodotto piú fine veniva estratto senza pressione, lasciando colare la polpa sotto il suo stesso peso. Erano questi gli oli di maggior costo e pregio, spesso destinati ai rituali dei templi e alle aristocrazie. Nel Levante, sulla polpa si usava gettare acqua bollente, che faceva galleggiare l’olio in superficie, cosí da poterlo facilmente schiumare. Nel corso dei secoli e nelle varie regioni le tecniche usate nell’antico mondo mediterraneo variavano, combinando procedimenti di spremitura e separazione ad acqua calda. Le fonti indicano che, oltre all’olio vergine, universalmente ricercato, diverse culture del Mediterraneo riconoscevano almeno altri cinque tipi di olio: quello della rottura iniziale, quelli della prima, seconda e terza spremuta, e l’olio ricavato dai tondi di spremitura, cioè dalla feccia (che del resto aveva infinite applicazioni tecniche: concime, antisettico e disinfestante per piante e animali, conservante di cibi, combustibile). Questi sei tipi di olio vanno moltiplicati per le diverse varietà di frutti coltivati in ogni contesto: nel mondo antico, le varietà conosciute di olio d’oliva non erano certo minori di quelle dei nostri supermercati.
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La pianta
«perfetta» Originaria, come specie domestica, delle sponde del Golfo Persico e delle valli del Baluchistan, la palma da dattero permise lo sviluppo delle società umane nelle oasi dei deserti, e ne promosse l’economia con molti, e spesso sorprendenti, «prodotti derivati» | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 80 |
N
el Sud della Penisola Indiana, milioni di persone parlano ancora oggi lingue dravidiche (non indoeuropee): le principali sono il tamil (Tamil Nadu e Sri Lanka), il telegu (Andhra Pradesh) e il malayam (Kerala). E proprio due parole proto-dravidiche cintu e íntu, secondo alcuni linguisti, avrebbero dato il nome all’intero Paese. Il termine India, infatti, viene dal persiano hind e dal sanscrito sindhu (l’Indo e l’attuale terra del Sindh, nel Pakistan meridionale, bagnata dallo stesso fiume).
Che cosa significavano le due parole preistoriche cintu e íntu? «Palma» e «dattero». Secondo alcuni studiosi, quindi, l’India sarebbe stata da tempo immemorabile «la terra dei datteri»; e il piccolo e dolce frutto avrebbe dato il nome a una delle piú diffuse, intricate e sorprendenti religioni del mondo. Tuttavia, basta una breve ricerca per rendersi conto di quanto poco si sappia sulle origini della palma da dattero o Phoenix dactylifera (il nome latino ha origini poco chiare: la tradizione antica lo spiegava associando la pianta a uccelli mitici o divini, oppure al popolo dei Fenici, che ne avrebbe propagato la coltivazione). Le regioni o i Paesi che oggi sembrano contendersene la «primogenitura» includono, oltre all’India, la Penisola Arabica e l’Oman, le sponde del Golfo Persico, l’insieme formato da Egitto e lraq, la Siria, Israele, diversi Paesi e regioni del deserto nord-africano, il Senegal e perfino la Spagna. Al di là delle pretese nazionalistiche, possiamo basarci sui dati parziali, ma oggettivi, dei rinvenimenti archeologici.
Le testimonianze piú antiche L’uomo deve avere avuto dimestichezza con le piú importanti proprietà alimentari delle piante della famiglia della palma da tempi molto remoti. Per esempio, alcune popolazioni aborigene dell’Australia, tra le pochissime comunità di raccoglitori e cacciatori ancora viventi, sfruttano la palma selvatica chiamata Livistona sp. per raccoglierne i frutti, arrostirne le noci e mangiarne il contenuto. Per quanto ne so, i piú antichi noccioli di dattero rinvenuti in un sito archeologico si datano al V millennio a.C. e vengono dall’insediamento di Mehrgarh, nelle pianure di Kacchi (Pakistan), estremo lembo settentrionale della valle dell’Indo che si incunea nel cuore montuoso del Baluchistan settentrionale. Potrebbe trattarsi di datteri A sinistra palme da dattero e un ostrakon sul quale è dipinta una scenetta raffigurante scimmie che staccano datteri dalle palme, da Deir el-Medina. XIX-XX dinastia, 1295-1069 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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PALMA DA DATTERO
provenienti da piante selvatiche, come da esemplari oggetto di una domesticazione incipiente. Per il IV millennio a.C. i dati scarseggiano, soprattutto perché pochi sono i siti scavati; ma tra il IV e il lII millennio a.C. le segnalazioni di noccioli di datteri e pollini di palme si fanno frequenti sia nelle valli subtropicali del Baluchistan, sia lungo le coste e nell’entroterra della Penisola Arabica orientale. La penetrazione della pianta verso ovest, cioè verso le pianure del Tigri e dell’Eufrate e verso la valle del Nilo deve
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Mosaico raffigurante una palma da dattero fra due cavalli, Adorandus e Crinitus, che facevano parte della scuderia di un ricco allevatore di Hadrumetum (Sousse, Tunisia). Fine del II sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.
essere stata rapidissima. In Egitto, dove alla palma si ispirano i segni geroglifici usati per «anno» e per «mese», già nella capitale predinastica di Hierakonpolis (seconda metà del IV millennio a.C. ), la birra si addolciva con la polpa dei datteri. Nel lII millennio a.C., la palma compare già raffigurata, in perfetto dettaglio e nel pieno del rigoglio, sugli splendidi vasi in clorite di Jiroft (Iran sud-orientale), cosí come sui sigilli circolari delle culture della costa settentrionale della Penisola Arabica (Bahrein e Failaka).
Una famiglia prestigiosa
P
er i botanici, le palme si chiamano Arecacee. Sono una grande famiglia di piante che affondano le radici (si fa per dire) nella piú remota preistoria del pianeta e che, con le loro 2500 specie, hanno popolato gran parte dei Tropici e delle regioni subtropicali. Si sono adattate a diversi tipi di ambienti, dalle foreste tropicali alle steppe desertiche e alle paludi lagunari. Come famiglia, forniscono all’uomo i prodotti piú svariati. La palma da cocco, per esempio, oltre all’acqua e alla polpa ricca di olio, fornisce – traendole dal guscio – fibre utilizzabili. Da numerose altre specie si possono poi ricavare fibre, olio, alcool, zucchero, grasso, cera. Persino la noce del betel, che contiene un alcaloide ed è ricca di sostanze medicinali, viene da una palma: la palma dum (Hyphaene thebaica). Infine, si ottiene il cosiddetto avorio vegetale, usato in passato per bottoni e lavori di intaglio, e oggi, tinto di rosso, per essere spacciato agli inesperti come una pregiata varietà di corallo oceanico.
La convenzione iconografica rimase praticamente invariata per due millenni: in queste immagini, come nei celebri rilievi assiri, la palma compare in modo bi-dimensionale, come appiattita in un incredibile erbario di pietra tenera.
Una domesticazione tardiva Allo stato attuale delle conoscenze, per tracciare l’areale originario della domesticazione della palma da dattero si dovrebbe disegnare una grande ellissi allungata sulle due sponde del Golfo Persico, dall’Oman al confine sud dell’Afghanistan, con un asse inclinato da sud-ovest a nord-est. In termini evolutivi, se pensiamo che la domesticazione dei cereali era già compiuta in buona parte dell’Asia meridionale verso l’8000 a.C., quella della palma da dattero fu indubbiamente tardiva. Ma per quali ragioni? Proviamo a cercare una risposta. Le palme da dattero ben sopportano terreni fortemente salini; temono l’ombra, e, per fruttificare, necessitano, tra la tarda primavera
Particolare del mosaico nilotico di Palestrina nel quale si riconosce una palma da dattero. Realizzata da artisti alessandrini alla fine del II sec. a.C., l’opera potrebbe derivare da un originale pittorico dell’epoca di Tolomeo Filadelfo ed è uno dei piú grandi e importanti mosaici ellenistici conservati. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
e l’estate, di temperature costanti, comprese fra 30 e 40 °C. Nella stagione di maturazione dei datteri non deve piovere; l’umidità causerebbe la fessurazione e l’annerimento dei frutti. Ambienti desertici pianeggianti, anche privi all’inizio di suoli biologicamente ricchi, ma con una falda freatica alta, oppure dove – a intervalli regolari – siano disponibili discrete quantità di acqua dolce, rappresentano gli habitat piú adatti alla coltivazione. I terreni utilizzati per la palma da dattero, in altre parole, non coincidono con quelli normalmente piú congeniali alle colture dei cereali. Poiché i terreni vergini, mai coltivati, sono scarsamente permeabili e non permetterebbero alle piante di assorbire l’acqua in profondità, le palme si sviluppano meglio in lotti in cui siano stati precedentemente coltivati cereali, soprattutto l’orzo. Poi c’è il problema dei fertilizzanti. Anche se piantate in terreni poveri, le palme reagiscono subito positivamente all’aggiunta di materiale organico. Il metodo piú semplice, in Asia meridionale,
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PALMA DA DATTERO
Foglie come spade sacre
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el Corano la palma da dattero è chiamata «l’albero benedetto»; nei testi ispirati da Dio al Profeta, la pianta viene nominata molto spesso. Nella narrazione della nascita di Cristo, Maria è guidata da una voce soprannaturale a ripararsi sotto le sue fronde («Agita verso di te il suo tronco, e ne cadranno datteri maturi»); e la prima moschea costruita dal Profeta a Medina aveva colonne di tronchi di palma e soffitti di foglie di palma intrecciate. Durante il Ramadan, il mese di digiuno, ai musulmani è consentito trovare sollievo in una manciata di datteri e un sorso d’acqua. Insieme a grano, orzo, vite, fico, melograno e olivo, la palma da dattero fa parte delle sette specie vegetali considerate sacre dalla tradizione ebraica, i cui simboli furono riprodotti per secoli nella scultura, nei mosaici e nelle arti minori. Il nome ebraico della pianta, tamar, viene usato come sostantivo femminile ed è legato a connotazioni di bellezza fisica. Per la sua ininterrotta fertilità, il tronco svettante e le chiome innalzate al sole, e la forma delle foglie, sottili, incurvate e taglienti come lame di spade, la palma da dattero era associata a idee di vittoria, regalità, abbondante discendenza. Nella storia delle guerre combattute per la Terra Santa, il ramo di palma fu usato sia dagli Ebrei, sia da conquistatori stranieri come il piú ovvio simbolo di trionfo. E quando i Romani, durante l’assedio di Gerusalemme del 70 d.C., distrussero i palmeti e il
consiste nel legare per 3 o 4 giorni, a turno, una capra al fusto di ciascuna palma. Ciò va fatto in inverno, in modo che per l’estate, quando la pianta ha bisogno del massimo apporto nutritivo, il suolo sia già arricchito.
Terreni marginali Una volta avviato il ciclo, gli animali potevano essere foraggiati, a loro volta, anche con i noccioli dei datteri. Terreni marginali, quindi, preferibilmente già intaccati dall’agricoltura, con abbondanza d’acqua fresca e allevamento caprovino: ecco la ricetta ottimale per le palme. Terreni di questo tipo abbondavano, tra le pendici dei rilievi dell’altopiano iranico, del Baluchistan e in limitate oasi della Penisola Arabica, in regioni marginali dal punto di vista
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resto della vegetazione per un raggio di circa 10 km intorno alla città, per poi seminare a terra il sale, erano ben consci di distruggere, insieme a una fondamentale risorsa economica ereditata dagli avi, un importante simbolo di orgoglio politico per l’intera comunità ebraica.
In alto Roma, basilica di S. Cecilia. Particolare del mosaico del catino absidale raffigurante papa Pasquale I, al quale si deve la costruzione della chiesa, sotto le fronde di una palma da dattero. 820 circa.
dei grandi interessi agricoli, ma strategiche perché spesso ospitavano importanti nodi commerciali lungo le piste carovaniere. A questo punto possiamo comprendere il perché dello «scoppio ritardato» della coltivazione della palma: solo lo sviluppo di forme di agricoltura estensiva basata sui cereali nelle maggiori pianure fluviali, a partire da lontani albori neolitici, aveva permesso di accumulare ricchezze nei centri principali, e di sviluppare forme di differenziazione sociale che richiedevano un afflusso crescente di materiali di lusso. Ciò comportò lo sviluppo fruttuoso dei modi di vita basati sui commerci a lunga distanza, e importanti gruppi di allevatori nomadi trovarono nuove prospettive economiche.
L’incremento economico e demografico nelle oasi rese necessarie nuove forme di agricoltura intensiva: il metodo tradizionale di coltivazione, infatti, ancora oggi prevede che nelle oasi le palme siano allineate a distanze fisse, alternate ad altre piante (verdure a radici poco sviluppate per le palme giovani, alberi da frutto per quelle già sviluppate). Datteri, pistacchi, mandorle, albicocche potevano essere facilmente seccati, immagazzinati, e rivenduti con alti profitti insieme a merci di pregio. L’«invenzione» di simili economie delle oasi, basate sulla gestione manageriale e la predazione delle carovane, come su forme inedite di agricoltura e allevamento intensivi in zone prima del tutto marginali, giocò un ruolo di primo piano nella crisi delle grandi civiltà urbane, che investí l’Asia meridionale a partire dal 2000 a.C. circa. Ma quanto tutto ciò fosse realmente rivoluzionario, divenne chiaro soltanto nel VI secolo d.C. La produttività delle palme era tale che i datteri si rivelarono molto piú economici dei cereali: un cibo povero ed egualitario, cosa che ben si confaceva ai dettami dell’Islam.
A destra mosaico raffigurante una palma da dattero. dalla sinagoga di Hamman (Tunisia). VI sec. d.C. New York, Brooklyn Museum. In basso rovescio di un sesterzio battuto al tempo di Vespasiano per celebrare la conquista della Giudea. 71 d.C. Gerusalemme, Bible Lands Museum. Sul pezzo compaiono l’imperatore, stante e armato, di fronte a una palma da dattero ai cui piedi è seduta una figura femminile che rappresenta la Giudea prostrata.
Un alimento ideale I datteri sono ricchi di carboidrati, potassio, vitamine e fibre, e poveri di grassi e di proteine; una soluzione eccellente per bilanciare la dieta, soprattutto presso gli allevatori nomadi, era quella di combinare il consumo di datteri a quello del latte. La dieta araba tradizionale si basava su datteri mescolati con orzo, carne di montone, e latte di pecora. Con queste razioni, un’improbabile alleanza di tribú di allevatori nomadi dell’arida Arabia, sotto un Profeta ispirato direttamente da Dio, iniziò a trasformarsi rapidamente in una spietata macchina bellica, e in uno dei piú potenti imperi universali mai esistiti. Fermiamoci a guardare una Phoenix dactylifera. Il tronco, snello e flessibile, formato dai monconi basali delle foglie progressivamente generate e cadute, cresce
di circa 30 cm all’anno nel primo lustro, per poi rallentare sensibilmente. I fusti possono raggiungere un’altezza che oscilla tra i 12 e i 30 m o piú; sopra, svetta una corona di foglie pinnate e lucenti, che possono raggiungere anche i 6 m di lunghezza. Le foglie emergono da un «fodero» che si lacera in fibre slabbrate che rimangono alla base del gambo. Le foglie sommitali svettano in alto verticali, quelle già cresciute formano archi eleganti verso il basso. Nelle oasi asiatiche, quando alla
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PALMA DA DATTERO
tagliati e legati, capovolti, sulle infiorescenze femminili. La propagazione tramite semi poteva avvenire da oasi a oasi, quando i semi dei datteri portati sul cammello come razioni da viaggio erano dispersi al suolo dai nomadi, oppure sparsi intenzionalmente. Le palme spesso si ottengono piantando polloni, tagliati intorno ai 3-6 anni di età. Pare che in tal modo una palma, ogni anno, possa produrne altre due, lungo un arco di 10-15 anni. In presenza di acqua sufficiente all’irrigazione, le dimensioni dei palmizi potevano estendersi con lentezza, ma a dismisura. Un albero femmina (quelli maschi sono sterili) può generare ogni anno anche piú di 1000 datteri, divisi in grandi grappoli da una dozzina di kg l’uno. Una palma inizia a produrre datteri commestibili intorno all’ottavo anno di vita, e si pensa che giunga a maturità intorno ai 30 anni. I primi raccolti saranno di 8-10 kg di datteri all’anno, ma già intorno al tredicesimo anno il prodotto sarà di 50-80 kg. Le palme migliori possono poi continuare a fruttificare per oltre un secolo. Una sola pianta, teoricamente, nel corso del suo arco vitale, potrebbe produrre fino a 70-80 quintali di datteri! Nelle tradizionali economie delle popolazioni fine dell’inverno imbrunivano e cedevano, erano subito tagliate con un falcetto, per permettere la crescita piú efficace dei fiori. I fiori femminili, biancastri, emergono su uno spadice (si dice proprio cosí) lungo 30-70 cm, che ne può portare sino a 10 000, e che si muterà in un pesante grappolo di datteri, ricurvo verso il basso; le infiorescenze maschili sono molto meno vistose. I datteri maturi, di colore bruno, giallastro o rosso vivo, possono raggiungere gli oltre 7 cm di lunghezza. Senofonte, nell’Anabasi, ravvisava nei datteri dei Persiani «il colore dell’ambra».
Impollinazione artificiale Nelle piantagioni, la tecnica comune è quella di piantare una pianta maschio ogni 50 femmine. L’impollinazione è artificiale. Gli agricoltori salgono sulle palme e i fiori maschili vengono
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In alto palme da dattero in un’oasi dell’Arabia Saudita. A destra cinque bottiglie in vetro a forma di dattero, forse da Gaza. I-III sec d.C. Haifa, Hecht Collection, Università di Haifa.
adattate alle zone aride o semi-aride, dall’Africa al Pakistan, la palma da dattero è veramente un albero dai mille usi. Il tronco, in molti paesaggi arborei, è uno dei pochi a essere lungo e rettilineo; di natura fibrosa, è tenero e poco resistente al degrado (un tronco di palma, una volta messo in opera in una costruzione, raramente sopravvive all’umidità e allo stress per piú di 4-5 anni); ma questi suoi difetti sono ampiamente compensati dalla leggerezza, dalla flessibilità e dal basso costo. I tronchi sono infatti perfetti come materiale per recinti e sostruzioni, come per travi da tetto per tettoie e costruzioni temporanee. Dopo la raccolta dei frutti, i grappoli sono usati come scope.
In basso disegno raffigurante una palma da dattero, il grappolo dei frutti maturi e un dattero spaccato in due, che mostra il nocciolo all’interno.
Sfruttamento integrale Ancora secondo Senofonte, i Babilonesi consideravano le foglioline di palma appena spuntate una vera e propria ghiottoneria. Le foglie sono usate per costruire pareti e tetti, come materia prima da tingere e intrecciare per fabbricare ventagli, cappelli, cesti e stuoie, mentre dagli steli piú spessi si ottengono paletti e materiale ligneo per piccoli oggetti; da tronchi e fogliame si ottengono funi e cordami. Dai noccioli e dai datteri immaturi si otteneva foraggio per gli animali domestici (anche il grande naturalista e scrittore romano
Viatico del pellegrino
A
ncora nel Duecento, ha scritto lo storico Reay Tannahill (1929-2007) nel libro Food in History (Il cibo nella storia), l’hais era considerato il cibo perfetto per chi si metteva in strada. Eccone la ricetta: prendete mezzo kg di pan grattato e impastatelo con 375 g di datteri snocciolati, con la stessa quantià di mandorle, e altrettanto di pistacchi. Aggiungete alcuni cucchiai di olio di sesamo e rendete il tutto un impasto omogeneo. Formatelo in palline e cospargete di zucchero a velo. Con una simile «bomba calorica» si poteva viaggiare per giorni in perfetta autonomia.
Plinio il Vecchio ricordò che in Egitto i maiali si nutrivano a forza di datteri). Contenendo tannino, i datteri sono astringenti e potevano essere usati nella cura di malesseri intestinali. Possono essere farciti, fatti a pezzi o in paste, e consumati con cereali, in zuppe, creme, pani, dolci, biscotti. Oltre a consumare i frutti freschi, e a conservarli per lungo tempo tramite essiccatura, quasi tutte le culture delle regioni subtropicali e tropicali impararono a ottenere dai datteri succhi o sciroppi densi e dolcissimi, ma anche una specie di vino o birra, ricavati dalla fermentazione dei succhi fatti stillare dalla base delle infiorescenzee raccolti in vasi di terracotta sospesi con corde; e dai vini si possono ottenere alcuni tipi di aceto. I noccioli potevano essere perforati e indossati come perline, e gli orefici li usavano come combustibile. Difficile dar torto al folklore arabo, secondo cui la pianta avrebbe ben 360 usi diversi! Ma non è tutto. Sfruttando principi e potenzialità che, in molti casi, sono noti da millenni, l’industria moderna sta dilatando enormemente le possibili forme di sfruttamento dei prodotti derivati dalla pianta. Dalle foglie si ricavano nuovi tipi di foraggio e un tipo di carta. Materiali ottenuti dai datteri trovano poi impiego nella produzione di cibi per neonati, di yogurt e altri prodotti a base di latte fermentato, di acido citrico e caramello, di speciali mangimi per polli, uccelli, pesci e ovini, e persino di liquidi per l’allattamento artificiale di buoi e bufali neonati. Altri prodotti collaterali della lavorazione dei datteri sono usati nelle industrie del ketchup, delle bevande dolci gassate (i cosiddetti soft drink), delle marmellate, del lievito, e in alcune forme di panificazione. Ennesimo «terminale» industriale dei derivati del dattero sono le merendine dolci, che spesso ne utilizzano paste zuccherose e, a volte, addirittura i pollini. Le fibre di risulta trovano impiego nella produzione di filtri per tubazioni e materiale da imballaggio.
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Questioni di caprina
lana
Le antenate selvatiche di capre e pecore rientravano nell’ampio novero delle prede cacciate dall’uomo. All’indomani della loro domesticazione, lo scenario cambiò radicalmente ed esse furono allevate e accudite con ogni cura. Per assicurarsi, innanzitutto, le preziose fibre che il loro pelo era in grado di fornire | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 88 |
N
el sito di Mal’ta, in Siberia centrale, circa 24 000 anni fa, sorgeva un accampamento stagionale di cacciatori nomadi di renne, mammut e rinoceronti lanosi. Archeologi sovietici vi scavarono ben 39 accumuli di ossa animali, anche lavorate, e pietre scheggiate: furono riconosciuti resti di 14 abitazioni, consistenti in capanne seminterrate, con circoli di corna di renna che fissavano alla base coperture in pelli. L’abitato di Mal’ta, inoltre, comprendeva le sepolture di due bambini e l’enigmatica «tomba» di un cucciolo di mammut. Ma perché i cacciatori avevano seppellito con cura, nel loro stesso villaggio e insieme ai due bambini morti, i resti del piccolo elefante siberiano? Forse l’animale era stato portato al campo dopo che il resto del branco era stato attaccato e distrutto; forse lo avevano fatto per divertimento, o forse per pietà; forse, invece, l’animale era stato catturato come possibile riserva di cibo, ed era morto per malattia o in un modo che aveva impedito ai cacciatori di consumarne le carni; o forse, infine, era stato preso e ucciso nel corso di un rituale propiziatorio di cui, oltre al seppellimento, non erano rimaste tracce discernibili.
i primi esperimenti di domesticazione e coltivazione dei cereali selvatici. Lo indicherebbero le piú recenti ricerche dei paleozoologi e dei genetisti. Per esempio, lo studio delle ossa animali trovate nel sito di Hallan Chemi (Turchia sud-orientale), ha rivelato che, nell’intervallo 9500-8500 a.C., ben prima di qualsiasi tecnologia di semina, si verificò un sensibile incremento percentuale delle ossa di maiale; gli animali erano soprattutto femmine abbattute in tenera età, cioè porcellini da latte. L’inizio della domesticazione sarebbe quindi legato al maiale, creatura sedentaria, piuttosto che a bovini, pecore e capre, che richiedono modalità di vita parzialmente nomadiche; e, date le antiche tecniche di conservazione delle carni, ciò potrebbe mettere in una luce del tutto diversa il ruolo della tecnologia del sale nella «rivoluzione neolitica». Se in futuro tutto ciò Statuina di pastore che tiene in braccio un agnello, dalla sumerica Girsu (Iraq). Fine del III-inizi del Il mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Agli albori della domesticazione
Disegno ricostruttivo di un insediamento preistorico simile a quello di Mal’ta in Siberia, con capanne seminterrate fatte con pelli, zanne e corna di animali.
Qualsiasi sia stata la sorte del piccolo mammut, i primi passi della domesticazione avvennero portando ai campi femmine gravide e cuccioli. L’uomo, nella sua evoluzione tecnica, è riuscito ad addomesticare ogni genere di creatura, a partire dal lupo. Vittime dei successivi processi di pressione e selezione biologica, ma anche di reciproco adattamento, furono le creature piú svariate, come il tacchino e la folaga, il lama, il cinghiale, il porcellino d’India, i bovidi e i caprovini, e persino farfalle, come il baco da seta. Alcuni scienziati oggi sostengono che la domesticazione del maiale, dei bovini e dei caprovini fu probabilmente il prerequisito della vita sedentaria, e che l’innovazione precedette
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LANA
sarà confermato, significherà che l’uomo fu prima pastore, e poi agricoltore: una differenza non da poco. In fondo, è quanto sostenevano su basi puramente intuitive i primi «paletnologi» dell’Illuminismo nel XVIII secolo. Le nuove scoperte sottolineano anche quanto misteriose siano effettivamente ancora oggi le dinamiche di questo processo. L’antenata principale della capra domestica (Capra aegagrus) aveva una distribuzione naturale piuttosto limitata e prediligeva il pascolo su pendii erti, il che la rendeva un bersaglio di caccia piuttosto facile, specie se confrontata
Nella pagina accanto, in alto statuine in terracotta in forma di pecore, da Ebla. 1800 a.C. circa. Vienna, Collezione privata. Qui sotto statuette di musicanti che vestono un abito in lana, dal tempio di lshtar a Mari. III-II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
all’antenata della pecora (Ovis orientalis), che invece si muoveva in zone pianeggianti o ondulate, ed eccelleva nella corsa. Molti concordano nell’affermare che i primi caprovini addomesticati nel Vicino Oriente furono le capre, seguite dalle pecore (Anatolia sudorientale, zone nord-orientali dello stesso Vicino Oriente). Se la domesticazione di capre e pecore abbia avuto un’unica origine, o se essa si sia sviluppata indipendentemente in piú luoghi e regioni, resta ancora oscuro.
Solo una questione di taglia? Gli zoologi hanno tradizionalrnente basato gran parte delle loro teorie sull’assunto secondo il quale la domesticazione avrebbe comportato una graduale e costante riduzione della taglia degli animali, poiché si basava sul mantenimento delle femmine e sull’abbattimento sistematico dei maschi piú combattivi e refrattari alle nuove condizioni, quindi fisicamente piú reattivi. Nelle parole della zoologa Melinda Zeder (Smithsonian
Il trattamento delle fibre
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opo la tosatura, la lana doveva essere sottoposta a operazioni di lavaggio supplementare in acqua fresca corrente. Seguivano operazioni di cardatura o pettinatura, allo scopo di separare, omogeneizzare e orientare in modo uniforme le fibre; alcune tecnologie separavano a questo stadio anche fibre di diversa lunghezza per destinarle a diversi tipi di filati. La colorazione avveniva, dopo queste fasi preliminari, in impianti a vasche, nei quali il mezzo universale per sciogliere e fissare i principi colorenti era l’urina. La fibra cosí trattata veniva poi sottoposta a ulteriori lavaggi, quindi e accurati processi di torcitura in lucignoli compatti, di spessore omogeneo, dai quali poi filavano manualmente, mediante torsione e trazione, fili di diverso spessore e qualità. La tessitura, con telai di vario
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lnstitution): «Se doveste scegliere gli animali del vostro branco, preferireste il montone testardo e ribelle o la pecora docile e imbranata con gli occhiali?». Malgrado ciò, questa teoria funziona per alcuni animali, e non per altri (per esempio, non è del tutto chiaro perché creature addomesticate in seguito, come il coniglio, aumentarono di mole, invece di rimpicciolire). Oggi, inoltre, i paleozoologi stanno rimettendo in discussione proprio le teorie che ritenute piú certe: sembra che le strategie di abbattimento degli animali, piuttosto che la riduzione dimensionale, possano effettivamente discriminare la zootecnia dei cacciatori da quella dei primissimi allevatori. Analizzando le ossa di 10 siti tra Iraq e Iran che testimoniano la transizione dal Paleolitico Superiore al Neolitico, Melinda Zeder ha infatti osservato che in tutti i depositi paleolitici, i caprovini maschi erano perlopiú vecchi di almeno 3 anni: evidentemente si cacciavano e si consumavano le bestie di taglia maggiore. Ma nei siti piú tardi, pochi maschi sopravvivevano oltre i 2
tipo, non era che l’ultimo e piú vistoso stadio di un processo che tutti sapevano essere estremamente laborioso e costoso, che coinvolgeva diverse categorie di specialisti, di materie prime e di strumenti.
In basso tavoletta con impronta di sigillo, in cui si riconosce la figura di un uomo al telaio, da Susa (Iran). 3300-3000 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
anni, mentre le femmine raggiungevano e superavano i 3, evidentemente in quanto produttrici di piccoli e di latte. Secondo Zeder, la riduzione dimensionale sarebbe piuttosto dovuta al fatto che in molti siti arcaici pecore e capre erano state ridotte a vivere in denutrizione in ambienti costretti molto sfavorevoli, al di fuori delle regioni e degli ecosistemi in cui erano vissuti i remoti progenitori selvatici.
I prodotti derivati Capre e pecore furono addomesticate come produttrici di carne e latte, come abbiamo detto; ma il quadro d’insieme è reso ancor piú complesso dal fatto che pecore e capre, con la possibilità di trasformare il latte in yogurt, bevande fermentate, burro e formaggio, e, soprattutto, con la lana alle comunità del Neolitico fu possibile intraprendere forme intensive di «produzione secondaria»: di ottenere, cioè, prodotti di trasformazione in parte immagazzinabili e utilizzabili non
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LANA
Un acrobata eccezionalmente adattabile
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a capra, soprattutto nelle regioni semi-aride dell’Eurasia, è spesso vista come una specie di «peste ecologica», in quanto responsabile di gravi processi di distruzione delle coltri vegetaIi, e dei conseguenti processi di deforestazione ed erosione. In realtà, gli squilibri ovviamente dipendono dall’uomo e dalle scelte amministrative, e non dalla pastorizia in sé. L’allevamento
caprino, se ben utilizzato, integra, e non indebolisce altre scelte tecniche. Oggi le capre, nel Vicino Oriente e in Iran, sono mediamente meno care delle pecore, in quanto il mantenimento e la cura degli animali sono meno laboriosi. La capra, infatti, risulta
solamente per la sussistenza, ma anche per organizzare ed esibire consumi «di lusso» e gestire nuove forme di scambio. Presso società fattesi ormai stanziali e demograficamente sempre piú consistenti, l’accumulazione e la distribuzione oculata di beni di questo genere, insieme alle eccedenze
In alto protome in bronzo raffigurante una capra, da Ebla. 1700 a.C. circa. In basso ariete in bronzo, opera greca del IV sec. a.C. che, nel tardo Medioevo, a Palermo, ornava (con una scultura gemella oggi perduta), la fortezza Maniace. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».
maggiormente adattabile, poiché riesce a sopravvivere mangiando qualsiasi tipo di fibra vegetale, persino nelle moderne periferie urbane. Le capre, inoltre, accedono a pendii impervi, altrimenti sfruttati solamente dagli erbivori selvatici, e assumono
dei raccolti, permetteva di segnalare l’esistenza di nuove differenze di rango e di status. Il formaggio è un concentrato alimentare conservabile di tutti i principi nutritivi del latte: proteine, vitamine e minerali indispensabili alla crescita come il calcio, ma anche grassi e colesterolo. Che si tratti di una invenzione tardo-paleolitica diffusasi in età neolitica appare assai probabile.
Un’invenzione inconsapevole La lana è il nome che comunemente si dà alle fibre piú soffici che si ottengono dal pelo delle pecore e delle capre domestiche. La differenza fondamentale che esiste tra la lana e altri tipi di peli naturali è che nella prima ogni singola fibra (spessa circa da 6 a 60 micron, o millesimi di
posizioni di pascolo acrobatiche impossibili alle pecore; le aree di pascolo sono quindi potenzialmente diverse. Oggi, in Iran, ogni capra produce in media 40 kg circa di latte all’anno, che può essere munto e raccolto ogni sera. Mescolato a latte bovino e di pecora, questo latte fornisce un prezioso contributo alle diete locali.
millimetro) è coperta di minute strutture a scagliette, appuntite, e connesse alla fibra principale nella base; sottoposte a pressione, le scagliette si allacciano le une alle altre in strutture permanenti ed elastiche. Ciò permette non soltanto di ottenere fili mediante movimenti di torsione, stiramento e allungamento, ma anche di creare il feltro, nel quale le singole fibre sono fittamente e caoticamente compattate per percussione e pressione. Tra le proprietà piú preziose della lana e delle strutture cosí ottenute vi sono la capacità di isolamento termico (garantita dall’intrappolamento di miriadi di piccole tasche d’aria tra le scaglie), la leggerezza e la capacità di assorbire umidità. La lana fu inventata inconsciamente selezionando gradualmente, nel corso di millenni, gli animali dal pelo migliore. Nelle pecore e nelle capre selvatiche, il pelame si compone principalmente di fibre grossolane e diritte, che non possono essere attorcigliate le une alle altre. Questo pelame «inutile» è scomparso nelle pecore domestiche, ma se queste sono lasciate allo stato brado esso tende a ricomparire e a sostituire la lana. Poiché il pelame delle pecore selvatiche era in natura rossastro, grigio, nero o bruno, la pressione selettiva ebbe tra i suoi scopi principali quello di ottenere varietà bianche, le sole che potessero essere tinte. La lana bianca si colorava con la massima
Rilievo in terracotta con una capra che allatta il piccolo, da Cnosso. 1600 a.C. circa. lraklion, Museo Archeologico.
efficacia anche con pigmenti primitivi, in quanto contiene sostanze organiche capaci di agire spontaneamente come mordenti e fissanti. Dal punto di vista genetico, lo sbiancamento sembra essere stato piú semplice della trasformazione del pelame in lana, e fu quindi ottenuto in età precedente. Alcune varietà furono invece lasciate naturalmente scure, cosí da avere lana colorata per ottenere fili di colore contrastante.
L’importanza del bianco Con il progredire di questa selezione, fu anche necessario «riconvertire» il colore del pelo dei cani addomesticati come compagni dei cacciatori sin dal Mesolitico (12-10 000 anni fa circa): se il pelame scuro era un vantaggio nella caccia, solo un mantello bianco, dello stesso colore di quello delle pecore, permette ai cani da pastore di muoversi efficacemente nel gregge per sorprendere e attaccare eventuali predatori con il vantaggio del numero e della sorpresa. I cani da pastore, in altre parole, dovettero diventare bianchi perché solo pecore bianche potevano fornire lana tinta a colori vivaci usata per i tessuti degli individui di rango. Insomma, capre e pecore furono addomesticate per la carne, per i prodotti secondari o per la lana? La questione è intricata, poiché il consumo di carne e pelli da una parte, e quello di latte e lana dall’altra sono
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LANA
idealmente poco compatibili. Per alcuni, la domesticazione, ebbe inizialmente come scopo il consumo di carni e pelli (ampiamente testimoniato, tra l’altro, dallo strumentario in selce del Paleolitico Medio e Superiore). Carne e pelle erano verosimilmente gli unici obiettivi, dato che il pelo degli antenati selvatici non aveva le caratteristiche che sarebbero state cosí preziose nelle pecore successivamente selezionate per la lana. Altri, invece, hanno sottolineato come alcune varietà di pecore selvatiche, soprattutto se adattate a regioni di altura e a climi nevosi, sviluppino naturalmente mantelli invernali piú soffici e morbidi. Se pensiamo che tra Iran e Iraq gran parte dei siti con strumenti litici musteriani (le industrie associate al Paleolitico Medio e in Asia Centro-meridionale ai Neandertaliani) si trova a quote superiori ai 1000 m, è davvero difficile ritenere che i
Nella pagina accanto rocchetti in terracotta e fusi in bronzo di età villanoviana (X-VIII sec.a.C.). Bologna, Museo Civico Archeologico. A destra gomitoli di lana. In basso rilievo con contadini che raccolgono legumi e mungono le pecore. l-II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.
La tosatura
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elle pecore domestiche, la lana proveniente da diverse zone del pelame varia notevolmente in termini di lunghezza, finezza e struttura complessiva. In genere, quella proveniente dai fianchi, dalle spalle o dal petto è considerata superiore a quella estratta da altre parti del corpo. In alcune varietà di lana è determinante la giovinezza dei capi. Le fibre si potevano staccare a strappo (tecnica menzionata come antica già da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia) o con una lama in selce (curioso: questo particolare utilizzo non è mai stato riconosciuto, a quanto ne so, dagli specialisti di tracce d’uso sugli strumenti in pietra scheggiata). Piccole quantità di lana si possono ottenere anche dalle pelli degli agnelli macellati a scopo alimentare. Con lo sviluppo della metallurgia, fu infine
cacciatori del tempo non avessero notato il fenomeno. Dato che molto probabilmente la capacità di intrecciare fibre e fare corde risale proprio all’intervallo tra i 200 000 e i 40 000 anni fa, come testimonierebbe il rinvenimento nei siti coevi di palle in pietra levigata (da usare un po’ come le bolas argentine) i primi tentativi di torcitura del vello in fibre potrebbero essere stati fatti proprio allora. Comunque, nessuno, sino a oggi, ha potuto dimostrare l’effettiva lavorabilità della lana dell’Ovis orientalis allo stato selvatico. I rinvenimenti archeologici, in questo caso e abbastanza stranamente, non sono molto rivelatori. I campioni di tessuti
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possibile usare rasoi, e, piú tardi, arnesi da taglio specializzati, che consentivano di giungere ancor piú efficacemente alla base del pelo, senza ferire la pelle degli animali: le forbici in ferro che compaiono nelle sepolture di tipo celtico dell’Italia settentrionale, alla fine dell’età del Ferro, per esempio, certo sottolineano con orgoglio lo status del defunto di fortunato possessore di grandi greggi e di facoltoso mercante di lane. Le pecore vengono in genere tosate una volta all’anno, in primavera o all’inizio dell’estate. Solo in regioni dal clima temperato, particolarmente favorevole, la tosatura può essere effettuata due volte all’anno. In varie tecnologie tradizionali, le pecore vengono lavate in acqua fredda prima della tosatura, per eliminare in anticipo le sostanze grasse e lo sporco dalle fibre. Le pecore migliori producono 4,5 kg circa di lana a capo. Sono solitamente esclusi dalla tosatura i maschi destinati alla monta e quelli scelti per guidare il gregge: questi vengono castrati e lasciati ingrassare con le ciocche di pelo intatte, adornati con perle e campaneIIe, cosí da costituire un richiamo visivo per il resto del gregge. Anche le femmine anziane e quelle gravide, per le quali sarebbe piú difficile sopportare lo shock termico, vengono a volta risparmiate dagli allevatori.
neolitici piú antichi del Vicino Oriente contenenti fibre di lana risalirebbero all’VIII millennio a.C. (in una sepoltura di Gordion, in Frigia). Ben piú comuni, tra l’VIII e il VI millennio a C., sono tuttavia resti di tessuti in lino (Çatal Höyük, in Anatolia sud-orientale e grotta di Nahal-Hemar, in Israele). Al VI millennio è stato datato un frammento di tessuto, proveniente anch’esso da Çatal Höyük, con resti di lana. Al 5000 a.C. circa risalirebbe una figurina in argilla rappresentante una pecora lanosa trovata a Tepe Sarab, in Iran. Tra i reperti piú antichi vi sono i resti di tessuti di lana rinvenuti nel
Caucaso settentrionale, in sepolture a tumulo della cultura di Majkop (3700-3200 a.C. circa). Solo dal IV millennio a.C., nel Vicino Oriente, cominciano a comparire raffigurazioni di pecore lanose. In Mesopotamia, intorno alla metà del IV millennio a.C., alcune tavolette amministrative delle fasi piú antiche del periodo di Uruk distinguono, all’interno di una lista di 29 greggi di pecore, sei greggi di udu-sig, ossia «pecore da lana».
Un progresso inarrestabile Nelle steppe dell’Asia Centrale, naturale via di comunicazione del cuore euroasiatico, la lana iniziò a sostituire le fibre vegetali come principale materia prima tessile solo nel corso della media età del Bronzo (2500-2000 a.C. circa). Da allora, il progresso nella zootecnia e nella lavorazione della lana deve essere stato rapido e inarrestabile. Verso la fine del III millennio a.C., testi neo-sumerici distinguono diversi tipi di pecore che fornivano regolarmente altrettante varietà di lana, dalle piú fini alle piú grossolane; e tutto il sistema amministrativo ricostruito in base agli archivi di Ebla verteva su accurate registrazioni di entrata e di uscita di enormi quantità di lana e tessuti, spesso prodotti in apposite manifatture reali e rapportati a equivalenze di valore in beni metallici. Meno noto è che allo stesso periodo (seconda metà del III millennio a.C.) risalgono tavolette sumeriche recanti la piú antica menzione dell’uso di un sapone per lavare la lana: la ricetta prescrive acqua, sostanze alcaline e un olio aromatico. La rarità dei resti di lana nei depositi archeologici contrasta, in età protostorica, con i dati forniti dai testi e dalle iconografie. La circostanza può forse essere spiegata dal fatto che il prodotto, naturalmente ricco di sostanze grasse e indossato sul corpo, può risultare particolarmente deperibile nei processi di perdita e seppellimento. Altra ragione può essere il fatto che la lana, frutto di un processo tecnico laborioso e costoso, rimase per millenni un articolo di gran lusso riservato ai sovrani e ai ceti piú elevati.
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La seconda vita della
pelle
La lavorazione del cuoio era appannaggio di individui generalmente tenuti a distanza dagli abitati, poichĂŠ obbligati ad avere familiaritĂ con pratiche ripugnanti. Eppure, dalle loro mani nascevano oggetti di grande pregio e manufatti che potevano acquisire importanti valori simbolici | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 96 |
U
n conclamato senso di ordine pervade l’arte dell’antico Egitto. In migliaia di modellini in legno dipinto e pitture, i soldati vanno alla guerra in ranghi ordinati; i birrai si chinano su barili e mortai per fare la birra, i panettieri macinano, impastano e cuociono, i fabbricanti di mattoni ricoprono idilliaci paesaggi rurali e giardini con le geometrie dei propri prodotti. L’ordine, in queste immagini, è generato dall’obbedienza, o meglio, dalla celebrazione dell’obbedienza al faraone e ai ranghi della burocrazia regale. Tutto ciò, a una prima occhiata, sembra rendere l’opera degli studiosi facile, quasi scontata: dove sono le difficoltà? Qualsiasi dettaglio tecnico ci possa incuriosire dovrebbe essere preservato e precisamente descritto in questo ricco repertorio di immagini. Invece le cose non stanno proprio cosí. In primo luogo, queste figure non furono create dagli antichi artigiani del Nilo per illustrare a noi, 5000 anni dopo, la natura delle loro tecniche. Furono invece poste nelle tombe dei funzionari come testimonianza imperitura dell’onestà dei defunti, della loro efficacia e operosità come manager dei laboratori di corte. Quello che modellini e rilievi vogliono dire, in altre parole, potrebbe essere riassunto come segue: «Sono stato bravo, ho servito con lealtà il mio signore, non ho rubato sulle forniture, ho sempre trattato le materie prime migliori.Tutte le opere delle quali ero responsabile e che vedete in questa tomba sono state portate a termine nei tempi dovuti e nella soddisfazione generale». Tuttavia, è facile pensare che spesso fosse accaduto il contrario: i funzionari speculavano sulle forniture, inventariavano materiali di gran pregio, ma ne procuravano di scadenti, intascandone un profitto illegale, ritardavano per interessi personali il lavoro, maltrattavano i dipendenti che, a ragione o a torto, si lamentavano con petulanza. Inoltre, la logica stessa con la quale il lavoro antico veniva raffigurato non aveva nulla a che vedere con un’esposizione razionale e «scientifica» (come la vorremmo oggi) delle attività umane. Prendiamo il caso dell’antica lavorazione del
In alto un paio di sandali in cuoio, provenienti da una tomba. IV mill. a.C. Torino, Museo Egizio. Nella pagina accanto Luxor, Sheik Abd al-Qurnah, Tombe dei Nobili. Particolare di un dipinto murale della tomba del visir Rekhmire con la rappresentazione di lavoratori impegnati nella fabbricazione di suole, lacci e contenitori in cuoio. XVIII dinastia, 1530-1290 a.C.
cuoio. È una delle «industrie» piú importanti e universali del mondo antico, e l’Egitto, grazie alle particolari condizioni ambientali, ne ha custodito e tramandato, in migliaia di tombe, testimonianze eccezionali. La prossimità tecnica tra la conciatura e alcuni aspetti del processo di mummificazione enfatizzano ancor piú l’interesse storico della produzione del cuoio e dei pellami. Eppure, se guardiamo alle illustrazioni del tempo, ne veniamo almeno in parte delusi. Gli esperti ci dicono che esistono poco piú di venti raffigurazioni della lavorazione del cuoio, la maggioranza delle quali si concentra nel Nuovo Regno (1570-1070 a.C.).
Rappresentazioni fuorvianti A fronte dell’estrema complessità della sequenza di lavorazione a cui le pelli animali erano e sono ancor oggi sottoposte, i pittori egiziani scelsero di rappresentare un numero molto limitato di processi tecnici, in genere senza alcuna sequenza logica, privilegiando tre fasi: l’inserimento delle pelli in giare di altezza
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CUOIO
media, azione che potrebbe indicare la salagione, la concia, il lavaggio o la colorazione delle pelli; il tensionamento, con picchetti di legno; il taglio attento ed esperto delle suole dei sandali, dalle pezze di cuoio preparate. La scelta dell’evento tecnico obbedisce a due necessità distinte, quella di indicare la finalità del ciclo produttivo oltre ogni possibile ambiguità – per celebrare precisamente, appunto, le competenze del defunto – e quella di perpetuare una visione altamente idealizzata del lavoro umano, evitando l’illustrazione delle parti dure, sanguinose e comunque sgradevoli dell’industria del cuoio. Il fatto è che nessuna industria come questa celebra simbolicamente la trionfante opposizione tra il lavoro e le necessità umane e la sfera della natura. Mentre tracciare limiti assoluti tra uomo e animali in termini di linguaggio e capacità di creare e usare strumenti risulta spesso un esercizio ambiguo, per quanto ne so nessun’altra creatura si è mai applicata allo sforzo estenuante e in fondo orrido di strappare la pelle a un’altra e modificarla per rivestirsene. E nessun’altra attività riesce a trasformare un insieme di materiali di partenza avviati alla decomposizione e ripugnanti in prodotti lussuosi e costosi ammirati da tutti, al punto di rappresentare da sempre ambiti simboli di status.
Una catena operativa molto complessa Tutti sanno che il cuoio, per poter essere usato, deve essere conciato, ma pochi di noi immaginano la reale complessità del processo di produzione di questo materiale. I trattamenti devono iniziare entro tre ore dalla morte dell’animale, perché la pelle è immediatamente attaccata da batteri capaci di secernere enzimi che innescano la putrefazione. L’azione di questi microorganismi va subito inibita con processi di essiccazione, salatura a secco e umido, disinfezione, o preconciatura con sostanze contenenti tannino. Le pelli possono essere conservate a
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La concia dev’essere avviata entro tre ore dalla morte dell’animale, per evitare che possa avere inizio il processo di putrefazione bassa temperatura in appositi magazzini, e poi preparate per la concia, lasciandole a bagnarsi per tempi variabili, fino ad alcune settimane, in pozzi e vasche con agitatori rotanti. Dopo la riumidificazione, gli artigiani passano a tagliare dalle pelli le unghie e gli zoccoli, le
Nella pagina accanto perizoma maschile in pelle di gazzella, da Tebe. Nuovo Regno, 1550-1079 a.C. circa. Londra, British Museum. È stato ricavato da un unico taglio di pelle, decorato con motivi diamantiformi.
orecchie e la coda (per gli archeologi, gli scarichi di «ossa piccole» che cosí si formano presso gli impianti sono una prova preziosa di questo genere di attività specializzate). Siamo solo all’inizio. Ora bisogna piegare, impilare e mettere sotto pressione le pelli, in modo che il calore in aumento e una controllata marcescenza superficiale facciano cadere buona parte del pelame. Il processo continua con la depilazione a calce, che oltre ai peli attacca gli strati subcutanei e ammorbidisce la struttura fibrosa del derma, il «cuore» utile del cuoio. La calce poi va rimossa completamente, per evitare che la reazione con gli ambienti acidi della conciatura causi macchie e imperfezioni. Giunge cosí il momento di altre due faticose operazioni: la scarnatura e la ripassatura delle superfici. Le pelli sono stese su cavalletti di legno e coltelli a due impugnature, in pietra o metallo, vengono passati con forza sulle due superfici delle pezze, per eliminare sia i
residui dello strato esterno dell’epidermide, sia altri strati subcutanei. Per l’ammorbidimento, le pelli si immergono per lavaggi ripetuti in apposite vasche o giare, per la durata di qualche ora o qualche giorno. I bagni devono essere ricchi di sostanze organiche ed enzimi: per questo le tecniche tradizionali prevedevano l’uso di liquami con escrementi e guano di uccelli. I bagni hanno l’effetto di portare a compimento la decalcificazione e la depilazione, di eliminare le componenti saponose, di incrementare l’elasticità del cuoio.
In acqua e corteccia di quercia Eccoci arrivati, finalmente, alla famosa concia. In questo processo, il tannino contenuto in sostanze vegetali o minerali si salda intimamente al collagene, la proteina che forma le fibre del cuoio (e di molti altri tessuti del nostro stesso corpo), donandogli compattezza. Tradizionalmente, la concia avveniva mettendo In basso borsa in legno (a sinistra) e copricapo in cuoio provenienti dalle miniere di sale di Hallstatt. I mill. a.C. Hallstatt, Museo. Il microclima delle miniere di sale ne ha favorito l’eccellente stato di conservazione.
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CUOIO
In questa pagina Fes (Marocco). Dopo averla estratta dalle vasche per la tintura, un operaio stende una pelle ad asciugare, nel quartiere Chouara, il suk dei conciatori nella medina dell’antica Fes. Nella pagina accanto, a sinistra ancora una foto scattata nel quartiere Chouara di Fes: le vasche per la concia e la tintura delle pelli.
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il cuoio entro pozzi o vasche saturi di strati di corteccia di quercia e acqua. Le vasche venivano poi sigillate per mezzo di coperture fatte di piani e assi lignei, sottoposti alla pressione di pesanti pietre, e tutto veniva lasciato riposare per mesi. Oltre al tannino di quercia (Quercus infectoria) gli antichi usavano tannini minerali come quelli forniti da sali, alluminio (allume) e cromo. Questa la sequenza di base, ma le variazioni potevano essere moltissime. Per le pelli morbide, tipo camoscio, era previsto l’impasto prolungato con grandi quantità di olio di pesce, e l’affumicatura con combustibile di piante tagliate di fresco. Altri trattamenti aggiuntivi erano la lubrificazione con grassi e oli e la colorazione (per il rosso, cocciniglia, melograno o curcuma; per il giallo, alcuni tipi di bacche; per il blu, l’indaco o l’acetato di ferro; per il
Per combattere il Generale Inverno
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uello qui illustrato è un pellicciotto per bambino in pelle di pecora rinvenuto nella tomba 4 del tumulo VI della necropoli di Oglachty, situata sulla sponda sinistra dello Jenisei, nel distretto siberiano di Krasnojark. L’indumento, necessario per far fronte ai rigidi inverni della regione, risale al I sec. a.C. ed è oggi custodito nel Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo. L’ottimo stato di conservazione si deve principalmente alle condizioni climatiche. Si tratta di una manifattura tipica delle genti nomadi dell’Asia Centrale, che vissero nella zona del ritrovamento nell’età del Ferro (VII-I sec. a.C.).
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CUOIO
Fecondità, rigenerazione e alleanza
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e è vero che gli impianti della scuoiatura delle carcasse e della concia si trovavano sospinti alle periferie di villaggi e città per semplici considerazioni pratiche (gestione delle carni, degli scarti ossei e dei liquidi di trattamento, cattivi odori), alcuni studiosi hanno pensato a piú vaste implicazioni simboliche: i laboratori del cuoio, addossati alle recinzioni degli insediamenti, proteggerebbero idealmente l’intero corpo sociale, proprio come la pelle protegge l’organismo che essa riveste. Inoltre, come è stato osservato presso le attuali comunità dei lavoratori del cuoio in Marocco, la pelle è simbolo di fecondità, e vi è un’analogia simbolica tra la pelle tesa sul tamburo, quella gonfia d’acqua dell’otre da cui si beve e il cielo gravido di pioggia.
verde, l’acetato di rame). L’essiccazione finale avveniva all’interno di speciali telai, oppure in torri lignee a piú piani sovrapposti, che intercettavano al meglio il soffio del vento. «Il conciatore maneggia carogne, deve stare fuori città, e l’odore schifoso lo smaschera anche quando cerca di nascondersi (...) i compagni dei vasai e dei conciapelli sono gli avvoltoi», scriveva Artemidoro di Efeso, vissuto tra il II e il I secolo a.C. La storia del cuoio, nella sua lunga catena tecnica, aveva inizio nelle periferie piú maleodoranti e squallide delle città antiche, ma terminava nell’eleganza dei signori, nella distinzione dei religiosi piú in vista e negli armamenti degli eserciti.
Prodotti elitari Il percorso, tecnico e sociale al tempo stesso, era uno dei pochi che collegava direttamente gli emarginati, gli squalificati al centro politico e alle sue iniziative. Un raffinato oggetto in cuoio richiedeva abilità tecnica e competenze specialistiche, e segnalava immediatamente la prominenza sociale del proprietario. Le rarissime immagini di lavorazione del cuoio che troviamo nella ceramica greca, esattamente come l’arte funeraria egiziana, soprassiedono sugli aspetti piú disgustosi dell’industria, e mostrano abili calzolai che
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Il conciatore, nell’esecuzione del processo, manipola le stesse forze elementari della vita: i pellami sono estratti da animali senza vita, e, da secchi e morti, entrano nelle vasche della concia per risorgere in forma nuova; indossato dall’uomo, il cuoio ritorna a vivere in forma nuova. Ed è al santuario dei conciatori che si rivolgono gli agricoltori che invocano la pioggia e le donne che cercano la grazia di un figlio. Fra i Tuareg occidentali, popolazione presso la quale la lavorazione del cuoio è appannaggio femminile, donne di tutte le categorie sociali collaborano a creare la tenda nuziale, che diviene simbolo vivente delle alleanze ramificate sulle quali si basa l’intera struttura sociale delle comunità nomadi.
tagliano... comodissime suole di sandalo. Oltre alle morbide calzature in pelle, vero vanto del cittadino e simbolo discriminante nei confronti dei grezzi abitanti dei distretti rurali, il mondo antico brulicava dei piú disparati manufatti in cuoio. Se ne facevano tende, vasi e sacchi, setacci per il grano, strumenti musicali, reti e trappole per la caccia, abiti e copricapi, cinture e borse, lussuosi rivestimenti per mobili, corde e
Sulle due pagine Mali, Deserto del Sahara. Una tenda provvisoria tuareg, dalla caratteristica forma ovale, allestita con pelli di capra. Nel Paese africano, la lavorazione delle pelli è un compito riservato alle donne, che sono anche proprietarie delle tende.
finimenti, foderi per coltelli e armi, scudi; e soprattutto armature. Le armature metalliche rimasero per millenni poco pratiche (almeno sino all’invenzione delle coperture a scaglia e quindi alla maglia d’acciaio), e sempre e comunque eccessivamente dispendiose. Un lucente elmo in rame fa senz’altro un effetto piú spettacolare in una parata, ma molti studiosi ritengono che l’equivalente in cuoio protegga la testa con la stessa o con maggiore efficacia. Le «plastiche armature» in cuoio ricoperte di borchie di metallo che affollano i
kolossal mitologici degli anni Cinquanta e Sessanta sono un’invenzione cinematografica: una singola borchia metallica applicata al cuoio non offre infatti alcuna protezione da un colpo ben assestato, e anzi rischia di conficcarsi nel corpo come un chiodo sotto una martellata. La protezione del corpo era stata invece affidata, da tempo immemorabile, a spessi strati di cuoio... Facile pensare che, in periodo di guerra, gli arroganti aristocratici delle città greche dovessero far tesoro proprio dell’opera e della collaborazione di quei conciapelli extraurbani, a parole tanto disprezzati e derisi.
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E l’uomo scoprí
l’ebbrezza
Grazie a nuove scoperte e alle conquiste dell’archeologia molecolare, il luogo di nascita e la data di origine del vino sono soggetti a continue revisioni. Tuttavia, su un aspetto tutti concordano: consumata in larga quantità anche dal popolo, la bevanda fu, comunque, una delle «insegne» di re e faraoni | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 104 |
O
Affresco che rappresenta la vendemmia e la spremitura dell’uva nella tomba di Nakht a Tebe ovest, Egitto. XVIII dinastia, II mill. a.C.
ggi sappiamo che l’invenzione della ceramica ha almeno 26 000 anni di età, ma solo a partire dai 12 000 anni fa circa siamo certi della presenza di vasi veri e propri. E se questi ultimi fossero stati inventati per il vino? Secondo l’archeologo statunitense Patrick McGovern, autore di una lunga ricerca sui primordi della vinificazione, anche la scoperta della vite e l’invenzione del vino furono scoperte paleolitiche. In età neolitica, dall’8000 a.C. in poi, il vino cominciò piuttosto a essere prodotto in massa, sulle ali di un sapere enologico arcaico, ma già notevolmente elaborato nel corso di precedenti esperienze. La conoscenza che i paleolitici euroasiatici dovevano avere di piante e animali è, nel mondo odierno, semplicemente inconcepibile. È da escludere che essi non si siano accorti dei chicchi colorati, aspri e dolciastri della vite selvatica (Vitis vinifera, sottospecie silvestris), e degli effetti che il consumo dei chicchi casualmente fermentati da microorganismi aveva su alcune specie animali. Queste piante abbondavano dalla Spagna al Libano, lungo l’intero arco del Mediterraneo, fino nel cuore dell’Europa, sulle rive del Reno e del Danubio, e poi sulle sponde del Mar Nero e del Caspio, nel Vicino Oriente, lungo le estensioni meridionali dell’Asia Centrale, dall’Altopiano Iranico all’entroterra afghano e alle pendici dell’Hindukush. Doveva essere nozione comune che in autunno, ammassando l’uva in un tronco scavato o in una depressione nella roccia, i grappoli inferiori iniziavano a cedere, e che il succo spontaneo cosí prodotto fermentava gradualmente sotto l’effetto del lievito naturalmente presente sulle bucce. Bastava questo a creare, nel fondo dell’accumulo, l’anidride carbonica, che iniziava a scomporre gli zuccheri contenuti nei chicchi in alcool (McGovern, al proposito, paragona questi primi vini al Beaujolais novello francese, anch’esso fermentato rapidamente e consumato subito dopo la vendemmia). Se le funzioni comunemente attribuite alle ceramiche piú antiche, in un modo o nell’altro,
potevano essere svolte anche da altri strumenti e da procedimenti alternativi, solo vasi ceramici solidi e a tenuta d’aria avrebbero permesso ai nostri antenati di controllare il processo di fermentazione dei succhi d’uva, in modo che la bevanda potesse essere conservata per tempi lunghi senza trasformarsi in aceto. Infatti, se l’esposizione all’ossigeno è indispensabile allo sviluppo dei lieviti selvatici protagonisti della fermentazione, l’eccesso di ossigeno, a fermentazione avvenuta, causa la rapida moltiplicazione dei batteri dell’acido acetico. Per tappare ermeticamente un vaso bastava applicare sulla bocca un panno e su di esso imprimere un grosso tappo di finissima argilla cruda. Dopo che l’argilla si era essiccata, bastava tornare a bagnarlo per farlo espandere e ottenere una chiusura ermetica. Nel tappo si potevano lasciare piccoli fori di sfiato, successivamente tappati con altra argilla, per far sfiatare i gas della fermentazione. Entrano in gioco, a questo punto, due circostanze molto specifiche: i rapidi e rivoluzionari progressi dell’archeologia molecolare e alcune fortunate scoperte avvenute in siti neolitici e protostorici in Iran, in Cina e in varie regioni dell’Europa Occidentale.
Giare colme di birra Oggi, il novero delle scoperte di resti di sostanze inebrianti su ceramiche antiche parte da un gruppo di giare trovate nella Cina settentrionale, datate al 7000 a.C., contenenti una specie di birra mista a base di riso, miele e frutta fermentata. La scoperta è antica abbastanza da far sospettare davvero che lo sviluppo della ceramica abbia avuto a che fare con la diffusione, nelle comunità neolitiche o perlomeno nei loro gruppi socialmente piú elevati, del consumo di sostanze inebrianti. E, data la complessità delle politiche che dovevano aver avuto luogo nelle comunità neolitiche, una delle funzioni essenziali degli alcoolici, quella di «lubrificante sociale» – cioè di mezzo e occasione per socializzare e comunicare in maggiore libertà –, sarebbe stata pienamente giustificata!
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VINO
Non è stato ancor chiarito se il vino abbia un’unica patria, che molti collocano tra Armenia e Georgia, oppure sia stato inventato piú volte in un areale molto piú vasto. Per l’archeologia, infatti, i primi passi della vinificazione avvennero in età neolitica nelle aree settentrionali montuose del Vicino Oriente, tra Turchia sud-orientale, Armenia e Georgia, e pendici dei monti Zagros in Iran. Le parole per «vino» in molte lingue (persino in accadico, egiziano dell’Antico Regno e cinese) derivano dalla radice proto-indoeuropea *woi-no; secondo alcuni studiosi, ciò proverebbe la coincidenza geografica tra la mitica terra d’origine delle lingue indoeuropee e l’area originaria di domesticazione della vite. Ipotesi, questa, cara a chi, come l’inglese Colin Renfrew, ha proposto che le lingue indoeuropee fossero parlate dai protoagricoltori neolitici dell’attuale territorio turco, piuttosto che piú a Oriente.
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Intorno al 5400 a.C. si datano altre giare trovate nel sito di Haji Firuz, nell’Iran nord-occidentale, che contenevano un vino d’uva addizionato con resina di pistacchio. Il vaso trovato in Iran era una specie di orcio, della capacità di 9 litri circa, trovato interrato lungo la parete di una cucina domestica, dove giaceva in una fila di 6 vasi identici. Contenevano uno spesso precipitato giallastro, nel quale le analisi gascromatografiche, eseguite 25 anni dopo la scoperta dei vasi, identificarono la presenza di acido tartarico e tartrato di calcio. Si trattava, a quanto pare, di vino bianco.
Ritardare l’acidificazione L’acido tartarico, in questo mondo, è un derivato di pochissime sostanze, ed è considerato un indicatore certo della presenza, in antico, di vino. L’aggiunta di resina al vino ne ritardava l’acidificazione, come avrebbe ricordato Plinio il Vecchio 5000 anni piú tardi,
In alto Tomba di Khaemwaset, Tebe ovest, Egitto. Pittura raffigurante la vendemmia e la preparazione del vino. XX dinastia, XII-XI sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto vaso proto-ittita a forma di grappolo. XVIII sec. a.C. Ankara, Museo della Cultura Anatolica. Nella pagina accanto, in basso rilievo egiziano con grappolo d’uva, da Amarna, Egitto. XIV sec. a.C. New York, N. Schimmel Collection.
elencando, tra le resine utilizzabili, quelle di pino e cedro, incenso e mirra, e quella dell’arbusto del terebinto, una specie affine al pistacchio. La resina di terebinto, in antico, ebbe numerose applicazioni e veniva commerciata su lunghe distanze. La celebre retsina greca, vino aromatizzato con resina di pino d’aleppo e di un albero della famiglia dei cipressi, rappresenta l’ultima evoluzione di una tradizione antichissima. Sempre in Iran occidentale, al margine est della piana mesopotamica, il sito di Godin Tepe, nella seconda metà del IV millennio a.C., era una cittadina di frontiera strettamente legata alle attività di commercio ed espansione dei centri di Sumer. In una stanza della cittadella di Godin Tepe, insieme a una preziosa collana, furono trovate due giare da circa 30 litri contenenti depositi interni di colore giallorossastro, nei quali furono riconosciuti residui di acido tartarico. Un’altra stanza dello stesso complesso custodiva un vaso che aveva contenuto birra d’orzo, un coperchio in terracotta e un grande imbuto nello stesso materiale, e una specie di grande vasca rettangolare. Le due grandi giare della prima stanza erano state forse custodite in posizione orizzontale o obliqua, proprio come moderne bottiglie di pregio; per «stapparle», invece di rimuovere il tappo d’argilla, che rischiava di sporcare il contenuto, il cantiniere ne aveva accuratamente segato il collo con una affilata lama di bronzo. Nel corso del IV millennio il vino raggiunse le corti e i nobili di Mesopotamia ed Egitto. Dall’Iran all’Egitto, la forma originaria della giara da vino è un vaso lungo, con bocca ristretta e un breve collo. Lungo le sponde del Nilo la vite selvatica non cresceva; tuttavia nelle tombe dei re della I e II dinastia (3100-2700 a.C.), ad Abido e Saqqara, furono sepolti migliaia di simili orci da vino, tappati e segnati
La vite vinifera
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ebbene sia noto un centinaio di specie di viti selvatiche, quella oggi coltivata per il vino è, nella quasi totalità, la vite eurasiatica (Vitis vinifera vinifera). La pianta discende dalla varietà selvatica Vitis vinifera silvestris; la sua caratteristica fondamentale è uno straordinario polimorfismo, responsabile dello sviluppo di almeno 10 000 vitigni diversi e di infinite sfumature di profumo, colore e gusto. Questa diversità fa oggi del vino un sofisticato «linguaggio» internazionale. La forma piú antica della pianta era ermafrodita (associava cioè sulla stessa pianta gli organi maschili e femminili), carattere scomparso in gran parte delle specie evolutesi in tempi recenti, ma conservato da Vitis vinifera silvestris; l’ermafroditismo rende piú facile e abbondante la fruttificazione e facilita la selezione dei caratteri piú desiderati dagli agricoltori. La ricerca delle origini della pianta e del vino combina i dati dell’archeologia (resti di pollini, semi e legno trovati in scavo, ma anche immagini di produzione e consumo del vino e analisi chimiche di residui organici), antiche fonti scritte, ricerche sulla variabilità e la distribuzione delle piante selvatiche ancora esistenti, ricerche sul DNA dei lieviti e delle piante stesse, e persino la linguistica comparata. Le ricerche sul DNA dei vitigni contemporanei, tra l’altro, stanno rivoluzionando nozioni che le associazioni enologiche considerano assodate e basilari, dimostrando, per esempio, che alcune varietà prestigiosissime di vino francese, lungi dall’avere antichissimi ed esclusivi pedigree sono in realtà frutti di incroci con altre varietà piuttosto comuni: un duro colpo a una marginale forma di «razzismo botanico».
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VINO
dai sigilli dei faraoni. Il simbolo della vite fu subito adottato nelle versioni piú antiche della scrittura geroglifica; i segni sembrano testimoniare sin dagli inizi l’uso di far alzare le viti su pergole di sostegni verticali, forse per irrigarle artificialmente, e sembrano alludere a torchi usati per la spremitura, e forse alla presenza di giardini murati: come se la viticoltura fosse stata improvvisamente dotata in uno stadio di sviluppo già avanzato. Nella tomba del «re Scorpione» scavata ad Abido (3150 a.C. circa) 700 giare, disposte in origine in obliquo, avevano contenuto in gran parte vino resinato (in totale 4500 litri), simile a quello trovato nei siti dell’Iran. Le analisi delle ceramiche rivelarono che le «bottiglie di vino» erano state prodotte nella regione palestinese e importate in Egitto, ma tappate sul luogo della sepoltura o comunque in Egitto. Nelle epoche successive, dalla II dinastia in poi, il grande senso pratico degli Egiziani suggerí loro di sospendere la distruzione rituale di enormi quantità di offerte nelle sepolture regali, e piuttosto di raffigurarle in immagine. Lo si fece dapprima su stele in pietra, poi nei famosi rilievi e nelle pitture delle camere funerarie dei burocrati statali, e ancora in innumerevoli modellini in legno dipinto.
I maestri di spremitura Nelle pitture della IV dinastia, sono cosí illustrati l’uva matura (sempre blu), il taglio dei grappoli con una lama, il trasporto in cesti fino ai tini, dove i contadini salgono in piedi, sostenuti da un compagno. Intorno, i «maestri di spremitura» dirigono l’operazione con una bacchetta. Nelle scene piú antiche, spiega McGovern, non si vede il mosto colare fuori (questo avviene solo nelle immagini della seconda metà del II millennio a.C., come poi avverrà nelle scene dipinte sulla ceramica greca); si presume quindi che il vino piú antico fosse il rosso che si ottiene lasciando la polpa a contatto con bucce, semi e tralci.
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Le nuove frontiere della ricerca
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li archeologi erano soliti venerare la ceramica come indicatore di cronologie e stili. Oggi, estremamente preziosa si è rivelata la capacità della ceramica di assorbire vari tipi di sostanze organiche nei propri pori e, in determinate condizioni, di preservare tali residui per periodi lunghissimi. Basta sfogliare le ultime decadi di una rivista specializzata per vedere come le ricerche di chimica organica e molecolare in archeologia siano in costante incremento; esse rappresentano una delle piú importanti frontiere archeologiche del futuro. I primi analisti all’opera su residui organici nelle ceramiche usavano il microscopio per riconoscere visivamente resti di piante, semi e altre sostanze. Molto è affidato a due campi di grande applicabilità pratica, la gas-cromatografia e la gas-cromatografia con spettrometria di massa. La gas-cromatografia è una grande famiglia di metodi analitici che osservano il comportamento dinamico delle molecole del materiale prelevato a contatto con due diverse fasi, una stazionaria (un solido o un liquido assorbito in un solido) e una mobile (un gas o un liquido che scorre a contatto con la prima). Le molecole della sostanza analizzata, a seconda del peso molecolare, della composizione ionica e di altre caratteristiche, sono immesse nella fase mobile e passano continuamente da una fase all’altra con tempi noti, il che consente l’identificazione dei composti. La spettrometria di massa identifica invece la natura delle molecole scindendole con speciali processi di ionizzazione (alterando quindi l’equilibrio dei singoli atomi) e separando i diversi ioni di massa diversa. I risultati dell’analisi sono uno spettro fatto di righe o picchi, piú o meno visibili a seconda dell’abbondanza degli ioni presenti. La tecnica identifica molecole di natura complessa, come quelle, appunto, che formano i comuni composti organici, e consente misurazioni di altissima sensibilità. Grande anfora da vino, da Abydos, Egitto. 1500-1070 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
La pasta era poi torchiata mettendola in un sacco teso tra due pali e torcendolo. Seguono infine scene che illustrano il travaso del vino con brocche entro le giare dei magazzini. La vinificazione sembra a volte essere illustrata puntualmente, fase per fase, con un dettaglio ben maggiore di altre attività, forse in
birra d’orzo (secondo un mito greco, proprio per questo motivo Dioniso era dovuto fuggire dalla piana del Tigri e dell’Eufrate). Nel mito di Gilgamesh, la vite è trasfigurata in una pianta soprannaturale, con chicchi simili alla rossa cornalina e al blu lapislazzuli. Ideogrammi per «vigneto» e «vino» compaiono comunque già nelle tavolette piú antiche e non mancano testi, per quanto scarni, che, per il III millennio a.C., ci informano dell’importazione di vino dall’Elam (valli degli Zagros meridionali) e che vigneti erano custoditi in diverse città di pianura.
Problemi di lettura
conseguenza di un forte interesse regale per l’industria del vino. Anche nel periodo «oscuro» della penetrazione in Egitto degli asiatici Hyksos (1670-1550 a.C. circa) la produzione e l’importazione di vino continuarono in massa (si è calcolato che solo ad Avaris, capitale degli Hyksos, siano sepolti circa 2 milioni di orcioli di vino importati dalla Palestina meridionale). Questo la dice lunga sulla profondità della penetrazione del vino e dell’enologia lungo le sponde del Nilo. Ben presto troveremo la rossa bevanda, associata simbolicamente al sangue, in innumerevoli espressioni religiose e rituali. La piú importante legava il vino alla morte e alla resurrezione di Osiride, con valenze non troppo lontane dai sistemi simbolici che la fede cristiana avrebbe poi sviluppato. In Mesopotamia, tradizionalmente, si beveva invece
In alto placchetta in avorio con una fanciulla tra pampini e fiori di loto, dall’Egitto. 1353-1337 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Ci sono molti problemi di lettura: per esempio, un ideogramma letto come «vite» + «sole» per alcuni significa «vino bianco», mentre per altri si tratterebbe di «uva passa». Il vino divenne un ingrediente importante della cura e dell’alimentazione simboliche delle divinità che abitavano nei templi, ma era servito anche in taverne comuni; il codice di Hammurabi (1790 a.C.) prescrive il rogo per le sacerdotesse sorprese a bere in una bettola. Anche qui troviamo due divinità, Dumuzi (dio della primavera) e Geshtinanna (forse «vite frondosa») scendere nell’oltretomba e risalirne per perpetuare i cicli della fertilità universale. Compaiono qui anche scene di banchetto, occasioni riservate ai sovrani, ma che, comunque, prefigurano il consumo collettivo del vino come momento di unione e coagulo delle sfere superiori della società. Nel I millennio a.C., infatti, il vino e la cultura
Le anfore e il vino
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hi è venuta prima, l’anfora o la produzione del vino? È un quesito che appassiona gli archeologi ed è alimentato dalle scoperte piú recenti. Qui si vedono una brocca e un’anfora da vino da Deir el-Medina. XVIII dinastia. Torino, Museo Egizio.
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VINO
che ruotava intorno alla preziosa bevanda saldarono finalmente le proprie fortune alle case aristocratiche dei principati e delle prime città dell’età del Ferro, di cui divennero uno dei simboli principali.
Un commercio assai redditizio Nel Vicino Oriente antico, il II millennio a.C. vedeva uno straordinario sviluppo della vinicoltura: innumerevoli carichi di vino, per secoli, scesero le rive del Tigri e dell’Eufrate alla volta di Mari, Babilonia e delle altre grandi città della media età del Bronzo. Si è calcolato che a Carchemish, nelle prime alture settentrionali, intorno al 1800 a.C. con 8,5 g di argento si potevano comprare 180 litri di vini. Le stesse «bottiglie» venivano rivendute a un prezzo triplo. Data la facilità del trasporto fluviale nel senso della corrente, se la politica permetteva le necessarie condizioni di sicurezza (cosa, si sa, tutt’altro che garantita) per i mercanti erano affari d’oro. Nel palazzo di Mari, all’atto della rovinosa distruzione causata dal «pio» Hammurabi, apposite
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cantine custodivano decine di giare alte piú di 1 m, con grandi coperchi in terracotta, che nei banchetti erano spostati al centro della sala. Poco dopo, i testi cuneiformi della colonia di Kultepe, avamposto commerciale assiro in terra anatolica, parlano ancora di vendemmie e commerci. Gli archeologi hanno qui identificato i primi «servizi da vino» in ceramica di lusso, destinata ai signori della città. Con lo sviluppo del potente impero degli Ittiti (XVI-XIII secolo a.C. circa) il vino, oltre a essere elemento di consumo quotidiano, era ormai parte integrante della ritualità di corte. I testi ittiti ci dicono che la coppia regale «beveva la divinità», frase variamente interpretata nel senso di «bere in onore del dio», «dare da bere al dio» oppure, piú plausibilmente, «bere la divinità». Se questo era il senso dei testi religiosi, era certamente il vino il «dio liquido» che permetteva ai sovrani di condividere parte della propria natura ultraterrena. Nei magazzini reali di Hattusa, capitale imperiale, gli archeologi trovarono giare da vino capaci fino a 1800 litri.
Un vaso trovato a Inandik, a nord-ovest di Hattusa, sembra mostrare, nel registro inferiore, re e regina nell’atto di consumare un solenne banchetto rituale, mentre a lato si mesce il vino. Sopra si svolge una processione, culminante nel sacrificio di un toro: il tutto è dominato da scene in cui l’offerta della bevanda e lo svelamento della sposa si accompagnano al consumo di atti sessuali (forse proprio tra i sovrani), al suono di tamburi e cimbali. Gli Ittiti trasportavano il vino con brocche a collo lungo e anfore a doppio manico, e lo servivano e bevevano in rhyta (plurale di rhyton, corno per bere, n.d.r.) a forma di teste animali. A Hattusa, in un pozzo, furono trovati i resti di due vasi a forma di toro chiazzato, alti circa 1 m, forse usati per contenere, davanti alla statua del dio, la sacra bevanda.
L’«arte delle situle»
Nella pagina accanto, in alto Hattusa (Bogazköy, Turchia). Grandi giare di terracotta per vino e derrate. II mill. a.C. Nella pagina accanto, in basso vaso per birra antropomorfo, con colino da filtro sulla pancia, da Hebron. II-I mill. a.C. Haifa, Reuben and Edith Hecht Collection. In basso stele ittita con banchettanti, da Sinjrli, Turchia. X-VI sec. a.C. Istanbul, Museo di Antichità Orientali.
affascinante. Il fatto che l’arte delle situle sia stata profondamente segnata dall’influenza del gusto orientalizzante (diffuso nel Mediterraneo a partire dal VII secolo a.C.) è ben noto. Tuttavia, le produzioni orientalizzanti sembrano aver diffuso per due secoli lungo le sponde del Mediterraneo motivi grafici e canoni stilistici in modo superficiale e piuttosto caotico, senza necessariamente adeguarsi ai significati profondi che le stesse immagini avevano avuto nel Mediterraneo orientale. La condivisione del vino come fulcro sociale, profano e sacrale al tempo stesso, della vita di corte dipese certamente da atteggiamenti «archetipali» assai radicati, e certo molto meno palesi. Tutto questo ci porta, infine, in direzione della Grecia arcaica. I Greci avevano una lunga dimestichezza con la vite selvatica: i primi vinaccioli selvatici della Grecia, infatti, furono trovati in stratigrafie della grotta di Franchti, nel
Ritualità regale ed estasi erotica, ebbrezza e sacralità. Sospese tra questi poli ideologici, le antiche figurazioni ittite sembrano rappresentare prototipi delle scene che ricorrono nella cosiddetta «arte delle situle», un linguaggio decorativo e simbolico fatto proprio, mille anni piú tardi, dalle aristocrazie dell’età del Ferro, tra l’Italia settentrionale, l’arco alpino e le terre dell’Europa centro-orientale. Le «situle» sono secchielli di bronzo fittamente decorati a sbalzo, che i nobili di queste regioni, tra il VII e il V secolo a.C., usavano per servire il vino nel corso di feste private e rituali pubblici. I secchielli decorati erano usati ed esibiti insieme a pezzi di servizio, sempre in bronzo, che comprendevano ciotoline, attingitoi, coperchi e mestoli. Conosciamo questi servizi dalla loro solenne sepoltura, nelle tombe di sovrani e nobili, insieme ai crateri in bronzo o in ceramica che, posti al centro della celebrazione funebre, simboleggiavano la «comunione» dei partecipanti al dolore e all’emozione del trapasso dei capi nell’oltretomba. La trasposizione dall’Oriente di questo patrimonio ideologico e rappresentativo (se di trasposizione effettivamente si tratta) rimane, ancor oggi, un interrogativo spinoso e
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VINO
Peloponneso, databili all’11 000 a.C. Ma il «fatale incontro» tra la viticoltura e il mondo greco, a quanto pare, era avvenuto a Creta, già prima del 2200 a.C., sia che la vinicoltura fosse stata trasmessa dall’Egitto, sia che invece fosse giunta dai Balcani, dalla Grecia stessa o dall’Anatolia. A favore dell’ipotesi egiziana gioca il fatto che il geroglifico usato per «vigna, vite, vino» nelle piú antiche scritture cretesi, i lineari A e B, è davvero molto simile all’omologo segno egiziano.
Invecchiato in barili di quercia La prima retsina greca sembra risalire proprio alla fine del III millennio a.C., dato che i pithoi o grandi giare da immagazzinaggio trovate nel sito di Myrthos, sulla costa meridionale di Creta, contenevano, appunto, resti di semi e rami di vite, acido tartarico e tracce di resina. Al 1700 a.C., come scoprí il gruppo di ricerca di McGovern, risalivano resti di un vino resinato conservato o forse cotto nel palazzo di Monastiraki, sempre a Creta; alcuni composti organici trovati nei residui indicano l’uso, nella vinificazione, di legno o resina di quercia. Forse, come avvenne in seguito nella tradizione europea, il vino era stato appositamente invecchiato in barili di questo legno; oppure – l’alternativa è altrettanto plausibile – gli antichi
enologi avevano già scoperto che si poteva aromatizzare la bevanda bollendo frammenti di legno di quercia insieme al vino. I corredi funebri dei sovrani di Micene, in Argolide, comprendono strani manufatti in filo aureo che inglobavano oggetti cruciformi in ambra. Se i Micenei avevano intuito la correlazione tra l’ambra e la resina – correlazione immediata, dato che basta scaldare l’ambra per «resuscitare» magicamente l’aroma delle resine preistoriche –, possiamo pensare che questi strani oggetti fossero usati dai sovrani per aromatizzare, con il metodo piú prezioso, le proprie bevande alcooliche, insieme a erbe e spezie raffinate. Le tavolette amministrative trovate nelle rovine dei palazzi micenei, del resto, documentano l’interesse diretto delle case regali per la viticoltura e la vinificazione. La passione per il vino attraversò indenne, come in passato, qualsiasi «epoca
In basso anfora a figure nere con Dioniso che reca un corno potorio (rhyton). 510 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
La bevanda di Dioniso
I
l vino, per i Greci, era la bevanda di Dioniso, divinità in fondo oscura, giunta dal «cuore di tenebra» di un’Asia inconoscibile e remota, a capo di un corteo inarrestabile di esseri umani impazziti e creature semi-bestiali diretti a Occidente. Dioniso, dio di tutto quanto era selvaggio ma anche della sterilità, aveva raccolto, proprio in un’isola dell’Egeo, la disperazione di Arianna, abbandonata da Teseo nel nulla azzurro dopo l’uccisione del
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Minotauro. Dio dalla remota natura vegetale, Dioniso richiamava a sé, in un’unica immagine di passione, sia i tralci domestici della civilissima vite, gravida di frutti e generatrice del vino, sia i viticci dell’edera, oscura e selvaggia, e priva di qualsiasi frutto, sterile, esattamente come il possente mulo sul quale viaggiava. Unico dio figlio di una donna mortale, nato mortale, il dio del vino aveva raggiunto l’immortalità: altra espressione dello stesso principio
di insopprimibile vitalità e soprannaturale rinascita che il mondo orientale, da sempre, aveva associato al succo della vite. Perseguitato da Era, legittima sposa di Zeus, Dioniso espresse sempre la potenza incontrollabile dell’ebbrezza orgiastica, della divina follia, destinata comunque a trionfare su ogni argine e limite posto dalla fragile razionalità degli esseri umani. Tutto questo, per i Greci, poteva celarsi in una semplice tazza di buon vino rosso.
In alto particolare della decorazione di un vaso apulo raffigurante una scena di banchetto. IV sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
oscura», per riaffiorare, con intensità rinnovata, dopo il crollo dei palazzi micenei, alle soglie dell’età classica. Il vaso legato al consumo pubblico del vino, in Grecia, fu sempre la kylix, la coppa ad alto piede; e non sorprende che prototipi di questo elegante vaso contenente residui di vino con orzo o miele siano stati trovati nei resti di banchetti funerari risalenti alla fine del periodo minoico. Con l’olio, il vino costituí per secoli la ricchezza dell’Attica e del Peloponneso, soprattutto dal momento in cui la supremazia commerciale greca riuscí a rifornire la madrepatria con il grano proveniente da terre straniere, e soprattutto dalle pianure costiere del Mar Nero.
Feste per soli uomini «Lubrificante sociale»: torniamo alla definizione data al vino all’inizio di queste riflessioni. I Greci consumavano il vino in occasione di rituali, ma anche nei simposi, banchetti riservati ai cittadini, cioè all’aristocrazia dei proprietari terrieri. Erano feste per soli maschi: a ragione, l’Atene del VI e V secolo a.C. è stata definita «un club di soli uomini». Le donne vi erano ammesse solo in qualità di danzatrici, intrattenitrici o prostitute, e gli uomini... bevevano, si sollazzavano, ma prendevano, allo
stesso tempo, importanti decisioni politiche. Lo strano linguaggio formale della ceramica attica, alla fine del VI secolo a.C., utilizzava le kylikes (plurale di kylix) le ampie tazze da vino, per riprodurvi scene di battaglia e morte, di sesso e di remote leggende popolate da eroi ed esseri mostruosi. Sul retro delle tazze i pittori spesso tracciavano, senza alcuna preoccupazione per l’armonia o per la logica della composizione, due enormi occhi dilatati. Quando il convitato innalzava la coppa, per bere l’ultima goccia di vino, il fondo del vaso, per gli astanti, si mutava nell’inquietante maschera della Gorgone, essere demoniaco e sanguinario con denti di belva, capigliatura di rettili e sguardo capace di pietrificare. Con uno straordinario paradosso, le kylikes dell’età arcaica tramutavano cosí magicamente il civilissimo cittadino di Atene – della polis, cioè del mondo civilizzato per eccellenza – nell’epifania di un mostro incontrollabile. A questi straordinari vasi, e al corposo vino del mezzogiorno, i Greci forse chiedevano l’impossibile: conciliare la razionalità, l’autorità e la logica con la ricerca della felicità e la libertà dell’estasi. Ma non è forse lo stesso sforzo in cui ci dibattiamo ancora oggi, giorno dopo giorno?
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Ritratto della regina d’Inghilterra Elisabetta I Tudor (1533-1603). Londra, National Gallery. La sovrana era solita stendere sul viso una pasta cosmetica derivata dal piombo, la biacca, che le donava la caratteristica carnagione spettrale.
Pallore
mortale
Un tempo, soprattutto per il gentil sesso, il candore della pelle era ritenuto un requisito di bellezza da ottenersi con ogni mezzo. Anche a costo di spalmarsi sul viso creme e unguenti che nascondevano una terribile ÂŤcontroindicazioneÂť | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 114 |
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n quali modi i metalli possono definire noi e il nostro corpo? Un nostro amico, noto per la sua bontà, avrà un cuore d’oro, mentre un’abilissima ricamatrice o tessitrice dello stesso prezioso metallo avrà le mani; di un bambino irrequieto si dice che abbia l’argento vivo (il mercurio) addosso; i piú bravi nello studio hanno spesso volontà e memoria di ferro. E delle persone estremamente caute possiamo dire che procedono «con i piedi di piombo», mentre se la lentezza non ci apparirà motivata, ma fine a se stessa, la metafora plumbea sarà riservata, invece, al posteriore... Eppure il piombo è un metallo che, nella storia dell’umanità ha definito ben altri ruoli e aspetti delle persone, e in particolare delle donne, in modo molto piú letterale e, data la sua ben nota nocività, indubbiamente drammatico. Mi riferisco all’uso dei preparati di piombo per i cosmetici, una industria di grande importanza nel mondo antico, e in particolare, per ragioni che vedremo, nei momenti piú cruciali dello sviluppo della civiltà e delle piú antiche città dell’età del Bronzo. Se qualche lettore ha visto il film Elizabeth (1998, scritto da Michael Hirst, diretto da Shekhar Kapur e con Cate Blanchett nei panni della protagonista) immagino sarà stato colpito, come me, dall’ultima scena. Elisabetta I Tudor, regina d’Inghilterra (1533-1603, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena), raccontata agli albori del suo regno, fa il suo ingresso ufficiale davanti all’aristocrazia inglese. Ha abbandonato qualsiasi traccia di umanità e spontaneità, e si è trasformata in un gelido manichino bianco, personificazione pura del potere regale e degli interessi sovrani della nazione. Il volto di Elisabetta è coperto da una soprannaturale maschera bianca (la cui realizzazione ha contribuito a far vincere alla pluripremiata pellicola l’Academy Award for Best
In basso la parte superiore del rivestimento in legno stuccato e dipinto della mummia di una donna egiziana, forse da Tuna el-Gebel. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Anche in questo caso, nella caratterizzazione del ritratto, spicca il biancore del volto.
Makeup, vale a dire l’Oscar per il miglior trucco, curato dalla specialista britannica Jenny Shircore). I pittori la chiamano, con una parola di remote origini longobarde, biacca o bianco di piombo, i truccatori cerussa, i chimici cerussite. E, come tutti i derivati di piombo, la pasta cosmetica era velenosa. Dicerie e leggende avrebbero raccontato per secoli di come Elisabetta I si sia lentamente avvelenata proprio per l’uso sistematico di questo cosmetico, che, oltre a garantirle la spettrale carnagione che distingueva la «regina vergine», mascherava anche piccole imperfezioni del volto e forse le tracce lasciate da un attacco giovanile di vaiolo (il piombo, in ogni caso, sarebbe stato causa di sventure per la grande regina: un’altra leggenda vuole che l’irlandese Hugh O’Neill, conte di Tyrone, avesse ordinato del piombo dall’Inghilterra per rifare il tetto del suo castello, ma lo avesse invece usato per far fabbricare proiettili da sparare contro la sua sovrana nella guerra dei Nove Anni, tra il 1594 e il 1603).
Uno sforzo plurimillenario La biacca, del resto, è solo uno dei tanti passi fatti dall’uomo in uno sforzo plurimillenario di inventare e perfezionare pigmenti bianchi duraturi, con la giusta brillantezza, e il giusto rapporto tra pastosità e fluidità. I materiali usati sin dalla preistoria comprendono gesso, carbonati di calcio (calce), argille chiare, altri materiali argillosi naturalmente chiari e brillanti, tra i quali, in primis, il caolino, e altri silicati, tra i quali il talco. Inoltre la preparazione di «bianchi» di buona qualità era di per sé piuttosto complessa, e il problema si complicava quando i bianchi dovevano subire uno o piú cicli di cottura, in quanto il processo eliminava i materiali organici usati come leganti (per esempio albume, oli o grassi) e
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anche minime quantità di ferro, quasi onnipresente nella maggior parte dei composti naturali inorganici, bastavano a macchiarne irreversibilmente il candore. Lo stato della questione, almeno per quanto riguarda la tecnologia greca e romana, è ben riassunto in opere di scrittori e scienziati vissuti tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., tra i quali Plinio, Vitruvio e Dioscoride. Gli autori riconoscono diversi tipi di colori bianchi, alcuni dei quali ottenuti da gesso o da argille chiare e marne, altri da argille fossilifere e farine fossili, mentre altri ancora erano erano ottenuti dal paretonium e dalla nostra cerussa. Argille o crete usate come bianco erano il melinum (dall’isola di Melo), la creta samia (da Samo), quella detta cimolia (da un’altra isola delle Cicladi), quella eretria (dall’Eubea). L’enfasi sulle isole non è casuale: infatti, solo in bacini geologici ristretti e segregati, come appunto possono trovarsene nelle piccole isole, è possibile reperire materiali a base argillosa sottoposti a minori dinamiche di trasporto e rielaborazione sedimentaria. Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 48) parla anche di una creta anularia, fatta aggiungendo alle argille chiare polveri di paste vitree ottenute macinando finte gemme trasparenti da anello. Il paretonium veniva dalle vicinanze di Alessandria d’Egitto, ed era un fine sedimento marino ricco di carbonati di calcio e fosfati di magnesio (Naturalis Historia, XXXV, 36); i pittori lo usavano spesso nei lavori di affresco.
Il «prodigio» nelle botti Il pigmento bianco piú sorprendente era senza dubbio la cerussa artificiale o biacca. Vitruvio (VII, 12) scrive che «i Rodiesi mettono sarmenti entro delle botti, versano aceto sul fondo, e collocano sui sarmenti lastre di piombo. Quindi chiudono le botti in modo che i vapori non fuoriescano. Dopo qualche tempo le riaprono e trovano che tutto il piombo si è e cambiato in cerussa». Plinio (N.H. XXXIV, 175) specifica che il metallo veniva preparato in forma di scaglie sottilissime, che venivano sospese su giare di terracotta contenenti aceto forte, che le
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avvolgeva lentamente di vapori. Il piombo disciolto sulla superficie delle scaglie ricadeva nell’aceto, e si depositava nel fondo. La biacca veniva quindi raccolta, essiccata, macinata e setacciata, re-impastata con aceto a formare pallottole che si lasciavano seccare sotto il sole estivo. Il processo aveva luogo presso gli stabilimenti in cui si estraeva e raffinava il piombo. Usata nella pittura, e specie negli affreschi, la biacca, nel tempo, sarebbe inesorabilmente annerita, per la riconversione
A sinistra cristalli di cerussite, carbonato di piombo dal quale si ricavava la «biacca» o «cerussa», un pigmento di colore bianco utilizzato sin dall’antichità per le pitture murali e corporee. In basso cristalli di galena, un solfuro di piombo che, in polvere e mescolato ad altri ingredienti, si utilizza, nonostante l’elevata tossicità, per fabbricare il kohl, con il quale, ancora oggi, vengono truccati gli occhi in molte regioni del globo.
strumenti e accessori rinvenuti nelle miniere di Hallstatt, databili tra il X e il VI sec. a.C.: una piccozza e una paletta in legno (Hallstatt, Museum Hallstatt); un’asciamartello in bronzo e una piccozza in ferro (Bad Buchau, Federseemuseum); una scarpa ricavata da un unico pezzo di cuoio (Vienna, Naturhistorisches Museum). un fascio di torce di pino, ritrovate anch’esse nelle miniere di salgemma di Hallstatt. X-IX sec. a.e. Vienna, Naturhistorisches Museum.
Cofanetto in legno per cosmetici con recipienti di alabastro, vetro e ceramica, dal corredo funebre della tomba di Kha e Merit, da Deir el-Medina. Nuovo Regno, XVIII dinastia, regno di Amenofi II-III (1424-1348 a.C.). Torino, Museo Egizio.
del carbonato in ossido di piombo, ed è per questo motivo che, a volte, i corpi e gli abiti delle immagini antiche risultano incomprensibilmente scuri.
Processi complessi e «moderni» Il processo sfruttava quindi la trasformazione del piombo in acetato, quindi in carbonato (grazie all’effetto del calore solare e dell’esposizione all’aria, la cui azione tradizionalmente era accelerata dall’immergere vasi contenenti piombo e aceto in fosse colme di sterco, che liberava, appunto, concentrazioni
di diossido di carbonio). Altri processi citati dalle fonti antiche comprendevano l’uso dell’ossido di piombo, un prodotto collaterale dalla raffinazione dell’argento dalla galena (solfuro di piombo). L’ossido poteva essere macinato e diluito in acque ricche di sale e carbonato di calcio, ottenendo in tal modo pigmenti bianchi che potevano essere aggiunti ad altri materiali per modificarne il colore o sfruttarne le supposte proprietà antisettiche. Abbastanza complesso, non vi pare? La domanda che sorge spontanea è – dato che non disponiamo di fonti scritte altrettanto
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esaurienti prima di Plinio e Vitruvio – a quando esattamente risalgano simili conoscenze, e, con esse, gli inizi di una «chimica a processi umidi» tanto esperta e avanzata. È difficile dare una risposta immediata. L’uso dei pigmenti a base di ossidi e solfuri metallici, a scopo di pittura corporea come di decorazione parietale, risale certamente al Paleolitico Inferiore, ed è stato dimostrato che questi pigmenti erano macinati e intenzionalmente preparati a fuoco, quindi arricchiti di leganti organici. Polveri di galena (comunemente dette kohl) sono ancora oggi il principale ingrediente di un cosmetico per abbellire gli occhi diffuso dal Nord Africa all’India, particolarmente usato sui bambini in tenera età, al punto che diverse organizzazioni internazionali stanno monitorando i gravi danni alla salute dei piccoli che ne derivano, come una vera e propria piaga sociale. La galena figura molto spesso come ingrediente principale dei cosmetici per gli occhi trovati nelle tombe degli aristocratici in Egitto e in Mesopotamia, almeno a partire dagli ultimi secoli del IV millennio a.C. Agli inizi degli anni Trenta del Novecento, Kenneth Graham, il chimico che condusse i primi studi analitici sui materiali di Ur (oggi in Iraq), aveva analizzato i pigmenti cosmetici trovati da Leonard Woolley nel Cimitero Reale (2400-2300 a.C. circa). Vi trovò non solamente ossidi di ferro e manganese, azzurrite, malachite, apatite e idrossiapatite (queste ultime ottenute da ossa e conchiglie macinate), ma anche tracce di cerussite e idrocerussite. Preferí tuttavia considerare queste ultime come «minerali secondari», cioè trasformazioni chimiche di originarie polveri di galena avvenute nel corso dei secoli nel terreno di sepoltura, piuttosto che prodotti chimici artificiali. In effetti, cerussite e idrocerussite sono il principale prodotto naturale dell’alterazione del piombo, sia sotto l’effetto di acque circolanti ricche di cloro e calcio (come le tubature dei vecchi acquedotti), sia in ambienti fortemente aridi ricchi di efflorescenze carbonatiche e
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saline. La conclusione di Graham, ispirata a una visione piuttosto minimalistica della tecnologia antica, fu echeggiata dalle interpretazioni date alle analisi chimiche effettuate sui pigmenti e sui cosmetici dell’Antico Egitto, nei quali cerussite e biacca sembrano essere alquanto rare. I bianchi di piombo furono cosí considerati a lungo come una innovazione del tardo I millennio a.C.
Le conferme egiziane Uno studio relativamente recente, sostenuto finanziariamente dall’Oréal, ha rimesso tutto questo in discussione. Sono stati studiati, con tecniche analitiche aggiornate, circa 50 campioni di cosmetici trovati in antiche tombe egiziane. Sebbene la massa dei materiali (in particolare pigmenti scuri per gli occhi) siano stati identificati come polvere di galena e altri ingredienti, gli esperti hanno trovato tracce di cloruri e clorocarbonati di piombo, sostanze bianche che, a loro giudizio, non possono essersi formate casualmente nel corso del tempo, ma dovevano essere state intenzionalmente prodotte a partire dall’ossido di piombo con tecniche non dissimili da quelle testimoniate dalle fonti antiche. Tanto piú che le polveri erano state ermeticamente sigillate in piccoli contenitori di materiali semipreziosi, deposti in ambienti protetti e relativamente stabili, e certo ben protetti dall’azione dell’umidità. E hanno concluso che la tecnologia in questione deve risalire almeno agli inizi del II millennio a.C. Negli ultimi anni, identificazioni di biaccacerussite in contenitori di cosmetici ancora piú antichi (III millennio a.C.) sono state segnalate per l’Asia Centrale, l’altopiano Iranico e la valle dell’Indo. Innaturali maschere bianche, come quella di Elisabetta I, sembrano avere costellato le cerimonie e gli eventi sociali delle élite di 5000 anni fa, «alla faccia» di qualsiasi considerazione igenica, e a riprova dell’alto prezzo pagato dalle donne per le conquiste della civiltà della quale siamo tanto fieri. L’intossicazione da piombo nei cosmetici, quindi, è stata un costante rischio, per le donne
Montignac (Dordogna, Francia), Grotta di Lascaux, Sala dei Tori. La raffigurazione dipinta di un toro, affiancato da tre cavalli. Paleolitico Superiore, cultura maddaleniana, 17-15 500 anni fa circa. Già nelle decorazioni parietali preistoriche è attestato l’uso di pigmenti a base di ossidi e solfuri metallici.
delle classi piú elevate, per almeno 5000 anni, La rivoluzione industriale ha esteso questo «regalo» anche alle donne delle classi medie, e il pericolo non è stato ancora scongiurato, se è vero che ancor oggi continuano a essere diagnosticati casi di encefalopatia acuta e neuropatia motoria causati, in donne anziane, dal prolungato uso di rossetti e fondotinta fatti con derivati del piombo. E spesso contengono solfuro di piombo i trucchi per occhi di produzione orientale chiamati kohl, kajal, al-kahl o surma, che in un modo o nell’altro continuano a giungere alle ragazze e ai giovani «alternativi» del nostro Paese. Non sappiamo se la cerussite venisse prodotta con la tecnica dell’esposizione del piombo all’aceto: è cosa perfettamente possibile, dato che il vino era noto nell’Asia Media almeno dalle fasi centrali del Neolitico, e vi erano stati almeno due o tre millenni per sperimentare le possibili applicazioni industriali dell’aceto. Ma è
certo che l’industria protostorica dei cosmetici – dato che in essa dovevano confluire l’estrazione delle sostanze aromatiche, di grassi animali e vegetali, e il trattamento complesso di diversi preparati metallici – rappresenta un perfetto esempio della complessità tecnica cresciuta nelle prime città, all’insegna dell’intersezione tra i piú svariati cicli produttivi. Possiamo anche chiederci quale fosse esattamente lo scopo ultimo della tecnologia dei cosmetici in questo particolare momento storico e contesto sociale.
Un parere autorevole Vero è che quello dei cosmetici può essere considerato uno dei pochi imperativi universali di ogni società umana, al punto che Charles Darwin in The descent of man, and selection in relation to sex (Londra, 1871) propose questo argomento come una fondamentale prova dell’unità del genere umano. Persino
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e maschili). La tinta della carnagione è parte della stessa sindrome. In tutte le popolazioni del globo, le femmine della nostra specie hanno mediamente la pelle piú luminosa e verdastra dei maschi, la cui pelle tende invece al rossastro, e il contrasto tra pelle, occhi e labbra è maggiore nelle femmine che non nei maschi. Una possibile spiegazione è che i maschi hanno concentrazioni superiori di emoglobina nel sangue, al punto che alcuni scienziati pensano che la nostra notevole sensibilità al colore si sia evoluta per la necessità di apprezzare al meglio queste sfumature cromatiche nel riconoscimento sessuale; inoltre nelle donne che hanno la pelle piú chiara si riscontra un’accresciuta produzione della vitamina D3, preziosa nella gravidanza e nell’allattamento, un altro possibile fattore, conscio o inconscio, dell’attrattività tra i sessi.
A destra un bambino indiano con il contorno degli occhi delineato con il kohl o kajal. Nella pagina accanto frammento di calcare dipinto raffigurante il profilo di Ramesse VI. Nuovo Regno, XX dinastia (1143-1136 a.C.). Gli Egiziani utilizzavano comunemente il kohl sotto gli occhi, rappresentato nei dipinti con una lunga linea scura, per proteggersi dal sole e dalle mosche.
nell’Inghilterra vittoriana, una delle società piú sessuofobiche e misogine mai esistite, le donne riuscivano ad aggirare il divieto assoluto di trucchi e rossetti, pizzicandosi ad arte il volto e le labbra, e decorando gli abiti con lustrini che illuminavano impercettibilmente i tratti del volto con veri e propri «effetti speciali»; e le restrizioni messe in opera nel secolo passato dai Paesi comunisti ebbero come unico risultato la fioritura di un attivissimo mercato nero di questi prodotti. Al di là dell’assoluto arbitrio dei modelli culturali umani, esiste, quindi, un archetipo universale, scientificamente misurabile e condiviso da ogni cultura, della bellezza femminile? Sembrerebbe proprio di sí, almeno a giudicare dalle ricerche di Richard Russell, antropologo al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Harvard. L’attrattività di un volto dipenderebbe, secondo Russell, da una serie di fattori quali un aspetto giovanile, l’omogemeità della pelle, una somiglianza generale del viso a quelli della media delle popolazioni, una perfetta simmetria bilaterale, e un accentuato dimorfismo sessuale (differenze accentuate e immediatamente percepibili tra tratti femminili
Sensualità e seduzione L’uso dei cosmetici servirebbe, quindi, proprio ad accentuare questi aspetti somatici e la loro interazione, creando cosí volti-maschera non solo esenti da difetti, ma anche e soprattutto superfemminili. Volti di regine, quindi, ma anche di donne del sacro, sacerdotesse e dee, senza escludere l’altra faccia della medaglia, vale a dire quella della sensualità e della seduzione, che spesso richiedono modelli estetici assolutamente artificiali. Ruoli virtuali, certamente, ma necessari a sorreggere strutture sociali sempre piú piramidali e diversificate, come quelle dei primi Stati e delle prime città. I volti bianchi di carbonato di piombo, nei quali labbra e occhi risaltavano come gemme, erano destinati a suscitare reazioni favorevoli – ammirazione, desiderio o timore che fosse – negli astanti e nel pubblico, e condizionarne il comportamento. In ultima analisi, le tecnologie dei cosmetici, nella loro complessità tecnica, possono essere interpretate alla stregua di quelle della scrittura: si stratta in ogni caso di procedure finalizzate all’organizzazione e alla gestione dall’alto delle vite altrui.
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Storie di resine e di
giganti
Associata alle lacrime degli dèi, l’ambra nasce da una conifera estintasi decine di milioni di anni fa. Ma anche altri fossili, tra cui quelli di pesci e molluschi rinvenuti in rocce molto lontane dal mare, ispiravano narrazioni fantastiche... | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 122 |
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Nella pagina accanto fossile di balena, dalla valle delle balene a Wadi Hitan, Deserto Libico occidentale. I fossili di grandi animali furono considerati nell’antichità scheletri di giganti e di altri eroi, o resti di mostri e draghi, e il loro ritrovamento ne alimentava le leggende. In alto fossile di Cerithium benechi, un gasteropode con conchiglia convessa avvolta a spirale.
ella sua corsa allo sfruttamento di ogni possibile risorsa, l’uomo ha fatto larghissimo uso di ogni genere di materiale fossile lasciatoci in eredità dalle moltitudini delle creature che vissero nella preistoria; e le sostanze fossili – dai gusci dei molluschi, ai resti dei pesci fino alle ossa dei grandi mammiferi estintisi nel Pleistocene e ai prodotti legati al petrolio – catturarono l’attenzione degli antichi da tempi estremamente remoti, stimolando importanti riflessioni e teorie scientifiche. La storia dell’evoluzione delle idee sui fossili potrebbe essere presa come paradigma del carattere controverso, non lineare della storia della scienza. Molti, tra i pensatori della Grecia antica, avevano notato la presenza di fossili di pesci e molluschi nelle rocce di località molto lontane dal mare, per esempio nel cuore di regioni asiatiche, o sulla cima di elevate montagne. Alcuni di essi elaborarono, al proposito, spiegazioni compatibili con la moderna comprensione di questi fenomeni, altri (e tra loro alcuni grandi filosofi) proposero invece spiegazioni che oggi ci sembrano oltremodo bizzarre. Per esempio, Talete di Mileto (636-546 a.C.) aveva correttamente interpretato la formazione delle rocce sedimentarie a partire dai depositi alluvionali dei fiumi; Senofane di Colofone (seconda metà del VI secolo a.C.) sembra essere stato il primo a citare la presenza di rocce ricche di fossili come prova del fatto che alcune terre erano state in origine sommerse dal mare. Senofane riportava la scoperta di impronte del corpo di pesci nelle miniere di Siracusa, di foglie di alloro nelle rocce dell’isola di Pharos e di numerosi tipi di creature marine nelle rocce sedimentarie dell’isola di Malta. Il suo contemporaneo Erodoto, invece, notò in Egitto rocce ricche di nummuliti (gusci di microfossili a forma di disco o monetina) e li interpretò come i resti delle lenticchie ammucchiati dai costruttori delle grandi piramidi di Giza. Anche il grande Aristotele è sospettato di avere avuto idee piuttosto confuse sull’argomento.
Nel suo trattato Sulla respirazione, leggiamo quanto segue: «Moltitudini di pesci vivono immobili nella terra e vengono in luce quando si scava». Il suo allievo Teofrasto in un trattato sui pesci è piú preciso, e specifica che i fossili di pesci derivano da uova lasciate dagli animali nel terreno, oppure da esemplari che abbandonano i letti dei fiumi e si addentrano nelle rocce in cerca di cibo, per poi morirvi.
Malvagi trucchi del diavolo... Nei secoli successivi, e nel trapasso dall’antichità classica al periodo ellenistico e al Medioevo, i fossili alimentarono speculazioni di ogni genere. Alcuni pensarono che fossero forme create da influssi astrali, da forme di fermentazione delle rocce mentre si trovavano in stato soffice o plastico, oppure che fossero scherzi prodotti da forze intrinseche della natura; per altri si trattava di informi abbozzi e tentativi abortiti della creazione; piú sottile e contorta l’idea che fossero malvagi trucchi del diavolo per insinuare dubbi sulla versione biblica della Genesi. Né la questione poté dirsi stata risolta con il «trionfo della ragione». Quando il grande naturalista Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788) ripropose la stessa teoria di Senofane, fu pubblicamente sbeffeggiato dal grande Voltaire, secondo il quale i fossili erano semplicemente conchiglie gettate sui monti dai pellegrini che tornavano in patria dopo aver visitato Roma. Alcuni fossili furono attivamente cercati, nel mondo antico, per le loro supposte virtú magiche. Il «corno di Ammone», che si cercava in Etiopia, era lodato per il colore dell’oro e la forma che ricordava il corno dell’ariete, sacro, appunto, al dio nazionale egiziano Amon. Da Amon prendono il nome le ammoniti, gusci ritorti di molluschi cefalopodi estinti vissuti nel
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corso dell’Era Secondaria: se ne conoscono infinite varietà, di dimensioni che variano da pochi centimetri a piú di un metro di diametro. Dovrebbero essere imparentate, dal punto di vista evolutivo, al nautilo, il cefalopode vivente che, grazie alla divisione della spirale della conchiglia a sifoni interni, è in grado di «nuotare» spostandosi nelle acque oceaniche. Il sacro corno dell’ariete (o l’ammonite) compare anche sulle tempie dei ritratti ufficiali di Alessandro Magno, dopo la sua consacrazione come figlio del grande dio (cioé come faraone) nell’oasi dell’oracolo di Siwa. Come «corno di Ammone» erano evidentemente conosciute le ammoniti piritizzate, cioé fossilizzate in pirite, solfuro di ferro, che assumevano un caratteristico colore dorato e scintillante. Agli inizi del secolo scorso, le ammoniti piritizzate del Dorset (Inghilterra) conobbero una fortunata stagione come elemento di gioielleria, alimentando una florida industria che, passata la moda, si estinse alle soglie del primo conflitto mondiale. Alle «glossopetre» (letteralmente,
«pietre-lingua»), e in particolare a quelle che si estraevano nell’isola di Malta, si attribuivano virtú miracolose, e le si consideravano ceraunia, cioè prodotti magici dell’impatto di fulmini. Molti le ritenevano lingue pietrificate di serpenti o anatre. Si trattava invece di denti di squalo fossilizzati, e, come osservò il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) l’unico uso terapeutico che se ne poteva fare era macinarle come abrasivi e farne dentifrici. Sempre all’azione dei fulmini erano attribuiti i brontia e gli ombria, molto probabilmente gusci fossili di ricci di mare.
Una rotula come reliquia Diffusa presso gli antichi fu la credenza che le ossa di grandi mammiferi estinti fossero resti di giganti, ciclopi e grandi eroi epici. Pausania, per esempio, racconta del ritrovamento a Salamina della rotula di un elefante «della mole di un disco del circo», interpretata come reliquia dello scheletro di Aiace. Sembra che gli Spartani venerassero altri reperti fossili come parte delle ossa di Oreste e che il
A sinistra denti di squalo paleozoico. Nella pagina accanto esemplari di ammoniti, gusci di molluschi cefalopodi usati nel mondo antico perché era loro attribuito un valore magico, detti «le corna di Ammone» per la loro forma simile al corno di un ariete, animale magico del dio egiziano.
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Nera e dall’aroma intenso
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el mondo antico, i materiali vegetali fossili furono usati raramente a scopo ornamentale. Il caso piú celebre è probabilmente un tipo di bracciale in giaietto (un legno fossile di colore nero cupo, simile alla lignite, prodotto da legno galleggiante in acqua palustre e successivamente sepolto e modificato da forti pressioni). Il giaietto veniva chiamato anche «ambra nera», perché, se strofinato, produce un aroma intenso ed effetti di elettrizzazione simili a quelli dell’ambra; conobbe grande popolarità nella bigiotteria di età vittoriana, ma passò ben presto di moda. Secondo alcuni autori, in Gran Bretagna il giaietto veniva estratto già nel II millennio a.C.; elementi di collana e pendenti in questo materiale sono stati rinvenuti in tumuli sepolcrali di età protostorica. Nell’età del Ferro, gli artigiani celtici inventarono uno speciale bracciale fabbricato al tornio orizzontale, cioé facendolo ruotare ad alta velocità e incidendo i blocchi semifiniti con una sgorbia.
mito dei Ciclopi, in Sicilia, fosse stato alimentato dalla scoperta di crani di elefanti preistorici la cui cavità nasale veniva scambiata, appunto, per l’orbita oculare dei mostri; Svetonio (72-123 d.C.) racconta che lo stesso imperatore Augusto aveva raccolto nella sua villa di Capri una collezione paleontologica nella quale alcune enormi ossa venivano esibite come resti di una razza estinta di giganti. In età medievale, simili reperti alimentarono leggende su mostri e draghi, in particolare in relazione a leggende molto popolari, come quella di san Giorgio. Una tavola dell’opera Mundus Subterraneus del gesuita dai poliedrici interessi scientifici Athanasius Kircher (1602-1680) mostra appunto lo scontro col drago ambientato in un cupo mondo sotterraneo, col drago prossimo a un cranio umano: era infatti nelle grotte che le scoperte di ossa preistoriche, animali e umane, erano piú frequenti. Del resto, la «gigantologia» fu una branca scientifica dura a morire. Ai tempi di Luigi XIII (1601-1643), sulle sponde del Rodano fu rinvenuto lo scheletro di un grande mammifero preistorico, subito riciclato come il sepolcro di un capo dei Cimbri sconfitto da Mario. Nei primi decenni del 1600 si stamparono opere erudite con titoli quali De Gigantibus Eorumque Reliquiis (Sui Giganti e i loro resti), Gigantosteologie, ou Discours des os des geants (Osteologia dei Giganti o Discorso sulle ossa dei Giganti) mentre gli oppositori correvano ai ripari con opere quali l’Antigigantologie ou Contre-Discours de la Grandeur de Geants... Due materiali fossili furono intensamente sfruttati, dalla preistoria all’età moderna, per la produzione di ornamenti e oggetti di lusso: l’avorio fossile (cioé l’avorio dei mammut e di altri grandi mammiferi pleistocenici) e l’ambra. Secondo le popolazioni tartare e siberiane, i grandi giacimenti di ossa fossili della Siberia settentrionale appartenevano a popolazioni di
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Misteri e varietà di un materiale affascinante
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ebbene l’ambra sia stata raccolta e lavorata già nel Paleolitico, essa rimane una materia affascinante e misteriosa. Nessuno, per esempio, è ancora in grado di dire in quali precise condizioni nella preistoria si sia verificata una produzione tanto abbondante, per numero e dimensione delle masse, di materiale resinoso (alcuni pensano che si sia trattato di una catastrofica malattia delle piante). L’ambra è da trasparente a traslucida, di colore da giallo a bruno, ma anche opaca, rossastra o biancastra. Molto note sono le sue inclusioni: polveri, particelle vegetali come aghi di pino e muschio, insetti intrappolati nelle masse fluide colate su rami e tronchi e imprigionate per sempre in altrettante teche dorate. Facile da lavorare a causa della scarsa durezza, l’ambra si ammorbidisce a 150 °C, per poi liquefarsi completamente tra 250 e 300 °C; esposta al calore emette un forte
grandi creature sotterranee che aborrivano la luce del sole. Una leggenda degli indigeni della Virginia raccolta da Thomas Jefferson affermava invece (abbastanza correttamente) che le ossa fossili appartenevano a grandi animali estinti vissuti ai tempi dei loro antenati; poiché tuttavia queste bestie possenti distruggevano ogni altra forma di vita, il Grande Spirito li aveva sterminati tutti a suon di fulmini, meno il capostipite che, con la fronte corazzata, era stato capace di respingere tutti i colpi celesti.
Il mammut dato in pasto ai cani Prima che si affermasse il valore paleontologico e archeologico dei reperti, i giacimenti siberiani di avorio (descritti come «agglomerati di ghiaccio, sabbia e denti di elefante») furono ampiamente saccheggiati per rifornire in occidente i fabbricanti di oggettistica. Un uso «estremo» di materiale fossile si ebbe nel 1799, quando il corpo di un mammut, perfettamente conservato in un blocco di ghiaccio, fu rinvenuto da un gruppo di pescatori
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all’imboccatura della Lena; con le sue carni, prima che il reperto giungesse a San Pietroburgo, furono nutriti alcuni cani. L’ambra, resina fossile essudata dalla conifera Pinus succinifera nelle enormi foreste dell’Oligocene, piú di 30 milioni di anni fa, resta uno dei materiali piú popolari e pregiati del mondo antico. Dell’ambra si è scritto e si scrive moltissimo, sin da quando gli antichi avanzavano le teorie piú singolari sulla sua genesi. La si volle fango, cera o sudore marino, schiuma prodotta da misteriosi abitanti del mare, o addirittura urina di lince solidificata dal vigore dei raggi solari. Alla radianza del sole, cosí simile alle sue trasparenze auree, l’ambra era strettamente legata. Nelle pagine del mito, fu prodotta dalle lacrime di Egle, Fetusa e Lampezia, le tre Eliadi (figlie di Elio, il sole) e dalla madre Climene, trasformate in pioppi quando il fratello Fetonte, fulminato da Zeus dopo una corsa sfortunata sul carro del padre, era piombato rovinosamente nelle acque del
In alto ambra in forma di orso, da una tomba della colonia romana di Ulpia Noviomagus Batavorum (antica Nimega). I sec. d.C. Nimega, Rijksmuseum G.M. Kam.
profumo aromatico. Chiamata Elektron (cioé lucente come il sole) dagli antichi Greci, grazie alla proprietà di attirare particelle quando viene strofinata con vigore, ha donato il suo nome all’elettricità. Se ne conoscono circa 50 varietà commerciali, provenienti dalle rive del Baltico (la fonte piú comune), soprattutto nella vecchia Prussia orientale (attualmente nella regione di Kaliningrad, in territorio russo); ma anche dalla Piccardia, dai Pirenei, dalla Sicilia, dalla Romania, come in regioni molto piú remote, come la Birmania, la Cina, il Canada, gli Stati Uniti e Santo Domingo. L’ambra baltica, a causa della sua bassa densità, può essere strappata dall’azione delle correnti marine e portata sulle spiagge di vaste aree della costa del Baltico, e persino sulle rive di Danimarca e Norvegia. Nell’area di Palmnicken, oltre all’ambra marina, si estrae l’ambra di cava: le ambre si rinvengono in strati di «terra blu», una sabbia ricca in glauconite (un silicato idrato di potassio e ferro). Questo tipo di ambra viene estratta con pale meccaniche e separata con appositi procedimenti di lavaggio.
In alto testa in ambra di epoca neolitica, da Åsarp (Svezia). Stoccolma, Historiska Museet. A destra blocco di ambra baltica grezza.
fiume Eridano (variamente identificato con un corso che sfociava nel Baltico, con il Rodano e con il Po). Forse alle foci del Po gli antichi collocavano le mitiche isole Elettridi, dove coraggiosi mercanti si spingevano a cercare la preziosa resina fossile. Secondo altre versioni del mito, le sorelle e la madre di Fetonte furono invece trasfigurate in una scia di luci dorate a tracciare, sulla volta stellata, il corso di un Eridano celeste. Plinio il Vecchio, nell’ultimo libro della sua Naturalis Historia, parla con disprezzo delle «fole sparse dai poeti nel mondo» (come se lui stesso, in numerosi casi, non avesse raccolto e tramandato ogni genere di diceria fantastica): l’ambra, ci dice Plinio, è la resina indurita prodotta da certi alberi che crescono sulla costa settentrionale della Germania, e ha un indiscusso valore medicinale (una collana d’ambra appesa al collo di un bambino lo proteggerà dal veleno, come dalle illusioni e dagli incubi che fanno impazzire la gente). «Ciò che ai raggi del sol crebbe a verzura
splendida, e fu coperto dalla terra nel suo duro sepolcro, strappato alla notte dei secoli, ora risorge a diventar per noi luce e calore», scriveva un naturalista ottocentesco. L’intera età della Rivoluzione Industriale (17501850 circa) fu in effetti dominata dalla scoperta e dallo sfruttamento intensivo, quasi parossistico, dei combustibili fossili, soprattutto torbe, diverse varietà di carbone fossile (lignite, litantrace, antracite) e petrolio.
Calore, vulcanismo e pressione La carbonificazione, come oggi sanno bene i geologi, investiva grandi giacimenti di residui di organismi vegetali in condizioni di scarsità di ossigeno, sotto l’effetto di alte temperature indotte da fenomeni vulcanici e da forti pressioni sotterranee; in passato molti ritenevano invece che i depositi carboniosi fossero prodotti naturali della trasformazione delle argille. I carboni fossili, formatisi soprattutto nel corso delle ere geologiche chiamate Carbonifero e Permiano, non vanno
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confusi con numerose varietà di carboni artificiali, alcuni dei quali di produzione e uso in tempi relativamente antichi, quali il nero d’ossa sgrassate o d’avorio, coloranti prodotti dalla combustione di residui animali, il nerofumo o gli stessi residui della combustione della legna. La dimestichezza dell’uomo con queste preziose sostanze fossili era iniziata millenni prima. Preziosissimo nell’antichità era stato per esempio il bitume, l’unica materia prima, insieme all’argilla, che fosse disponibile in grandi quantità nelle pianure della regione siro-palestinese e della Mesopotamia. Il bitume, prodotto solido e nero dell’ossidazione superficiale degli affioramenti di petrolio, fu usato da tempi immemorabili per impermeabilizzare canestri e recipienti, per
fissare elementi di intarsio, per agevolare la trapanazione di materie dure (le superfici venivano rivestite di bitume per non far scivolare le punte), per realizzare le coperture dei tetti, grandi costruzioni idrauliche e imbarcazioni. La grande ziggurat o torre a gradoni di Ur scavata da Sir Leonard Woolley negli anni Trenta del Novecento, per esempio, era rivestita, sulla superficie degli stessi gradoni, da spessi strati di bitume, al punto che l’archeologo ipotizzò che avessero ospitato giardini fiorenti, a imitazione di una grande montagna sacra. Templi e navi: il bitume giocava un ruolo essenziale nelle due realizzazioni che erano, al tempo stesso, le piú gravose, ma
Qui sotto elemento in ambra facente parte di una fibula etrusca, da Verucchio. VII sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. In basso collana di corallo, dalla Nigeria.
Repliche di laboratorio
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linio il Vecchio cita un procedimento di trattamento termico dell’ambra, apparentemente finalizzato a una forma di raffinazione, nel quale la resina viene immersa nel grasso di maiale bollente. La descrizione sembrava poco comprensibile: come poteva l’ambra purificarsi senza sciogliersi? L’industria moderna, nella quale l’85% circa dell’ambra viene riciclata mediante un processo di fusione ad alta pressione (ambra pressata o ambroide), applica al materiale riciclato un processo di cottura controllato in olio di colza. L’olio penetra negli spazi bollosi lasciati dalla rifusione e ridà trasparenza al materiale prima opaco (produzione di ambra chiarificata). Forse Plinio aveva sentito parlare di una tecnica simile? Alcuni anni fa, replicammo in laboratorio il procedimento menzionato dal naturalista romano: portammo a ebollizione dello strutto e vi versammo alcuni frammenti di ambra
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baltica. La struttura interna della resina rimase inalterata, ma, con nostra sorpresa, il colore dei pezzi virò da giallo dorato a rosso cupo. Non riuscimmo quindi a capire se fosse effettivamente possibile schiarire l’ambra mediante cottura in una sostanza grassa, ma certo gli antichi artigiani erano in grado di mutare con facilità, e in tutta sicurezza, il colore originario delle ambre. Ora, gli straordinari rinvenimenti della necropoli di Verucchio, in Emilia-Romagna (IX-VI secolo a.C.) comprendono numerose fibule con parti in ambra spesso accostate in modo da creare forti contrasti cromatici (dal giallo dorato al rosso cupo). Il modo di lavorare l’ambra, in queste fibule, è assai complesso: gli archi erano spesso rivestiti di anelli di diametro e spessore crescente, con inserimento di intarsi in osso o avorio, oppure in ambra rivestita di foglie di stagno per rifrangere la luce. In questa elaborata tecnologia è stato notato che alcuni degli anelli in ambra recavano, oltre al foro centrale, altre perforazioni interne parallele. Il nostro esperimento suggerisce che gli artigiani al soldo dei signori di Verucchio ottenessero anelli d’ambra di colore contrastante cuocendone una parte, e che i fori multipli in alcuni anelli avessero facilitato la diffusione piú uniforme dell’arrossamento.
decomposizione e della trasformazione geologica di immensi depositi preistorici di origine organica), la parola deriva dal latino oleum petrae (olio minerale), termine che designava le essudazioni superficiali che la farmacopea antica usava soprattutto per curare malattie della pelle del bestiame.
Il petrolio come medicamento
In alto gli occhi in bitume di una statua raffigurante una dea sumerica, da Eshnunna (Tell Asmar). 2900-2500 a.C. circa. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
redditizie forme di investimento economico del mondo antico. Testi cuneiformi mesopotamici su tavolette di argilla menzionano, al proposito, le «barche nere di Magan», cioé delle coste omanite dello stretto di Hormuz, che commerciavano con l’India. Lungo le coste della Penisola Arabica, in siti protostorici del Kuwait e dell’Oman, sono venute in luce parti di rivestimenti in bitume che recano all’esterno i gusci di organismi infestanti sviluppatisi in alto mare, e dall’altro impronte di fasci di giunco con tracce di legature, stuoie e parti in legno. Gli esemplari piú antichi si datano al periodo detto di Ubaid (4500-3500 a.C. circa). La scoperta ha dimostrato che le «barche nere» erano imbarcazioni leggere ed elastiche, impermeabilizzate con bitume, capaci non solamente di effettuare la navigazione costiera tra la foce del Tigri e dell’Eufrate, le coste iraniche a nord e quelle arabiche a sud, ma anche di attraversare, certo col favore dei monsoni, il tratto oceanico tra le coste di Karachi e del Makran, nell’attuale Pakistan, e le coste omanite. Meno noto è forse che, con il bitume, intorno al 3000 a.C., in Iran occidentale, si facevano anche attraenti elementi di collana. Quanto al petrolio (anch’esso prodotto della
Alle pretese virtú terapeutiche del petrolio si aggiungeva la spontanea venerazione per le sue sorgenti, in grado di alimentare fiamme perpetue e inestinguibili. La parola naptu, in accadico, all’origine della nostra «nafta», compare già nel 2200 a.C. e designa il greggio che fuoriesce naturalmente dal terreno. Il petrolio era stato usato, nell’antico Oriente, come sostanza medicinale, per guarire ulcere allo stomaco e affezioni cutanee degli esseri umani, oppure come diluente per altre sostanze. Ma l’ingrediente insostituibile dell’«età dell’Automobile», fu usato, in passato, soprattutto in modi di cui sarebbe difficile essere fieri, cioé a scopi militari, innanzitutto per realizzare frecce e proiettili incendiari. Tra le applicazioni piú clamorose si ricordano una gigantesca nave-bomba esplosiva inviata dai Fenici assediati a Tiro alla volta della rampa in terra, difesa da macchine belliche in legno, costruita dai Macedoni di Alessandro: uno scafo colmo di legna secca, segatura, pece e zolfo, con recipienti colmi di liquidi infiammabili sospesi in alto. Le torri macedoni andarono in cenere, ma l’ingegnoso espediente non salvò i Fenici dall’attacco. Anche se l’uso bellico dei liquidi infiammabili rimase sempre una specialità medio-orientale, gli Occidentali avrebbero imparato ben presto la lezione: nel 680, mentre Bisanzio era nella morsa della flotta omayyade di Damasco, gli assediati, grazie alla delazione di un Arabo traditore, realizzarono una miscela infiammabile capace di bruciare anche sull’acqua, e la usarono per armare dei possenti lanciafiamme; la flotta araba fu rapidamente carbonizzata. È il caso di dire che le corse agli armamenti militari, allora come oggi, procedono sempre nelle due opposte direzioni.
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MONOGRAFIE
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