Vita quotidiana nella Terra tra i due Fiumi • Prima dell’alfabeto • Religione, arte e scienza • Hammurabi, l’uomo del mistero • Uruk, una megalopoli dell’età del Bronzo • Ur, la leggenda continua • Ritorno a Babilonia •
di Massimo Vidale
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IN EDICOLA IL 20 LUGLIO 2017
MESOPOTAMIA, ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ
MESOPOTAMIA ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ
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MONOGRAFIE
N°20 Agosto 2017 Rivista Bimestrale
ARCHEO MONOGRAFIE
RA MI R E FIU T LA UE L NE A I D TR
MESOPOTAMIA alle origini della civiltà di Massimo Vidale, con un contributo di Claudio Saporetti
6. Presentazione 14. Il territorio
La terra tra i due fiumi 26. Città, re e dinastie
Gli artefici del miracolo
66. La religione
Religione, arte e scienza 84. Hammurabi
L’uomo del mistero 94. Uruk
38. La scrittura
Prima dell’alfabeto
Una megalopoli dell’età del Bronzo
48. I luoghi della vita
98. Ur
Scene di vita quotidiana
La leggenda continua
56. I luoghi del potere
104. Babilonia
Il tempio e il palazzo
La porta degli dèi
La ziqqurat di Ur, innalzata per volere del re Ur-Nammu alla fine del III mill. a.C.
«Gli antichi abitanti della Mesopotamia vedevano le proprie città-stato come copie terrene di un modello d’ordine divino. Ogni città-stato era sacra, in quanto legata a un dio oppure a una dea. Di qui, Nippur, il piú antico centro religioso di Sumer, era Enlil, dio del Vento. Inoltre, collocato al centro di ogni maggiore città-stato, vi era un complesso templare. Estesa per alcuni ettari, quest’area sacra comprendeva una ziqqurat, con un tempio sulla sommità, dedicato al dio o alla dea che possedeva la città. Tale complesso templare era il vero centro della comunità. Il dio o la dea principali vi abitavano simbolicamente sotto forma di una statua, e la cerimonia di dedica comprendeva un rituale che legava l’immagine al dio o alla dea, e cosí ne sfruttava il potere sovrannaturale a vantaggio della città (...) sebbene gli dèi, letteralmente, possedessero la città, il tempio usava soltanto una parte dei suoi terreni, e dava in affitto il resto» (Jackson J. Spielvogel, Western Civilization, 1996).
D
alla Terra tra i due Fiumi, alla Terra dei mille conflitti. Se un antico Greco, per incanto, potesse godere dell’occhio dell’attualità, potrebbe ben chiamarla «Mesopolemia». In questo mondo in cui tutto cambia senza sosta, i due fiumi sono confluiti nell’unico estuario dello Shatt-el Arab, e uno di essi, il Tigri, sbarrato da una diga dopo l’altra, scorre ormai come una profonda cicatrice con non piú del 10 o del 20 per cento della sua antica portata; mentre attorno alle pianure alluvionali si affollano guerre e stragi vecchie e nuove. È con un senso di continuo stupore che chi ama (per personale e spesso irrazionale vocazione) l’archeologia orientale, la cultura biblica e la storia delle prime civiltà assiste a questo ribollire di guerre e distruzioni: violenze che, come i lettori ben sanno, in ben piú di un’occasione si sono riversate con esiti rovinosi sulle testimonianze del patrimonio culturale. Facile sarebbe sostenere che vi è ben poco di nuovo sotto il sole: la storia della Mesopotamia, in particolare da quando essa può essere ricomposta, tra mille esitazioni, da frammenti di iscrizioni e immagini quasi integralmente
dovute alla propaganda dei sovrani, è intrisa di arroganza, violenza e compiacimento di morte.
All’ombra di una pergola Il pensiero corre, a questo punto, ai celebre rilievo di Assurbanipal (668-631) e della sua consorte a banchetto, che abbellivano le pareti dei palazzi di Ninive: l’ultimo grande re degli Assiri, posate le armi, beve sdraiato su un letto tra palme e alberi da frutto, tra uccelli svolazzanti e i fumi aromatici degli incensieri, all’ombra di una pergola rigonfia di grappoli d’uva (vedi foto in alto, sulle due pagine). Al suo cospetto, l’aria serale è pervasa dal suono dell’arpa e dolcemente mossa dai ventagli degli inservienti. Dal ramo di un albero, in un angolo remoto del giardino, per ribadire l’insignificanza del nemico, è appesa, capovolta, la testa mozzata di Te-Umman, re dell’Elam (nel margine sud-occidentale dell’altopiano iranico): un grande anello in ferro, come quello usato per appendere le teste degli animali macellati, gli attraversa la bocca. Era il 653 a.C., e mancavano poco piú di quarant’anni al crollo, nella polvere e nel sangue, della stessa Ninive.
Ma abbiamo veramente il diritto di riconoscere – nell’esperienza millenaria del Vicino Oriente e del Levante – le nostre radici storiche e culturali? | MESOPOTAMIA | 6 |
Di nemici calpestati dagli zoccoli di carri, asini e cavalli, di atroci torture, cadaveri e teste impilate come pietre in grandi tumuli eretti davanti alle mura di città in fiamme, e di puntuali descrizioni di pulizie etniche, traboccano le iscrizioni regali e le immagini della propaganda dei vincitori. La caccia alle vittime umane, del resto, come segno di valore militare e trionfo politico, fa parte da sempre della cultura del Paese. È forse il destino inevitabile di un Paese ricco d’acqua, di un’inesauribile vastità di terra coltivabile, e di braccia per lavorarla. A patto che il controllo su questo ristretto ventaglio di risorse, e su confini molto incerti, sia quello fermo e spietato di mani ben armate. Come può tutto questo conciliarsi con le profonde radici della cultura occidentale nel Vicino Oriente e nel Levante? Stiamo parlando del quadro idilliaco, spesso alquanto statico e pacifico, comune nei manuali di storia; delle invenzioni della scrittura, delle tecniche di amministrazione dello Stato (e della burocrazia!), della divisione del tempo, dell’affascinante In alto, sulle due pagine particolare di un rilievo raffigurante il re assiro Assurbanipal e la sua consorte a banchetto, da Ninive. 645-635 a.C. Londra, British Museum.
affabulazione dei segni zodiacali e dell’astrologia, ma anche dei primordi della medicina, dell’ingegneria idraulica e di poemi davvero immortali, come quelli del ciclo di Gilgamesh: in poche parole, di una preziosa e insostituibile eredità di «progresso» che sentiamo come intimamente nostra. Abbiamo il diritto – in senso storico e culturale – di riconoscere nella sua esperienza millenaria le nostre radici? E, se sí, in quale misura? E quale prezzo pagò l’umanità per tali «progressi»? Rispondere a queste domande, al di là dei luoghi comuni e di mille banali equivoci, è tutt’altro che semplice. Forse, prima di immergerci nelle immagini e nelle suggestioni che continuano a regalarci l’archeologia e i musei, e nella confortevole idea della contiguità, vale la pena di riflettere su come Occidente e Oriente, prima della catastrofica (per i Persiani) e momentanea incursione di Alessandro Magno, fossero stati mondi separati, oppure uniti da eventi e fili storici ancora poco visibili, o del tutto da decifrare. Prendiamo, per esempio, i tempi tra il IV e il III millennio a.C., quando lungo le piane di Tigri ed A sinistra pugnale in argento e oro con lama in bronzo, e fodero in oro, dalla tomba di Meskalamdug del Cimitero Reale di Ur. Metà del III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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Eufrate grandi città dell’età del Bronzo si cingevano di mura urbane, inventavano la scrittura per gestire, simili a banche, vere e proprie imprese commerciali, mandavano carovane in Asia Centrale in cerca di pietre e metalli preziosi, e investivano ricchezze impressionanti nella propaganda politica e religiosa, con il risultato di creare ciò che nei manuali è comunemente definita come «arte figurativa». Procedendo verso ovest, a volo d’uccello, negli stessi secoli troveremmo le rocche fortificate e le ricche necropoli di piccoli ma aggressivi regni anatolici, poi i tell (colline archeologiche artificiali) di comunità di agricoltori balcanici, che vivevano in villaggi di case di mattoni crudi e legno, creando ceramiche straordinariamente elaborate, ma in società apparentemente egualitarie.
Nell’«Europa dei barbari» Muovendo ulteriormente a ovest, lungo la nostra Penisola e in Europa centrale, strano a dirsi, l’età del Bronzo – a seguire le etichette degli archeologi – torna a sfumare in una età detta «del Rame», durante la quale si viveva in piccoli ed effimeri gruppi di capanne lignee a pianta allungata. Allora, le piú complesse manifestazioni «artistiche» erano perline in calcare e steatite, vasi con fitte incisioni geometriche e piastrine in pietra che proteggevano il polso degli arceri dai colpi della corda dell’arco. Era davvero l’«Europa dei barbari». Nelle geometrie dei vasi, detti «campaniformi», perché la forma assomiglia a quella delle campane, alcuni studiosi riconoscono un influsso delle culture nomadiche o seminomadiche degli allevatori delle steppe dell’Asia Centrale, che avevano cominciato a muoversi in libertà lungo il grande corridoio planiziario orizzontale – vera e propria spina dorsale dell’Eurasia – che congiunge le coste prospicienti l’arcipelago giapponese a quelle della Croazia. Ben poco, in questo quadro, connetteva le cittàstato mesopotamiche all’Occidente. Se, nel frattempo, lungo le regioni costiere occidentali della Penisola Iberica, potenti élite vivevano in grandi centri fortificati da circuiti murari multipli, con grandi torri e porte intricate, l’unica connessione con l’Oriente potrebbe essere rappresentata da piccole spirali di filo d’argento. Trovate nelle tombe iberiche dell’età del Rame, queste spirali sono analoghe alle unità pre-monetali che circolavano, al tempo, in Oriente, al punto da ispirare direttamente la
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forma del segno cuneiforme BABBAR, che significava «argento». Anche qui, forse, la prima globalizzazione fu tentata da mercanti e banchieri. Nel II millennio a.C., nel corso della media e tarda età del Rame, nel Mediterraneo centro-orientale sorsero i regni di Creta e Micene, connessi alla costa del Levante, a quelle anatoliche, a Cipro – la fonte del rame –, e all’Egitto da una fitta trama di processi politici e crescenti scambi commerciali, favoriti anche dalla diffusione della navigazione a vela; in questo nuovo mondo, inizialmente dominato dalle fortune e dagli scontri tra le compagini imperiali degli Ittiti e dell’Egitto, il mondo mesopotamico affiora, ma solo marginalmente, nella corrispondenza diplomatica della reggia perduta di Tell el-Amarna, ossia nelle lettere scambiate tra il faraone eretico Akhenaton (1375-1333 a.C. circa) e i re della poco conosciuta dinastia mesopotamica dei Cassiti (1531-1155 a.C.). In questi secoli, in Italia settentrionale nascevano i villaggi arginati della cultura delle terramare (età del Bronzo Medio e Recente, 1700-1200 a.C. circa). Dove sono, in questi complicati sincronismi, le radici comuni tra Est e Ovest? Al mondo babilonese del II millennio a.C. dobbiamo certamente (e indirettamente) Uomini armati sostano presso i resti di Ur (nell’odierno Iraq meridionale), in una foto del 1916. Nell’ottobre del 1919, al termine della prima guerra mondiale, l’Iraq, fino ad allora provincia ottomana, fu dichiarato indipendente. Nel 1922, Charles Leonard Woolley diede inizio allo scavo sistematico del sito.
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L’antica Mesopotamia non fu certo l’unica culla della civiltà umana. Ma è la sola per la quale disponiamo di abbondanti fonti scritte... l’astrologia, in qualche modo gli albori della matematica, e, lo si deve ammettere, una medicina molto poco convincente, basata su scongiuri e discutibili presagi piú che su esperimenti e osservazioni. Al momento, tuttavia, sembra difficile contendere a iscrizioni visibili su rocce del Sinai (databili tra il XVIII e il XVI secolo a.C.) la primogenitura del nostro stesso sistema di scrittura alfabetica, di remota origine cuneiforme. Nell’epocale quanto misteriosa crisi scoppiata nel corso del XIII secolo a.C. (popolarmente nota come «Invasione dei popoli del Mare», secondo la celebre versione datane in Egitto), tutte le carte si rimescolarono: crollate le case imperiali degli Ittiti e d’Egitto, e innumerevoli piccoli regni delle regioni del Levante e del mondo tardo-miceneo, nacquero le città-stato della prima Gli scavi nel Grande Pozzo del Cimitero Reale di Ur in una foto scattata fra il 1933 e il 1934: nelle operazioni furono coinvolti oltre 150 operai, che rimossero piú di 13 000 metri cubi di terra.
età del Ferro, nelle quali le scritture alfabetiche trovarono humus fertile. La composizione in forma scritta dei testi biblici, e con essa l’epopea nazionale del popolo ebraico, ebbe probabilmente inizio nell’VIII secolo a.C., raccogliendo in parte tradizioni molto piú antiche. Nel corso dell’avventura travolgente di Alessandro (334-323 a.C.) le pianure di Siria, del Tigri e dell’Eufrate erano ormai permeate della cultura universalistica dell’impero del Gran Re Persiano, e il nucleo centrale della religione, delle lingue e delle tradizioni mesopotamiche era ampiamente sbiadito. Solo con la diffusione nel mondo romano dell’ebraismo (dal II secolo a.C. in poi) e in definitiva del cristianesimo, la tradizione dell’Antico Testamento e, con essa, la narrazione della Genesi, fu vista come parte fondante della nostra cultura. In questa luce, si converrà che l’appropriazione da parte dell’Occidente del patrimonio culturale mesopotamico è fatto relativamente recente, e ben collocato in precise coordinate storiche.
La guerra piú lunga della storia Dopo il sanguinoso conflitto tra Roma e le compagini iraniche dei Parti (247 a.C.-224 d.C.) e dei Sasanidi (224-651 d.C.) – la guerra piú lunga di cui la storia preservi memoria, e una delle cause principali del crollo dell’impero romano – l’avvento dell’Islam nella regione (VII-VIII secolo) obliterò, o tentò di trasformare le tradizioni culturali precedenti. Se guardiamo all’età delle Crociate (XI-XIV secolo circa), le tradizioni testamentarie furono usate dai regni e dagli Stati cristiani per giustificare e santificare lunghe e feroci spedizioni di rapina. Fu in seguito ai rivolgimenti della piena rivoluzione industriale, nell’altrettanto spietato assalto organizzato dai Paesi europei per contendersi le spoglie del cadente impero ottomano (1300-1922 circa) che ebbe luogo, con l’emergere dell’archeologia orientale, la pretesa riscoperta della veridicità della Bibbia. Nelle grandi, caotiche trincee aperte in decine di siti archeologici mesopotamici avvennero fatti straordinari, prontamente divulgati dalla nascente industria della stampa, come la scoperta delle tavolette del Diluvio in
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quanto restava della biblioteca di Assurbanipal a Ninive o la scoperta dei sedimenti del «Diluvio Universale» a Ur da parte di Leonard Woolley (1880-1960). L’appropriazione occidentale fu tutt’altro che metaforica. Della «carcassa» in decomposizione dei domini ottomani, allora, si utilizzava tutto: informazioni di intelligence utili alle guerre di spie; preziose risorse materiali; i contesti di vite avventurose, capaci di affascinare le masse e ispirare intellettuali e letterature; mentre tesori d’arte, antichi documenti scritti e sculture dall’aspetto (allora) quasi inverosimile venivano rubati e spediti alla volta dei musei di Londra, Parigi e Berlino. L’implicazione, al di là della rapina (bella e buona, e anche conveniente) era tutt’altro che sottile: il mondo arabo e islamico in senso lato sarebbe stato seduto sui resti di civiltà ben piú antiche e molto piú prestigiose della propria; civiltà che, inoltre, erano strettamente legate, e in qualche modo esaltate, da precise corrispondenze e intima comunanza con la tradizione del Vecchio Testamento; in ultima analisi, con la cultura «superiore» dell’Occidente. Quando il recente fanatismo islamista distrugge le testimonianze archeologiche del passato pre-islamico, in realtà, intende contrastare quella che per due secoli è stata una politica culturale tesa a riaffermare la superiorità della cultura occidentale.
Andare oltre gli stereotipi Nessuno si illuda sulle capacità culturali di dialogare e ragionare da parte di un clero bigotto, e delle ben pagate caste militari che essi alimentano, che vedono nei reperti archeologici altrettanti «idoli pagani» da distruggere. Tuttavia, cercare di fermare questo particolare aspetto dei conflitti e, con essi, le devastazioni del patrimonio – che coincide con la drammatica corsa alla distruzione del turismo nel Medio Oriente e, quindi, verso la povertà delle classi medie, le piú aperte culturalmente e le uniche capaci di garantire stabilità politica ai Paesi della regione – dev’essere una priorità della politica occidentale. Gli archeologi e gli intellettuali occidentali farebbero forse meglio a interrompere le litanie sulla «distruzione della bellezza» e a ragionare piuttosto sulle implicazioni di decenni e secoli di precedente sopraffazione culturale, nella quale l’archeologia ha responsabilità molto chiare. A parere di chi scrive, un lamassu (il toro androcefalo a guardia delle porte monumentali dei palazzi neo-assiri)
Contenitore per cosmetici in argento, lapislazzuli e conchiglie, dalla tomba della regina Pu’abum nel Cimitero Reale di Ur. 2550 a.C. circa.
può essere definito affascinante, esotico, imponente, spaventoso, ben scolpito, ma certamente non «bello»; andrebbe piuttosto considerato il simbolo di un potere autarchico, rapace e spietato, condannato da queste stesse qualità a essere rapidamente dimenticato e sepolto nell’argilla dei palazzi reali saccheggiati. Parlare di «bellezza distrutta» significa voler imporre, una volta di piú, valori culturalmente estranei al patrimonio e alla sensibilità dei tanti Paesi colpiti dagli odierni conflitti. Voler creare, re-inventare la storia degli altri è però un gioco pericoloso e oggi difficilmente giustificabile. Forse, come ha efficacemente scritto il poeta Marvin Bell (in Mars Being Red) l’Occidente, in Iraq e Siria, sta combattendo «The war to preserve the privilege of mythmaking» («La guerra per il privilegio di continuare a creare il mito»). Cerchiamo di guardare le immagini che seguono con la meraviglia e il rispetto che esse ispirano, e alla luce dei criteri stabiliti dalla ricerca scientifica, senza continuare a riproporre le acritiche mitologie del passato: l’antica Mesopotamia non fu certo l’unica culla della civiltà umana, circondata come era da altri Paesi, nazioni ed etnie che sperimentavano altre forme di organizzazione sociale ed espressione culturale; ma è la sola per la quale disponiamo di abbondanti fonti scritte. Ed è questo che la rende unica ai nostri occhi.
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Avanti Cristo FASI ARCHEOLOGICHE
4500
ALTA MESOPOTAMIA
Tepe Gawra
BASSA MESOPOTAMIA
3900 3300 TARDO CALCOLITICO 1-5
3100 BRONZO ANTICO I
2900 BRONZO ANTICO II
2750
2000 BRONZO ANTICO III
Ninive 3
Ninive 4
Ninive 5
Chagar Bazar 5
Uruk Antico-Medio
Uruk Tardo
Jemdet Nasr
Protodinastico I
Protodinastico II
(3300-3100 a.C.)
(3100-2900 a.C.)
(2900-2750 a.C.)
(2750-2600 a.C.)
XII-VIII
Post Ubaid
SIRIA PALESTINA
Ebla Colonie Uruk
Amuq G Amuq Q
(2500-2300 a.C.)
Amuq J Amuq
ANATOLIA
Colonie Uruk
IRAN
Colonie Uruk
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Shakkanakku a Mari
Periodo proto-elamico (dal 2700 a.C.)
0
2000/1950 BRONZO ANTICO III/IV
1600/1550
1200/1150
1100/500
BRONZO MEDIO
BRONZO TARDO
ETÀ DEL FERRO
Periodo paleo-assiro
Periodo mittanico
Periodo neo-assiro
(1950-1750 a.C.)
(1550-1360 a.C.)
(1050-612 a.C.)
«Età oscura»
Periodo medio-assiro
Periodo neo-babilonese
Ninive 5 Tardo (1750-1550 a.C.)
(625-539 a.C.)
(1360-1050 a.C.)
Protodinastico III A (2600-2450 a.C.)
Isin/Larsa
Paese del Mare II din.
Dominio assiro
(2000-1800 a.C.)
(1025-1005 a.C.)
(725-625 a.C.)
Dinastia di Bazi
Periodo neobabilonese
(1005-985 a.C.)
(625-539 a.C.)
Protodinastico III B (2450-2350 a.C.)
Periodo accadico (2350-2200 a.C.)
Periodo guteo
Periodo paleobabilonese
Periodo cassita
Isin II (1150-1025 a.C.)
(1600-1150 a.C.)
(1800-1595 a.C.)
(2200-2120 a.C.)
Tribu caldee Ur III
(dal 700 a.C.)
Periodo achemenide
(2112-2004 a.C.)
Condominio egizio-ittita Yamkhad Amorrei
Mari
(2000 a.C.)
(1850-1750 a.C.)
(1800-1600 a.C.)
Alalakh VII -Hyksos-
Condominio (1370-1190 a.C.) egiziomittanico (1550-1370 «Popoli del a.C.) Mare»
(dal 550 a.C.)
Stati aramaici
Dominio assiro
(1100-720 a.C.)
(725-625 a.C.)
Stati neo-ittiti
Dominio neo-babilonese
(1100-720 a.C.)
(625-539 a.C.)
Nairi
Urartu
Dominio medo
(circa 1000 a.C.)
(800600 a.C.)
Frigi
(XII sec. a.C.)
Impero ittita Antico regno ittita (1650-1550 a.C.)
Periodo (1370-1190 a.C.) medio ittita Kizzuwatna (1550-1370 «Popoli del a.C.) Mare» (XII sec. a.C.)
Awan ed Elam (2350-2100 a.C.)
Dinastia di Shimashki
Dinastia dei Sukkal-makh
(2100-2000 a.C.)
(1900-1750 a.C.)
Regno Medio-Elamico
Regno neo-elamico
(1500-1100 a.C.)
(750-650 a.C.)
Media e Persiani (650550 a.C.)
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IL TERRITORIO
La terra tra i due fiumi
Nella pianura attraversata dall’Eufrate e dal Tigri nacquero e si svilupparono le prime civiltà urbane. Un fenomeno che ha costituito una svolta davvero epocale nella storia universale e del quale possiamo ricostruire lo sviluppo grazie a importanti scoperte archeologiche | MESOPOTAMIA | 14 |
I
Un tipico paesaggio paludoso dell’Iraq meridionale (l’antica «terra di Sumer», che si estende fra i bassi corsi del Tigri e dell’Eufrate). Le fibre dei canneti, la cui presenza abbonda in queste vaste aree acquitrinose, sono ancora oggi un apprezzato materiale da costruzione, come prova la foto nel riquadro.
l fiume appare come una grande pista d’acqua che si fa strada, pigra e possente, nella piana alluvionale, tra argini vecchi e nuovi e distese di sabbia argentea portate dalle ultime piene. Ai lati, si rincorrono le depressioni dei letti del fiume già morti e abbandonati, e, ancora piú oltre, i ciuffi bruni dei canneti; quindi la piana agricola, dove al grigio-argento della sabbia e dell’argilla si sostituiscono il nero o il rosso del terreno bagnato e il verde smeraldo delle culture. Ancora oltre, la fertilità dei campi cede alle distese infinite della steppa e del deserto. A chi lascia i campi per accostarsi alle sponde del fiume, l’acqua appare spesso intorbidita dall’argilla e dal limo; ma quando il fiume è in piena, o il suo corso si approssima alle sponde marine, esso rispecchia l’azzurro del cielo e i bagliori delle nuvole. In questi casi, il fiume si fa cosí vasto che la sponda opposta è a mala pena visibile, e la sua maestosità è ormai fusa con quella del mare. Deserto, steppa, campi coltivati, villaggi, canali artificiali e le acque dei fiumi: le grandi civiltà urbane della protostoria, dalla Cina Shang dell’età del Bronzo, alla Valle dell’Indo, alla Mesopotamia e alla terra del Nilo sorsero in paesaggi simili. Il nome stesso di «Mesopotamia», dato dai Romani alla provincia dell’impero corrispondente alle pianure fluviali che formano il cuore dell’odierno Iraq, significa, letteralmente, «Terra in mezzo ai due fiumi» (il Tigri e l’Eufrate, n.d.r.). Ma come si sviluppa questo poderoso abbraccio fluviale?
Dal cuore del Tauro L’Eufrate, il piú lungo dei due fiumi, nasce nel cuore delle montagne del Tauro, e inizia il suo corso scendendo verso ovest. Di fronte all’antica città di Malatya, uno dei nomi «magici» dell’archeologia del Vicino Oriente, esso conclude una prima, grande ansa, per poi scendere verso sud, toccando altre città antiche: Samsat, Carchemish, Habuba Kabira, Emar. Dopo Carchemish, il fiume sbocca nella grande pianura mesopotamica, ed è deviato verso sud-est dalle colline calcaree che si allungano ai piedi dei monti anatolici.
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IL TERRITORIO
Se sulle carte geografiche le pianure del Nord sembrano estendersi monotone e indisturbate, in realtà esse sono animate da basse catene di colline scavate dall’erosione che corrono da est a ovest, bordeggiate dai corsi di torrenti stagionali che incidono in profondità i loro stessi letti. L’orientamento prevalente di questi bassi rilievi costringe naturalmente il movimento di uomini e greggi in direzione est-ovest, bilanciando cosí la direzione da nord-ovest a sud-est delle valli dei due fiumi. La fascia pedemontana del Nord, che si estende ininterrotta dalle pendici del Tauro a quelle dei monti Zagros, è una delle grandi regioni agricole del Paese. Ma il carattere irregolare e accidentato del terreno non permette la costruzione di grandi sistemi di canalizzazione: solo compagini statali fortemente centralizzate, in grado di mobilitare l’esercito per la realizzazione di grandi opere
In basso vaso dipinto a motivi geometrici, da Tell Hassan. Periodo tardo Halaf, 4800-4500 a.C. Baghdad, Iraq Museum. La cultura di Halaf, diffusa nell’alta Mesopotamia, ha un’agricoltura agricolo-pastorale e una caratteristica ceramica con decorazione policroma.
ingegneristiche, come la potenza assira, quella sasanide, o i governi del secolo scorso, riuscirono parzialmente in questo sforzo. All’estremo nord della pianura i monti fermano le nubi, e la piovosità naturale, anche se scarsa, è sufficiente a permettere forme di agricoltura indipendenti dall’irrigazione artificiale. Lungo i fianchi dei monti discendono piccoli villaggi agricoli che vivono creando terrazze sui pendii; nelle pianure l’agricoltura si espande sulle distese di limo alluvionale che le colline catturano a valle. Dai monti scendono anche le greggi condotte dai pastori nomadi, che sono esclusivamente di stirpe e lingua araba.
E venne l’«asino del mare» I pastori si muovono ai margini dei villaggi, dove raccolgono le pecore dei propretari terrieri, e poi si inoltrano, di oasi in oasi, nel deserto dello Jazirah, dove ciascuna tribú ha i suoi tradizionali terreni di pascolo invernali, e dove sorgono insediamenti temporanei che praticano anche limitate forme di agricoltura. È un tipo di vita che affonda le sue radici in un passato lontano, ma non troppo. La vita nelle
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portato all’estinzione di un vasto sistema di sorgenti e pozzi: qui oggi la vita di villaggio non è piú possibile. All’altezza del sito di Tuttul, l’Eufrate riceve le acque del Balih, per poi proseguire la sua corsa verso sud-est, in direzione di Terqa. Sulla sponda sinistra del fiume si allargano le distese desolate dello Jazirah; da quella destra, la desolazione del grande deserto siriano. Il paesaggio e la fauna dell’antico deserto mesopotamico ricordavano, in origine, ambienti quasi africani: vi venivano cacciati gli struzzi, branchi di onagri, il leone, persino il ghepardo. Lungo le sponde, di tanto in tanto, si innalzano le case e i palmeti di villaggi isolati; ma il corso del fiume conduce anche a Mari, e di qui anche alle carovaniere che toccavano l’oasi di Tadmor – la città mercantile di Palmira del mondo classico – e portavano, alla fine, ai bazar di Damasco e ai porti del Mediterraneo.
Un corso parallelo oasi non era materialmente possibile prima dell’introduzione estensiva del dromedario – l’«asino del mare», come lo chiamavano i Sumeri, che vedevano giungere l’animale dall’Arabia, quindi dalle spiagge meridionali – che avvenne alla fine del II millennio a.C. Ma col dromedario o senza, il dissenso tra le tribú nomadiche dei deserti settentrionali e i grandi centri urbani di pianura – il contrasto tra i pascoli e i campi coltivati – risale a tempi ben piú antichi, come leggiamo nei testi scritti in caratteri cuneiformi del II millennio a.C. Le pianure antistanti l’arco montuoso settentrionale furono intensamente abitate nella preistoria. Nello Jazirah, a sud della catena dei monti Sinjar, vi sono centinaia di monticoli archeologici o «tell» che testimoniano l’ampiezza dell’occupazione agricola della regione 4000 o 5000 anni fa. Gli archeologi sono costretti a pensare che la piovosità locale fosse maggiore (nell’ecosistema del deserto, variazioni anche minime portano a conseguenze importanti), che la copertura vegetale fosse ancora ben sviluppata, o che processi geologici abbiano
Una veduta di un villaggio di capanne nelle paludi dell’Iraq meridionale.
Il Tigri, piú a est, nasce nella regione percorsa dai fiumi che scendono dallo spartiacque alla sinistra dell’Eufrate e delimitata a est dalle sponde meridionali del lago di Van. Il Tigri scende con un corso parallelo a quello dell’Eufrate: tocca la piana circostante un altro grande sito preistorico e protostorico, Tepe Gawra, e si inoltra poi a fiancheggiare i bassi rilievi dello Jebel Hamrin. Si tratta del primo corrugamento dei monti Zagros, la grande catena che forma il margine occidentale dell’altopiano iranico. Il Jebel Hamrin, il Monte Ebih degli antichi, è una sequenza ininterrotta di colline nude ed erose, alte solamente 300 m, ma che si estende per centinaia di chilometri da sud-est a nord-ovest: una vera e propria muraglia naturale che, nella storia della Mesopotamia, rappresentò il confine naturale tra le pianure e le montagne nord-orientali. Ma proprio nello spazio compreso tra questa catena e i piedi degli Zagros sorsero Ninua, la Ninive della Bibbia, e Assur, i centri dello Stato militarizzato degli Assiri: potenza mesopotamica, certo, ma, agli occhi degli abitanti delle pianure, appartenente a una zona
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IL TERRITORIO
di confine che la rendeva comunque e inesorabilmente «straniera». Ancora piú a est, ai piedi dei rilievi, i primi passi montani danno accesso ad altre limitate vallate alluvionali, al cui fondo si accumulano suoli relativamente fertili, percorse dagli affluenti del fiume Diyala. In antico, queste prime alture dovevano essere coperte da dense foreste di querce, ma è probabile che millenni di attività di carbonai, pastori di capre e architetti, fin dal Neolitico (7000 a.C. circa) abbiano determinato un forte degrado dei boschi. Già nell’VIII secolo a.C., quando il re assiro Sargon II, attraversati gli Zagros, sta per inoltrarsi nell’altopiano iranico, nota con stupore che le montagne, qui, sono coperte da foreste di alberi grandi come cedri, cosí fitti che i raggi del sole non riescono a penetrare al di sotto – segno che, nel suo mondo, la situazione era ben diversa. Le valli orientali sono il regno di un variegato mosaico di tribú curde, che parlano una lingua indo-iranica forse imparentata con quella degli antichi Medi. I Curdi, oggi, sono in prevalenza agricoltori che in estate portano le pecore sulla sommità dei rilievi; altre tribú sono formate esclusivamente da nomadi transumanti, che vivono permanentemente in campi di tende.
Uno scenario complesso e articolato Nel III e II millennio a.C. il grande arco montuoso formato dal Tauro e dagli Zagros, per quanto ne sappiamo, era abitato prevalentemente da popolazioni che parlavano dialetti hurriti, che, verso est, si mischiavano ai Guti, ai Cassiti, e infine agli Elamiti. Lo scenario etnico, linguistico e politico delle regioni dell’Oriente montuoso di 5000 anni fa era complesso e frammentato come oggi: e questa instabilità si trasformava spesso in occasioni di scorrerie, predazioni, rapidi attacchi militari ai danni degli insediamenti di pianura; solo una dinastia cassita, nella prima metà del II millennio a.C., riuscí a stabilire un governo duraturo nelle pianure. Le scorrerie dalle regioni montuose erano presto ricambiate da spedizioni di rappresaglia organizzate dalle città mesopotamiche, che, però, a loro volta,
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I PRIMI ABITATI
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li insediamenti stabili del Neolitico che ancora non usavano la ceramica si datano tra il 9000 e il 6500 a.C. circa e, per quanto ne sappiamo, nessuno tra questi sorgeva nelle pianure della Mesopotamia. Essi prediligevano invece la zona pedemontana degli Zagros, oppure le prime valli interne dell’altopiano iranico, e le aree a ridosso del Jebel Sinjar, nell’estremo Nord della regione. Altri villaggi neolitici sorgevano piú a ovest, nell’alta valle dell’Eufrate, presso le confluenze dei fiumi Balikh e Khabur. Alcuni dei siti piú famosi della preistoria del Vicino Oriente, primo tra tutti Gerico, sorsero infine presso le alture a ridosso della regione siro-palestinese. Questi insediamenti, quindi, si distribuiscono lungo una enorme mezzaluna formata da rilievi bassi e aridi. La scelta dell’ambiente pedemontano è facilmente spiegabile con la necessità di poter disporre di un raggio quanto piú vario possibile di risorse, in un periodo in cui agricoltura e allevamento erano ancora in fase di sperimentazione: dai piedi dei rilievi, infatti, le prime comunità stanziali potevano facilmente accedere alle valli fluviali e alle paludi, ricche di risorse animali e vegetali, come ai pendii inferiori, ambiente naturale di molte piante utili all’uomo, tra cui i cereali selvatici, e infine ai fianchi montani coperti da querceti, sede di importanti specie animali. Questa
collocazione permise lo sviluppo di forme di economia mista: se i primi esperimenti con l’agricoltura e l’allevamento fallivano, il ricorso alla caccia e alla raccolta metteva le comunità al riparo dai rischi della fame e dell’estinzione. Solo dalla seconda metà del VII millennio a.C., quando agricoltura e allevamento, e con essi gli ecosistemi artificiali che li consentivano, ebbero un forte sviluppo, si assiste a una vera e propria «colonizzazione» delle grandi pianure. Allo stesso periodo si data la diffusione delle ceramica, che ci permette di seguire lo sviluppo di diversi stili grafici, e con essi, presumibilmente, di diverse culture. Nello sviluppo dei primi villaggi agricoli, le abitazioni si mutarono da capanne a pianta circolare in argilla cruda in case di piú grandi, a pianta rettangolare, che permettevano la gestione piú razionale degli spazi urbani. I primi mattoni crudi si datano agli inizi del X millennio a.C., ma il loro uso si diffonde rapidamente. Già dall’VIII millennio, si incontrano tracce di una incipiente organizzazione urbanistica: a Gerico come a Magzalia, presso il Jebel Sinjar, si costruirono recinzioni murarie e bastioni in pietra per proteggere militarmente i villaggi, segno delle tensioni che accompagnarono lo sviluppo della nuova economia e l’accumulazione della ricchezza.
Busto maschile in calcare con occhi di lapislazzuli, dal tempio di Shara a Tell Agrab. Periodo protodinastico, III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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riuscirono raramente a dare vita, nelle regioni orientali, a forme di governo stabile: quasi sempre, i grandi eserciti dei re mesopotamici, una volta raggiunte le prime città dell’altopiano iranico, attaccarono, distrussero, saccheggiarono e si ritirarono proprio come facevano gli aggressori orientali. Il Grande Zab, il Piccolo Zab, il fiume Diyala, alimentano il Tigri dalla sponda sinistra. La valle del Diyala, nella storia mesopotamica, fu una delle principali arterie di commercio e comunicazione, l’unica vera e propria porta che connetteva la bassa pianura con l’altopiano iranico, con il Khorassan nell’Iran orientale e quindi con l’Asia Centrale. Di qui passava un tratto importante della Via della Seta; sempre lungo il Diyala si snodava anche una parte della grande Strada Reale voluta dai re achemenidi nel VI secolo a.C., che da Susa seguiva il fiume sino ai contrafforti dello Jebel Hamrin, e da qui si dirigeva nel cuore dell’Anatolia, sino a toccare le città della costa ionica. Alla confluenza del Diyala nel Tigri sorsero alcune delle piú importanti città mesopotamiche: i loro antichi nomi sono Eshnunna, Tutub, Neribtum, Saduppum. Nel Settentrione del Paese, l’Eufrate e il Tigri iniziano lentamente a convergere, attraversando un paesaggio arido. Le sponde, che alimentano una fascia di vegetazione formata da canneti e arbusti, percorrono una steppa desertica, che serve solo da pascolo stagionale. Le piogge si fanno erratiche e inaffidabili, e non bastano a sostenere l’agricoltura. I rari campi sono ricavati sulle instabili porzioni di suolo fertile depositate dai fiumi nella stretta fascia dei loro letti. Il margine sudovest del Paese continua a essere segnato dai contrafforti rocciosi del deserto arabico. Piú a sud, i due fiumi convergono sin quasi a toccarsi, e poi tornano a divergere: formano
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cosí una vasta «isola», delimitata a sud da un insieme sterminato di paludi e – almeno in tempi moderni – dall’unico estuario dello Shattel Arab. Quest’isola è formata da una enorme espansione dei suoli alluvionali, e coincide con la Mesopotamia meridionale, il vero cuore del Paese: i netti limiti geografici ed ecologici di questa regione – montagne a est, deserto a ovest, paludi a sud, e l’estinzione dei terreni alluvionali in direzione nord – aiutano a spiegare la forte identità culturale mantenuta dalla Mesopotamia nel corso dei millenni. Per avere un’idea della vastità e della piattezza della regione, basti pensare che, a ben 500 km di distanza dalle sponde del Golfo, il terreno si innalza di soli 20 m sul livello del mare.
I veri arbitri della vita umana I suoli, qui, sono profondi, e risultano estremamente fertili se, in assenza di piogge, i canali artificiali piccoli e grandi, i pozzi, i meccanismi di sollevamento idraulico, le canalette degli orti sono tenute in efficienza. In tutta la storia della Mesopotamia, il benessere generale e la ricchezza delle élite dipesero da un accurato controllo e da grandi investimenti economici e organizzativi incentrati sulla base agricola del Paese. I fiumi sono i veri arbitri della vita umana. Col passare del tempo, essi, deponendo ininterrottamente ai margini banchi di sabbia, limo, argilla, innalzano il loro stesso letto al di sopra della circostante piana alluvionale. È cosí abbastanza facile catturarne le acque entro canali artificiali: basta scavare un nuovo letto e inciderne gli argini naturali, e l’acqua defluirà immediatamente, con forza, verso le circostanti depressioni. Tuttavia, essendo privi di ostacoli o costrizioni naturali, i fiumi in piena sono liberi di tagliare i propri argini, di allagare vaste regioni, di rioccupare antichi letti abbandonati secoli o millenni prima, mutando radicalmente il proprio corso; di cancellare estese reti di canali artificiali, annullando in una sola giornata gli sforzi di generazioni di agricoltori. Sin dalla preistoria, gli abitanti dei primi villaggi stanziali cercarono, con ogni probabilità, di
Nella pagina accanto figurina in terracotta di donna che allatta il proprio bambino, da Ur. Metà del V mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
controllare le piene dei rami laterali dei fiumi con argini e dighe. Il paesaggio delle pianure alluvionali meridionali, oggi come un tempo, appare monotono. Lungo le rive dei corsi d’acqua si sviluppa una densa vegetazione di salici e pioppi; le ossa degli animali trovate negli scavi dei siti preistorici indicano che questo ambiente era abitato da cinghiali, cervidi, felini di grossa taglia. Ma, poco oltre, le sponde, salici e pioppi cedono terreno a macchie sparse di tamerici, ben piú resistenti all’aridità e alla salinizzazione dei suoli. Tra i corsi d’acqua e i canali si estendono superfici desertiche e denudate, percorse da dune di sabbia semoventi; vi vivevano iene, sciacalli, leoni, gazzelle, uccelli rapaci e branchi di asini selvatici od onagri. Lungo i rami dei fiumi e i canali disseccati, come ha scritto l’archeologo inglese Nicholas Postgate, «si trovano le cicatrici di antiche città e villaggi, e imponenti mura difensive, il tutto eroso dal vento e dall’acqua, o velato dal limo e dalla sabbia, come da un sudario. È un palinsesto di storia umana tracciato sulle pianure, che può essere letto con abilità e pazienza, con l’aiuto di fotografie aeree, di mappe e di esplorazioni di superficie» (Early Mesopotamia, 1992). Dove l’acqua non trova sbocco, i ristagni formano rapidamente estese paludi. Inutili, se non dannose, per gli agricoltori, le paludi offrono un ambiente ricco di risorse – pesce, uccelli palustri, tartarughe –, dove oggi prospera il bufalo, e sovrabbondante di piante, le cui fibre potevano essere usate per costruire imbarcazioni, capanne, stuoie, cesti, mobilia. I sigilli della seconda metà del IV millennio a.C. mostrano edifici e imbarcazioni costruiti proprio con queste materie prime, il che dimostra come l’ambiente delle paludi avesse svolto una notevole importanza, anche sul piano simbolico, nella formazione della civiltà mesopotamica. Tutta l’estremità meridionale del Paese, per un’estensione di 200 o 300 km dall’estuario dello Shatt-el Arab, è percorsa da un labirinto interminabile di corsi d’acqua, stagni e isolotti
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IL TERRITORIO
UN PAESE E I SUOI NOMI
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e «Mesopotamia» è un nome tardo, coniato dai Romani per una loro provincia sulla base di un nome greco, per gli abitanti della Mesopotamia meridionale il loro Paese era semplicemente Kalam, ossia «La Terra». Con la conquista di Sargon, capostipite della dinastia akkadica, che parlava una antica lingua semitica, e con la coscienza della dominazione straniera, iniziò ad affermarsi l’idea di una differenza culturale e linguistica tra la parte settentrionale e quella meridionale della bassa pianura mesopotamica: per questo motivo i re successivi al tramonto del potere akkadico iniziarono a definire se stessi con la formula di «Re di Sumer e Akkad». Il primo termine indicava le basse distese alluvionali, a ridosso delle grandi paludi; il secondo le regioni a nord della città di Nippur. I termini «sumerico» e «akkadico» vennero anche usati dai contemporanei per indicare le due pincipali lingue parlate nel Paese alla fine del III millennio a.C. Tuttavia, in entrambi i casi, si tratta della traduzione akkadica di due parole sumeriche abbastanza misteriose. I Sumeri, infatti, dicevano ki-en-gir per indicare la parte meridionale del Paese (ki significa terra, e il termine, letteralmente, si legge come «terra di lingua sumerica»), mentre il termine ki-uri, usato per indicare il nord di lingua semitica, rimane del tutto enigmatico. Diverse lingue semitiche erano diffuse, nel nord del paese, nella prima metà del III millennio a.C. Malgrado questa radicata antitesi tra l’area linguistica del nord e quella del sud, tutto indica che le varie etnie della Mesopotamia meridionale continuarono a integrarsi abbastanza pacificamente, anche durante il periodo della dominazione di Sargon e dei suoi discendenti.
formati dalla vegetazione stessa, e ammantati da canneti che nascondono l’orizzonte. Gli acquitrini ospitano villaggi di pescatori e allevatori di bufali, che si considerano discendenti di antiche tribú beduine. Vi sono iscrizioni del re assiro Sennacherib (704-681 a.C.) nelle quali il sovrano racconta delle sue campagne militari contro i Caldei che vivevano annidati nelle paludi. Questo modo di vita è davvero cosí antico? Gli storici ci dicono che il bufalo d’acqua, presupposto indispensabile dell’economia
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La lingua sumerica entrò in una fase di forte declino alla fine del III millennio a.C.; venne insegnata e scritta in seguito come lingua di culto e della tradizione piú antica, sopravvivendo, presso alcune scuole scrittorie, sino al I secolo a.C. Nel II millennio a.C. si diffusero nuovi dialetti semitici: l’antico babilonese nel Sud, e l’antico assiro nel Nord; nel corso di mille anni entrambe furono gradualmente rimpiazzate dall’aramaico.
Pietra votiva con rilievo che mostra Puzur-Inshushinak, principe di Susa e vicerè dell’Elam. 2100 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
delle paludi, venne introdotto solamente nel IX secolo d.C.; e che gli insediamenti nelle paludi, nella storia della Mesopotamia, si svilupparono soprattutto in corrispondenza di periodi di debolezza del potere centrale, quando le profondità dei canneti offrivano un rifugio impenetrabile per schiavi, profughi, tribú sconfitte. Ma sembra certo che, quando nel corso del IV millennio a.C. le prime grandi città sumeriche iniziarono a trasformarsi in Stati indipendenti, piccoli ma agguerriti, esse sorsero proprio ai margini delle paludi; e che gli
acquitrini, lungi dall’essere la patria di tribú indipendenti e conservatrici, furono sistematicamente e intensamente sfruttate dagli abitanti delle città. Sul margine sud-orientale della piana mesopotamica, i grandi acquitrini formano un grande sbarramento naturale che blocca la strada diretta al cuore delle pianure del Khuzistan, nell’altopiano iranico. Questo territorio, l’antica Susiana, è un’estensione geografica ed ecologica del territorio mesopotamico, ma, a differenza delle pianure meridionali, si trova in una fascia di piovosità che permette potenzialmente l’agricoltura non irrigua. Sede dello sviluppo della cultura e del potere elamita, la Susiana rappresentò sempre, per la Mesopotamia, il Paese nemico per eccellenza; e sono innumerevoli, nell’arco di oltre duemila anni, le testimonianze di episodi di aggressione, guerra e conquista, con fasi alterne di predominio da ambo le parti.
I mutamenti del paesaggio Gli studiosi non sono concordi su come e quanto questo paesaggio sia mutato negli ultimi 6000 anni. Lo studio dei fronti di avanzamento dei ghiacciai nelle zone montuose indica un significativo riscaldamento,
In basso lamina di rame sbalzata decorata con due cervi e un’aquila leontocefala (a testa di leone), denominata Anzu in sumerico, da Al ‘Ubaid. III mill. a.C. Londra, British Museum.
con un conseguente ritiro di alcuni tipi di albero ad altitudini piú elevate, tra l’8500 e il 3500 a.C.; una seconda fase di riscaldamento si colloca tra il 4400 e il 1400 a.C. Lo studio degli antichi pollini fossilizzati depositatisi negli strati archeologici e geologici mostra anche gli effetti distruttivi dell’impatto umano sull’ambiente naturale, che portò a una veloce distruzione delle foreste a querceto e allo sviluppo delle distese di steppa e savana. Come variò il livello del mare? I geologi ci dicono che, nella fase arida causata dall’ultima era glaciale (da 18 000 a 13 000 anni fa), le spiagge si trovarono a 130 m di profondità rispetto all’attuale livello del mare. In tempi piú recenti (quelli che ora ci interessano maggiormente), sembra che la graduale risalita del livello del mare sarebbe stata bilanciata da un altrettanto graduale sollevamento tettonico, cosicché la linea di costa attuale, pur in diverse condizioni geologiche, rispecchierebbe, in sostanza, quella di 5000 anni fa. L’archeologo orientalista Hans Nissen ha proposto una teoria interessante sullo sviluppo della civiltà mesopotamica. Sulla base della stratigrafia dei fondali marini antistanti la foce dei due fiumi, Nissen nota che il raffreddamento climatico verificatosi dopo il
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IL TERRITORIO
3500 a.C. deve aver comportato una fase secca, che causò un ritiro delle acque che alimentavano il Tigri e l’Eufrate. Di conseguenza, i fiumi si abbassarono, incidendo il loro stesso letto, ed esponendo grandi estensioni di terra fertile in quella che prima era stata solamente una vasta estensione acquitrinosa. Per la prima volta (seguiamo sempre l’ipotesi di Nissen) il Paese che gli Akkadici avrebbero chiamato Sumer emergeva dalle acque, grazie a una grande opera di bonifica naturale. Il processo di abbassamento delle acque fluviali, nel sud, sarebbe continuato, gradualmente, per secoli. Nei periodi successivi, la disponibilità di crescenti superfici di terreno coltivabile avrebbe attirato nella regione masse di immigranti; contemporaneamente, l’incremento demografico avrebbe costretto le comunità di agricoltori a sviluppare nuove forme di coordinamento politico, per attenuare i conflitti e gestire nel modo piú efficace le
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In alto rilievo che mostra una fila di dignitari lungo il fiume, da Ninive. VII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
nuove potenzialità economiche. Inoltre, il progressivo abbassamento delle acque di superficie avrebbe costretto gli agricoltori a sviluppare nuove tecniche per sollevare e distribuire l’acqua necessaria all’irrigazione dei campi, tecniche che, in molti casi, potevano richiedere la cooperazione di molti individui, e, necessariamente, l’opera di altre persone con funzioni di organizzatori e dirigenti. In altre parole, il raffreddamento e l’inaridimento verificatisi dopo il 3500 a.C. avrebbero spontaneamente «guidato» gli abitanti della Mesopotamia verso nuove forme di complessità politica: una ulteriore conferma del ruolo chiave giocato dall’agricoltura irrigua nell’evoluzione delle società protostatali dell’Asia. È sempre difficile stabilire se un unico fattore – in questo caso un fenomeno climatico – possa essere considerato la vera causa di un processo complicato come la formazione dello Stato. Di certo, nella formazione delle città-stato
LA TERRA SOSPESA SULLE ACQUE
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ome concepiva l’estensione e la geografia del suo mondo un abitante della Mesopotamia del III millennio a.C.? Gli antichi abitanti del Paese vedevano se stessi al centro di una regione limitata a est dai monti e dai vasti deserti dell’Iran, a ovest dai rilievi inariditi e dalla desolazione del grande deserto arabico. Da est venivano le pietre semipreziose e i metalli; qui si trovavano Paesi stranieri, potenzialmente ostili, come l’Elam, o le terre di Anshan (identificata con il sito archeologico di Malyan, presso Persepoli) Aratta o Simaski (ancora da identificare con precisione). Molto forte era l’idea che il mondo fosse delimitato da un grande mare superiore (il Mediterraneo), dalle cui coste veniva il legname pregiato del Libano, e da un grande mare inferiore (il golfo detto Persico o Arabico); unire politicamente le sponde di questi due mari in un unico regno, per i re della Mesopotamia, fu sempre un obiettivo e un tema di propaganda imperialistica. È probabile che si immaginasse il mondo come una enorme distesa continentale circondata da acque salate, a loro volta sospese sull’Abzu, un abisso incommensurabile di acque dolci.
mesopotamiche, tra il V e il IV millennio a.C., i due grandi fiumi gemelli che solcavano le pianure, e il loro mutevole comportamento, sia su tempi lunghi che su tempi brevi, ebbero un ruolo determinante.
Le «porte» della terra Curiosamente, i testi antichi, nel riferirsi ad Akkad, il Nord delle pianure alluvionali, parlano di «sinistra», e collocano invece Sumer e le regioni acquitrinose meridionali a «destra», come se l’orientamento prevalente fosse verso est. Lo sbocco fluviale nel mare inferiore portava naturalmente le navi mesopotamiche all’isola di Faylaka (oggi nel Kuwait), l’Ikaros dei Greci: qui si trovavano le «porte» della terra che i Sumeri chiamavano Dilmun e che identificavano con il paradiso e la terra dell’immortalità. Faylaka appariva come un’oasi di palmeti sospesa nelle acque marine; qui si raccoglievano le ostriche perlifere e si veneravano templi dotati di piscine rituali.
In alto il cosiddetto «mappamondo mesopotamico», una raffigurazione del mondo con al centro Babilonia, e una scritta cuneiforme che riporta le conquiste del re Sargon di Akkad. XXIV sec. a.C. Londra, British Museum.
La santità del luogo era corroborata dal fatto che, intorno all’isola, vi sono risorgive di acqua dolce che fuoriescono direttamente nel mare. In realtà, il nome Dilmun identificava anche altre isole e terre oggi corrispondenti agli Emirati Arabi, come il Qatar e Bahrein; anche qui sono stati rinvenuti importanti abitati, luoghi di culto e necropoli del III millennio a.C. Seguendo la costa meridionale del golfo, oltre Dilmun, le navi approdavano a Magan, corrispondente alla penisola omanita, terra di pescatori ma anche area di estrazione del rame e della diorite; ancora piú oltre, alle frontiere del mondo conosciuto, si trovava il misterioso paese di Meluhha, corrispondente alle terre costiere della Civiltà dell’Indo, ma anche alle coste orientali della penisola arabica, intensamente frequentate dagli antichi mercanti e navigatori indiani. Meluhha forniva alla Mesopotamia legni pregiati, cornalina, lapislazzuli e persino animali esotici, come speciali varietà di cani, scimmie e pavoni.
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CITTÀ, RE E DINASTIE
Gli artefici del miracolo Nella storia della Mesopotamia si succedono dinastie ed epoche oscure, salgono alla ribalta città che si conquistano a vicenda e regni fortemente centralizzati...
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e dovessimo identificare un motivo dominante nella storia di questa parte del mondo, la scelta non sarebbe difficile: questo tema è una pulsazione continua in cui, alla costituzione di Stati unitari fortemente centralizzati – costruiti militarmente da genti che spesso avevano una cultura e una lingua ben distinte –, succedevano periodi di caos e frammentazione politica. In questi periodi, regioni e città riacquistavano, seppur temporaneamente, la propria autonomia. Poiché i documenti su cui si basano gli storici sono perlopiú testi scritti, e quelli di cui disponiamo per l’antica Mesopotamia sono innanzitutto di natura amministrativa, i periodi di centralizzazione politica sono piú noti, mentre le fasi di frammentazione sono considerate «oscure». Parlando dell’antica Mesopotamia, è quindi inevitabile fare riferimento a una storia fatta di città dominanti, re e dinastie. Proprio gli antichi testi scritti sulle tavolette d’argilla con caratteri cuneiformi ci tramandano parte di questo complesso quadro
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In questa pagina statuetta in calcare forse raffigurante un re, da Uruk. Cultura di Uruk, seconda metĂ del IV mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum. Nella pagina accanto frammento di intarsio in scisto e marmo, raffigurante un sovrano che afferra per un braccio un prigioniero, da Kish. EtĂ sumerica, 2700 a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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CITTÀ, RE E DINASTIE
storico. La cosiddetta «Lista Reale Sumerica» è un componimento storico-letterario che venne redatto, nella forma che conosciamo meglio, poco dopo il 2000 a.C. Probabilmente, i Sumeri chiamavano quest’opera con il titolo di Quando la regalità scese dal cielo, che è il primo verso del componimento.
Come un dono divino La lista enumera i re che governarono la Mesopotamia da tempi primordiali fino ai re della III Dinastia di Ur e alla dinastia che governò la città di Isin a partire dal 2000 a.C. L’idea centrale della Lista è che la sovranità sia una sorta di dono divino, attribuito dalle divinità solamente a una città per volta; e che alla caduta di una città il potere venisse immediatamente conferito a un altro centro. La Lista Reale Sumerica non è una cronaca
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In alto particolare della stele in calcare di Eannatum detta «degli Avvoltoi». Metà del III mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso grano di collana con iscrizione cuneiforme di Mesannepada, re di Ur, rinvenuto nel «tesoro di Ur» a Mari. 2500 a.C. Damasco, Museo Nazionale.
esatta e puntuale quale può essere la sequenza dinastica tramandataci dai sacerdoti e dagli scribi dell’antico Egitto. Per esempio, essa menziona come un fatto storico il grande diluvio di cui parla la Bibbia. A proposito dei re dei periodi dinastici antichi, possiamo imbatterci in frasi di questo tipo: «La Dinastia di Kish (...) En-mebaragesi, che depredò le armi del paese di Elam, regnò per 900 anni (...) Akka, figlio di En-mebaragesi, regnò 625 anni». E ancora: «23 re regnarono per 24510 anni, 3 mesi, 3 giorni e mezzo». Akka risulta essere un nemico dell’eroe Gilgamesh nell’epica nazionale sumerica, e quindi poteva ben apparire come un personaggio puramente
mitico. Informazioni di questo tipo non sono certo molto incoraggianti per uno storico. Tuttavia, l’archeologia ha dimostrato che parte delle informazioni contenute nella Lista sono da prendere in seria considerazione. Nell’inverno tra il 1922 e il 1923, l’archeologo inglese Sir Leonard Woolley (1880-1960), mentre scavava il monticolo di Al’Ubaid, presso
Ritratto in bronzo forse identificabile con Sargon, re di Akkad e di Kish, da Ninive. III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
Ur, si imbattè in una tavoletta dedicatoria di marmo con la seguente iscrizione: «Alla dea Nihursag, A-annepadda, re di Ur, figlio di Mes-annepadda, re di Ur, per Ninhursag ha costruito questo tempio». Mes-annepadda, secondo la Lista Reale Sumerica, era il fondatore della I Dinastia di Ur, che successe alla I Dinastia di Uruk. Alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, nel Museo di Baghdad comparve un pezzo di un vaso in alabastro con la scritta «En-mebaragesi, re di Kish». Queste scoperte, e i progressi continui della ricerca, hanno dimostrato che i nomi della Lista corrispondono effettivamente a personaggi storici, anche se trasfigurati da un alone mitico. Tuttavia, occorre anche considerare che abbiamo nomi di personaggi che si definiscono come re di determinate città senza figurare affatto nella lista; e che, nelle tombe del Cimitero Reale scavato a Ur, erano stati sepolti uomini e donne che si qualificavano come «re» e «regine», alcuni dei quali risultano però sconosciuti alla Lista Reale o ad altri documenti contemporanei.
L’autocelebrazione del potere La Lista Reale va quindi considerata come un documento storicamente valido, ma parziale, certamente ispirato da motivi di propaganda politica e di rappresentazione ufficiale del potere. Date le convulse vicende politiche del Paese e l’idea che la regalità fosse appannaggio esclusivo di una città alla volta, non sorprende che la Lista presenti imprecisioni, omissioni e contraddizioni. La Lista indica il ruolo dominante rivestito, prima della conquista di Sargon di Akkad, dalle quattro città di Kish, Ur, Uruk e Adab. L’informazione è pienamente confermata dalle scoperte archeologiche: proprio a Kish, infatti, in tempi recenti, sono stati scavati due grandi palazzi di età antico dinastica, sicuramente abitati
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CITTÀ, RE E DINASTIE
potevano collaborare pacificamente. Vi sono infatti speciali sigilli che, invece di temi decorativi, recano i simboli affiancati delle città di Eridu, Larsa, Ur, Der e Kesh. I sigilli erano probabilmente usati da funzionari incaricati collettivamente dalle varie città di riscontrare o effettuare consegne di beni. Anche le tavolette incise con caratteri cuneiformi ci dicono che gruppi di città talvolta collaboravano, unendo le proprie truppe per fini ben precisi. Qualche studioso ha proposto che, data la centralità della città di Nippur nella vita religiosa del Paese, proprio questa città fosse in origine il luogo di riunione e il centro simbolico di questa antica lega.
Una fine umiliante Dopo quattro secoli di scontri e collaborazione, giunsero a maturazione i primi progetti di unificazione politica. Lugalzaggesi, un ensi o governante della città di Umma, attaccò Lagash, quindi Uruk, della quale si dichiarò re. La supremazia di Lugalzaggesi si estese poi verso nord, sino a toccare la città di Mari e il suo territorio. Nelle sue iscrizioni, il re di Uruk vanta un impero esteso da un mare all’altro, con ben 50 diversi ensi sotto il suo pugno. Tuttavia, dopo 25 anni di sovranità, da case regnanti. L’antico prestigio di questa città era tale che anche i sovrani di epoche piú tarde cercarono di fregiarsi con il titolo di «re di Kish». I re di Uruk Enmerkar, Lugalbanda, Gilgamesh spodestarono, nella supremazia, i dinasti di Kish; poi fu la volta di città come Ur, Lagash, Adab e Mari. La storia del Paese nei periodi dinastici antichi sembra essere stata segnata dalle continue pulsioni autonomistiche delle varie città, da aspri conflitti tra città e città per il controllo dei canali e delle terre migliori, dalle tensioni con l’Oriente iranico, e dai tentativi fatti da sovrani intelligenti e privi di scrupoli di assicurarsi la supremazia politica. Eppure le maggiori città si riconoscevano probabilmente in una sorta di lega o confederazione, e
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CHI ERANO I SUMERI?
L’
improvviso fiorire nelle distese alluvionali meridionali dei siti che usavano la ceramica detta di Al’ Ubaid aveva fatto ipotizzare agli studiosi del passato che, nel corso del V millennio a.C., i primi Sumeri fossero immigrati in massa da un altro Paese. Si pensò che questi ipotetici immigrati rappresentassero una comunità etnicamente
eterogenea; altri propendevano per invasori iranici; altri ancora avanzarono l’ipotesi che i Sumeri fossero giunti nientemeno che dall’India. Alcuni linguisti hanno cercato di identificare le tracce di un’arcaica lingua pre-sumerica, studiando i piú antichi nomi dei luoghi, ma senza conseguire risultati accettati da tutti. Gli oppositori della teoria
Nella pagina accanto statua del principe Itsup-Ilum, da Mari. Inizi del II mill. a.C. Aleppo, Museo. A sinistra torso del re Iku-Shamagan, da Mari. III mill. a.C. Damasco, Museo Nazionale.
dell’invasione ribattono che, nella storia, sono rarissimi i casi in cui un gruppo straniero sia riuscito a sostituire completamente la propria lingua a quella dei popoli sottomessi. Per quanto ne sappiamo, il sumerico – che non ha relazioni di sorta con altre lingue note, antiche o moderne – fu «da sempre» la lingua del Sud della Mesopotamia, convivendo con altre
lingue semitiche piú comuni nelle regioni settentrionali e nordoccidentali. L’archeologia dei luoghi di culto, inoltre, mostra ovunque i segni di uno sviluppo graduale e ininterrotto, protrattosi per millenni. In assenza di nuove informazioni e prove, dunque, sarà piú saggio considerare i Sumeri come popolazioni autoctone della Mesopotamia meridionale.
Lugalzaggesi venne sconfitto, catturato e condotto «con un guinzaglio da cane» a Kish, dove venne rinchiuso in una gabbia appesa alla porta di Enlil, sino alla morte. Il nuovo conquistatore aveva umili origini: era stato il coppiere del re di Kish e forse proprio per questo aveva assunto un nome che, nella sua lingua semitica, suonava come Sharru-kin, solitamente letto come Sargon, che significa «Il re legittimo». Per esprimere una completa rottura col passato, invece di legare il proprio nome a quello prestigioso di Kish, Sargon costruí una sua capitale chiamata Akkad: è uno dei pochi grandi centri del Vicino Oriente Antico di cui ancora ignoriamo l’esatta ubicazione. Dalla sua nuova città, Sargon rase al suolo le mura di Uruk e delle altre città sumeriche, alle quali impose come ensi i propri governatori, e fondò un impero che controllò militarmente e commercialmente l’intero mondo mesopotamico. Sotto Sargon e il suo piú celebre discendente, il nipote Naramsin, le navi di Akkad si spinsero sino al Paese di Magan, in Oman; gli eserciti akkadici compirono spedizioni di conquista e scorrerie nel cuore dell’altopiano iranico, nella Mesopotamia settentrionale e in Siria, in Anatolia. Naram-sin fu il primo sovrano nella storia mesopotamica a proclamare ufficialmente la propria natura divina. L’akkadico divenne la lingua ufficiale dell’amministrazione dello Stato, fortemente centralizzata; pesi e misure vennero standardizzate; i re si impegnarono nella realizzazione di grandi opere pubbliche e nella manutenzione dei canali, come voleva la tradizione mesopotamica, e le figlie dei sovrani divennero le prime sacerdotesse dei principali templi cittadini. Nel Sud, i re e la corte confiscarono estese porzioni di terreno a privati, usate per compensare i quadri dell’amministrazione e dell’esercito. Questa politica causò rivolte e sanguinose repressioni. La caduta della dinastia akkadica fu accelerata da infiltrazioni e scorrerie di tribú che calavano dai monti Zagros. I testi definiscono gli invasori
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come «le orde di Gutium»: dopo la caduta di Akkad, le città sumeriche riacquistarono l’indipendenza, e fu Utu-hegal, un re di Uruk, a ricacciare i Guti fuori dal Paese. Poco dopo, intorno al 2150 a.C., sarebbe stato Ur-nammu, uno dei governatori di Utu-hegal, a dare inizio alla III Dinastia di Ur e a rifondare lo Stato unitario. Ur-nammu, dopo la vittoria, assunse per la prima volta il titolo di «Re di Ki-en-gi e Ki-uri», vale a dire di Sumer e Akkad. Il periodo della III Dinastia di Ur è forse il meglio conosciuto della storia mesopotamica, grazie alle decine di migliaia di tavolette rinvenute nelle rovine delle città, sulle quali veniva registrato anche il piú insignificante dettaglio dell’amministrazione statale.
Un crollo repentino Molti studiosi pensano che proprio l’eccesso di centralizzazione burocratica abbia contribuito al rapido crollo dello Stato, intorno al 2000 a.C. Nel trentacinquesimo anno di regno di Shulgi, successore di Ur-nammu, venne costruita una sorta di «grande muraglia», per difendere il Paese dalle incursioni degli Amorrei, e un altro muro fu eretto allo stesso scopo da Shu-sin, il quarto e penultimo re della dinastia. Negli ultimi documenti della corte di Ibbi-sin, l’ultimo re della III Dinastia di Ur, si parla di una capitale ridotta alla fame, in attesa di rifornimenti di grano e imbarcazioni che non arriveranno mai, mentre gli Amorrei catturano una guarnigione e una città dopo l’altra. L’attacco finale a Ur venne sferrato probabilmente da un esercito elamita. Nei decenni successivi, il Paese fu governato da numerose città-stato indipendenti, molte delle quali rette da case amorree. Isin fu la prima città a riguadagnare un ruolo di egemonia, scacciando
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In basso cilindro in terracotta con l’inno trionfale di Gudea, signore di Lagash, da Tello. 2150 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto statuetta che ritrae Lamgi, re di Mari. 2500-2400 a.C. Aleppo, Museo.
gli Elamiti e presentando i suoi governanti come i naturali successori dei re della III Dinastia di Ur. In questo periodo di grandi cambiamenti, alcune antiche città – come Suruppak, Kes, Lagash e Adab – vennero gradualmente abbandonate; il centro di gravità della Mesopotamia iniziava a spostarsi inesorabilmente verso nord. L’estrema complessità della politica internazionale dei primi due secoli del II millennio a.C. è rivelata dalla scoperta degli archivi del palazzo di Mari, in Siria: i signori di Isin vennero infine sconfitti e rimpiazzati da quelli di Larsa, che forse mantenevano contatti con gli Elamiti, come potenza egemone della parte meridionale del Paese; nella regione di Akkad si era affermata la supremazia di Babilonia, mentre a nord-est si era imposto lo Stato di Eshnunna. Nelle terre del Nord, costantemente minacciate dalle orde dei nomadi, alcune città erano in potere degli Hurriti, originari delle aree montuose della Siria settentrionale; altre – come Qatna, Aleppo, Mari e Assur – erano governate da dinastie amorree, che mantenevano stretti contatti diplomatici l’una con l’altra ma, quando necessario, non si astenevano dal combattersi.
Le tavolette nei cesti I re di Babilonia furono impegnati a lungo nel tentativo di unificare e stabilizzare il Sud del Paese. Il famoso Hammurabi (1792-1750 a.C.) riuscí a volgere le sue attenzioni verso nord solamente dopo piú di trent’anni di regno. Hammurabi sconfisse Zimri-Lim, suo vecchio alleato e re di Mari, e ne incendiò il palazzo; gli archeologi trovarono l’archivio delle tavolette come i soldati di Hammurabi l’avevano lasciato, con i documenti selezionati e suddivisi in cesti provvisti di apposite etichette.
LE PAROLE DEL POTERE
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Sumeri usavano due parole per colui che governava una città: en, piú tardi ensi, termine che sembra aver indicato il signore locale di una città-stato, e lugal. Questo secondo termine, che veniva scritto con uno specifico ideogramma, significa letteralmente «Grande uomo». Secondo alcuni studiosi, invece, l’ensi sarebbe stato principalmente il sommo sacerdote della città, oppure un funzionario che rivestiva principalmente una carica religiosa. Vi sono iscrizioni in cui due persone si qualificano rispettivamente insieme come ensi di una data città e Lugal, indicando cosí i due ruoli gerarchici di signore o sacerdote locale e sovrano di piú città.
Mari non si sarebbe piú risollevata dalla rovina. Hammurabi conquistò poi Eshnunna; nelle sue stele di vittoria, il re elenca tra le città assoggettate anche Assur e Ninua, la futura capitale dell’Assiria. È stato scritto che la vittoria di Hammurabi, e la salita al potere della I Dinastia di Babilonia, rappresentarono un passo importante nella storia politica del Paese: da allora in poi, le minacce alla stabilità politica sarebbero giunte principalmente da potenze esterne, e non piú da altre città concorrenti. Questa stabilizzazione si accompagnò alla scomparsa dalla vita politica di gran parte delle città del Sud, come Ur, Uruk, Larsa, Isin e Nippur. Discendente di un capo amorreo, Hammurabi, oltre che un capace condottiero militare e un abile diplomatico, fu uno dei piú grandi sovrani della storia della Mesopotamia. Sotto il suo comando, Babilonia divenne una grande capitale, ricca e ben amministrata. Il prestigio di Babilonia fu tale che quella parlata in città divenne la lingua franca della cultura e della diplomazia internazionale. Al periodo di Hammurabi e dei suoi immediati successori appartengono il famoso codice legale e alcune delle piú grandi realizzazioni artistiche e letterarie della tradizione mesopotamica. Anche il pantheon sumero-akkadico fu riorganizzato, per dare nuovo rilievo alla figura dominante di Marduk, il giovane dio-guerriero babilonese.
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Due immagini dello Stendardo di Ur, rinvenuto nella tomba 779 del Cimitero Reale. Metà del III mill. a.C. Londra, British Museum. Si tratta, in realtà, di una cassetta lignea decorata in madreperla e conchiglie su uno sfondo di lapislazzuli. Sul lato, detto «della Pace» (in alto) è raffigurato un banchetto alla presenza del re. Sul lato «della Guerra» (a destra) sono raffigurati, nella fascia inferiore, i nemici sconfitti travolti da carri trainati dagli onagri delle milizie di Ur; nella fascia mediana, i vinti sono fatti prigionieri e portati al cospetto del sovrano; nella fascia superiore, il re, raffigurato al centro e in dimensioni maggiori, attende i prigionieri.
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A partire dal XVIII secolo a.C. maturarono altri cambiamenti epocali. Intorno al 1700 a.C. l’Egitto venne assalito e conquistato da gruppi asiatici che posero fine allo Stato unitario e insediarono loro dinastie regnanti. In territorio anatolico, nella Siria del Nord e nell’entroterra degli Zagros si affermarono nuovi gruppi sociali che parlavano lingue diverse. Questi gruppi sarebbero stati conosciuti, in futuro, come Hittiti e Mitanni, di lingua indoeuropea, e Cassiti, che parlavano una lingua senza affinità note; anche parte dell’aristocrazia cassita portava nomi affini a quelli indoeuropei.
Gli Hurriti, nelle alte valli del Tigri e dell’Eufrate, e particolarmente nel bacino del Khabur, avevano stabilito dei propri regni indipendenti; anch’essi parlavano una propria lingua. Le prime menzioni dei Cassiti risalgono al tempo di Samsu-iluna, successore di Hammurabi, che ebbe con loro uno scontro. Sembra che la patria dei Cassiti si trovasse nelle valli del Luristan, a sud dell’attuale città di Hamadan. Negli ultimi tempi della I Dinastia di Babilonia, troviamo comunità cassite accampate ai margini delle città, sulle rive dell’Eufrate, e ancora come mercenari e
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lavoratori stagionali. L’impero di Hammurabi era stato creato da un uomo dalla forte personalità, ma non gli sopravvisse a lungo. Agli inizi del XVI secolo a.C., il potere di Babilonia era già stato assai indebolito da rivolte e attacchi esterni. Un’incursione guidata dal re ittita Mursilis I, dopo aver conquistato Aleppo e Carchemish, giunse alle porte della città, e ne travolse le difese. Babilonia fu saccheggiata e distrutta; la statua di Marduk e della sua consorte Sarpanitum vennero rapite dall’invasore.
Conquista e integrazione Le ripercussioni di questo audace colpo furono enormi; dopo il ritiro degli Ittiti, nel vuoto che si era formato, furono i Cassiti a prendere il potere; lo avrebbero mantenuto per piú di quattro secoli, perlopiú in condizioni di pace.
IL VANTO DI HAMMURABI
A
lla luce dei dati storici e archeologici, le iscrizioni in cui il re Hammurabi di Babilonia si vanta delle sue imprese sembrano giustificate. In una leggiamo: «Io ho sradicato il nemico al nord come al sud; ho messo fine alla guerra; ho promosso il benessere del paese; ho fatto sí che la gente vivesse in abitazioni confortevoli; non permisi che alcuno li terrorizzasse. Sono state le grandi divinità a chiamarmi, perché diventassi il benevolo pastore dal giusto scettro; la mia ombra benevola scivola sulla mia città. Ho portato nel petto le genti del paese di Sumer e Akkad; esse hanno prosperato sotto la mia protezione; le ho governate in pace; ho dato loro asilo nella mia forza».
Una delle prime azioni del primo re cassita di Babilonia fu proprio il recupero delle statue divine e la loro reintegrazione ufficiale nel luogo di culto destinato. Come spesso accadde nella storia, i re stranieri vennero presto assorbiti dalla cultura del Paese che avevano assoggettato, assumendo i titoli, le prerogative, le funzioni degli antichi sovrani mesopotamici, e mantenendo in vita, con un atteggiamento molto conservatore, le tradizioni locali. Nella prima metà del XII secolo a.C., anche la dinastia dei re cassiti, la piú longeva della storia mesopotamica, venne piegata (ironicamente, dagli Elamiti loro conterranei). La Mesopotamia era giunta alle soglie della dominazione degli Assiri. Lo Stato militare assiro, per quanto basato all’estrema periferia nord-orientale del Paese, rappresentò l’ultima grande fase di centralizzazione politica di lingua e cultura mesopotamica. Ma si trattò di un potere tanto militarista, oppressivo e spietato che gli stessi Babilonesi, pur di liberarsene, favorirono l’espansione dei Medi e dei Persiani e l’instaurazione di un nuovo impero universale: un impero nel quale la Mesopotamia era geograficamente periferica, ma, dal punto di vista culturale, rappresentava un riferimento insostituibile.
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Veduta aerea degli scavi di Ur, uno dei centri piĂş importanti della Mesopotamia. In alto, al centro, si distinguono i resti della maestosa ziqqurat, dedicata al dio della luna Nanna, protettore della cittĂ . Nella pagina accanto testa in calcare di sovrano della III dinastia di Ur. 2100-2000 a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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LA SCRITTURA
Sviluppo delle immagini incise su un sigillo cilindrico in goethite di epoca paleobabilonese. Venezia, Collezione Ligabue. Ai lati dell’iscrizione in caratteri cuneiforni compaiono: a sinistra, la cosiddetta «dea nuda», alla cui destra si trova la dea supplicante Lama; a destra si distinguono un «uomo-toro», che reca in braccio un capride e un sovrano in postura marziale con una mazza in mano.
Prima dell’alfabeto
Già dal IV millennio a.C. la Mesopotamia elabora un sistema di scrittura grazie al quale è possibile registrare conti di merci e informazioni. Per farlo, si ricorre a segni astratti, incisi con strumenti a cuneo sull’argilla fresca delle tavolette | ALLA CONQUISTA DEL MONDO | 38 |
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LA SCRITTURA
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e società della preistoria conoscevano piú di un metodo per effettuare conti e registrare le informazioni. I pastori usavano contare gli animali delle greggi piantando a terra bastoncini di diverso colore, oppure accumulando sassolini o altri tipi di contatori, e i vasai registravano il numero e l’appartenenza dei loro prodotti con sistemi di segni numerali e geometrici. Contrariamente a quanto si può credere, vi furono società molto complesse, organizzate anche alla stregua di potenti stati centralizzati che controllavano efficacemente la propria economia e l’amministrazione senza utilizzare alcuna forma di scrittura. Altre civiltà si servirono di sistemi di registrazioni che a noi potrebbero sembrare rudimentali. Presso gli Inca, per esempio, l’annotazione delle informazioni necessarie all’esercito, alla diplomazia e al controllo delle manifatture imperiali si basava sull’impiego di cordicelle di vario spessore e colore. Un’altra «macchina» certamente usata in molte società preistoriche, ma quasi impossibile da riconoscere in un ipotetico scavo archeologico, è il pallottoliere. In una tavoletta mesopotamica che elenca gli strumenti dello scriba, si parla
SCRITTURE DIVERSE
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ontemporaneamente all’invenzione della scrittura in Mesopotamia, le principali città dell’Oriente elamico, nell’altopiano iranico, sviluppavano autonomamente il proprio sistema di scrittura; nelle città della Civiltà dell’Indo (2600-1900 a.C. circa) venne elaborato un sistema di scrittura completamente diverso, ma solo 6 secoli piú tardi. In Egitto, la scrittura nacque con uno scopo completamente diverso: celebrare la grandezza del re e il suo ruolo divino. In Egitto, infatti, mancano le prove della lunga evoluzione patronizzata dalle istituzioni economiche mesopotamiche.
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In alto tavoletta iscritta in cuneiforme, con busta, da El Quitar. XIV-XII sec. a.C. Aleppo, Museo. Nella pagina accanto tavoletta con caratteri pittografici divisa in «caselle», da Uruk o Ur. IV mill. a.C. Venezia, Collezione Ligabue.
del mahistum, una parola che probabilmente indica proprio un simile strumento di conto. Da questo punto di vista, la Mesopotamia si rivela inaspettatamente affine al mondo contemporaneo. La logica delle prime forme di scrittura è analoga a quella delle piú comuni forme di amministrazione: buste chiuse, conteggi, ricevute, riscontri fiscali, autenticazioni. In ogni caso, lo sviluppo di un sistema scrittorio non è frutto di una evoluzione graduale, condivisa da ampie sezioni della società, ma implica l’imposizione arbitraria dall’alto di un sistema precostituito a una
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LA SCRITTURA SCHEMA DI EVOLUZIONE DAL PITTOGRAMMA AL CUNEIFORME DATE APPROSSIMATIVE
LA STELLA segno del cielo e del Dio
L’APPEZZAMENTO DI TERRA
L’UCCELLO
IL PESCE
LA TESTA DI MUCCA
LA SPIGA D’ORZO
L’UOMO la sagoma umana
LA DONNA il triangolo pubico
LA DONNA + LE MONTAGNE = la donna straniera, la schiava
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3300 a.C.
2800 a.C.
2400 a.C.
1800 a.C.
700 a.C.
SI FA PRESTO A DIRE AGLIO...
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elle sue forme piú antiche, la scrittura dei Sumeri si componeva di segni ideografici che rappresentavano altrettante parole e oggetti, e numerali organizzati in colonne, con precise convenzioni grafiche per le somme parziali e totali. La scrittura non era adatta a esprimere concetti astratti come quelli necessari ai verbi e ai loro tempi, o, per esempio, ai pronomi. La soluzione al problema fu trovata gradualmente, cominciando con l’utilizzare segni che esprimevano suoni prima che significati. Per esempio, «dare» si diceva sum; ma la stessa parola voleva anche dire «aglio». Gli scribi iniziarono perciò a usare il segno che indicava l’aglio per esprimere il concetto di «dare». Analogamente, la parola sumerica per «freccia» era ti; ma ti o til significava anche «vivere». I Sumeri iniziarono cosí a tracciare il segno dell’arco, che richiamava la freccia, per esprimere il verbo «vivere». Col tempo, e applicando sistematicamente simili principi, gli scribi sumerici iniziarono ad affiancare ai loro segni ideografici un sistema sillabico indipendente, con valore puramente fonetico, usato per esprimere prevalentemente elementi grammaticali e concetti astratti. Un ulteriore stimolo a questo processo fu la necessità di usare la scrittura cuneiforme per scrivere la nuova lingua akkadica. Il sumerico, infatti – usando un termine tecnico –, è una lingua agglutinativa: questo significa che certe variazioni di significato di una parola si ottengono variando il suono vocalico di alcune sillabe entro la radice della parola. Per scrivere il sumerico era quindi sufficiente premettere a un certo segno ideografico un valore monosillabico. La grammatica dell’akkadico, come quella di molte lingue semitiche, si basa invece su modificazioni di una radice formata da tre consonanti, ed era perciò necessario sostituire il segno ideografico con una sequenza di sillabe. Avvenne cosí che certi segni, con questi cambiamenti, si potevano leggere per il loro suono come per il loro significato, ed era facile confondersi. Si svilupparono cosí segni «determinativi», con i quali era possibile specificare come leggere i vari segni. Con l’evoluzione della scrittura, alla fine di questo processo, il segno che si leggeva come an poteva indicare, come segno ideografico, i concetti di «cielo» o «dio», una sillaba con valore fonetico «an», oppure, come determinativo, poteva specificare che una certa cosa aveva natura celeste o divina. Alla fine, si ritrovarono a disporre di un insieme formato da alcune centinaia di segni sillabici e determinativi, che rimpiazzò quello ideografico.
Tavoletta con testo di natura amministrativa, con pittogrammi, dalla Mesopotamia meridionale. Periodo Tardo Uruk. Venezia, Collezione Ligabue. È possibile distinguere una serie di numerali (centro-destra), affiancati dal segno per «spiga». A sinistra, in alto, troviamo verosimilmente il segno per «malto», «pane da birra», sotto il quale si potrebbe leggere ŠÁM, «prezzo, acquistare». L’ultimo segno sulla sinistra è BA= «dare (fuori); uscita (amministrativa)».
ristretta classe di persone: gli scrivani specializzati. Lo scavo del tempio chiamato Eanna, a Uruk, ha restituito le piú antiche tavolette iscritte della Mesopotamia e probabilmente del mondo, e sono documenti di questo tipo. Ma lo scavo di altri siti in diversi Paesi dell’Asia Media ha permesso di ricostruire gli antecedenti di questa straordinaria innovazione.
Le prime registrazioni La fase piú antica di registrazione delle informazioni è rappresentata da una serie di contrassegni che indicavano determinati animali o prodotti. Si trattava di ciottoli, presto sostituiti da gettoni in argilla di forma geometrica. Ne sono stati ritrovati esemplari in numerosi siti del IV millennio a.C. Questi gettoni hanno spesso forme semplici (sfere, coni, semilune, triangoli, parallelepipedi) e sono talvolta contrassegnati con segni incisi. Alcuni studiosi sottolineano la somiglianza che
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LA SCRITTURA
comparire su tavolette appiattite. Intorno al 3200 a.C. in vari siti compaiono tavolette con segni numerali tracciati sopra impronte di sigillo; solo a Uruk, invece, vennero trovate simili tavolette che associano ai segni numerali altri segni, i quali, evidentemente, indicano determinate classi di prodotti.
Un mestiere difficile ma prestigioso Nelle piú antiche tavolette di Uruk sono stati contati 2000 segni diversi, il che indica, al di là di ogni possibile dubbio, la loro natura ideografica: ogni segno, in altre parole, definisce un oggetto o un concetto. Già in questa fase la scrittura era diventata una professione difficile e prestigiosa: lo rivelano le prime liste di segni, compilate a scopo di esercizio e di didattica nelle scuole degli scribi. Nei due secoli successivi, la varietà dei segni si riduce sensibilmente, a riprova della progressiva questi gettoni presentano a volte con i segni che appariranno, in seguito, sulle tavolette e ciò li ha indotti a ipotizzare che avessero forme e significati standardizzati, e che potessero essere utilizzati per effettuare efficacemente semplici operazioni di conto. Una successiva trasformazione potrebbe essere rappresentata da una serie di sfere d’argilla internamente cave, databili agli ultimi secoli del IV millennio a.C., spesso chiamate con la parola latina bullae, in quanto la superficie esterna reca impressioni di sigilli. Le sfere vuote contengono gettoni conici e rotondi che somigliano molto ai segni che, nei successivi sistemi scrittorii, indicheranno i numeri 1, 10 e 60, accompagnati da piccole figurine d’argilla che raffigurano animali e altri beni. Bullae come queste sono state trovate a Uruk e a Susa. Alcune di esse, oltre alle impronte di sigillo, recano sull’esterno quelle degli stessi gettoni contenuti nella cavità. Un’importante evoluzione si verificò quando i responsabili amministrativi si resero conto che era possibile registrare le stesse informazioni in modo bidimensionale: le impronte di sigillo e quelle dei gettoni potevano semplicemente
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In alto tavoletta in cuneiforme accadico, da Kanesh. XIX sec. a.C. Venezia, Collezione Ligabue. Si tratta di una lettera in dialetto assiro relativa a vicende di affari, con ogni probabilità connessi ai traffici carovanieri tra Assur e l’Anatolia. A destra tavoletta contenente un sillabario babilonese. V sec. a.C. Londra, British Museum. Nella pagina accanto tavoletta amministrativa degli archivi neosumerici. III Dinastia di Ur, XXI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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LA SCRITTURA
I PRO E I CONTRO DI UN SISTEMA GENIALMENTE SEMPLICE
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e tavolette d’argilla erano facili da preparare e semplici da tenere in ordine. Potevano essere allineate su scaffali, proprio come i moderni libri: scaffali di questo tipo, carichi di migliaia di tavolette, presero fuoco e crollarono negli archivi del grande Palazzo Reale di Ebla. Spesso le tavolette erano custodite in cesti, ciascuno con la propria etichetta di argilla. Dopo essere state incise, a differenza di quanto poteva accadere a un testo tracciato su papiro o su cuoio, le tavolette non potevano essere facilmente falsificate. Anche se in alcuni casi le tavolette venivano intenzionalmente indurite nella fornace, quelle essiccate al sole avevano quasi le stesse proprietà. Parte dell’abilità degli scribi consisteva nel tracciare il testo con rapidità, prima che la tavoletta si essiccasse, e comunque variando
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la forza del tocco a seconda del progressivo indurimento del supporto. Le tavolette d’argilla venivano anche inviate «per posta», con appositi corrieri. Gli scribi impararono a coprire le tavolette con vere e proprie «buste» d’argilla, in modo da proteggerne il testo da sguardi indiscreti e da eventuali danni causati dal trasporto. Uno svantaggio era invece costituito dal fatto che i testi piú lunghi richiedevano tavolette di grandi dimensioni, e spesso serie di piú tavolette. Alcune tavolette di Ebla sono quadrate e hanno lati di 40 cm; una tavoletta della III Dinastia di Ur del British Museum pesa quasi 7 kg. Una tavoletta del genere è già difficile da maneggiare; vi sono immagini del III millennio a.C. in cui lo scriba traccia i suoi segni su tavolette sorrette con due mani da un inserviente.
I PIONIERI DELLA DECIFRAZIONE
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el XVII secolo tra gli eruditi europei iniziarono a circolare le prime incerte copie delle iscrizioni cuneiformi, trascritte da intraprendenti viaggiatori come Pietro della Valle e Karsten Niebuhr. Per qualche eminente studioso, i caratteri cuneiformi erano semplici motivi ornamentali e non un sistema di scrittura. Il merito della decifrazione viene attribuito al tedesco Georg Friederich Grotefend, nato a Münden nel 1775. Grotefend aveva a disposizione alcune copie delle iscrizioni di Persepoli e, nel 1802, intuí il senso di lettura delle iscrizioni e ipotizzò correttamente che le iscrizioni contenessero la lista genealogica dei re achemenidi: l’elenco doveva svilupparsi secondo formule prevedibili, come quelle ancora in uso ai suoi giorni. Grotefend osservò sequenze ripetitive di segni, e pensò che si trattasse dei nomi propri seguiti dall’appellativo di re. Osservando le iniziali e la lunghezza degli ipotetici nomi, e l’assenza dei segni che, secondo lui, volevano dire «re» nel capostipite, giunse alla conclusione che i due nomi ripetuti con insistenza erano quelli di Dario e Serse. Per quanto intuitivo e azzardato fosse il ragionamento, le ricerche successive hanno dimostrato che Grotefend aveva avuto perfettamente ragione.
accettazione di sistemi standardizzati in vari centri della Mesopotamia meridionale. Ai tempi di Hammurabi di Babilonia, i segni erano circa un migliaio, di cui solo una parte veniva però usata con frequenza. In Mesopotamia, l’uso di scrivere sulle tavolette d’argilla si protrasse per circa 3000 anni. Conformemente a quanto avveniva nella gestione politica del Paese, in corrispondenza dei periodi in cui l’autorità centrale dello Stato si faceva sentire forte, i sistemi di scrittura conobbero fasi di particolare standardizzazione; quando, invece, lo Stato unitario si dissolveva nel consueto mosaico di città-stato autonome, si sviluppavano tradizioni locali. I segni piú antichi, di natura ideografica, possono essere interpretati poiché sono facilmente riconoscibili. Con il passare del tempo, tuttavia, i segni vennero corsivizzati, semplificati, al punto da essere totalmente diversi dai loro prototipi. In altre parole,
Tuttavia, lo studioso tedesco non fu il solo «eroe» della decifrazione del cuneiforme. Il maggiore inglese Henrly Creswicke Rawlinson, nato dieci anni dopo il successo di Grotefend, tradusse indipendentemente, ma su presupposti simili, le stesse tavole, con risultati analoghi. Venuto a conoscenza del lavoro di Grotefend, Rawlinson decise che gli servivano testi piú lunghi. Mentre era in servizio di guerra in Persia, si fece calare dalla rupe di Bisitun, sulla strada che collega Hamadan a Kermanshah: sospeso nel vuoto a 50 m d’altezza, il maggiore ricopiò un’iscrizione di Dario e ne tradusse la versione in persiano antico.
In alto la sala dell’archivio nel Palazzo Reale di Ebla, cosí come si presentava al momento della scoperta, con le tavolette ancora in fila, malgrado la caduta dei sostegni sui quali erano allineate. Nella pagina accanto tavoletta con contratto per l’acquisto di una casa, da Shuruppak o Nippur. Periodo Protodinastico IIIa, XXV sec. a.C. Venezia, Collezione Ligabue.
divennero sempre piú astratti e facili da tracciare con velocità. I segni vennero chiamati «cuneiformi» nel 1700, perché risultavano impressi con uno strumento dall’estremità affilata a forma di cuneo, ricavato da una sezione di una canna palustre. Per questo motivo, la patrona degli scribi era Nisaba, la dea dei cereali e di altre piante. In epoca akkadica, la caratteristica forma a cuneo dei tratti che componevano i segni iniziò a essere riprodotta anche in pietra e metallo. I segni numerali, invece, venivano tracciati con strumenti dall’estremità rotonda o semicircolare. Ancora alla fine del periodo Antico Dinastico III, i blocchi di testo venivano chiusi in «scatole» quadrangolari tracciate sull’argilla o sulla pietra; a partire dal periodo akkadico, il sistema venne razionalizzato, disponendo il testo in modo continuo, in fasce delimitate da linee che venivano tracciate sull’argilla fresca prima di iniziare a scrivere.
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I LUOGHI DELLA VITA
vita quotidiana Scene di
Teatri dell’esistenza di uomini e donne dell’antica Mesopotamia erano la casa, i templi e il palazzo reale
L
a vita di un abitante dell’antica Mesopotamia ruotava attorno a tre importanti vertici: la casa privata, il tempio, il palazzo del signore, anche se quest’ultimo, sulla base dei documenti scritti e delle testimonianze archeologiche, fu un’aggiunta piuttosto tardiva. La case private venivano costruite con gli stessi materiali impiegati negli odierni villaggi iracheni: mattoni crudi e rivestimenti di fango e argilla. Le finestre erano rare e piccole e, come le porte, erano fabbricate con stipiti e battenti fatti del legno degli alberi che crescevano lungo fiumi e canali: pioppo e salice. I tronchi delle
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palme, invece, essendo fibrosi, leggeri ed elastici, potevano essere usati per sostenere il tetto, costruito con strati di frasche sigillati da stuoie intrecciate e anch’esso intonacato con strati di fango. I muri erano spessi, ben costruiti, per mantenere il calore d’inverno e il fresco d’estate, ma anche per difendere la privacy della famiglia; i pavimenti erano frequentemente rinnovati con nuove stesure dello stesso intonaco e protetti con stuoie di fibre intrecciate. Ai tempi di Hammurabi, per proteggere le murature dalla risalita dell’umidità e del sale, i basamenti venivano eretti con mattoni cotti – un materiale relativamente
costoso –, che sostenevano i tradizionali elevati in mattone crudo. Le case piú ricche erano dotate di impianti igienici semplici, realizzati con tubature in terracotta, spesso impermeabilizzate con bitume. Le stanze in cui si mangiava o si dormiva erano provviste di focolari quadrangolari.
Tutto ruotava intorno al cortile Una casa relativamente ricca poteva articolarsi in due piani, ciascuno dei quali misurava in estensione 300-400 mq. Le unità domestiche si sviluppavano attorno a un cortile centrale, di forma quadrangolare, a volte provvisto di un porticato e ballatoi lignei. Da questo cortile centrale, si poteva accedere alla cucina – riconoscibile da un focolare di
In alto fregio in madreperla su bitume, dal tempio di Ninhursag ad al ‘Ubaid. I Dinastia di Ur, 2450 a.C. circa. Baghdad, Iraq Museum. In basso l’impronta su argilla di un cilindro in clorite e conchiglia (foto alla pagina precedente) che mostra il rientro delle mandrie alla stalla, da Khafagia. 3300-2900 a.C. Baghdad, Iraq Museum.
maggiori dimensioni e dalle basi per le macine usate nella fabbricazione della farina –, alle stanze di soggiorno e di ricevimento per gli ospiti, al magazzino. Gli oggetti e le provviste potevano essere conservati in cesti o altri contenitori appesi alle travi del soffitto o alle pareti, oppure in grandi «scatole» di argilla o mattone crudo. Una delle stanze accessibili dal cortile poteva essere riservata alla custodia di qualche pecora o capra. L’acqua solitamente si attingeva da pozzi pubblici situati all’esterno; molte case avevano una giara in terracotta che veniva tenuta sempre piena per le esigenze di ogni giorno e che, grazie all’evaporazione del liquido attraverso le pareti, lo refrigerava. I rifiuti domestici venivano accumulati, senza
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I LUOGHI DELLA VITA
QUESTIONI DI EREDITÀ
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ei primi due secoli del II millennio a.C., lo studio dei documenti legali ci indica che la società mesopotamica era, come dicono gli antropologi, patrilineare e patrilocale: la discendenza e i diritti di eredità si trasmettevano dal padre ai figli maschi, e la moglie usciva dalla casa paterna per recarsi a vivere nella casa dello sposo. In mancanza di figli, l’eredità poteva essere trasmessa a qualsiasi discendente maschio vivo, per esempio ai figli riconosciuti di un fratello. E le donne? Al padre, o al primo figlio maschio spettava la facoltà di donare alle donne della famiglia i beni che avrebbero costituito la dote: tessuti, mobili, ornamenti. Solitamente, la dote non comprendeva donazioni di terra, in modo da non disperdere la principale fonte di reddito della famiglia. Quando una ragazza si sposava, i beni della dote passavano a tutti gli effetti in un’altra famiglia; ma i figli maschi di lei avrebbero avuto il diritto di ereditare ogni proprietà dell’altro nucleo familiare. Se poi una ragazza si faceva sacerdotessa, la dote andava donata al tempio, con l’intesa che, alla morte di lei, i beni sarebbero stati restituiti alla famiglia: ma le tavolette ci dicono che questo costume scatenava furibondi litigi e cause legali tra le famiglie e le istituzioni religiose.
troppi riguardi, sulle rovine della prima casa abbandonata nelle immediate vicinanze; solo quando la situazione diventava insopportabile, o quando si procedeva a una vasta ristrutturazione, le famiglie interessate o le autorità cittadine procedevano a ripulire questi lotti di terreno.
Il culto degli antenati Per tutto il III millennio a.C., la casa privata ebbe anche un’altra funzione importante, ma per noi davvero bizzarra: quella di «tomba di famiglia». I capifamiglia (maschi) di maggior prestigio, infatti, venivano sepolti con tutti gli onori in cripte di mattoni interrate tra le mura di casa, e spettava al primo figlio maschio venerarne la memoria con speciali culti, che prevedevano periodiche offerte sulla tomba di acqua e di cibo, recitando preghiere nel nome
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In alto assonometria ricostruttiva di una fattoria unifamiliare di Hassuna. V mill. a.C. Nella pagina accanto, in basso modello in terracotta di una casa privata di otto stanze, con muro di cinta, da Mari. III mill. a.C. Damasco, Museo Nazionale.
del defunto. Erano attività che, d’altra parte legittimavano davanti a tutti il suo diritto alla successione. Almeno a partire dai tempi della III Dinastia di Ur, le tavolette menzionano, insieme alle cripte, i tempietti domestici. Molto spesso le stanze di maggior prestigio della casa erano dotate negli angoli di piccole piattaforme angolari, che fungevano da altari. Le case trovate negli scavi delle grandi città mesopotamiche come Ur, Fara, Babilonia appaiono, nelle trincee di scavo, dilapidate e spoglie; ma non vi è dubbio che gli antichi inquilini sapevano abbellirle e renderle confortevoli con comodi letti e mobilia intarsiata, lampade e oggetti decorativi in pietra semipreziosa e conchiglia, materassi e coperte ricamate, borse intessute in vivaci colori, e, con ogni probabilità, eleganti kilim e forse tappeti. È stato notato come le case private urbane
degli inizi del II millennio a.C., esemplificate da quelle scavate a Ur, siano tre o quattro volte piú piccole di quelle del III millennio a.C. Le ragioni di questa restrizione non sono state ancora chiarite. Gli studiosi hanno pensato che si tratti di un effetto dell’urbanizzazione in centri nei quali lo spazio scarseggiava e il costo dello spazio edificabile diventava proibitivo; altri hanno pensato che questo apparente
In alto ricostruzione delle case del villaggio preistorico di Aiun. Torino, Centro Ricerche Archeologiche e Scavi per il Medio Oriente.
impoverimento rifletta un processo di crescente stratificazione sociale, nel corso del quale le ricchezze venivano concentrate nei palazzi e nei templi. È anche possibile che il fenomeno rifletta l’indebolimento progressivo di quella forma di organizzazione sociale che gli antropologi chiamano «famiglia estesa» e che è tipica degli insediamenti rurali dell’Asia Meridionale: un aggregato di famiglie e di parenti di diverso grado, spesso appartenenti a due generazioni, e di individui collegati in diverso modo alle stesse famiglie.
I racconti delle tavolette Gli storici sono molto bene informati sulla composizione di queste famiglie e sulle procedure di eredità grazie al rinvenimento di innumerevoli tavolette che registrano atti legali come testamenti o compravendite di case e terreni. Le famiglie estese, nelle società rurali, promuovono la collaborazione economica e la coltivazione della terra in comune, bilanciando l’inevitabile tendenza a frammentare le proprietà terriere in lotti inutilizzabili perché troppo ridotti. Alcuni pensano che le case «ridotte» del II millennio a.C. esprimano la crisi di questo modello sociale, e che appartengano a unità familiari minori, limitate a una coppia, forse
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I LUOGHI DELLA VITA
«assistita» da una schiava tenuta come concubina, dai bambini (figli legittimi o meno), da qualche sorella non sposata o vedova, dai genitori anziani. In altre parole, le condizioni della vita urbana, che offrivano nuove alternative di vita – come la carriera nell’esercito, nell’amministrazione dello Stato, nel commercio e nell’artigianato –, promuovevano una continua semplificazione delle antiche strutture sociali basate principalmente sulla proprietà dei terreni agricoli.
Una visione sorpassata Sino a poco tempo fa, piú di un autorevole studioso riteneva che quella mesopotamica fosse stata una società di tipo prevalentemente teocratico, retta da classi sacerdotali e da istituzioni templari che dirigevano in modo quasi dittatoriale e assolutistico ogni settore dell’economia delle città-stato, giungendo a dominare la vita politica e ogni forma di espressione artistica. Questa impressione era principalmente dovuta alla grande stagione di scavi archeologici condotta in territorio mesopotamico tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Gli archeologi scavavano per primi i monticoli centrali delle rovine urbane (i tell). Quasi sempre, questi imponenti rilievi artificiali nascondevano i resti di grandi complessi templari, spesso eretti su imponenti terrazzamenti artificiali, che includevano grandi magazzini, gli archivi delle preziose tavolette, i laboratori degli artigiani che abbellivano i luoghi di culto, ripostigli che abbondavano di affascinanti oggetti consacrati alle divinità.
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L’idea di una centralizzazione quasi ossessiva delle principali attività umane – religione, agricoltura, artigianato – e di processi di redistribuzione controllati capillarmente dallo «Stato teocratico» era dovuta, in realtà, alla selezione dei luoghi scavati. Oggi quasi tutti gli storici e gli archeologi rifiutano l’ipotesi di un totale accentramento ideologico ed economico. Il tempio, e piú tardi il palazzo, svolsero sí funzioni di concentrazione e redistribuzione delle idee e della ricchezza della città, ma dovevano competere con altri sistemi economici, gelosi della propria indipendenza. Si pensi agli interessi delle grandi famiglie che investivano nel settore commerciale, ai gruppi di stranieri che certamente vivevano nelle maggiori città, dove formavano enclavi a sé stanti; all’influenza delle famiglie appartenenti alle etnie che monopolizzavano l’allevamento e la transumanza del bestiame. Poiché solamente pochi privati e le istituzioni templari usavano registrare la propria amministrazione in forma di documenti scritti, l’immagine che ricaviamo dalle tavolette è inevitabilmente parziale e distorta. Eppure sarebbe difficile sovrastimare l’importanza che il tempio ebbe nell’evoluzione della società mesopotamica. La città era innanzitutto un luogo sacro, protetto da una potente divinità. Lo storico scavo del Tempio di Eridu portò gli archeologi a sfogliare, proprio come gli strati di una enorme cipolla, almeno sedici ricostruzioni successive dell’edificio sacro nel medesimo luogo, protrattesi per circa duemila anni.
Le riedificazioni si estendono dai primi momenti del periodo di Al ‘Ubaid (5000 a.C. circa), in cui il Tempio era poco piú di una capanna con una nicchia e un piccolo altare, all’enorme monumento della fine del periodo di Uruk (3000 a.C. circa), eretto su una terrazza artificiale imponente. Gli scavi del tempio di Anu, a Uruk, e del tempio del sito di Uqair hanno rivelato una successione analoga.
Mosaici e pitture L’identità architettonica del tempio mesopotamico affiora in tempi antichissimi. Già alla fine del periodo di Al ‘Ubaid (4000 a.C. circa) il tempio ha una pianta tripartita, pareti articolate in sequenze continue di nicchie e aggetti che creavano strani giochi di luce e ombra, terrazze e scalinate monumentali; le
In alto tavoletta in argilla sulla quale è incisa la pianta della città di Nippur. 1400 a.C. Jena, Friedrich Schiller Universität. Nella pagina accanto figurina di fondazione in bronzo del re Ur-Nammu, da Nippur. XXI sec. a.C. Baghdad, Iraq Museum. Il sovrano sorregge sulla testa un grande cesto usato per il trasporto del materiale edile.
facciate delle terrazze e dei templi erano decorate con mosaici ottenuti inserendo nell’intonaco delle murature coni di terracotta cotti in vario modo, e, in qualche caso, da grandi pitture policrome. Le terrazze del IV millennio, col passare dei secoli, si mutarono nelle colossali torri a gradoni o ziqqurat (come le chiamavano gli Akkadici) costruite dai re delle dinastie del III, II e I millennio a.C. Il tempio, la casa del dio, continuò a essere eretto sulla sommità di queste montagne artificiali, che ispirarono il racconto biblico della «Torre di Babele», simbolo dell’arroganza del progresso umano. Questi enormi monumenti erano frutto di sforzi collettivi che impegnarono buona parte della popolazione urbana e rurale per tempi prolungati. Nel tempio di Eridu, uno dei livelli piú antichi era composto da strati di
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I LUOGHI DELLA VITA
COME UN MONASTERO
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li studiosi si sono a lungo chiesti se le molte persone menzionate dalle tavolette come dipendenti e gli schiavi che certamente erano usati nella manutenzione del tempio vivessero effettivamente nei recinti dei santuari. Le celle templari, di regola non sono grandi abbastanza per ospitare un seguito cosí allargato. Un edificio monumentale scavato da Sir Leonard Woolley, a lato del tempio di Nanna, a Ur, cintato da potenti murature, aveva pianta quadrata, e si estendeva per piú di 4000 mq: includeva un edificio templare interno, dedicato a Ningal, la moglie e paredra di Nanna, ma anche un vasto complesso residenziale dotato di
cortili, cucine, stanze da bagno, magazzini e, addirittura, una cripta funeraria privata: era la residenza della sacerdotessa cittadina di grado piú elevato, che dedicava la vita al culto della grande dea. La prima sacerdotessa e le altre donne legate al culto, chiamate naditum, provenivano dalle famiglie piú influenti della città e, a quanto pare, erano spesso tenute a praticare la castità. Sappiamo che questi complessi, abbastanza simili ai nostri monasteri, venivano chiamati gipar. Con ogni probabilità, il personale addetto al culto e alla custodia dei grandi complessi templari abitava in annessi monumentali di questo genere.
In alto veduta aerea delle rovine di Nippur. Al centro, i resti della ziqqurat. A sinistra Tell Yelkhi. Un altare con podio sacrificale. III mill. a.C. Nella pagina accanto il «vaso di Warka», uno dei piú importanti capolavori dell’arte mesopotamica, rinvenuto durante gli scavi di Uruk nel 1934. Seconda metà del IV mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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protezione della grande dea, forse Inanna, la dea della fertilità e dei raccolti.
Entità polivalenti
resti di pesce bruciato, che testimoniano come le istituzioni religiose fossero «da sempre» in grado di attirare verso di sé importanti razioni del prodotto alimentare, investite spesso in sacrifici, offerte votive, feste collettive. Questa prerogativa dei templi mesopotamici è orgogliosamente esibita in uno dei monumenti piú celebri dell’arte del periodo di Uruk (4000-3200 a.C. circa): il vaso di Warka. Si tratta di un contenitore in calcare cilindrico, su alto piede, decorato da quattro fregi continui a bassorilievo. Le immagini mostrano, dal basso verso l’alto, campi di cereali, greggi, file di fedeli offerenti carichi di provviste, la consegna di questi beni, di stoffe e gioielli ai magazzini del tempio, sotto la
Nei casi in cui scavi regolari, ma piú spesso saccheggi clandestini hanno portato in luce gli archivi delle istituzioni templari, queste ci appaiono come unità economiche con interessi nei campi piú svariati, come la coltivazione dei cereali, l’orticoltura e la frutticoltura, l’allevamento di caprovini, bovini ed equini, la pesca in acqua dolce e in mare, la produzione artigianale di oggetti in metallo, pietra semipreziosa, legno, cuoio; la produzione intensiva di fibre tessili e tessuti; la promozione di imprese commerciali alla volta di lontani Paesi stranieri. In molti casi, il tempio era anche proprietario di vaste distese di terreno agricolo, che potevano essere coltivate dai dipendenti del tempio stesso, oppure da persone chiamate a prestare la propria opera come dovere religioso; le terre potevano anche essere date in usufrutto al personale del santuario, oppure affittate a terzi. Il tempio, inoltre, funzionava spesso proprio come una banca, prestando provviste alimentari, altri beni o metalli preziosi. I prestiti potevano andare a mercanti che organizzavano spedizioni commerciali oltremare, ma a privati che si impegnavano a restituirli, in seguito, con i dovuti interessi. Una tavoletta, per esempio, racconta la vicenda di un artigiano e di sua moglie, che richiedono al tempio un prestito per poter essere sepolti con oggetti di metallo prezioso, da portare con sé nell’oltretomba. Pur consentendo un certo margine alla cura di interessi privati, il tempio continuò a rappresentare idealmente l’espressione di un’identità collettiva, curando spesso gli interessi pubblici ed effettuando a volte interventi che oggi definiremmo «opere di carità».
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I LUOGHI DEL POTERE
Particolare di una pittura murale con scena di sacrificio, dal palazzo di Zimri-Lim a Mari. XVIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Il tempio e il palazzo Nei grandi luoghi di culto i cittadini offrivano cibi e merci preziose, per il sostentamento di sacerdoti e amministratori. Elargizioni di cui beneficiavano anche i palazzi reali, casa del sovrano, sede di rappresentanza e forziere reale | MESOPOTAMIA | 56 |
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I LUOGHI DEL POTERE
A
l tempio erano annessi archivi amministrativi, magazzini agricoli, laboratori artigianali. A Eshnunna, tra l’Antico Dinastico III e l’Akkadico, un edificio monumentale connesso al tempio di Abu ospitava con tutta probabilità una grande manifattura tessile. Le maggiori concentrazioni di artigiani a servizio dei templi potevano includere centinaia e anche migliaia di lavoratori. Le case dei governatori e dei re avevano ogni interesse a collaborare in modo pacifico e fruttuoso con «imprese» cosí dinamiche. Insieme alla manutenzione dei canali agricoli, il restauro o l’edificazione dei templi, considerati una delle principali prerogative reali, fornivano continui temi propagandistici all’arte ufficiale di Stato. Innumerevoli iscrizioni tracciate su tavolette e coni d’argilla sepolti nelle fondazioni dei maggiori edifici sacri del Paese testimoniano di quanto orgogliosi fossero i governanti dell’appoggio fornito ai complessi religiosi. Nel tempio, la statua di culto poggiava su un podio considerato «la sede» del dio, o della dea. Nessuna statua è mai stata trovata al suo posto: esse erano troppo preziose per essere abbandonate tra le rovine. I Sumeri costruivano spesso oggetti compositi in materiali diversi, e possiamo immaginare che venerassero statue in legno pregiato, intarsiate di lapislazzuli, con parti in oro, argento o bronzo; le figure potevano sedere su troni intarsiati, altrettanto preziosi, e venivano probabilmente rivestite di tessuti pregiati e di gioielli. Questi oggetti, di proprietà divina, formavano il tesoro del tempio. Le tavolette ci hanno tramandato lunghi inventari di beni preziosi, che comprendono sigilli, ornamenti e addobbi in oro, argento, elettro, bronzo, cornalina, lapislazzuli, conchiglia marina, e lunghe liste di stoffe e abiti pregiati. Nel corso dei frequenti episodi bellici che costellano la storia mesopotamica, templi cittadini e i loro tesori, furono ripetutamente saccheggiati dagli eserciti delle città rivali. Nei templi, sacerdoti e indovini sancivano l’inviolabilità di giuramenti e giudizi legali, e
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A sinistra gli imponenti resti (57 m di altezza) della ziqqurat di Aqar Auf (Dur Kurigalzu, Iraq). XIV-XIII sec. a.C. In basso veduta aerea della ziqqurat di Ur, colossale torre a gradoni con terrazze e scalinate monumentali. XXI sec. a.C.
traevano responsi dai movimenti degli astri e dalle viscere degli animali sacrificati. La scienza del vaticinio rimase totalmente orale sino alla prima metà del II millennio a.C., quando iniziano a comparire i primi «manuali» e i primi modelli del fegato degli animali.
I pasti degli dèi Gli dèi venivano accuditi, profumati, nutriti due volte al giorno con pane, farina, dolci, pesce, frutta fresca o essiccata. Le offerte di acqua, vino e birra venivano fatte con speciali vasi in pietra semipreziosa e facevano parte del grande ammontare di contributi che i proprietari terrieri e la casa regnante inviavano regolarmente al tempio, come forma non ufficialmente dichiarata di tassazione: le tavolette, ancora una volta, ci forniscono monotoni elenchi di pecore, agnelli, oche, cereali e farina, datteri, burro, fichi e frutta secca, verdura, combustibili, metallo, lana e bitume, ma anche di doni costosi, come le barche. Le provviste nutrivano innanzitutto il clero e gli attendenti del tempio, come gli scribi, i guardiani e gli amministratori. Una parte veniva usata per pagare le tessitrici e gli artigiani che il tempio periodicamente
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I LUOGHI DEL POTERE
ingaggiava per specifici lavori. La lista di chi usufruiva delle offerte comprende a volte anche barcaioli, acrobati, coppieri, portinai, portatori d’acqua, danzatrici, incantatori di serpenti, indovini, cantanti professionisti e guardie armate. Parte delle ricchezze ricevute veniva reinvestita dalle autorità templari nell’organizzazione di grandi festival, che certamente devono aver richiamato in città grandi masse di visitatori e pellegrini dalle zone rurali. Vi erano processioni, musiche e danze, e si tenevano mercati. Come avveniva nell’antico Egitto, talvolta la statua di culto usciva dal tempio e veniva portata su una barca sacra lungo il fiume a visitare altre città e altri templi, rivivificando gli antichi miti nei quali diverse divinità si ritrovavano faccia a faccia.
Ai margini delle città Un «Grande uomo» o Lugal poteva solo abitare in una «Grande casa». Questa è infatti la traduzione letterale del termine sumerico é-gal, tradotto in akkadico come ekallum. Il predominio delle istituzioni templari nelle grandi pianure alluvionali del Sud del Paese è provato dal fatto che qui alcune grandi residenze reali e principesche del III millennio a.C. sorsero ai margini delle grandi città, e in epoca piuttosto tardiva; nei centri urbani, monopolizzati dai santuari e dai loro annessi, non vi era spazio per nuove costruzioni monumentali. Al contrario, nel Nord della Mesopotamia le grandi case aristocratiche vivevano sulle acropoli degli insediamenti e i templi sembrano istituzioni minori, che vivevano a ridosso dei grandi complessi cerimoniali che ospitavano il potere civile: come avveniva, per esempio, a Ebla e a Mari. I palazzi reali svolgevano a un tempo la funzione di casa del sovrano, della sua famiglia e dei servi piú fidati, di magazzino e
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MATRIMONI E DIVORZI
L
a poligamia era pressoché sconosciuta nell’antica Mesopotamia, ma l’uso di tenere concubine in casa era tollerato, e addirittura incoraggiato quando la moglie non generava figli maschi. I figli delle concubine avevano il diritto di essere riconosciuti dal padre naturale. I matrimoni venivano combinati dalle famiglie con trattative laboriose, che potevano protrarsi per mesi. Questo valeva per la gente comune quanto per le famiglie reali; il grande re Fulgi aveva chiamato un dato anno del suo regno facendo riferimento al matrimonio di una figlia con il signore del paese iranico di Anshan, per l’importanza politica, ma forse anche per l’estrema complessità, delle trattative. Quando un matrimonio era stabilito, vi era un formale impegno di fidanzamento, seguito da una fase in cui le due famiglie si scambiavano doni, soprattutto pane e farina, birra, pecore: beni che venivano usati per feste e banchetti; solo dopo questo periodo si celebrava il matrimonio, si stipulava un vero e proprio contratto legale (sembra solamente in forma orale, davanti a testimoni). Un antico testo magico ci ha tramandato la formula di matrimonio. «Ti riempirò il grembo di argento e oro, tu sei mia moglie, io sono tuo marito». Quindi la ragazza si trasferiva fisicamente nella casa del suocero, e iniziava ufficialmente la coabitazione. Senza una corretta esecuzione di tutti questi passi, il matrimonio non aveva validità legale, e la ragazza si esponeva a gravi rischi. Altrettanto rischiose per le donne erano le richieste di separazione unilaterali. Un testo recita cosi: «Se una moglie ripudia il marito e gli dice “Tu non sei mio marito” la getteranno nel fiume. Se il marito dice alla moglie “Tu non sei mia moglie” pagherà mezza mina d’argento». La legge non era uguale per tutti! Il divorzio concordato era sancito da un’apposita formula che annullava il contratto matrimoniale originario. E in caso di flagrante adulterio? A questo proposito, il Codice legale di Eshnunna è sintetico e molto chiaro: «Il giorno in cui lei verrà trovata tra le braccia di un altro uomo, lei morirà, lei non vivrà». Statua femminile in alabastro, da Nippur. III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum. Sulla testa (in legno) erano applicati il collo e il volto con foglia d’oro.
Piccolo gruppo in terracotta raffigurante una coppia di sposi, da Nippur. Prima metĂ del III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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In alto assonometria ricostruttiva del palazzo di Zimri-Lim a Mari: 1. entrata principale; 2. cortile; 3. corte dei dipinti; 4. sala del trono; 5. residenza del sovrano; 6. scuola degli scribi; 7. quartiere amministrativo; 8. forno; 9. magazzini. A sinistra i resti degli appartamenti privati del palazzo di Zimri-Lim a Mari. II mill. a.C.
forziere per il tesoro statale, di sede di rappresentanza per i cerimoniali di corte e le attività diplomatiche, di laboratorio per una lunga serie di attività artigianali patrocinate o controllate dalla casa reale.
Conflitti latenti Le funzioni della «Grande casa», dunque, si sovrapponevano parzialmente a quelle del tempio, e spesso si è pensato all’esistenza di conflitti latenti tra il potere civile e quello religioso: un’impressione confermata dai testi, che indicano il continuo sforzo dei governanti di far occupare ai propri parenti – alle figlie innanzitutto – posti influenti nelle gerarchie religiose piú elevate. Il palazzo di Mari era il gioiello del re Zimri-Lim, prima che Hammurabi (il quale, nella corrispondenza ufficiale, si definiva «suo fratello») lo incendiasse e lo radesse al suolo. Malgrado il saccheggio, la violenta distruzione dell’edificio ha avuto l’effetto di preservarne le rovine in modo piú che soddisfacente per gli archeologi. L’ingresso era difeso da una sequenza di ambienti facilmente controllabili,
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I LUOGHI DEL POTERE
LA DOTE DI UNA SACERDOTESSA
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uando una giovane donna diveniva naditum ed entrava al servizio del tempio, essa sposava simbolicamente una divinità, e riceveva dalla famiglia una vera e propria dote. Il testo che qui riportiamo offre un’idea della consistenza dei beni che accompagnavano una giovane aristocratica: «Una schiava chiamata Farrat-Sippar (…) 6 shekel d’oro in orecchini; 1 shekel d’oro in un collare; 2 bracciali in argento, dal peso di 4 shekel; 4 braccialetti d’argento del peso di 4 shekel (…); 10 vesti; 20 cuffie intessute; 1 coperta; 2 soprabiti; 1 sacco di cuoio; 1 bue; 2 vacche vecchie di 3 anni; 30 pecore; 20 mine di lana; 1 calderone di rame da 30 litri; una macina in pietra per i legumi; 1 macina per cereali; 1 letto per dormire; 5 sedie (…); 1 scatola rotonda; 60 litri di olio di sesamo; 1 giara da 10 litri di olio per cosmetici di prima qualità (…) Questa è la dote di Liwwir-esagil, naditum di Marduk» (da una tavoletta mesopotamica dell’epoca di Hammurabi).
protetti da spesse murature. Questi passaggi davano accesso a un grande cortile, e quindi a una «sala delle udienze» che accoglieva il trono: a Mari, come a Ebla e a Kish, questi spazi erano decorati riccamente, con fregi a mosaico di conchiglia e pitture mirali che correvano a una certa altezza e avevano lo scopo di esaltare e propagandare la grandezza del signore e delle sue imprese. A Mari, da questo ampio primo cortile, si potevano raggiungere i magazzini, oppure, tramite un altro passaggio strettamente controllato, una corte interna, dipinta con scene che illustravano le sontuose cerimonie dell’investitura del re, e infine la sala del trono. Diplomatici, messaggeri, visitatori, persone che portavano doni e richiedevano grazie e favori devono aver effettuato questo percorso in innumerevoli occasioni. I quartieri piú appartati e difendibili con maggior facilità erano la residenza reale e l’intrico delle stanze di servizio. Anche il palazzo, come il tempio, riceveva continuamente doni e tassazioni, ed era popolato da amministratori, scribi, burocrati, responsabili dell’etichetta di corte, funzionari di ogni tipo, inservienti e schiavi.
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Sulle due pagine veduta aerea dei resti di Ebla, capitale di uno dei maggiori regni dell’antica Siria. III-II mill. a.C. In basso statuetta del «grande cantore» Ur-Nanshe, seduto su un cuscino a gambe incrociate, da Mari. 2500 a.C. Aleppo, Museo.
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LA RELIGIONE
Religione, arte e scienza Oltre alle divinità principali delle varie città, il pantheon dei Sumeri contava anche un gran numero di dèi minori, invocati dalla gente comune con preghiere e scongiuri | MESOPOTAMIA | 66 |
Sulle due pagine tarsia in madreperla e avorio raffigurante il sacrificio di un montone. III mill. a.C. Damasco, Museo Nazionale.
In basso statua di orante, da Mari. Periodo predinastico, III mill. a.C. Damasco, Museo Archeologico.
il sole, una per le acque, ma c’erano anche il dio dell’aratro, quello della lima, quello dello stelo di canna, quello della selce e quello del mattone. Oltre alle divinità principali, infatti, esisteva una folla di esseri divini che facevano la loro comparsa nelle piccole cappelle domestiche, ai crocicchi delle vie, oppure in innumerevoli tavolette contenenti preghiere, rituali, scongiuri, maledizioni. Ogni individuo, inoltre, aveva il suo genio privato o la sua divinità personale. Dando prova di uno spirito curiosamente pragmatico e classificatorio, gli antichi Sumeri attribuivano a ciascuna divinità un vero e proprio coefficiente numerico, che andava dal valore massimo di 60 (per il dio An, il cielo) ai valori gradualmente decrescenti attribuiti a tutte le altre divinità a lui sottoposte.
Enlil, supremo signore del cielo
P
er i Sumeri, il Paese – la loro terra – era il cuore e il modello dell’intero cosmo: un universo formato da molte città, ciascuna delle quali governata e protetta da una divinità diversa. Ma la «costellazione» di esseri divini in cui credevano gli abitanti dell’antica Mesopotamia non si limitava al predominio sulle comunità urbane: essa permeava ogni attività umana, dal lavoro del piú umile contadino o artigiano alle funzioni esercitate dal sovrano. C’era una divinità per il cielo, una per
Il riconoscimento di un vero e proprio pantheon comune si accompagnava allo speciale culto che ogni città tributava al proprio dio o alla sua dea. Prima ancora che condottiero militare e signore del suo palazzo, il re era il primo servitore della divinità nazionale, che abitava quasi «fisicamente» il principale tempio cittadino, insieme alla sua sposa e alla sua famiglia. Cosí, le varie divinità note ai Sumeri erano governate da Enlil, il dio di Nippur e signore supremo del cielo; i Babilonesi adoravano il giovane guerriero Marduk, a cui gli Assiri dovettero sovrapporre la propria divinità nazionale, Assur; e quando i Persiani conquistarono definitavamente il Paese, nel 539 a.C., ebbero un gran daffare nel riportare con tutti gli onori nelle loro cappelle gli dèi e le dee venerate, in 2500 anni di storia, da Sumeri, Akkadici, Babilonesi, e persino dai loro nemici piú temibili, gli Assiri. Le informazioni piú importanti provengono dagli archivi di tavolette cuneiformi trovati nei templi
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LA RELIGIONE
e nei palazzi, soprattutto da quelli databili al periodo assiro, quando la grande tradizione mitologica e religiosa del Paese venne codificata e riprodotta in innumerevoli versioni, come strumento di unificazione culturale e politica; e dalle immagini sacre che vediamo sui sigilli a cilindro e su pochi altri oggetti e monumenti. Tutto indica che i Sumeri vedevano le proprie divinità come esseri superumani, dotati di poteri ultraterreni, ma anche – un po’
In alto placchetta in pietra bituminosa di Dudu, sacerdote di Lagash, da Tello. Prima metà del III mill. Parigi, Museo del Louvre.
come nell’antica Grecia – di tutti i difetti di uomini e donne. Venivano immaginati come esseri di enorme statura, possenti, che portavano sul capo grandi tiare adorne di piú ordini di corna, e venivano accompagnati dal fulgore degli astri e dai boati dei tuoni. A ogni divinità corrispondeva un determinato settore del cielo. Gli dèi erano intelligenti e astuti, ma potevano, a volte, essere ingannati; erano garanti della giustizia e dell’ordine costituito, ma non si ritraevano davanti ad azioni discutibili o immorali; pativano i morsi della passione, della gelosia, dell’odio e della lussuria; come le donne e gli uomini, soffrivano la fame e la sete, e avevano una vera passione per le bevande alcooliche, di cui, a volte, si ubriacavano senza ritegno. Strano a dirsi, le divinità mesopotamiche non erano immortali: potevano ammalarsi, essere ferite in combattimento, e anche morire, raggiungendo cosí i tristi e oscuri spazi dell’oltretomba, dai quali era arduo liberarsi. A sinistra busto in steatite di una principessa del tempo di Gudea, principe di Lagash, da Tello. 2150 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
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E come uomini e donne, le divinità sumeriche erano soggette ai colpi di un destino sovrano, quasi imperscrutabile nella sua arbitrarietà, che si esprimeva in cicli di eventi condannati a ripetizioni infinite. Se gli dèi erano fondamentalmente creature positive, anche se incontrollabili, il male era rappresentato da una folla di demoni, geni malefici e creature oscure sulle quali calava l’ombra, mal definita, di un essere superiore negativo, talvolta chiamato «Il grande serpente». Gran parte dei testi religiosi a noi pervenuti sono inni, esortazioni, lamentazioni rivolte agli dèi, affinchè essi riparino ai torti commessi da queste entità malefiche, restaurando l’ordine cosmico e i ruoli stabiliti che le creature in esso giocano.
Un ciclo infinito I Sumeri credevano che il cosmo fosse formato da mondi che si scindevano, si moltiplicavano, si combinavano senza fine. Si pensava che An, l’immensità del cielo, avesse dato vita alla luna, e la luna avesse poi generato il sole: allo stesso modo, il principio della regalità, che aveva avuto origine in città antichissime, si trasmetteva ad altri centri, dando vita a nuove dinastie e nuovi stati, senza interruzione, in un perpetuo divenire. La triade fondamentale della religione sumerica era formata da An, Enlil, Enki. An, parola che significa anche «Cielo», era – almeno in teoria – la divinità piú importante; Enlil regnava sulla terra; Enki sulle acque primordiali che sorreggevano l’intero universo. Come si è detto, An (Anu per i Babilonesi e i Semiti) aveva valore di «60»; era venerato a Uruk, nel grande tempio dell’E-anna («Il tempio di An»). Nella scrittura cuneiforme, il termine An era indicato con il segno di una stella e assunse ben presto il significato di «Splendente, luminoso, divino», che caratterizzava ogni
Statua di dea con il vaso delle acque zampillanti, da Mari. 1850-1750 a.C. Aleppo, Museo.
manifestazione divina di un certo rilievo. Nella sua indiscutibile, astratta superiorità, An interferiva raramente nelle cose degli uomini, e, di conseguenza, non aveva ruoli di particolare rilievo nei rituali e nelle preghiere. Come le altre divinità principali, An godeva di lunghi elenchi di attributi, e veniva menzionato con apposite liste di progenitori. Il secondo dio, in ordine di importanza – con un valore numerico «solamente» di 50 – era Enlil, nome che forse significa «Signore del vento» (ma anche «Signore della tempesta» e forse «della terra»). Al nome sumerico di Enlil, gli Akkadi accostarono quello, di etimologia ancora non chiara, di Ea. Enlil era il sovrano del mondo di mezzo, quello in cui viviamo noi stessi: la terra, concepita come una grande montagna (Kur) coperta dalla sfera celeste, sospesa sulle acque primordiali, e percorsa da soffi dei venti cosmici. Era quindi il signore dell’atmosfera che rappresenta l’alito vitale della terra. Enlil era soprattutto un dio d’ordine e di coerenza. Assumeva quindi spesso le vesti del guerriero e dell’implacabile legislatore. Nel mito mesopotamico, l’idea del Grande Diluvio con cui gli dèi decidono di disfarsi dell’umanità e dei suoi misfatti era dovuta principalmente all’iniziativa di Enlil. Il tempio principale di Enlil si trovava a Nippur e si chiamava E-Kur, letteralmente «La grande casa della montagna». Enlil era il dio dell’equilibrio, della trasformazione incessante e della rigenerazione dei mondi. Nel corso del II millennio a.C., la figura di Enlil-Ea venne progressivamente soppiantata da quella di Marduk, un giovane dio combattente, creatore dell’universo, che assunse il ruolo di divinità nazionale di Babilonia. Laddove il vecchio dio Enlil rappresentava il cieco volere divino, l’inflessibilità delle norme cosmiche, Marduk era una divinità piú affabile e
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LA RELIGIONE
vicina ai problemi degli uomini. La sua popolarità era tale che in alcuni testi cuneiformi Marduk compare con ben 50 denominazioni gloriose, seguito dalla sua paredra, dal figlio Nabu, e dalla sua intera corte, formata dai visir, dai suoi birrai, coppieri, barbieri, accompagnato persino dai suoi cani. Con la supremazia di Babilonia, sotto Hammurabi e i suoi successori, il culto di Marduk giunse gradualmente ad assorbire quello delle altre divinità, tingendosi di sfumature quasi monoteistiche. Per terzo veniva Enki, «Il signore della base», che regnava sull’abisso di acqua dolce che reggeva l’intero universo, e sui due piani inferiori della realtà, dove si trovavano i regni dei morti. Se è vero che gli antichi abitanti della Mesopotamia conoscevano e veneravano apposite divinità dell’oltretomba, Ereskigal e il suo compagno Nergal, sembra che in origine queste prerogative si riassumessero nella figura del solo Enki. Enki «valeva» 40; il suo tempio principale si trovava a Eriduk e si chiamava E-abzu, «La grande casa dell’Abisso», il tempio dell’oceano sotterraneo. Enki era forse il piú vicino al genere umano di tutti gli dèi: una divinità di benevolenza, giustizia, intelligenza, creazione, garante di una continua collaborazione tra la sfera divina e il genere umano. Davanti alla distruzione operata dal Diluvio voluto da Enlil, fu infatti Enki a suggerire al Noè sumerico, Ut-napishti, lo stratagemma della costruzione dell’arca nella quale trovarono rifugio le piante, le bestie e le persone destinate a ripopolare il mondo.
Le divinità astrali La seconda grande triade della religione mesopotamica era formata da tre divinità astrali: Nanna, Utu, Inanna. La città di Ur, che la Bibbia considera la patria di Abramo, progenitore degli Ebrei, era posta sotto la protezione del dio della luna, Zu-en o Nanna, che per le genti di lingua semitica era Sin. Zu-en, probabilmente il nome piú antico, significa «Signore della conoscenza», mentre Nanna significa piú semplicemente «Signore del cielo». Troviamo un altro riflesso di questa
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antichissima associazione tra la luna e il sapere nella figura del dio egiziano Thot, che era signore della luna e della scrittura al tempo stesso. Dalla luna, infatti, il genere umano impara a contare il passare dei giorni e delle notti, e i primordi del sapere astronomico; e non a caso, secondo i Sumeri, durante le eclissi, le azioni infauste e distruttrici dei demoni nemici dell’umanità si scatenavano nel tentativo di offuscare lo splendore lunare. La casa di Nanna si trovava sulla vetta della grande ziqqurat di Ur. Nell’iconografia religiosa mesopotamica, Nanna veniva simboleggiato con una falce di luna. Nanna era padre di Utu o Ud (Shamash per i Semiti), il dio del sole, patrono delle città di Sippar e Larsa. Sia Nanna che Utu erano innanzitutto divinità dispensatrici di luce, nemiche dell’oscurità, dell’ignoranza e del terrore. Nanna conosceva il destino di ogni essere vivente, che gli appariva chiaro, definito in ogni dettaglio, nelle tenebre del futuro; il figlio Utu, con i suoi raggi e il suo calore, dispensava conforto al genere umano. Solo i malfattori e gli spiriti malvagi ricevono danno e dolore dai raggi luminosi della luna e del sole. Con la sua capacità di annichilire il buio e le ombre, di penetrare sin nei recessi piú remoti del cuore, Utu è il dio della giustizia; veniva rappresentato sotto la forma di un disco risplendente o di una ruota raggiata, e poteva essere chiamato anche Babbar, che significa «Due volte brillante». Un’altra divinità astrale che godeva di un grande prestigio era Inanna (Ishtar per i Semiti), la Stella del mattino, identificata nel pianeta Venere, e che venne poi identificata dai Greci come Afrodite: divinità della bellezza, dell’amore fisico, della fertilità, della generazione, ma anche della lotta. Diversi inni religiosi, infatti, celebrano la baldanza della dea negli scontri e la selvaggia gioia che essa sembra trarre dai combattimenti. Come divinità dell’amore, Inanna era dotata di un corpo seducente; come signora della lotta, assumeva su di sè aspetti propriamente maschili, al punto che a volte veniva raffigurata come dotata di
Nella pagina accanto statua in alabastro gessoso e bitume che raffigura un orante, dal tempio quadrato di Abu a Eshnunna (Tell Asmar). 2700 a.C. circa. Baghdad, Iraq Museum. In basso pantera in avorio con intarsi in lapislazzuli, dal santuario dell’Eanna a Uruk. III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
una rigogliosa barba, proprio come i possenti tori celesti che ricorrono nelle immagini sumeriche del III millennio a.C.: Inanna può cosí assumere su di sé i due principi che assicurano la continuità dell’universo. Il tempio principale di Inanna era stato costruito a Uruk. Il simbolo di Inanna e di Ishtar era la stella.
Discesa agli inferi Inanna aveva una sorella, Ereshkigal, la dea che regna sulla terra dei defunti e che era sposata con Dumuzi (Tammuz). Il vero nome del dio suonava come Dumu-zi-abzu, letteralmente «Il vero figlio dell’abisso», cioè della sconfinata distesa di acqua dolce primordiale in cui i Sumeri identificavano le radici piú profonde dei processi vitali. Dumuzi era una divinità strettamente legata all’oltretomba, come compagno della dea della fertilità durante il freddo e il buio della stagione invernale. Le vicende della coppia divina sono narrate in uno dei piú celebri miti mesopotamici, quello della discesa di Inanna alla terra dei defunti. Un giorno, la dea decide che è venuto il tempo di visitare l’oscurità dell’oltretomba. Giunta alle porte degli inferi, Inanna è costretta dal guardiano a spogliarsi, quasi ritualmente, di una veste dopo l’altra, perchè anch’essa deve
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QUANDO IN ALTO...
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e parole babilonesi «Enuma elish» significano «Quando in alto...» e appartengono al primo verso di un poema di oltre 1000 linee di testo, destinato a celebrare la grandezza del dio-eroe Marduk. Il poema contiene un elaborato mito che racconta l’origine degli dèi e del cosmo allo stesso tempo, giustificando il ruolo centrale di Marduk e, indirettamente, della città di Babilonia. Il mito racconta che, in origine, il cielo, in alto, non poteva essere distinto dalla terra, in basso: non vi erano direzioni, e tutto era permeato da un oceano primordiale caotico, indifferenziato, buio. In esso viveva Tiamat, la prima progenitrice. Le prime entità divine
furono partorite da Tiamat in questo liquido primordiale, e si trovarono ben presto in contrasto con la loro terribile madre. Marduk, il solo che osasse sfidare Tiamat, ricevette dagli altri esseri divini i poteri magici necessari allo scontro. Dopo un’aspra lotta, Marduk ha la meglio, estrae dall’abisso liquido il mostruoso corpo di lei e lo trasforma nel cosmo. Con il sangue di un alleato di Tiamat, Marduk dà vita al genere umano, mettendolo al servizio della nuova generazione divina; il dio dà quindi forma al cielo, agli astri, alla luna e ai suoi movimenti ordinati; e crea infine il primo modello di un tempio, l’Esagila di Babilonia, che diverrà la sua dimora terrena.
sottostare alle leggi che governano l’intero cosmo: ai defunti non sono consentiti gli abiti. Si trova cosí davanti alla sorella Ereshkigal, che le rivolge uno «sguardo di morte»: Inanna raggiunge cosí lo stato che le è proprio nel nuovo mondo che ha raggiunto. Solo il suo spirito sopravvive. Il messaggero di Inanna cerca di mobilitare le altre divinità per salvare la dea, ma solamente Enki, il piú sapiente di tutti, il dio della sacra località di Dilmun e signore dell’abisso di acqua dolce, si muove a compassione. Tuttavia, le potenze dell’oscurità richiederanno, in cambio della liberazione di Inanna, la morte di Dumuzi, e sarà proprio Inanna a trasferire su di lui lo stesso «sguardo di morte» che aveva ricevuto dalla sorella. Da allora in poi, l’infelice Dumuzi – il fedele figlio della fertilità – sarà costretto a morire e a
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rinascere con l’avvicendarsi delle stagioni, senza sosta. Dumuzi, come dio della vegetazione e della rinascita primaverile, fu una delle divinità piú importanti della Mesopotamia; la coppia formata da Inanna e Dumuzi rappresentava l’archetipo del matrimonio sacro, celebrato ogni Capodanno in ogni città. Era la festa che i Sumeri chiamavano a-ki-til, «La forza che fa vivere il mondo». Dumuzi venne in seguito adorato, sotto il nome e la veste di Adonis, dai Fenici e quindi dai Greci in numerose località del Mediterraneo; in Egitto, le sue prerogative finirono con il confondersi inestricabilmente con quelle di Osiride. Atre importanti divinità erano Ninhursag, letteralmente «La Signora della Montagna», la grande dea-madre della tradizione preistorica del Vicino Oriente antico, e Ninurta, il dio-
Pannello intarsiato in madreperla e avorio raffigurante alcuni personaggi davanti a una dea, dal tempio di Shamash a Mari. III mill. a.C. Damasco, Museo Nazionale.
guerriero per eccellenza. Ninhursag veniva simboleggiata dalla raffigurazione di un utero; insieme al dio Enki, è la protagonista di un celebre mito sumerico.
Un luogo paradisiaco La vicenda prende le mosse dalla descrizione di Dilmun, luogo paradisiaco su cui regna Enki: un regno cosí perfetto da apparire come l’immagine realizzata dell’«età dell’oro». In questa condizione di statica beatitudine, Enki si congiunge con Ninhursag, quindi con la figlia nata da questa unione; poi si congiunge con la sua stessa figlia, e con la figlia della figlia. Alla fine della catena, una discendente del dio, su consiglio di Ninhursag, chiederà a Enki, prima dell’amplesso, di ricevere alcuni frutti. Soddisfatta la richiesta, Enki si unisce alla
ragazza, ma essa genera piante. Enki, che avrebbe dovuto provvedere ai futuri destini delle sue creature, continuerà nei suoi comportamenti abnormi, divorando le stesse piante che ha generato; a quel punto, la grande dea ritira il suo favore, ed Enki sprofonda in uno stato di morte. Solo il provvidenziale intervento di un personaggio estraneo, «Volpe», riesce a intenerire la dea, che perdona Enki e lo reintegra nella sua funzione divina. Il mito esprime la preoccupazione dei Sumeri per l’ordine e il rispetto dei ruoli che mantengono in vita l’universo. Se il mito di Ninhursag ricorda una fiaba di agricoltori, quello di Ninurta («Il signore del rame»), giovane eroe degli dèi sumerici ci porta nell’ambiente dell’antica metallurgia. La figura di Ninurta si sovrapponeva in parte con quella
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di Ningirsu, dio nazionale della città di Lagash, protettore, come Ninurta, della vegetazione, e sposo della dea Bau. Nel mito, Ninurta appare nelle veste del giovane dio ordinatore e creatore, in lotta contro Kur, la montagna cosmica informe e ribollente del non-creato. Kur scatena contro il dio un esercito di pietre, prima tra tutte la pietra «Verde come l’erba», una immagine dei carbonati di rame da cui si estraeva spesso il metallo. In virtú dei suoi poteri, Ninurta riesce a schiantare la pietra verde, condannandola a essere infranta dagli artigiani per l’eternità, e quindi a essere mutata in un nuovo materiale rossastro: il metallo raffinato. Con questo trionfo, e con questa grande trasformazione, il dio del rame cambia l’oscura montagna cosmica in un luogo ospitale e favorevole per gli dèi e gli uomini. Oltre a queste divinità principali, gli antichi abitanti della Mesopotamia avevano una lunga serie di dèi preposti a vari aspetti e manifestazioni della realtà: Adad era il dio della tempesta e della folgore; Nanshe era la divinità femminile che proteggeva gli esseri reali o fantastici che abitavano le acque dolci, mentre Nidaba e Nabu presiedevano alle attività e al mondo degli scribi; Ningizidda era uno spirito che risiedeva sugli alberi e assumeva le spoglie di un grosso serpente cornuto; Ishhara uno scorpione che vegliava sulla santità dei giuramenti; Gula proteggeva invece i medici. Lil, letteralmente «L’indebolito» era invece il prototipo della divinità costretta a obbedire suo malgrado ai dettami della morte, superando la soglia che separa gli inferi dal nostro mondo.
Una scoperta epocale A partire dalla storica scoperta della «biblioteca» del re assiro Sennacherib, effettuata nel 1849 da Sir Austen Henry Layard (1817-1894) a Ninive, migliaia di tavolette scritte con caratteri cuneiformi iniziarono ad affollare i magazzini dei principali musei del mondo. La decifrazione di molte di queste tavolette, e delle migliaia di documenti recuperati in seguito da archeologi come da scavatori clandestini, è tuttora
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Nella pagina accanto vaso cultuale in argento e rame, dedicato dal principe Entemena a Ningirsu, da Tello. III mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso statua in alabastro di un’orante, dal tempio di Ishtar a Mari. 2400 a.C. circa. Damasco. Museo Nazionale.
in corso; lo studio della cultura dell’antica Mesopotamia è quindi un campo ancora fluido, nel quale gli specialisti possono effettuare scoperte sorprendenti e affascinanti senza muoversi dai comodi banchi di una biblioteca. Possiamo ben dire che tutto quanto sappiamo è dovuto all’operato di una delle piú importanti istituzioni dell’antica Mesopotamia: la scuola degli scribi. Nelle scuole, infatti, si copiavano alacremente composizioni di carattere letterario, religioso, scientifico e uno strumento
IL RE DIVINO
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econdo i Sumeri, la regalità era giunta sulla terra dopo il Grande Diluvio, simboleggiata da tre oggetti che caddero dal cielo: un copricapo, un bastone, un trono. La corona identificava la santità del potere, il trono la vita, lo scettro la virtú di amministare la giustizia. Queste insegne ricorrono sui monumenti e negli inni che celebrano il potere reale, e sappiamo che venivano solennemente attribuiti ai sovrani nel corso delle cerimonie di incoronazione. È interessante notare che, nel pensiero dei Sumeri, essere figlio di un re non era sufficiente per godere del diritto alla successione reale: era indispensabile godere del favore incondizionato del dio. A partire dai sovrani della prima metà del III millennio a.C., i re sumerici presero parte a cerimonie religiose nel corso delle quali venivano dedicati lussuosi vasi in pietra, in cui essi prendevano su di sé i meriti del benessere economico generale, che veniva presentato come frutto della benevolenza degli dèi. Come prediletto degli dèi, il re posava il primo mattone dei nuovi templi, e curava il costante rifornimento di cibi e bevande per la statua divina. Con l’avvento dei sovrani akkadici, e in particolare
di lavoro fondamentale erano le «liste lessicali», cioè veri e propri dizionari, a volte bilingui e trilingui. Ci sono cosí giunti elenchi di piante, animali, minerali, enumerazioni di Paesi stranieri, tavolette con problemi matematici. È stato scritto, non senza sufficienza, che la scienza mesopotamica era fatta di liste noiose e interminabili: ma questi elenchi, lungi dall’essere il risultato di sforzi monotoni e ottusi, erano uno strumento didattico essenziale, in un sistema di insegnamento basato sulla trasmissione orale della cultura e sull’apprendimento mnemonico di gruppo. Se qualcuno avesse chiesto a un antico abitante della Mesopotamia quale fosse l’arte piú importante del suo Paese, la risposta sarebbe stata per noi sconcertante: «La divinazione». Sumeri e Babilonesi ebbero una
con Naram-Sin, nipote di Sargon, si affermò un’idea completamente diversa: il sovrano non era piú solamente il favorito degli dèi, ma godeva della loro stessa natura superumana. La divinizzazione del sovrano andò di pari passo con la creazione di un impero fortemente centralizzato; nelle iscrizioni ufficiali, Naram-Sin viene considerato il vero dio della sua città natia, Akkad, e accostato alle divinità che reggevano le sorti delle altre città mesopotamiche. In una celebre stele in pietra, Naram-Sin, nei panni del conquistatore, ascende la vetta di una montagna, lasciando dietro di sé i corpi dei nemici abbattuti ma anche le sue truppe. Il re indossa l’elmo cornuto della divinità, ed è rivolto ormai al suo astro splendente, in un colloquio intimo e silenzioso con la stella che sembra escludere i comuni mortali. Queste idee saranno in seguito sviluppate dai sovrani della III Dinastia di Ur: il re Shulgi venne adorato come un dio, mentre il suo nome divenne parte di nomi di mesi e nomi propri, esattamente come si faceva con i nomi degli dèi; per il re Shu-Sin venne costruito un tempio, analogo a quelli costruiti per le maggiori divinità del Paese.
concezione altamente «scientifica» di questa pratica. Si traevano presagi sul futuro, sulla volontà degli dei, sulle giuste decisioni da prendere mediante l’osservazione delle viscere degli animali sacrificati, delle forme assunte dall’olio nell’acqua, del fumo sprigionato dall’incenso, del volo degli uccelli, oppure interpretando i sogni. Agli inizi del II millennio a.C. si datano i primi modelli di fegato animale con iscrizioni, veri e propri strumenti tecnici degli indovini per trarre deduzioni dalle caratteristiche dell’organo estratto alla vittima. La divinazione era una forma di comunicazione con la volontà degli dèi: conoscendone in anticipo le intenzioni, si poteva correre ai ripari, effettuare rituali di purificazione, espiare il male commesso. Nella società mesopotamica, gli indovini erano individui influenti e
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LA RELIGIONE
FORME DEL PRESAGIO
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e a sinistra del centro del diaframma (...) si vedrà della carne simile a bacche di ginepro: nascerà un bambino coperto di pustole. Se a sinistra del cuore, a destra del diaframma, un lato è grande come il lato opposto: il nemico comparirà, ma il dio fornirà il suo aiuto al principe. Se il diaframma è spostato verso l’estremità: il paese si raccoglierà in difesa compatta (...) Se il diaframma è bianco: il cliente andrà incontro alla rovina» (da un testo antico-babilonese).
rispettati da tutti, che venivano sistematicamente consultati per i piú importanti affari di Stato; ogni esercito aveva un indovino ufficiale, che rivestiva importanti cariche militari.
L’osservazione degli animali Segni, presagi e interpretazioni di importanza storica venivano sistematicamente trascritti e compilati in grandi raccolte, che formano una delle piú consistenti categorie di testi letterari. Sappiamo cosí che una delle «specializzazioni» piú importanti dell’arte divinatoria era lo studio del comportamento degli animali tenuti presso le porte della città o del palazzo reale; altre raccolte si incentravano invece sull’interpretazione del significato della nascita di creature malformate, o che recavano sul corpo segni speciali. Tra il II e il I millennio a.C. acquistò una crescente importanza l’arte di trarre presagi da fenomeni atmosferici e astronomici, al punto che l’astrologia, col
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A destra modellino di fegato di animale con un testo divinatorio, dal Palazzo di Mari. XIX sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso frammento di vaso cultuale in steatite con figure di una fiera e di un serpente, dal tempio di Inanna a Nippur. Civiltà dell’Halil Rud, 2400 a.C. circa. Baghdad, Iraq Museum.
tempo, divenne la scienza mesopotamica per eccellenza. Le eclissi, i colori assunti dagli astri nel cielo, la pioggia e i tuoni, i terremoti fornivano il pretesto per predizioni importanti sulla sorte dello Stato, la casa reale, la salute del re. Nelle piú importanti città della regione alluvionale si formarono prestigiose scuole di astrologi; raccontano Strabone e Plinio il Vecchio che, ancora ai loro tempi, ve ne erano a Uruk, Barsippa e Sippar. L’influenza di indovini e astronomi a corte doveva essere notevole; ma vi sono tavolette che fanno trapelare lo scetticismo del sovrano: «Questo è quanto il testo dice a proposito dell’eclisse del mese di Nisan (...) Se il pianeta Giove è visibile durante l’eclisse, è bene per il re, perchè un importante dignitario di corte morirà in vece sua. Ma il re ha chiuso le orecchie, e guardate (...) non è ancora passato un mese, e il magistrato in capo è morto!». La magia aveva una parte importante anche nelle pratiche mediche; ma l’esperto di magia (ashipu) veniva tenuto ben distinto dal medico-farmacista (asu). Per Sumeri e Babilonesi, malattie e disturbi nervosi erano opera delle azioni perturbatrici di demoni che penetravano nel corpo umano, in conseguenza di gravi peccati commessi.
Le malattie, in altre parole, erano punizioni divine, e segnalavano altrettante insufficienze etiche e stati di impurità rituale del paziente. L’indovino, quindi, aveva la responsabilità di fornire un’anamnesi precisa dei torti commessi dal malato. L’opera dello specialista in esorcismi forniva quindi ai malati un determinante sollievo psicologico. Vi era un vero e proprio manuale contro i demoni, dal titolo «Quando l’esorcista si sta recando a casa del paziente», formato da ben 40 tavolette suddivise in 5 gruppi o capitoli. Era fondamentale tenere una scrupolosa registrazione di tutti i segni e i presagi incontrati dall’ashipu nel corso del tragitto.
In questa pagina due immagini della statua dell’intendente Ebih-il, con dedica alla dea Ishtar, da Mari. III mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Segni favorevoli e presagi di sventura Segni favorevoli potevano rivelare la futura guarigione del paziente, mentre altri segni sinistri ne potevano predire la morte: «Quando l’esorcista si sta recando a casa del paziente (...) se vede un maiale nero, il suo paziente morirà, o si salverà solo dopo gravi sofferenze (...) se invece vede un maiale bianco, il paziente sarà curato (...) se vede un maiale rosso, il paziente morirà il terzo giorno del terzo mese». Altre sezioni
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LA RELIGIONE
del manuale, ai nostri occhi maggiormente scientifiche, prendevano in esame tutte le parti del corpo del paziente, rivelando il nome dei vari demoni che potevano infestarle, causando specifiche patologie; altre ancora erano dedicate alla descrizione dei decorsi delle malattie, alle patologie femminili, a quelle dei bambini, agli effetti della malnutrizione. In Mesopotamia, il medico si riconosceva dalla completa rasatura del capo, dalla giara usata per le libagioni agli dèi, dall’incensiere e dalla borsa contenente le erbe medicinali. I piú antichi testi medici a noi noti risalgono ai tempi della III Dinastia di Ur, e sono liste di prescrizioni e ricette medicamentose. Gli ingredienti sono il latte, la pelle di serpente, il guscio di tartaruga, erbe aromatiche come il timo, la cassia, l’assa fetida, corteccie e foglie di fico, salice, pero, datteri. Si tratta di infusi e pozioni che venivano spesso dissolti nella birra
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I resti della ziqqurat di Susa.
e poi ingoiati, oppure applicati mediante impacchi, fumigazioni, inalazioni. Una tavoletta molto piú tarda, di età neo-assira (VIII-VII secolo a.C.) elenca in separate colonne una serie di piante, una lista di malattie, e il metodo di somministrazione del rimedio al paziente; il testo è abbastanza vicino, concettualmente, a un moderno manuale di farmacia. Vi sono tavolette che presentano efficaci diagnosi di malattie dell’occhio, del fegato, della respirazione, di disordini gastrici, della gastroenterite, di diarree e coliche, di blocchi intestinali, di affezioni agli organi genitali. Alcune malattie sono descritte con estrema esattezza. Si veda, per esempio, la seguente descrizione di un attacco epilettico: «Se il collo del paziente è costantemente piegato a sinistra; se le sue mani e i suoi piedi sono tesi in fuori; se i suoi occhi sono sbarrati verso il cielo; se la saliva gli cola dalla bocca; se
emette suoni dal naso; se perde coscienza; allora si tratta del Grande Male, causato dalla mano del dio Sin». Quando magia e medicina vera e propria erano inefficaci, l’esorcista e il medico lavoravano fianco a fianco: «Se l’opera della mano di uno spettro, responsabile del dolore agli occhi e alle orecchie, è cosí tormentosa che l’esorcista non riesce a fermarla, il medico mescolerà insieme 8 diverse droghe». Piú raro era invece il ricorso alla chirurgia, anche se questa categoria di medici viene menzionata nei codici legali. Se il chirurgo sbagliava, era punito (almeno in teoria) con mutilazioni e persino con la morte. Malgrado questi rischi, gli scavi archeologici hanno portato in luce casi di trapanazione del cranio databili al 5000 a.C.
Sperimentatori coraggiosi Complessivamente, dobbiamo riconoscere che la medicina dei Sumeri e dei Babilonesi era in una fase di coraggiosa sperimentazione. I medici dell’antica Mesopotamia furono attenti e scrupolosi nel raccogliere e memorizzare i sintomi delle malattie, e nel registrare sistematicamente gli effetti dei trattamenti che applicavano ai pazienti; forse mancò loro la capacità di costruire, con i dati raccolti, teorie scientifiche di maggior respiro. Progressi maggiori vennero compiuti nel campo della matematica, i cui sviluppi, come abbiamo visto, furono strettamente legati all’invenzione stessa della scrittura. La matematica dell’antica Mesopotamia era basata sull’antico sistema sessagesimale inventato dai Sumeri. Questo sistema, che si basa sul numero 60, sulle sue frazioni e i suoi multipli, può sembrare meno efficente del
Kudurru (cippo di confine) in calcare nero con simboli delle divinità e iscrizioni di registrazioni territoriali di Melishipak, re cassita di Babilonia, portato a Susa come bottino di guerra, da Susa. XII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
sistema decimale: ma noi stessi lo impieghiamo per calcolare le ore del giorno o l’ampiezza degli angoli, senza trovarvi nulla di strano. In realtà, il numero 60 può essere facilmente diviso per 2, 3, 5, 6, 10, 12, 15, 20 e 30 e si presta bene a numerose forme di calcolo elementare. Si conosceva la cosiddetta «notazione posizionale»: vale a dire che, come nel nostro sistema, il valore di un numero variava a seconda della posizione che quel numero occupava nella sequenza. Lo zero, invece, era inizialmente sconosciuto, e venne inventato o introdotto nei computi solo a partire dal VII secolo a.C. La matematica mesopotamica ci è nota soprattutto grazie alle tavolette usate come «libri di testo» nelle scuole. Già agli inizi del II millennio a.C. questi documenti riportano tavole numeriche per effettuare moltiplicazioni e divisioni, per calcolare quadrati e radici quadrate, cubi e radici cubiche; per esprimere approssimazioni ai reciproci di numeri irregolari, come per le radici quadrate di 2 e di 3. I matematici babilonesi erano stati capaci di calcolare la radice quadrata di 2 con uno scarto minimo (1,414213 invece di 1,414214!). Le tavole numeriche erano integrate da liste di pesi e di misure di capacità e di superficie. Gli studenti si esercitavano su problemi del tutto simili a quelli che abbiamo svolto nella nostra giovinezza: problemi di tipo algebrico e di geometria, ma anche problemi pratici, come lo scavo o l’allargamento di un canale, questioni di ingegneria militare, spostamenti di terra. Alcuni problemi, secondo gli specialisti, erano tanto complessi da essere paragonabili a equazioni di ottavo grado. La geometria era
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LA RELIGIONE
considerata un mezzo per risolvere questioni pratiche, piuttosto che un campo di speculazione fine a se stesso; il teorema di Pitagora veniva comunemente usato, almeno mille anni prima della nascita del matematico greco, in diversi contesti applicativi. Sumeri e Babilonesi avevano una mentalità essenzialmente pratica. Le loro avanzate conoscenze geometriche venivano frequentemente utilizzate per creare planimetrie e mappe, tracciate, come di consueto, su tavolette di argilla. Sono stati trovati rilievi con piante di interi edifici, accuratamente riprodotte in scala da architetti, complete di annotazioni, e mappe con la localizzazione e le dimensioni di lotti di terreno agricolo extraurbani; non mancano carte geografiche, anche molto schematiche, che rappresentano la concezione che gli antichi scribi avevano del mondo. Una di queste tavolette riporta, in luogo del nord, oltre la cintura salata dell’oceano, la dicitura «dove il sole non si vede mai», prova del fatto che i geografi avevano almeno sentito parlare dei remoti Paesi delle zone artiche.
La letteratura Sumeri e Babilonesi raggiunsero livelli elevatissimi anche in campo letterario. Nelle biblioteche reali di Assur e Ninive vennero raccolte, trascritte e integrate antiche composizioni, certamente redatte in forma orale almeno a partire dal IV milennio a.C. I cataloghi letterari trovati nelle biblioteche di tavolette ci indicano che solo una minima parte del grande patrimonio letterario sumerico è stata, al momento, recuperata dagli archeologi e tradotta dai filologi. Una forma di composizione molto antica era quella del «dialogo», in cui si sviluppa un confronto verbale tra due figure – per esempio, la Palma da dattero e il Tamericio, oppure il Piccone e l’Aratro – per stabilire chi delle due sia la piú utile all’uomo. Forse alcuni di questi testi, che si concludevano con una riconciliazione, erano anche destinati alla recitazione pubblica.
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PROBLEMI SCOLASTICI
L
a lettura di alcune tavolette scritte in caratteri cuneiformi ci ricorda in modo sorprendente molti esercizi che anche noi abbiamo svolto sui banchi di scuola. Per esempio, si veda il seguente problema: «Ho trovato una pietra ma non l’ho pesata; poi ho aggiunto 1/7, poi 1/11. Dopo l’ho pesata: 1 manû (0,5 kg circa). Quale era il
peso originario della pietra?». Oppure: «Se qualcuno ti domanda: ho scavato per la profondità di un lato del quadrato che ho tracciato in superficie, e ho estratto 1 musaru (60 alla terza) e mezzo di volume di terra. La mia figura di partenza è un quadrato. Quanto sono sceso con lo scavo?».
Nel corso del II millennio a.C. maturarono altre forme letterarie, ispirate da altri interessi, tra i quali spiccano i temi «filosofici» della condizione umana: le ingiuste sofferenze patite dagli uomini giusti, l’oppressione dei piú deboli, l’inevitabilità della morte. Il desiderio di immortalità è il soggetto della piú famosa e lunga composizione epica dell’antica Mesopotamia, la saga dell’eroe Gilgamesh, il cui protagonista porta il nome di un leggendario re della città di Uruk, che forse fu un personaggio storico. Altro personaggio dell’epica è Enkidu, una sorta di uomo-belva, non civilizzato, enorme e peloso, che vive nelle steppe che circondano la città. Enkidu viene poi sedotto da una prostituta, la sola capace di sopraffare la sua natura animalesca. Condotto per mano dalla donna entro le mura di Uruk, Enkidu impara a lavarsi, a depilarsi, a nutrirsi di cibi cotti, a ubriacarsi. Successivamente, l’essere cerca di impedire a Gilgamesh di esercitare il suo «diritto» a giacere con le spose della città, in occasione della prima notte di nozze: i due si scatenano in una grande zuffa, per poi scoprire
In alto tavoletta con figura geometrica. II mill. a.C. New Haven, Yale University. Nella pagina accanto kudurru di Nazimaruttash, re cassita di Babilonia, in cui è raffigurata Gula, dea della medicina, da Susa. XII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
che le loro forze si equivalgono e diventare, infine, grandi amici. Da questo punto in poi, Gilgamesh e Enkidu si dedicano a imprese memorabili. In una delle spedizioni, ignorando alcuni sinistri sogni premonitori, penetrano nelle grandi foreste del Nord e iniziano ad abbattere i sacri cedri: aggrediti dal guardiano, il potente demone Humbaba, un mostro dagli occhi infuocati e dall’alito avvelenato, con l’aiuto del dio del sole, hanno la meglio.
Eroi tracotanti La forza e il coraggio di Gilgamesh sono tali che la dea Ishtar si innamora di lui, ma il re di Uruk ne disdegna le profferte, rinfacciando alla dea le sue infedeltà e la sua leggerezza. Infuriata, Ishtar scatena contro la città di Uruk una delle sue creature mortifere, un feroce toro celeste; ma i due eroi accorrono a difesa dei propri sudditi, lo abbattono, e, in segno di disprezzo, ne scagliano una coscia sanguinante in faccia alla grande dea. La tracotanza dei due è tale che suscita l’ira del dio Enlil, il quale, per punirli, decide la morte di Enkidu, che cade vittima di un male incurabile e doloroso. La morte dell’amico rappresenta la svolta drammatica dell’intera opera: «Nel terrore della morte ho percorso la grande steppa. Il destino del mio amico mi opprime. Come posso restare in silenzio? Come posso stare fermo? L’amico che amavo si è mutato in argilla. Anch’io, come lui, dovrò coricarmi per non rialzarmi mai piú?». Toccato direttamente dalla morte della persona a lui piú cara, Gilgamesh si rende conto improvvisamente della realtà della morte, e parte alla ricerca di un rimedio, nonostante i
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LA RELIGIONE
consigli di chi gli ricorda la vanità del suo sforzo. Gilgamesh si mette alla ricerca di Ut-napishtim, il vecchio sopravvissuto al Diluvio, l’unico immortale sulla terra. Per raggiungerlo, attraversa il monte Mashû, la grande montagna dell’Occidente, il cui accesso era protetto da terribili uomini-scorpione; trova l’oceano, e sulla spiaggia incontra Siduri, figura femminile semidivina, che lo esorta a lasciar perdere la sua ricerca e a godersi la vita fino a che è in tempo. Ma Gilgamesh non si arrende, e Siduri gli insegna come raggiungere Ut-napishtim. Il vecchio vive al di là di un mare intriso delle «acque della morte»; ma Gilgamesh sale sulla barca di Urshanabi, il traghettatore, e raggiunge il vecchio immortale. Ut-napishtim racconta al nostro eroe la vicenda del Diluvio, cosí simile alla versione tramandata dalla Bibbia; e gli svela che il rimedio contro la morte esiste. Si tratta di una sorta di erba miracolosa che cresce nel fondo dell’oceano di morte. Gilgamesh si tuffa e afferra la preziosa erba. Ma, nel riprendere la via di casa, l’eroe, esausto, si addormenta, e una serpe emersa dal mare gli sottrae il frutto di tanti sforzi. L’immortalità non fa per gli uomini: essa è espressa solamente dall’eterno ritorno dei destini universali, simboleggiato dalle spire del serpente e dalla sua capacità di rinnovarsi, mutando la pelle. Gilgamesh si rassegna e diventa il simbolo vivente del pessimismo, ma anche dello spirito coraggioso e indagatore, che ispira l’intera cultura mesopotamica.
Una perla nel pugno Un riflesso di questo antico mito è stato scoperto da una missione di archeologi italiani in Oman, nella penisola arabica. Alcuni defunti appartenenti a un antico villaggio di pescatori erano stati deposti nella tomba in posizione rannicchiata, sotto il carapace di una grande testuggine, come se il viaggio nell’oltretomba fosse stato compiuto insieme al grande rettile marino: nel pugno del morto, a volte, si trova una perla, forse un’allusione alla preziosa «erba dell’immortalità» che Gilgamesh aveva colto sul fondo del mare.
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Nella pagina accanto rilievo che ritrae un eroe mitologico mentre strozza un leone, da Khorsabad. VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra rilievo assiro che rappresenta Gilgamesh tra due figure di semidei in forma di uomini-toro, che sostengono il disco solare alato, da Tell Halaf. IX sec. a.C. Aleppo, Museo.
Il mondo di Gilgamesh, di Enkidu, degli amori e degli odi di Inanna-Ishtar riaffiora anche in numerose opere d’arte mesopotamiche. L’uso di materiali preziosi (conchiglie, lapislazzuli, alabastro, diorite, cornalina, bronzo, oro, argento, elettro...) insieme al solo materiale reperibile, il nero bitume, permetteva la creazione di opere i cui colori splendenti, davano un’inquietante sensazione di vitalità. La figura umana, nell’arte sumerica, ha spesso linee rigide, fortemente stilizzate; gli occhi delle statue in pietra o delle figure fatte con intarsi appaiono spesso spalancati, come se si aprissero sui grandi misteri affrontati da Gilgamesh, mentre le braccia si stringono al petto in un universale gesto di preghiera. Nei fregi intarsiati che correvano sulle pareti dei palazzi e dei templi, uomini e donne svolgono i
compiti loro destinati dagli dèi, in guerra e in pace: sovrani e soldati avanzano gloriosamente tra pile di nemici abbattuti, o accompagnano file di prigionieri sconfitti, mentre i fedeli carichi di offerte si inchinano all’apparizione di grandi, impassibili divinità di fronte alle porte dei loro templi; i re, come umili schiavi, portano cesti di terra ai cantieri di costruzione e restauro delle case degli dèi. Tra uomini e dèi compaiono spesso strani mostri, con corpi formati da inquietanti contaminazioni tra l’uomo, l’animale, o diversi tipi di bestia. Sono gli uomini-scorpione del mito di Gilgamesh, possenti tori con volti e barbe umane, o l’aquila Imdugud, che erge, tra le ali tese, una testa di leone: creature che ci ricordano il mistero e le incontrollabili forze cosmiche che danno forma ai destini umani.
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HAMMURABI
Eufrate
BABILONIA
L’uomo del mistero
Poco meno di quattromila anni fa, sul trono di Babilonia sedette, per oltre un quarantennio, Hammurabi. Ma chi fu, veramente, il sovrano che è noto innanzitutto per avere dettato una delle prime raccolte di leggi della storia?
P
oche terre come la Mesopotamia hanno avuto in sorte l’essere centrali, grandi e ricche abbastanza da divenire il cuore pulsante di un impero, e di essere al tempo stesso abbastanza piccole da essere rapidamente e completamente conquistate dagli invasori. La storia recente della Mesopotamia, come quella antica, è fatta di sogni di potere e conquista, di guerre, di capi
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ascesi improvvisamente al trono e di rovinose cadute. Una di queste vicende riguarda un uomo chiamato Hammurabi, vissuto circa 3700 anni fa, e il suo regno vasto e potente. La storia della Mesopotamia, per il tempo che ora ci interessa, procede a scatti e squarci di luce improvvisi, in uno scenario di incertezza endemica.Vi sono periodi, contesti e personaggi dei quali, grazie a casuali «finestre»
Golfo Persico
aperte dalla ricerca archeologica e dall’acume di chi interpreta le tavolette cuneiformi, sappiamo molto; e interi regni, dinastie, vicende che restano ancora avvolti in nebbie indecifrabili. Per esempio, sappiamo che Hammurabi, il quinto capo di una dinastia di origini amorree (quindi nomadiche), regnò per quarantatré anni, e possiamo ricostruire con notevole precisione gli avvenimenti principali della sua carriera politica, sincronizzandoli con le molteplici vicende dei regni coevi.
Sulle due pagine foto satellitare dell’Iraq, nei cui confini è compreso il sito di Babilonia, sulla riva destra dell’Eufrate. A destra profilo della testa di «Hammurabi» (per la descrizione completa, vedi foto a p. 86).
HAMMURABI
Suo nonno si chiamava Apil-sin, e suo padre Sin-muballit; appartenevano alla tribú dei Beniaminiti, e a loro si devono i primi passi del piccolo regno di Babilonia. Ma quando tutto ciò sia avvenuto resta oscuro. Storici e archeologi, infatti, cercano di ancorare i fatti dell’antica Mesopotamia a una rigida successione temporale usando tre cronologie contrastanti, che ne fanno oscillare il regno tra la fine del XIX e buona parte del XVII secolo a.C. Per la storia non è questione da poco: è come se, nella storia dell’antica Roma, il regno di Augusto potesse oscillare sino a lambire quello di Traiano. In questa occasione, useremo per pura convenzione i tempi «medi», anche se sono sempre piú frequenti gli studiosi che adottano date ben piú recenti.
Una personalità sfuggente Oggi il nome del re ha una sfumatura fascinosa, soprattutto grazie alla testimonianza della nera stele che al Louvre continua a celebrarlo. Ma sembra che ai suoi tempi fosse invece un nome piuttosto comune, che significava «L’antenato è grande» oppure forse «L’antenato è un guaritore». Non è giunto a noi nemmeno il suo sigillo, il simbolo di potere piú personale di un sovrano: ne conosciamo solo parte dell’impronta, rimasta impressa sulla confezione di un regalo ignoto, che Hammurabi aveva fatto al re di Mari, ZimriLim. Indeterminato, come si è detto, resta anche l’anno della sua nascita (convenzionalmente collocabile, per quanto ora ci interessa, intorno al 1810 a.C.). Ma la cosa ben piú importante che ci sfugge è la personalità intima di Hammurabi, e con essa le radici di una intelligente, quanto sistematica
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Testa in diorite identificata convenzionalmente con Hammurabi, da Susa. Inizi del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. L’opera ritrae un principe che regnò probabilmente prima di Hammurabi perché in questo senso depongono alcuni particolari, come la forma della barba e la disposizione dei capelli sulla fronte.
e implacabile volontà di potere. Quanto sappiamo di lui viene da immagini rarissime, da una ventina di iscrizioni commemorative intrise di ufficialità, da una rete vasta ma scarna e arida di riferimenti indiretti, dedotti soprattutto dai nomi che gli scribi davano agli anni della corrispondenza di corte e dei documenti amministrativi. Anche quando il re sembra mostrare una vena umana, nel dedicare una fortezza o un tempio alla memoria del padre o del nonno, obbedisce in realtà ai dettami formali della celebrazione degli antenati ereditati dall’ascendenza amorrea. Quel poco di lui che si cela nelle duecento lettere inviate dalla segreteria di Hammurabi a Zimri-Lim – e ritrovate nel Palazzo di Mari –, va cercato sotto le vernici del linguaggio formale e ripetitivo della prassi burocratica. E, come vedremo, persino la celebre stele del Louvre, che contiene forse il testo piú lungo mai lasciato da un sovrano del Vicino Oriente antico, rivela assai poco del protagonista, e resta molto piú difficile da interpretare di quanto non si immagini. Per queste ragioni Hammurabi resta e forse resterà per sempre «l’uomo del mistero». Come ha scritto la studiosa di storia e religioni del Vicino Oriente antico Maria Giovanna Biga, il nome di Babilonia compare per la prima volta in una tavoletta di carattere amministrativo del XXII secolo a.C., nella quale l’insediamento, che doveva essere poco piú di un villaggio sulla riva destra dell’Eufrate, era designato con i Nella pagina accanto particolare del Codice di Hammurabi, una grande stele in basalto rinvenuta a Susa, da Babilonia. 1792-1750 a.C. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra, in piedi, è raffigurato il sovrano stesso, in attesa che il dio della giustizia Shamash, seduto di fronte, gli detti il Codice delle 282 leggi.
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HAMMURABI
OCCHIO PER OCCHIO, DENTE PER DENTE
I
l cuore del testo della stele di Hammurabi procede in modo disomogeneo, per libere associazioni. Si parte dal diritto penale, ispirato a una «giustizia commutativa» (a ognuno è restituito con severità estrema il male fatto ad altri); si occupa poi della famiglia e della protezione di mogli, figlie e vedove, di adozioni e matrimoni, di diritto ereditario, ma anche di adulterio, stupro e incesto, per terminare con disposizioni in materia di schiavi, il settore piú indifeso della società paleobabilonese. Intorno al Codice vi sono diversi preconcetti. Innanzitutto, non è «la raccolta di leggi piú antica del mondo», poiché altri re mesopotamici, dal XXIV secolo a.C., ne avevano scritte di simili. In secondo luogo, la stele del Louvre non e un unicum: gli studiosi ritengono che
logogrammi TIN.TIR, che probabilmente si leggevano babil, e volevano dire «piccolo bosco». Successivamente, gli scribi di lingua e cultura accadica rilessero il nome come bab ilim («la porta del dio»), garantendo cosí al centro una immagine piú altisonante. Due secoli dopo la prima menzione, nello Stato centralizzato della terza dinastia di Ur, Babilonia era sede di un governatorato. I fondatori della prima dinastia di Babilonia, come molti altri capi tribali nomadi di cultura amorrea, salirono al potere dopo che la grande capitale di Ur era stata presa e saccheggiata dagli Elamiti.
Un ragazzo al potere Il giovane Hammurabi (alla morte del padre aveva certamente meno di vent’anni) ereditò un regno che comprendeva la parte nord della Mesopotamia meridionale, e precisamente le città e i territori di Kish e Sippar – formate entrambe da due nuclei urbani gemelli –, Kutha, Dilbat e Borsippa. Il possesso di Kish, che insieme a Nippur era la città piú
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monumenti con lo stesso testo comparissero anche in molte altre città del regno, e sezioni ne sono comparse in tavolette dello stesso periodo paleobabilonese, come di età successive. Inoltre la struttura del testo, che si compone di un altisonante prologo, delle «leggi» e di un epilogo, ricorda molto da vicino quella di diverse composizioni commemorative dei re. Insomma, piuttosto che la creazione legislativa di un innovatore, si tratterebbe di un «classico» della letteratura di propaganda. Senza nulla togliere all’enorme importanza storica del monumento, si è infatti notato come lo svolgimento dei processi contemporanei, accuratamente registrati nelle tavolette con caratteri cuneiformi, prevedesse in alcuni casi pene diverse da quelle, severissime,
prestigiosa e sacra del mondo mesopotamico, poneva il piccolo regno amorreo in condizione di vantaggio sulle potenze vicine. Babilonia aveva pianta rettangolare ed era tagliata a metà dal corso dell’Eufrate. I predecessori di Hammurabi l’avevano circondata di una doppia cinta muraria, con piú porte. Il tempio piú importante, nel settore orientale, si chiamava Esagila («Tempio che solleva alta la testa») ed era dedicato al dio cittadino Marduk. Era un vasto complesso, che comprendeva la Torre di Babele, una ziggurat chiamata Etemenanki («Casa fondamento di cielo e terra»), forse fondata proprio durante il regno di Hammurabi. Non lontano vi era il tempio della «Signora di Babilonia», Belet-Babili. Nel settore ovest si veneravano, invece, altre divinità, come il dio del sole Shamash, quello della tempesta Adad e il grande dio del vento, Enlil. Il paesaggio rurale era quello di sempre. Intorno alle città del piccolo regno, fortificate da mura, porte e argini in terra, e dominate dai templi su
propagandate dalla stele reale. In altre parole, nella pratica, i giudici si attenevano a un diritto tradizionale che non sempre corrispondeva alle ingiunzioni reali. Per questo molti studiosi ritengono che il Codice sia un’opera di propaganda, tesa a ribadire la giustizia regale in un rapporto idealizzato con i sudditi, piuttosto che stabilire leggi autorevoli ed efficaci per la collettività. Ben poco credibile, per esempio, è l’ingiunzione contenuta nel Codice secondo la quale i maggiorenti di una comunità, in casi di brigantaggio rimasti impuniti, erano tenuti a risarcire le vittime di tasca loro. Sulle due pagine, da sinistra la fronte, il retro e un particolare del testo del Codice di Hammurabi (vedi anche alle pp. 86-87).
terrazze, si estendevano i vasti paesaggi della «fertile Babilonia»: distretti agricoli bagnati da canali pigramente vaganti tra i due fiumi, casette in mattone crudo e giunchi, ricchi palmeti a proteggere dal sole piantagioni di frutta, campi di orzo e grano accerchiati da bianchi veli di sale. I datteri d’estate, e i cereali d’inverno, mettevano al sicuro i villaggi dal costante rischio di infestazioni e siccità stagionali. Lungo fiumi e canali era facile incontrare cinghiali. Ai margini dei campi, greggi di pecore, capre e bovini, e probabilmente pollame; e piú oltre la steppa, dove ancora correvano struzzi, gazzelle, sciacalli e asini selvatici, ma anche leoni e leopardi.
I confini del regno A est, i Babilonesi vedevano le catene innevate degli Zagros, mentre a ovest il regno di Hammurabi era delimitato dal deserto, a sud dalle antiche città-stato sumeriche di Isin, Larsa (la potenza dominante) e Uruk. A est il territorio di Babilonia confinava con quello della città di Malgum, ancora
sconosciuta; ai piedi degli Zagros, ancora piú a est, dominava la città-stato di Der. A nord-ovest, la potente Eshnunna controllava la valle del Diyala. Ma il regno piú vasto era quello del sovrano assiro Shamshi-Adad (22 anni di regno, 17971775 a.C.), giunto a dominare l’intera Mesopotamia settentrionale, poi la media valle dell’Eufrate, e infine, nell’anno di intronazione di Hammurabi, la stessa Mari. A ragione Shamshi-Adad, dopo aver eretto monumenti celebrativi sulla costa libanese, e mandato emissari a Dilmun (Bahrein, nel Golfo Persico), aveva assunto il titolo di «Grande Re, signore delle Quattro Parti del mondo». Sempre a ovest, inoltre, la Mesopotamia aveva come ingombranti vicini i regni siriani di Aleppo e Qatna, mentre da est, oltre le catene innevate dei monti Zagros, si faceva sentire, sempre piú pressante, l’influenza dei Sukkalmah, i sovrani elamiti di Anshan e di Susa (Iran). I primi, anche grazie al controllo del fiorente commercio dello stagno, avevano raggiunto una tale influenza negli affari mesopotamici da essere spesso chiamati come arbitri
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HAMMURABI
delle contese locali; a essi, i re delle città di pianura sembravano riconoscere, almeno formalmente, un’autorità quasi imperiale.
Il dio dai quattro volti Le opere d’arte figurativa di un certo pregio del periodo paleobabilonese (cosí vengono chiamati i primi secoli del II millennio a.C.) non sono moltissime. Una di esse è la statua di una divinità maschile a quattro volti, certamente ispirata al senso del dominio degli assi cosmici. E cosí ci piace immaginare Hammurabi, come una figura quasi astratta, ma affacciata alla ribalta della storia con quattro volti distinti: quelli della conquista del potere, della cura della nazione, dell’amministrazione e legislazione, della devozione agli dèi. La carriera politico-militare del re è nota, ma consiste, in quasi tutti i libri che ne trattano, in un’arida enumerazione di incursioni, alleanze, scontri e conquiste. Per i primi quindici anni di regno, Hammurabi sembra essersi occupato solo di opere pie e di propaganda, tra le quali si annoverano due editti di grazia e remissione generale dei debiti (atto consueto con cui i re celebravano la salita al trono) e la dedica di costruzioni e offerte agli dèi («un modesto debutto», come è stato definito). Negli anni centrali di questo periodo (dal settimo all’undicesimo) si fanno piú frequenti le menzioni di scontri e pressioni militari, non soltanto verso sud (lungo il corso dell’Eufrate), ma anche verso le sponde del Tigri. Un’alleanza con Shamshi-Adad, facilitata dalle comuni origini amorree, lasciò libero Hammurabi di consolidare le sue ambizioni, fino a che, nel 1775 a.C., la morte del re causò la rapida disgregazione del suo grande Stato settentrionale. Scomparsa la potenziale minaccia, nel periodo centrale del suo regno Hammurabi sembra dedicarsi a un lento «gioco di posizione», che gli permise di rafforzare Babilonia in un quadro politico sempre piú inquieto, segnato dal lungo conflitto tra Mari ed Eshnunna.Tra complicate acrobazie di spionaggio e diplomazia, la situazione precipitò rapidamente quando gli Elamiti (1765 a.C.),
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Supporto in bronzo e oro per offerte, con tre capridi rampanti, da Larsa. Inizi del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
appoggiati dallo stesso re di Babilonia, presero e distrussero Eshnunna. Dopo aver annesso parte del territorio della città caduta, Hammurabi si trovò in prima linea, a contrastare l’invasione dei nemici che venivano da oriente.
Una «guerra santa» Grazie all’alleanza con Mari e all’antica coesione tribale tra i regni amorrei, Hammurabi ne uscí nel modo migliore. Gli Elamiti furono sconfitti e si ritirarono (1764). Ebbe inizio cosí la terza parte del suo regno, quella delle grandi conquiste: dato che Larsa non aveva combattuto gli Elamiti, Hammurabi la annetté in nome di una «guerra santa». Larsa cadde dopo un lungo assedio, ma fu risparmiata da saccheggi ed eccidi. Il re si limitò ad abbatterne le mura, ben conscio che con l’annessione del territorio Babilonia diveniva di fatto la potenza egemone dell’intera regione. Solo dopo la presa di Larsa, infatti, Hammurabi assunse il titolo antico di «Re di Sumer e Accad» (le parti sud e nord del Paese). Poi fu la volta di Eshnunna, di Malgum e della stessa Mari, conquistata e rasa al suolo nel 1759. Il palazzo di Zimri-Lim fu accuratamente spogliato di tutto, lasciandovi solo parte degli archivi amministrativi. L’edificio venne poi abbattuto, colmando con i calcinacci il piano inferiore. Hammurabi era divenuto, a tutti gli effetti, re dell’intero Paese amorreo. Un inno lo celebra come «il sovrano, l’eroe possente, diluvio di guerra, colui che annienta i nemici e distrugge le loro terre, placa le battaglie e le discordie, polverizza i soldati come figurine d’argilla». Ma la figura reale, una volta unificato il Paese, fu piú comunemente presentata come quella di un uomo amato dagli dèi,
Bronzetto di una divinità maschile quadrifronte, da Eshnunna. Periodo paleobabilonese, inizi del II mill. a.C. Chicago, Oriental Institute Museum.
forte e autorevole, ma benevolo e protettivo come un padre. «Nella concezione mesopotamica del mondo – scrive l’orientalista francese Dominique Charpin –, la nozione di “casa” (bitum) aveva un ruolo essenziale: piú che un edificio, era l’insieme delle persone che la abitavano, i membri di una stessa famiglia e i dipendenti (…). La presenza di tombe sotto numerose case tradizionalmente concretizzava la continuità tra i vivi e i morti di una stessa famiglia». Hammurabi, come gli altri re del tempo, si presentava quindi come il capofamiglia del palazzo e della nazione, il pastore del gregge dell’umanità intera. Questa metafora mesopotamica, di antiche origini, non senza ironia storica fu riproposta quando il Gran Re persiano conquistò e annetté la Terra dei Due Fiumi: Ciro (Kurush) significa, appunto, «il Pastore». I principali funzionari del regno erano idealizzati come i «grandi servitori» del palazzo reale; e quando si stabiliva un’alleanza tra città-stato, esse venivano dichiarate un’unica casa, mentre i sovrani diventavano «fratelli».
Contro i malvagi e i perversi In perfetta consonanza con quest’idea paternalista, cosí scrive il sovrano nel prologo del Codice iscritto sulla stele del Louvre: «È il mio nome, Hammurabi, il principe pio che venera le divinità, che hanno pronunciato Anum ed Enlil (…) per far sorgere la giustizia nel Paese, per eliminare il malvagio e il perverso, perché il prepotente non opprima il debole, per apparire alle genti come Shamash, il dio sole (della giustizia)». Il Codice di Hammurabi (vedi box alle pp. 88-89) affiorò tra il 1901 e il 1902 nel corso degli sterri francesi sull’acropoli di Susa (nell’odierno Khuzistan, Iran sud-occidentale), diretti da Jean-Jacques de Morgan. In quest’impresa sparirono 2
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HAMMURABI
milioni e mezzo di metri cubi di deposito archeologico, senza che fossero registrate piante di edifici o stratigrafie.Il testo, in lingua accadica, è finemente inciso (e magnificamente conservato) su una stele oblunga, eretta in origine in un tempio di Sippar. È fatta di una diorite nerastra, cavata nell’attuale Oman. È alta 2,25 m ed è coronata da un’impersonale immagine di Hammurabi, nell’atto di ricevere dal dio del sole Shamash, con raggi che escono dal dorso e la tiara cornuta, le insegne del potere. La stele era stata portata a Susa dagli Elamiti, dopo
un’incursione avvenuta nel XII secolo; i Francesi, a loro volta, la sottrassero ai Persiani, con la motivazione ufficiale di un periodo di studio in Francia (ma la stele non avrebbe lasciato mai piú il Louvre). L’opera di Hammurabi nell’amministrazione del suo grande Stato è testimoniata con certezza dalle fonti. I documenti del tempo certamente non mentono nell’elencare le opere di costruzione, difesa, canalizzazione, arginatura, gestione delle mandrie, attività giudiziarie, militari e diplomatiche che occupavano quotidianamente il sovrano; e mostrano un evidente sforzo di centralizzare e razionalizzare vasti settori dell’economia babilonese, dall’irrigazione al commercio, all’agricoltura, alla tessitura e persino alla pesca. Come sovrano, Hammurabi e la sua casa erano i principali intermediari tra il mondo terreno e la sfera degli dèi, a cui obbedivano scrupolosamente, compiendo una lunga serie di obblighi rituali. Il re, oltre a costruire, mantenere
INGINOCCHIATO DI FRONTE AL DIO
S
tatuetta in bronzo e oro raffigurante un uomo inginocchiato, nota come «L’adorante di Larsa». Inizi del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Il personaggio, che porta un copricapo a tesa alta simile all’acconciatura regale, è inginocchiato e tiene una mano davanti alla bocca in atteggiamento di preghiera. Sulla base, è rappresentato nella stessa posizione di fronte a una divinità seduta. In una lunga iscrizione si legge che la statuetta era stata dedicata ad Amurru, principale dio degli Amorrei, da un uomo della città di Larsa come offerta per la vita di Hammurabi.
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in buono stato e restaurare templi, e a dotarli di sontuose offerte votive (statue, troni, podi, preziosi carri, oro e pietre semipreziose), doveva dare ascolto a profeti, indovini ed esperti di ogni genere di presagi; eseguire sacrifici ufficiali e interrogare oracoli; in occasione di importanti campagne belliche, visitare tutti i templi delle principali divinità per essere certo di averne l’appoggio; e rispettare scrupolosamente diversi calendari di ricorrenze e congiunture religiose. Ma quanto questa attività fosse frutto di convinzione e rispetto del sacro, o solo consuetudine formale, non è dato sapere.
Un mese di lutto Hammurabi morí nel 1750 a.C., forse sessantenne, nel quarantatreesimo anno del suo lungo regno; una tavoletta scritta da un suo discendente sembra dire che la morte fu dovuta a una breve malattia. Nessun testo ci parla dei funerali di questo o dei precedenti sovrani babilonesi. Certamente fu sepolto sotto il pavimento di una sala del suo palazzo, in un luogo ancora ignoto del sottosuolo di Babilonia. Secondo quanto sappiamo del costume del tempo, il successore, il figlio Samsu-iluna, osservò un mese di lutto, senza lavarsi né tagliarsi la barba e i capelli. Finalmente, una notte, innalzò al cielo una torcia d’oro, simbolo dei raggi di Shamash, a segnare la fine del periodo ufficiale di compianto. Samsu-iluna salí al trono e, come suo padre, promulgò il consueto editto che graziava i debitori. Ereditava la maggiore potenza politica del Vicino Oriente antico, ma non sarebbe riuscito a mantenerne intatto il territorio e il prestigio. Sin dall’inizio, infatti, Samsu-iluna dovette combattere duramente per schiacciare città e popoli in rivolta, e fu costretto ad abbattere le mura di città come Uruk, Ur e Isin. Sotto il suo difficile regno cominciano a comparire, nelle tavolette, nomi di personaggi appartenenti all’etnia dei Cassiti, una popolazione di origine iranica che parlava una lingua non indoeuropea. Come avevano fatto gli Amorrei tre secoli prima, i Cassiti si sarebbero
gradualmente infiltrati in Mesopotamia, sino a costituirvi una nuova e potente dinastia, capace di trattare a tu per tu con le case reali di Egitto, Anatolia e Siria.
Il verdetto è rimandato Insomma, chi fu veramente Hammurabi? Uno dei re della Mesopotamia capaci di unificare il Paese per un tempo limitato, divenuto immortale solo grazie alla fortuita conservazione e scoperta della stele del Louvre, o il principale genio politico del suo tempo? Un re giusto, mosso dal desiderio di dare pace, unità e prosperità al suo Paese, o un arrampicatore lucido e spietato, capace di tradire d’un colpo i suoi alleati di sempre, appena le circostanze ne suggerivano la convenienza? Fu davvero il primo grande legislatore della storia, o un abile propagandista di principi teoricamente equi, ma che restavano «lettera morta» nella vita quotidiana? Non vi sono dubbi sull’intuito e sulla determinazione di questo sovrano, evidentemente capace di manipolare a suo vantaggio, e nel modo piú spregiudicato, le antiche solidarietà tribali della sua gente, e di sconfiggere in tal modo le strategie imperiali dei Sukkalmah elamiti, per fare spazio a un forte Stato nazionale lungo il Tigri e l’Eufrate. Anche se la sua dinastia non ne trasse profitto, la successiva, quella dei Cassiti, stabilí uno Stato autorevole e influente, che resse la Mesopotamia per buona parte del II millennio a.C., a dimostrare la piena fondatezza della sua visione politica. Per il resto, al momento, la storia non può far altro che tacere, in attesa che nuove fortunate e inattese scoperte archeologiche ci rivelino nuovi punti di vista. E perché questo avvenga, sarà necessario che l’Iraq e le sue regioni confinanti tornino a vivere un nuovo, prolungato periodo di pace e benessere. Per ora, proporre l’archeologia a un Iraq ancora semidistrutto e piagato da una dipendenza quasi assoluta dall’economia del petrolio e dagli interessi stranieri, sembra a molti un vezzo imperdonabile.
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URUK
UNA MEGALOPOLI DELL’ETÀ DEL BRONZO S
ino a non molti anni fa, tutti ritenevano che il cosiddetto Periodo di Uruk – cosí chiamato sia per l’importanza della sua megalopoli, sia per il semplice fatto che ancora oggi Uruk è la sola grande città del tempo scavata in grande estensione – fosse limitato a tre o quattro secoli compresi nella seconda metà del IV millennio a.C. Archeologi e storici ricercavano in Mesopotamia quella «culla della transizione» (Mario Liverani) che aveva luminosamente guidato, con un successo immediato e travolgente, un mosaico di deboli comunità rurali all’invenzione della scrittura, dell’arte figurativa, della regalità e infine alle conquiste degli imperi unitari. Uruk appariva in tal modo come il precursore autorevole e indiscusso di tutto quanto di possente e di autorevole avrebbero realizzato, nei millenni successivi, le civiltà dell’Occidente. Grazie all’accuratezza di importanti scavi stratigrafici, oggi, al contrario, sappiamo che le fasi formative delle grandi città nelle pianure alluvionali dell’Iraq e della Siria si svilupparono, praticamente senza soluzione di continuità, lungo l’intero arco del IV millennio a.C. Quello che sembrava un rapido apogeo della «città-stato trionfante» (per usare una fortunata espressione di Jean-Daniel Forest) oggi appare come un periodo lungo e sostanzialmente sconosciuto, in cui ebbero luogo sí fortunate scalate al potere, audaci innovazioni politiche e religiose e (per alcuni) grandi trionfi, ma anche lunghe storie di
conflitti, collassi, distruzioni, degrado ambientale e regressi. Ci si illudeva che le scene sulla famosa «Stele degli avvoltoi» eretta dal re di Lagash, Eannatum (2500 a.C. circa), oggi custodita al Louvre, in cui i suoi soldati coprono con cesti di terra enormi cumuli di nemici morti, fossero roboanti espressioni di una vuota retorica autoritaria; ma la scoperta a Tell Brak (Siria settentrionale) dei resti ossei di piú duecento persone uccise e buttate negli immondezzai cittadini, dopo essere state consumate da cani e rapaci, rivela che le «montagne di cadaveri» erano, semplicemente, verità letterale. E con le sinistre scoperte di Tell Brak siamo proprio nel momento cruciale del periodo di Uruk, intorno al 3300 a.C. In Mesopotamia, in larga misura, il Periodo di Uruk «è» la città stessa, con i suoi grandi complessi architettonici, le arcaiche tavolette con segni scritti, le prime e sorprendenti opere di arte figurativa e monumentale. Questa sovrapposizione o coincidenza è dovuta a diversi fattori, in parte casuali e non
I LUOGHI SACRI E DEL POTERE
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ARABIA SAUDITA
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In alto planimetria della città di Uruk: 1. Santuario di Eanna con ziqqurat; 2. Edifici arcaici; 3. Bit Resh, santuario della coppia divina Anu e Antum; 4. Ziqqurat di Anu con il Tempio Bianco; 5. Irigal (area sacra dedicata alla dea Ishtar); 6. Tempio di Gareus; 7. Aree di scavo V-XVIII; 8. Bit Akitu, la casa della «festa del capodanno»; 9. Campo base della
missione; 10. Palazzo del re Sin-Kashid. Nella pagina accanto, in alto la Dama di Warka, denominazione data alla testa di una statua polimaterica rinvenuta a Uruk. 3000 a.C. circa. Baghdad, Iraq Museum. Nella pagina accanto, in basso ricostruzione virtuale della ziqqurat innalzata a Uruk in onore di Inanna/Ishtar.
sempre collegati tra loro. In primo luogo, Uruk, che era giunta, negli ultimi secoli del IV millennio, a estendersi per piú di 100 ettari di superficie urbana, fu
ben presto sfavorita da un rapido mutamento di letto di un ramo dell’Eufrate; la popolazione urbana, nei secoli successivi, iniziò gradualmente a contrarsi,
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occupando di preferenza i quartieri settentrionali della città. A questa trasformazione ecologica potrebbe essersi accompagnata una vasta crisi sociale. Le fondazioni dei grandi edifici pubblici, forse cultuali, costruiti a piú riprese in strati sovrapposti sulle grandi terrazze rialzate nelle zone centrali rimasero cosí sostanzialmente indisturbate, e, trovandosi prossime agli strati superficiali, poterono essere scavate con relativo agio, dapprima in estensione, poi in profondità. Manca inoltre ancora la possibilità di confrontare i dati di Uruk con quanto avveniva, negli stessi secoli, in altre grandi città vicine: sappiamo che esse celano strati, edifici e persino arcaici testi scritti ugualmente importanti, ma non sono mai stati scientificamente indagati. Per un altro paradosso dell’archeologia del Periodo di Uruk, questa fase è nota molto meglio in regioni periferiche, come la Siria settentrionale o addirittura l’entroterra dell’altopiano iranico, che non nel cuore del futuro Paese di Sumer (esitiamo a usare questo nome per le prime comunità urbane della Mesopotamia meridionale; per quanto la cosa appaia probabile, gli indizi che vi si parlasse effettivamente la lingua sumera del III millennio a.C. sono ancora scarsi e indiretti). Infine, l’immagine del Periodo di Uruk restituita dalle trincee di scavo continua a essere (ed è una falsa impressione) piuttosto statica. Se questa immensa città sembra apparire all’improvviso, e in forme tanto già organizzate, ciò è dovuto al fatto che qui, come in molti altri grandi centri mesopotamici, gli strati precedenti risalenti alle occupazioni del V millennio a.C. (il cosiddetto Periodo di Ubaid) non sono stati esplorati su superfici significative. Non vi sono tuttavia incertezze sul fatto che la società di Uruk ebbe, almeno momentaneamente, uno straordinario successo. L’enorme crescita di Uruk e di altri centri proto-urbani tra la fine del IV e il primo secolo del III millennio a.C. viene spiegata
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Cosí nacque una grande città 5000-4000 a.C. Fondazione di due o piú diversi insediamenti Periodo di Ubaid in quella che sarà in seguito l’area urbana di Uruk. 4000-3800 a.C. I villaggi si raggruppano in un’area Periodo di Uruk metropolitana allargata, percorsa da una serie Antico di canali che meritano a Uruk il nome di «Venezia del deserto». 3800-3400 a.C. Uruk è una delle capitali della Mesopotamia, Periodo di Uruk abitata da 10 000-20 000 persone. Si sviluppano Medio i due grandi distretti religiosi di Uruk, Kullaba (il tempio di Anu) ed Eanna (area sacra di Inanna). 3400-3100 a.C. Sulla terrazza dell’Eanna crescono i grandi Periodo di Uruk edifici templari o sale di accoglienza con Tardo colonne, cortili e decorazioni a mosaico. Invenzione della scrittura e sviluppo delle tecnologie amministrative. I canali connettono Uruk all’Eufrate e quindi all’accesso al mare. 3100-2900 a.C. Uruk è una megalopoli dove vivono decine di Periodo migliaia di persone. La tradizione attribuisce a di Jemdet Nasr questo periodo la costruzione delle mura urbane al re semi-divino Gilgamesh. Crescita dei conflitti e dei contrasti politici mediati dalle fondazioni religiose. 2900-2800 a.C. Uruk è una delle città dominanti della Protodinastico I Mesopotamia, ma l’area abitata si restringe gradualmente nei distretti settentrionali, per uno spostamento del corso dell’Eufrate e per l’inasprimento delle crisi politiche.
da Mario Liverani e da altri studiosi in termini principalmente produttivi: si pensa che nuove società urbane, grazie a una nuova concezione del sacro e nuove organizzazioni templari, abbiano gradualmente centralizzato l’irrigazione artificiale, promuovendo il sistema dei cosiddetti «campi lunghi» – lotti di terreno coltivabile lunghi e stretti in lieve pendio –, che venivano irrigati semplicemente per gravità, incidendo marginalmente i banchi naturali dell’Eufrate.
Le mura di Gilgamesh
La «grande Uruk» della fine del IV millennio, in queste condizioni, è nota soprattutto per i vasti ed elaborati edifici monumentali che si addensano sulle terrazze monumentali del complesso chiamato dagli archeologi «Eanna», e tradizionalmente considerato come dedicato al culto della dea Inanna (l’Ishtar dei piú tardi culti akkadici). L’Eanna sorgeva nella regione centro-orientale di Uruk, a sud della ziqqurat
2800-2500 a.C. I re della Prima Dinastia di Uruk mantengono Protodinastico II il predominio sulla Mesopotamia meridionale. 2500-2250 a.C. Uruk cade sotto il controllo della vicina Ur. Protodinastico III 2250-2150 a.C. La città entra a far parte del primo impero Età Akkadica unitario del Vicino Oriente, che cadrà alla fine del XXII secolo sotto i colpi dei Gutei, una popolazione dell’altopiano iranico. 2120-2000 a.C. Utu-hengal, signore di Uruk, scaccia i Gutei Terza Dinastia ma è sconfitto da Ur-Nammak di Ur. Uruk di Ur ritorna sotto l’influenza del potente Stato vicino. 2000-1800 a.C. Temporanea indipendenza di Uruk, prima Periodo detto di nuove e finali annessioni alle città vicine. di Isin e Larsa II-I millennio a.C. Uruk rimane coinvolta nelle lotte tra Babilonesi, Cassiti e le vicine potenze dell’Assiria e dell’Elam. I millennio a.C. Uruk rimane un importante centro abitato sotto gli Assiri, gli Achemenidi e durante i successivi imperi dei Seleucidi e dei Parti. 300-600 d.C. Uruk viene definitivamente abbandonata Impero sasanide prima della conquista araba della Mesopotamia (633-636 d.C.).
costruita dai re della III dinastia di Ur intorno al 2000 a.C. Piú a est, probabilmente al di là di uno dei canali che attraversavano la città, sorgeva su un’altra monumentale terrazza il tempio di An, Dio del cielo, detto anche «Tempio Bianco» per l’abbondante uso di calce sulle sue superfici murarie. Il Tempio Bianco era il cuore cultuale di un secondo quartiere dell’antica Uruk, chiamato «Kullaba».
La distinzione tra questi distretti urbani fu molto sentita, e per secoli, dagli abitanti dell’antica Mesopotamia. Dalla Lista Reale Sumerica, un documento semi-mitico redatto in forma definitiva agli inizi del II millennio a.C., apprendiamo infatti che il «divino» Gilgamesh – attenzione: i filologi oggi puntigliosamente sottolineano che il nome andrebbe invece letto nel meno fascinoso «Bilgamesh» – era il quinto re della dinastia piú antica della città. Figlio di una dea e di «un padre sconosciuto», Gilgamesh era il signore di Kullaba, piuttosto che dell’intera città; ma a lui fonti storiche diverse attribuiscono la costruzione dell’enorme circuito delle mura urbane di Uruk (oltre che la speculare distruzione delle difese delle città nemiche). Dio o semidio, oppure re storico trasfigurato dalle leggende, certamente umanissimo eroe di un emozionante intreccio di miti e saghe, e infine, nella letteratura mesopotamica piú tarda, potente divinità degli inferi: la composita figura di Gilgamesh si staglia sulle rovine di Uruk come ai margini della storia, senza che gli studiosi siano giunti a un parere condiviso sull’effettiva esistenza di un sovrano arcaico con questo nome. Gli edifici sorti sulle grandi terrazze dell’Eanna sono grandi fabbriche in mattone crudo a pianta tripartita, animati da un continuo gioco di contrafforti e nicchie che sotto il sole tagliente del paese si trasformano in lame di luce verticale e nicchie di nera ombra. Tutti hanno la singola proprietà di essere accessibili da multiple entrate, tutte uguali e su piú lati, come a voler invitare, accogliere e intrattenere masse di visitatori o fedeli. Gli scavi hanno rivelato una progettazione e una messa in opera straordinariamente accurate, con argilla e intonaco, legno, stuoie, rivestimenti in terracotta, pietra e bitume (uno dei «santuari» dell’Eanna conteneva addirittura una strana vasca per l’acqua a forma di «L» impermeabilizzata per abluzioni rituali); e al lusso di questi edifici certamente alludono frammenti di modellini architettonici fatti in pietre dure e intarsi di colore contrastante, trovati nelle rovine.
Nella pagina accanto il grande contenitore cilindrico noto come «vaso di Warka», rinvenuto negli scavi di Uruk nel 1934. Fine del IV mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum. Il pregiato manufatto venne trafugato nel 2003 durante il saccheggio del museo iracheno e, dopo il recupero, è stato restaurato nel 2004 da un’équipe dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma. A destra simboli della dea Inanna scolpiti sul fondo del recipiente noto come «mangiatoia» di Uruk. 3300-3000 a.C. Londra, British Museum.
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UR
LA LEGGENDA CONTINUA
U
r, la Urim dei Sumeri, sorge nell’attuale provincia del Dhi Qar, a 16 km da Nassiriya, sulla riva destra dell’Eufrate. Era la «casa del dio Nanna», divinità della luna che a Ur abitava l’Ekishnugal («casa di alabastro, della luce fluorescente»), santuario collocato presso l’angolo nord-occidentale della ziqqurat costruita dal re Ur-Nammu nel XXI secolo a.C. Il nome moderno del sito, Tell el-Muqayyar («collina di pece»), probabilmente dipende molto piú prosaicamente dagli abbondanti rivestimenti in
bitume che affioravano sulla superficie della ziqqurat. Ur era la piú meridionale delle grandi città-stato sumeriche, e deve aver controllato per secoli l’accesso al mare di buona parte dell’intera Mesopotamia. Questa posizione strategica poneva la città in contatto costante con le vie commerciali del Golfo Persico e gli emissari delle nazioni d’Oriente che fiorivano dall’altopiano iranico alla valle dell’Indo, e in costante attrito con le altre città-stato della terra dei due fiumi. La sua potenza è ancor oggi
mostrata dall’estensione delle rovine della sua area sacra sulla piana attuale (1200 x 800 m circa). Abitata dal 5000 a.C. all’età di Alessandro (IV secolo a.C.), nel III millennio a.C. ospitava templi, palazzi, porti, cimiteri dal macabro splendore e una popolazione urbana di almeno 100 000-200 000 persone. Alla fine dello stesso millennio, lungo l’arco di un secolo, fu sede di una potente casa reale (nota come «Terza Dinastia di Ur») che unificò l’intera Mesopotamia, giungendo a controllare parte del Vicino Oriente e il margine sud-occidentale del contiguo altopiano iranico. La città allora era protetta da una vasta cinta muraria di forma ovale, in mattone crudo e paramenti in cotto, con mura spesse quasi 20 m. I due principali accessi erano due porti fluviali, con lunghi moli e bacini in mattone cotto.
Che cosa resta, oggi, di questa antica grandezza? «A 25 miglia dalle rovine di Ur corre la bassa scarpata del deserto superiore, una distesa ondulata di ghiaia e affioramenti di calcare che salgono all’altezza delle colline (...) ma dalla cima della ziqqurat non si vedono altro che le distese alluvionali dell’Eufrate. È un panorama malinconico. A sud le pianure sono rotte da una cresta allungata di sabbia portata dal vento, che sottolinea la desolazione, e da un pinnacolo di fango (...) tutto ciò che resta di Eridu, che i Sumeri consideravano la piú antica delle loro città. A ovest il piano morto di sabbia e fango si estende a perdita d’occhio (...) a nord e nord-ovest pochi bassi monticoli nascosti nel lucore della calura, o sollevati dai miraggi a un rilievo irreale, testimoniano altri insediamenti perduti» (Charles Leonard Woolley, Ur Excavations, 1934).
In alto figura maschile, frammento di intarsio in osso e conchiglia. Secondo quarto del III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum. In basso le rovine di Ur. Sullo sfondo, si riconosce la mole imponente della ziqqurat.
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Un paesaggio desolante? Ci stiamo guardando allo specchio: è lo scenario piú vero delle origini della nostra stessa civiltà.
Orme nella sabbia
«E Terach prese Abramo, suo figlio e Lot, figlio di Haran (...) e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figlio, e uscirono insieme da Ur dei Caldei (Ur Kasdim) per andare nel paese di Canaan; e, giunti a Harran, vi si stabilirono» (Genesi 13: 31-32). Secondo la Bibbia, Abramo, con Nacor e Haran figlio di Terach, era un pastore che viveva a Ur. Nella città sposò la sorellastra Sarai, figlia dello stesso padre, ma di un’altra madre. Terach, Abram, Sarai e Lot (il figlio del fratello Haran) si spostarono a Harran, nella Mesopotamia settentrionale, dove il padre di Abramo sarebbe morto all’età di 205 anni. Nel racconto la città di Ur – nominata nel Vecchio Testamento piú di una volta – è chiamata con il nome dei Caldei, termine usato in età neobabilonese (dall’VIII secolo a.C. in poi) per designare gli abitanti della Mesopotamia meridionale. Il nome di Abramo, figlio di Sem, significa «Padre delle Moltitudini». Egli è riconosciuto sia come capostipite della nazione ebraica, sia come profeta, messaggero divino e prototipo del perfetto musulmano dall’Islam. A lui, quindi, riconducono le tre grandi religioni monoteiste degli ultimi quattro millenni. E, ripercorrendo a ritroso le tracce di Abramo, giungeremmo dunque a Ur, nel cuore di Sumer, al cospetto di una delle vicende fondamentali della nostra cultura e della nostra spiritualità. Ma questa interpretazione è viziata da problemi importanti. In primo luogo, quello riguardante la vicenda della partenza di Abramo: a giudizio universale degli studiosi, essa deve aver avuto luogo nella prima metà del II millennio a.C., periodo nel quale dei Caldei non si era ancora sentito parlare. La menzione dei Caldei è quindi un’interpolazione molto posteriore.
Nella pagina accanto, in basso testa in oro di toro, particolare della decorazione di un’arpa (o lira), da una tomba del Cimitero Reale di Ur. Metà del III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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Quel che resta di Ur
La città fu identificata nel 1854 dal vice console britannico a Bassora John Edward Taylor. Dopo le prime indagini, condotte nel 1919 da Harry Reginald Hall, il sito fu scavato, tra il 1922 e il 1934, dall’archeologo inglese Charles Leonard Woolley, su incarico del British Museum e dell’University Museum della Pennsylvania. Interrotti gli scavi, per mancanza di fondi, le fragili strutture in mattoni crudi, risalenti per la maggior parte all’epoca di Ur III (fine del III millennio), furono abbandonate all’incuria, rimanendo esposte alle intemperie. Al degrado si aggiunsero le devastazioni prodotte negli anni delle due guerre contro il regime di Saddam Hussein, quando il sito divenne inaccessibile perché inglobato all’interno di una base militare irachena prima, e statunitense in seguito. Una condizione che in qualche modo preservò, almeno in parte, l’area archeologica da scavi clandestini, saccheggi e danni collegati agli eventi bellici. LA ZIQQURAT Tra i resti visibili dell’antica città rimane la maestosa mole della ziqqurat, dedicata al dio della luna Nanna, protettore di Ur. Realizzata su costruzioni precedenti dal sovrano Ur-Nammu e portata a termine dal figlio e successore Shulgi, essa si presenta come una torre a piani sovrapposti, di cui rimangono il primo e parte del secondo, alta piú di 20 m, con una base di 62,50 x 43 m. La ziqqurat di Ur, parte di un vasto complesso cerimoniale dedicato a Nanna, è tra le meglio conservate della Mesopotamia, anche grazie alle operazioni di restauro condotte negli anni Sessanta del Novecento dall’archeologo iracheno Taha Baqer.
ENUNMAH Nonostante per molto tempo sia stato considerato un edificio templare, era, probabilmente, il Tesoro Reale dei signori di Ur. Costruito da re Amar-Sin (2046-2038 a.C.) nell’area sacra di Nanna, l’Enunmah presentava pianta quadrata, e racchiudeva un edificio minore, composto da quattro vani lunghi, di cui due piú corti, preceduti da una cella longitudinale.
Bacino portuale settentrionale
EHURSAG È stato interpretato come il palazzo di re Shulgi (2094-2047 a.C.), sebbene nelle costruzioni compaiano anche mattoni iscritti con il nome del padre, Ur-Nammu. L’edificio a pianta quadrata (57 m per lato) aveva un ingresso situato forse presso il lato nord-ovest, e si componeva di una grande corte, due sale con funzione di anticamera e della sala del trono.
Palazzo neobabilonese Recinto sacro
Fortezza cassita
Edublamah Case dell’epoca della III Dinastia e successive Mausoleo dei re della III Dinastia Case dell’epoca della III Dinastia e successive
CASE PRIVATE del periodo di Isin e Larsa (2000-1800 a.C.). Le abitazioni, realizzate su due piani, erano costruite attorno a un cortile interno, e si aprivano su vie strette e irregolari.
Case dell’epoca della III Dinastia e successive
Bacino portuale occidentale
GIPARU Costruito presso il lato sud-est del recinto sacro, comprendeva i templi minori di Nanna e della divinità femminile a lui associata, Ningal, insieme alla residenza delle addette al culto del dio. Il complesso fu distrutto durante il saccheggio degli Elamiti, nel 2004 a.C., e ricostruito sotto la dinastia di Isin.
Tempio di Enki
IL CIMITERO REALE Nella necropoli, in uso tra il 2650 e il 2050 a.C., furono rinvenute 1850 sepolture, singole e multiple. Tra queste, 16 tombe in cui erano deposti personaggi di rango riferibili alla I (2600-2450 a.C.) e alla III dinastia (2112-2006 a.C.) regnante di Ur, accompagnati da corredi di straordinaria ricchezza e individui uccisi ritualmente.
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In alto la ziqqurat di Ur, innalzata per volere del re Ur-Nammu alla fine del III mill. a.C. A sinistra pianta della camera sepolcrale della regina Pu’abum con l’indicazione dei numerosi oggetti del corredo.
Nella pagina accanto, in alto Cimitero Reale di Ur. Un cranio femminile ornato con oro, lapislazzuli e corniola, proveniente dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237). Nella pagina accanto, in basso elmo in oro decorato a sbalzo, di Meskalamdug, dalla tomba PG 755, nel Cimitero Reale di Ur. Metà del III mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
Inoltre, vi sono molte altre città e località con nomi simili o compatibili con quello di «Ur» che meglio si collocano negli scenari storici della Mesopotamia settentrionale. Dovremmo, quindi, rinunciare alle suggestioni create dai primi archeologi (e da una filologia fortemente orientata a confermare scientificamente ogni aspetto della tradizione biblica), e togliere a Ur, almeno per cautela, la titolarità di «Patria di Abramo».
Il viaggio di Abramo
Eppure, come fare a meno dell’immagine, quasi onirica, della famiglia del patriarca che abbandona una grande metropoli, scivolando nell’ombra lunare della grande ziqqurat, per addentrarsi nelle steppe desolate delle carovaniere del nord-ovest? Il viaggio di Abramo dal cuore di Sumer, dal paese delle torri di antichissime divinità alla volta delle sponde del Mediterraneo e alle radici di un mondo nuovo, ha valenze simboliche troppo forti ed esplicite per essere dismesso facilmente. Tanto piú che ciò avverrebbe nel nome di una pretesa esattezza scientifica che – influenzata da fascinazioni, religioni e nazionalismi di ogni genere – probabilmente non sarà mai tale. Non ci sembra allora, in fin dei conti, una grave forzatura lasciare che Ur rimanga, per tutti noi, la grande «Ur dei Caldei». Ur è anche menzionata da un testo ebraico minore, il Libro dei Giubilei, scritto intorno al II secolo d.C. Considerato apocrifo dalla maggioranza delle confessioni cristiane, ma sacro dalla Chiesa copta, il testo afferma che Ur sarebbe stata fondata nel 1688 Anno Mundi (una datazione incerta che può avere inizio, a seconda dei diversi calcoli, dal 5500 al 4000 a.C.) da Ur, figlio di Kesed, figlio di Arpachsad, antenato di Abramo; e aggiunge che, nello stesso anno della fondazione, ebbero inizio sulla Terra le guerre (Giubilei, 11:13). Un ricordo quasi profetico, anche solo a guardare i devastanti conflitti dell’ultimo ventennio.
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La porta degli dèi
Città di cui, fin dall’antichità, si favoleggiava la magnificenza, Babilonia divenne un luogo leggendario. Che invece esistette davvero ed ebbe una storia lunga e illustre, come confermano le indagini archeologiche insieme a migliaia di documenti letterari ed epigrafici di Claudio Saporetti
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Sulle due pagine un’immagine d’epoca del Grande Leone di Babilonia, scultura incompiuta che forse ornava il palazzo di Nabucodonosor II. VI-V sec. a.C. In basso un’immagine recente del Grande Leone di Babilonia. La città sulle rive dell’Eufrate iniziò la sua ascesa, in seguito alla caduta dell’impero di Ur (Mesopotamia meridionale), dovuta alla penetrazione degli Amorrei, provenienti dall’Occidente.
I
l nome «Babilonia» è universalmente noto e variamente utilizzato, anche fuori luogo. Ma se chiedessimo su Babilonia qualcosa di piú approfondito e appropriato, scopriremmo che sono soltanto due i nomi babilonesi conosciuti: quelli dei sovrani Hammurabi (o Hammurapi) e Nabucodonosor. Il primo è legato all’esistenza di un «codice» noto per la sua vaga denominazione (il termine «codice» è inesatto) piú che per il suo contenuto. Il secondo ricorda invece la deportazione degli Ebrei, appresa dalla Bibbia o anche dall’opera verdiana Nabucco (dove però Babilonia e Assiria sono intese come un tutt’uno!). Eppure tra l’uno e l’altro sovrano intercorre piú di un millennio, durante il quale Babilonia non ha certo rinunciato a far parte della storia. La vera storia di Babilonia inizia con una dinastia «amorrea», prima della quale la località era certamente esistita, ma non aveva mai raggiunto l’importanza di altre città mesopotamiche, come Ur, Uruk, Lagash, Umma, o Nippur, potenti capitali sumere del Sud. Nelle fasi piú antiche della storia mesopotamica, Babilonia non fu che una delle tante località rette da un «governatore», anche durante il cosiddetto «rinascimento sumerico», quando, intorno al XXII-XXI secolo a.C., Ur divenne una grande potenza dominante.
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La città iniziò invece la sua ascesa politica sulle rovine dell’impero di Ur, sgretolato dalla costante penetrazione di popoli provenienti dall’Occidente: gli Amorrei. Raccolti in tribú guidate da formidabili sceicchi, questi popoli dell’Ovest penetrarono nella Mesopotamia discendendo lungo l’Eufrate, a cui pervenivano da nord o dalle strade carovaniere del deserto, come quella che passava da Tadmor/Palmira.
Aneliti di indipendenza Nemmeno un lungo muro difensivo permise ai sovrani di Ur di impedire questa avanzata costante e corrosiva, che progressivamente
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Particolare della decorazione murale in mattoni smaltati, con testa di leone, da Babilonia. VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto i rilievi in mattoni della Porta di lshtar in una foto d’epoca.
tagliava i collegamenti commerciali con i fornitori di materie prime del Nord e dell’Ovest. In alcuni casi le città cadevano, altre volte approfittavano della situazione per ribellarsi al sovrano di Ur e rendersi indipendenti, pur dovendo comunque adeguarsi alla presenza dei nuovi incomodi venuti. Fiorirono cosí, in tutta la Mesopotamia, sovrani con nomi amorrei: ad Assur, a Mari, a Eshnunna, a Babilonia e anche in due città del Sud, Isin e Larsa, che divennero particolarmente potenti quando Ur fu preda dei suoi secolari nemici, gli Elamiti dell’Iran. I sovrani amorrei introdussero cambiamenti considerevoli, portando con sé una nuova
I secoli di Babilonia XXII-XXI secolo Babilonia sotto l’«impero» di Ur (III Dinastia di Ur) 1894-1595 Dinastia «amorrea» di Babilonia
XV secolo-1157 Dominazione cassita
689 Sennacherib distrugge Babilonia
1156-626 Dinastie varie e dominazione assira
625-539 Dinastia «caldea»
538-331 Dominazione persiana 538-530 Ciro
1792-1750 Regno di Hammurabi
728-727 Regno dell’assiro Tiglatpileser III (con il nome di Pulu)
XVI-XV secolo Dinastia del «Paese del Mare»
721-710 Regno di Merodachbaladan Il
625-605 Nabopolassar
485-465 Serse (distruzione di Babilonia)
604-562 Nabucodonosor
335-331 Dario
555-539 Nabonedo
330-323 Alessandro Magno
mentalità, figlia del loro bagaglio culturale di uomini del deserto. Nelle disposizioni di carattere giuridico, per esempio, si nota immediatamente una recrudescenza delle pene, tra le quali è particolarmente sottolineato il principio del taglione: I’«occhio per occhio dente per dente» è presente nel «codice» di Hammurabi, ai paragrafi 196 e 200. La disintegrazione dell’impero di Ur determinò inoltre una situazione politica del tutto diversa: agli antichi governatori che consideravano il re di Ur come un dio (e magari gli dedicavano templi), si sostituirono sovrani indipendenti, impegnati a difendere il loro «posto al sole», cercando anche di ampliare il proprio territorio a spese dei vicini. Si susseguirono perciò guerre e guerricciole tra i nuovi venuti, ormai stanziati in una terra ben diversa dal semiarido deserto che erano abituati a percorrere.
Una terra fertilissima Intorno alle città in cui gli Amorrei avevano ormai preso il potere, il terreno poteva essere coltivato a cereali (soprattutto orzo), legumi, alberi da frutto (tra cui predominava la palma da dattero). I raccolti erano abbondanti, nonostante il continuo pericolo della salinizzazione del suolo, che fece calare a 900 litri di orzo per ettaro, al tempo di Hammurabi, una produzione che quasi un millennio prima toccava i 2500. Per mantenere comunque questi livelli non ci si poteva affidare alla pioggia: spesso il terreno non permetteva coltivazioni a base pluviale, ma irrigua. Ciò richiedeva la cura costante delle
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canalizzazioni artificiali, che dovevano essere mantenute e ampliate, con un consistente dispendio di mezzi e di energie. Vaste zone si prestavano poi all’allevamento del bestiame, l’altra grande ricchezza del Paese, che dai prodotti della terra e dalla lavorazione della lana aveva da sempre ricavato i beni indispensabili per ottenere, in cambio, le materie prime che mancavano del tutto: legno, pietra, materiali semipreziosi, metalli. La frammentazione del grande impero di Ur impediva a varie nuove città-stato di provvedere direttamente ai rifornimenti e alcuni centri fagocitarono quelli vicini, e gli Stati divennero sempre piú grandi e meno numerosi. Tra questi era Babilonia, che, nel XIX secolo a.C., sotto una dinastia amorrea, disponeva di un certo spazio vitale intorno a sé, ma doveva dipendere sempre da altri. Semplificando, possiamo dire che dipendeva dagli Stati orientali, come Eshnunna, per l’importazione dello stagno, da quelli meridionali e settentrionali, come Ur e Assur, per il rame e l’argento; da nord-ovest provenivano i preziosi legni del Libano insieme alla pietra, al vino, alle spezie; mentre da est l’ossidiana e il lapislazzuli; da sud, infine, la cornalina. Favoriti erano i luoghi situati sui fiumi e i grandi canali, perché i prodotti potevano essere trasportati con barche, o da carovane di asini che seguivano le vie lungo le rotte fluviali. Questi cordoni ombelicali del commercio erano fondamentali per la sopravvivenza di questa cittadina che si chiamava Babila, dai semiti amorrei interpretata come bab-ili, «la porta del dio» (o bab-ilani, «la porta degli dèi», da cui la nostra «Babilonia»). Poco sappiamo dei primordi della sua potenza, tranne il nome dei sovrani amorrei e qualche notizia tratta dalle «formule di datazione» con cui venivano siglati i documenti e che riportano i principali avvenimenti di ogni singolo anno. Il regno del primo sovrano, un certo Sumu-abum (1894-1881), era probabilmente esteso per poco piú di una cinquantina di chilometri di raggio dalla capitale, forse nemmeno in tutte le direzioni. Tra alti e bassi, i
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suoi successori ampliarono il territorio, scontrandosi infine con alcune città del Sud: Ur e Isin, che furono sconfitte, ma anche Larsa, che uscí vincitrice dal confronto.
Un palazzo vasto e favoloso Quando Hammurabi (1792-1750) salí al trono, si trovò precluso il Sud dallo Stato di Larsa, che nel frattempo aveva inglobato lsin, mentre nel Nord doveva fronteggiare il potente Shamshi-Adad (18 13-1781), re di Assur. La situazione si risolse quando, alla fine del regno di Shamshi-Adad, giunse da Aleppo, a rivendicare il trono di Mari (di cui il re di Assur s’era impossessato, affidandolo a un figlio) un uomo destinato a regnarvi, diventare potente, ed essere per un certo tempo il migliore alleato di Hammurabi: Zimri-Lim. Grazie all’aiuto del sovrano di Aleppo, Zimri-Lim cacciò da Mari il figlio del re di Assur e vi si insediò, facendo costruire un palazzo vasto e favoloso, nel cui archivio sono state rinvenute 25 000 tavolette. Hammurabi governava allora uno Stato che era arrivato ad avere un raggio di circa 80 chilometri e, intorno al trentesimo anno di regno, affrontò gli altri Stati, sconfiggendo e poi eliminando a est quello di Eshnunna e, a sud, la potentissima Larsa. Una decina d’anni piú tardi, Hammurabi fece redigere il celebre «codice» di leggi, il cui testo venne inciso su una stele di diorite alta piú di 2 m e ritrovata a Susa, dove era stata portata, come bottino di guerra, da un sovrano elamita di un’età successiva. Attraverso i suoi articoli di legge, in aggiunta alle lettere ritrovate nelle città su cui regnava, possiamo indagare sulla personalità del sovrano e sulla vita del suo tempo. Sappiamo che non si fece divinizzare, che aveva a cura la giustizia e il benessere del Paese, che fece costruire e ampliare i templi di Babilonia e di altri siti, che provvide a opere «di pubblica utilità», curando in particolare la manutenzione dei canali. Già in precedenza era stato costruito l’Esagila, il vasto luogo sacro nel quale il dio locale, Marduk, aveva il suo tempio e la sua torre (la Torre di Babele). Nelle campagne, accanto a
In alto i resti della ziqqurat di Assur (l’odiema Qalat Shergat, lraq) dedicata al dio Enlil. XVIII sec. a.C.
Testa in diorite nella quale convenzionalmente si identifica il re Hammurabi, da Susa. Inizi del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
terre di privati coltivate direttamente o a mezzadria, vari appezzamenti erano affidati a concessionari, che spesso erano soldati, contro l’obbligo di un servizio per lo Stato o di tributi.
Gli «editti di giustizia» La frammentazione della terra in piccole e grandi aziende, spesso familiari, portò a scompensi pericolosi; e il sistema del prestito, largamente in uso, conduceva a impoverimenti tali che ogni tanto i sovrani dovevano promulgare un «editto di giustizia», cioè un provvedimento che azzerava i debiti per gli agricoltori ridotti sul lastrico, assicurava l’esenzione degli arretrati fiscali e garantiva la liberazione degli schiavi per debiti e dei loro familiari. Esempi di questa pratica sono due famosi «editti» emanati da successori di Hammurabi: Samsu-iluna e Ammi-saduqa. È difficile definire la scala delle «classi sociali» dell’epoca: dai servi agli uomini liberi che, indebitati fino all’osso, potevano perdere la loro indipendenza; dai sottoposti fino ai grandi proprietari terrieri, agli alti funzionari statali, alle sacerdotesse del dio Shamash di Sippar, la cittadina dedicata al Sole, dove forse era
conservata la stele del «codice». Queste ultime, che dopo i tempi di Hammurabi scomparvero, appartenevano a famiglie altolocate, e non avendo marito, né figli, potevano gestire personalmente i propri beni, perché la «dote» con cui entravano nel tempio restava di loro proprietà. Cosí potevano anch’esse concedere case in affitto, fare affari, erogare prestiti, far coltivare vasti appezzamenti di terreno e pascolare centinaia di bovini e ovini. Alcune di loro appartenevano alla casa reale, altre sapevano addirittura leggere e scrivere. Altolocati erano anche i sacerdoti, per i quali si giunse a una sorta di «privatizzazione» delle funzioni e delle cariche. Piú che esercitare il sacerdozio come lo intenderemmo oggi, godevano soprattutto delle prebende dovute alla carica e avevano la facoltà di venderle. Era trattato invece come un individuo di rango inferiore, il cosiddetto muskhenu (la parola, attraverso l’Arabo, si è trasformata nel nostro «meschino»). Sembra fosse un addetto legato al palazzo, non uno schiavo (tanto che poteva possederne), ma certamente di rango inferiore all’awilu, cioè a colui che veniva chiamato
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semplicemente «uomo» e che rappresentava l’uomo libero di gestire se stesso. Nel «codice», infatti, chi fosse stato riconosciuto colpevole di aver danneggiato il «meschino» veniva punito in forma piú lieve di chi aveva arrecato un analogo danno all’«uomo».
Una visione edonistica della vita Al tempo di Hammurabi nasce quella supremazia culturale di Babilonia che ha portato il dio cittadino Marduk al culmine del consesso degli dèi. Riprendendo spesso aspetti e figure della precedente mitologia sumerica sono nate, ex novo oppure rielaborate, opere letterarie di grande respiro, come i poemetti di Etana e di Gilgamesh. Anche nelle opere letterarie spicca l’«individualità» dell’uomo babilonese rispetto alla mentalità delle epoche precedenti. Si esaltano le imprese di superuomini che però non sono dèi, si sottolinea il crudele destino di un’umanità costretta a subire ingiustizie e a essere soggetta alla morte, e, per reazione, si suggerisce una visione edonistica della vita. Un’individualità che risalta nelle lettere private, che ci permettono di conoscere vari aspetti della vita di tutti i giorni con i suoi guai, le sue tragedie, gli affari, i comportamenti sociali. Tra le novità positive di questo periodo vi è
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Sigillo con relativa impronta contenente una preghiera a Marduk, il dio guerriero. X sec. a.C. Londra, British Museum.
anche l’introduzione di nuovi strumenti di lavoro, di nuove piante e animali, di nuovi metodi per combattere la salinizzazione del suolo, di un’espansione, insieme al commercio a distanza, delle varie esperienze culturali. Molti testi di geometria empirica dimostrano gli alti interessi e gli incredibili risultati raggiunti dagli scienziati del tempo. Viceversa non ci sono rimaste molte opere d’arte, né sembra che la potenza di Hammurabi fosse dovuta all’introduzione di nuove tattiche e nuove armi. Le notizie sul tempo e sull’opera del grande Hammurabi provengono perlopiú dai testi cuneiformi. Il contributo dell’archeologia, invece, è stato quasi del tutto irrilevante: sia perché la grande Babilonia di Nabucodonosor, si è sovrapposta a quella di Hammurabi, sia perché l’innalzamento della falda acquifera ha contribuito a cancellarne i resti. Per immaginarne l’aspetto, occorre perciò ricorrere agli scavi di altri siti contemporanei, che ci mostrano un insieme labirintico – percorso da stradine tortuose – di case attaccate l’una all’altra, ma disposte ortogonalmente. Solo i primi anni del Novecento segnarono un momento felice, quando l’archeologo Robert Koldewey, tra il 1899 e il 1917, eseguí gli scavi che fecero conoscere al mondo Babilonia: una diga vicina al sito si era rotta e,
momentaneamente, un’antica zona della città, piú elevata delle altre, poté essere indagata anche nel suo aspetto «paleo-babilonese», cioè relativo al periodo di Hammurabi. L’indagine ha tuttavia restituito dati assai limitati, anche al di là dell’edilizia. Sono state, per esempio, acquisite testimonianze della ceramica e di figure sui sigilli, ma mancano i dipinti e scarseggia la statuaria.
La dominazione dei Cassiti Come tutti i vasti «imperi», anche quello di Hammurabi non tardò a sgretolarsi. I suoi successori furono costretti a combattere rivolte e lotte intestine. Samsu-iluna (1749-1712) dovette affrontare le rivolte di importanti città (Ur, Uruk, lsin, che abbiamo già incontrato), da poco inglobate nel regno, mentre a sud, lungo il Golfo Arabico, si rese indipendente un «Paese del Mare». Tuttavia, il vero pericolo veniva, questa volta, da oriente, dai monti che videro calare popolazioni «barbariche» nel promettente suolo della Mesopotamia. Si trattava dei Cassiti, che in un primo tempo erano solo una delle molte genti, non semitiche, da tenere a freno con le armi o con atteggiamenti di pacifica tolleranza. I Cassiti non erano scesi in un’ondata travolgente. Un regno a nord di Mari, che si era reso indipendente da Babilonia subito dopo Hammurabi, già annoverava un sovrano con il nome cassita. Possiamo quasi paragonare questi Cassiti a iene che infestavano ormai il Paese, pronte ad azzannare le prede uccise dalle fulminee incursioni di veloci e potenti felini. Uno dei felini fu Murshili I, re degli Ittiti, uno Stato che si era costituito in Anatolia. Con un formidabile raid attraverso Aleppo e poi lungo l’Eufrate, Murshili arrivò fino a Babilonia,
Figura in terracotta di divinità con alto cappello, dagli scavi tedeschi di Babilonia. Il mill. a.C. Berlino, Staatliche Museen.
meta lontana di un viaggio pericoloso. La mise a sacco e tornò in patria: fu sete di saccheggio? Pura manifestazione di potenza? Fu una «guerra lampo» andata a buon fine, o un infelice tentativo di allargare a dismisura il proprio regno? Sta di fatto che egli si allontanò, e altri nemici ne approfittarono per occupare Babilonia. Strano è il destino di questo Paese: in lingua accadica babilonese si compilavano codici, si emanavano editti, si inviavano lettere e si redigevano contratti, ma i nomi dei sovrani sono soprattutto d’altra natura: prima amorrei, ora addirittura di una lingua nemmeno semitica. Saranno nomi «accadici», cioè semitici assiro-babilonesi, in seguito, sotto l’influenza assira e con la dinastia detta «caldea». Vediamo installati i Cassiti a Babilonia dopo uno iato cronologico, comunemente noto come «età oscura», durante il quale dovettero assestarvisi (come a nord i Khurriti nello Stato di Mitanni) nel loro nuovo ruolo che comportava mille problemi politici e amministrativi. Ittiti, Khurriti, Cassiti: popolazioni non semitiche, alcune dalla lingua indoeuropea (Ittiti), o con terminologie e onomastiche indo-iraniche; popoli già da tempo esistenti e noti, ma che nel XVI secolo a.C. sono venuti maggiormente alla ribalta contemporaneamente all’introduzione dell’allevamento «scientifico» dello anshekurra (l’«asino della montagna»), cioè il cavallo, e della sua utilizzazione in ambito bellico con l’introduzione del formidabile carro leggero, con due sole ruote a raggi. Con i Cassiti, dunque, le cose cambiarono. Il re e la nuova aristocrazia militare, la cui ascesa era stata favorita proprio dall’introduzione del carro da guerra, divennero solidali, a scapito della popolazione piú bassa. Gli «editti di giustizia», volti ad azzerare i debiti persero
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Rilievo con raffigurazione di portatori di offerte, da Ugarit (Siria, ai confini tra Mesopotamia e Asia Minore). I mill. a.C. Ankara, Museo Archeologico. In basso statuetta in argento raffigurante un portatore di offerte, da Susa. XIV sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre
efficacia fino a scomparire, i prestatori divennero il palazzo e l’élite che l’attorniava. Babilonia uscí da questa nuova fase ridimensionata, pur restando fra le prime potenze. Divenne uno degli Stati vicino-orientali di media/grande portata, insieme agli Elamiti, ai Khurriti di Mitanni poi sostituiti dagli Assiri, agli Ittiti dell’Anatolia. Sotto costoro, retti da «grandi re», stavano staterelli vassalli, governati da «piccoli re» che godevano della loro protezione. I «grandi re» si chiamavano fra loro «fratelli», si imparentavano attraverso matrimoni diplomatici, si scambiavano doni e stilavano accordi che si pretendevano rigorosamente paritetici. Anche le guerre dovevano essere condotte in modo «paritetico», senza inganni e attacchi a sorpresa, ma con regole precise, diremmo quasi «cavalleresche», con un carattere ordalico che voleva contrapposti ceti di pari livello. Non a caso, siamo al tempo della guerra di Troia. Sebbene retta da sovrani stranieri, il prestigio che Babilonia aveva acquisito nel suo
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luminoso passato trovò un’applicazione nell’uso dell’accadico babilonese come lingua diplomatica internazionale.
Matrimoni a peso d’oro Non sappiano come e quale cassita abbia conquistato Babilonia, ma fu un re cassita a riportare in città la statua del dio nazionale Marduk, che l’ittita Murshili aveva trasferito a nord, nella regione di Khana, posta intorno e oltre Mari. Il «Paese del Mare», a sud, venne inglobato nella nuova nazione, sicché Babilonia (in cassita Karduniash, in egiziano Shankhara) fu ritenuta a tutti gli effetti uno degli Stati retti da un «grande re». Il vero nemico fu questa volta l’Assiria, che si era liberata dalla stretta dei Khurriti che la circondavano, si era allargata a loro spese e aveva iniziato una seria espansione. Per quanto la potenza dei vecchi tempi si fosse ridotta, sia per la nascita di nuovi Stati che per lo spostamento del baricentro politico, Babilonia continuava a svolgere il suo ruolo, intrattenendo rapporti, sia
epistolari che matrimoniali, anche con l’Egitto. Un re cassita, Burna-Buriash (1375-1347), non potendo avere una principessa egiziana, sposò la figlia del re assiro Assur-uballit (1365-1330), ma le nozze aprirono una fase assai turbolenta. Il figlio nato da questo matrimonio, erede al trono babilonese, venne eliminato da una rivolta di palazzo, causando l’intervento del sovrano assiro, che impose a Babilonia, come re, il fratello minore dell’ucciso. Questi, sentendosi piú babilonese che assiro, combatté contro il popolo di suo nonno, poi si volse verso l’Elam con felice fortuna, riuscendo anche a conquistare Susa. I rapporti con l’Assiria rimasero sostanzialmente ostili, finché furono risolti da uno scontro decisivo tra il re cassita Kastiliash IV (1242- 1235) e il grande sovrano assiro Tukulti-Ninurta I (1244 -1208 ), che prese prigioniero il nemico e poi, conquistata Babilonia, vi mise a governare reggenti di comodo, trasferendo nel suo Paese la statua del dio Marduk. La situazione, non certo felice per Babilonia, si risolse alla morte di Tukulti-Ninurta. I Cassiti tornarono a regnarvi, finché i nemici ormai storici, Assiri ed Elamiti, riuscirono a fiaccarli. Furono gli Elamiti a dare il colpo finale: il loro re ShutrukNakhkhunte invase la regione, depredando le località babilonesi: tra queste Eshnunna, poi Sippar – da cui probabilmente portarono a Susa la stele del «codice» di Hammurabi – e Dur-Kurigalzu presso l’odierna Baghdad, sede di un palazzo reale cassita e di una ziqqurat di cui si possono ancora vedere i resti. Il figlio KutirNakhkhunte conquistò infine Babilonia, facendo intraprendere, questa volta in tutt’altra direzione, un altro viaggio all’«errante» statua di Marduk. Quasi contemporaneamente altre entità politiche caddero per ragioni del tutto diverse ed estranee alla Mesopotamia: si erano affacciati con prepotenza alla ribalta i Popoli
Statuetta in elettro raffigurante un portatore di offerte, da Susa. XIV sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre
del Mare. L’Egitto riusci a resistergli; Ugarit, un’importante città sulla costa orientale del Mediterraneo, cadde; gli Ittiti cedettero, anche su sollecitazione di altre pressioni. Fu cosí che uno dei «popoli», i piumati Filistei, si stabilí in quella fetta di terra, la Palestina, che da loro prese il nome che ancora mantiene. In compenso non ne soffrí la cultura. Come si è detto e si dirà per altri popoli, anche qui si può affermare che i vinti conquistarono i conquistatori, perché i rozzi Cassiti non imposero su Babilonia un barbarico tallone, ma si amalgamarono alla sua altezza spirituale.
Un’impronta nuova e personale In quest’epoca i grandi temi, anche epici, sorti in età paleobabilonese vengono rivisitati, ricompattati in versioni-standard, i cui scribi «risistematori» sono talvolta noti. Costoro sono spesso considerati come autori, anche se, in realtà, non fecero altro che rielaborare e canonizzare opere i cui soggetti erano stati inventati in precedenza da altri. Ciò non toglie che abbiano dato un’impronta del tutto nuova e personale ai temi che avevano ereditato e ripreso, e che ci sia stata anche in quest’epoca una creatività, basata su sentimenti nuovi, che rispecchiava la situazione di un momento in cui l’uomo, con la perdita dell’importanza assoluta di Babilonia e con la crisi sociale e demografica, metteva in dubbio le sue certezze sul significato dell’esistenza. Una soluzione ai suoi dubbi, a parte il suicidio, era il fiducioso ricorso alla sconosciuta e intraducibile saggezza degli dèi, magari con l’aiuto dell’esorcismo, di cui Marduk di Babilonia fu divinità preminente. Soprattutto, insieme al figlio Nabu – dio di Borsippa –, Marduk diventò il protagonista di un grande ciclo cultuale che culminava con la Festa del Nuovo Anno; ma poteva anche essere, al pari di altre divinità, il dio personale con il quale stabilire un rapporto diretto attraverso la preghiera individuale, frutto di
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meditazione e introspezione. Né vanno dimenticate le nuove tecniche, che cominciano a essere utilizzate con successo: innovazioni che vengono dal Nord-Ovest, lungo un asse su cui gravitavano anche i maggiori interessi politici e commerciali rispetto ai quali Babilonia si trovava decentrata. Si redigono trattati su come colorare i tessuti, tra cui la porpora fenicia, su come preparare i profumi, il vetro e pietre semipreziose artificiali con cui sostituire quelle autentiche, piú rare e raffinate.
L’avvento degli Assiri La crisi attraversata da Babilonia, ma anche da tutto il mondo orientale, alle soglie del I millennio a.C. è stata considerata come il passaggio tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro. Furono le incursioni e le ondate migratorie esterne a dare la spallata a un mondo già in crisi demografica ed economica, dove le città erano abbandonate o ridotte e le terre coltivate ritornate ad aridi pascoli: non soltanto per l’irragionevole pretesa dei sovrani e dell’aristocrazia di arricchirsi a spese di una popolazione eccessivamente sfruttata, ma anche per il succedersi di anni di dura siccità. Questi aspetti, già molto negativi, ebbero conseguenze ancor piú negative: la rete dei canali venne trascurata e le zone disabitate e malsicure si ampliarono, mettendo in difficoltà la sicurezza e l’efficienza dei commerci. La caduta dei «grandi re» significò la distruzione di palazzi e di città, e dunque l’interruzione dei rapporti diplomatici e commerciali. Era caduto il regno degli Ittiti, era caduta la Grecia micenea, Cipro si era frazionata in staterelli con la contrapposizione di etnie differenti. Era crollata Babilonia. Per quanto ridimensionati, conservavano il loro potere l’ Egitto, che aveva respinto gli invasori, e l’Assiria, che non ne era stata interessata. Cambiavano cosí i tempi. Nuovi procedimenti tecnici e la crisi commerciale del bronzo e del rame portarono alla diffusione del ferro, che si trovava in quantità modeste ma sufficienti per le esigenze del Paese e soprattutto proveniva da zone non lontane. Il nuovo metallo permise
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di realizzare terrazzamenti agricoli e intensificare le ricerche minerarie in montagna, oltre che perfezionare lo scavo di pozzi piú profondi in pianura. L’ampliamento delle zone aride vide l’impiego, in modo assai piú rilevante rispetto al passato, di cammelli e dromedari, che, grazie alla loro resistenza alla sete, consentirono di aprire nuove vie di comunicazione e di effettuare incursioni ancor piú rapide in guerra. Comunicazioni e combattenti si avvalsero anche del cavallo montato: dunque ambasciatori veloci e
Reggibriglia in bronzo raffigurante un uomo e un cavallo, da Yozgat (Anatolia). XIX sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Kudurru (cippo di confine ornato di rilievi, con simboli delle divinità e iscrizioni di registrazione territoriale) con le divinità della Babilonia cassita, da Susa XlI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
travolgenti cariche di cavalleria. Intanto, nuove genti si insediavano in Mesopotamia. Erano gli Aramei, latori di due importanti novità: la lingua aramaica e la scrittura alfabetica, destinate ad affiancarsi al babilonese tradizionale e alla scrittura sillabica cuneiforme, che tuttavia persistettero fino e oltre l’epoca persiana. Ma i documenti alfabetici, scritti su materiale assai piú deperibile e fragile dell’argille, scomparvero. A sud si infiltrarono invece i Caldei, in tribú sedentarizzate e potenti, che iniziarono a far sentire la loro presenza nella zona babilonese, mai rassegnata al dominio elamita. Intanto a Babilonia si era imposta la cosiddetta Il Dinastia di lsin (1156-1025), che prese il nome da quella città già tanto potente prima della definitiva affermazione di Hammurabi. Il re Nabucodonosor I (da non confondere con il futuro grande Nabucodonosor della Bibbia) alla fine del XII secolo reagí positivamente contro l’Elam, riuscendo a capovolgere la situazione, fino a occupare Susa, nel frattempo divenuta capitale. La statua di Marduk – e possiamo immaginare con quali festeggiamenti – poté cosí fare il suo trionfale ritorno.
degli Assiri, che reagirono alle tribú e agli Stati aramaici, li sconfissero e portarono la loro nazione a enorme potenza, fino ad Assurbanipal due secoli dopo. Sono i tempi della propaganda terroristica degli Assiri, dei loro assedi con arieti e carri armati, delle grandi costruzioni di Ninive e di Nimrud, degli enormi tori alati dal volto umano, delle lunghe serie di bassorilievi che raffigurano re, geni alati, guerre, assedi, o cacce alle gazzelle, ai cavalli selvatici, ai leoni. Sono gli anni, insomma, di un grande «impero», destinato però a crollare proprio a opera di Babilonia, alleata dei Medi. Tuttavia, in questi due secoli,
Un periodo difficile La cacciata degli Elamiti riportò Babilonia a contatto con l’Assiria, con esito meno fortunato. I suoi commerci non potevano usufruire verso il nord della via dell’Eufrate, chiusa anche dalle tribú aramee, e a sud della via del Golfo Arabico, chiusa dalle tribú caldee. Le crisi precedenti non si attenuarono. Anzi, la popolazione della zona babilonese diminuí ulteriormente, dimezzandosi in alcune regioni o addirittura riducendosi a un quarto in altre, per l’aggravarsi dei vecchi problemi, ora complicati dalle nuove infiltrazioni nomadiche, dagli scontri bellici continui, da siccità ed epidemie falcidianti. Di piú, a Babilonia l’instabilità politica era di casa. Si susseguirono dinastie diverse, con sovrani del «Paese del Mare» (1024-1004), altri dal nome accadico, e ci fu anche il caso di un Elamita (983-978). A partire dal IX secolo si verificò l’espansione
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Babilonia dovette piú volte sopportare l’intervento, se non l’occupazione, dei «cugini» settentrionali. Un esempio significativo si verificò proprio nel IX secolo: quando a Babilonia regnava Marduk-zakir-shumi, suo fratello, Marduk-bel-usate, lo costrinse a cedergli metà del regno. Il re chiese aiuto all’assiro Salmanassar III (8 58-824), re potentissimo che sconfisse l’usurpatore, raggiunse persino il Golfo Arabico – battendo i Caldei –, ricevette beni preziosi a Babilonia, ma fece anche offerte nelle città sante, cioè la stessa capitale, Borsippa e Kuta, a dimostrazione di quale venerazione e considerazione gli Assiri portassero verso Babilonia. Insieme alle figure dei vinti, Salmanassar fece scolpire sulla base del suo trono una scena famosa, che lo ritrae mentre stringe la mano del re di Babilonia, Marduk-zakir-shumi. È un gesto solo apparentemente paritetico, ma poco dopo il favore venne ricompensato: una rivolta in Assiria venne fronteggiata dapprima dallo stesso Salmanassar e poi da suo figlio Shamshi-Adad V (823-811), marito di Semiramide. Costui stilò con Marduk-zakirshumi un trattato di amicizia, palesemente a favore di Babilonia: vi sono indicate solo divinità babilonesi e il sovrano assiro non porta il titolo di re.
Caccia grossa come svago Per Shamshi-Adad il trattato ebbe tuttavia un esito assai positivo perché, ristabilito il suo dominio sull’Assiria, poté iniziare una serie di campagne vittoriose in varie direzioni Alla fine si volse proprio contro Babilonia e il suo nuovo sovrano, Marduk-balassu-iqbi (si noterà la persistenza del nome del dio Marduk negli antroponimi reali, e piú oltre si noterà quella del dio Nabu, figlio di Marduk). Concedendosi qualche piacevole sosta per cacciare i leoni che ancora vivevano numerosi nella zona, il re assiro scese verso Babilonia, conquistando città e villaggi e sconfiggendo l’esercito nemico. Ripeté l’operazione vittoriosa un anno piú tardi, ma, durante il suo ritorno, il re di
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Babilonia, al quale aveva risparmiato la vita, morí. Shamshi-Adad non riconobbe il nuovo sovrano e cosí, l’anno successivo, ridiscese a Babilonia e la conquistò. Portò a Ninive il re, la sua famiglia, e un grande bottino, ma anch’egli rese significativamente omaggio alle divinità delle città sante babilonesi. Ovviamente stabilí anche, a proprio favore, nuovi confini, ma con questa mossa segnò la sua fine: i Babilonesi si ribellarono e cosí da Ninive dovette scendere nuovamente a Babilonia; ma, nel pieno dell’assedio, cadde ucciso sotto le mura della città. Alcuni dei sovrani assiri che gli succedettero non furono certo benevoli con quella città, pur essendo costretti dai fatti e dalla storia a considerarla il centro della cultura mesopotamica, grazie all’immensa e multiforme produzione letteraria e alla conservazione e trasmissione, operata da Babilonia, della cultura sumerica. C’erano infatti grandi differenze tra le due entità. Tra l’altro, gli Assiri mantennero
Nella pagina accanto e in basso i due lati di una stele di confine (kudurru) del re di Babilonia Marduk-zakirshamu, recanti una lunga iscrizione cuneiforme. IX Sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Sul particolare della sommità riprodotto in questa pagina si riconoscono il sovrano (a sinistra) e un dignitario.
sempre, sostanzialmente, la loro integrità etnica, mentre Babilonia vide la sua popolazione mescolarsi a nuove genti: Amorrei, Cassiti, Aramei, Caldei, amalgamati però dalla grande cultura locale.
Soggezione culturale Le differenze sembrano insanabili, ma è un fatto che gli Assiri ebbero spesso un atteggiamento di fondo improntato al rispetto verso Babilonia: scrissero una Storia sincronica, ricordando le guerre, ma anche i patti di pace e di alleanza; compilarono una Lista sincronica dei rispettivi re, a sottolineare il legame particolare che li univa; considerarono il territorio babilonese come un’entità che non si doveva smembrare in staterelli e province; né va dimenticato che il loro sovrano Assurbanipal (668-627), quando ormai si avvicinava la fine della potenza assira, volle raccogliere l’immensa produzione del pensiero babilonese nella sua enorme «biblioteca» di Ninive.
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Anche il figlio di Semiramide, Adad-narari lII (810-783), sembra abbia fatto visita alla città santa di Babilonia, dando prova della sua amicizia anche con la restituzione di prigionieri di guerra e di statue trafugate da suo padre, sicché «le genti di Assiria e di Babilonia vissero come fratelli». Semiramide fece persino costruire a Ninive un tempio per il dio babilonese Nabu, figlio di Marduk, che entrò prepotentemente nel pantheon assiro anche nella residenza reale di Nimrud. In seguito le cose cambiarono: Tiglat-pileser lII (744-727) si scontrò con Babilonia, che era ormai sotto l’influenza caldea. Il re assiro riuscí però a ricacciare i Caldei nelle paludi del Sud e si proclamò re di Babilonia, ma con un nome diverso dal suo. Altrettanto fece il suo successore, Salmanassar V (726-722).
Sul viale del tramonto In seguito, però, Sargon Il (721-705) dovette confrontarsi con un certo Marduk-apla-iddina Il (721-710), noto anche dalla Bibbia con il nome di Merodak -baladan, capo assoluto dei Caldei, a loro volta appoggiati dai ritrovati Elamiti. Babilonia imboccò cosí la via del declino. La sua rovina fu decretata dal sovrano assiro Sennacherib (704-681), che dapprima mise nella città un suo reggente, ma fu poi costretto a nominarvi vicario il suo stesso figlio, che però
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I quartieri reali di Susa (nell’odierno Iran), città che, nei, secoli, fu uno dei piú importanti interlocutori di Babilonia.
gli Elamiti, durante una campagna militare, riuscirono a catturare e uccidere. Il grande sovrano assiro, con alterne fortune, continuò a combattere, fino a quando non riuscí a impadronirsi di Babilonia. Per la città furono i giorni piú amari: deviate le acque dell’Eufrate, Sennacherib la sommerse, distruggendola interamente, con l’intento di cancellarla in modo definitivo dalla faccia della terra. Il rispetto che Babilonia si era meritata nei secoli fece sí che l’azione sconsiderata di Sennacherib fosse poi severamente condannata. Ma il fatto rimase, con le sue tremende conseguenze. Preoccupato, il figlio dell’empio assiro, Asarhaddon (680-669), si mise subito all’opera per ricostruire la città annientata, pur continuando nella politica ostile alle tribú caldee e agli altri nemici dell’Assiria, compreso l’Egitto, che riuscí in parte a occupare. Alla fine del regno, Asarhaddon divise a metà l’impero, concedendo Babilonia al figlio maggiore, ma nominando suo successore Assurbanipal (668-627), il Sardanapalo dei Greci, che conquistò l’Egitto. Ma non si fermò qui: il fratello volle liberarsi, a Babilonia, della tutela assira con l’aiuto di vari alleati e degli Elamiti, che Assurbanipal riuscí ad annientare. Il ribelle finí cosí nel rogo del suo palazzo babilonese, la città venne affidata a un vicario
assiro e l’Elam fu interamente occupato. L’impero assiro ha raggiunto il suo apogeo, ma si trova a sua volta a due passi dalla fine. Nuovi popoli si sono intanto affacciati alla storia: Cimmeri, Sciti, Frigi, Lidi, Medi, Arabi. In aggiunta ai nemici storici dell’Assiria, costituivano entità pericolose, che non lasciavano presagire nulla di buono.
E venne il tempo di Nabucodonosor Pochi anni separano la morte di Assurbanipal dall’ascesa al trono di Babilonia di un capo dei Caldei: Nabopolassar (625-605 a.C.). L’Assiria ha ormai imboccato la via della fine, ma anche per Babilonia è un’epoca infausta, a causa di guerre e carestie. Nella città si crea un vuoto di potere, del quale approfitta Nabopolassar dal «Paese del Mare». Gli Assiri non sono solo a nord, ma addirittura a sud di Babilonia. Nabopolassar li caccia, ne erode il territorio, li separa dall’Egitto che, alleandosi con loro, si era guadagnata la costa siro-palestinese.
L’assalto alla città sumerica di Lagash, cosí come venne immaginato in un acquerello dell’artista Alan SorrelI. 1951. Londra, British Museum. La dominazione cassita fu uno dei maggiori traumi vissuti da Babilonia, ma non l’unico. Con essa iniziò un’epoca di instabilità politica della quale finirono con l’approfittare gli Assiri.
Dai monti Zagros, naturale confine orientale della Mesopotamia, scendono a dar man forte ai Babilonesi i Medi di Ciassare, che per primi conquistano Assur, l’antica capitale. Poi, insieme attaccano, espugnano, saccheggiano e distruggono Ninive. Per gli Assiri, tanto potenti fino a poco tempo prima, è la fine; si ritirano a Charran (la futura Charrae dei Romani), ma da lí Medi e Babilonesi li cacciano definitivamente. L’Assiria non esiste piú. Rimane l’Egitto, che non intende rientrare nei suoi confini naturali. La soluzione dello scontro è opera del figlio del re babilonese, Nabucodonosor Il (604-562), che caccia gli Egiziani verso il Sud della costa mediterranea. Giunto a Hama, in Siria, viene a sapere che il padre è morto; e torna allora a Babilonia a tappe forzate, per far valere i suoi diritti alla successione. È finalmente il tempo del grande Nabucodonosor, sotto il quale i Babilonesi si trovano a gestire un impero ancor piú grande di quello assiro. La loro città diventa il centro del
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mondo e, di conseguenza, il grande re si dedica a un’intensa attività edilizia, pur non dimenticando altre città, come Borsippa, sede del tempio di quel dio Nabu che ha preso, in questi anni, il posto di Marduk nell’onomastica dei sovrani. Nabucodonosor porta a compimento lavori edilizi incominciati dal padre, che già lo aveva fatto simbolicamente lavorare alla ricostruzione della Torre di Babele; altre costruzioni vengono modificate e ampliate. Si espande cosí l’immensa Babilonia, dedita a cerimonie di culto sfarzose, che culminano con la Festa dell’Anno Nuovo. Quest’ultima consisteva in una processione che partiva dal complesso templare di Marduk, percorreva una lunga via, rasentando il palazzo del sovrano, passava sotto la Porta di lshtar e raggiungeva il tempio della festa, situato fuori città. La statua di Marduk si incontrava cosí con quella del figlio Nabu, che ogni anno veniva portata a Babilonia da Borsippa. Accompagnavano il percorso figure di tori, di draghi, di leoni ottenute a rilievo sui muri laterali e sulla porta, in alcuni casi su mattoni smaltati e dipinti. Il fondo era blu, come il muro del tempio in cima alla Torre, che splendeva lontano. Oggi della Torre rimane un canale quadrato che ne segna il perimetro; la Porta di lshtar, imitata in una copia piú modesta a Babilonia, è stata parzialmente
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A destra ricostruzione dei palazzi di Nimrud, in un’incisione di Sir Austin Henry Layard, lo scopritore della città sul Tigri. 1853. Londra, British Museum. In basso rilievo raffigurante l’assedio di una città da parte di re Assurbanipal, da Nimrud. VII sec. a.C. Londra, British Museum.
ricomposta nel Museo di Berlino; il palazzo del re, già ridotto a una distesa di rovine, è stato ricostruito con criteri non sempre condivisibili, e allo stesso modo si è proceduto con un tempio non lontano dalla porta.
Carri in manovra La magnificenza di Babilonia era tale che è difficile immaginarla. La città di Nabucodonosor si estendeva su una superficie di oltre 800 ettari, non tutti costruiti, ma con ampi spazi per coltivazioni e frutteti. Due erano i sistemi di difesa: il primo era formato da tre cerchie di mura e, a intervalli di 52 m, si alzavano le torri, mentre lo spazio tra i muri era coperto da detriti sui quali, presumibilmente, correva un camminamento che consentiva ai carri di girare su se stessi anche con una pariglia di quattro cavalli (se prestiamo fede al racconto di Erodoto, che visitò Babilonia). Strabone racconta che due quadrighe in corsa potevano facilmente superarsi. Altre fortificazioni, «interne», erano invece formate da due muri di mattoni cotti al sole. Lo spazio tra le due strutture era stato riempito, forse per servire da strada per il rapido spostamento delle truppe di difesa. A una ventina di metri dalla cerchia piú esterna, una
OCCHIO ALLE FONTI!
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emiramide costruí Babilonia (Ctesia) di cui era regina (Erodoto, Berosso). In realtà, Semiramide/ Sammuramat fu moglie e madre di re assiri e reggente per il figlio; introdusse in Assiria il culto di un re babilonese, tentando di favorire la pace con Babilonia. Sardanapalo fu vinto dai Medi e perí in un rogo (Diodoro, Ctesia e altri). In realtà, furono un successore di Sardanapalo/Assurbanipal a essere vinto dai Medi, e un suo fratello a perire in un rogo. Nabucodonosor divenne pazzo e visse per un certo tempo isolato e tra gli animali (Bibbia, Libro di Daniele). In realtà, fu Nabonedo a essere ritenuto (o fatto credere) pazzo e a spostarsi in zone desertiche dell’Arabia per ragioni politiche ed economico-commerciali. D’altronde si parla di Nabucodonosor in questi termini anche quando viene definito padre di Belsazzar, che in realtà era proprio figlio di Nabonedo. Belsazzar era figlio di Nabucodonosor e durante il suo regno i Medi e i Persiani, in particolare Dario il Medo, entrarono in Babilonia (Bibbia, Libro di Daniele ). In realtà, Belsazzar era figlio di Nabonedo e solo reggente di Babilonia durante l’assenza del padre, che era presente nella città quando vi entrarono i nemici. Una spia del fatto che era il secondo uomo dell’impero, e non il primo, è l’offerta a Daniele di essere il terzo uomo piú importante. Inoltre, fu Ciro il Persiano a entrare in Babilonia. Dario è il nome di re persiani successivi.
scarpata di mattoni proteggeva il fossato, largo 50 m circa e collegato all’Eufrate. Anche qui erano inserite torri, grandi e piccole, alla distanza di 18 m circa l’una dall’altra per il muro interno e di circa 20 per quello esterno. La lunghezza totale del circuito era di 7 km, con 8 grandi porte d’accesso, che portavano i nomi di divinità del pantheon babilonese. La città era percorsa da strade a reticolo e divisa in grandi quartieri.
I giardini pensili Un palazzo, detto «d’Estate», sorgeva in corrispondenza dell’angolo settentrionale delle mura esterne, nel punto in cui si avvicinavano al fiume. Magnifico doveva essere il Palazzo Sud, ora ricostruito, nel quale morí Alessandro Magno. Qui spaziavano ampi cortili e saloni di rappresentanza, tra cui la Sala del Trono. Una zona provvista di strutture particolari ha fatto pensare che qui si trovassero i famosi «giardini pensili», ma pare piuttosto che si trattasse di magazzini. D’altronde questa collocazione mal si accorda con la lontananza dalle rive del fiume, da cui veniva tratta l’acqua per l’irrigazione. Probabilmente, i «giardini pensili» erano invece collocati, nel Palazzo Nord, separato da quello Sud dalle mura.
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una sorta di museo, nel quale erano custodite testimonianze e opere d’arte di altri Paesi, frutto delle varie conquiste: statue, stele, cilindri iscritti in terracotta, rilievi, oggetti preziosi, tavolette.
La «cattività» babilonese
Questa costruzione era un enorme avancorpo, piú alto, quasi un’acropoli. Un altro avancorpo simile sorgeva sullo stesso lato esterno delle mura, con la Porta di lshtar nel mezzo. Il Palazzo Nord accoglieva probabilmente la dimora privata del re, che poteva accedere facilmente ai «giardini pensili» fatti a gradoni ascendenti, quasi come un teatro, con la base in pietra resa impermeabile con il bitume. Al di sopra, uno strato di terra permetteva la coltivazione di alberi d’alto fusto. Curzio Rufo parla di alberi alti 15 m e con uno spessore di 4, mentre Diodoro scrive che una macchina a spirale faceva salire l’acqua dell’Eufrate. Nello stesso palazzo aveva sede
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All’epoca di Nabucodonosor, a Babilonia e nel territorio babilonese, erano affluiti migliaia di deportati di ogni nazione vinta e sottomessa. Purtroppo, non ne abbiamo raffigurazioni iconografiche, come in Assiria, dove Arabi, Urartei, Siriani, Mannei, Fenici, Medi, Elamiti, Egiziani, Giudei e altri sono rappresentati con le connotazioni che li distinguono e li evidenziano, cosí come era accaduto anche in Egitto, dove Libici, Etiopici, Siriani, insieme a Filistei e ad altri Popoli del Mare, erano stati «fotografati», con una puntualizzazione meticolosa delle caratteristiche somatiche, oltre che dell’armamento e dell’abbigliamento. Possiamo però disporre di una documentazione letteraria – basata sulla Bibbia e sui documenti cuneiformi contemporanei all’esilio degli Ebrei e degli altri popoli sotto Nabucodonosor – che ci mostra come a Babilonia la situazione degli esiliati fosse diversa da quella dei deportati in Assiria, sottomessi in una forma piú pesante e piú dura. È bene, dunque, parlare di «esilio» piuttosto che di «cattività», poiché il soggiorno in terra babilonese non fu per gli stranieri una squallida e atroce prigionia. Babilonia era una metropoli internazionale e cosmopolita, aperta a tutti. Delle deportazioni effettuate da Nabucodonosor si può rintracciare l’eco nei testi contemporanei: vi troviamo Filistei, Fenici, Elamiti, Medi, Persiani, Egiziani, Greci, Lidi, Cilici. Ci sono anche i figli di un re filisteo di Ascalona, insieme a marinai, funzionari, cantori di quella città. I Fenici citati erano di
Tiro, da cui provenivano almeno 290 marinai, ma c’erano anche carpentieri di Biblo e di Arvad, come d’altronde ce n’erano di greci. Molti Egiziani erano guardiani di edifici o di rimesse di navi, oppure addetti alle cure delle cavalle e delle scimmie. Abbiamo anche varie notizie di Ebrei, che confermano quanto abbiamo letto da sempre nella Bibbia, che parla dettagliatamente delle loro deportazioni. La prima avvenne nell’ottavo anno di Nabucodonosor. C’era stato in precedenza un attacco dei generali babilonesi, poi un altro sotto la guida dello stesso sovrano. Il re Joachin, di soli 18 anni, si consegnò spontaneamente a Nabucodonosor, che lo fece prigioniero, portando con sé il tesoro del Tempio e della casa reale e facendo a pezzi il vasellame d’oro che Salomone aveva fatto fabbricare. Risparmiò però altro vasellame, evidentemente meno prezioso. La conquista e la deportazione furono limitatamente drammatiche: non si ebbero massacri, torture, né distruzioni. Il re venne sostituito, e a Babilonia fu portata, con lui e la sua corte, solo una parte della popolazione: operai e soldati, affinché potessero essere impiegati. Nel diciannovesimo anno, in seguito al tradimento e alla ribellione di Sedecia, il
In basso Babilonia. Un tratto delle mura dell’antica città nella ricostruzione effettuata, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, dalla Direzione delle Antichità dell’Iraq. Nella pagina accanto, in alto rilievo raffigurante l’assedio di una città. Epoca di Tiglat-pileser III, VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, in basso stele raffigurante, a sinistra, il re babilonese Mardukapla-iddina Il (721-711 a.C.) insieme a un funzionario. Berlino, Staatliche Museen.
sovrano ebreo che Nabucodonosor aveva messo sul trono, i generali babilonesi raggiunsero Gerusalemme e la conquistarono. Il capo delle guardie, Nabuzardan, diede alle fiamme il tempio, il palazzo e l’intera città. I Babilonesi demolirono le mura e fecero a pezzi le grandi realizzazioni in bronzo del tempio, come le colonne e il bacino, portandone in patria i frammenti, insieme al vasellame fatto con la stessa lega. Altro vasellame d’oro e d’argento, evidentemente scampato al primo saccheggio o reintegrato in quel decennio, finí requisito dal capo delle guardie.
Le ragioni di una punizione Questa volta la repressione fu dura, non solo per punire il tradimento di un uomo che doveva a Nabucodonosor il suo potere, ma perché la Siria-Palestina aveva da sempre rappresentato un problema per il sovrano babilonese, essendo una zona di frizione tra la Mesopotamia e un Egitto costantemente ostile. Un re che fosse stato un vassallo fedele e fidato doveva perciò costituire un punto fermo nella politica di Nabucodonosor; il suo tradimento equivaleva invece allo scardinamento di un sistema difensivo creduto ormai consolidato.
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Cosí Sedecia, catturato mentre fuggiva, dovette assistere all’uccisione dei suoi figli e venne quindi accecato e deportato. Si procedette anche all’esecuzione dimostrativa di una settantina di persone, alcune delle quali di particolare rilievo, e fu deportato il popolo, tranne i ceti inferiori, ai quali venne affidato, sotto la sovrintendenza di un tal Godolia, il terreno da coltivare. Ci fu anche una terza deportazione, avvenuta intorno al ventitreesimo anno del regno di Nabucodonosor, probabilmente quando il sovrano vinse Ammoniti e Moabiti e, in quell’occasione, puní gli Ebrei che avevano ucciso il fedele Godolia. Da quanto si è visto, le deportazioni avvennero in circostanze diverse: in un clima di tolleranza e di sostanziale
A destra la Porta di Ishtar ricostruita nel Vorderasiatisches Museum di Berlino. VI sec. a.C. In basso plastico dell’area centrale di Babilonia: in primo piano, la Via della Processione, che conduce alla Porta di Ishtar; sullo sfondo, la ziqqurat di Marduk. Gerusalemme, Bible Lands Museum.
Eufrate
Palazzo d’Estate
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Porta di Ishtar
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Porta di Enlil
Porta di Marduk
Città nuova Kullab Porta di Lugalirra
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Porta di Adad
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Avancorpo occidentale
Porta di Shamash
Palazzo principale
Porta di Ishtar
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Palazzo meridionale
Porta di Marduk
Tempio di Ishtar
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Porta di Zababa
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«perdono» la prima, di violenta reazione la seconda e, si immagina, anche la terza. Il trattamento riservato agli Ebrei dovette essere, dunque, presumibilmente differente nei due casi. Nel primo il re e il suo entourage non furono imprigionati, ma accolti nella corte babilonese, e qui nutriti con razioni regolari, quelle che risultano dai testi amministrativi in cui è nominato Ja’u-kin re di Jakhudu – cioè Joachin re di Giuda –, insieme a cinque suoi figli e ad altri otto Giudei. E poiché la Bibbia dice che questo re fu liberato dalla prigione da Evil-Merodac, figlio e successore di Nabucodonosor, può darsi che dopo il periodo sereno in cui godeva dell’ospitalità reale sia stato vittima della reazione innescata dalla ribellione di Sedecia. I testi babilonesi nominano altri Ebrei, tra cui un frutticoltore, che potremmo immaginare impiegato nella manutenzione dei giardini pensili. La maggior parte degli Ebrei non fu però concentrata nella sola Babilonia. In particolare, gli venne destinato il territorio
u
Euf
In alto la decorazione in mattoni smaltati che ornava uno dei lati della Via della Processione di Babilonia. VI sec. a.C. Berlino, Vorderasiatisches Museum. A destra pianta di Babilonia con le tre principali aree della città, i nomi dei quartieri e le fortificazioni completate sotto Nabucodonosor II (604-562 a.C.).
Porta di Zababa
Eridu
Kumar
Porta del Re
Fossato
Fossato
Tempio di Marduk Tempio di Ishara
Tempio di Ninutta
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circostante la città di Nippur, a sud: un’area forse ormai scarsamente abitata o addirittura spopolata, sicché poteva esserci il duplice vantaggio di non interferire con popolazioni precedentemente stanziate e di recuperare terreni incolti. Qui arrivava il Kabar, il canale collettore presso cui, dice il profeta Ezechiele, stavano i deportati ebrei.
Mogli straniere Costoro, lungi dall’essere schiavi – come si è spesso pensato – conducevano un’esistenza piú che dignitosa. Potevano riunirsi liberamente, comprare terreni, costruirsi la casa e comunicare con chi era rimasto nella madrepatria. Non furono nemmeno ghettizzati, ma vissero in amichevole contatto con altre popolazioni stanziate nelle vicinanze, come prova il fatto che molti di loro presero mogli cananee, ittite, ferezee, gebusee, ammonite, moabite, egiziane e amorree. Dai testi babilonesi risulta che c’erano Ebrei anche in altre città, come Sippar, Ur, Borsippa, che però non furono soggetti a una diaspora coatta, tanto che poterono mantenere la loro identità, il loro culto e la loro fede, pur subendo l’influenza dell’ambiente in cui vivevano: adottarono il calendario locale, alcuni di essi presero nomi babilonesi, accolsero l’aramaico
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In alto veduta aerea dei resti della ziqqurat di Marduk. In basso un settore del grande complesso templare al momento dello scavo. Nella pagina accanto miniatura raffigurante gli Ebrei in catene davanti al re Nabucodonosor (in alto) e prigionieri all’interno delle mura di Babilonia (in basso), dal Salterio Beatae Elisabeth. XlII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico. L’immagine si ispira al testo del Salmo 137 (vedi box a p. 128).
come lingua corrente, inglobarono nella loro cultura aspetti mitologici mesopotamici, sia pure rielaborandoli e adattandoli. Risulta singolare, a questo proposito, una lettera che il profeta Geremia scrisse loro prima della seconda deportazione, esortandoli a stabilirsi in Mesopotamia, coltivando campi, sposandosi, e curando la prosperità di quel Paese: indice di ciò che era loro consentito fare e della libertà di cui godevano, tale che anche lettere inviate agli esponenti anti-babilonesi potevano essere spedite tranquillamente a Gerusalemme. All’indomani del tradimento di Sedecia, la situazione mutò e in questa circostanza Nabucodonosor dovette assumere l’atteggiamento per il quale fu poi paragonato a uno spietato aguzzino e Babilonia promossa a sede e madre di tutte le nefandezze. In ogni caso, quando poterono tornare a Gerusalemme, gli Ebrei non erano certamente poveri, e anzi vi fu chi preferí restare. Ne ritroviamo molti, benestanti e ben sistemati, nei documenti della Babilonia persiana. Nel corso del VI secolo Babilonia visse il suo apogeo sotto Nabucodonosor, ma poi, con l’avvento dei Persiani, perse anche il suo ruolo di capitale di uno Stato. Il figlio di Nabucodonosor, Evil-Merodac, non poté infatti
regnare per molto (561-560): venne assassinato, forse su istigazione di un suo cognato, e poi suo successore, Neriglissar, che non apparteneva alla dinastia, ma era un alto ufficiale militare. Anche Neriglissar regnò tuttavia per pochi anni (559-556), pur compiendo una felice spedizione militare in Cilicia. Ancor meno (pochi mesi) regnò suo figlio La-abashshi-Marduk, presto scalzato da un altro usurpatore, Nabonedo (555-539). Quest’ultimo è una figura certamente singolare e interessante, ma ebbe la sfortuna di regnare in un periodo in cui avanzò minaccioso, sino a decretarne la fine, un nuovo, potente nemico: la Persia. Questa nazione, infatti, aveva nel frattempo eliminato i Medi, con i quali, a suo tempo, Nabopolassar si era spartito il mondo.
LE DEPORTAZIONI DEGLI EBREI PRIMA DEPORTAZIONE 3023 persone (secondo Geremia) 10 000 persone di cui 7000 guerrieri e 1000 artigiani (secondo il Libro Il dei Re) SECONDA DEPORTAZIONE 832 persone (secondo Geremia) TERZA DEPORTAZIONE 745 persone (secondo Geremia) TOTALE 4600 persone (secondo Geremia)
Chi fu veramente Nabonedo? Molto si è discusso e si discute di Nabonedo, dei suoi atteggiamenti e delle sue azioni inquietanti. È certo che la madre, Adad-guppi, era originaria di quella Harran che i Medi, vincendo gli Assiri, avevano conquistato, distruggendovi anche un importante tempio del dio-luna Sin. La donna, forse sacerdotessa di quel santuario e fervente adoratrice di Sin, era trasmigrata alla corte di Babilonia, servendo fedelmente Nabucodonosor e Neriglissar e favorendo l’ascesa al trono del figlio, a lei devotissimo. Sicuramente su sua richiesta, Nabonedo provvide alla ricostruzione del tempio nella lontana Harran, intervenendo anche sull’antica Torre/tempio di Ur, altra città dedicata al dio Sin. Ma fece anche di piú: pur riconoscendo a Marduk il ruolo di prima divinità babilonese, Nabonedo intensificò il culto di Sin, quasi volesse gradualmente sostituirlo a Marduk. In questa sua operazione deve certamente aver giocato anche il ruolo sempre piú potente del clero di Marduk, con i conseguenti contrasti che palazzo e tempio dovevano affrontare e risolvere a proposito dell’utilizzazione dei vari proventi fiscali provenienti dalle terre coltivate. La produzione agricola, favorita anche da un certo aumento della popolazione – pur dovendo
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BABILONIA
L’ESILIO
I
l Salmo 137 inizia con queste parole: «Lungo i fiumi di Babilonia dimoravamo, là insieme piangevamo ricordando Sion. Ai salici di quel paese avevamo appese le nostre cetre»; sono le parole riecheggiate nel coro del Nabucco (1842) musicato da Giuseppe Verdi: «Va’ pensiero sull’ali dorate, va· e ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano tiepide e molli l’aure dolci del suolo natal! (...) Arpa d’or dei fatidici vati, perché muta dal salice pendi?». Il Salmo ispiratore di questo canto, che Verdi rese tanto melodioso e nostalgico, termina però con una tremenda invettiva: «O Babilonia devastatrice, bravo colui che ti renderà la pariglia di ciò che ci hai fatto. Bravo chiunque afferrerà i tuoi bambini e li sbatterà contro la pietra!» (è chiaro da questo passo, come dalle leggi bibliche, che anche presso gli Ebrei vigeva la legge del taglione). Nonostante l’esilio sia stato mite, non era dunque mai cessato il risentimento contro i deportatori; e forse è nato da questo il mito della distruzione della Torre di Babele, cioè la ziqqurat di Babilonia, alla cui costruzione è possibile che siano stati impiegati anche degli Ebrei.
fronteggiare problemi di impaludamento e desertificazione delle terre – viveva una fase di ripresa, facilitata dal cessare delle guerre e dalla posizione dominante della nazione vincitrice. Non esistevano piú, tuttavia, piccole proprietà, ma latifondi di funzionari statali e, soprattutto, quelli appartenenti al clero e al sovrano, lavorati da popolazione servile composta da deportati, debitori insolventi, schiavi o salariati, tutti governati da amministratori a loro volta dipendenti dalle grandi entità proprietarie. La frizione fra il re e il clero di Marduk, che passò alla storia per la sua fama di scrutatore di stelle, dovette essere notevole. Favorire il culto di un proprio dio personale avrebbe potuto infliggere un colpo mortale ai potenti sacerdoti; e non stupisce davvero che ciò abbia causato la loro feroce reazione, tale da favorire la conquista da parte dei Persiani di Ciro (che entrarono in Babilonia senza colpo ferire), accompagnata da una sorta di damnatio memoriae di Nabonedo, descritto come pazzo, presuntuoso, ignorante ed eretico.
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In alto rilievo in avorio raffigurante una mucca che allatta, dalla Samaria. VIII sec. a.C. Gerusalemme, École Biblique et Archéologique Française.
Singolare è stata poi giudicata l’assenza da Babilonia, per circa un decennio, di Nabonedo, che lasciò la città nelle mani del figlio Belsazzar, per stabilirsi a Teima, in Arabia, spingendosi fino all’attuale Medina sulle ali di una felice spedizione militare. Quali ne furono le cause?
Schiaffo al sovrano Potrebbe essere stata una voluta lontananza da Babilonia per fiaccare il potere del clero: la Festa dell’Anno Nuovo, culmine delle manifestazioni religiose, non si poteva celebrare senza la presenza del re; la sua assenza impediva dunque lo svolgimento della maggiore cerimonia e di conseguenza l’esaltazione dell’apparato sacerdotale. Il complicato rituale prevedeva poi la riconferma del sovrano da parte del dio e la sua umiliazione con uno schiaffo. Timore di non essere rieletto per le mene dei sacerdoti? Rifiuto di sottostare all’umiliazione inflitta da un esponente della controparte? Può darsi, ma non va dimenticata la situazione politica ed economica: i Persiani iniziavano a stringere Babilonia in una morsa a tenaglia, privandola degli sbocchi commerciali ai quali doveva la sua prosperità, o, al limite, la sopravvivenza. Nabonedo può aver tentato allora di dominare con la forza la preziosa via commerciale che portava al Nord i prodotti dell’Arabia, con una lungimiranza notevole, ma scegliendo una politica destinata a rivelarsi perdente. Anche l’atteggiamento assunto dal figlio a Babilonia non sembra essergli stato del tutto favorevole. Decise allora di tornare, ma troppo tardi: poco dopo l’esercito di Ciro, acclamato dai vinti, entrò in Babilonia, scegliendo intelligentemente di rispettarne l’enorme valenza religiosa. La storia di Babilonia capitale di uno Stato tutto suo finisce qui. La città divenne in seguito
IL RITORNO A GERUSALEMME
G
li Ebrei che tornarono a Gerusalemme dopo la conquista persiana di Babilonia non si presentarono in patria a mani vuote. Dice la Bibbia che avevano 7337 schiavi, 245 cantanti, 736 cavalli e inoltre muli, cammelli e asini. Erano straordinariamente aumentati di numero rispetto agli antichi deportati: ne tornarono 42 360; e non sappiamo quanti rimasero in Mesopotamia.
capoluogo di un importante distretto persiano, ma anche oggetto di un’altra spietata distruzione, operata da Serse, irritato per una rivolta dei Babilonesi, ma certo maldisposto e frustrato dopo la disfatta infertagli dai Greci. Fu anche un grande polo di attrazione per Alessandro Magno, che qui morí (323), dopo aver sognato invano di ricostruire la Torre; ma questa finí smantellata dai Greci, che portarono mattoni a Seleucia, e dagli Arabi, che la
La loro ricchezza traspare dalle donazioni che fecero: alcuni capifamiglia diedero al tesoro del Tempio 20 000 dramme d’oro e 2200 mine d’argento. Gli altri diedero 20 000 dramme d’oro e 2000 mine d’argento. Un’altra fonte parla di 61 000 dramme d’oro e 5000 mine d’argento. Si tenga presente che la dramma persiana equivaleva a 5,5 gr circa, mentre la mina a 500 gr circa.
In alto l’assedio di Gerusalemme da parte del re di Babilonia Nabucodonosor l, in una stampa di Gabriel Bodmeer (1500-1599 circa).
sfruttarono ancor piú come cava. Poi la terra ha ricoperto le sue rovine e segnato il suo oblio. Fino a poco piú di un secolo fa, cioè fino a quando le ricerche degli archeologi e l’indagine degli assiriologi hanno iniziato a farla rivivere, non era rimasta che una piccola indicazione topografica: Tell Babil. Ma anche se non si sapeva ancora dove fosse, il nome Babilonia era accompagnato pur sempre da una fama imperitura.
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MONOGRAFIE
n. 20 luglio 2017 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Claudio Saporetti è stato professore di assiriologia all’Università di Pisa. Illustrazioni e immagini: il corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Archeo». Sono state inoltre utilizzate le seguenti immagini: Bridgeman Images: pp. 6/7, 112 (basso e p. 113) – DeA Picture Library: p. 34 (alto); A. Dagli Orti: p. 28 (basso), 64, 67, 127; G. Dagli Orti: pp. 45, 51 (basso), 68 (basso), 69, 77, 86, 116; A. De Gregorio; pp. 48 (basso e p. 49, basso), 71; M. Seemuller: p. 70 – Shutterstock: p. 125 (alto, a sinistra). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: ricostruzione dei palazzi di Nimrud, in un’incisione di Sir Austin Henry Layard, che scoprí i resti dell’antica città sul Tigri. 1853.
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