Archeo Monografie n. 23, Febbraio 2018

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MONOGRAFIE

NEL MONDO ANTICO di Sergio Ribichini

N°23 Febbraio 2018 Rivista Bimestrale

€ 7,90

MAGIA E DIVINAZIONE NEL MONDO ANTICO

MAGIA E DIVINAZIONE

My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

ARCHEO MONOGRAFIE

A HI I AGNTIC M A LI A

IN EDICOLA IL 17 GENNAIO 2018



MAGIA E DIVINAZIONE NEL MONDO ANTICO di Sergio Ribichini

LA MAGIA

6. Introduzione Esplorare l’occulto 12. Egitto Il dono degli dèi 24. Mesopotamia Nel regno dei demoni 36. Israele L’arte proibita 44. Grecia e Roma/1 Una disciplina «pericolosa» 58. Grecia e Roma/2 Maghi, streghe e stregoni

LA DIVINAZIONE

70. Introduzione Il presente non basta 84. Extispicina ed epatoscopia Verità nascoste 90. Segni premonitori Segni e prodigi 94. Ornitomanzia Un battito d’ala 96. Cleromanzia La sorte e le sorti 100. Oracoli illustri La bocca della verità 106. Necromanzia Messaggi dall’aldilà 110. Oniromanzia Sogni rivelatori 118. Astrologia Il destino è nel cielo 124. Critiche e declino Quella temibile curiosità


ESPLORARE L’OCCULTO Ogni civiltà del passato, a partire dalle culture del Vicino Oriente per arrivare alla Grecia e a Roma, ha dato vita a un proprio «mondo magico». Ma è possibile comprenderlo – o almeno spiegarlo – attraverso le nostre, moderne, categorie di pensiero? E che cosa distingue il concetto di «magia» da quello di «religione»? Materiali archeologici, ma anche testi letterari e il confronto con la documentazione etnologica, fanno da filo conduttore nella nostra indagine, alla ricerca della storia piú antica dei fenomeni magici | MAGIA E DIVINAZIONE | 6 |


Magia d’amore romana (La strega Sagana con l’etera Canidia, da un racconto di Orazio), olio su tela di Johann Erdmann Hummel. 1848. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Il dipinto si ispira a un passo dell’VIII Satira, nel quale il poeta narra di un rituale fatto dalle due streghe, Canidia e Sagana, con due pupazzi, uno di lana e uno di cera. Per richiamare gli spiriti infernali, le due donne sbranano a morsi un’agnella bruna, versandone il sangue in una fossa. Il rituale si svolge sull’Esquilino, antico luogo di sepoltura della plebe.

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a tradizione cristiana e i processi alle streghe di età medievale ci hanno abituato a una nozione negativa della magia, nella quale siamo portati a vedere un’arte maledetta, una scienza votata all’occulto, segreta per sua essenza ed efficace nei risultati grazie a un sicuro compromesso con le potenze infernali. Sul piano della ricerca scientifica, con il termine «magia», s’identificano parimenti pratiche rituali d’effetto automatico e uno specifico atteggiamento di dominio diretto della realtà, con relazioni di anteriorità storica, di opponibilità o d’inferiorità rispetto alla religione e alla scienza. Vi sono teorie che considerano la magia una fase culturale a sé stante, storicamente superata; oppure la giudicano un errore logico, che insorge come diversa modalità d’azione là dove la religione non basta a rassicurare l’uomo sul pieno controllo della realtà. Si distinguono i riti magici in rapporto alla loro utilità o in relazione ai metodi impiegati; s’indaga sugli effetti reali dei poteri magici, secondo i meccanismi di suggestione che vi ricorrono; si discute infine sugli aspetti magici di talune pratiche devozionali (come nel caso del culto delle reliquie, per esempio).

Definire le forze che reggono l’universo Tuttavia, quando si cerca di comprendere cosa fosse la magia sulle sponde del Nilo e dell’Eufrate, nelle strade dell’antica Atene o nei secoli della Roma precristiana, ci si accorge che queste definizioni non bastano piú, perché troppo vicine alla nostra mentalità. Si dischiude in effetti, nella storia, un nuovo quadro ideologico, o, meglio, una serie di quadri nei quali la magia viene definita di volta in volta in modo diverso, peculiare a ciascuna cultura. Riscopriamo in essa uno strumento per definire le forze che reggono l’universo, un tentativo per intervenire su queste, un metodo per giustificare e condannare l’esotico, il diverso, l’altro da sé. E allora i confini tra magia e religione, tra scienza e magia, tra magia e superstizione si assottigliano, fino a manifestare l’ambiguità e l’incompletezza di ogni definizione di questo tipo, a rilevarne la dipendenza dal nostro modo di fare (e intendere) la cultura. Storicamente, come vedremo, il termine deve la sua origine ai contatti tra Greci e Persiani: magos, in lingua greca, designava all’inizio l’appartenente a una casta di

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In alto pendagli in oro con figurine di Bes, il dio egizio nano dall’apparenza grottesca e mostruosa, capace di annientare i serpenti e proteggere le nascite, da Vulci. VII sec. a.C. Monaco di Baviera, Staatliche Antikensammlungen. Nella pagina accanto «coltello» ricavato dal canino di un ippopotamo, ricoperto di incisioni raffiguranti divinità e spiriti di protezione. Egitto, XII dinastia (1994-1797 a.C.). L’oggetto era probabilmente legato a pratiche magiche.


sacerdoti orientali, che aveva in Zoroastro il rappresentante piú insigne. Il greco mageia e poi il latino magia indicarono successivamente le pratiche rituali dei Caldei, diffuse soprattutto tra le classi meno colte della popolazione e comunque estranee al culto ufficiale dello Stato. Tale concetto si estese in seguito a tutta una serie di riti, vietati dalla legge romana. Quando poi il cristianesimo prevalse sui politeismi e sulle varie religioni misteriche del mondo antico, ciò che sapeva d’idoli e di magia venne respinto e polemicamente negativizzato, quale prodotto dell’azione diabolica rivolto contro Dio. I processi per magia istruiti nella Roma di Cicerone e di Plinio continuarono cosí nella persecuzione di maghi e di streghe, soprattutto tra il XIV e il XVIII secolo, mentre sempre meglio si andava articolando quella opposizione concettuale tra «magico» e «religioso» ancora oggi presente nella nostra cultura.

A ciascuno la sua magia La magia non può dunque essere considerata come una categoria indipendente del «sacro», ma dev’essere piuttosto utilizzata alla stregua di un termine convenzionale, con la piena coscienza dei piú diversi condizionamenti culturali, derivanti dalla differenza di luoghi, tempi e protagonisti. Nel ripercorrere dunque la storia piú antica dei cosiddetti fenomeni magici, cercheremo di porre in primo piano il giudizio offerto per essi da ciascuna cultura esaminata, con l’attenzione rivolta innanzitutto ai documenti diretti, dell’archeologia vicino-orientale e classica. Si vedrà che l’importanza dei materiali archeologici non è minore di quella dei testi letterari e della documentazione etnologica, rispettivamente della nostra tradizione occidentale e

Con l’avvento del cristianesimo, tutto ciò che sapeva di idoli e di magia venne respinto e polemicamente negativizzato

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delle culture cosiddette «primitive»: documenti, questi ultimi, che per larga parte hanno guidato e condizionato le teorie sull’origine, natura e funzioni delle pratiche magiche. Rispetto a essi, l’archeologia offre anzi il vantaggio di porre sul tavolo dello storico documenti originali, sostanzialmente privi di qualunque mediazione o interpretazione preconcetta, sebbene questo sia talvolta attenuato dalla ripetitività tipologica e dalla povertà quantitativa degli elementi disponibili e interpretabili.

Rituali difensivi e arti nocive Integrando comunque i dati di cultura materiale e quelli letterari (spesso recuperati anch’essi grazie allo scavo archeologico), proporremo qui di seguito un’indagine articolata per aree culturali (Egitto, Mesopotamia, Siria-Palestina, Grecia e Roma), nella ricerca, storicamente relativizzata, dei valori e dei significati storico-culturali di ciò che noi individuiamo nella definizione di magia.

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Nella pagina accanto, in alto mosaico con funzione apotropaica, per allontanare gli sguardi degli invidiosi, sul quale si legge «INVIDIA RUPUNTUR AVES NEQUE NOCTUA CURAT» («gli uccelli muoiono d’invidia, ma la civetta non se ne cura»), da Thysdrus (El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. Nella pagina accanto, in basso particolare di una miniatura tratta dal De Universo di Rabano Mauro, raffigurante Zoroastro, profeta fondatore dello zoroastrismo, nell’atto di consultare due oracoli. IX sec. d.C. Montecassino, Archivio dell’Abbazia di Montecassino. A destra figure ultraterrene raffigurate in un particolare di un dipinto sulla parete nella tomba di Thutmosi III (XVIII dinastia, 1479-1424 a.C.). Si tratta dell’illustrazione di un passo dall’Amduat, un testo religioso contenente formule magiche necessarie a proteggere l’anima del defunto nel viaggio attraverso l’aldilà.

Parleremo, pertanto, di rituali difensivi (o apotropaici) in opposizione ad arti nocive (magia nera), distinguendo parallelamente tra mago e stregone (o fattucchiera) in riferimento al bene individuale e comunitario perseguito, oppure ad azioni malevole e antisociali. Utilizzeremo altresí la distinzione suggerita dal grande antropologo e storico delle religioni James George Frazer (1854-1941) tra magia imitativa o simbolica (il simile che agisce sul simile) e magia simpatica o contagiosa (la parte che agisce sul tutto), osservando al contempo l’efficacia diretta di alcuni mezzi (amuleti, fatture, ecc.) e quella indiretta di altri modi d’operare, che chiamano in causa dèi, demoni e «spiriti», in un intervento di mediazione. L’attenzione, però, verrà sempre focalizzata sui vari modi di trattare l’occulto, sui diversi meccanismi per dominare le forze impersonali, sulle differenti correnti di pensiero religioso considerate alternative, su tutti quegli atteggiamenti, insomma, nei quali ogni civiltà, coerentemente con il proprio orientamento, ha creduto di poter individuare il mondo magico.

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CAPITOLO

il DONO degli DÈI

Nell’antico Egitto, alla magia fu riconosciuto un ruolo di primaria importanza nella gestione delle cose terrene e, soprattutto, nell’ambito delle cerimonie che accompagnavano il viaggio nell’aldilà. Una preminenza dettata dalla stretta interazione con la sfera religiosa | MAGIA E DIVINAZIONE | 12 |


C’

era, nell’Egitto dei faraoni, l’idea di un potere benefico e difensivo, di una forza dinamica della natura capace di permeare divinità ed esseri mortali: gli Egiziani l’indicavano col termine heka, usualmente tradotto oggi con «magia». Concepito come un dio potente e benigno, Heka fu venerato soprattutto nel periodo iniziale della storia egiziana, quale attributo personificato del dio Ra, con ruoli di primaria importanza nella stessa creazione. Lo troviamo rappresentato in fattezze umane, accanto al dio della saggezza, Thot,

Particolare del Libro dei Morti di un funzionario di nome Ani che raffigura la pesatura dell’anima del defunto al cospetto di Osiride, dalla tomba dello stesso Ani, a Tebe. 1295 a.C. circa. Londra, The British Museum.

già in un tempio funerario della V dinastia, quello del faraone Sahure (2502-2489 a.C.). Ma compare anche, con le medesime caratteristiche, nella tomba di Ramesse VI (XX dinastia, 1143-1136 a.C.) e su alcuni papiri che ne lodano i poteri. Heka è la magia, come si è detto, ma anche la giusta sapienza e la corretta capacità d’intervento sulla realtà. «Dio ha dato la magia agli uomini come un’arma contro la malasorte», recita un documento didascalico (gli Insegnamenti per Merikara), e «colui che dispone della forza heka» era detto del mago all’opera con le sue formule.

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EGITTO

Statuetta lignea di Hotepi, capo degli scribi e dei maghi. 2000 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

Dono della divinità per dominare gli eventi, Heka è la magia difensiva di cui dispongono anche gli dèi nei loro miti, come Seth, per esempio, contro Apofi. Ed è grazie a essa che operano nei riti quelle divinità a cui si riconoscevano specifiche capacità d’intervento nell’esistenza dell’uomo. Magici sono i poteri di Thot, il dio ibis o babbuino, inventore della scrittura; magici altresí sono i poteri di Iside, protettrice della regalità, dea salvifica di straordinaria potenza; quelli di Horo, suo figlio, raffigurato in forma di falco o di bambino (Arpocrate), protettore dagli animali velenosi; quelli di Bes, il dio nano dall’apparenza grottesca e mostruosa, capace di annientare i serpenti e proteggere le nascite; quelli di Sekhmet, infine, la dea leonessa di Menfi, e del suo sposo Ptah, il dio artigiano.

Entità intermedie tra uomini e dèi Sull’altro fronte, contro i poteri di Heka, sono in azione le forze incontrollate del mondo invisibile, la volontà maligna e dannosa di fattucchiere e maliardi, di persone defunte e di ostili esseri sovrumani. È soprattutto l’opera di questi ultimi a incutere timore: sono i demoni che popolano l’oltretomba, concepiti come entità intermedie tra uomini e dèi, di numero assai ampio, ma dalla personalità scarsamente definita. Nei testi dell’Antico Regno (2700-2195 a.C.) sono presentati come scimmie che decapitano i defunti; in epoca posteriore compaiono invece come guardiani dell’aldilà armati di coltelli, o come figure mostruose con

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corpo di mummia e testa di animale, oppure con piú teste o con altri caratteri spaventosi. Sempre tra i demoni figurano gli «Emissari» degli dèi, esseri incaricati di prelevare l’uomo alla sua morte, ma capaci di recare danno anche tra i vivi. Contro queste oscure potenze gli operatori di magia egiziani esercitavano la loro azione, per vincerne o prevenirne gli effetti. Il mago, detto hekai, ma anche sau, «incantatore», è colui che sa leggere i testi sacri e usare le formule adatte per ogni occorrenza. Lo troviamo innanzitutto tra il personale consacrato dei templi o nelle «Case della Vita», dove si elaborava la letteratura religiosa; ma vi erano parimenti maghi non sacerdoti, che operavano tra gli strati piú umili della popolazione. Funzione di mago aveva in paiticolare il kheri-heb, il sacerdote-lettore, sempre presente – nella casa del faraone come in quelle dei semplici

cittadini –, per il corretto svolgimento dei riti secondo quei formulari di cui egli stesso era depositario. Della fama che circondava questi personaggi abbiamo varie testimonianze. Al 2000 a.C. risale, per esempio, la statua lignea (ora al Museo del Louvre) di Hotepi, detto nell’iscrizione sul basamento «capo degli scribi e dei maghi, privilegiato degli dèi e grande conoscente del faraone».

L’incantatore di coccodrilli Il Papiro Westcar del Museo di Berlino, invece, descrive, intorno al XVIII secolo a.C., le mirabolanti imprese di alcuni maghi dell’Antico Regno, la cui fama oltrepassava finanche le loro mirabili facoltà. Vi si parla di Ubaaner, capace d’incantare i coccodrilli con statuette di cera e di Dedi, mago dall’appetito mostruoso, in grado di ridare vita a un’oca decapitata o di predire con sicurezza il futuro.

DEA DELLA MAGIA Particolare della decorazione del sarcofago dello scriba Butehamon. Osiride in trono riceve l’omaggio di quattro divinità, da sinistra: Thot, Maat, Heka e Harsiesi. XXI dinastia (1069-945 a.C.). Torino, Museo Egizio. Heka, identificata con il potere magico e con l’impulso vitale, regge in mano l’ankh, o croce ansata, che rappresenta la chiave della vita.

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EGITTO

dove alcuni simboli geroglifici, raffiguranti uomini e animali, sono tagliati a metà o incisi soltanto in parte, con il probabile fine di renderli innocui e proteggere il defunto. Sulle pareti delle stesse piramidi, in particolare nelle camere sepolcrali di alcune di esse a Saqqara risalenti alla V e VI dinastia (2510-2195 a.C.), troviamo i piú antichi testi egiziani che ci parlano di magia funeraria, redatti esclusivamente per il faraone e per gli appartenenti alla casa reale.

Il Libro dei Morti

La forza della magia era legata alle virtú attribuite alla parola trascritta, al segno grafico. La scrittura era perciò un elemento essenziale del rituale e i suoi effetti, se negativi, potevano essere anche neutralizzati Altri due grandi maghi ci sono poi noti da vari documenti storici: Imhotep, alto dignitario della III dinastia (2700-2630 a.C.), venerato in seguito come patrono degli scribi e associato alle massime divinità, e Nectanebo II (XXX dinastia, 360-343 a.C.), ultimo faraone d’Egitto, famoso nella letteratura greca per le arti magiche, con le quali avrebbe difeso il suo regno a lungo, prima di fuggire dal Paese incalzato dagli eventi. Se il mago in Egitto era il «possessore di Heka», la forza della magia era legata in modo specifico alle virtú attribuite alla parola trascritta, al segno grafico. La scrittura era un elemento essenziale del rituale e i suoi effetti, se negativi, potevano essere anche neutralizzati. Questo si può osservare già all’interno delle piramidi dell’Antico Regno,

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In alto pendente in forma di ugiat o occhio di Horo, dalla tomba di Tutankhamon. 1332-1323 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. In basso amuleto raffigurante un occhio ugiat. Nuovo Regno (1543-1069 a.C.).

Solo successivamente, con la democratizzazione delle concezioni escatologiche nel Medio Regno (2064-1797 a.C.), si trovano applicati anche a gente comune sia l’identificazione del defunto con Osiride che l’uso di formulari magici volti a proteggerne l’esistenza oltremondana (testi dei sarcofagi). A partire dal Nuovo Regno, infine, si sviluppa e si diffonde il cosiddetto Libro dei Morti, una miscellanea di formule tendenti a neutralizzare i pericoli dell’aldilà, ma utili anche per i vivi, nobili e non. Il vero titolo di questa raccolta, la cui stesura era attribuita al dio Thot, è «Libro per uscire dal giorno». Esso ci è noto anche in varie


In questa pagina amuleti di varie fogge e materiali (oro, faĂŻence, pietra) originariamente posti a protezione di mummie. Parigi, Museo del Louvre.

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EGITTO

trascrizioni su papiri, lasciati accanto al defunto o posti a contatto del corpo mummificato. Le prime copie vennero scritte in geroglifico; gradualmente si passò poi all’impiego della scrittura ieratica, mentre quella originaria venne riutilizzata in epoca tarda per l’edizione standard dell’opera, la cosiddetta «recensione saitica», nella quale, per esempio, venne redatto l’esemplare papiraceo del Libro dei Morti conservato al Museo Egizio di Torino. Come s’è detto, questa raccolta serviva soprattutto per la cerimonia funebre, quando il sacerdote-lettore recitava le formule adatte a proteggere il defunto nell’aldilà e deponeva poi una copia del testo nella tomba. Per i vivi, invece, oltre a questo libro, esistevano numerosi testi sacri di contenuto magico, di carattere generale o specifico. Si può qui ricordare, tra gli altri, il Papiro Harris, che risale al Nuovo Regno (1543-1069 a.C.): il testo è dedicato agli incantesimi contro i coccodrilli e altri animali pericolosi e negli scongiuri il mago sottolinea ripetutamente e con enfasi il proprio potere e la forza dei propri esorcismi.

Con l’aiuto delle divinità Conservati nelle biblioteche dei templi o duplicati in piú copie per l’uso comune, i papiri magici recavano annotazioni sul cerimoniale da seguire, sulla purità rituale del celebrante e sull’attribuzione dell’opera ad autori sovrumani. Non è rara l’identificazione del mago con vari esseri divini, dei quali si ricordano le gesta vittoriose contro avversari mostruosi. Ripetendo l’avvenimento mitico, l’operatore magico si assicurava la piena riuscita del rito e l’aiuto delle divinità coinvolte, giungendo persino, in qualche caso, a forzarne l’intervento favorevole. All’inizio del I millennio a.C., si diffuse in Egitto, soprattutto tra le donne, l’abitudine di recare con sé piccole strisce di papiro a scopi protettivi. Arrotolati e contenuti in astucci di oro o d’altro materiale prezioso, i papiri conservavano inni sacri ed espressioni beneauguranti, per assicurare la protezione divina contro le malattie e i pericoli della vita,

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Nella pagina accanto la stele Metternich. XXX dinastia, regno di Nectanebo II (360-343 a.C.). New York, Metropolitan Museum of Art. A destra particolare di un amuleto formato da una striscia verticale di papiro, scritto con grafia simile allo ieratico anormale, da Tebe. XXI dinastia (1069-945 a.C.). Torino, Museo Egizio. Generalmente conservato arrotolato in un astuccio e portato al collo, contiene un testo in forma di oracolo, solitamente formulato da uno o piú dei, e garantisce fecondità e immunità da malattie.

la salvezza da scorpioni, serpenti e coccodrilli, l’immunità dalle arti della magia nera e dalle azioni dei demoni ostili. Questo uso personale dei papiri magici c’introduce all’esame della ricchissima categoria degli amuleti, a cui venivano attribuiti poteri soprannaturali e influssi benefici, sia per le formule che essi recavano incise o che su di loro venivano recitate, sia per capacità proprie, legate alle figurazioni e alla materia utilizzata. I piú antichi amuleti conosciuti sono frammenti di schisto, lavorati in varie forme e ritrovati in gran numero nelle tombe preistoriche e predinastiche. In epoca storica, amplissima diffusione ebbero soprattutto gli scarabei, in pietra o in ceramica, rinvenuti in migliaia di esemplari negli scavi delle tombe egiziane e diffusi anche in altre culture del Vicino Oriente e del Mediterraneo antico. I piccoli amuleti recavano incisi alla base nomi di re, frasi di buon augurio o lodi a qualche divinità, e si portavano incastonati negli anelli oppure appesi al collo. I valori apotropaici a essi riconosciuti derivano senz’altro dalle opinioni all’epoca correnti sugli animaletti che raffiguravano: lo scarabeo era considerato infatti, nell’antico Egitto, emblema del dio Khepri, espressione del sole nascente, nonché simbolo dell’esistenza e della resurrezione. L’immagine del coleottero veniva dunque utilizzata anche in rappresentanza o sostituzione dell’organo principale del pensiero e della vita dell’uomo: il cuore. A ciò si provvedeva in modo specifico con un particolare tipo di amuleto-scarabeo piú grande degli altri, lo scarabeo del cuore, che nelle tombe veniva collocato sulla mummia, affinché il vero cuore non abbandonasse il defunto, né smentisse le sue confessioni nel giudizio ultraterreno.

L’occhio di Horo Un altro amuleto di grande diffusione, nella magia funeraria e in quella per i vivi, è l’occhio ugiat, fatto di oro, argento, granito, corniola, lapislazzuli, faïence, legno, ecc. L’occhio, stilizzato, è di due tipi, uno rivolto a destra, l’altro a sinistra; insieme rappresentano i due occhi di Horo, ma il loro significato è piuttosto

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complesso. Un mito narra che l’occhio del dio rimase ferito durante la lotta contro Seth e che Thot lo guarí, facendolo tornare ugiat, cioè integro. L’amuleto poteva però rappresentare anche il serpente ureo del dio Ra, nonché, nella coppia, il sole e la luna, oppure Ra e Osiride. L’ugiat si trova attribuito a divinità, uomini e animali sacri; veniva raffigurato anche su imbarcazioni, sarcofagi e stele funerarie. Tra le sue funzioni protettive c’era, certamente non ultima, quella di allontanare il malocchio e di recare a chi lo indossava forza e salute pari a quelle del sole.

Il simbolo della vita Tra gli amuleti piú comuni, troviamo poi l’ankh, simbolo della vita, e il pilastro djed, che rappresentava probabilmente il tronco d’albero in cui la dea Iside nascose il cadavere di Osiride. Anche il simbolo geroglifico del cuore era usato come amuleto e, secondo il Libro dei Morti, sostituiva il cuore del defunto asportato al momento della mummificazione. Doveva essere fatto di lapislazzuli, o comunque di pietra. ln oro incastonato con pietre preziose era preparato invece l’«amuleto dell’anima», a forma di falco con testa umana. Anch’esso veníva posto sul corpo del defunto, come pure, del resto, la piccola colonna a forma di pianta di papiro, l’amuleto della testa di serpente, la rana, le corone dell’Alto e Basso Egitto, i cartigli reali. Assai popolari e destinati soprattutto alla protezione magica dei vivi erano infine gli amuleti raffiguranti varie divinità: per

esempio Bes, dal corpo deforme, la dea Tueret, con testa d’ippopotamo e corpo di donna incinta, Horo fanciullo, il dio Ptah, spesso nelle forme tozze e sgraziate di un nano, la dea gatta Bastet, Sekhmet, Osiride e molti altri personaggi divini. Ancora alle preoccupazioni per la vita oltremondana – e ai mezzi per rassicurare i vivi sul futuro che li attendeva – ci riconduce il ritrovamento delle statuine chiamate ushabti, deposte in gran numero nelle tombe a partíre dal Nuovo Regno e fino al periodo romano, che dovevano «animarsi» nell’aldilà, per effetto della formula magica pronunciata su di loro, e lavorare in sostituzione del defunto. Tra gli oggetti magici riportati alla luce dobbiamo ricordare poi le statue e le stele «guaritrici», che sono al tempo stesso raccolte di testi e strumenti operativi.

Sulle due pagine fronte e retro di un cippo di Horo, stele rituale concepita per proteggere dall’attacco di animali pericolosi e per curare dal veleno di serpenti e scorpioni. IV sec. a.C. New York, Ariadne Gallery. Al dritto (a destra) rilievo con Horo infante (indicato dal ricciolo di capelli sopra l’orecchio destro) in piedi su due coccodrilli. Il dio regge in mano serpenti e altri animali, simboleggiando il suo potere su di loro. Al rovescio, rilievo con la maschera del dio Bes, circondata dalle divinità Taueret, Horo, Seth e Khnum, sopra a un testo geroglifico.

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EGITTO

Contro i nemici del re

N

on aiuto o guarigione, bensí vittoria e potenza sugli avversari doveva procurare una serie di documenti dell’Antico e Medio Regno, che si richiama direttamente alle arti della magia nera. Si tratta, innanzitutto, delle figurine di esecrazione, fatte di argilla, di pietra e anche di legno, che raffiguravano in modo grossolano i nemici del re e della nazione ed erano destinate a essere trafitte o spezzate durante il rito. Una di queste, rinvenuta a Saqqara presso la piramide del faraone Pepi II (VI dinastia, 2287-2198 a.C.), riproduce un prigioniero inginocchiato e privo della testa; altre figurine ritrovate in frammenti a Giza, nei pressi di Menfi, recano invece iscritta la lista dei nemici, con l’indicazione degli Stati e dei rispettivi sovrani. I nomi dei principi ribelli o dei regnanti delle nazioni limitrofe potevano però essere trascritti anche su vasi di argilla, che venivano poi distrutti con rito analogo a quello delle figurine, come ci mostrano alcuni frammenti ceramici (ostraca, plurale del greco ostracon, letteralmente «conchiglia», «coccio», n.d.r.) degli scavi dell’antica Tebe e quelli di Mirgissa, nel territorio dell’odierno Sudan. Va sottolineato che in questi casi gli strumenti della magia nera erano considerati accettabili e utilizzati in forma ufficiale, per il bene dello Stato,

Il loro uso ci è noto già al tempo di Ramesse III (1185-1146 a.C.), ma si diffuse in modo particolare nel corso del I millennio a.C., soprattutto nel IV secolo, epoca alla quale risalgono due dei documenti piú noti: la Stele Metternich, rinvenuta nel 1928 ad Alessandria e conservata al Metropolitan Museum di New York, e la statua di Dedhor, trovata dieci anni prima a Tell Atrib, ora al Museo Egizio del Cairo. Nel primo caso si tratta di un esemplare delle cosiddette «stele di Horo», in cui alla figurazione del dio, collocato su due coccodrilli e attorniato da simboli e altri esseri extraumani, si accompagnavano esorcismi contro scorpioni

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Solitamente, invece, il ricorso individuale a statuine preparate per nuocere ad altri esseri umani, pure ben documentato dai papiri, era perseguito e, per quanto possibile, neutralizzato con opportuni rituali protettivi.

e serpenti e varie altre formule per ottenere l’aiuto divino. Nel secondo caso, invece, l’esempio citato illustra l’usanza di erigere in luoghi pubblici statue a uomini «divinizzati», che concedevano salvezza a chi li invocava.

L’acqua diventa magica Sia le statue salvatrici, sia i cippi di Horo (spesso riprodotti insieme nel monumento) venivano ritualmente bagnati con acqua, che, impregnata al contatto di notevole forza magica, veniva poi raccolta e utilizzata per abluzioni e bevande taumaturgiche. Organizzazione del cosmo e salute

Fronte e retro di una statuetta d’esecrazione in calcare policromo, da Mirgissa (Sudan). XII dinastia, fine del regno di Amenemete I (1994-1964 a.C.). Lilla, Palais des Beaux-Arts.


Fatte d’argilla, di pietra e anche di legno, le figurine di esecrazione raffiguravano in modo grossolano i nemici del re e della nazione ed erano destinate a essere trafitte o spezzate durante il rito

Statua di un sacerdote della dea Bastet, che regge un cippo di Horo, ricoperta di iscrizioni magiche, forse da Leontopolis (Tell el-Muqdam). IV sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

dell’individuo, punture d’insetti e questioni di politica internazionale, ansie quotidiane e preoccupazioni per l’aldilà: finalizzata alla soluzione di questi problemi, la magia sembra occupare senz’altro, nella cultura dell’antico Egitto, una posizione dominante, d’importanza costante nel tempo. Resta tuttavia difficile individuarne i contorni specifici, poiché l’operazione magica non risalta quasi per nulla in autonomia, rispetto all’intervento medico o all’atto religioso. In termini generali, comunque, si può osservare un certo sviluppo storico nelle forme della magia egiziana. Durante l’Antico Regno sembra prevalente l’interesse per la salute del sovrano e per la sua sorte ultraterrena; nel Medio Regno, invece, sono meglio evidenti alcuni risvolti terapeutici e miracolistici delle arti dei maghi, mentre nel II e I millennio a.C., dopo la cacciata degli Hyksos, i documenti piú antichi conoscono una notevole diffusione popolare e sempre piú prendono corpo quei riti della magia individuale che resero famosa l’arte magica d’origine egiziana in tutto il Mediterraneo. Anche per Heka, il dio-magia, si può parlare di un mutamento: il suo culto è attestato ancora nel periodo tolemaico e in età romana, specialmente a Esna, senza tuttavia confermare il rango e l’importanza riconosciuti al dio nei secoli precedenti. Concepito come un dio bambino, Heka ha perduto in età tarda i connotati originari di forza creatrice e le speculazioni sulla magia dei circoli filosofici alessandrini, nell’Egitto greco-romano, non lo riguardano piú direttamente.

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Particolare di un rilievo raffigurante uno spirito alato protettivo femminile, dal palazzo del re Assurbanipal a Nimrud. 865-860 a.C. Londra, British Museum.


nel REGNO dei DEMONI

Presso le civiltà della Mesopotamia era diffusa la certezza che alla buona e alla cattiva sorte presiedesse, accanto alle divinità principali, anche una folta schiera di esseri soprannaturali. Di questo esercito di geni e di spiriti abbiamo numerose e vivaci tracce nell’arte e nei testi degli archivi

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MESOPOTAMIA

N

ella biblioteca del sovrano assiro Assurbanipal (668-629 a.C.), ritrovata negli scavi dell’antica Ninive, si è conservata una cospicua raccolta di testi magici in scrittura cuneiforme, spesso in copia da originali piú antichi. Si tratta per la gran parte di preghiere ed esorcismi dell’VIII e VII secolo a.C. che s’iniziano col temrine shiptu, «incantesimo», e si completano con varie indicazioni liturgiche su operazioni, luoghi e tempi prescritti. Tavolette di contenuto magico sono state però rinvenute anche tra le rovine di Assur e di altre città mesopotamiche, sicché l’ampio panorama della letteratura sumerica e accadica, dal tempo della III dinastia di Ur (fine del III millennio a.C.) all’epoca seleucide del IV-II secolo a.C., è assai ricco di simili testimonianze. Talvolta degli incantesimi abbiamo appena qualche notizia, per i riferimenti in tavolette divinatorie, testi di medicina, annali e corrispondenze reali. Piú spesso ci restano l’intestazione e il contenuto di grandi cataloghi, in cui le pratiche e le formule magiche, a partire dalla I dinastia di Babilonia (prima metà del II millennio a.C.), venivano raggruppate in serie, a seconda dei procedimenti previsti, dei demoni e delle divinità coinvolte, delle malattie da curare.

Fronteggiare le forze del male Tra i repertori piú celebri della biblioteca di Ninive sono i trattali delle serie Shurpu («Cremazione») e Maqlû («Combustione»); altri titoli sono dedicati ai «Demoni maligni», ai «Mali di testa», agli «Scongiuri contro la Lamashtu», al «Lavaggio della bocca». Dalla loro lettura emerge l’idea di un sapere pratico, che pazientemente ha raccolto, nel corso dei secoli, esperienza dopo esperienza, tutti i mezzi di cui la cultura del tempo poteva disporre per fronteggiare le forze del male. In sostanza, la magia sumerica e accadica è un’arte difensiva, contro ogni male fisico o metafisico, direttamente esercitato dai demoni o indirettamente permesso dalle divinità. Ciò che noi rendiamo col termine «demoni» era

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Sulle due pagine le due facce di una placca in bronzo per la protezione dalla Lamashtu. I mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In alto, il retro del manufatto, raffigurante Pazuzu, in forma di mostruoso quadrupede a qualtro ali, che sostiene la placca tra le zampe anteriori; nella pagina accanto, la fronte della placca: qui la figurazione è divisa in quattro registri e riproduce emblemi divini, sette demoni con testa d’animale, l’ambiente e gli animali sacri a Lamashtu, raffigurata con corpo di leonessa. Nella scena centrale si vedono poi un uomo sdraiato e due personaggi paludati, in piedi, accanto al suo letto: si tratta, verosimilmente, di un malato e dei sacerdoti chiamati a guarirlo.

indicato in cuneiforme con gli ideogrammi UDUG e GIDIM, applicati a esseri sovrumani di natura semidivina, spesso collegati con l’idea di un «soffio» o «vento», in modo probabilmente analogo al latino anima («spirito» e «ombra dei morti»). Nelle figurazioni i demoni ci appaiono come un’umanità deformata, realizzata in una pluralità di esseri mostruosi mediante la combinazione eterogenea di caratteri umani e animali. I testi ci dicono poi che gli utukku, gli etemmu e altre categorie di demoni sfuggono per definizione alla percezione dei sensi, non hanno sesso, né sentimenti e neppure tratti fisionomici ben precisi. Si definiscono piuttosto per i loro effetti devastanti: sono la notte, l’uragano, la peste e ogni sorta di malattie; stregano, rapiscono, colpiscono l’uomo e ne bevono il sangue. Esseri sovrumani impersonali, i demoni sono «la bile vomitata dagli dèi» e gli spettri senza requie nella morte; abitano i luoghi deserti, le cavità della terra, gli spazi solitari. Invisibili e



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luridi, essi scivolano furtivamente tra i cardini delle porte e le fessure delle finestre, aspergendo il corpo delle vittime di una tossica saliva schiumosa.

A gruppi di sette Dai testi sappiamo ancora che i demoni sono innumerevoli, spesso citati in gruppi di sette o di multipli di questo numero: non sempre hanno un nome, né si distinguono per il morbo che diffondono, sicché l’operatore magico fatica sovente a identificarli nell’azione. Taluni sembrano tuttavia specializzati nel causare determinati mali. Cosí, per esempio, il demone Alu è posto all’origine di una malattia che dà sonnolenza e disturbi alle orecchie; Ti’u (< di’u) è lo specialista di emicranie, meningiti e congestioni cerebrali; Bennu è il responsabile dell’epilessia e Rabisu dell’itterizia. Con piú chiarezza ci sono noti i caratteri di Lamashtu, Pazuzu e dei demoni notturni. Questi ultimi formano una triade temibile, che causa l’impotenza e la sterilità: Lilu, innanzitutto, è il demone della lussuria, che abusa furtivamente delle donne durante la notte; Lilitu è la sua controparte femminile, descritta in un testo babilonese come «strangolatrice di bambini»; Ardat-Lili, infine, è una vergine bella, gelosa del sesso e della maternità. Alla sfera del patto e della natalità ci riconducono, parimenti, i caratteri della sterile Lamashtu, che attacca le donne incinte con l’aborto e fa morire i lattanti. Nelle figurazioni e nei testi, il suo ritratto è composito: ha il volto di leonessa, le orecchie di asino, il seno scoperto, i capelli in disordine, le mani sporche e le unghie affilate: il suo veleno è come quello del serpente e dello scorpione. È la figlia del dio Anu, precipitata dal cielo per la sua empietà. Lamashtu ha sette nomi, che

Nella pagina accanto lastra in argilla cotta nota come «Regina della Notte» o «rilievo Burney», da Babilonia. 1800-1750 a.C. Londra, British Museum. L’opera ritrae una figura femminile alata fra una coppia di leoni e due gufi, che viene identificata con la dea Ereshkigal, sorella del dio Ishtar e sovrana dell’aldilà. In basso statuetta in bronzo raffigurante il demone assiro Pazuzu. Inizi del I mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

I demoni mesopotamici si definiscono per i loro effetti devastanti: sono la notte, l’uragano, la peste e ogni sorta di malattie; stregano, rapiscono, colpiscono l’uomo e ne bevono il sangue ne sottolineano i caratteri e i poteri terribili. Pazuzu, invece, è un demone alato, ben noto grazie anche a numerose raffigurazioni in statuette e amuleti di bronzo. Un’iscrizione sumerica lo dice figlio del dio Hanbu, abitatore delle montagne e signore degli spiriti maligni dell’aria. Ha l’aspetto di un mostro, con artigli alle zampe e alle mani, a cui si aggiunge talvolta una coda di scorpione. Nell’iconografia mesopotamica, l’immagine di Pazuzu ha però un valore apotropaico, e la sua testa, in modo particolare, viene usata come amuleto protettivo. Altrettanto può dirsi delle figurazioni di Humbaba, il «demone che non perdona», guardiano della foresta dei cedri nell’Epopea di Gilgamesh. La sua voce è l’uragano, la sua bocca è il fuoco, il suo respiro è la morte: eppure gli amuleti che riproducono la sua testa emergono con frequenza negli scavi e numerose sono altresí le placchette in argilla che lo rappresentano. Nel novero delle potenze soprannaturali che popolano la demonologia mesopotamica si devono ascrivere, con specializzazioni e caratteri opposti a quelli finora esaminati, anche gli esseri benevoli e tutelari

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Nella pagina accanto rilievo raffigurante uno spirito protettivo, dalla sala del trono del palazzo del re Assurnasirpal II a Nimrud. IX sec. a.C.

indicati con l’ideogramma LAMA, «genio». A essi sono affidate la protezione dell’individuo contro i demoni malvagi e la salvaguardia delle città, dei templi e dei palazzi reali. Shedu e Lamassu sono i nomi della coppia di geni piú frequentemente attestata negli scongiuri e in vari testi di carattere storico; Karibu, invece, è il «Benedicente», che veglia all’ingresso del tempio. Geni positivi, inoltre, sono le sfingi, i leoni e i tori alati posti a guardia dei palazzi dei sovrani assiri, citati nelle loro iscrizioni e bene esemplificati negli splendidi rilievi venuti alla luce negli scavi di Nimrud (palazzo di Assurnasirpal II del IX secolo a.C.) e di Khorsabad (reggia di Sargon II, del secolo successivo).

L’«uomo delle parole»

Figura di una divinità sulla sommità di un chiodo di fondazione, da Tello. 2130 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Tali chiodi venivano sepolti nelle fondamenta di mura e templi per tenere in posizione una tavoletta dedicatoria o per assicurare stabilità alla costruzione.

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Se, per colpa umana, per collera divina o per altra causa, si allontanava dall’individuo, dal tempio o dalla casa la protezione di simili esseri o delle divinità, i demoni avevano facile gioco; l’azione di un sacerdote specializzato era a questo punto indispensabile per diagnosticare la calamità intervenuta, rimuoverla e prevenirla per il futuro. L’opera dell’ashipu, l’«esorcista-scongiuratore», si distingueva però da quella del sacerdoteindovino, incaricato di favorirla e di precederla con le arti divinatorie. L’ashipu era l’«uomo delle parole» o «dalla bocca pura», coadiuvato a volte da un clero minore, per esempio dai «lamentatori» e dai «purificatori». Un ruolo importante aveva anche un personaggio femminile d’età avanzata, a cui si ricorreva in special modo contro l’impotenza sessuale e per i dolori alla testa. Era questo un ruolo probabilmente analogo a quello che i testi ittiti di Boghazköy riconoscono a una donna chiamata la «Vecchia», che operava come sacerdotessa in numerose cerimonie ufficiali dell’antico regno anatolico. Ministri di un’arte malefica, posta al servizio dei demoni e punita dalla legge, erano invece lo «stregone», kashshapu, e la «fattucchiera», kashshaptu o elenitu, che agivano nell’ombra, con oscuri poteri, e venivano spesso


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identificati con genti d’origine straniera (Elamiti, Sutei, ecc.). Alla neutralizzazione di ogni male visibile o invisibile si rivolgevano dunque gli esorcismi sumerici e accadici, celebrati nei templi, per il culto pubblico e la pietà individuale, o nelle case dei pazienti, per la guarigione di malattie.

Istruzioni per gli operatori I numerosi testi rituali approntati dagli scribi suggerivano all’operatore i meccanismi per la ricerca del demone avverso, nonché il protocollo migliore per il coinvolgimento delle divinità piú potenti e pietose. Tra queste erano in primo luogo il dio sumerico Enki (Ea, in lingua accadica), signore di ogni tecnica, e suo figlio Asalluhi; poi il babilonese e assiro Marduk, invocato in specie negli incantesimi detti «a mani levate», e Shamash, il dio solare. Nei testi di scongiuro si legge spesso un dialogo convenzionale tra gli dèi, che presenta

In basso sigillo con relativa impronta contenente una preghiera a Marduk, il dio guerriero. X sec. a.C. Londra, British Museum.

la vicenda esorcistica in chiave mitica o cosmogonica; l’operatore magico s’identifica cosí con la divinità benefica, che ne legittima i poteri, mentre al rito s’impone una conclusione favorevole. Oltre alla formula incantatoria, di solito assai breve («Per le potenze del cielo: che tu sia esorcizzato! Per le potenze della terra: che tu sia esorcizzato!»), il cerimoniale prevedeva ordinariamente suppliche e preghiere agli dèi e, soprattutto, riti d’espulsione del male, compiuti mimando l’allontanamento del demone, nella recitazione, o trasferendone i poteri sull’immagine di un malato, di un animale o dello stesso essere sovrumano esorcizzato. In quest’ultima eventualità rituale, la statuetta demonica veniva sottoposta a ogni genere di sevizie, oppure, al contrario, fatta oggetto di cure e cortesie, per sollecitare la partenza del demone raffigurato dalla persona ammalata. Possiamo farci un’idea dello svolgimento del

Nei testi di scongiuro si legge spesso un dialogo convenzionale tra gli dèi, che presenta la vicenda esorcistica in chiave mitica o cosmogonica

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rituale esorcistico non solo sulla base dei testi, ma anche grazie ad alcune placchette di bronzo che lo illustrano, la piú nota delle quali è quella recuperata in Siria nel 1879 e ora conservata nella collezione De Clercq, al Louvre. Sul rovescio si vede Pazuzu, in forma di mostruoso quadrupede a qualtro ali, che sostiene la placchetta tra le zampe anteriori; sul diritto, invece, la figurazione è divisa in quattro registri e riproduce emblemi divini, sette demoni con testa d’animale, l’ambiente e gli animali sacri a Lamashtu, che è raffigurata con corpo di leonessa. La scena centrale è costituita poi da un uomo sdraiato e da due personaggi paludati, in piedi, accanto al suo letto: verosimilmente il malato e i sacerdoti chiamati a guarirlo (vedi foto alle pp. 26-27). Il ricorso all’esorcista non era comunque l’unico mezzo per lottare contro il potere dei demoni. Si è già detto dei tori alati d’Assiria e degli amuleti contro Pazuzu e Lamashtu; altre targhe e figurine d’argilla, pietre preziose e piante varie erano usate per proteggere l’individuo e le abitazioni da presenze invisibili e non desiderate. Statuette apotropaiche erano

Figurine in terracotta di cagnolini con funzione di protezione contro i demoni, dal palazzo di Assurbanipal a Ninive. VII sec. a.C. Londra, British Museum. Ogni statuetta era in origine dipinta e reca il nome dell’animale in caratteri cuneiformi.

cosí deposte negli angoli delle case, nei luoghi di passaggio e sotto le soglie, dove ancor oggi vengono recuperate in gran numero. Dal palazzo di Assurbanipal a Ninive proviene in particolare un lotto di figurine fittili interrate presso la porta e raffiguranti cagnolini; gli animaletti avevano poteri contro i demoni e recavano incisi i loro nomi in cuneiforme: si chiamavano «Assalta-la-sua-gola», «Abbaiaforte», «Cacciatore-di-Asakku» e «Colui-cherespinge-il-maligno». Analoga era l’ispirazione magico-protettiva di molti sigilli personali, decorati con scene di lotta contro i demoni. Inoltre dagli scavi di Assur, di Ninive e Ur sappiamo che perfino il testo di un poema come quello dedicato al dio della peste, Erra, poteva rappresentare un amuleto per uso domestico. La tavoletta, in questo caso, aveva un manico e un foro per l’affissione alla parete, mentre il testo cuneiforme si chiudeva con un’invocazione del tipo: «La casa dove questa tavoletta è deposta non sarà colpita dal flagello della pestilenza; la spada della distruzione non le si accosterà; la salvezza si poserà su di essa».

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Modellino ricostruttivo dell’Etemenanki («Casa fondamento di cielo e terra»), o ziggurat di Marduk, a Babilonia.

Dalle antiche società mesopotamiche, in definitiva, la magia emerge come elemento pratico-operativo presente in tutte le manifestazioni del culto e della vita religiosa, dai riti di consacrazione e purificazione di un tempio alla liberazione da un male identificato o preannunciato con la divinazione. Lo scongiuro si confonde molto spesso con la preghiera (in modo singolare per noi, abituati a leggere in chiave cristiana gli altri orizzonti culturali) e non risulta indipendente dai voleri delle divinità, ma anzi li presuppone e li coinvolge. Il mago, poi, è un erudito, che raccoglie, trascrive, commenta e organizza in collezioni le sue battaglie contro i demoni, consegnando la sua scienza all’apprendista piú giovane. E l’efficacia del suo operare è tutta nel tentativo di trasferire il male, da chi ne è affetto o minacciato, a qualcuno o qualcosa che possa sostenerlo senza rischi. Le azioni del mago s’identificano perciò con la preparazione e la manipolazione di statuette e altri oggetti della magia simbolica, nella stretta osservanza di prescrizioni liturgiche fissate da tempo immemorabile. L’arte magica, insomma, non è in Mesopotamia né una cura medica né un’alternativa alla fede, ma il loro giusto e necessario complemento, in un mondo voluto dagli dèi e tuttavia continuamente rimesso in discussione dalla presenza e dall’azione sfrenata dei demoni.

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L’ARTE PROIBITA

Accadimenti prodigiosi, benigni o maligni, vengono narrati a piú riprese nella Bibbia. Tuttavia, l’atteggiamento dei popoli dell’antico Israele fu essenzialmente critico nei confronti della magia: trattando di maghi e fattucchiere, essa implicava l’idea che i comuni mortali possedessero facoltà considerate esclusive dell’Onnipotente


L

a religione dell’antico Israele presenta, in merito ai fenomeni magici, un atteggiamento deciso e una contraddizione non sempre risolta. Nell’Antico Testamento si legge a piú riprese un’esplicita condanna per le arti dei maghi e delle streghe, siano esse pratiche lecite o rituali nocivi di operatori ai margini della società. Il «Codice dell’Alleanza» e la «Legge di Santità» proibiscono il ricorso alla magia sotto pena di morte fin dai tempi di Mosè. Isaia, Ezechiele e gli altri profeti si battono con veemenza contro di essa, non lesinando ironia e sarcasmo, mentre in numerosi episodi le pratiche superstiziose dei popoli vicini vengono ridicolizzate e rese vane dagli eroi della tradizione ebraica. Sono note, per esempio, le competizioni di Giuseppe e di Mosè con i maghi egiziani, la storia dell’ammonita Balaam costretto da un’asina parlante a benedire anziché maledire il popolo d’Israele, i prodigi del profeta Daniele alla corte di Babilonia. Ma se è vero che le istituzioni religiose dell’Antico Testamento – prime fra quelle dei popoli finora esaminati – sono prive per la gran parte di elementi magici e di rituali apotropaici, è altrettanto certo che i promotori del monoteismo yahwistico faticarono assai per ostacolare usanze che avevano, nella realtà della fede popolare, un’ampia diffusione. Insieme al testo sacro, sono indicativi a questo proposito alcuni dati archeologici, che ci confermano il quadro biblico e anzi lo arricchiscono, offrendo l’immagine di un sincretismo politeistico nel quale il culto di Yahweh era posto accanto a quelli di altre divinità e la magia attingeva alle piú diverse esperienze religiose.

Il festino di Baldassarre, olio su tela di Rembrandt. 1636 circa. Londra, National Gallery. Il dipinto si ispira al banchetto allestito dal re di Babilonia, nonostante la città fosse assediata da Ciro. Baldassarre offrí vino servito nei calici sacri che i suoi predecessori avevano razziato a Gerusalemme e, in risposta all’oltraggio, apparve una mano che scrisse sul muro una frase in cui preconizzava la fine del suo regno.

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ISRAELE

Dal testo di Isaia apprendiamo, per esempio, che gli amuleti figuravano nella parure delle ragazze di Gerusalemme del suo tempo: l’uso, in effetti, appare largamente attestato dall’archeologia biblica, praticamente per tutte le epoche della storia d’Israele. Di ampia diffusione sono soprattutto gli amuleti d’origine egiziana, fra i quali in particolare l’occhio ugiat e gli scarabei. Dagli scavi di Gezer, di Samaria, di

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Sulle due pagine statuette di Astarte in terracotta. VIII-VI sec. a.C. Gerusalemme, Museo di Israele.

Gerusalemme e di altri centri sono emerse numerose figurine di una divinità femminile dalla probabile valenza apotropaica, per la protezione magica della gravidanza e del parto, che si rifanno, nello stile e nell’ispirazione ideologica, a modelli egiziani o canaanei. Interessante, inoltre, è il racconto del serpente di bronzo, innalzato da Mosè nel deserto per guarire gli Israeliti dal morso dei rettili.


CORPI ANNODATI In alto restituzione grafica di statuette in piombo con membra e corpi annodati da legamenti, da Maresha (Tell Sandahanna, Israele). A destra restituzione grafica delle due facce di una tavoletta iscritta con uno scongiuro fenicio, al centro della quale è la figura del dio Horon, da Arslan Tash. VII sec. a.C. Aleppo, Museo di Aleppo.

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L’episodio va probabilmente posto in relazione con le miniere di rame dell’Arabah, dove il metallo veniva estratto già nel XIII secolo a.C.; a Timna, in particolare, sono stati ritrovati numerosi serpentelli di rame, utilizzati verosimilmente come amuleti. Ma la pratica era ben diffusa, poiché ritrovamenti analoghi sono stati fatti ad Hazor, Gezer, Megiddo, Sichem e altri siti del I millennio a.C. Ancora la Bibbia, del resto, c’informa che, sul finire dell’VIII secolo, il re di Giuda, Ezechia, «fece a pezzi il serpente di bronzo, eretto da Mosè; difatti a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Nehushtan» (2 Re, 18:4).

Signore dei serpenti Converrà ricordare, in proposito, che la necessità di una protezione magica contro il veleno dei serpenti era ben viva nelle culture della Siria-Palestina nell’età del Bronzo e in quella del Ferro. Spicca in evidenza il culto millenario del dio Horon, documentato dai testi di Mari e Ugarit, da vari documenti egiziani e dall’epigrafia fenicia e punica. Divinità amorrea dai poteri salutiferi, Horon figura al centro di un lungo incantesimo ugaritico quale signore dei serpenti ed è altresí protagonista di uno scongiuro fenicio del VII secolo, recuperato ad Arslan Tash, nel quale si invoca il suo nome contro le insidiose e demoniache «Volanti». Tornando all’archeologia biblica, citeremo un ultimo esempio, che viene dagli scavi condotti nel sito di Tell Sandahanna (Maresha), a metà strada tra Gaza e Betlemme. Qui, nel 1900, sono state rinvenute sedici statuette di piombo con braccia, gambe e corpi annodati da legamenti dello stesso metallo, risalenti all’epoca seleucide. Le figurine erano accompagnate da una cinquantina di tavolette iscritte, in greco e in ebraico, di contenuto oscuro ma senza dubbio connesse a formule di maledizione e riti di annientamento magico di un avversario. Benché distante nel tempo, questo ritrovamento è cosí stato posto in relazione con un passo di Ezechiele (13: 17-23),

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Amuleto in foglia d’argento iscritto con una benedizione. VII-VI sec. a.C. Gerusalemme, Museo di Israele.


nel quale si parla di false profetesse «che cuciono nastri a ogni polso, con l’intento di catturare le persone, far morire chi deve vivere e vivere chi deve perire». Il testo biblico e l’archeologia palestinese ci documentano, insomma, la magia come un’arte proibita, ma anche come una tentazione continua e di grande fascino, che raccoglieva seguaci tra la gente comune e presso la famiglia reale. Sappiamo in special modo che nell’VIII e VII secolo i re di Giuda Achaz e Manasse molto

In basso pagina da una Bibbia mozarabica raffigurante l’episodio delle piaghe d’Egitto in cui Mosè tramuta l’acqua in sangue. X sec. Leon, Biblioteca di S. Isidoro.

contribuirono alla sua diffusione, provocando poi l’intervento restauratore dei loro successori. Va tuttavia osservato che la reazione alla magia, nel libro sacro, non nega solitamente i suoi poteri, né dubita della sua realtà ed efficacia; ne sottolinea piuttosto il legame con l’idolatria e tenta di mostrarne l’assoluta vanità di fronte al signore Yahweh. In altri termini, al pari della divinazione e di ogni pratica di fede politeistica, la magia è giudicata priva di senso non già sulla base di una dotta

La necessità di una protezione magica contro il veleno dei serpenti era ben viva nelle culture della Siria-Palestina nell’età del Bronzo e in quella del Ferro, come prova il culto millenario del dio Horon, documentato dai testi di Mari e di Ugarit

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ISRAELE

speculazione filosofica, ma in quanto tipica di credenze e di culti idolatrici. A dire il vero, si potrebbero interpretare come tracce «residuali» di magia, nella Bibbia, talune azioni prodigiose di vari profeti e patriarchi: la verga di Aronne e le piaghe d’Egitto, l’assedio di Gerico e la parola di Giosuè, che ferma sole e luna, le acque di Meriba e il già citato serpente di bronzo.

Un «miracolo» dell’Onnipotente Tuttavia, basta rileggere questi episodi nel loro contesto per rendersi conto che, agli occhi dei redattori biblici, essi non potevano intendersi se non come «segni», come manifestazioni attualizzate del potere divino: l’atto magico, cioè, viene qui inteso come un

Imprigionare le forze maligne

U

na categoria particolare di oggetti magici, diffusa nell’area medio-orientale (Iraq e Iran), è rappresentata dalle «ciotole magiche» o «trappole per demoni». Realizzate in terracotta e databili dall’VIII al VI secolo a.C., presentano all’interno un testo magico in caratteri aramaici tracciato a forma di spirale, procedente dall’orlo verso il centro e talvolta completato da disegni.Avevano lo scopo di imprigionare le forze maligne e per questo venivano sepolti capovolti in luoghi significativi come soglie, cortili e cimiteri.

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«miracolo» dell’Onnipotente e gli unici operatori abilitati a realizzarlo sono gli uomini di Dio, i suoi sacerdoti e ministri. La superiorità della religione yahwistica di fronte alla magia è dunque totale, e rende inutili le tecniche umane, quando queste non dipendono dalla volontà divina. Un’ultima osservazione concerne la credenza nei demoni. Negli sviluppi speculativi del giudaismo postbiblico, gli atteggiamenti e i giudizi negativi sopra detti non tardarono a modificarsi: nella magia di età ellenistica e imperiale, lo stesso dio d’Israele e la sua corte di angeli, cherubini e serafini si ritrovarono, direttamente impegnati contro esseri diabolici altrettanto diversificati e potenti. Una settantina di coppe magiche con iscrizioni in lingua aramaica, provenienti per la gran parte dagli scavi di Nippur, ci dà l’esempio degli scongiuri lanciati nei primi secoli dell’era crstiana contro l’«Occhio maligno» (il nostro malocchio), contro Lilith, «creatura della notte», contro Bagdana, «re e sovrano dei demoni», ciascuno con la propria corte di perfidi agenti extraumani (vedi box alla pagina precedente). Ma ben prima che Satana assumesse con le sue schiere infernali il monopolio delle arti magiche, qualche forma di personificazione concreta del male trova spazio indipendente dal volere divino già nella religione dell’Antico Testamento. Il ricorso alle credenze dei popoli vicini appare in tali casi evidente, specialmente nelle immagini demonizzate delle divinità del politeismo siriano. Il dio Reshef, per esempio, noto fin dal III millennio e ben vivo ancora nella religione fenicia dell’età del Ferro, presta il suo nome ai redattori del testo biblico per identificare la minaccia della peste; e Barad,

Al pari della divinazione e di ogni pratica di fede politeistica, la magia viene giudicata priva di senso non già sulla base di una dotta speculazione filosofica, ma in quanto tipica di credenze e di culti idolatrici In alto, a sinistra bronzetto raffigurante Reshef, dio cananeo delle pestilenze e della guerra. XIV-XIII sec. a.C. Collezione privata. In alto, a destra statuette di personaggi femminili, impiegate per la protezione delle gravidanze, da Achziv (Israele). VII-VI sec. a.C.

divinità meno nota, ma ugualmente attestata in area siriana, è citato al suo fianco per indicare il flagello della grandine. Proprio queste immagini «demitizzate», però, ci confermano che la tendenza legalista e antimagica della Bibbia dipende in larga parte dal carattere «sacro» del libro, dalla volontà di reinterpretare (e recuperare) nel culto di Yahweh ogni tecnica e ogni disciplina. L’arte magica, in definitiva, è una vana scienza, nella misura in cui contrasta con la fede monoteistica e non rientra per i metodi, l’ideologia e gli operatori nell’ambito dell’unica, vera, inesauribile sapienza divina.

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una

DISCIPLINA

«PERICOLOSA» Sebbene ne subissero il fascino, anche Greci e Romani assunsero un atteggiamento negativo nei confronti della magia. Tanto che, in piú di un caso, si vollero varare provvedimenti che ne vietavano l’esercizio, nel timore che il possibile «abuso della credulità popolare» minasse il rispetto delle leggi e la devozione nei confronti degli dèi

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Testa di Medusa, olio su tavola di Pieter Paul Rubens 1618 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Intesa come trofeo terrificante, la testa della Medusa figurava come ornamento amuletico su armature e scudi.

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GRECIA E ROMA

P

er la magia nel mondo greco e romano si deve preliminarmente osservare che essa forma ai nostri occhi un insieme sufficientemente coerente e chiaro solo a partire dall’incontro delle due civiltà, mentre sappiamo ben poco sulle sue forme primitive. I monumenri della Creta preellenica, per esempio, suggeriscono l’esistenza di un culto per una grande divinità femminile, signora dei rettili, e di pratiche di

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Particolare di pittura murale raffigurante i Ciclopi che forgiano le armi degli eroi dentro la fucina di Efesto, dalla Casa delle Quadrighe, a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

medicina dai risvolti magici, secondo quanto si può dedurre, come ipotesi, dalle immagini della dea dei serpenti rinvenute a Cnosso e dalle raffigurazioni di malati su terrecotte minoiche. Poi sono soprattutto i dati della mitologia, con quelli dell’arte e della letteratura che a essa s’ispirano, a informarci sull’estensione del concetto di magia, sul suo valore come motivo letterario, sulla diffusione delle tecniche magiche nell’antica Grecia.


Per la Roma repubblicana, invece, sono soprattutto alcuni testi (Catone e Varrone, per esempio) a suggerirci gli elementi di una magia pratica e popolare, volta alla salvaguardia dei raccolti e della salute fisica, o indirizzata, per converso, alla produzione di veleni e all’elaborazione di maledizioni contro uomini e cose. In Grecia si assiste comunque a un cambiamento sensibile, concettualmente e quantitativamente, con l’ellenismo e i contatti culturali con l’Oriente; a Roma appaiono invece decisivi il I secolo a.C. e il sorgere dell’impero, quando la magia assume i connotati di scienza (sia pure riprovevole) e si diffonde largamente non solo nel quartiere malfamato della Subura, ma anche nei circoli aristocratici e colti, permeati dalle dottrine neopitagoriche. Per mantenere il discorso in termini storici, conviene senz’altro prendere le mosse dal vocabolario, che distingue gli operatori e i rituali che c’interessano, passando poi all’esame dei referenti sovrumani invocati o collegati alle operazioni di magia.

Un’esperienza mistica Un termine abbastanza specifico, nella Grecia antica, era quello di cui tuttora ci serviamo: il greco mageia, che per lungo tempo ha individuato la scienza dovuta ai Magi, sacerdoti persiani propagatori delle dottrine di Zoroastro. Perché i Greci abbiano adottato questo vocabolo (maga significava in origine «dono» e denotava uno stato e un’esperienza mistica particolari) per indicare le arti della magia non è del tutto chiaro, mentre ne sono evidenti talune implicazioni positive dal fatto che una simile attività venne attribuita a grandi pensatori, come Pitagora, Epimenide e Democrito. Alle forme di questa magia lecita, che sfumava nel pensiero filosofico, i Greci antichi opponevano le arti della goeteia

La Dea dei serpenti, statuetta in terracotta smaltata, da Cnosso (Creta). XVIII-XV sec. a.C. Iraklion, Museo Archeologico.

e della pharmakeia, malevole e sospette: i goetes sono spesso presentati nei testi come ciarlatani, vagabondi tessitori d’inganni, mentre i pharmakoi s’identificavano piú precisamente con i preparatori di filtri malefici. Cariche di un senso negativo sono parimenti le tecniche del baskanos, termine che definisce lo stregone connettendosi ai concetti d’invidia, calunnia e malanimo, e conseguentemente a quelli di fatture, malíe e sortilegi. Nella lingua latina troviamo per la prima volta il vocabolo magus, e parallelamente quelli di magia, ars magica, herba magica, al tempo di Cicerone, con una colorazione negativa legata al dilagare, dopo la prima guerra punica, degli operatori stranieri: astrologi, guaritori, interpreti di sogni e venditori di amuleti che s’identificarono genericamente nella definizione di «Caldei». Magus venne introdotto nella giurisprudenza sotto Tiberio (14-37 d.C.) e, a partire dall’epoca di Traiano (98-117 d.C.), venne applicato in modo specifico agli autori della magia criminale, contro i quali si procedeva legalmente. Ma una valenza dispregiativa traspare anche dai termini maleficus e veneficus, di uso comune per lo stregone incantatore/avvelenatore, nonché da quelli di striges (letteralmente, «vampiri») e sagae, che indicavano le fattucchiere. Nell’età degli Antonini (96-180 d.C.), lo scrittore Apuleio descrisse queste ultime come maliarde sanguinarie, riconoscendo loro, tra l’altro, il potere di trasformare le proprie vittime (specialmente bambini) in animali, di trasferirle a notevole distanza, di mutilarle e di ucciderle per usare il loro sangue, i capelli, le unghie. Che il motivo attingesse quanto meno alle dicerie del tempo è tristemente documentato da un’iscrizione funeraria latina ritrovata sull’Esquilino: il piccolo Iucundus ricorda nell’epigrafe di esser morto per le arti violente

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di una saga e, sconsolato, suggerisce ai genitori che leggeranno l’iscrizione una buona sorveglianza sui bambini. Occorre comunque ribadire che la distinzione tra le diverse specie di magia non s’imponeva in egual modo nel mondo antico e che lo stesso termine preso a prestito dai Persiani venne progressivamente caricandosi di valori generici sempre piú distanti dai significati originari. Cosí Plinio il Vecchio, che nel I secolo d.C. traccia una storia delle magicae vanitates, intende la magia come una scienza riprovevole – miscuglio di medicina, religione e astrologia – propagata dal mago persiano Ostanes, il quale avrebbe accompagnato Serse nelle sue spedizioni contro la Grecia. Ma lo scrittore raccoglie qui un’opinione piú antica, legata alla diffusione che aveva avuto in Occidente la sapienza «occulta» dei maghi d’Oriente, dopo le guerre persiane e le conquiste di Alessandro. Piú tardi, quando il crescente afflusso di stregoni e indovini nell’impero romano suggerí la promulgazione di leggi specifiche contro la magia e favorí ancor di piú l’emarginazione di questa ai limiti della religione ufficiale, s’individuarono nuove delimitazioni.

Le categorie di sant’Agostino Porfirio, per esempio, comprende nella goeteia ogni sorta di arte magica e assimila alla religione quanto non attiene alla prima; sant’Agostino distingue invece nella magia due livelli, dati dalla goeteia, quale arte nociva, e dalla theurgia, che, sebbene condannata nell’ottica del cristianesimo, presenta aspetti benigni e positivi. Analogo è il discorso che potrebbe farsi per il termine superstitio: dall’originario senso di «timore rispettoso verso gli dèi», il vocabolo passò a indicare una «religione ingiusta», cioè non riconosciuta dallo Stato romano, e acquisí progressivamente il senso di timore vano di forze misteriose e d’influssi malefici, ancor oggi presente nella nostra definizione di «superstizione». Nel panorama degli esseri sovraumani interessati alla magia, la tradizione classica ci pone innanzitutto di fronte alcune collettività

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In alto vaso in ceramica a figure rosse raffigurante la maga Circe. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto particolare della decorazione di un sarcofago raffigurante Ulisse che uccide la maga Circe, affiancato da due compagni ancora parzialmente trasformati in porci. III sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».

di carattere mitico: i Telchini, i Ciclopi, i Dattili, i Cureti e i Coribanti. Concepiti come metallurgi deformi, fondatori di culti, guaritori potenti e pericolosi, questi goetes del tempo del mito vengono rappresentati ai margini della civiltà e raccolgono attorno a loro tutti i giudizi negativi che la società greca dava alla magia come arte malvagia e antisociale, cosí come ambigui e rischiosi erano considerati i poteri degli artigiani lavoratoti dei metalli. Connotati di mago, del resto, ha lo stesso dio Efesto (Vulcano), il fabbro claudicante che, secondo il mito, avrebbe pagato l’acquisizione della sua scienza con la propria integrità corporale e con l’esclusione dall’Olimpo, sede di tutte le principali divinità. Ugualmente emarginata è poi l’attività magica


Nella lingua latina, la parola magus compare per la prima volta al tempo di Cicerone, con una colorazione negativa, legata al dilagare degli operatori stranieri

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di altri personaggi famosi della mitologia classica, in special modo di due donne esperte di filtri e piante prodigiose: Circe e Medea.

Figlia del dio Sole La prima, nel racconto di Omero, è la bella figlia del dio Sole, che vive solitaria sull’isola Eea e trasforma in animale chiunque giunga al suo regno, mediante pozioni e una verga magica. Costretta da Ulisse ad abbandonare il suo isolamento di maga, Circe restituisce agli sventurati compagni dell’eroe la forma umana, s’innamora di colui che ha vinto la sua magia e gli dona perfino dei figli, come una donna normale. Nella letteratura greca, le sue avventure sono limitate ai documenti piú antichi, ma vivono a lungo nell’arte. Circe compare, infatti, nella pittura vascolare ellenica a partire dal VI secolo a.C., raffigurata soprattutto nel momento supremo del confronto con Ulisse; alcuni specchi etruschi e due pitture pompeiane presentano invece il motivo della sua sconfitta, con l’immagine della donna che, visti vani i suoi malefizi, chiede pietà al sovrano di Itaca. Tratti di maga piú caratterizzati, e meglio inseriti in una ricca morfologia eroica, spiccano nella figura di Medea, «l’Astuta», figlia del re della Colchide e nipote di Circe. Medea aveva una parte importante già nell’antico poema sugli Argonauti, quale alleata e compagna di Giasone alla conquista del vello d’oro. Euripide, nel V secolo a.C., la presenta come assassina dei figli, per vendetta e gelosia, come intrigante politica e maga potente. Medea incantatrice del dragone, vittoriosa sul gigante Talos,

Nella pagina accanto un primo piano di una metopa in calcare raffigurante Perseo che uccide la Medusa, dal tempio C di Selinunte. VI sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale Salinas.

In alto medaglione con testa di Medusa, particolare della decorazione pavimentale a mosaico del frigidarium delle terme di Dar Smala (Sousse, Tunisia). II sec. a.C. Sousse, Museo Archeologico.

avvelenatrice del fratello Absirto, esperta conoscitrice di erbe e di pozioni, benevola operatrice di ringiovanimenti o, al contrario, triste infanticida: sono questi i temi piú diffusi nelle figurazioni della maga, dalle piú antiche – sulle pitture vascolari attiche del V secolo – alle piú recenti, nei vasi dell’Italia meridionale di età ellenistica, nei dipinti pompeiani, su sarcofagi e gemme di età romana imperiale, fino alle miniature di epoca bizantina. Se Medea viene dalla Colchide e Circe vive su un’isola, nell’estremo Occidente, vicino alle Esperidi e al regno dei morti, era miticamente localizzato il soggiorno di un essere mostruoso e ripugnante, per alcuni versi riconducibile anch’esso alla sfera del magico: Medusa, unica mortale delle tre sorelle Gorgoni. Secondo la tradizione piú diffusa, essa aveva ali enormi, denti di cinghiale, serpenti per capelli e occhi capaci di trasformare gli uomini in pietra. Il mito narrava la sua decapitazione a opera dell’argivo Perseo aiutato da Atena. Si credeva, inoltre, che una parte del sangue scaturito dal suo cadavere venisse impiegata dal dio della medicina Asclepio per ridare la vita e un’altra, invece, per dare la morte.

Ornamento di scudi e armature La testa di Medusa, soprattutto, era intesa come un trofeo terrificante (il gorgoneion) e per questo veniva riprodotta sia come elemento decorativo di frontoni, metope, antefisse, ecc., sia, piú precisamente, come ornamento amuletico delle armature e in particolare degli scudi. Questi fatti e l’opinione, riferita da Pausania, che voleva sepolta sotto l’agorà (piazza

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principale) di Argo la testa decapitata del mostro, suggeriscono che il gorgoneion fosse in origine una personificazione separata del potere apotropaico e della capacità di protezione attribuita alla fissità dello sguardo. È inoltre diffusa tra gli studiosi la convinzione che la Gorgone fosse un essere sovrumano di origine preellenica, per le moltissime analogie riscontrabili tra il mito e le figurazioni di Medusa e quelli mesopotamici del mostro Humbaba e del demone femminile Lamashtu. L’influenza di uno schema tipologico vicinoorientale, forse mediato dalla produzione imitativa dell’arte fenicia, traspare per esempio nel gorgoneion fittile ritrovato, in piú esemplari, nella stipe del tempio dell’acropoli di Gortina, a Creta, databile alla prima metà del VII secolo a.C. A tale epoca risalgono anche le prime raffigurazioni di Perseo che uccide Medusa e viene inseguito dalle altre due Gorgoni. La visione frontale dell’essere mostruoso, la bocca enorme e, soprattutto, i grandi occhi apotropaici sono elementi ricorrenti nella tipologia elaborata nel corso dello stesso secolo in ambiente corinzio, sia per la Gorgone intera che per la sola sua testa.

Il mostro si umanizza A questa tipologia fanno riferimento anche varie figurazioni del mostro in ambiente italico (Siracusa, Veio, Taranto). Nel periodo classico invece, cioè a partire dal V secolo a.C., l’aspetto della Gorgone si addolcisce e si umanizza nei lineamenti di una giovinetta; mentre in età ellenistica, quando la difesa dal malocchio attinge ormai a nuovi schemi ideologici, si elabora una rappresentazione patetica della Gorgone morente. La probabile origine straniera di Medusa e la collocazione emarginata di tutti i personaggi finora esaminati c’invitano a sottolineare ancora il fatto che la magia, nei suoi risvolti temibili e negativi, rappresentava per la cultura greca qualcosa di difficilmente accettabile, e per questo veniva miticamente confinata ai limiti del mondo civile, tra i barbari e sulle isole. Con la Colchide e l’estremo

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Cratere a campana del Pittore di Dolone, raffigurante una scena tratta dalla Medea di Euripide, in cui Medea dona il mantello a Creusa. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.


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Occidente, anche la Frigia, la Tracia e soprattutto la Tessaglia erano cosí giudicate serbatoi di stregoni dai poteri funesti e di maghe potenti, capaci perfino di far scomparire la luna dal cielo.

La diffidenza verso le minoranze Del resto, che la magia sia spesso intesa come un termine per etichettare negativamente popolazioni e culture diverse dalla propria, è un dato che abbiamo già sperimentato nelle civiltà del Vicino Oriente; lo ritroviamo anche nella cultura romana piú antica, dove le minoranze

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Rilievi del fregio orientale del tempio di Zeus a Pergamo, raffigurante la Gigantomachia. II sec. a.C. Berlino, Pergamonmuseum. Sono riconoscibili Ecate (che combatte contro il Gigante Clizio, a sinistra) e Artemide (contro Oto).

etniche (i Marsi, i Peligni, gli Irpini e finanche gli Etruschi) si configurano sovente come un insieme di potenti e pericolosi operatori di magia, grazie alla loro stessa alterità d’origine (o culturale, come si direbbe oggi). Cicerone giunge poi ad affermare che questa «disciplina» è illegale, perché i suoi riti sono stranieri; Plinio, dal canto suo, osservata la diffusione quasi universale della magia, ribadisce con vigore la sua origine orientale e la preminenza a essa attribuita nello Stato partico a lui contemporaneo, mentre l’impero romano si caratterizza ai suoi occhi come


In basso statuetta in terracotta raffigurante Ecate trimorfa. II sec. d.C.

Teogonia di Esiodo e diviene poi la signora per eccellenza delle operazioni magiche. La dea presenta all’inizio i caratteri di benefica dispensatrice di grazie, sicura alleata nei tribunali, potente ausiliatrice nelle gare atletiche. Era inoltre associata ai crocevia, dove mensilmente si esponevano i suoi «banchetti» rituali con offerte di pani, dolci, pesci, uova, formaggi; per questo veniva anche raffigurata con tre facce o con tre corpi. Da tale suo trimorfismo e dal suo aspetto di divinità delle strade e dei crocicchi derivò, con il tempo, una sua specifica associazione con le ombre dei fantasmi, che si riteneva si agitassero appunto in quei luoghi, alla luce incerta della luna.

Patrona di stregoni e maliarde

benemerito repressore di tale riprovevole «scienza». L’osservazione si ripete e si amplia quando si esaminano le potenze coinvolte piú direttamente nei rituali magici, e soprattutto le mutazioni morfologiche intervenute in quelle figure divine di cui la magia sembra essersi impadronita in modo specifico per raggiungere i suoi scopi. È il caso, per esempio, di Ecate, che, venerata inizialmente in Asia Minore, assume rilievo nella

Poco a poco, questa divinità dall’origine straniera finí dunque per essere evocata come nemica della luce e dea delle tombe, generatrice d’incubi e di malattie, mentre la sua figura terrificante assunse i tratti di patrona di stregoni e maliarde, nonché di protagonista attiva d’ogni sorta d’operazione funesta. A Ecate si giunse ad attribuire, fin dall’epoca classica, l’invenzione stessa della magia, una stretta parentela con Circe e Medea e poi ancora una temibile schiera di cani ululanti e di Lamie, demoni femminili abitatori dell’inferno. Le Lamie non hanno perlopiú tratti ben caratterizzanti, risultano praticamente assenti dall’espressione artistica e spesso si confondono perfino con la dea Ecate; i loro nomi sono quelli del fantasma infanticida di Gello, dello spauracchio senza pace di Mormo, della mostruosa Baubo e dello spettro multiforme di Empusa. Nelle rappresentazioni greche e poi romane dell’oltretomba, tuttavia, trovano posto con queste Lamie altri temibili personaggi extraumani, lasciati per la gran parte ai margini

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del sistema politeistico ufficiale: le vendicatrici Erinni, per esempio, e le Arpie rapitrici di mortali, le Furie tormentatrici, le Larve spettrali, e cosí via. Tali sinistre moltitudini, rappresentando di fatto quanto v’era di ripugnante nell’esistenza umana (dolore, vecchiaia, rimorso, fame, morte violenta o prematura), costituivano per le operazioni di magia un potenziale di referenti sovrumani tanto vario, quanto minaccioso e presumibilmente efficace.

Il panorama si arricchisce Il panorama di simili signori dell’occulto, già largamente ispirato a rappresentazioni marginali rispetto al quadro sociale e mentale della tradizione, venne notevolmente ad arricchirsi nel sincretismo magico-religioso prima dell’ellenismo e poi dell’impero romano. Maghi e stregoni rinnovarono infatti, nel contatto con l’Egitto, con la Mesopotamia e con l’Oriente iranico, il proprio bagaglio di esperienze, già ampiamente indirizzate alla valorizzazione del «diverso». I Caldei disegnatori di oroscopi, ora definiti anche come mathematici, e i maghi di Alessandria, che pretendevano di rifarsi agli scritti e all’autorità dell’antica sapienza egiziana, ebbero d’altro canto la via aperta verso una nuova e ben piú ampia clientela, che nella confusione delle lingue e delle culture cercava nuove certezze e nuove soluzioni per le crisi esistenziali. Ecco dunque apparire, nei documenti della magia ellenistica prima e in quella romano-imperiale poi, i nomi di Iside e A sinistra busto marmoreo di Ermes, da Cirene. II sec. d.C. Cirene, Museo Archeologico. Il dio greco divenne il Mercurio dei Romani, che lo chiamavano «Trismegisto», cioè «tre volte grandissimo». Nella pagina accanto statua di Iside in marmo bianco e bigio morato. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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di Osiride, di Horo, Anubi e Seth, di Bes e soprattutto di Thot, l’antico dio della magia egiziana identificato ora col greco Ermes e col romano Mercurio, e detto Trismegisto, il dio «tre volte grandissimo». Ecco pure giungere dalla Mesopotamia il nome di Ereshkigal, potente signora degli inferi, di Nabu, signore della sapienza, di Eulamos e Semeseilam, il Sole eterno delle genti semitiche. Dalla Palestina viene il dio degli Ebrei, che nelle sue differenti denorninazioni (Iao, Sabaoth, Adonai, Arbathiao, Iabezebuth, ecc.) sembra realizzare per gli stregoni la sintesi migliore dell’essere divino. Ma le divinità dei testi di magia non sono piú quelle di una volta: la loro personalità originaria lascia progressivamente il campo a una voluta deformazione sincretistica, che amplifica i limiti della religione tradizionale e realizza, nel volgere di qualche secolo, una sorta di «monoteismo panteistico». Tutti gli dèi del mondo antico finiscono cioè con l’apparire come agenti di un’unica forza divina, che li trascende e che solo il mago conosce veramente. I loro norni, mutilati, trasformati, giustapposti, si prestano alla composizione di nuove, incomprensibili figure, che nulla hanno piú in comune con gli dèi del politeismo, ma convergono piuttosto nella formazione di una elaborata e ricca classe di demoni intercessori. Sorge cosí, con il crepuscolo degli dèi e la crescente importanza della demonologia, la certezza che tutta la magia (utile o dannosa) attinga a un potere enorme e pericoloso, sistematicamente illegale. Gli imperatori Tiberio, Claudio, Vitellio e Diocleziano rinnovano dunque contro di essa le condanne e le proscrizioni di Augusto e del Senato repubblicano, finché, con il cristianesimo, non si giunge a identificare come arte magica (e «diabolica») ogni forma di paganesimo e ogni eresia, segnando al contempo l’assoluta inconciliabilità della magia con «la» religione, cioè con la fede nell’unico Dio.

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MAGHI, STREGHE e STREGONI Nonostante le ripetute «persecuzioni», maghi e fattucchiere dovettero poter svolgere una fiorente attività: ne sono prova le numerose testimonianze offerte dall’archeologia, con il suo vasto e variegato campionario di strumenti e oggetti legati a riti e sortilegi, praticati tanto in Grecia quanto a Roma | MAGIA E DIVINAZIONE | 58 |


Quadretto ad affresco raffigurante l’incontro tra una maga e un viandante, dalla Casa dei Dioscuri, a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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a necessità di porre in risalto le testimonianze dirette sulle tecniche magiche nel mondo greco-romano unificato ci suggerisce di lasciar da parte l’esame dei testi in prosa e in poesia che utilizzano la magia come motivo letterario (ricordiamo Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano) o quelle fonti che la presentano come prodotto di sincretismo filosofico-religioso (la cosiddetta magia «mistica» degli Alessandrini e le sottili disquisizioni dell’ermetismo e dello gnosticismo), limitando altresí a una breve citazione il ricordo dei nomi e delle opere di maghi famosi, come Apuleio di Madaura e Apollonio di Tiana. Veniamo dunque alle fonti archeologiche. Esse sono rappresentate, innanzitutto, da un nutrito gruppo di papiri magici provenienti dall’Egitto. Il loro ritrovamento fece sensazione non meno di quello dei manoscritti del Mar Morto o di opere classiche considerate perdute. Se ne conosceva l’esistenza e la diffusione da varie

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In basso particolare del papiro greco di Oslo. IV sec. a.C. Oslo, Università. È uno dei piú importanti documenti esistenti sulla magia nell’antichità, contiene 19 formule magiche ed è illustrato con i disegni dei demoni che devono essere riprodotti come parte del rituale. Nella pagina accanto lekythos attica raffigurante la strega Lamia torturata da satiri. 525-475 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

fonti letterarie, che recano menzione dei numerosi testi magici su papiro circolanti nel mondo greco-romano e condannati periodicamente alla distruzione. Svetonio dice, per esempio, che l’imperatore Augusto, nel 13 a.C., ordinò il rogo di duemila pergamene di contenuto magico; e gli Atti degli Apostoli (19:18) ricordano un’analoga iniziativa promossa a Efeso da quanti avevano abbracciato la fede dopo la predicazione dell’apostolo Paolo. Incalzati dalle leggi e poi dall’avvento della nuova religione monoteistica, molti operatori di magia provvidero senz’altro a occultare nel miglior modo possibile i loro testi. Quelli che rimasero in circolazione vennero raccolti, già sul finire dell’evo antico, da filosofi e alchimisti, appassionati cultori di magia; ma gli originali andarono comunque perduti. Si può pertanto ben comprendere l’importanza dei papiri recuperati in tempi moderni, che sono ancora oggi oggetto di studio e di edizione.


Essi costituiscono in buona parte la cosiddetta collezione Anastasi, dal nome del viceconsole svedese al Cairo (dal 1828 al 1857) che li portò in Europa. Stando alle sue dichiarazioni, molti papiri (almeno una mezza dozzina, tra quelli meglio conservati) provenivano da un unico ritrovamento, effettuato nei pressi di Tebe nella tomba di un mago o di un bibliofilo che li aveva voluti sepolti accanto al suo cadavere. Venduti all’asta, i papiri vennero acquistati da vari musei (il British di Londra, il Museo Nazionale di Berlino, la Biblioteca Nazionale e il Louvre di Parigi, il Rijksmuseum di Leida) e il loro numero è andato aumentando con nuovi ritrovamenti o acquisizioni dal mercato antiquario. Ci volle tuttavia piú di un secolo prima che gli studiosi comprendessero appieno il valore di questo materiale, che nel catalogo d’asta della collezione Anastasi era definito come «fromage mystique».

Manuali dell’operatore magico I papiri magici in lingua greca (ce ne sono però anche in egiziano demotico e in copto) risalgono per la gran parte a un periodo che va dal II secolo a.C. al V d.C. e incorporano un’ampia quantità di documenti, di varia origine e natura: sono, in altri termini, i manuali dell’operatore magico, i suoi ricettari e gli schemi di lavoro. Sebbene provengano dall’Egitto greco-romano, essi testimoniano pratiche in uso già nell’epoca ellenistica e riflettono perlopiú il pluralismo culturale caratteristico delle civiltà mediterranee unificate da Roma. Molto deriva, ovviamente, dalla religione egiziana, sia pure attraverso il filtro della sua ellenizzazione: gli dèi, i miti, la tradizione dell’Egitto faraonico vi si ritrovano variamente deformati e spesso condizionarono lo svolgimento del rituale e i caratteri delle divinità di diversa origine. Notevole è anche l’influsso del giudaismo, con i suoi segreti, il nome potente del suo dio

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La pronuncia del vero nome divino è un momento essenziale dell’atto magico, e, per essere sicuro di non ometterlo, il mago moltiplica le formule e gli appellativi, ricorre alle lingue straniere, al parlare degli uccelli e degli animali e la fama nel mondo esterno di religione creatrice di grandi maghi. L’apporto dei Giudei alla magia dei testi papiracei s’individua soprattutto in taluni elementi specifici: in primo luogo, la Bibbia, che offre racconti e personaggi «esemplari»; poi il nome divino e quelli degli angeli suoi servitori; infine la terminologia, che deforma i vocaboli ebraici in varie formule arcane, a cominciare forse da quella dell’abracadabra.

Capricciosi, demoniaci e pericolosi Numerosi elementi costitutivi traggono origine, inoltre, dagli sviluppi della religione e del pensiero filosofico greco. Ma i vari Zeus, Ermes, Apollo, Artemide, Afrodite che si ritrovano in questi papiri non sono piú, come s’è detto, le divinità note alla letteratura e all’arte greche tradizionali, bensí esseri capricciosi, demoniaci, spesso anche pericolosi. Tutti poi assumono, con Ecate e Persefone, connotazioni sotterranee e infernali specifiche, al punto che la vita umana sembra svolgersi nell’anticamera della morte e consistere in una continua negoziazione tra il mago e le potenze dell’oltretomba. In quest’opera di mediazione sono del pari coinvolte divinità astrali, come Selene, la luna, e la costellazione dell’Orsa, o astratte, come Physis, la Natura, Moira, il Destino, e la piú importante di tutte, Aion, l’Eone del Tempo. È dunque una sorta di «fascinazione»

In alto una tabella defixionum, tavoletta in piombo contenente una maledizione, dall’anfiteatro romano di Treviri. II-III sec. d.C. Trier, Rheinisches Landesmuseum. Nella pagina accanto rilievo raffigurante la dea Demetra in trono, con una kore davanti a lei che regge due torce. 480 a.C. circa. Eleusi, Museo Archeologico.

dell’universo intero quella che propongono i papiri magici greci: un incantesimo (si ricorderà che questo, propriamente, è il significato del latino fascinum), che piega inesorabilmente ai voleri del mago ogni divina potenza del cosmo. La conoscenza del nome è cosí il primo favore che l’operatore chiede alla divinità, per poterla poi costringere ad agire: naturalmente si chiede di conoscere il nome autentico del dio, quello grande, consacrato, segreto, bello, terribile, forte e sovrano, per usare la terminologia dei papiri. La pronunzia del vero nome divino, pertanto, è un momento essenziale dell’atto magico, e, per essere sicuro di non ometterlo, il mago moltiplica le formule e gli appellativi, ricorre alle lingue straniere, al parlare degli uccelli e degli animali. Alla padronanza del

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nome si aggiunge poi quella dei segni, dei numeri e degli emblemi divini; piú l’operatore dimostra di conoscere la natura del dio, insomma, maggiore è la potenza che ritiene di avere su di lui. Dalla divinità egli si attende soprattutto beni esistenziali: l’amore, il benessere economico, la salute, la vittoria, la bellezza, la gloria. Talvolta il mago punta a ottenere uno scopo piú preciso, come arrestare la collera di un individuo, votarlo all’impotenza o all’insonnia, proteggerlo contro gli scorpioni, i serpenti e le malattie. Oppure egli si esercita in pratiche piú rare e piú complesse, come la risurrezione di un morto, l’evocazione di una persona defunta, la predizione dell’avvenire. Il mago, infine, si serve di un cerimoniale segreto e di formule incomprensibili, talora soltanto accennate nel testo papiraceo, che ne dà per scontata la conoscenza. Non di rado egli ricorre al sacrificio di un gallo, di un cane o di un altro animale, e alla trance di un fanciullo, come medium per conoscere il volere divino. Tra gli «attrezzi del mestiere», accanto alle erbe, alle pozioni, al fuoco e alle figurine di cera, dobbiamo ricordare anche piccole tavole, chiodi, ciotole e

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In basso tavola in bronzo con rilievi raffiguranti le tre forme di Ecate e iscrizioni, facente parte di un corredo di nove oggetti (tra cui il cosiddetto Prognosticon) verosimilmente impiegati per rituali magici, da Pergamo. III sec. d.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.

pietre ricoperti di simboli magici, che figuravano per esempio nel kit (attrezzatura o corredo) di un operatore, rinvenuto a Pergamo e risalente al III secolo d.C.

Il gatto sacrificato Per l’esemplificazione, invece, dei rituali in questione, basterà qui la citazione di un papiro del IV secolo, che offre la ricetta magica per vincere in una corsa. Il testo prescrive, con molti dettagli, di affogare innanzitutto un gatto, pronunciando i nomi degli avversari temuti, affidandoli al dio solare Helios, scongiurato in tutte le sue denominazioni. Successivamente, nel corpo della povera bestia si devono inserire tre lamine magiche; il gatto va quindi avvolto in una foglia di papiro, sulla quale si deve precedentemente scrivere col cinabro la preghiera del sortilegio e disegnare i carri, i cocchieri, i cavalli da corsa. A questo punto l’animale va seppellito, avendo cura di accendere sette lampade e di lasciar fumigare dello storace (una pianta aromatica). L’acqua utilizzata per affogare il gatto, da ultimo, deve essere versata sul luogo dell’incantesimo, mentre a Iside-Ecate-Ermecate e al


demone del gatto si rivolge una preghiera, di cui il papiro riporta il testo per esteso. La scelta di questo esempio non è casuale: con la menzione delle lamine magiche, esso c’introduce infatti a un secondo gruppo di documenti e di riti, sui quali gli scavi archeologici permettono di avere informazioni dirette. Si tratta delle maledizioni scritte su piccole sfoglie di metallo (generalmente in piombo, ma ce ne sono anche in bronzo, stagno, oro e perfino in argilla), che gli studiosi indicano col termine «defissioni» (defixionum tabellae) e che sono state rinvenute a centinaia in molte località del Mediterraneo. Le piú antiche (alcuni esemplari da Selinunte) risalgono forse alla seconda metà del VI secolo

La faccia superiore del Prognosticon, un disco in bronzo, di forma convessa con iscrizioni di simboli astrologici ed esoterici, verosimilmente utilizzato per la divinazione, da Pergamo. III sec. d.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.

a.C., mentre le piú recenti appartengono all’età imperiale avanzata, in pieno cristianesimo. Per la gran parte sono in greco e redatte in prosa, con il frequente ricorso a un linguaggio contorto; ne esistono però anche in latino (ispirate ai modelli ellenici) e in forma metrica. Un paio, provenienti da Cartagine, sono in punico e ci mostrano l’ampia diffusione di una pratica che dalla Grecia si irradiò in Asia, in Siria-Palestina (si confrontino i ritrovamenti di Teli Sandahanna, sopra citati), in Egitto e in Italia, e fu poi trasmessa dagli eserciti romani fino in Spagna, in Britannia e in Nord Africa. L’uso di questi «legamenti», come li definisce Platone e come indicano alcune espressioni delle stesse tavolette, era generalmente

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proibito e fu sottoposto a severe sanzioni. Nella Grecia classica, se a farlo era un medico, veniva punito con la morte; a Roma, chi commetteva tale reato nel quadro degli impia nocturna rischiava la crocifissione, o l’esposizione alle belve. La proibizione era legata soprattutto al carattere di magia nera delle defissioni. Il rito, in effetti, era sempre indirizzato a nuocere e far del male: ci si proponeva di uccidere o paralizzare la propria vittima, per invidia o gelosia; di punirla per un furto presunto o di rovinarla in tribunale; di vendicarsi di un medico incapace o del coniuge infedele; d’impedire o procurare a qualcuno il successo in amore, di negare a un avversario il trionfo nel circo o nell’anfiteatro, e cosí via.

Piombo per le maledizioni Il defissore scriveva, dunque, il testo della sua maledizione sulla tavoletta di piombo, vi tracciava segni magici, le figure degli esseri invocati e quelle delle vittime; ripiegava quindi o arrotolava la defissione su se stessa e provvedeva a seppellirla. A questo scopo si prediligevano, di solito, i santuari delle divinità dell’oltretomba, i pozzi e le sorgenti, le porte delle città, oppure le tombe, in particolare quelle di persone colpite da morte violenta: tutti quei luoghi, insomma, che suggerivano un contatto diretto con il mondo degli inferi e garantivano un’attenzione particolare dei suoi abitatori per le laminette iscritte. La maggior parte delle defissioni provengono cosí da zone sepolcrali; ma ne sono state trovate anche in luoghi sacri, come per esempio nel temenos di Demetra ctonia a Cnido e nel santuario delle divinità infere a Morgantina, in Sicilia. Un’idea del tono di questi scongiuri ci è data da un esemplare ritrovato nell’anfiteatro di Cartagine, rivolto contro un bestiario: «Uccidete, sopprimete, dilaniate Gallico, il figlio di Prima, ora, al cospetto della folla; che restino legati i suoi piedi, le membra, i sensi,

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il cervello, cosí che non uccida né orso né toro, con la rete semplice, né con quella doppia e neppure con la tripla (...) Fatelo nel nome del dio vivo onnipotente; adesso, adesso, presto, presto. Che l’orso possa sbranarlo e farne strazio!». Talvolta la defissione, ripiegata, veniva trafitta da chiodi, per rafforzare il senso dello scongiuro (defigere in latino significa appunto «inchiodare»). In qualche caso, poi, il rito era piú complesso e la tavoletta veniva accompagnata da una figurina – in cera, in argilla o in metallo –, che rappresentava la vittima da colpire e che, nel simbolismo magico, veniva opportunamente martirizzata dallo specialista del rito. Due ritrovamenti basteranno qui a esemplificare il procedimento: il primo viene dalla Grecia della fine del V secolo a.C., il secondo, cronologicamente assai posteriore, proviene dall’Egitto del III-IV secolo d.C. Si tratta, nel primo caso, di una scatoletta di piombo rinvenuta in una tomba del sepolcreto ateniese del Ceramico. L’oggetto era tra le ossa del bacino dello scheletro di un defunto e conteneva a sua volta una figurina maschile dello stesso metallo, con le braccia legate dietro la schiena e il nome di una persona inciso sulla gamba destra. Nella faccia interna del coperchio della scatoletta era stato inciso il testo della defissione contro il personaggio raffigurato e contro altre persone, con lui implicate in un processo giudiziario. L’altro esempio è costituito da tre pezzi: una figurina femminile nuda, inginocchiata e con le mani legate dietro la schiena, il corpo trafitto da tredici piccole frecce metalliche; poi una defissione in piombo, che reca il testo di un incantesimo d’amore affidato a divinità ctonie e a defunti di morte precoce; infine, un vaso, destinato a contenere gli altri

Nella pagina accanto statuetta per un sortilegio d’amore trafitta da vari spilloni. IV sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso mano votiva in bronzo, con simboli magici, destinata al culto del dio Sabazio e ritrovata in Svizzera, presso l’antica Aventicum. 50-150 d.C. Avenches, Museo Archeologico.

due pezzi, in terracotta come la statuetta. Gli oggetti di provenienza egiziana si pongono in stretta relazione con un papiro magico del IV secolo, che – per assicurare magicamente l’amore e la fedeltà di una donna – prescrive appunto di modellarne con l’argilla un’immagine, di trafiggerla con aghi di bronzo in tredici punti vitali, di seppellirla poi in una tomba con una formula incantatoria incisa su lamina di piombo e con un’altra statuetta, raffigurante il defunto che viene coinvolto nell’atto di defiggere la donna. La corrispondenza non è casuale, né desta eccessiva meraviglia, poiché le analogie osservabili tra i testi dei papiri magici e le defissioni vanno ben al di là di quelle indicate dai rituali che abbiamo poc’anzi ricordato.

Nomi strani e senza senso Non diversamente dai documenti papiracei, gli scongiuri sulle lamine di piombo considerano, per esempio, essenziale il ruolo di esseri sovrumani sistematicamente riferiti all’oltretomba, che qui prendono i nomi di Plutone, Ermes-Mercurio infernale, la Terra Madre, Cerere e Proserpina, Ecate, Persefone, Iside, Osiride, Ereshkigal, Iao e altre divinità d’origine straniera. Si moltiplicano poi, anche nelle tabelle, gli appellativi esoterici e i barbara onomata, nomi strani e senza senso che si davano alle divinità per formare nuove entità sovrumane. Ritroviamo inoltre le formule volutamente incomprensibili e la crittografia mistica, costituite per esempio dagli ephesia grammata («lettere efesine», perché scritte sulla statua di Artemide efesina o perché con esse un lottatore di Efeso si sarebbe procurato la vittoria), che sono serie di parole di significato misterioso, formate secondo uno schema di assonanze e suffissi che doveva

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facilitare l’intonazione progressiva della loro pronunzia. Anche nelle defissioni, infine, si gioca sui caratteri della scrittura, sulle serie alfabetiche, vocaliche e numeriche per dare vita a combinazioni del tipo CZΛUΘ, dove C sta per Osiride, Z per Apis, Λ contiene un riferimento per noi oscuro, U va riferito al dio Seth oppure agli inferi, Θ rappresenta il cerchio magico. Nelle tabelle come nei papiri, si ricorre insomma a un vocabolario misterioso e composito, la cui arcana complessità era di per se stessa considerata sinonimo di familiarità del mago col soprannaturale e garanzia di efficacia per i suoi rituali.

Eracle, che «allontana il male» Uno stretto rapporto con le pratiche e l’ideologia dei papiri e delle defissioni, nei termini sincretistici che andiamo illustrando, ha anche un terzo gruppo di documenti, che ci propone però oggetti destinati a proteggere magicamente dal male e a procurare il bene. Per tali scopi, nei periodi classico ed ellenistico, si usarono amuleti di vario tipo, come i grandi occhi apotropaici ai quali si è accennato sopra, e soprattutto le pietre lavorate con l’immagine di Eracle «allontanatore del male» (a-lexikakos) o di altre divinità misericordiose. Nel I secolo d.C. cominciano invece ad apparire laminette in oro e in argento, con iscrizioni conservate in piccoli astucci di forma cilindrica, come nell’antico Egitto, e soprattutto, in gran numero, anelli e collane con pietre, che apertamente dichiarano di essere magiche e

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Amuleto con raffigurazione di re Salomone. Età imperiale. Saint-Germain-enLaye, Musée d’archéologie nationale.

usano termini e immagini identici a quelli delle defissioni e dei testi papiracei. Per queste pietre gli studiosi hanno adottato la definizione di «gemme gnostiche», con riferimento a elementi dottrinari dello gnosticismo, o quella piú appropriata di «gemme Abrasax», dal termine piú frequentemente inciso su tali pietre. Va detto che raramente questi oggetti sono stati ritrovati nel corso di scavi regolari, che erano molto ricercati nel Medioevo e nel Rinascimento, e che hanno arricchito in gran quantità il mercato antiquario. Se ne possono tuttavia ammirare pregevoli esemplari nelle collezioni dei principali musei, sia in Italia che all’estero. Malgrado la notevole dispersione, traspare dalle gemme una profonda unità dottrinale; sembra del resto sicuro che esse provengano, nella quasi totalità, da centri di produzione egiziani e piú precisamente alessandrini. La lingua delle iscrizioni è il greco, usato anche per trascrivere vocaboli di lingue semitiche o incomprensibili. Non è raro trovare incise sulle gemme formule attestate dai papiri; e accade che un papiro descriva un’incisione che è poi giunta fino a noi.

Materiali di scarso valore Le gemme erano indirizzate a un largo pubblico di utenti e per questo venivano realizzate perlopiú in materiale semiprezioso o comune (diaspro, ematite, perfino ciottoli), con una lavorazione artigianale piuttosto povera. La scelta doveva dunque avvenire sulla base di valutazioni che prescindevano dal valore


venale delle pietre e si riferivano piuttosto alla loro efficacia come talismani. Si conoscono in effetti gemme rivolte contro le emorragie, la febbre, la sciatica, il mal di reni, i dolori allo stomaco, l’aborto, i malanni dell’utero e degli occhi; altre gemme recano incantesimi d’amore o esprimono professioni di fede, con acclamazioni ed epiteti divini; altre ancora si propongono come amuleti contro mali invisibili ed esseri demoniaci. Le divinità invocate o raffigurate ci riportano all’Egitto dei papiri magici: frequente è il nome di Iao, spesso associato alla figurazione di un guerriero anguipede a testa di gallo, con corazza, scudo e frusta. Accanto a questa iconografia troviamo però con frequenza notevole anche il nome di Abrasax, o Abraxas, già indicato per definire le gemme e attestato inoltre sui papiri e sulle defissioni. Il potere magico di questo personaggio era grande, legato soprattutto al valore numerico delle lettere del nome, corrispondenti ai giorni dell’anno e, nel sistema gnostico di Basilide, al numero degli Eoni, di cui Abrasax è il capo. Tra le divinità sono menzionate o raffigurate soprattutto Bes, Anubi, Osiride in forma di mummia, Serapide, Horo e Iside, identificata talora con Hathor, Ecate, Afrodite ed Ereshkigal. Su molte gemme compare l’immagine di un serpente a testa leonina ornata di raggi, che ha il nome di Chnubis, o Chnumis, derivato probabilmente da quello di Khnum, dio creatore della tarda mitologia egiziana. C’è inoltre un gruppo di pietre con la figura di un demone acefalo, che un papiro definisce «colui che possiede il fuoco eterno, la cui bocca è sempre infuocata, il cui nome è un cuore circondato da un serpente». Spesso le gemme, come già i papiri e le defissioni, recano iscrizioni parzialmente o

totalmente incomprensibili, con lettere isolate o in serie, combinazioni vocaliche, anagrammi e formule leggibili nei due sensi, come per esempio thobarraboth e il piú frequente ablanathanalba. Altre volte, le virtú apotropaiche dell’amuleto sono legate alla raffigurazione dell’oggetto da proteggere, dell’essere sovrumano da supplicare, degli eventi mitici da evocare per l’occorrenza. Troviamo cosí amuleti con la Gorgone decapitata contro la podagra, Ares guardiano contro i mali di fegato, l’utero, lo scorpione contro il suo stesso veleno, la lucertola per le affezioni degli occhi.

La Gorgone e l’arcangelo

Dritto e rovescio di un abraxas, gemma amuleto raffigurante la divinità dalla testa di gallo assieme a incisioni di formule magiche. Parigi, Museo del Louvre.

Nel V secolo d.C. cominciano ad apparire in abbondanza gemme che si rifanno a modelli e concezioni giudaico-cristiane: l’immagine del re Salomone, prototipo del Cristo, nelle vesti di un cavaliere che uccide con la lancia un demone femminile oppure associato al malocchio; il nome e la figura di Gesú Cristo sulla croce accanto a simboli e iscrizioni magiche; la Gorgone unita a un arcangelo o alla Madonna. Con questi oggetti termina la produzione magica del mondo antico e si passa a quella degli amuleti di età bizantina e medievale. Il nostro discorso può dunque arrestarsi su questa soglia, quando la magia è avviata a divenire in Occidente, con chiarezza sempre maggiore, una religione a rovescio, in contrasto con la fede cristiana. Il mago, in definitiva, si qualifica ormai come l’operatore del diverso, l’esperto conoscitore di una scienza che viene da lontano, il maestro di una disciplina dotta, autonoma e occulta, alla quale vorranno rifarsi, per autorevolezza e garanzia, maghi, guaritori e alchimisti dei secoli successivi.

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il PRESENTE non BASTA Il desiderio di conoscere il proprio destino è antico quanto l’uomo. Ne è prova il fatto che tutte le civiltà del passato misero a punto tecniche di predizione del futuro assai elaborate, con operatori ritenuti capaci di stabilire una speciale e diretta comunicazione con le divinità | MAGIA E DIVINAZIONE | 70 |


L’oracolo, olio su tela di Camillo Miola. 1880. Los Angeles, John Paul Getty Museum. Il pittore raffigura la sacerdotessa di Apollo, Pizia, nell’atto di pronunciare una profezia.

S

ul piano generale, per «divinazione» s’intende oggi un sistema di conoscenza che travalica la ragione umana per apprendere cose future o altrimenti ignote. Come tale, essa costituisce un fenomeno pressoché universale, praticamente conosciuto da tutte le civiltà e particolarmente da quelle documentate archeologicamente. Tuttavia, a questa universalità corrisponde un’ampia articolazione del fenomeno stesso, che si distingue dall’una all’altra civiltà per i suoi metodi, il suo oggetto, i suoi protagonisti, i rapporti che stabilisce con il sistema di valori proprio di ciascuna cultura. Di conseguenza, la varietà della documentazione che attesta il ricorso all’una o all’altra pratica divinatoria rinvia sempre a una diversità di modelli e di quadri ideologici, che solo giustificano la scelta della tecnica adottata. Possiamo insomma distinguere, accanto al problema fenomenologico della divinazione (cioè quello di una sua classificazione tipologica – partendo dalla premessa che si tratta di una categoria di fenomeni vasta e diversificata, al punto che raggrupparli sotto la stessa etichetta di «divinazione» costituisce una definizione operativa, di comodo –), un problema storico (cioè quello della funzione che essa svolge nell’edificazione e nell’evoluzione delle culture in cui si trova documentata), e un problema filosofico (cioè quello della considerazione accordata al sapere divinatorio), ciascuno specificamente inerente alle diverse situazioni in cui la divinazione viene considerata come componente, spesso essenziale, della cultura. In particolare, presso le culture arcaiche e quelle dei popoli illetterati, la divinazione costituisce l’unica modalità con cui esse si rivolgono a un tempo futuro con l’intenzione di conoscerne, il piú esattamente possibile, gli accadimenti, in particolare quelli vitalmente piú rilevanti, relativamente alla malattia, alla morte, alla raccolta, alla caccia.

Distinzioni e classificazioni Una classificazione delle pratiche divinatorie di particolare antichità si trova nel trattato Sulla divinazione di Marco Tullio Cicerone, e deriva dalle teorie in voga al suo tempo sull’argomento. Cicerone distingue una divinazione «naturale», fondata sull’intervento diretto della divinità che parla attraverso una persona ispirata o tramite segni casuali, indipendenti dalla volontà dell’uomo, e una divinazione «artificiale» (da ars, «tecnica, scienza»), in cui i segni sono appositamente provocati per ottenere un responso. Su questa base, lo storico Auguste Bouché-Leclercq (1842-1923) propose per la divinazione nelle culture del mondo antico una classificazione di ampia portata, distinguendo una divinazione spontanea o «intuitiva», da una divinazione artificiale o «induttiva», con una serie di sottodivisioni per l’una e l’altra forma divinatoria (vedi box a p. 18). Per il mondo antico, l’archeologia fornisce spesso documentazione per le diverse categorie, restituendo oggetti e strumenti della divinazione induttiva (modelli di fegato per epatoscopia, sortes, astragali, testi mantici, ecc.), riscontri monumentali per luoghi di culto consacrati alla divinazione intuitiva (con oracoli, incubazione, ecc.), raffigurazioni di personaggi ispirati e di cerimonie consultatorie, documenti scritti di evidente connessione con pratiche dell’uno e dell’altro tipo, sia nella forma di veri e propri testi mantici, sia in quella, piú semplice, di resoconti di avvenute consultazioni oracolari. La documentazione archeologica è invece solitamente meno ricca d’informazioni sul quadro ideologico e sui contesti socio-culturali che ispiravano le varie tecniche. Per questi aspetti è importante poter disporre anche di un’ampia documentazione letteraria, dal momento che l’interpretazione di una medesima tecnica può seguire in ciascuna

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cultura regole differenti. Da questo punto di vista, la situazione documentaria delle civiltà antiche varia da cultura a cultura: abbondante e conservata in testi letterari per le civiltà classiche, è invece costituita da notizie scarne o talora solo indirette per le popolazioni italiche, mentre per il Vicino Oriente preclassico l’epigrafia fornisce i testi direttamente usati nelle pratiche divinatorie, documenti di archivio o rituali. D’altro canto, le distinzioni tra le categorie tipologiche sopra indicate o altre ancora, proposte nella storia degli studi, non sono necessariamente alternative, non sempre risultano cosí nette (la stessa pratica può essere definita in modo diverso, conformemente ai criteri di classificazione adottati), e comunque non esauriscono tutte le implicazioni socio-culturali del fenomeno. Lo stesso Cicerone distingue in proposito tra divinazione romana e greca, osservando che a tale pratica gli antichi Romani hanno dato un nome derivato dagli dèi («divinazione») e ne hanno fatto un metodo per conoscere la volontà attuale delle divinità circa il presente. I Greci l’hanno invece chiamata «mantica», stando a Platone, derivandone il nome dal furore estatico e considerandola come una forma di vera conoscenza, parte integrante e irriducibile del sapere. Platone, in effetti, si mostra assai critico verso la divinazione basata su «tecniche», e specialmente verso l’oionistica (l’osservazione degli uccelli), mentre esalta e dà ampio credito a quella fondata sull’ispirazione divina. Del resto, per la Grecia classica sappiamo, anche da iscrizioni e documenti iconografici, che una divinazione di tipo induttivo trovò spazio e a lungo persistette nel sistema delle poleis, dove si praticavano sia l’extispicina (l’esame dei visceri), sia l’interpretazione dei prodigi; ma questo tipo di tecniche non riuscí mai a raggiungere l’importanza e il prestigio attribuiti invece alla parola del veggente, al messaggio oracolare inteso come aletheia, «verità», specialmente quando esso veniva dal santuario di Apollo a Delfi, la sede mantica per eccellenza. Garanzia fondamentale dell’autorità di questo oracolo era appunto la divinazione resa attraverso la parola ispirata della Pizia, sacerdotessa del dio che sedeva a tal fine nell’adyton del santuario, sopra una fessura del suolo (chasma) dalla quale si pensava che salisse aria mefitica (e che talora utilizzava anche tecniche induttive, come il gettito delle sorti o la lecanomanzia).

L’oracolo del santuario di Apollo a Delfi, ritenuto autorevole e attendibile, era tra i piú celebri dell’antica Grecia

L’assenso degli dèi Stando ai responsi rinvenuti negli scavi o conservati nella letteratura (soprattutto Erodoto, Pausania, Plutarco e i neoplatonici), si trattava di un sistema binario, che proponeva alla divinità un’alternativa tra il fare o non fare una determinata azione, pubblica o privata, già stabilita dall’interrogante; cosí il quesito oracolare e la sua risposta non tendevano alla predizione del futuro, bensí a stabilire se vi era assenso degli dèi per l’azione che si voleva intraprendere. Di larga fama e di notevole testimonianza archeologica sono comunque in Grecia anche altri oracoli connessi a culti divini o eroici, a cominciare da quello di Zeus a Dodona, nel centro dell’Epiro, dove i responsi si ottenevano mediante l’osservazione dello stormire di una quercia sacra, delle acque di una sorgente e dei movimenti o gridi delle colombe che ivi stazionavano. Le domande e le risposte, affidate all’interpretazione dei sacerdoti

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Nella pagina accanto altorilievo in marmo raffigurante Oreste che consulta l’oracolo di Apollo a Delfi, da Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


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Selloi e delle sacerdotesse Peleiadi, erano scritte su lamine di piombo, che, dal VI al II secolo a.C., documentano soprattutto una mantica volta alla soluzione dei piccoli problemi della vita quotidiana. Parimenti famosi erano gli oracoli di Asclepio a Epidauro, nell’Argolide, in un santuario ricolmo di ex voto, nel quale si praticava l’incubazione (il dio-eroe si rivelava nel sonno al consultante, che poi faceva interpretare il proprio sogno dai medici-sacerdoti Asclepiadi, ricavandone prescrizioni curative), quello cipriota dell’Afrodite di Pafo, dove la consultazione avveniva mediante aruspicina, e quello di Zeus Ammon nell’oasi libica di Siwa (fondato sui movimenti di un idolo), noto ai Greci dopo la fondazione di Cirene nel 630 a.C. e interrogato anche da Alessandro Magno nel 332 a.C. Per taluni di questi oracoli si giunse anche a raccogliere serie omogenee di domande e risposte divinatorie, dando vita a una letteratura oracolare talora apocrifa; fin dal V secolo a.C. è cosí documentata l’opera di vari «cresmologi», piú o meno degni di fede. Si può peraltro osservare che, sebbene la parola divina dell’oracolo delfico abbia a lungo guidato l’etica e la politica dell’intera Grecia, la mantica di base rimase, per larga parte della popolazione, quella delle pratiche induttive. Queste ottennero poi anche un fondamento filosofico, soprattutto nella speculazione degli stoici e dei neoplatonici. Mentre infatti Platone poneva la «follia» profetica al di sopra di qualunque scienza interpretativa dei segni, e mentre pensatori come Senofane, Epicuro e Carneade negavano ogni valore a questo particolare aspetto della religione e del sapere, la dottrina della Stoà, fin dai suoi inizi, giustificò la generale fiducia in ogni forma di divinazione, in base a un ferreo determinismo e alla fede nella provvidenza divina: per il pensiero stoico, tutti gli eventi sono cioè prevedibili in quanto prefissati, e gli dèi stessi forniscono, per il bene dell’uomo, i mezzi atti a pronosticarli. Anche il mondo romano conosceva indovini e libri ispirati dagli dèi, ma il collegio degli àuguri, attorno ai quali ruota ogni forma di divinazione consentita, agiva piuttosto secondo una tecnica rigorosa, indipendente da ogni carisma personale, finalizzata all’interesse dello Stato e fondata sull’osservazione di segni naturali (auspicia). L’àugure istituzionale, in altri termini, non si preoccupava di «prevedere» cose future: egli consultava Giove, di cui era l’«interprete ufficiale», per indicare in base agli auspici l’approvazione o la disapprovazione divina sulla decisione che lo Stato voleva intraprendere. Per stabilire la comunicazione col dio, l’àugure delimitava nel cielo uno spazio orientato, detto templum, all’interno del quale osservava i segni (principalmente il movimento degli uccelli, da cui il latino auspicium, ma anche fulmini, lampi, tuoni), sia prestabiliti (auspicia impetrativa) sia inattesi (auspicia oblativa). L’istituzione del collegio degli àuguri era attribuita al re Numa, ma il primo àugure della tradizione romana è il fondatore stesso della città, Romolo, e l’accesso a tale carica, con il tempo, abbandonò ogni connotazione regale o aristocratica, per diventare un servizio cittadino. Il templum, che costituiva la tecnica fondamentale dell’augurato, poteva essere tracciato non

Coperchio di urna in alabastro dell’aruspice Aule Lecu, il quale, nella mano sinistra, regge un fegato. II sec. a.C. Volterra, Museo Etrusco Guarnacci.

Per comunicare con il dio, l’àugure romano delimitava nel cielo uno spazio orientato, il templum

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soltanto nel cielo, ma anche sulla terra: un compito importante degli àuguri, durante l’epoca repubblicana, fu dunque quello di «inaugurare», cioè di rendere utilizzabile un determinato luogo o edificio, come la Curia, il Comizio o i santuari delle divinità. La città stessa di Roma era concepita come un grande templum, nel quale trarre gli auspicia urbana.

Prescrizioni rituali e tecniche augurali Il sistema divinatorio basato sugli auspici e sulla costituzione del templum non era prerogativa dei soli Romani; esso era praticato, per esempio, anche dagli Umbri, come introduzione alle cerimonie sacrificali. Ne sono diretta testimonianza le tavole bronzee in lingua umbra ritrovate nel 1444 a Gubbio (l’antica Iguvium) e note col nome di «Tavole Iguvine», che contengono appunto prescrizioni rituali e tecniche augurali di stretta analogia con quelle legate agli auspici nella tradizione romana. La pratica della divinazione romana trova comunque largo fondamento e varie motivazioni ideologiche nella etrusca disciplina, espressione che indicava


in latino il complesso di norme e di tecniche divinatorie derivate dalla tradizione degli Etruschi, che godevano larga fama nell’arte del vaticinio e specialmente in quella dell’aruspicina. Il bronzo etrusco ritrovato nel 1877, a Piacenza, e raffigurante un fegato di ovino e suddiviso in zone – corrispondenti a una particolare divisione dello spazio e del tempo e recanti il nome delle divinità preposte –, cosí come le immagini di aruspici divini (Tagete, Calcante) incise su molti specchi e varie informazioni letterarie contenute nelle opere di autori come Cicerone e Tito Livio, indicano con chiarezza la grande competenza degli Etruschi in quest’arte, il ricorso a modelli tradizionali e di grande antichità, l’esistenza di una casistica prestabilita e complessa. L’etrusca disciplina era esposta in una serie di libri sacri di cui si conosce solo approssimativamente il contenuto: l’osservazione dei visceri degli animali (libri haruspicini), o dei fulmini (libri fulgurales), e l’interpretazione dei prodigi (ostentaria, libri fatales, ecc.). Ci sono tuttavia alcune differenze, nella pratica e nell’ideologia che essa sottende.

Il cosmo in miniatura Per l’aruspice etrusco, per esempio, il fegato di un animale immolato per la consultazione costituiva una rappresentazione in miniatura del cosmo e, come questo, era divisibile in diverse zone, variamente soggette al potere delle divinità e suscettibili quindi di offrire indicazioni oracolari variabili; per il celebrante romano, il ricorso all’esame dei visceri era piuttosto funzionale alla liturgia sacrificale: si compiva, cioè, prima del sacrificio per garantire l’assenso divino al rito stesso. Parimenti, il moto degli uccelli era materia di vaticinio per l’indovino etrusco, che distingueva nel suo templum l’azione di piú divinità, mentre per l’àugure romano indicava l’accordo o il disaccordo del solo Giove. C’è poi da dire che, accanto al collegio ufficiale dell’ordo haruspicum, il quale, ancora nella tarda repubblica, godeva della fiducia del senato romano, operavano con le tecniche dell’aruspicina e per consultazioni d’interesse privato anche personaggi discutibili, mercenari della credulità pubblica; ben si comprende, pertanto, l’aspra

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Particolare del rilievo scolpito sulla cassa di un’urna etrusca raffigurante un presonaggio in età matura, con berretto frigio, forse identificabile con un sacerdote, che estrae una tavoletta (una sors) da un’anfora collocata sotto un tempietto. Seconda metà del II sec. a.C. Volterra, Museo Guarnacci.


La Sibilla Cumana, affresco trasferito su tela di Andrea del Castagno. 1449-1450. Firenze, Galleria degli Uffizi, Aula di San Pier Scheraggio.

polemica che l’àugure e filosofo Cicerone rivolge con ironia contro le devianze e il degrado di una tecnica divinatoria giudicata troppo soggettiva. La tradizione romana conosce anche altri scritti, estranei alla etrusca disciplina e di contenuto prettamente oracolare: i carmina Marciana, per esempio, attribuiti a un leggendario profeta di Marte, e soprattutto i Libri Sibillini, cioè una raccolta di oracoli che si faceva risalire a una Sibilla. Questa particolare figura di personaggio ispirato si distingue nell’antichità classica come una profetessa isolata, che parla in nome del dio che la possiede, ma non ha legami con un oracolo istituzionale. I Libri Sibillini erano attribuiti alla piú famosa delle Sibille (se ne conoscono in Libia, Frigia, Lidia, Eritrea, Caldea e perfino a Delfi), cioè a quella di Cuma, resa celebre da Virgilio nell’Eneide. Secondo la tradizione, dunque, la Sibilla Cumana avrebbe proposto al re Tarquinio il Superbo di acquistare i suoi libri. Il re finí per comprarne tre, che fece custodire nel tempio di Giove Capitolino. I libri venivano consultati, su ordine del senato, dai viri sacris faciundis, in caso di prodigi o eventi critici, come un’epidemia o una disfatta militare. La raccolta originaria andò quasi distrutta nell’83 a.C. in un incendio; al tempo di Augusto quanto ne rimaneva – ripristinato o rifatto dopo ampie consultazioni – venne trasferito nel tempio di Apollo sul Palatino. I Libri furono bruciati poi da Stilicone nel 408 d.C.; ma in quell’epoca l’avvento del cristianesimo aveva ormai reso gli strumenti e i concetti della divinazione inconciliabili con quelli di una fede che considerava già conclusa la rivelazione personale del dio unico e affidava alla provvidenza divina ogni preoccupazione per il futuro (cosa ben diversa da questi Libri, sono gli Oracoli Sibillini, una raccolta di sentenze giudaico-ellenistiche e giudaico-cristiane su temi apologetici del monoteismo, del messianismo, con accentuazione di motivi apocalittici).

L’interpretazione dello specialista Un dato che emerge con chiarezza dall’archeologia è in particolare la diffusione della cleromanzia nelle culture dell’Italia antica, a mezzo di particolari oggetti, detti sortes. Si tratta di tavolette di legno, ciottoli, verghe e dischi in metallo, che spesso contengono – incise in greco, latino, etrusco, osco – parole o singole lettere con cui, mediante estrazione, si componevano frasi, affidate poi all’interpretazione di uno specialista. È un tipo di divinazione noto anche in Grecia, presso i Celti, i Germani, gli Sciti e altrove. Le sortes ritrovate nel Lazio, Marche, Umbria, Etruria, Campania e Veneto, sembrano indirizzate a una casistica di consultazioni individuali, sui problemi della gente comune. Dal loro esame, emergono insomma, ampie conferme di quanto suggerito dalla documentazione iconografica (trittico votivo di Ostia, del I secolo a.C.) e dalle testimonianze letterarie, sulla presenza di una divinazione «privata» nel mondo romano diversa da quella ufficiale dello Stato, operante in santuari della dea Fortuna (come a Preneste), di Ercole (come a Ostia e Tivoli) o di altre divinità,

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e ben attiva, sia pure con un ruolo marginale rispetto alla pratica augurale e nonostante il discredito ufficiale; una divinazione di antica origine, come si è detto, che Cicerone condanna come «un’invenzione ingannatrice». Tuttavia, nonostante le proteste teoriche dell’Arpinate, sia questa che altre forme divinatorie estranee alla dimensione dell’interesse pubblico, ebbero largo credito a Roma: dai prodigi che annunciavano la collera divina e che pure richiedevano un intervento dello Stato, ai presagi di vario tipo, dai sogni ritenuti profetici agli oroscopi e all’astrologia. Quest’ultima trovò particolare terreno di sviluppo soprattutto nell’età dell’impero, nelle forme di una sapienza barbara, diversa da quella della tradizione, portata a Roma dai sacerdoti caldei e dai seguaci di altri culti orientali. Del resto, proprio nelle civiltà del Vicino Oriente preclassico la divinazione – e soprattutto quella di tipo induttivo – aveva prodotto da lungo tempo una rigorosa organizzazione dei fenomeni mantici, in un corpo di dottrine e trattati che non trova confronti nel mondo greco e romano. L’archeologia documenta, già nella Mesopotamia del III e II millennio a.C., l’esistenza e gli sviluppi di una «scienza» divinatoria veramente enciclopedica, che ebbe il periodo di massimo splendore in epoca neobabilonese (VII-VI secolo a.C.).

«Se accade che...» La documentazione è costituita per la gran parte dai numerosi testi in cuneiforme a contenuto ominoso: veri e propri «trattati di casistica divinatoria», nei quali, accanto ai segni e ai prodigi realmente accaduti trova spazio anche la dimensione dell’eventuale e dell’immaginabile, secondo criteri di organizzazione e di decodificazione interni al sistema stesso. Per i Babilonesi e gli Assiri tutto poteva essere oggetto di osservazione mantica e offrire presagi favorevoli o sfavorevoli: dal sogno al fenomeno casuale, dal calendario al parto anormale. I responsi venivano raccolti in collezioni, per essere consultati dagli operatori specializzati in quest’arte. La formula dei trattati prevede solitamente una protasi («Se accade che») che annuncia al presente o al passato la situazione del presagio, e un’apodosi, che esprime al futuro il pronostico; per l’una e l’altra sono previste varianti, anche numerose e contraddittorie, che arricchiscono le informazioni e le possibili interpretazioni. Al testo si accompagna talvolta un complemento grafico, che precisa la situazione divinatoria; ciò vale, in modo specifico, per i trattati di extispicina ed epatoscopia, in cui il rapporto tra l’aspetto del presagio e il pronostico da trarne è finanche evidenziato dalla riproduzione in argilla dell’oggetto anatomico, specialmente fegati di ovini, con le annotazioni del caso. L’indovino dell’antica Mesopotamia interveniva nelle piú diverse occasioni, per dare appoggio e garanzia divina all’operato dell’autorità sovrana, ma anche per rispondere alle necessità private dei singoli. Nella pratica, il suo intervento s’intrecciava talvolta con la diagnostica medica, precedendo e prevedendo anche la possibilità d’intervenire, per evitare la realizzazione di un presagio sfavorevole. La sua capacità di riconoscere, creare e interpretare i segni era fondata

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In alto Pozzuoli (Napoli). Uno scorcio della galleria scavata nella roccia che conduce all’antro della Sibilla Cumana. Nella pagina accanto scultura etrusca in bronzo raffigurante un àugure, dal Foro Romano. 550 a.C. Roma, Antiquarium Forense.

sulla conoscenza puntuale dei trattati esistenti, ma soprattutto su una dottrina di analisi e classificazione delle coincidenze ritenute significative, che traeva la sua giustificazione da un cosmo concepito, esso stesso, come un mondo da leggere, uno spazio in cui gli dèi avevano «scritto» da tempo immemorabile le loro decisioni. Questa potenzialità spiega, secondo Jean Bottéro (1914-2007) e Dario Sabbatucci (1923-2004), l’importanza per la Mesopotamia preclassica di tutte le forme divinatorie che rinviano a una forma di «lettura»; i presagi, in altri termini, erano intesi come i segni del destino, tracciati dagli dèi in un universo carico di significati e leggibile in tutte le sue componenti. Questa «scienza» divinatoria trovò ampia diffusione, già nel II millennio a.C., in tutte le culture vicino-orientali coeve della Mesopotamia, fino all’Anatolia ittita. In Siria e poi in Israele, si deve anche sottolineare l’importanza preminente acquisita dalla divinazione di tipo intuitivo, che si espresse in varie forme di profetismo, a carattere istituzionale e privato. Nell’Egitto faraonico godevano di largo credito soprattutto gli oracoli, ottenuti con varie tecniche e spesso presentati

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nei testi come decreti divini, capaci d’indirizzare gli affari privati, guidare operazioni di alta politica, proporre perfino la soluzione di controversie giuridiche. Generale era anche il ricorso all’oniromanzia, documentata specialmente dai «Libri (o Chiavi) dei Sogni», veri e propri manuali nei quali si trovava raccolta, classificata e interpretata un’ampia casistica di esperienze oniriche, con una metodicità che richiama da vicino quella dei trattati babilonesi e assiri. La divinazione intesa quale sistema di cosmicizzazione e d’interpretazione organica della realtà è attestata anche nella cultura cinese antica: qui, anzi, appare ancor piú evidente lo stretto legame tra i segni della scrittura (gli «ideogrammi», cioè rappresentazioni della realtà per immagini), preliminarmente incisi sugli strumenti divinatori e quelli che nascevano dall’attività divinatoria stessa. Nell’antica Cina, infatti, soprattutto all’epoca della dinastia Shang (1520-1030 a.C. circa) assunse rilievo particolare un sistema di divinazione che si trova documentato dal Neolitico (IV millennio a.C.) al 1000 a.C. circa e che ebbe una certa diffusione anche nelle coeve culture del Giappone. Esso è fondato sulla lettura mantica delle incrinature prodotte su ossa di animali, sottoposte a speciale trattamento con il fuoco (piro-osteomanzia). Gli scavi condotti soprattutto nell’area di Anyang (500 km a sud di Pechino), hanno restituito decine di migliaia di ossa oracolari, piú anticamente scapole di bovini e ovini poi sostituite dal carapace di una tartaruga, con incisioni e iscrizioni. I divinatori Shang ponevano le loro domande agli antenati, interrogandoli su futuri fenomeni naturali, raccolti, spedizioni di caccia, viaggi e imprese militari, sul probabile decorso di una gravidanza o di qualche infermità, sul significato di sogni, ecc., seguendo un rituale tanto collaudato quanto particolare. Essi incidevano le ossa oracolari con serie di cavità disposte in file regolari, entro le quali ponevano poi uno strumento incandescente, provocando in tal modo, sulla faccia opposta dell’osso, varie screpolature. Su questo lato erano state preliminarmente scritte coppie antitetiche di domande, che trovavano dunque la risposta nella particolarità delle incrinature prodotte dal fuoco.

Un approccio sistematico e razionale ai problemi dell’esistenza Le ossa venivano quindi conservate, a formare archivi da consultare anche in futuro; si giunse, in pratica, a creare repertori di segni ben classificati, che favorí il graduale abbandono della casualità nelle risposte dell’osteomanzia e la nascita di un sistema oracolare coerente. Da questo sistema, e da un altro parimenti di largo uso nella Cina antica (noto con il nome di «achilleomanzia», perché in esso si faceva ricorso a 50 steli di achillea, che, attraverso una serie complessa di operazioni, consentivano di ottenere un esagramma, formato da una o piú linee intere o spezzate), si sviluppò nel corso dei secoli un modo sistematico e razionale di approccio a tutti i problemi dell’esistenza umana. Questo trovò poi compimento nell’I-Ching, il Libro dei Mutamenti, di largo credito anche in Occidente, dopo l’interesse suscitato dalla prima traduzione inglese del 1948 con introduzione di Carl Gustav Jung (1875-1961). Il nucleo dell’I-Ching risulta formato da 64 segni base («esagrammi») e da un testo, composto intorno all’VIII-VII secolo a.C. che accompagna ciascun esagramma e ne offre le chiavi di lettura. L’accenno alla visione cosmologica derivata dalla mantica cinese ben esemplifica il problema dell’attendibilità delle pratiche divinatorie all’interno delle società in cui esse

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Lastra marmorea con rilievo raffigurante tre scene di carattere oracolare, rinvenuta vicino al Tempio di Ercole a Ostia. II-I sec. a.C. Ostia Antica, Museo Ostiense. Sulla destra, una statua di Ercole pare venire pescata dal mare in una rete; al centro, Ercole porge una tavoletta con un oracolo a un fanciullo; sulla sinistra, compare forse il momento dell’interpretazione dell’oracolo.


si trovano documentate. Risulta evidente, qui come altrove, una prospettiva fortemente analogica, che nelle conformazioni dell’oggetto divinatorio scorge somiglianze e rinvii alle situazioni oggetto della consultazione, sulla base di una «solidarietà macrocosmo/ microcosmo», di cui l’esperto della divinazione si fa interprete e rivelatore: leggere le screpolature sulle ossa oracolari cinesi significa leggere il reale, cosí come il fegato divinatorio babilonese o etrusco si qualifica come replica dell’universo e il templum celeste dell’augurato romano viene inteso quale controparte della terra. Del resto, anche il tempo, come lo spazio, può assumere una dimensione divinatoria specifica: agli esempi già citati di libri ispirati, di trattati e di raccolte oracolari dell’antichità vicino-orientale e classica, se ne possono aggiungere altri, provenienti da ben diversi ambienti culturali: basti ricordare che, stando alle cronache dei conquistatori spagnoli, presso i Maya era in uso la pratica di «leggere» il futuro o capire l’ignoto ricorrendo alla cronaca del passato, consultando cioè i libri in fibra vegetale nei quali si annotavano periodicamente gli avvenimenti importanti; analogamente, il calendario azteco non serviva solo alla misurazione del tempo, ma fungeva anche come canone divinatorio. Si può dire, insomma, che la divinazione, teologicamente e mitologicamente giustificata, giunge non di rado a configurarsi come vera e propria forma di «gnosi», in quanto conoscenza di cose nascoste e meccanismo di comprensione globale della realtà. Tuttavia, la logica del sistema posto in opera per decifrare l’ignoto o il non ancora avvenuto, non risponde a criteri universalmente validi, ma varia con il mutare delle culture, cosí come variano, di conseguenza, la posizione sociale del personale

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Le principali tecniche della divinazione

S

eguendo una classificazione dei fenomeni divinatori stabilita dagli stoici e riferita da Cicerone, si possono individuare due grandi gruppi, sulla base del carattere artificiale o spontaneo della tecnica adottata.

1. Divinazione ominale o induttiva = interpretazione di segni o fenomeni (in latino, omina), spontanei o provocati ad arte, che contengono la volontà di esseri sovrumani. Essa comprende: • Aritmomanzia = divinazione per mezzo dei numeri. • Astrologia = osservazione dei corpi celesti per conoscerne l’influenza o il significato nella vita sulla terra; da essa dipende anche la genetliaca, cioè l’osservazione della posizione degli astri al momento della nascita di un individuo per stabilirne l’oroscopo (chiromanzia). • Cleromanzia = divinazione realizzata tirando a sorte particolari oggetti (sortes, carte, tarocchi). • Extispicina = esame dei visceri di un animale (appositamente) sacrificato e in particolare del suo fegato (epatoscopia, aruspicina). • Idromanzia = osservazione dei movimenti dell’acqua. • Lecanomanzia = esame delle forme createsi versando olio in un bacino.

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• Libanomanzia = esame delle volute del fumo d’incenso o del fuoco sacrificale. • Ordalia = forma di divinazione in funzione giudiziaria: la sentenza era emessa mediante la consultazione di sorti, o sottoponendo a certe prove (anche mortali) le parti in causa. • Ornitomanzia = osservazione del volo degli uccelli; i Romani ne traevano l’augurium e l’auspicium. • Piromanzia = divinazione compiuta tramite il fuoco; caso particolare quello dell’osteopiromanzia delle ossa oracolari cinesi. 2. Divinazione spontanea o intuitiva = manifestazione diretta dell’essere sovrumano all’uomo. Comprende principalmente: • Cresmologia = divinazione per mezzo di persone «invasate» da un essere sovrumano (profeti, Pizia, Sibille, ecc.). • Necromanzia = rivelazione ottenuta tramite consultazione dei defunti. • Oniromanzia = presagi dedotti dall’interpretazione di sogni, spontanei o provocati (incubazione).


Nella pagina accanto lituo divinatorio, le strategie conoscitive, i tempi, i luoghi e i etrusco in bronzo, da una tomba requisiti previsti per la consultazione. Si può anche di Cerveteri. 580 a.C. circa. osservare, con il grande storico della filosofia e delle Roma, Museo Nazionale religioni Jean-Pierre Vernant (1914-2007), che se da un Etrusco di Villa Giulia. lato la divinazione ha per oggetto sequenze di eventi A destra tre arcani maggiori particolari, attorno ai quali si cerca una risposta dal Mazzo Visconti-Sforza o Colleoni (dall’alto: l’Appeso, la preliminare, perché sono, appunto, d’ordine aleatorio, Luna, la Morte). Seconda metà dall’altro le procedure che la divinazione applica vengono del XV sec. Bergamo, trattate secondo una logica generale, che porta a Accademia Carrara. escludere il caso dalla trama degli eventi, a sopprimere l’elemento aleatorio, rinviando a un ordine universale. Ciò conferisce, in certo modo, un carattere paradossale all’arte divinatoria, che si propone al contempo come conoscenza di avvenimenti particolari e aspirazione al sapere totale. A questa ambiguità ciascuna cultura risponde in modo autonomo, attribuendo alla divinazione un posto e una funzione che variano in riferimento alla storia, alla società, ai processi evolutivi del proprio sistema di valori. La divinazione esce dalla scena della cultura egemone occidentale con l’avvento del cristianesimo, che condusse contro di essa – intesa come un tentativo illecito di sondare i disegni imperscrutabili di Dio – una lotta senza quartiere (Dante colloca gli indovini nell’Inferno, costringendoli a muoversi col viso rivolto all’indietro). Spostata dal «centro» alla «periferia» della cultura egemone, la divinazione sopravvive fino ai giorni nostri nelle svariate forme assegnatele dalla cultura popolare: dalla chiromanzia alla cartomanzia. Ritorna in auge negli ambienti urbani delle società avanzate – in funzione di rassicurazione dei piú diversi tipi di angoscia per il futuro prodotti dalla moderna razionalità formale – dove la salvezza viene sovente cercata nelle ambigue figure dei maghi del nostro tempo, che «leggono» entro le loro sfere di cristallo, attingendo (o millantando di saper attingere) a un «sapere» pseudo-scientifico che aveva una sua logica all’interno delle antiche civiltà, ma che ormai dovrebbe risultare del tutto fuori luogo nella nostra società.

L’importanza degli approcci Come studiare, allora, la divinazione? Un’analisi delle diverse tecniche facilita indubbiamente la definizione del fenomeno come tale. Un esame del ruolo dei vari maghi, cartomanti, astrologi dei nostri giorni può portare a considerazioni interessanti, soprattutto sul piano della sociologia religiosa. Ma solo un approccio storico, e in particolare un esame condotto sulle civiltà del mondo antico, consente di capire come si sia giunti alla stessa definizione del fenomeno, quali valori siano stati attribuiti con il passare del tempo a determinate tecniche divinatorie, perché altre tecniche sono state abbandonate e altre ancora privilegiate, quali rapporti si siano stabiliti tra la divinazione e altre forme della religione di una determinata civiltà, quali ideologie religiose abbiano portato all’adozione (o al rifiuto) di determinate tecniche di conoscenza dell’ignoto. Qui di seguito, i due approcci vengono condotti in parallelo, con riferimento al mondo antico, sia per mostrare l’articolazione delle tecniche divinatorie, sia per individuare, tramite l’esame degli specifici contesti storici, la relatività culturale dei fatti osservati.

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EXTISPICINA ED EPATOSCOPIA

VERITÀ NASCOSTE

Una delle pratiche divinatorie piú diffuse consisteva nell’esaminare i visceri, ma, soprattutto, il fegato di animali preventivamente sacrificati. Ne furono maestri gli Etruschi, come dimostra in particolare il ritrovamento di alcuni modelli, probabilmente usati come «manuali» | MAGIA E DIVINAZIONE | 84 |


«A

l novilunio del mese di Hiyaru tramontò Shapash e Rashap fu suo portiere. Due fegati si esaminarono; pericolo!». Cosí, con linguaggio mitico e in poche righe, una tavoletta in cuneiforme alfabetico degli archivi di Ugarit (località che si trova sulla costa dell’odierna Siria, pochi chilometri a nord di Latakia, n.d.r.), conserva il resoconto della piú antica eclisse di sole registrata nella storia.

Sulla data, per vero, ancora si discute, con due ipotesi alternative (3 maggio del 1375, oppure 5 marzo del 1223 a.C.), giacché i dati dell’epigrafe non consentono di risolvere del tutto l’enigma. Piú chiara, invece, è la reinterpretazione culturale, assegnata al «tramonto» della dea-Sole Shapash e forse anche alla sua «congiunzione» con il dio Rashap (il pianeta Marte?): furono sacrificate due pecore e gl’indovini esaminarono i loro fegati, traendone un presagio negativo; poi fu

Nella pagina accanto modello di fegato in argilla forse utilizzato per insegnare l’arte dell’epatoscopia. Civiltà babilonese, II mill. a.C. Londra, British Museum. A destra tavoletta d’argilla con iscrizione riportante presagi tratti dallo studio degli intestini, dalla Mesopotamia, II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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EXTISPICINA ED EPATOSCOPIA

redatto un verbale sulla tavoletta, perché servisse in futuro per casi analoghi. Altre tavolette e perfino modelli in argilla riproducenti organi di animali, ritrovati negli stessi archivi di Ugarit, attestano che si trattava di un procedimento abituale, per questioni pubbliche o private. Su un modellino di polmone si legge per esempio: «Se la città è conquistata, se la morte coglie il popolo, si sacrifichi un capro e si scruti il futuro nei suoi visceri»; su un altro è invece registrato: «(Fegato esaminato) per Agipsharri, quando stava per acquistare un garzone da un Cipriota». La pratica dell’extispicina (= esame dei visceri) e in specie quella dell’epatoscopia (= esame del fegato) per trarre pronostici oggi può apparire bizzarra; in realtà, è una tecnica complessa e di lunga storia, testimoniata dall’inizio del II millennio a.C. fino all’avvento del cristianesimo. La usarono dapprima le civiltà dell’antico Oriente, l’adottarono poi gli Etruschi e gran parte dei popoli del Mediterraneo, Greci e Romani compresi.

Concezioni religiose profonde Essa si fonda su concezioni religiose profonde, le stesse che regolano gran parte delle tecniche poste in atto da molti popoli per conoscere avvenimenti non ancora accaduti oppure ignoti, cioè tutto quello che comprendiamo col termine «divinazione», desunto dagli scritti di Cicerone. Si basa innanzitutto sulla presenza e sul potere delle divinità, che s’identificano con il cosmo e lo regolano, e che dunque possono comunicare all’uomo la propria volontà o informarlo su

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Specchio in bronzo raffigurante il piú celebre indovino dell’antichità, Calcante, intento all’esame del fegato di un animale sacrificato, da Vulci. Fine del V sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.

questioni che sfuggono alla sua comprensione; e poi sull’idea di un’armonia fondamentale del mondo, secondo la quale ogni cosa interferisce con le altre e tutto può essere «segno» di qualcos’altro. Pertanto, con l’assenso degli dèi e mediante tecniche d’indagine specifiche, l’uomo, lo specialista, può cercare, in un piccolo mondo di segni che è specchio e immagine del mondo reale, indicazioni valide a comprendere quanto avviene, è avvenuto o sta per avvenire. Il «mondo in un fegato» si potrebbe dire, con un rinvio diretto ai reperti archeologici che bene esemplificano l’intero fenomeno della divinazione. Tutti i popoli che praticarono l’esame dei visceri immaginavano infatti che la conformazione di un fegato, di un polmone o di un altro organo interno, ricco di sangue e d’importanza vitale, potesse rappresentare e rivelare la realtà, il futuro e l’ignoto. Gli Ugaritici che ricorrevano all’epatoscopia alla fine dell’età del Bronzo seguivano tecniche e modelli elaborati in Mesopotamia dai Babilonesi, che furono i grandi iniziatori e maestri di quest’arte laboriosa. Per secoli gli indovini della Mesopotamia continuarono a ricopiare e consultare i loro testi su argilla, aggiornandoli e trasmettendoli da una località all’altra, da una generazione a quella successiva. I fegati piú antichi a oggi noti vengono dagli scavi di Mari, città sul medio Eufrate, e risalgono all’inizio del II millennio a.C. Piú o meno alla stessa epoca si datano le prime tavolette epatoscopiche, che già presentano un’elaborata terminologia tecnica e sviluppati metodi d’analisi. In epoche


Bronzetto raffigurante un aruspice, da Roma, riva sinistra del Tevere. IV sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco.

successive poi, e soprattutto in quella neoassira della metà del I millennio, i testi si raccolgono in veri e propri trattati, con compilazioni di segni anatomici e l’indicazione dei presagi che si devono trarre in relazione alla forma, alla dimensione, alla posizione, allo stato e al colore delle interiora. Dagli scavi delle città babilonesi e assire, ma anche dagli archivi delle località in cui questa tecnica si diffuse, per esempio in Anatolia (Hattusha), in Siria (Alalah, Mari, Ugarit) e in Palestina (Megiddo, Hazor, Gibeon), emerge insomma una documentazione imponente, che testimonia anche l’alta specializzazione raggiunta. Gli studiosi distinguono, tra l’altro, un’extispicina di osservazione, caratterizzata da pronostici indipendenti e qualitativi, e un’altra di consultazione, che rispondeva a questioni precise di un consultante e traeva, dai presagi contenuti nelle raccolte, il valore favorevole o sfavorevole. Probabilmente l’extispicina di osservazione, riportata nei trattati, era quella insegnata nelle scuole per la formazione degli specialisti, mentre quella di consultazione era l’extispicina effettivamente praticata.

Alta politica e imprese militari Anche tra i modelli di fegato, del resto, si possono distinguere quelli realizzati a scopo didattico da altri, relativi a specifiche interrogazioni, solitamente d’interesse pubblico, come le questioni di alta politica e le imprese militari. «O Shamash che scrivi la sentenza divinatoria nelle interiora della pecora!» dice un testo babilonese, suggerendo il principio di fondo di questa tecnica: sono gli dèi che hanno «scritto» quello che il baru, l’indovino-specialista, si limitava a «leggere» e interpretare. La pratica, probabilmente, trovò origine dall’osservazione di particolari anomalie nei visceri, esaminati in sacrifici connessi a specifiche situazioni storiche (guerre, carestie, epidemie); su tali basi venne dunque formata l’ossatura dei manuali, che si arricchirono poi con elementi desunti dall’esperienza quotidiana o da associazioni d’idee piú o meno logiche, cosí da fornire al baru una casistica che

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Ossa oracolari cinesi

V Osso oracolare iscritto di epoca Shang (1600-1100 a.C.), da Luoyang, nella provincia dello Henan.

fosse la piú completa possibile. Nella tarda età del Bronzo la tecnica inventata dai Babilonesi, che poi i Romani chiamarono aruspicina, era nota anche a Cipro, dove forse la conobbero i Greci: già Omero vi allude in un passo e molti vasi a figure nere e rosse mostrano l’esame dei visceri condotto nel corso di un sacrificio. Per Platone, il fegato è un vero e proprio specchio dell’essere; e tuttavia l’epatoscopia riveste, nella religione greca, una posizione piú discreta rispetto all’Oriente: non è una tecnica per conoscere il futuro, bensí un metodo per valutare l’opportunità di compiere un’azione o di proseguire un rito sacrificale. Anche i Romani fecero tesoro di quest’arte ed è Cicerone a documentare l’idea che il fegato di un animale sacrificato – divisibile in zone corrispondenti alle diverse regioni del cosmo – potesse permettere di trarre conclusioni sulla

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iene dalla Cina della dinastia Shang (1200 a.C. circa) un’imponente documentazione archeologica che fornisce la piú antica testimonianza della scrittura e della divinazione cinesi. Si tratta di oltre 150 000 frammenti di ossa, per la gran parte gusci di tartarughe, scoperti a partire dal 1899 non lontano dall’attuale città di Anyang. Sulle ossa sono incisi caratteri cinesi arcaici, piú di mille dei quali sono stati identificati e classificati. Gli animali venivano probabilmente offerti in sacrificio agli antenati; gusci di tartarughe e scapole di altre vittime (bovini, capre, cervi), venivano poi levigati e sottoposti all’azione del fuoco, che provocava incrinature; queste prendevano grosso modo la forma del carattere cinese pu («divinazione»: una linea verticale unita a una orizzontale proveniente da destra), fornendo all’indovino la risposta cercata. A questo punto l’operatore registrava sul retro dell’osso la data, il proprio nome, la domanda in questione (sulla pioggia e altri fenomeni meteorologici, predizioni sui raccolti, viaggi e imprese militari) e qualche nota sul responso avuto; poi conservava l’oggetto, per ulteriori operazioni o consultazioni. Da tale pratica nacquero veri e propri repertori di segni divinatori, dai quali prese origine anche la raccolta I-Ching, famosa ancora oggi in Occidente come Libro dei Mutamenti (che però si basa soprattutto sulla manipolazione degli steli della pianta dell’achillea).


Il fegato di Piacenza

L’

oggetto che da solo rappresenta l’alto grado di analisi raggiunto dall’aruspicina etrusca è un modello di fegato di montone in bronzo massiccio, trovato nel 1877 a Settima di Gossolengo, presso Piacenza. Pesa 635 grammi ed è conservato nella sezione archeologica dei Musei Civici. Sarebbe stato perduto da un aruspice nel 218 a.C., cioè nel corso della battaglia della Trebbia, in cui l’esercito romano si contrappose ai Cartaginesi di Annibale. Per alcuni studiosi, tuttavia, esso è piú recente: risalirebbe al 150 a.C. circa e proverrebbe dalla regione di Chiusi e di Cortona; per altri si tratterebbe invece di un modello realizzato per uso didattico, o ancora dell’attributo di una statua di aruspice. Da un santuario di Falerii (Civita Castellana) proviene un altro modello di fegato in terracotta, datato al IV-III secolo a.C. e oggi al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (Roma).

l’importanza di questa tecnica in quella che gli autori latini presentano come l’etrusca disciplina, cioè un insieme di libri che trattavano delle tecniche divinatorie diffuse in Etruria e adottate anche dai Romani. La riprova di questa importanza, evidente in una nutrita serie di documenti letterari, viene dall’archeologia. Due specchi etruschi, uno del V secolo a.C. da Vulci e l’altro posteriore di circa un secolo da Tuscania, presentano per esempio scene di aruspicina. Nel primo si vede il mitico indovino Calcante mentre esamina un fegato; nel secondo l’aruspice Pavatarchies sembra insegnare la sua arte al fondatore di Tarquinia. Da queste e da altre figurazioni artistiche è anche possibile ricostruire il costume dell’aruspice etrusco, sul quale i Romani talvolta ironizzavano: il copricapo cilindrico, il mantello trattenuto sul petto da un fermaglio, il coltello e la scure per il sacrificio.

Specchio del mondo divino

situazione nel mondo reale. Per i Romani, l’aruspicina era comunque una tecnica straniera, di cui erano titolari e maestri soprattutto gli Etruschi, che rivaleggiavano talora con gli indovini ufficiali dello Stato romano, pur non avendo la loro autorità religiosa. Gli studiosi discutono sull’origine dell’aruspicina etrusca e l’ipotesi di una derivazione dall’extispicina babilonese rimane probabile, ma non provata. È certa, invece,

Il modello in bronzo di fegato detto «di Piacenza», ricoperto di iscrizioni utili alla divinazione da parte degli aruspici. 100 a.C. circa. Piacenza, Musei Civici.

Il documento piú importante è però rappresentato da un modello di fegato in bronzo, ritrovato presso Piacenza (vedi anche il box in questa pagina). Sul lato piatto, con la rappresentazione plastica della cistifellea, si leggono quarantadue iscrizioni e il nome di ventisette divinità; corre, lungo il bordo, un nastro di sedici caselle, che corrispondono alla divisione del cielo in altrettante regioni e numi tutelari, attestata in latino da un autore tardo, Marziano Capella. Il fegato di Piacenza è insomma la testimonianza piú chiara di ciò che gli aruspici etruschi, come quelli babilonesi, trovavano nel fegato dell’animale sacrificato: non una carne sanguinolenta, ma uno specchio significativo di quel mondo divino che essi sapevano «leggere» e interpretare.

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SEGNI PREMONITORI

Statuetta in bronzo raffigurante Zeus che brandisce la folgore, dal santuario dedicato al sommo dio dell’Olimpo a Dodona. V sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

SEGNI e PRODIGI Indicazioni su quel che il futuro avrebbe potuto riservare venivano tratte anche dall’osservazione di fenomeni naturali, come fulmini o canti di animali. Ma c’era anche chi interpretava le forme assunte dall’olio versato in un catino pieno d’acqua


L’

esame dei visceri non era il solo mezzo per conoscere il futuro o l’ignoto; non tutti, peraltro, potevano permettersi una pecora da sacrificare per farne esaminare le interiora. Gli dèi del resto, già per i Babilonesi, avevano riempito l’universo di «segni», cosí che all’indovino non restava che la ricerca del modo migliore per comprenderne il valore. Segni osservabili direttamente nella natura, oppure provocati ad arte. Fenomeni meteorologici, comete, fulmini, gesti di uomini e d’animali; il canto di un gallo, la vista di un uccello, uno starnuto improvviso: ogni evento

In basso Hattusa. Una delle sfingi che fiancheggiavano l’omonima porta della capitale ittita. XIII sec. a.C.

che non si verificasse automaticamente poteva costituire un presagio. All’occorrenza, i segni potevano essere cercati, con tecniche adeguate: anche le forme assunte da un po’ d’olio versato in un catino d’acqua (è la lecanomanzia), o le volute del fumo che saliva da un fuoco d’incenso sull’altare (per la libanomanzia) permettevano allora di conoscere, con poca spesa, la volontà divina. Per ciascuna di queste tecniche, come per l’extispicina, i Babilonesi avevano elaborato trattati specifici, che registravano tutte le possibilità e i relativi pronostici. Come testimoniano i documenti ritrovati, essi

Il sistema KIN

T

ra i numerosi procedimenti divinatori testimoniati nei testi dell’antica capitale del regno ittita, Hattusha (oggi Boghazköy), sembra essere caratteristico del mondo anatolico un particolare sistema, indicato dal sumerogramma KIN, «Opera», testimoniato in una ventina di testi. Era fondato sulla ripetizione di una specie di sorteggio. L’interpretazione veniva tratta dall’incontro di alcuni simboli, che rappresentavano divinità, uomini o particolari situazioni. Ai simboli veniva dato preventivamente un valore, cosí che alcuni potessero operare come «agenti», su altri «passivi», in un movimento verso ulteriori simboli che costituivano la «mèta finale» dell’operazione. I simboli erano forse rappresentati da oggetti sparpagliati appositamente da una maga, che i testi chiamano la «vecchia»; secondo un’altra ipotesi, l’operatrice osservava piuttosto il movimento di un animale (il quale assumeva dunque il valore di simbolo-agente) in un’area suddivisa in spazi ugualmente simbolici. La maga stabiliva se l’atteggiamento delle divinità era favorevole o no, rispetto alla domanda posta, ripetendo tre volte la consultazione e osservando ogni volta il comportamento del simbolo-agente, la cui azione viene di norma indicata dal verbo «prendere». Per conoscere l’esito di un’impresa militare, per esempio, cosí un testo registra i tre movimenti realizzati dal simbolo-agente rispetto ai simboli passivi e alla mèta finale: «Il re ha preso la spedizione, il fuoco, l’arma, ha oltrepassato il muro;

ed essi sono disposti al nemico presso la colpa»; nel secondo movimento «Gli uomini di Hatti hanno preso la disgrazia, la forza, l’anno e la protezione; ed essi sono dati alla dea Hannahanna»; nel terzo movimento «Il nemico ha preso la battaglia e l’intera anima ed essi sono dati all’amico». Il risultato ottenuto è dunque «Favorevole».

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SEGNI PREMONITORI

cominciarono a farlo intorno al XVII secolo a.C. e proseguirono fino all’epoca seleucide, con speciale impegno di trascrizione nel periodo assiro; i testi principali di quest’arte enciclopedica provengono infatti dalle biblioteche dei sovrani di Assur e di Ninive. Un settore particolarmente osservato era quello dei parti anormali, documentato in un trattato, in piú tavolette cuneiformi, che ha il titolo di Shumma izbu, «Se il parto anormale (presenta certe caratteristiche, accadrà che...)». Vi si trova di tutto, ai limiti dell’inverosimile, giacché, accanto a nascite anomale, realmente osservate, i compilatori del trattato ne immaginarono altre, per raccogliere un’ampia casistica e prevedere ogni evenienza. Di fronte a presagi funesti, inoltre, si poteva anche agire preventivamente: lo prova un centinaio di testi magici, composti tra l’VIII e il VI secolo a.C. e poi raccolti in un trattato definito col termine sumerico namburbu (che vuol dire «scioglimento del presagio»), nel quale sono appunto registrati i riti da compiere per evitare la sventura annunziata.

Pompei, Villa dei Misteri. Particolare di una scena dagli affreschi della Sala della Megalografia (o dei Misteri), raffigurante una donna che si prepara per un bagno rituale, mentre un sileno suona e canta. I sec. d.C.

Purificarsi per espiare Fenomeni insoliti e prodigiosi come i parti mostruosi, e in specie gli ermafroditi, spaventavano anche i Romani, che consultavano in proposito un’altra raccolta di libri appartenente all’etrusca disciplina. Di tale insieme di testi restano solo alcuni frammenti, che però documentano a sufficienza l’atteggiamento specifico dei Romani di fronte al prodigio: questo, piú che annunciare il futuro, manifestava un errore, compiuto in atti pubblici o privati, e la conseguente collera divina, che occorreva dunque espiare con minuziose purificazioni. Si distingueva peraltro il presagio, cioè un avvertimento divino (omen) in segni fortuiti o convenuti, che bisognava interpretare, dal prodigio, che andava espiato con una procedura (procuratio) appropriata. Particolarmente sviluppata, e celebre almeno quanto l’aruspicina, era poi la dottrina dei fulmini, anch’essa di derivazione etrusca.

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L’interpretazione si basava sulla suddivisione dello spazio celeste tra le divinità, per la quale lo stesso fegato di Piacenza fornisce una preziosa documentazione. I Romani distinguevano i fulmini notturni, lanciati dal dio Summano, e quelli diurni, arma del supremo Giove. Questi scagliava tre diversi tipi di saette: un fulmine benigno, di consiglio o avvertimento; uno terrificante, seguito dal rombo del tuono; un terzo, perentorio, che bruciava e uccideva. L’arte classica è piuttosto avara di rappresentazioni di presagi o di prodigi,


benché la letteratura latina sia piena di racconti che ne indicano l’importanza nella vita pubblica e privata. Non mancano però reperti che illustrano e completano la documentazione letteraria. Le raffigurazioni dei diversi tipi di fulmini, per esempio, sono piuttosto frequenti già nell’arte etrusca, soprattutto sugli specchi e in riferimento alle divinità folgoranti, come Tinia (il Giove etrusco) che è menzionato tre volte sul fegato di Piacenza. Sulla Colonna Traiana è raffigurato Giove che saetta i Daci mentre combattono contro i Romani; nella colonna di Marco

Aurelio, eretta tra il 175 e il 193, il fulmine divino colpisce invece una macchina da guerra nemica; un’altra scena del monumento ricorda poi il prodigioso temporale che rinfrescò i soldati romani e trascinò via l’esercito barbaro in torrenti di pioggia. Vanno ricordati infine un affresco della cosiddetta Villa dei Misteri, a Pompei, che potrebbe raffigurare una scena di lecanomanzia (si vedono alcuni personaggi intenti a scrutare l’acqua di un catino) e un altro nella Casa di Livia sul Palatino, probabile figurazione di un presagio ottenuto per mezzo di capelli gettati nel fuoco.

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CAPITOLO

un

BATTITO

D’ALA

A un volo d’uccelli è legata, fra le tante, la leggenda della fondazione di Roma. Osservare avvoltoi o altri pennuti librarsi nel cielo era però una pratica che aveva origini assai piú antiche e che ebbe gli Etruschi tra i suoi piú affermati specialisti

T

ra le tecniche divinatorie privilegiate da alcuni popoli del Mediterraneo antico, seguendo forse una tradizione indoeuropea, figura l’ornitomanzia, cioè l’osservazione del volo, delle grida e del comportamento degli uccelli. Testimonianze consistenti sulla sua utilizzazione si trovano già negli archivi della capitale del regno ittita, Hattusa, nel II millennio a.C. Anche in Mesopotamia, per vero, venne praticata l’ornitomanzia, dando luogo a una casistica che permetteva di valutare il significato favorevole o sfavorevole di ogni osservazione; ma la tecnica documentata nei testi ittiti aveva

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Tarquinia, Tomba degli Auguri. Particolare di una pittura murale raffigurante uno dei personaggi che hanno dato nome al sepolcro e che si può probabilmente identificare con un sacerdote. 520 a.C.

talune caratteristiche originali, che in seguito, e presso altre culture, assunsero un valore specifico. I testi ittiti attestano l’osservazione del volo di una trentina di volatili, dei quali si registrava la provenienza, la tipologia del volo e la direzione presa nell’ambito di uno spazio precedentemente stabilito dall’indovino. Il disegno inciso sommariamente su una tavoletta di argilla insieme a vari responsi ottenuti con questa tecnica, suggerisce piú in particolare che l’osservatore suddividesse nel cielo uno preciso spazio rettangolare di osservazione e che valutasse come significativi solo gli uccelli comparsi in tale confine. Il sistema ittita anticipa cosí di qualche millennio quello elaborato presso varie civiltà dell’Italia nell’età del Ferro e specialmente a Roma, dove l’osservazione degli uccelli rappresentò per secoli la tecnica divinatoria ufficialmente prevista dalla religione pubblica. Il termine per indicarla era augurio, o anche auspicio (da aves, «uccelli», e specere, «osservare»), e l’àugure era il sacerdote incaricato di scrutare il cielo, seguendo regole precise: con il bastone rituale, il lituo, egli tracciava nel cielo un templum, cioè uno spazio rettangolare, determinato da due linee perpendicolari tra loro e orientato secondo i punti cardinali, all’interno del quale osservava i segni inviati da Giove, unica divinità che potesse inviare gli auspici.

Una delle massime cariche dello Stato La dottrina augurale era un’arte segreta, sicché, oltre le raffigurazioni del costume sacerdotale e degli strumenti rituali sui monumenti artistici, possediamo informazioni numerose, ma incomplete, dagli storici e dai grammatici latini. Il sacerdote incaricato del rito apparteneva a un collegio la cui istituzione veniva attribuita al re Numa, primo successore di Romolo, cioè del primo àugure della tradizione (gli dèi lo avevano infatti preferito al fratello Remo, lasciandogli vedere piú uccelli nel cielo). Il collegio era inizialmente formato da tre membri; poi aumentò di numero: al tempo di Silla, gli àuguri erano quindici e


divennero sedici dopo la riforma di Giulio Cesare. L’istituzione augurale era una delle massime cariche dello Stato; per importanza, essa veniva subito dopo quella del pontefice massimo. Tuttavia, l’àugure non agiva mai di propria iniziativa, ma solo su incarico dei magistrati, che indicavano la necessità di trarre gli auspici e poi potevano anche non accettarli. Egli, inoltre, non doveva predire il futuro con l’auspicio, bensí stabilire se vi fosse o meno il consenso divino per una determinata azione. Si traevano auspici per ogni decisione pubblica importante, nonché per la consacrazione di particolari luoghi; in questi casi si ripeteva allora sul terreno il templum celeste e, per effetto dell’augurazione (e dell’accettazione degli

In basso una delle sette Tavole Iguvine in bronzo con iscrizione di un testo in lingua umbra riguardante le pratiche religiose della città. II-I sec. a.C. Gubbio, Museo Civico di Palazzo Consoli.

auspici da parte dei magistrati), il luogo prescelto era esorcizzato e reso disponibile (da ciò deriva anche il nostro «inaugurare»). Una famosa pittura della Tomba François di Vulci attesta la presenza dell’ornitomanzia anche presso gli Etruschi. Nella scena si vede il personaggio di Vel Saties, in vesti solenni, mentre interpreta i presagi offerti dal volo di un picchio, trattenuto con una cordicella da un giovane assistente. C’è inoltre un documento prezioso, che testimonia la diffusione di quest’arte nella religione degli Umbri: si tratta di sette tavole in bronzo ritrovate a Gubbio, nelle quali la tecnica dell’auspicio è descritta in dettaglio, come rito preliminare per una solenne cerimonia espiatoria (vedi box).

Le Tavole Iguvine

N

el 1444, presso il Teatro Romano di Gubbio, furono rinvenute sette tavole in bronzo di varie grandezze (min. 28 x 56 cm; max. 39 x 83 cm.), databili tra gli inizi del II secolo a.C. e gli inizi del secolo successivo. Il testo è scritto in parte con grafia umbra e in parte con grafia latina; contiene prescrizioni per varie cerimonie e norme per il funzionamento del collegio dei Fratelli Atiedi, ai quali era affidata l’esecuzione dei riti. La tavola I in umbro e le corrispondenti tavole VI e VII in latino, piú in particolare, presentano una grande cerimonia espiatoria da compiersi sulla rocca di Iguvium, che prende avvio con l’operazione dell’àugure il quale, rivolto verso sud-est, traccia nel cielo il cosiddetto templum e vi osserva il volo degli uccelli, per trarne gli auspici. Il testo stabilisce minuziosamente il tipo di volatili e la posizione da cui devono essere visti; le condizioni per la validità dei segni e il loro significato in rapporto allo spazio cittadino; le clausole di nullità e le eventuali sanzioni. Le tavole conservano il rito piú ampio e importante di tutta l’antichità classica e sembrano costituire il riflesso su bronzo dei libri rituali in uso presso i contemporanei popoli dell’Italia centrale.

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CLEROMANZIA

la

SORTE e le SORTI Agli oracoli venivano rivolte le richieste piú disparate: dalla professione che sarebbe stato meglio intraprendere alla possibilità di guarire da una malattia. E le risposte potevano essere desunte dall’interpretazione di segni, lettere o anche brevi frasi, incisi su lamine e tavolette

Statuetta in bronzo raffigurante il dio Aplu, l’Apollo etrusco, nudo e ingioiellato: con un diadema sul capo, un bracciale sull’avambraccio e una collana dai molti pendenti. 375-350 a.C. Parigi, Cabinet des Médailles.

S

assi, fave, bastoncini, frecce, dadi, astragali e altri oggetti, mescolati e poi scelti a caso, erano gli strumenti per un altro grande settore della divinazione antica, quello della cleromanzia. È un metodo sperimentale, che ancora si utilizza, in modo profano, per rimettere al caso decisioni non rilevanti dal punto di vista sociale, politico o religioso. Ma nelle culture antiche la casualità era piuttosto uno dei tanti parametri con i quali gli esseri sovrumani si esprimevano, sicché il sorteggio ritualizzato consentiva di scegliere la via da seguire nel rispetto del volere divino anche per questioni importanti come la nomina di magistrati. Non per nulla, in Italia si venerava una dea Fortuna e in Grecia una dea Tyche (l’Opportunità), l’una e l’altra patrone della sorte. Sortes è per l’appunto il termine con cui si designano in latino gli oggetti che servivano a tale scopo, che potevano contenere simboli, lettere, numeri o anche epigrafi con le domande sottoposte alla divinità consultata. «Lisania vuole sapere se il bambino che Annila porta in seno è suo»; «Cleuta


domanda se sia per lui giovevole e utile esercitare la pastorizia»; «Lisodemo chiede se avrà figli che possano curarlo in vecchiaia, se gli conviene abitare ad Atene ed esserne cittadino». Ecco alcuni degli oltre 150 testi incisi su tavolette di piombo ritrovate nel santuario di Zeus a Dodona, nell’Epiro, che era ritenuto il piú antico oracolo della Grecia. Le epigrafi appartengono per la gran parte all’epoca ellenistica, ma coprono, nell’insieme, l’arco di tempo che va dalla seconda metà del VI fino al II secolo a.C. La consultazione, come si comprende agevolmente, poneva un’alternativa alla divinità, che rispondeva con un sí o con un no (la procedura esatta non è chiara: gli autori antichi parlano dello stormire delle fronde di una quercia al centro di un piccolo santuario, riportato alla luce dagli scavi, e del cinguettío di colombe profetiche). Sul retro di ogni documento i sacerdoti registravano l’argomento della domanda, il nome del fedele e segni di numerazione; poi lo conservavano negli archivi.

In alto sors a barretta forata dedicata al dio Suri (un Apollo infero), come indica l’iscrizione savcnes suris, da Viterbo. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia In basso laminetta di piombo con la quale un certo Ermonas chiede a quale divinità debba rivolgersi, affinché sua moglie Kretaia abbia una buona progenie. 525-500 a.C.

l’oracolo estraendo a sorte un oggetto su cui era incisa una lettera dell’alfabeto; quindi, e magari con l’aiuto dei sacerdoti, leggevano il responso contenuto nel verso dell’epigrafe corrispondente alla medesima lettera, adattandolo alla propria situazione. In Etruria la divinazione per sorteggio era posta sotto il patronato di Aplu, l’Apollo etrusco, e si realizzava mediante dischetti o lamine di metallo estratte da mazzi, con diverse possibilità di responsi. Se ne conoscono alcuni esemplari da Arezzo, da Tarquinia, da Cerveteri e dal Viterbese. Il metodo si affermò anche tra le popolazioni degli Osci e dei Falisci, soprattutto nell’età tardo-repubblicana di Roma; varie località della Penisola (Fornovo di Taro, Chiusi, Fiesole, Arezzo, Sepino, Histonium e Torino di Sangro, per esempio) hanno in effetti restituito un numero considerevole di sortes, consentendo di

«Perché ti affretti?» Un altro modo di ottenere risposte divine tramite sorteggio è documentato nel santuario di Apollo che sorgeva a Ierapoli di Frigia: dagli scavi di una missione italiana, sono state recuperate tre iscrizioni, incise su due blocchi di marmo riutilizzati nel III secolo d.C. per un rifacimento del tempio. Esse conservano un elenco di ventiquattro sortes, ciascuna delle quali inizia con una diversa lettera dell’alfabeto: ci sono incoraggiamenti al bene e alla prudenza, formule di speranza e di serenità, del tipo «Non tentare, navigando da solo, di resistere alle correnti»; «Perché ti affretti? Aspettando, puoi procedere piú serenamente»; «Piú in là nulla sarà sospetto, anche se ora lo è». I fedeli, probabilmente, consultavano

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CLEROMANZIA

La dea Fortuna

L’

astrazione divina del concetto di sorte favorevole aveva a Roma vari santuari, tra i quali uno importante al Foro Boario. Il suo culto fu probabilmente introdotto in città da altre località del Lazio, dove esistevano santuari prestigiosi della dea, come ad Anzio e a Preneste. Considerata portatrice di fertilità e benessere, la dea veniva rappresentata con il corno dell’abbondanza, con un timone (col quale dirigeva la vita degli uomini) e spesso cieca. Era inoltre adorata con epiteti particolari e numerosi, che indicavano le qualità e le mille sfaccettature della sorte. In epoca ellenistica e nella Roma imperiale venne identificata con la piú ambigua figura greca di Tyche e con quella provvidenziale dell’egiziana Iside.

«La bellezza del santuario e l’antichità delle tavolette di Preneste hanno mantenuto intatta la loro fama fino ai nostri giorni, almeno agli occhi del popolo. Ma quale magistrato le consulta? Dovunque altrove le sortes sono state dimenticate» (Cicerone) epigrafe oracolare greca finora conosciuto. La pietra conserva un testo a spirale, con l’indicazione di non insistere ulteriormente nella consultazione: «(La dea) Era non consente che si torni a consultare l’oracolo».

Un oracolo famoso

stabilirne anche una classificazione per tipi e periodi. Gli strumenti piú antichi erano semplici ciottoli in pietra, poi sostituiti con dischi di bronzo o di piombo e quindi con verghe di legno o di metallo, che in età classica assunsero la forma di tavolette, con un testo oracolare piú ampio. È ben documentata anche la particolare antichità di questo sistema di divinazione in Italia: al VII secolo a.C. si data infatti un ciottolo in pietra da Cuma, che costituisce peraltro il piú antico esempio di

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Affresco che ritrae Iside Fortuna, con cornucopia e timone, e un uomo nudo, sovrastato da due serpenti agatodemoni, divinità benevole protettrici della casa. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un altro esempio di questo tipo di divinazione è offerto dall’oracolo della Fortuna Primigenia a Preneste, famoso ancora al tempo di Cicerone. Gli scavi condotti dopo l’ultima guerra hanno restituito un tempio monumentale, che occupava buona parte dell’area della moderna città di Palestrina con una serie di terrazze, di gradinate e di portici, e un numero cospicuo di testi epigrafici. L’importanza del santuario era strettamente legata alle tavolette divinatorie in legno, ricoperte di segni arcaici, che qui si conservavano dall’epoca leggendaria in cui erano prodigiosamente uscite da una spaccatura della roccia. Per l’estrazione a sorte, un bambino scendeva in una specie di pozzo (ma non è certa la sua identificazione con l’«Antro delle Sorti» che oggi si mostra ai turisti) e sceglieva a caso una delle tavolette con i responsi, che poi i sacerdoti interpretavano. È significativo osservare che in Roma la dea Fortuna aveva vari templi, ma in nessuno di


Per gioco, e non solo

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e piccole ossa del tarso posteriore di capre o di pecore (astragali) si usavano nell’antichità come strumento per giocare: se ne indovinava il numero pari o dispari in una sacca, si lanciavano in aria cercando di riprenderli col dorso della mano, si usavano come biglie per centrare una fossetta nel terreno, oppure come dadi, in varie combinazioni che si ottenevano riproducendo sugli oggetti lettere o figure con valori diversi. I giochi con gli astragali erano molto diffusi in Grecia, soprattutto nel periodo ellenistico, e anche a Roma. Le necropoli di Lemno e nel santuario di Artemide a Efeso, per esempio, hanno restituito un grande numero di astragali, sia naturali che riprodotti in argilla, madreperla, avorio e perfino in oro e pietre preziose. Molti astragali recano inoltre un piccolo foro; essi venivano dunque utilizzati anche come ornamento, forse con un valore apotropaico, per orecchini o collane. Ma gli astragali si usavano parimenti a scopo divinatorio, sia in Grecia che nella Roma imperiale. La pratica è testimoniata, per esempio, da Pausania, per il santuario di Eracle a Bura, in Acaia: chi voleva interrogare l’eroe, dapprima recitava una preghiera davanti alla sua immagine, poi gettava gli astragali su una tavola. Per ogni figura o combinazione che si veniva a creare vi era una spiegazione, scritta sulla tavola stessa. A tale uso divinatorio alludono peraltro varie figurazioni del gioco con gli astragali davanti a un idolo, su monete di Samo e di Efeso. Anche alcune iscrizioni oracolari si riferiscono a tale uso: un’epigrafe su pietra da Termessos, nella Pisidia, contiene per esempio 56 responsi; ciascuno riporta i numeri ottenuti con la gettata degli astragali, il nome del dio titolare del responso e il consiglio ottenuto dalla consultazione.

In alto La giocatrice di astragali, olio su tela di Frederic Leighton. 1867. Collezione privata. Ricavati dalle piccole ossa del tarso posteriore di capre o di pecore, gli astragali ebbero grande diffusione nell’antichità, anche come elementi di ornamento personale oppure come strumenti utili alla divinazione, in particolare in Grecia e nella Roma imperiale. A sinistra astragali in terracotta da utilizzare per l’omonimo gioco, da Cuma Eolica (presso Aliaga, Turchia). 50 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

essi è documentato il sorteggio oracolare; le autorità romane, in altri termini, pur non ostacolando la frequentazione del santuario di Preneste (che anzi Silla fece restaurare e rese piú fastoso), non guardavano con interesse a questo tipo di divinazione, preferendo di gran lunga, per le decisioni pubbliche importanti, incaricare gli àuguri di trarre gli auspici.

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ORACOLI ILLUSTRI

la BOCCA dellaVERITÀ L’oracolo di Delfi divenne per gli antichi sinonimo di divinazione. Infatti, sebbene non fosse il solo dispensatore di vaticini allora in attività, raggiunse una fama enorme, alimentata dai misteriosi effluvi che scaturivano dall’antro al quale solo la Pizia poteva accedere per ricevere i responsi del dio

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L’interno di una coppa a figure rosse con Zeus che interroga l’oracolo di Delfi. 440 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen.

«P

arlare a nome di un dio»: è un’altra forma di divinazione, assai diffusa nell’antichità, che si caratterizza per essere una tecnica di conoscenza diretta, intuitiva. Il profeta, cioè «colui che parla a nome di un dio», riceve infatti personalmente, senza intermediari né artifici, il messaggio divino. I Greci descrivevano questo stato eccezionale come un «entusiasmo», per dire che «dentro c’è un dio» e Platone parla di «follia divina», per esprimere il particolare rapporto tra il profeta e il dio Apollo, cosí come «follia» erano anche l’invasamento nei riti di Dioniso, l’ispirazione poetica data dalle Muse e l’amore provocato da Afrodite. È appunto in Grecia che questo metodo divinatorio spettacolare, con un medium in trance che profetizza, trovò grande sviluppo, soprattutto in relazione ad alcuni grandi santuari oracolari. Ma la divinazione profetica (mantica, o cresmologia) aveva trovato credito già nel Vicino Oriente preclassico, non solo nel I millennio a.C., con i profeti di Yahweh o di Baal presso le corti d’Israele, di Giuda e dei centri fenici, ma anche in epoche precedenti e particolarmente nella città di Mari, al tempo di Zimri-Lim (1782-1759 a.C.). L’archivio di questo sovrano ha restituito, infatti, una cinquantina di testi profetici, perlopiú in forma di lettere indirizzate al re dai suoi familiari o funzionari. Essi gli riferiscono le profezie rese da vari personaggi, qualificati come «rispondenti», cioè capaci di consultare la divinità su preciso incarico, oppure come «estatici», che in momenti d’invasamento (talora provocato con l’assunzione di particolari bevande inebrianti) o in sogno avevano ricevuto il messaggio di un dio, con l’ordine di comunicarlo al sovrano. Anche nella Grecia arcaica, peraltro, erano note figure indipendenti di personaggi ispirati, celebrati nelle arti figurative e letterarie: gli indovini dell’età eroica Tiresia, Melampo e Calcante, per esempio; e poi Cassandra, che, per non essersi concessa ad Apollo, aveva predetto inascoltata sventure ai Troiani; infine le Sibille, vaticinatrici dell’epoca primitiva,

raffigurate nei panni di vecchie donne con il capo velato e immaginate come profetesse errabonde. Ma in epoca classica l’ispirazione dei personaggi che il dio faceva andare in estasi, per comunicare il suo messaggio, non era né libera né spontanea; si produceva in luoghi precisi e a data fissa, per questioni specifiche sottoposte dal consultante. Cosí avveniva soprattutto a Delfi, nel principale santuario di Apollo, dove esercitava la Pizia; ma anche altri luoghi, consacrati al dio o ad altre divinità in numerose località del mondo greco d’Oriente e d’Occidente, avevano i loro vati che profetavano in prosa o in versi.

Appuntamenti mensili Nel santuario di Delfi, inizialmente, Apollo dava i suoi responsi tramite la Pizia solo una volta l’anno; poi, forse già dal VI secolo a.C., le consultazioni divennero mensili e tali rimasero fino al I secolo d.C., quando la fama del santuario venne oscurata da altre forme di divinazione. Nei giorni stabiliti, una grande folla si radunava nel santuario per sottoporre all’approvazione divina decreti statali, questioni d’ordine politico o religioso, domande d’interesse pubblico o privato. I consultanti dovevano compiere un certo numero di riti, sotto la guida dei sacerdoti che controllavano il culto, e lasciare un’offerta in denaro. La Pizia si purificava dapprima alla fonte Castalia, poi scendeva nella parte piú bassa del tempio, presso un’apertura circolare nel terreno da cui salivano vapori, sedeva su un tripode e, agitando un ramoscello d’alloro,

«Cosí dal suo tempio la Sibilla Cumana diffonde il maledetto orrore dei suoi ambigui oracoli, e nel suo antro, dove la verità s’ammanta d’ombra» (Virgilio, nell’Eneide) | MAGIA E DIVINAZIONE | 101 |


ORACOLI ILLUSTRI

A sinistra particolare di una pittura murale con scena di sacrificio, dal palazzo di Zimri-Lim a Mari. XVIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra i resti del tempio di Ammone nell’oasi di Siwa in Egitto. Nella pagina accanto, in basso ritratto di Alessandro Magno raffigurato come il dio Sole. III-II sec. a.C. Bruxelles, Musées royaux d’Art et d’Histoire. Nel 331 a.C., il Macedone si recò in pellegrinaggio al tempio di Ammone a Siwa e venne salutato come «figlio di Zeus».

«In vino veritas»

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ra i testi di Mari, risalenti al XVIII secolo a.C., due lettere documentano l’abitudine di provocare l’ispirazione profetica di particolari personaggi mediante bevande inebrianti. Entrambe sono indirizzate dalla regina al suo sposo, il re Zimri-Lim. Nella prima si annuncia il successo del sovrano di Mari su Hammurabi di Babilonia in questo modo: «Ho dato da bere agli Incaricati dei santi segni e ho posto loro le mie domande. Ho saputo che l’uomo di Babilonia trama cose cattive contro questo paese, ma non avrà successo. Tu, mio Signore, vedrai ciò che la divinità farà a quell’uomo: lo catturerai e lo dominerai. I suoi giorni sono prossimi alla fine; non sopravviverà. Che il mio Signore lo sappia!». La seconda lettera riferisce invece la promessa di una vittoria sul re assiro Ishme-Dagan: «A proposito della spedizione militare che il mio Signore intende compiere: ho dato da bere agli Incaricati dei santi segni, un uomo e una donna, e ho posto loro le mie domande. Il responso che ho ricevuto è senz’altro favorevole al mio Signore».

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cominciava a delirare, invasata dal dio, pronunciando suoni e grida che poi i sacerdoti si preoccupavano d’interpretare. Questa, almeno, è la ricostruzione del rito proposta da autori di epoca tarda e da scrittori cristiani decisamente lontani dall’epoca in cui la Pizia esercitava, sicché è lecito nutrire dubbi sulla qualità della sua «possessione» divina. L’unica raffigurazione antica della Pizia intenta a rendere l’oracolo è su una coppa attica del V secolo, che non basta a garantire sull’autenticità della sua estasi. Questa, peraltro, certamente non era una dote naturale


Cosí parlava il dio ariete

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ell’oasi di Siwa, tra le sabbie del deserto libico sono stati ritrovati i resti del santuario oracolare intitolato al dio che gli Egiziani identificarono con Ammon-Ra, i Greci e i Romani con Zeus (o Giove) Ammone. La prima consultazione di cui si abbia notizia è del 549 a.C., quando giunsero nell’oasi gli ambasciatori inviati dal re Creso di Lidia; ma il pellegrinaggio piú celebre fu quello compiuto da Alessandro Magno nel 331, per sentirsi salutare dai sacerdoti come «figlio di Zeus» e farsi garantire dal dio l’aspirazione al dominio universale. Le tracce archeologiche del culto di Ammone a Siwa risalgono al tempo della XXVI dinastia egiziana (664-525 a.C.) e proseguono almeno fino al II secolo d.C., epoca alla quale si data una stele votiva oggi conservata ad Alessandria. Nell’iconografia delle monete greche della Cirenaica, già alla fine del VI secolo, il dio compare come uno Zeus barbuto, con barba e capelli trattati come un vello caprino e le tempie ornate da

corna d’ariete; talvolta (per esempio su emissioni del 500 a.C. circa) il dio ha invece fattezze umane e testa d’ariete. Stando alle fonti letterarie, era la stessa immagine divina a rendere oracoli, mentre veniva portata in processione su una barca dorata. Gli officianti, recando quel peso sulle spalle, si muovevano ondeggiando su ispirazione del dio, che esprimeva la propria volontà con gli spostamenti dell’idolo e i riflessi dei gioielli, mentre un coro di fanciulle e di pie donne inneggiava alla sua gloria. Il procedimento rispecchia una tecnica divinatoria di origine egiziana, testimoniata per esempio nell’iscrizione di Thutmosi III (1479-1424 a.C.) nel tempio di Amon a Karnak.

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ORACOLI ILLUSTRI

della profetessa: Plutarco, che fu sacerdote a Delfi, scrive infatti che al suo tempo la Pizia era scelta tra le ragazze di Delfi per la sua integrità morale e non per aver manifestato particolari predisposizioni profetiche. Anche l’ipotesi che la profetessa traesse ispirazione dai vapori vulcanici che salivano dalla crepa nel terreno, avanzata in epoca ellenistica, è stata contraddetta dagli scavi nel tempio, che non hanno rivelato nulla di simile. Da Erodoto e altri scrittori, cosí come dai resoconti epigrafici delle consultazioni ritrovati nel santuario si apprende peraltro che alla Pizia si sottoponeva solitamente un’interrogazione

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In alto i resti del tempio di Apollo a Delfi, perlopiú appartenenti alla ricostruzione del IV sec. a.C. Qui sopra testa in oro e avorio, forse raffigurante il dio Apollo. VI sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico.

semplice o un’alternativa (la formula piú frequente era «Se sia preferibile per... [fare l’una o l’altra cosa]»), sicché il responso si riduceva in un sí o in un no oppure in uno dei termini della domanda binaria. Si è dunque ipotizzato che, in realtà, la Pizia scegliesse le sue risposte tirando a sorte, come si faceva in altri santuari, sia pure cosí agendo per conto del dio. In ogni caso, a Delfi come altrove, i sacerdoti del santuario si preoccupavano di registrare gli oracoli, su papiro, su tavolette o anche su pietra. A Didima di Mileto, piú in particolare, gli archeologi hanno individuato una di queste segreterie oracolari, identificandola in un edificio del III


IL TEMPIO DI APOLLO Cuore del santuario delfico era il grande tempio di Apollo, di fronte al quale era posto il piú famoso e venerato dono votivo di Delfi: una colonna in bronzo a forma di serpenti che, in cima, recava un tripode dorato, in ricordo della battaglia di Platea del 479 a.C.

IL TEATRO Sul lato occidentale del tempio, la Via Sacra sale fino al teatro (IV-III sec. a.C.), da cui si gode di una vista grandiosa su tutta l’area sacra. L’edificio poteva accogliere 5000 spettatori e oggi è uno dei monumenti meglio conservati dell’antica città.

secolo a.C. che ancora conserva sui suoi muri le iscrizioni fatte incidere dai sacerdoti. Questo tipo di documenti, inoltre, dette slancio a un genere letterario specifico, la raccolta di oracoli, che ebbe grande successo nell’antichità, nonostante le numerose falsificazioni. Già nella Grecia del VII secolo si conoscevano oracoli famosi, come quelli attribuiti a Museo e che Onomacrito raccolse ad Atene, su incarico ufficiale, verso il 520 a.C. Ma di fama incomparabile, fino ai primi secoli del cristianesimo, furono in particolare gli oracoli attribuiti alle Sibille, che circolavano in forma di suggerimenti e d’istruzioni per porre rimedio a disastri d’ogni tipo. I piú famosi erano gli oracoli della Sibilla localizzata a Cuma, della quale, al tempo di Pausania, si mostrava l’urna contenente le ossa; e poi quelli della Sibilla Eritrea, per la quale un’iscrizione del tempo di Marco Aurelio, in una grotta di Eritre (località della ionia, oggi in Turchia, n.d.r.), assicura che era appunto vissuta in quel luogo.

Gli oracoli al rogo

I DONI DELLE CITTÀ-STATO La Via Sacra costeggia una serie di monumenti dedicati dalle città-stato greche, tra cui il porticato dei Lacedemoni e il monumento degli Ateniesi. Seguono i circa venti «tesori», monumenti votivi che contenevano preziosi doni: il tesoro di Sicione, quello dei Sifni, il tesoro dei Tebani. Proseguendo, si giunge al tesoro degli Ateniesi, un armonioso edificio in marmo pario a forma di tempietto dorico, eretto verso il 490 a.C., e oggi ricostruito. La Via Sacra continua fino a diventare un piccolo slargo, su cui si affaccia, tra gli altri, la roccia della Sibilla, antenata della Pizia. L’intera area è delimitata a settentrione dall’imponente terrazzamento del tempio di Apollo, sorretto dal Muro Poligonale, coperto da innumerevoli iscrizioni dedicatorie e votive.

Anche a Roma, dove pure alla divinazione ispirata si guardò sempre con grande diffidenza, erano diffuse varie raccolte di oracoli: si sa, tra l’altro, che nel 213 a.C. il senato ordinò di distruggere i libri profetici in circolazione e che anche Augusto fece bruciare oltre 2000 volumi di oracoli. Una sola raccolta, ufficiale, ebbe costantemente un influsso sulla vita pubblica: quella dei Libri Sibillini, che, secondo la tradizione, erano stati acquistati al tempo dei Tarquini dalla Sibilla Cumana. Scritti in greco, i libri erano conservati nel tempio di Giove Capitolino, dove un’apposita commissione li consultava – su incarico del senato e nel caso di portenti particolarmente minacciosi –, al fine di stabilire le purificazioni da compiere secondo la tradizionale procedura dell’espiazione dei prodigi. Nell’85 la raccolta bruciò in un incendio sul Campidoglio; venne allora costituita una nuova raccolta di libri, che Augusto fece depositare nel tempio di Apollo sul Palatino, dove rimase in uso fino al 363 d.C., data dell’ultima consultazione conosciuta.

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CAPITOLO

MESSAGGI dall’ALDILÀ


Saul e la strega di Endor, olio su tela di Januarius Zick. 1753. Collezione privata. Il pittore immagina il passo biblico (Samuele, 28, 16-17) in cui Saul consulta lo spirito del profeta Samuele evocato dalla strega di Endor attraverso un rito negromantico.

Sebbene temuta e praticata con circospezione, anche l’interrogazione degli spiriti era una pratica diffusa per conoscere il proprio destino. I suoi «effetti collaterali» potevano però essere assai pesanti...

«Q

ui interroghiamo indovine e spiriti dei morti, per sapere se il dio Assur continuerà a curarsi di te»: cosí si legge in una lettera paleoassira del 1800 a.C. circa, che documenta una pratica divinatoria diffusa, ma considerata inquietante e spesso dichiarata illecita. È la necromanzia, cioè il ricorso agli spiriti dei morti, ritenuti capaci di conoscere l’avvenire dei vivi. Etemmu era il nome che si dava in Mesopotamia a tali spettri, evocati con un rito al quale, forse, si ricorreva solo in caso di estrema necessità. Tale impressione si ricava anche in altri contesti culturali; cosí è, per esempio, nel racconto biblico della consultazione dello spirito di Samuele da parte di una donna della città di Endor, alla quale il re Saul si era rivolto, pur avendo egli stesso proibito in Israele il ricorso ai necromanti, giacché si era rivelato inutile ogni altro metodo divinatorio per conoscere la volontà di Yahweh. Cosí è, del resto, anche per la necromanzia praticata nella Roma imperiale da occultisti che operavano ai limiti del lecito, stimati, ma soprattutto temuti per la loro arte. I papiri magici, le gemme, gli intarsi ci mostrano con vivide immagini il mondo tenebroso in cui operavano i necromanti, che si richiamavano agli dèi dell’antico Oriente, a Zoroastro e al faraone Nectanebo, per vantare doti eccezionali e dichiararsi capaci di risvegliare i cadaveri, di forzare a rispondere anche i defunti piú nocivi, quelli deceduti per morte violenta o prematuri. Pericolosa e funesta quale doveva essere la necromanzia, non meraviglia la rarità delle attestazioni che la concernono o la discrezione che circonda le notizie giunte fino a noi, che pure non mancano. Le biblioteche dei re assiri contenevano anzi testi rituali molto espliciti, con le formule che avrebbero consentito di evocare uno spettro e istruzioni di questo tipo: «Recita l’incantesimo per tre volte, poi ungi i tuoi occhi con la pozione (un

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NECROMANZIA

La «bella festa»

A

l tempo della XXI dinastia egiziana (1069-945 a.C.) è documentata una particolare pratica divinatoria che utilizza la tecnica delle «statue parlanti» (attraverso il movimento ondulatorio dell’idolo portato in processione) applicata a questioni giudiziarie. La testimonianza principale viene da un rilievo inciso su un muro orientale del tempio di Amon a Karnak, con una lunga iscrizione e l’immagine della consultazione oracolare. Entrambe concernono un alto funzionario accusato di frode, attivo al tempo del Primo Profeta di Amon Pinegem II (990-970 a.C.). Il verbale del processo, registrato attorno alla scena, testimonia che l’imputato fu prosciolto dal dio nel corso della grande cerimonia della «Bella Festa dell’Udienza Divina», celebrata in uno spazio del tempio appositamente predisposto (il «Sole d’Argento della Casa di Amon»), con varie sessioni e con la partecipazione di altre due divinità, Khonsu e Mut. Al 13° giorno, per due volte la statua del dio aveva scelto la tavoletta che scagionava il funzionario e respinto quella con l’accusa; con lo stesso metodo divinatorio vennero individuati e giudicati i veri colpevoli. L’uso giuridico degli oracoli, per questioni di alta politica, risale in Egitto all’epoca ramesside; in età tolemaica è documentato dai papiri del Fayyum, anche per questioni piú banali, come furti, questioni d’amore o di salute.

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intruglio a base di grasso, peli d’animale, insetti, vino, acqua e latte) e scorgerai lo spettro: egli ti parlerà, tu potrai vederlo».

Il fiume dei defunti In Grecia era d’antica fama, e aperto alla frequentazione dei fedeli, l’oracolo dei morti attivo nell’Epiro meridionale a Èfira, presso l’Acheronte, il fiume utilizzato già dall’epopea omerica per localizzare il viaggio di Ulisse tra le ombre dell’Ade. Gli scavi hanno rivelato i resti del santuario che si datano perlopiú al III secolo a.C., quando vennero restaurate in una costruzione monumentale le strutture precedenti (alcuni ex voto risalgono al IV e V secolo a.C.). Ma l’oracolo era famoso già nel VI secolo: stando a Erodoto, infatti, verso il 600 a.C. il tiranno di Corinto, Periandro, vi aveva consultato lo spirito della moglie defunta. La disposizione degli edifici ritrovati suggerisce che i consultanti trascorressero la notte nel santuario e che l’evocazione dei morti avvenisse in una cripta, al centro del complesso. È anche possibile che un congegno


favorisse, per cosí dire, l’apparizione dei defunti e che si consumassero a tal fine sostanze con effetti allucinogeni: lo suggerisce il ritrovamento dei resti di un macchinario in metallo e di quantità importanti di taluni cereali. Le ipotesi, invero, sono basate soltanto sui reperti e mancano di conferme letterarie; tuttavia, Pausania, nel II secolo d.C., parla di un’esperienza probabilmente analoga a quelle provate da chi frequentava il santuario di Èfira,

In alto e a sinistra due immagini dei resti del nekromanteion presso Èfira, nei pressi dell’odierna Preveza (Epiro). Per secoli meta di pellegrinaggio, il santuario venne distrutto dai Romani nel 168 a.C., durante la conquista della Grecia. Nella pagina accanto una veduta dei resti del complesso templare di Karnak a Luxor.

che egli stesso aveva vissuto, in prima persona, consultando l’oracolo dell’eroe Trofonio a Lebadea, in Beozia. La consultazione qui avveniva di notte, compiendo dapprima sacrifici di animali e facendone esaminare le interiora, per assicurarsi la buona disposizione di Trofonio; poi prendendo bagni e acque dalle sorgenti dell’Oblío e della Memoria; quindi scendendo in un locale sotterraneo, dove, nel buio, un vortice trascinava l’uomo brutalmente ancora verso il basso, in un altro luogo dove lo attendevano visioni e rumori spettacolari. Chi consultava l’eroe si ritrovava poi all’aperto, dove raccontava sensazioni e visioni avute nell’oscurità ai sacerdoti del santuario, che l’aiutavano a capire il responso e registravano tutto su tavolette. Era, insomma, una sorta di viaggio negli inferi, dal quale si usciva seriamente provati: «Quando ritorna – scrive Pausania – colui che cerca l’oracolo ha disimparato il riso».

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ONIROMANZIA

SOGNI RIVELATORI


Fra i metodi piú suggestivi finalizzati a svelare il futuro o suggerire le soluzioni a problemi grandi e piccoli, c’era il ricorso alle visioni che accompagnavano il sonno. Apparizioni portentose, alle quali ben presto s’affiancò una speciale branca della medicina, praticata con successo nel nome di Asclepio, il dio guaritore...

«A

Giuseppe interpreta il sogno del faraone, olio su tela di Reginald Arthur. 1894. Collezione privata.

mico mio, il sogno che hai fatto è un segno favorevole, è un sogno prezioso! La montagna che tu hai visto in sogno significa che prenderemo il mostruoso Humbaba, lo uccideremo e getteremo il suo cadavere nella pianura». Sono le parole di risposta, che l’opera piú celebre della Mesopotamia preclassica, l’Epopea di Gilgamesh, attribuisce a Enkidu, il compagno dell’eroe, quando Gilgamesh gli chiese d’interpretare il suo sogno; ed è solo uno dei tanti esempi offerti dalle antiche letterature sull’importanza dei sogni nelle culture arcaiche. Babilonesi, Egiziani, Canaanei, Greci, Romani e altri popoli del Mediterraneo antico: sono tutte, senza dubbio, «civiltà del sogno», per il valore che assunse in essi l’attività onirica, intesa appunto come mezzo di conoscenza privilegiato. Sogni rivelatori, accettati come profezie venute da un mondo parallelo per suggerire fatti non ancora avvenuti oppure ignoti; e poi anche sogni malefici, che portano spavento e obbligano a una purificazione o espiazione; oppure sogni ingannevoli, dei quali l’uomo non riesce a comprendere il senso se non ricorrendo a un interprete esperto; sogni, infine, provocati ad arte, come mezzo per ottenere dal dio informazioni e consigli (oniromanzia), con tutto il fascino e i rischi a ciò relativi.

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ONIROMANZIA

I testi dell’antico Oriente sono ricchi di sogni rivelatori: ne fecero i sovrani sumerici del III millennio a.C., come Eannatum e Gudea, ai quali gli dèi annunciarono in sogno vittorie e suggerirono perfino come costruire i loro templi; ne fecero i faraoni egiziani, come quello che all’ombra della sfinge di Giza venne a promettere il trono e il successo al giovane principe Thutmosi IV (1397-1387 a.C.), ancora leggibile nei geroglifici che decorano la sua stele tra le zampe anteriori della sfinge; ne facevano perfino gli dèi, come quello che al supremo dio di Ugarit, El, annunciò il ritorno dello scomparso Baal, con l’olio che pioveva dai cieli e il miele che scorreva nei torrenti; ne facevano anche i comuni mortali, che poi correvano dagli interpreti per farseli spiegare. Cosí nacque, in Mesopotamia come in Egitto, una letteratura apposita, registrata sulle tavolette in argilla o sui papiri, che dei sogni stabiliva la casistica e la chiave interpretativa, cosí da fornire agli specialisti un manuale per ogni occasione. Sono i «Libri dei Sogni», vari esemplari dei quali sono giunti fino a noi, come quelli rinvenuti nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive o come i papiri egiziani di epoca ramesside e romana.

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«Asclepio ordinò a Demandro, che soffriva di sciatica, di venire a Lebena per farsi curare. Appena si fu addormentato, il dio lo tagliò e Demandro se ne partí guarito» (iscrizione del santuario di Asclepio a Lebena, Creta) Piú o meno tutti seguono un medesimo schema: per ogni situazione onirica si dà un pronostico, tratto da considerazioni ovvie oppure stravaganti, del tipo: «Se un uomo sogna una persona che muore ciò gli allunga la vita»; «Vedere un nano: la vita si accorcia»; «Tuffarsi nel fiume: assoluzione dai mali»; «Mangiare un uovo: perdita dei beni». Nell’Egitto di età ellenistico-romana, nei templi di Bes ad Abido, nel Serapeo di Canopo e in quello di Menfi, nel luogo sacro di Hathor a Dendera, v’era anche l’abitudine di cercare ritualmente nei sogni rivelazioni divine che sciogliessero angosce o guarissero dai mali: ci si recava dunque nei santuari degli dèi guaritori e qui, dormendo, si attendeva la rivelazione divina.


Nella pagina accanto disegno ricostruttivo di una scena di cura nell’Asclepieio di Atene. In questa pagina rilievo votivo dal santuario ateniese dell’eroe Amynos, che raffigura l’ufficiale Lysimachides nell’atto di dedicare una gamba affetta da vene varicose in segno di riconoscenza per la guarigione ottenuta. Marmo. IV sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.


ONIROMANZIA

È il rito dell’incubazione, che in Egitto si era però diffuso per influenza greca. È in Grecia, infatti, che questa pratica trovò grande e duratura espressione, specialmente nell’ambito del culto di Asclepio, figlio di Apollo e dio risanatore per eccellenza. Presso i suoi templi, ma anche presso il santuario dell’eroe Anfiarao a Oropo, si pronunciavano oracoli basati su un’interpretazione dei sogni che aveva le connotazioni di un intervento medico-sacrale. Il centro piú famoso, dalla seconda metà del VI secolo a.C., era il santuario di Asclepio a Epidauro, nell’Argolide, che già nel V secolo fu in grado di creare «filiali» a Egina, Atene, Coo, e poi nel secolo successivo anche a Pergamo in Asia Minore, a Balagrai in Cirenaica, a Lebena sull’isola di Creta e perfino a Roma, sull’Isola Tiberina, nel tempio che risale al 291 a.C.

La visione vien di notte Iscrizioni, monumenti e fonti letterarie c’informano sulla procedura seguita: il fedele compiva anzitutto sacrifici e purificazioni, poi veniva introdotto nel tempio, dove passava la notte; nel sonno arrivava la visione del dio, che direttamente guariva il malato oppure indicava la cura da seguire per risolvere affanni e mali di vario tipo. Con tali connotazioni i grandi centri oracolari di Asclepio erano piú simili ai moderni sanatori che non agli altri santuari dell’epoca: spesso impiantati presso sorgenti e stazioni termali, prevedevano sempre locali o portici adibiti a dormitori (in greco definiti solitamente col termine abaton, «luogo inaccessibile») ed erano frequentati da medici-sacerdoti che sapevano dare la giusta spiegazione ai sogni dei pellegrini venuti a supplicare il «miracolo». Il clero si occupava poi di registrare le guarigioni (in latino sanationes) compiute dalla divinità, in apposite compilazioni di propaganda, che attingevano alle tavolette Rilievo in marmo raffigurante Asclepio (o Ippocrate) nell’atto di curare un malato. V sec. a.C. Pireo (Atene), Museo Archeologico.

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Una gravidanza particolare

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isalgono al IV secolo a.C. quattro stele, rinvenute negli scavi del santuario di Asclepio a Epidauro, contenenti l’elenco delle guarigioni piú celebri compiute dal dio. Lo scrittore Pausania, che le vide nel II secolo d.C., attesta che esse furono redatte dai sacerdoti del dio per magnificarne la gloria. La stele meglio conservata racconta per prima la storia di una donna, Cleò, che incinta da cinque anni venne al


santuario e dormí nel locale apposito. «Non appena uscí ella partorí un bambino, che subito si lavava da solo alla fontana e andava in giro con la madre. Cleò fece incidere allora un ex voto con questa frase: “Non ammirate la grandezza del mio dono votivo, ma il dio che mi ha guarito. Per cinque anni ho portato un peso nel ventre, poi giacqui nell’abaton e il dio mi guarí”». Come spiegare lo straordinario miracolo?

Secondo l’epigrafista Margherita Guarducci (1902-1999), la soluzione è nell’epigramma che si leggeva sull’ex voto: il sacerdote che redasse la stele avrà liberamente interpretato quel «peso nel ventre» – che in greco può significare sia una vera che una falsa gravidanza – e costruito ad arte il vivace racconto del prodigio, arricchendolo di particolari tali da avvalorarlo.

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ONIROMANZIA

L’interprete dei sogni

P

iú di un testo semitico dell’antico Oriente menziona un indovino al quale vniva affidato il compito di interpretare i sogni: si trattava, probabilmente, di uno scriba capace di leggere le raccolte commentate di sogni, accreditato presso le corti dei sovrani. In Egitto egli aveva il titolo di «Scriba della Casa della Vita», che era il luogo dove appunto si ricopiavano e studiavano i

manoscritti sacri. Quando, in età ellenistica, la pratica dell’incubazione raggiunse proporzioni notevoli, nei templi di Asclepio, cosí come in quelli del dio greco-egiziano Serapide, a questa funzione si consacrò un numero considerevole di scribi, che esercitavano anche in modo indipendente presso i santuari. Non lontano dal Serapeo di Menfi è stata ritrovata

votive lasciate dai fedeli, dipinte a vivaci colori e conservate sui muri del santuario. Sia a Epidauro che a Lebena, in particolare, gli scavi hanno restituito preziosi documenti epigrafici incisi su pietra, con l’elenco dei miracoli piú importanti registrati dai sacerdoti; nel primo caso si tratta di alcune stele che risalgono al IV secolo a.C., mentre nel secondo è un catalogo di sanationes, inciso sulle pareti dell’edificio-dormitorio tra il II e il I secolo a.C. Le iscrizioni forniscono informazioni precise anche sui modi in cui agiva la divinità. In sogno

Asclepio dava talvolta semplici consigli, del tipo «Il dio mi ordinò di non adirarmi cosí tanto». Piú spesso il dio risanava miracolosamente, imponendo la mano sul fedele (è il gesto che lo caratterizza sui monumenti, per esempio su un celebre bassorilievo del Museo del Pireo datato intorno al 400 a.C.; vedi foto alle pp. 114/115), che al mattino si svegliava guarito.

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Le ricette del dio Lo ricorda per esempio un certo Gorgia di Eraclea in una delle epigrafi ritrovate


l’insegna che un interprete aveva posto presso il suo «studio», alla fine del IV secolo a.C. È una stele a forma di portico, nella quale è dipinto il bue divino Apis presso un altare; l’epigrafe, scritta in alto con inchiostro nero, dice cosí: «Interpreto i sogni, avendo ricevuto per questo un mandato dal dio. Buona Fortuna. L’interprete che qui lavora è un Cretese».

Sulle due pagine alcuni strumenti utilizzati dallo scriba. Parigi, Museo del Louvre. Da sinistra: un calamaio a due vaschette, un mortaio e una paletta da scrittura in avorio con alcuni calami.

nell’Asclepieo di Pergamo: «Per una ferita ricevuta in battaglia egli aveva riempito di pus sessantasette bacinelle. Dormendo ebbe una visione: gli sembrò che Asclepio estraesse dal suo polmone la punta della freccia. Quando venne il giorno si alzò e se ne andò, tenendo nelle mani l’oggetto che l’aveva ferito». In altri casi il dio indicava la cura da seguire, del tipo registrato in un’iscrizione di Lebena per un malato cronico di tosse purulenta: «Il dio lo prese per mano; gli diede (...) vino italiano aromatizzato con pepe, amido in acqua calda,

polvere di ceneri sacre, un uovo e della resina di pino, pece umida, iris con miele...». Dal punto di vista letterario, ha invece grande valore la testimonianza del retore greco Elio Aristíde, che lasciò in un libro (i Discorsi sacri) il resoconto delle esperienze oniriche da lui stesso ripetutamente sperimentate; dall’opera si può dedurre che al tempo dello scrittore, cioè nel II secolo d.C., la guarigione miracolosa aveva meno rilievo dei rimedi che il dio suggeriva nel sogno (soprattutto idroterapie e psicoterapie).

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ASTROLOGIA

il DESTINO è nel CIELO


L’influenza delle stelle sull’agire dell’uomo era considerata una realtà oggettiva, indagata con rigore ed elevata a scienza. Oltre a determinare il carattere degli uomini, lo studio dell’astrologia poteva prevedere eventi futuri o indagare su quelli passati e gli astronomi erano figure di rilievo, ascoltate anche dai potenti prima di prendere decisioni importanti

«D

Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare dei mosaici laterali della navata centrale con l’adorazione dei Magi. VI sec. d.C.

ov’è il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo». Il passo evangelico sui Magi introduce a un ulteriore aspetto della divinazione antica, documentando l’interesse per lo studio degli astri nei primi secoli dell’impero romano. Un interesse rivolto non solo a comprendere i meccanismi e la frequenza dei fenomeni celesti (dando origine alle prime espressioni dell’astronomia), ma anche a stabilirne l’influenza sulla vita degli individui e trarne presagi. Questa, appunto, è l’astrologia, che – circondata dal prestigio di una scienza esatta e dal fascino delle dottrine venute dall’Oriente – esercitò un’attrazione irresistibile sul finire dell’evo antico, imponendosi sugli altri sistemi divinatori e influenzando ogni ambito della teologia pagana imperiale. Nel Mediterraneo romanizzato la fede nella potenza delle stelle era generale; gli astrologi esercitavano presso le corti dei re, nei palazzi degli aristocratici o anche, piú semplicemente, all’angolo dei crocicchi per i meno abbienti. Essi influenzavano perfino l’arte, suggerendo modelli originali di edifici e monumenti ispirati ai pianeti, ormai considerati arbitri del destino dell’uomo. Gli astrologi erano in ciò favoriti dalla fiducia che da secoli, ormai, si dava alle loro dottrine, in quella sorta di «villaggio globale» mediterraneo che le conquiste di Alessandro

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ASTROLOGIA

A sinistra riproduzione delle pitture che ornano il soffitto del tempio di Hathor a Dendera (Egitto): vi compaiono il cielo e i segni zodiacali, disegno di Domenico Valeriani, per la Nuova illustrazione istorico monumentale del Basso e dell’Alto Egitto di Girolamo Segato. 1835. In basso rovescio di un aureo di Augusto, sul quale compare la raffigurazione del Capricorno, con cornucopia, globo e timone, corredata dalla leggenda «AUGUSTUS». 17-16 a.C.

Magno avevano consentito di realizzare, con una circolazione delle idee e degli individui da Oriente a Occidente mai prima realizzata.

Lo scetticismo degli epicurei In verità, anche in epoche precedenti l’ellenismo, sia Greci che Romani avevano prestato attenzione religiosa ai fenomeni celesti, come manifestazione del volere divino. In Grecia, peraltro, gli sviluppi delle conoscenze astronomiche di filosofi e pensatori come Talete ed Eudosso di Cnido procedettero a lungo di pari passo con l’evolversi di quelle dottrine religiose che trasferivano, nelle configurazioni dei pianeti, gli dèi e gli eroi della tradizione mitica: Saturno, Venere, Mercurio, il Leone, il

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Toro e tutti gli altri personaggi che ancora popolano il cielo degli astrologi. La maggior parte delle scuole filosofiche (salvo gli epicurei) riteneva del resto possibile che le stelle potessero influenzare i fatti terrestri. Ma l’astrologia fondata sull’osservazione dei pianeti nello Zodiaco diventò credenza diffusa solo quando in Occidente giunsero, con l’ellenismo, le dottrine elaborate dai Caldei, cioè dai sapienti babilonesi, che ebbero un successo incredibile, dapprima in Grecia, dove suscitarono polemiche ma anche adesioni tra i filosofi, e poi a Roma, dove provocarono ripetute reazioni


Che anno sarà?

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n trattato astrologico in lingua siriaca, tramandato su un codice manoscritto del XV secolo, ma risalente, nella sua composizione originaria, all’epoca degli imperatori Vespasiano o Adriano (I-II secolo d.C.), fornisce in dodici paragrafi, corrispondenti alle «case» dello Zodiaco, previsioni sull’andamento dei raccolti, dei trasporti per mare, sulle piene del Nilo, su malanni, epidemie, guerre e altri cataclismi

In basso calendario astrologico del ciclo della Vergine, da Uruk. Fine del I mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. La tavoletta faceva parte di un’opera in dodici volumi, ciascuno dei quali era dedicato a un segno zodiacale.

che si verificheranno in relazione al segno zodiacale in cui l’anno nasce. Molte formule del trattato (intitolato Trattato di Sem, figlio di Noè) richiamano assai da vicino i modelli della letteratura astrologica babilonese; per altre si possono invece stabilire paralleli con la tradizione araba. Ecco, per esempio, la previsione contenuta nel quinto paragrafo: «Se l’anno nasce nel Leone, ci sarà pioggia primaverile. La terra

delle autorità repubblicane, nel II e I secolo a.C., per conquistare poi pubblico e credito assoluti. La data di nascita dell’astrologia greca si può porre intorno al 280 a.C., quando un prete caldeo di nome Berosso s’installò a Cos e vi aprí una scuola. La sua opera, una Storia di Babilonia dedicata al re di Siria Antioco I, è andata perduta; ma restano alcuni frammenti dai quali si apprende che l’insegnamento di Berosso si fondava sui testi consultati negli archivi delle città della Mesopotamia, nei quali si conservava l’antica tradizione astrologica babilonese, che oggi, grazie all’archeologia, è nuovamente disponibile.

sarà impoverita a causa dei venti del nord; il raccolto sarà gradevole e anche il cibo degli uomini sarà buono. Il frumento, il riso, i legumi, l’olio e i datteri saranno cari. Si diffonderà una malattia; donne gravide e bestiame minuto moriranno. Un re combatterà contro un altro re. (...) Il Nilo strariperà in un’inondazione elevata. Ci sarà mal di testa tra gli uomini. Alla fine dell’anno ci sarà pioggia abbondante».

Le tavolette cuneiformi di contenuto astrologico, restituite dagli archivi dei re babilonesi e assiri, o dai centri sottoposti alla loro influenza in Siria, in Anatolia e in Elam, si contano infatti a migliaia. Lo studio degli astri e dei fenomeni celesti comincia a essere attestato nella prima metà del II millennio a.C. e prosegue fino all’epoca ellenistica.

Repertori di presagi Si tratta per un verso di almanacchi, con annotazioni di giorni favorevoli e sfavorevoli per ciascun mese, del tipo: «Il 7° giorno del mese di Nisan è un giorno di collera, funesto, pericoloso per il malato. Il medico non curi, l’indovino non pronunci parola; non è propizio per alcuna impresa». Si tratta poi di veri e propri manuali, con presagi raccolti in repertori che gli specialisti conservavano e consultavano ripetutamente. Il trattato piú famoso, ritrovato a Ninive nella biblioteca di Assurbanipal, venne redatto in oltre settanta tavolette; ventitré sono dedicate alla luna, altre al sole, ai fenomeni atmosferici e alle eclissi, generalmente considerate segno di sventura. Alle dottrine dei Babilonesi si deve far risalire anche l’origine dello Zodiaco, strumento principale dell’astrologia ellenistica e romana; le piú antiche raffigurazioni dello Scorpione, dei Pesci, del Sagittario, del Capricorno e della Vergine compaiono infatti sulle pietre

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ASTROLOGIA

confinarie (kudurru) del periodo cassita (seconda metà del II millennio a.C.). Quando dunque si conobbe in Occidente, l’astrologia dei sacerdoti caldei era ormai una scienza complessa ed enormemente sviluppata, che in patria aveva relegato nell’ombra perfino la tecnica divinatoria

principale, fondata sull’extispicina, e che ormai veniva messa a disposizione di tutti, umili o potenti che fossero. Dalla Mesopotamia l’astrologia si diffuse anche in Egitto, all’epoca della dominazione persiana e sotto i Tolomei. Qui la fiducia negli astri trovò sviluppi ulteriori, che la resero ancor piú interessante e ne

La luna (e il sole) nel pozzo

N

el 1967, sul fondo di un pozzo, tra le rovine di un santuario gallo-romano, sono state ritrovate due coppie di tavole in avorio, oggi conservate nei Musei di Saint-Germain-en-Laye e di Epinal (Frncia). Gli oggetti vennero intenzionalmente distrutti (sono stati recuperati ben 188 frammenti di avorio) e gettati nel pozzo, in una data che il contesto archeologico consente di porre intorno al 170 d.C. Le tavole

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compongono due dittici, ciascuno dei quali rappresenta uno Zodiaco completo, inciso nell’avorio, con tracce di pittura in policromia. Sono rappresentate, in quattro ovali concentrici, le figure dei decani con i nomi egiziani trascritti in greco e i rispettivi simboli numerici; poi i segni caratteristici dello Zodiaco, cosí com’è attestato a Dendera, nell’Alto Egitto, nel I secolo a.C.; nel cerchio centrale figurano

invece il sole e la luna. I due zodiaci illustrano graficamente i testi della letteratura astrologica del tempo, che insegnava a curare le affezioni del corpo umano collegando ciascun organo a un particolare decano. L’intenzionalità della distruzione e la natura del luogo (un santuario-sanatorio) rendono indubbio il valore sacro delle tavole, che sono verosimilmente di provenienza alessandrina.


In alto Nemrut Dagi (Turchia), tomba-santuario di Antioco I di Commagene (69-36 a.C.). Stele raffigurante il segno zodiacale del Leone, che si ritiene si riferisca alla data di costruzione del monumento. Nella pagina accanto dittico in avorio rinvenuto in un pozzo del santuario gallo-romano di Grand (Francia). Fine del II sec. a.C. Attorno al sole e alla luna, sono raffigurati i 12 segni dello Zodiaco e dei 36 decani egiziani (3 per ogni segno), con il loro nome greco.

favorirono la diffusione in tutto il Mediterraneo. Dall’Egitto venivano, per esempio, i libri santi della nuova fede, cioè i trattati del faraone Nechepso e del sacerdote Petosiris, che erano stati tradotti in greco ad Alessandria verso il 150 a.C.; in Egitto si elaborarono anche previsioni astrologiche per intere nazioni, come documenta un famoso papiro del Cairo, in demotico; sempre in Egitto sono attestati gli zodiaci piú celebri del mondo antico, scolpiti nel grande tempio di Hathor a Dendera in epoca imperiale. Si comprende dunque l’entusiasmo dei sacerdoti egiziani che, verso il 59 a.C., magnificarono l’antichità della loro scienza allo scrittore Diodoro Siculo.

Oroscopi personalizzati Nella seconda metà del I millennio a.C. compaiono in Mesopotamia anche i primi oroscopi personalizzati, che presagivano il futuro e la personalità di un individuo dalla posizione delle stelle al momento della sua nascita o del suo concepimento. Il piú antico, scritto su una tavoletta oggi conservata a Oxford, venne calcolato per il 9 aprile del 410 a.C.; il piú recente venne redatto nel 69 a.C. Adottata in Egitto e da tutto il

mondo ellenistico-romano, la pratica degli oroscopi divenne una moda diffusa, che raggiunse il suo culmine tra il II e il III secolo d.C. Dagli scavi sono stati recuperati numerosi esemplari di oroscopi, qualcuno in pietra, come quello che fece scolpire il re Antioco di Commagene per la sua tomba, la maggior parte su papiro, come quelli restituiti dall’Egitto, in greco e in demotico. Gli astrologi registravano i dati anagrafici del richiedente e quelli astronomico-astrologici risultanti dal calcolo delle posizioni planetarie per la sua nascita; poi aggiungevano formule di buon augurio. Ve ne sono per ogni periodo, dal I secolo a.C. fino al V d.C., a documentare la continuità di una pratica e di un costume che per primi seguirono gli stessi imperatori di Roma, cercando negli astri le ragioni del loro destino glorioso. Già Augusto, racconta Svetonio, dopo aver consultato l’astrologo Teogene, ebbe cosí grande fiducia nelle stelle che fece divulgare il suo oroscopo e coniare monete recanti il segno del Capricorno sotto il quale era nato. Anche Tiberio aveva il suo astrologo personale e nella corte dei Severi nessuno negava il prestigio e l’autorità della fede negli astri.

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CAPITOLO

La Sibilla Cumana predice la nascita di Cristo, olio su tela di Giovanni Paolo Pannini. 1738. Mosca, Museo statale delle belle arti «Pushkin».

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quella

TEMIBILE «CURIOSITÀ» A livello popolare, la fiducia nella divinazione non conobbe flessioni; furono invece le autorità civili e religiose, soprattutto dopo l’avvento del cristianesimo, a cercare di reprimerla. Nella visione di un mondo dominato da un unico dio, non poteva esserci spazio per la folla delle divinità pagane, con il loro bagaglio di riti e superstizioni

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CRITICHE E DECLINO

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el corso del IV secolo d.C., sebbene avesse per secoli condizionato la politica di governanti, le decisioni pubbliche degli Stati e la vita privata di migliaia di uomini, benché avesse resistito al progresso della scienza e della filosofia (pensatori come Platone e Cicerone s’interrogarono a lungo sul suo valore), l’intero sistema delle pratiche divinatorie, venne duramente represso dall’autorità imperiale, con una serie di leggi poi raccolte nel Codice Teodosiano. A segnare la fine di questo sapere ambizioso non furono tanto le ripetute segnalazioni degli errori in cui – inevitabilmente – aruspici e indovini finirono per cadere (è significativo l’epitaffio latino scritto dai genitori di un bambino morto a quattro anni, nel quale si denunciano le menzogne dell’astrologo rinomato che aveva predetto per lui brillanti destini). La sua condanna non venne neppure dalla constatazione che il significato di uno stesso fatto dipendeva dalla sua valutazione culturale e che dunque un presagio potesse essere interpretato in modo diverso e perfino contrastante, secondo le culture (già Cicerone registrava, per esempio, che la destra e la sinistra erano diversamente valutate in Grecia e a Roma). Né ebbe ragione del fenomeno la varietà delle forme di consultazione elaborate nella storia e il diverso peso a esse attribuito in ciascuna società (la completezza della casistica in Mesopotamia, l’ispirazione oracolare in Grecia, la preoccupazione di assicurarsi l’accordo divino nella Roma repubblicana e il fatalismo astrale in quella imperiale).

Una pratica «eversiva» La sua repressione fu perfino indipendente dalla condanna che della divinazione fecero i cristiani, giudicando falsi tutti gli oracoli degli dèi pagani. A rendere illecita la divinazione fu piuttosto il suo stesso valore come sistema di conoscenza diretta e soprannaturale; proprio In alto la grotta di Afqa, sul monte Libano (Libano).

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L’oracolo nell’acqua

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ul monte Libano, a una giornata di cammino dalla città di Biblo e a pochi metri dalla grotta dove sorge il fiume Nahr Ibrahim, rimangono i resti di un santuario, probabilmente del IV secolo d.C., distrutto da un terremoto nel VI. Esso sorgeva sulle rovine di un antichissimo tempio dedicato all’Afrodite fenicia, che era stato demolito per ordine di Costantino; le strutture comprendevano tra l’altro una specie di stagno che, stando ad alcuni storici del V secolo, era il luogo di un oracolo idromantico. I fedeli gettavano le loro offerte preziose nell’acqua: se i doni erano bene accetti alla dea, andavano a fondo; diversamente restavano a galla. Cosí, per esempio, la dea avrebbe annunciato agli abitanti di Palmira la rovina imminente della loro città.


Il mercante di fichi

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ra gli esempi citati da Cicerone per illustrare le tecniche divinatorie in uso al suo tempo e la necessità di saper interpretare i segni inviati dagli dèi, è riportato un aneddoto divenuto famoso. A Crasso che si preparava a partire per la guerra contro i Parti era stato dato un presagio della morte che lo aspettava in quell’impresa: si trattava, in realtà, soltanto di un mercante che gridava per la via CAVNEAS (sottinteso FICOS), cioè «Comprate i miei fichi», riferendosi alla frutta di Cauno, città della Caria. Il generale romano non comprese, purtroppo, l’avvertimento divino presente in quel grido; avrebbe dovuto intendere il presagio come CAV(E) N(E) EAS, cioè «Non andarci!».

«Nessuno consulti un aruspice o un astrologo, nessuno consulti un indovino. Cessi la professione abietta degli àuguri e dei profeti. I Caldei, i maghi e tutti gli altri, che il popolo chiama “stregoni” per l’ampiezza dei loro misfatti, non ordiscano nulla in questo senso. In tutti e per sempre, si riduca al silenzio la “curiosità” della divinazione. E subisca la pena capitale, abbattuto dalla spada vendicatrice, chiunque rifiuterà obbedienza alle prescrizioni» (l’imperatore Costanzo, nel Codice Teodosiano) perché capace di leggere i «segni» del cosmo, la divinazione finí per rappresentare una temibile «curiosità», che, al pari della magia, interferiva con il potere assoluto e universale dell’imperatore, anch’esso garantito dagli dèi e inserito nell’ordine cosmico. Si può pertanto affermare che la repressione della divinazione nasca con l’impero: se gli stessi imperatori avevano potuto conoscere in anticipo il proprio destino ed essere legittimati dalle stelle o da altri «segni» divini

In alto testa in marmo pentelico di Marco Licinio Crasso. I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

nella loro ascesa al potere, l’arte degli indovini rappresentava un potenziale e pericoloso strumento di conoscenza illegittima: consultare un aruspice o un astrologo per fatti privati divenne cosí un crimine contro lo Stato; cercare ancor piú nelle stelle, o nei visceri di una vittima, la sorte del sovrano regnante o gli sviluppi di un affare pubblico, venne giudicato, inevitabilmente, un delitto, impossibile da punire se non con la pena di morte.

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BIBLIOGRAFIA

Magia – Per saperne di piú

Sui problemi di metodo, è d’obbligo innanzitutto il riferimento alle opere di un grande studioso italiano, Ernesto De Martino, che ha affrontato l’argomento specialmente ne Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (Boringhieri, Torino 1973) e in Magia e civiltà (Garzanti, Milano 1962). Da questi studi si potrà quindi prender le mosse per introdursi con piú sicurezza nei problemi connessi alla definizione del «magico», a cui si è fatto riferimento nel capitolo introduttivo (vedi alle pp. 6-11). Sulla nozione di magia, in particolare, si può vedere la prefazione di Claude Lévi-Strauss nel volume di Marcel Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi (Einaudi, Torino 1970); per il termine «magia», si veda anche Mario Bussagli, I re magi (Rusconi, Milano 1985). Un panorama sufficientemente ampio sulla magia nelle culture antiche, anche alla luce delle nuove metodologie, si può avere con la lettura del volume di Fritz Graf, La magia nel mondo antico (Laterza, Bari 2009). I testi principali greci e latini su magia e di occulto sono raccolti e tradotti in Arcana mundi, due volumi a cura di Georg Luck (Fondazione Valla, Milano 1997-1999). Si veda anche di Ennio Sanzi e Carla Sfameni, Magia e culti orientali. Per la storia religiosa della Tarda Antichità (Edizioni Lionello Giordano, Cosenza 2009). Adele Campanelli e Paola Pennetta hanno curato il Catalogo della mostra Fortuna e prosperità: dee e maghe dell’Abruzzo antico (Synapsi L’Aquila, Sulmona 2006). Tra i principali ritrovamenti di testi e oggetti magici nel mondo romano, vi sono quelli della fontana di Anna Perenna a piazza Euclide in Roma, per i quali si veda il volume edito da Marina Piranomonte e Francisco Marco Simón, Contesti magici = contextos mágicos (De Luca, Roma 2012). Le gemme gnostiche sono raccolte da Attilio Mastrocinque nei due volumi di Sylloge gemmarum gnosticarum (Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 20042007). Per l’antico Egitto, resta valido il riferimento al volume curato da Alessandro Roccati, Silvio Curto e Lazlo Kákosy, La magia in Egitto ai tempi dei faraoni (Edizioni Panini, Milano 1985). Una selezione di studi in lingua inglese sui temi della magia nel mondo antico si trova nel volume curato da Grazyna Bakowska-Czerner, Alessandro Roccati e Agata Swierzowska, The Wisdom of Thoth. Magical Texts in Ancient Mediterranean Civilisations (Archeopress, Oxford 2016).

Sulle due pagine fronte e retro di una statuetta del dio Bes, protettore del focolare domestico e invocato contro il malocchio. XXVII dinastia (525-359 a.C.). New York, The Metropolitan Museum of Art.

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Divinazione – Per saperne di piú

Per i documenti antichi e le metodologie adottate negli ultimi due secoli, è consultabile anche on line l’opera in quattro volumi di Auguste Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité (Ernest Leroux Editeur, Parigi 1879-1882, ristampa 1963). Un approccio moderno è proposto sia nel volume curato da Jean-Pierre Vernant, Divinazione e razionalità (Einaudi, Torino 1982) che in quello di Dario Sabbatucci, Divinazione e cosmologia (Il Saggiatore, Milano 1989). Su questioni specifiche, si vedano gli studi di: Fritz Saxl, La fede negli astri. Dall’antichità al Rinascimento (Bollati Boringhieri, Torino 1985); Frederick Mario Fales e Cristiano Grottanelli (a cura di), Soprannaturale e potere nel mondo antico e società tradizionali (Franco Angeli, Milano 1985); Giulio Guidorizzi (a cura di), Il sogno in Grecia (Laterza, Bari 1988); Donata Baccani, Oroscopi greci. Documentazione papirologica (Sicania, Messina 1991); Antonio Ammassari, L’identità cinese: note sulla preistoria della Cina secondo le iscrizioni oracolari della dinastia Shang (Jaca Book, Milano 1991); Mariangela Monaca, La Sibilla a Roma. I libri sibillini fra religione e politica (Edizioni Lionello Giordano, Cosenza 2005); Marta Sordi (a cura di), La profezia nel mondo antico (Vita e Pensiero, Milano 1993); Luigi Cagni, Le profezie di Mari (Paideia Editrice, Brescia 1995); Claudio Saporetti, Come sognavano gli Antichi. Sogni della Mesopotamia e dei popoli vicini (Rusconi, Milano 1996); Giovanni Pettinato, La scrittura celeste. La nascita dell’astrologia in Mesopotamia (Mondadori, Milano 1998); Federica Cordano e Cristiano Grottanelli (a cura di), Sorteggio pubblico e cleromanzia dall’antichità all’età moderna (Edizioni Et, Milano 2000); Giulia Sfameni Gasparro, Oracoli, profeti, Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico (Editrice LAS, Roma 2002); Anna Canfora ed Enrico Cattaneo (a cura di), Profeti e profezia: figure profetiche nel cristianesimo del II secolo (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2007); Vincenzo Bellelli e Marco Mazzi, Extispicio. Una «scienza» divinatoria tra Mesopotamia ed Etruria (Scienze e Lettere, Roma 2013); Paola Buzi (a cura di), Oracoli, visioni, profezie. L’Egitto da Alessandro il Grande all’alto Medioevo (Morcelliana, Roma 2013). A sinistra frammento di papiro copto con formule magiche, da Edfu (Egitto). X sec a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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MONOGRAFIE

n. 23 febbraio 2018 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Sergio Ribichini è collaboratore associato senior dell’Istituto per la Conservazione e valorizzazione dei Beni Culturali del CNR. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Album: copertina (e p. 28) e pp. 9, 18, 46-47, 49, 62; AKG Images: pp. 6/7, 10 (alto), 11, 16 (alto), 20-21, 24/25, 29, 31, 43 (destra), 51, 56, 58/59, 78/79, 82, 84, 92/93, 99 (alto), 102/103, 103, 106/107, 113, 120 (alto), 128-129; Leemage: pp. 10 (basso), 12/13, 15, 41, 44/45, 54/55, 73, 77, 78, 90, 94, 118/119, 124/125; Rue des Archives/CCI: p. 16 (basso); Electa/Aurelio Amendola: p. 55; Archivio dell’Arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: p. 57; Electa/Luigi Spina: p. 98; Electa/su concessione MiBACT: p. 120 (basso) – DeA Picture Library: pp. 8, 32; G. Dagli Orti: pp. 17, 19, 23, 48, 50, 52/53, 63, 85, 114-117; Archivio J. Lange: pp. 34/35; M. Carrieri: pp. 61, 74/75; A. De Gregorio: p. 67; G. Nimatallah: p. 87; A. Dagli Orti: p. 95; M. Seemuller: p. 102 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Les frères Chuzeville: p. 14; RMN-Grand Palais/Stéphane Maréchalle: p. 22; RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: p. 66; Musée du Louvre/Dist. RMN-Grand Palais/Christian Decamps: p. 69; Musée du Louvre/Dist. RMN-Grand Palais/Raphael Chipault: p. 121; RMN-Grand Palais (Musée d’archéologie nationale)/Gérard Blot: p. 122 – Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: pp. 26-27, 30, 68 – Doc. red.: pp. 33, 36/37, 42, 60, 64-65, 80/81, 83, 86, 88-89, 96, 97 (alto), 99 (basso), 100, 104 (basso), 127 – Bridgeman Images: pp. 38/39, 40, 43 (sinistra), 70/71, 76, 97 (basso), 110-112, 123 – Shutterstock: pp. 91, 104 (alto), 108-109, 126 – Stefano Mammini: p. 105. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: lastra in argilla cotta nota come «Regina della Notte» o «rilievo Burney», da Babilonia. 1800-1750 a.C. Londra, British Museum. L’opera ritrae una figura femminile alata fra una coppia di leoni e due gufi, che viene identificata con la dea Ereshkigal, sorella del dio Ishtar e sovrana dell’aldilà.

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