Archeo Speciale n. 1 - 2014

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servizi

segreti

€ 6,90 N°1-2014

nell’antica roma

di

ANNA MARIA LIBERATI ED ENRICO SILVERIO



servizi segreti nell’antica roma di Anna Maria Liberati ed Enrico Silverio

premessa 4. Gli occhi e le orecchie di Roma la sicurezza interna 10. In principio era il pater 28. La fine della repubblica 44. Taci, l’impero ti ascolta... 62. Curiosi di mestiere la sicurezza militare 80. Quando il gioco si fa sporco... 94. Spie e soldati 108. Messaggi di fuoco 126. Notizie che corrono sull’acqua 138. Uomini del conte e seguaci del re


occhi e le orecchie gli

di

roma

I servizi segreti tra Roma antica e mondo moderno di Anna Maria Liberati ed Enrico Silverio

È

possibile parlare di «servizi segreti» con riferimento alla storia di Roma antica? E qual è l’esatto significato di questa espressione? Partiamo da quest’ultima domanda: oggi, per «servizi segreti» si intendono quegli organismi che negli Stati moderni sono preposti alla raccolta di informazioni utili per la sicurezza politico-istituzionale e militare. Sulla base di quelle informazioni, i «servizi» saranno incaricati di realizzare le azioni che le autorità di governo avranno deliberato di intraprendere. I «servizi», poi, non sempre sono «segreti»: spesso, infatti, la segretezza rappresenta un corollario della riservatezza che caratterizza i compiti che tali organismi sono chiamati ad affrontare e non è dovuta a un ipotetico alone di mistero che avvolge la loro esistenza, né, tantomeno, all’uso di tecnologie sconosciute o innovative. I «servizi di informazione e sicurezza», come sarebbe meglio definirli, operano nella cornice degli Stati moderni, all’interno di enti sovrani decisamente diversi da Roma antica, nella quale, per esempio, non si conosceva la distinzione dei poteri in esecutivo, legislativo e giudiziario. | servizi segreti | 4 |


Oggi l’attività dei «servizi segreti» è generalmente suddivisa in due grandi aree: quella offensiva e quella difensiva. Della prima fanno parte la raccolta di informazioni, la propaganda, la disinformazione, la contro-informazione e le diverse forme di sabotaggio, la seconda si occupa di tutte quelle attività in grado di fronteggiare le prime, ovvero le iniziative «offensive» messe in atto da uno Stato o da un’entità «nemica». Spesso si parla anche di «intelligence» o di «apparati di intelligence». Il termine non descrive altro che un processo conoscitivo (raccolta di notizie da fonti diverse, valutazione della loro attendibilità, confronto con altri dati e loro integrazione e interpretazione, successiva analisi della situazione) che porterà a scegliere quale azione offensiva o difensiva adottare nel caso specifico. Se ci riferiamo a Roma antica, non possiamo, naturalmente, parlare né di un «potere esecutivo» né di una intelligence come la intendiamo oggi: troppo grande è la distanza che separa i servizi di informazione e sicurezza dello Stato moderno dalle istituzioni del mondo romano (sebbene non sia mancato chi, come lo storico statunitense William G. Sinnigen, in anni di «guerra fredda» abbia paragonato le strutture romane del tardo impero alla CIA, all’FBI o al KGB, indicando nei funzionari della burocrazia del IV-V secolo d.C. gli antesignani dei temuti «commissari politici» sovietici!). Per un lungo periodo, inoltre, Roma non conobbe neppure una forza di polizia simile a quelle esistenti negli Stati moderni. Quando, dunque, ci riferiamo ai soggetti o agli strumenti con

In alto e nella pagina successiva gli occhi di una statua bronzea di Augusto, rinvenuta a Meroe in Sudan. 27-25 a.C. circa. Londra, British Museum. Un’immagine evocativa del tema affrontato in questo Speciale. A Roma operò un vasto sistema di «agenti» a tutela della sicurezza interna, spesso fondato sulla delazione, l’ indicium.

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cui Roma combatteva pericoli analoghi a quelli contrastati dai moderni servizi utilizzeremo l’espressione «servizi segreti» o, preferibilmente, «servizi di informazione e sicurezza» - in modo del tutto convenzionale, consapevoli della distanza che separa gli uni dagli altri. Incontreremo, in Roma antica, molteplici categorie di «agenti» che operano all’interno di un «sistema» di informazione e sicurezza. Una pluralità non solo dovuta al fatto che non si conosceva la distinzione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, ma riconducibile anche a una serie di altri motivi: nella comunità cittadina esistette per molto tempo un meccanismo di autoregolamentazione sociale, creato dall’intrecciarsi e dallo stratificarsi di vincoli e interrelazioni operanti a diversi livelli, dalla familia alla civitas, e tale da porre la questione della sicurezza in maniera diversa rispetto all’età moderna e contemporanea. Sino alla crisi della repubblica Roma rimase una comunità «autoregolata», tenuta insieme da una serie di valori religiosi e sociali generalmente condivisi. Gli organismi deputati alla tutela della sicurezza interna non erano distinti dalle normali magistrature e, in linea di massima, la repressione consisteva in una semplice azione di polizia seguita da un processo, senza la necessità di ricorrere a organismi specializzati. La delazione, l’indicium, era quasi sempre tollerata, spesso addirittura richiesta e riccamente remunerata. Costante era anche il ricorso a istituzioni e legami familiari atavici, come la potestas del capo famiglia o il | servizi segreti | 6 |


«Un soldato in abiti civili viene a sedersi vicino a te e incomincia a sparlare di Cesare e tu, considerando come una sorta di garanzia il fatto che lui comincia a sparlare, dici tutto quello che provi; subito dopo ti trovi legato e portato via». (Epitteto, Dissertazioni 4, 13, 5)

rapporto tra patrono e cliente. Echi della rilevanza di questi legami familiari, personali e sociali giungeranno sino all’impero «burocratico» del tardo antico e oltre. Un altro aspetto di estrema importanza è rappresentato dal ruolo della religione, la religio, posta alla base del «sistema giuridico-religioso» e del «sistema sovranazionale» romano. In effetti la stessa formulazione di alcuni principi fondamentali della costituzione romana è permeata di atti dal valore religioso, quali lo iusiurandum, il giuramento solenne. Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, per esempio, L. Giunio Bruto «per evitare che il popolo, geloso della recente libertà, si facesse in seguito piegare dalle preghiere o dai doni del re, innanzitutto con un iusiurandum gli fece promettere che non avrebbe piú permesso a nessuno di regnare a Roma» (Livio 2, 1, 9). La religione, infine, svolge un ruolo essenziale anche in ambito militare: basti pensare che l’uso di stratagemmi come lo spionaggio era, in principio, visto come una sorta di frode, la fraus, perché violava il dovere, religioso, di retto comportamento, la fides, che l’universalismo romano riconosceva anche verso il nemico, l’hostis. Come vedremo nelle pagine che seguono, non si può affrontare l’argomento dei «servizi segreti» romani impiegando esclusivamente categorie militari, giuridiche o politico-istituzionali moderne, senza prendere in considerazione quella particolare «sensibilità» giuridico-religiosa propria di Roma antica. | servizi segreti | 7 |


sicurezza interna

Roma. Veduta notturna dei resti del tempio di Saturno, sorto ai piedi del colle capitolino, nell’area nord-occidentale del Foro Romano. Oltre alle funzioni cultuali, l’edificio custodiva il tesoro di Stato, l’Erario.

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La sicurezza interna

Il viaggio nel mondo dei «servizi segreti» di Roma antica inizia con uno sguardo alle misure adottate per garantire l’ordine sociale. All’origine fu sufficiente l’esistenza di un codice non scritto, basato su principi di buona convivenza, scaturiti dalle origini della città e ispirati anche dai dettami della religione. Un sistema che cominciò a mostrare i suoi limiti quando Roma imboccò la strada che la portò a diventare uno dei piú grandi imperi della storia

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in principio era

il pater

nella roma dei re e poi della repubblica il controllo sociale era, soprattutto, un ÂŤautocontrolloÂť. i cittadini erano consapevoli dei limiti entro i quali doveva svilupparsi la propria condotta: quasi come una famiglia, che viveva nel rispetto e sotto la guida del padre di Enrico Silverio

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Il campo maledetto, olio su tela di Fedor Andreevich Bronnikov. 1878. Mosca, Tretyakov Gallery. Nel dipinto si immagina un’esecuzione di massa per crocifissione: simili provvedimenti sono attestati dalle fonti, come nel caso dell’episodio avvenuto nel 217 a.C., quando a Roma vennero giustiziati 25 schiavi, colpevoli di aver ordito una congiura, forse in collegamento con uno speculator («spia») cartaginese arrestato lo stesso anno.

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sicurezza interna

N

ell’affrontare il tema dei servizi di informazione e sicurezza romani dell’età arcaica, occorre tenere presenti due elementi: la progressiva distinzione tra pubblico e privato e l’originaria indifferenziazione tra le sfere della religione e del diritto. Il rapporto tra pubblico e privato coinvolge il problema della natura degli organismi familiari primitivi, della loro «federazione» nella città e della conseguente ma molto progressiva perdita della loro originaria «sovranità» a favore della città. Sono questioni molto complesse e ci limiteremo a osservare come si trattasse di strutture in un certo senso «sovrane», organizzate attorno a un pater che aveva un potere forse identico sugli uomini e sulle cose, espresso secondo alcuni con i termini manus o mancipium. La grande forza di questi caratteri originari fece sí che essi non venissero meno con la fondazione della città, anche perché questa nuova «federazione» aveva un carattere in primo luogo essenzialmente religioso e del resto la stessa carica del rex aveva una valenza

753-509 Monarchia

509 Nascita della repubblica

La città e il pater uniti nel punire In questa fase prendono vita caratteri originari destinati a durare, mutati e adattati, anche nel successivo sviluppo della società e della cultura romana e a influire, tra l’altro, nella nostra materia. Basti pensare che, nel caso di crimini politici commessi da un filius familias o da un altro individuo soggetto al capo di un gruppo familiare, il potere punitivo della città concorreva con quello del pater: esempi in questo senso sono attestati fino alle soglie dell’età imperiale. In Roma esistette sempre un «sistema giuridico-religioso» e quindi accanto alle strutture sociale e familiari, nella nostra

449-448 Guerra contro Equi, Volsci e Sabini

343-341 Prima guerra sannitica

IV secolo a.C.

VIII-V secolo a.C.

753 a.C. Fondazione di Roma

prioritariamente religiosa. Di qui scaturisce l’estrema difficoltà nell’applicare all’età arcaica le moderne categorie di «pubblico» e «privato» che, in una realtà come quella appena accennata, risultano inadatte a descrivere l’intreccio di strutture familiari e cittadine che animava la Roma delle origini.

494 circa Battaglia del lago Regillo tra Romani e Latini

390 Sacco di Roma

340-338 Guerra latina e scioglimento della Lega latina

III secolo a.C.

le date da ricordare

291 Fondazione della colonia di Venosa 298-290 Terza guerra sannitica

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282-272 Guerra tarantina 283 Fondazione della colonia di Senigallia

264-241 Prima guerra punica 268 Fondazione delle colonie di Rimini e Benevento

225-222 Sottomissione dei Galli Boi e Insubri; battaglie di Talamone e Casteggio 241-227 Istituzione delle prime province di Sicilia e Sardegna-Corsica

218 Fondazione delle colonie di Piacenza e Cremona 218-201 Seconda guerra punica


materia ebbe un’importanza davvero fondamentale, specie nell’età piú antica, la religio, intesa come «culto degli dèi» (Cicerone, La natura degli dèi, 2, 8). La fondazione e la prosperità di Roma venivano avvertiti come dipendenti dalla benevolenza divina e la città arcaica era pertanto interessata essenzialmente alla repressione dei comportamenti che potevano turbare il buon rapporto con gli dèi, la cosiddetta pax deorum. Esistevano diverse modalità per restaurare la pax deorum violata, sino a giungere, a seconda delle circostanze e dell’epoca considerata, all’immolazione del reo alla divinità offesa. Se ci limitiamo a considerare la sanzione dei comportamenti che implicavano un tradimento, merita di essere ricordata soprattutto una pena sacrale: la deiectio e saxo, cioè la precipitazione dalla rupe Tarpea. Riservata in origine a chi avesse leso la pax deorum per essere venuto meno al dovere

338 circa Fondazione della colonia di Ostia

326-304 Seconda guerra sannitica

II secolo a.C.

329 Fondazione della colonia di Terracina

215-205 Prima guerra macedonica

Bastone in bronzo, dall’estremità superiore arcuata e senza nodi (lituo), simbolo, presso gli Italici, del potere dei sacerdoti e dei magistrati. Da una tomba di Cerveteri, VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

200-196 Seconda guerra macedonica

306 Trattato romano-cartaginese. L’Italia è attribuita a Roma, la Sicilia a Cartagine

189 Fondazione della colonia di Bologna

192-189 Guerra siriaca

181 Fondazione della colonia di Aquileia 183 Fondazione delle colonie di Parma e Modena

172-167 Terza guerra macedonica 177 Fondazione della colonia di Luni

147 Istituzione della provincia di Macedonia 149-146 Terza guerra punica: distruzione di Cartagine e nascita della provincia romana «Africa»

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sicurezza interna

Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784. Parigi, Museo del Louvre. A seguito del combattimento con i Curiazi, Publio Orazio, unico superstite dei tre fratelli e uccisore della sorella Orazia, venne accusato di perduellio, un crimine, di tradimento verso le istituzioni. Tale crimine poteva portare alla condanna rituale contenuta nella lex horrendi carminis, per sospensione a un albero infruttifero e fustigazione a morte.

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Una legge «orrenda» La cosiddetta «legge della formula spaventosa», lex horrendi carminis, contiene l’antichissima punizione dell’alto tradimento e in essa elementi laici si mescolano con elementi religiosi. Ne conosciamo il contenuto grazie a Cicerone (In difesa di Rabirio, 4, 13) e a Livio (1, 26, 6), che cosí ne tramanda la parte finale: «(...) gli sia velato il capo [al colpevole], sia appeso con una fune a un albero che non dà frutti e sia bastonato a morte dentro e fuori dal recinto sacro della città». È stato anche suggerito che l’albero «infruttifero» fosse uno di quelli sacri agli dèi sotterranei. Il testo di Livio contiene inoltre, rispetto a quello di Cicerone, un anacronismo: la possibilità per il traditore riconosciuto tale dai duumviri di ricorrere al giudizio del popolo, da tutti giudicata impossibile per l’età piú arcaica.

giuridico-religioso di fedeltà, la fides, contenuto in un giuramento e garantito dagli stessi dèi, essa divenne in seguito una pena laica prevista, non a caso, proprio per i traditori. Anche la rivelazione di segreti religiosi sarebbe stata punita con l’immolazione. Secondo Dionigi di Alicarnasso (4, 62, 4) quanto rimaneva dei libri sibillini, i famosi testi oracolari sul destino di Roma, sarebbe stato acquistato, dopo molti tentennamenti, da Tarquinio il Superbo su consiglio dei sacerdoti. I libri superstiti furono quindi affidati alle cure di due cittadini, ma uno di loro venne meno alla fides che avrebbe invece dovuto mantenere: «Ma poi [Tarquinio] fece gettare in mare, cucito in una pelle bovina uno di quelli, Marco Atilio, che sembrava aver tradito la buona fede ed era stato denunciato da uno degli assistenti».

La mano dei re governa ogni cosa Quello che qui ci interessa non è la storicità del racconto, ma quanto da esso si può trarre per ricostruire alcuni elementi del sistema romano di informazioni e sicurezza: la rilevanza della religio come cardine della costituzione romana e l’assenza di una specifica istituzione creata per la sorveglianza politica e istituzionale della città. La raccolta delle informazioni veniva infatti eseguita da soggetti che, a prescindere da un eventuale rapporto con i poteri cittadini, si trovavano immersi prima di tutto in una fitta trama di rapporti familiari o clientelari con il rex o, piú tardi, con i magistrati. Gli stessi assistenti pubblici nominati da Dionigi di Alicarnasso dovevano essere infatti uomini di fiducia del monarca, che a sua volta esercitava un potere essenzialmente personale: «(...) Ogni cosa era governata dalla mano dei re» (Digesto, 1, 2, 2, 1). I fortissimi vincoli religiosi e sociali esistenti nella Roma arcaica e il potere di coercizione immediata e assoluta connesso al potere di comando supremo, l’imperium, chiariscono perché la comunità cittadina non avesse ancora necessità di strutture di polizia, né di «servizi segreti»: i valori religiosi e sociali creavano vincoli che potevano operare anche in via preventiva, sconsigliando o controllando comportamenti giudicati pericolosi, mentre

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sicurezza interna

«Ma poi [Tarquinio] fece gettare in mare, cucito in una pelle bovina uno di quelli, Marco Atilio, che sembrava aver tradito la buona fede ed era stato denunciato da uno degli assistenti» (Dionigi di Alicarnasso)

l’imperium garantiva e imponeva l’obbedienza immediata, a pena di una rapida e legittima repressione che consentiva al re l’uccisione del cittadino. In una comunità retta da una sottile trama di rapporti religiosi, sociali e familiari, le attività di ciascuno dovevano essere per loro stessa natura prive di ombre e di dominio pubblico. Non a caso, infatti, i resoconti di congiure e tradimenti furono sempre caratterizzati dalla menzione di riunioni in case private o svolte durante la notte, cioè proprio in circostanze sottratte ai meccanismi della vita associata della città.

Se il cittadino diventa un nemico Tra i comportamenti criminali idonei a colpire la città vi erano la perduellio, in cui convivono elementi religiosi e laici, e la proditio. La prima è definibile, in generale, come quel comportamento con cui si pone in pericolo l’esistenza della città o delle sue istituzioni. Perduellis sarebbe stato il cittadino che, con il proprio comportamento ostile, si fosse posto alla pari con il nemico esterno. Alcuni ritengono che la perduellio sarebbe stata affine, ma non identica, alla adfectatio regni, il crimine contro la costituzione repubblicana e relativo alla restaurazione di un potere di tipo monarchico. Altri, poi, distinguono la perduellio anche dalla proditio, il tradimento a favore del nemico, spesso commesso sul campo di battaglia, e da atti analoghi. Secondo altri ancora, la terminologia usata dalle fonti antiche non permetterebbe invece distinzioni precise. L’unico caso di perduellio in epoca regia è tramandato da Livio, Dionigi di Alicarnasso, Floro e Valerio Massimo ed è quello di Publio Orazio, il quale, tornando a Roma dopo lo scontro con i Curiazi di Alba, avrebbe ucciso la sorella Orazia, rea di aver pianto la morte di uno dei nemici, suo promesso sposo. La tradizione presenta alcuni aspetti controversi.

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Qui interessano soprattutto il ruolo, nella repressione dell’alto tradimento, di una particolare carica, i duumviri perduellionis, e l’identificazione del reato commesso da Publio come perduellio invece che come omicidio. Di certo i duumviri perduellionis, cioè i «due uomini della perduellio», erano aiutanti del re che venivano nominati solo quando se ne fosse presentata la necessità. Sfugge, però, la loro funzione concreta. L’interrogativo, in particolare, è se essi avessero funzioni inquirenti o soltanto giudicanti, oppure se essi non fossero invece parte di una procedura di «giudizio divino», la cosiddetta «ordalia». Tenuto conto della natura religiosa della pena e del fatto che Roma conosce anche figure di duumviri con funzioni religiose, vi è stato inoltre chi ha proposto come i «due uomini della perduellio» fossero solo incaricati di sovraintendere all’irrogazione di una pena rituale, che consisteva nella sospensione a un albero infruttifero e nella bastonatura a morte. In questa prospettiva non ci sarebbe stata la necessità di un’indagine vera e propria, perché i nostri duumviri sarebbero intervenuti solo quando il crimine fosse stato tanto manifesto da non richiedere alcuna inchiesta. Quanto invece al crimine commesso da Orazio, in effetti soltanto Livio parla di perduellio ma i molti punti di contatto tra la procedura che egli descrive e quella riportata da Cicerone nell’orazione del 63 a.C. in difesa dell’anziano senatore Gaio Rabirio (4, 13), non permettono di ritenere che lo storico antico abbia semplicemente inventato tutto. Secondo alcuni un primo atto di alto tradimento sarebbe stato consumato da Orazia con il piangere il nemico morto, mentre un secondo sarebbe stato commesso proprio da Publio per aver punito egli stesso la «traditrice». In questo modo, infatti, il giovane non solo avrebbe usurpato il potere punitivo del proprio


Le leggi dei re Le leges regiae erano le «leggi» che gli storici antichi attribuiscono ai re di Roma e che erano rivolte a reprimere comportamenti illeciti perché in grado di turbare la pace tra uomini e dèi. Per molto tempo si è ritenuto non fossero vere e proprie norme scritte, ma semplici regole consuetudinarie. Tuttavia, la scoperta a Roma, nel Foro repubblicano, del cosiddetto «cippo del Foro» ha dimostrato contro ogni dubbio che queste norme, che per semplificazione continuiamo a chiamare «leggi», esistevano davvero e provenivano dal sovrano. Di solito esse disponevano la consacrazione del colpevole alla divinità offesa.

Roma, Foro Romano, Lapis Niger. Il cosiddetto «cippo del Foro». VI sec. a.C. Il blocco, di forma trapezoidale, reca un’iscrizione latina arcaica che riporta il testo di una lex sacrata, una legge che minacciava una sanzione di carattere religioso per i violatori del luogo sacro.

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pater, ma avrebbe anche usurpato i poteri punitivi del re. Il suo comportamento avrebbe quindi realizzato un tradimento alle istituzioni della civitas e l’omicidio ne sarebbe stata soltanto una modalità realizzativa.

La cacciata dei Tarquini Con il progredire della costituzione romana vennero enucleandosi nuovi illeciti politici. La tradizione colloca la cacciata dei Tarquini all’anno 509 a.C. e a partire da tale data avrebbe avuto luogo il lungo percorso politico e istituzionale che portò Roma, che era ancora una repubblica aristocratica, all’instaurazione di

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Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Concistoro. Affresco di Domenico Beccafumi con l’esecuzione di Spurio Cassio, condannato a morte per tradimento. 1532-35.

una vera e propria costituzione perfetta soltanto dopo le leges Liciniae Sextiae del 367. Nel mezzo si pongono le lotte patrizio-plebee con i tentativi di riforme istituzionali, le secessioni della plebe, le questioni dei prestiti a usura e della distribuzione delle terre, mentre sullo sfondo si stagliano tentativi, piú o meno reali, di restaurare il temuto potere monarchico. Proprio nel primo anno della repubblica la tradizione riportata da Livio e da Dionigi di Alicarnasso colloca una congiura ordita dagli ambasciatori di Tarquinio il Superbo per riportarlo sul trono con l’appoggio di alcuni personaggi dell’aristocrazia romana. Tra questi vi


sarebbero stati anche esponenti della famiglia dei Vitellii, fratelli della moglie del primo console L. Giunio Bruto, i quali avrebbero fatto aderire al complotto anche Tito e Tiberio, i figli del console. Nel racconto di Livio, i traditori romani avrebbero versato il loro impegno in una lettera destinata al Superbo e che avrebbero dovuto consegnare ai suoi ambasciatori nel corso di un banchetto. Tuttavia, uno schiavo che aveva avuto sentore di quanto stava accadendo, venuto a conoscenza della prevista consegna della lettera, denunciò la congiura ai consoli. Questi, «usciti di casa per arrestare gli ambasciatori e i congiurati, misero fine alla cosa senza nessun

Cosí il pittore Heinrich Friedrich Füger immaginò il console L. Giunio Bruto nel momento in cui emise la condanna a morte per i suoi due figli. Olio su tela, 1799. Stoccarda, Staatsgalerie

tumulto» (Livio, 2, 4, 7). Mentre agli ambasciatori fu consentito il ritorno in patria, i traditori romani, tra cui i figli del console, vennero messi a morte con l’applicazione della forma suprema di coercizione permessa dall’imperium dei magistrati, cioè la bastonatura seguita dalla decapitazione. Lo schiavo, invece, sarebbe stato ricompensato con un premio in denaro, la libertà e la cittadinanza (Livio, 2, 5, 6-10; Dionigi di Alicarnasso, 5, 8, 5). Anche in questo caso spicca l’assenza di un’istituzione deputata in modo specifico alla cura della sicurezza politica, che resta affidata direttamente ai

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consoli. Accanto ai magistrati erano i loro aiutanti e in primo luogo i littori, cioè gli incaricati di portare i fasci di verghe muniti di scuri che costituivano l’emblema stesso del supremo potere di comando e di punizione. Le informazioni vengono raccolte grazie alla delazione di uno schiavo, e anzi, nella ricostruzione di Livio, la delazione servile avrebbe avuto la sua genesi proprio nel 509 e lo storico fa addirittura discendere dal nome dell’informatore, Vindicio, una delle forme di liberazione degli schiavi, la cosiddetta manumissio vindicta (Livio, 2, 5, 10).

Informatori e «pentiti» Quanto agli informatori, essi erano designati con il termine index. Il sostantivo era idoneo a indicare tanto l’informatore non coinvolto nel crimine di cui svelava i dettagli quanto il «pentito» che, per ottenere un beneficio, collaborava con le autorità inquirenti. Attualmente si tende a identificare gli indices soltanto con i collaboratori di giustizia, ma non c’è motivo per non ritenere che il sostantivo avesse il significato piú ampio e generico di «informatore». Sempre nel 509 a.C., secondo la tradizione, sarebbe sorta la provocatio ad populum. Grazie a questo istituto, all’interno del recinto sacro della città, il pomerium, e sino al primo miglio, i magistrati non avrebbero potuto spingere l’esercizio coercitivo del loro imperium sino al punto di comandare la morte di un cittadino che avesse chiesto di essere giudicato dal popolo. In questo caso, la decisione sulla morte passò alla giurisdizione delle assemblee popolari e in principio essa sarebbe spettata all’assemblea curiata. Sempre secondo la tradizione, la provocatio ad populum sarebbe stata ripresa nella Legge delle XII Tavole del 451-450 (vedi box alle pp. 24-25), mentre una lex Valeria Horatia del 449 avrebbe vietato di creare nuove magistrature straordinarie sottratte al diritto di provocatio da parte dei cittadini. Il riferimento immediato era al regime dei decemviri, i «dieci uomini» incaricati di redigere le XII Tavole, ai quali erano stati riconosciuti poteri straordinari,

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Ritratto di anziano con capo velato. Metà del I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Durante l’età arcaica e repubblicana, il potere punitivo della città concorreva con quello del pater familias, che di fatto, in età arcaica, esercitava un potere assoluto, anche di morte, su tutti i membri della familia, sia filii che servi, e sulle cose.

ma che di questi avrebbero in seguito abusato per esercitare un potere tirannico. Infine, una lex Valeria del 300 avrebbe giudicato come improbo il comportamento del magistrato che avesse deciso di ignorare la provocatio avanzata da un cittadino. Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono che la provocatio ad populum sia nata in realtà come una garanzia dell’aristocrazia invece che della democrazia. Nel frattempo, avviato dalla secessione del 494-493 a.C., si andava consumando lo scontro tra patrizi e plebei. Proprio durante la prima secessione, la plebe si dotò di suoi magistrati, i tribuni e gli edili della plebe. I primi godevano dall’inizio di una particolare protezione religiosa, la sacrosanctitas, che consentiva di mettere immediatamente a morte chi avesse attentato alla loro incolumità personale. Nasce cosí in questo momento, secondo alcuni, il concetto di «maestà», maiestas, che in seguito si estese dalle magistrature della plebe a quelle di tutto il popolo romano e che divenne attributo del popolo stesso. La sua violazione era destinata a divenire il crimine politico per eccellenza, il crimen maiestatis. I poteri dei tribuni della plebe avevano spiccate potenzialità repressive delle condotte giudicate contrarie agli interessi della plebe e contro il potere coercitivo della suprema magistratura plebea non era ammessa neppure la provocatio ad populum, dal momento che essa era nata per arginare l’imperium dei magistrati del popolo romano. Veri agenti della sicurezza plebea contro la repubblica aristocratica, i tribuni della plebe, nel racconto delle nostre fonti, agiscono quasi sempre con il supporto di

sostenitori organizzati in corpi di guardia piú o meno estemporanei, ma talvolta compaiono anche gli edili della plebe quali incaricati di operare arresti (Dionigi di Alicarnasso, 7, 26, 3).

Il senato contro Spurio Cassio In questo teso clima di scontri venne accusato di alto tradimento il console del 486 a.C., Spurio Cassio, autore di una proposta di legge agraria sgradita al senato. La campagna di propaganda orchestrata dai senatori anche grazie a numerosi clientes, riuscí a dipingere Spurio Cassio come un pericoloso aspirante al potere monarchico ed ebbe un successo tale che, deposta la carica, l’ex magistrato fu processato e condannato a morte. Secondo una diversa tradizione, invece, tornato a vita privata, egli sarebbe stato giudicato per alto tradimento e giustiziato dal suo stesso pater nell’ambito dell’esercizio della giustizia domestica, mentre i suoi beni sarebbero stati consacrati a Cerere, divinità della plebe insieme con Libero e Libera (Livio, 2, 41, 10-12; Dionigi di Alicarnasso, 8, 77-79). L’aristocrazia non fu però la sola parte in lotta a impiegare l’arma dei processi, che, anzi, divenne uno dei tratti distintivi della plebe. Si tratta dei cosiddetti processi rivoluzionari celebrati dai tribuni della plebe davanti al concilio della plebe e di fronte ai quali poteva essere imputato chiunque in qualsiasi modo avesse tradito, o si riteneva avesse tradito, gli interessi plebei. Questi processi erano particolarmente temibili perché le loro pronunce erano sottratte alla procedura criminale cittadina, essendo l’espressione di una comunità che non si identificava con

istituita forse nel 509 a.C., la provocatio ad populum impediva ai magistrati di spingere l’esercizio coercitivo del loro imperium sino al punto di comandare la morte di un cittadino

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sicurezza interna

l’intero popolo romano. Il primo e probabilmente il piú famoso dei processi rivoluzionari fu quello contro Cn. Marcio Coriolano nel 491 a.C., caratterizzato dalle manovre occulte messe in atto dal patriziato per cercare di irretire la plebe tramite i propri clientes (Livio, 2, 35, 4-5), ma a esso ne seguirono altri, per esempio nel 475, 456, e 449, in questo caso contro i tiranni del secondo decemvirato del 450.

Due norme fondamentali È proprio però attraverso la sistemazione normativa costituita dalla Legge delle XII Tavole del 451-450 che hanno finalmente termine i processi rivoluzionari e inizia a riconoscersi non solo la differenziazione in atto tra le sfere della religione e del diritto, che non si spinse mai sino alla separazione, ma anche la progressiva diminuzione della «sovranità» dei capi dei gruppi familiari a favore degli organismi cittadini. Per i reati capitali, cioè quelli punibili con la morte e tra cui rientravano anche i piú gravi reati politici, la Legge delle XII Tavole stabilí due norme fondamentali. Secondo una di esse della vita e della morte di un cittadino avrebbe dovuto giudicare il maximus comitiatus, cioè l’assemblea centuriata, meno soggetta ai condizionamenti dei patrizi rispetto al piú antico comizio curiato. Secondo l’altra, invece, era vietato uccidere un uomo non sottoposto a processo (XII Tavole, 9, 1-2 e 6). Le due norme sarebbero state il risultato di un compromesso patrizioplebeo che prevedeva l’abbandono dei processi rivoluzionari in cambio della garanzia per tutti i cittadini, indifferentemente, di potersi difendere davanti ai comizi centuriati. La Legge delle XII Tavole presenta anche almeno altre due norme relative ai traditori e

agli illeciti politici; infatti «ordina che colui che avrà incitato un nemico o avrà consegnato al nemico un cittadino, sia condannato a morte» (XII Tavole, 9, 5). L’altra norma avrebbe invece vietato le riunioni notturne (XII Tavole, 8, 26), sulla base della loro presunzione di pericolosità. Non a caso, le riunioni notturne compaiono anche nella vicenda dell’ambizioso eques Spurio Melio nel 439 a.C. Divenuto il campione della plebe grazie a distribuzioni gratuite di frumento durante una carestia, Melio avrebbe ambito al regno e avrebbe ammassato armi, organizzato una rete di agitatori e corrotto alcuni tribuni della plebe. Ricevuta una delazione, il prefetto dell’annona Lucio Minucio verificò la notizia tramite suoi informatori e quindi riferí al senato quanto stava accadendo (Livio, 4, 13, 7-10). Affidata la gestione dell’emergenza al dittatore L. Quinzio Cincinnato, questi inviò il suo magister equitum («maestro della cavalleria») C. Servilio Ahala a prelevare Spurio Melio per il giudizio. Vistosi scoperto, il colpevole tentò di sollevare i suoi sostenitori. Ahala, sia per la ribellione all’ordine di comparizione del dittatore, davanti al quale in quell’epoca non valeva neppure la provocatio ad populum, sia in applicazione di una norma che consentiva di eliminare immediatamente chi avesse tentato di ristabilire il potere monarchico, lo uccise sul posto (Livio, 4, 14, 6). Di tentata restaurazione della monarchia, appoggiando la plebe contro l’aristocrazia, venne accusato anche l’eroe della difesa del Campidoglio contro i Galli, M. Manlio Capitolino. La pena applicata nei suoi confronti nel 384 a.C., dopo il processo innanzi all’assemblea centuriata, fu la precipitazione (Livio, 6, 20), che in questo caso sarebbe per alcuni un esempio della differenziazione tra

«colui che avrà incitato un nemico o avrà consegnato al nemico un cittadino, sia condannato a morte» (XII Tavole, 9, 5)

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Cincinnato abbandona l’aratro per dettare legge a Roma, dipinto di Juan Antonio Ribera y Fernàndez. 1806 circa. Madrid, Museo del Prado. Un dictator era dotato di imperium maius, ovvero di tutti i poteri e della facoltà di sospendere gli altri magistrati, di fronte al quale non valeva né l’intercessione dei tribuni, né la provocatio ad populum.

religione e diritto nella repressione criminale. Livio riferisce anche un’altra e diversa tradizione secondo cui l’accusa sarebbe stata di perduellio e, a causa della flagranza del reato, per la condanna sarebbero stati nominati i duumviri perduellionis (Livio, 6, 20, 12). Nell’età successiva, accanto all’antica perduellio, si venne definendo il nuovo crimen imminutae maiestatis o semplicemente crimen maiestatis: i due crimini rimasero comunque per molto tempo distinti e la loro definitiva fusione avvenne probabilmente solo con la lex Iulia maiestatis dell’8 a.C. A svilupparsi fu anche la giurisdizione dell’assemblea centuriata per i reati capitali, tra cui anche quelli politici di maggiore importanza. Nei reati capitali la pubblica accusa veniva

condotta da questori e, piú tardi, da tribuni della plebe, nel frattempo assimilati alle magistrature cittadine.

Il giudizio del popolo La procedura prevedeva tre riunioni del popolo nel Foro, le contiones, nelle quali si svolgeva l’attività istruttoria, detta anquisitio. Seguiva una quarta accusatio, che coincideva con la riunione formale del popolo nell’assemblea centuriata vera e propria e che si concludeva con la votazione sull’innocenza o meno dell’accusato, il reus. Le contiones dovevano avere luogo ad almeno un giorno di distanza l’una dall’altra, mentre la quarta accusatio doveva avvenire dopo un trinundinum (segue a p. 26)

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capitolo

La Legge delle XII Tavole Nella repubblica aristocratica la gestione delle attività pubbliche, del diritto e della religione, intimamente connessi tra loro, spettava ai patrizi. Nel diritto non esistevano leggi scritte e solo i magistrati e i sacerdoti patrizi ne detenevano la conoscenza orale. Gradualmente, durante lo scontro tra patrizi e plebei, si chiarí la necessità di redigere per iscritto le norme giuridiche, in modo che il loro contenuto e la loro applicazione fossero certi e non preda dell’arbitrio dell’aristocrazia. Dopo alcuni tentativi e compromessi, nel 451 a.C. questo compito fu affidato a una commissione di dieci patrizi, i decemviri appunto. Le altre magistrature vennero nel frattempo sospese e di fronte ai decemviri non si ammise neppure la provocatio ad populum. Furono cosí redatte e pubblicate le prime dieci tavole di leggi, ma si presentò la necessità di realizzarne altre e i decemviri, in una composizione mutata in cui comparivano anche plebei, continuarono a esercitare la loro funzione anche per il 450 a.C. mantenendo i loro poteri in un clima di dubbia costituzionalità. Ben presto, però, si instaurò un regime tirannico e di terrore. Cause interne ed esterne portarono ad atti di ribellione verso i tiranni, costretti ad abdicare. Nel 449 a.C., vennero ripristinati il consolato, il tribunato della plebe e la provocatio ad populum. Nel frattempo, completate le altre due tavole di leggi, esse formarono, con le altre dieci, la Legge delle XII Tavole, del cui testo non disponiamo, ma le cui singole norme sono state in parte ricostruite grazie agli accenni contenuti nelle fonti.

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Camillo Miola, Il fatto di Virginia. 1883 circa. Napoli, Museo di Capodimonte. Secondo la leggenda, la rivolta contro i decemviri, i dieci magistrati incaricati di mettere per iscritto le norme giuridiche (le cosiddette Leggi delle XII Tavole), ma che di fatto avevano instaurato un regime tirannico, sarebbe scoppiata a seguito della morte di Virginia, una ragazza di famiglia plebea uccisa dal padre per salvarla dalle brame del decemviro Appio Claudio.

TAVOLA I (Procedura civile)

Se [l’attore] lo cita in giudizio, [il convenuto] ci vada. Se non ci va, [l’attore] chiami dei testimoni. Quindi lo afferri (…) Se si sottrae o tenta di fuggire, lo si afferri. Se la malattia o l’età avanzata sono un impedimento, gli sia dato un mulo. Se non lo vuole, [l’attore] non è tenuto a fornirgli una vettura coperta per ammalati. (…). Se ambo i contendenti sono presenti, il tramonto sia il limite ultimo del processo.

TAVOLA II (Procedura civile)

[Se c’è una] grave malattia... o un giorno stabilito con un forestiero... se uno di questi sia di impedimento al giudice, all’arbitro o a una parte, quel giorno il processo deve essere rinviato. Colui al quale sia mancato il testimone, costui vada ogni tre giorni a protestare ad alta voce avanti alla casa.


TAVOLA III (Procedure esecutive)

In caso di riconoscimento del debito in giudizio o in caso di condanna, [per adempiere] vi siano trenta giorni fissati dalla legge. Dopo tale termine [il creditore] imponga la mano [sul debitore]. [Il debitore] venga condotto in giudizio. Se [il debitore] non adempie a quanto è stato giudicato o se nessuno fornisca per lui una garanzia davanti al magistrato, [il creditore] lo conduca con sè avvinto in corde o in ceppi di 15 libbre, non piú pesanti ma, se [il creditore] vuole, di peso minore. Se [il debitore] vuole, viva a sue spese, se non vive a sue spese, chi lo ha messo in vincoli gli dia una libbra di farro al giorno, se lo desidera gli dia di piú.

TAVOLA IV (Genitori e figli)

[Sia] subito ucciso come, secondo le XII Tavole, [avviene] per un fanciullo che si distingue per deformità. Se il padre ha venduto il figlio per tre volte, il figlio sia libero dalla patria potestà.

TAVOLA VIII (Illeciti pubblici e privati)

Chi avrà fatto un incantesimo sarà punito con la morte. (…). Se qualcuno rompe a un altro un membrum [cioè provochi la lesione definitiva di un organo] e non addiviene con lui a un accordo sulla pena pecuniaria, abbia luogo il taglione. Chi con la mano o con un bastone ha rotto un osso a una persona di stato libero, gli versi a titolo di pena pecuniaria 300 assi, se [con la mano o con un bastone ha rotto un osso] a uno schiavo, 50 assi. Se qualcuno abbia arrecato una lesione personale [meno grave], subisca una pena pecuniaria di 25 assi. (…). Chi abbia arrecato un incantesimo ai frutti… e non abbia attratto a sé la messe altrui (…). Se qualcuno abbia commesso un furto di notte, se è stato ucciso, sia [considerato] ucciso secondo diritto. (…). Se qualcuno si sia offerto di fare il testimone o di fare il pesatore con la bilancia, se non rende la testimonianza, sia considerato infamis [infamia: condizione dipendente da illeciti commessi o dalla estrazione sociale, essa impediva di poter svolgere atti o funzioni giuridicamente rilevanti] e incapace di testimoniare.

TAVOLA IX (Illeciti pubblici e privati, divieto di privilegi) TAVOLA V (Eredità)

Se chi non abbia eredi muore senza avere fatto testamento, abbia l’intera eredità il parente piú vicino in linea maschile. Se manca un parente in linea maschile, abbiano l’intera eredità i componenti della gens [del defunto]. (…). Se qualcuno diventa pazzo, abbiano potestà su di lui e sui suoi beni i parenti in linea maschile e [in loro mancanza] i componenti della sua gens.

Non si devono stabilire privilegi. Della vita e della morte di un cittadino non decida altri che la massima assemblea.

TAVOLA X (Prescrizioni per il culto e diritto sacrale)

Un defunto non sia seppellito o cremato nella città.

TAVOLA XI (Varie prescrizioni: matrimonio) TAVOLA VI (Proprietà)

Quando qualcuno si impegna in maniera solenne o fa una mancipatio [mancipatio: modo arcaico di trasferimento, tra l’altro, della proprietà], cosí sia considerato diritto quello che è stato detto in forma solenne. (…). Il trave unito alla casa e il palo congiunto alla vigna non sia separato.

Dopo che i decemviri avevano redatto le X Tavole con somma equità e saggezza, (…) altri decemviri (…) ordinarono con una legge assolutamente inumana che i plebei non avessero il diritto di contrarre matrimonio con i patrizi.

TAVOLA XII (Varie prescrizioni: illeciti dello schiavo e processo) TAVOLA VII (rapporti di vicinato) Mantengano la via: se non la lastricano, [il passante] passi con l’animale da soma dove voglia. Se l’acqua piovana provoca danni [il privato potrà agire in base alla Legge delle XII Tavole].

Se lo schiavo abbia commesso un furto o un danno... Se [in giudizio, in attesa della decisione], qualcuno abbia ottenuto ingiustamente l’assegnazione provvisoria del bene conteso, il pretore nomini tre arbitri, al cui giudizio... [il possessore del bene] risarcisca il danno nella misura del doppio del valore dei frutti.

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sicurezza interna

inchieste straordinarie, quaestiones extraordinariae, per fatti criminosi, comuni o politici, di grande interesse: sottratti al diritto di provocatio ad populum, la loro legittimità costituzionale fu sempre sospetta. Quando poi l’arma delle inchieste straordinarie venne applicata in modo massiccio a veri o presunti reati politici commessi da cittadini, il problema esplose in tutta la sua enormità.

Metodi non istituzionali Nel frattempo, si perpetuavano quei meccanismi di autocontrollo che non necessitavano di un servizio specializzato di informazioni e sicurezza cosí come oggi lo intendiamo. Se poi l’autocontrollo del corpo cittadino e dei suoi componenti non fosse stato sufficiente, allora sarebbe stato possibile acquisire notizie attraverso metodi non istituzionali o attraverso legami sociali di origine anche precittadina: delazioni, rapporti gentilizi, familiari o clientelari. Siamo allora ancora di

dall’ultima contio, un tempo pari in genere a ventiquattro giorni. Il popolo poteva votare solo la colpevolezza o meno dell’accusato, non poteva valutare circostanze aggravanti o attenuanti e il voto non era motivato. La dichiarazione di voto era in origine individuale e orale: solo nel 107 a.C. la lex Caelia estese ai processi di perduellio la votazione a mezzo di tavolette. La pena per i reati capitali fu sempre la morte e, nel caso della perduellio, è stata avanzata l’ipotesi, peraltro controversa, che venisse eseguita nella forma della crocifissione. Prima della fine della votazione, l’accusato ancora in libertà poteva scegliere l’esilio volontario. A questo seguiva la formale interdizione dalla comunità romana: l’aqua et igni interdictio («interdizione dall’acqua e dal fuoco»; vedi box alla pagina seguente). Almeno dagli inizi del II secolo a.C. il senato autorizzò però i consoli o i pretori a organizzare

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senz’acqua, né fuoco Nei processi che potevano concludersi con la condanna a morte si dava la possibilità all’imputato di esercitare, prima della fine del giudizio, un «diritto di volontario esilio» e quindi di recarsi presso un’altra città che, riconoscendo questo diritto, fosse disposta ad accogliere l’esule. Nei suoi confronti, a Roma, seguiva un formale

fronte a un eterogeneo sistema di informazioni e sicurezza in cui le attività piú direttamente connesse al servizio di sicurezza venivano svolte dagli stessi magistrati ai quali spettava quella che oggi definiremmo «attività di polizia». Quest’ultima, inoltre, benché esistessero magistrature specifiche, competeva comunque a ciascun magistrato nella misura in cui essa fosse rientrata nella sua porzione di cura Urbis. Il ricorso ai legami familiari o clientelari si rivelava sempre essenziale: per esempio, nel 198 a.C. il pretore L. Cornelio Lentulo dispose che due schiavi delatori restassero in custodia in casa propria, mentre nel 186, durante l’inchiesta per lo scandalo dei Baccanali, il console Sp. Postumio Albino non solo coinvolse la propria suocera nelle sue indagini e si serví della sua casa come di un quartier generale, ma ordinò che una delatrice restasse in custodia presso quella stessa abitazione. Il ricorso agli indices era, insomma, una costante. Per esempio, nel 331 a.C., mentre si susseguivano morti misteriose di personaggi eminenti, una schiava si recò dall’edile Q. Fabio Massimo e si dichiarò disposta a riferire con una delazione quanto sapeva al riguardo se solo le fosse stato garantito ogni genere di protezione. Informati i consoli e il senato e concesso quanto richiesto, la schiava rivelò l’esistenza di una congiura di donne realizzata attraverso il veneficio, accompagnò i magistrati presso uno dei luoghi ove i veleni venivano preparati e, messa a confronto con le matrone accusate che cercavano di smentirla, le sue accuse provocarono altre delazioni. Livio non ci dice quale sia stato il premio dato alla schiava, ma si trattò forse dell’impunità per il crimine a cui lei stessa aveva probabilmente partecipato prima decidere di denunciare l’accaduto (Livio, 8, 18). Un altro caso interessante è invece del 217 a.C.,

provvedimento di interdizione dalla comunità civica, l’aqua et igni interdictio, appunto «interdizione dall’acqua e dal fuoco» cioè dagli elementi simbolo della comunanza di vita. Questa interdizione comportava la perdita della cittadinanza, la confisca dei beni e il divieto di fare ritorno in territorio urbano, pena la morte.

Nella pagina accanto, in alto tavola bronzea del senatusconsultum de Bacchanalibus (il provvedimento contro i Baccanali) emesso nel 186 a.C., da Tiriolo (Catanzaro), II sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. La repressione dei rituali bacchici, considerati causa di sovversione dei costumi tradizionali e di deterioramento morale, fu avviata dal console Spurio Postumio Albino, dietro delazione di Publio Ebuzio. Nella pagina accanto, in basso giovane che suona un timpano (baccante), particolare di un mosaico con corteo di Dioniso, da Thysdrus (oggi El Jem, Tunisia). II sec. d.C. El Jem, Museo Archeologico.

un anno in cui non solo uno speculator, cioè una «spia», cartaginese fu catturato dopo aver agito come «infiltrato» a Roma per ben due anni, ma in cui «venticinque servi vennero crocifissi perché avevano ordito una congiura in Campo Marzio».

Episodi collegati? Non sappiamo se si trattasse di un’azione di sabotaggio collegata alla spia cartaginese, ma se tra i due episodi vi fosse una relazione, non stupirebbe se dietro l’arresto del Cartaginese e la crocifissione degli schiavi vi fosse stata la stessa delazione. È probabile che a denunciare la congiura fosse stato un altro schiavo, premiato con la libertà e 20 000 assi (Livio, 23, 33, 1-2). Pochi anni dopo, nel 210, mentre la compagine degli alleati di Roma si sfaldava sotto i colpi sferrati da Annibale, la notte precedente la festività del 19 marzo, il Quinquatrus, scoppiò un incendio nel Foro che mise a rischio l’esistenza stessa di edifici sacri di immenso valore ideale. Scoperta la natura dolosa dell’incendio, il console, su indicazione del senato, promise premi a chi avesse fatto delle delazioni e, in particolare, agli schiavi venne promessa la libertà. Lo schiavo Mano denunciò allora i suoi padroni, membri della ricca famiglia campana dei Calavii, i quali, insieme ad alcuni eminenti cittadini di Capua, con l’attentato incendiario avevano voluto vendicarsi delle ritorsioni che Roma aveva operato contro la città campana per punirla dell’appoggio fornito ai Cartaginesi. Il delatore ricevette in premio la libertà e 20 000 assi (Livio, 26, 27, 1-9). Fu poi grazie alla delazione del giovane Publio Ebuzio che il console Sp. Postumio Albino nel 186 a.C. diede inizio alla repressione dello scandalo dei Baccanali, avvertiti come un pericoloso fenomeno di sovversione dei costumi (Livio, 39, 8-19).

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la fine della

repubblica gli anni che segnano l’avvento dell’impero rappresentano una fase convulsa nella storia di roma. e con il nuovo regime politico si avverte l’esigenza di organizzare in maniera sistematica le attività di informazione di Enrico Silverio

La morte di Caio Gracco, particolare di un dipinto di Francois-Jean-Baptiste Topino-Lebrun. 1792. Marseille, Musée des Beaux-Arts. La crisi della repubblica romana è simboleggiata da inchieste come quelle indette dal senato contro Tiberio Sempronio Gracco e i suoi sostenitori, inchieste «abolite» da Caio, fratello di Tiberio, contro il quale fu usato un nuovo strumento di repressione, il senatusconsultum ultimum.

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sicurezza interna

I

l declino dei valori tradizionali e la concomitante crisi della repubblica sono efficacemente simboleggiati nel 133-132 a.C. dalla vicenda di Tiberio Sempronio Gracco e dalle inchieste straordinarie contro i suoi sostenitori. A venire al pettine fu proprio il nodo dell’incostituzionalità di questi apparati repressivi che, autorizzati spesso dal solo senato, non garantivano neppure la provocatio ad populum. Nel 123 a.C. il fratello di Tiberio, Caio, ottenne che non fossero piú indette inchieste straordinarie su impulso esclusivo dal senato (vedi box alle pp. 32-33). Gradualmente venne comunque creandosi un diverso sistema di tribunali permanenti, istituiti attraverso legge popolare e specializzati nella trattazione di singoli crimini. In essi la pubblica accusa non era piú gestita da un magistrato, ma da qualsiasi Jean-Baptiste-Claude-Eugène Guillaume, cenotafio in bronzo dei fratelli Tiberio e Caio Sempronio Gracco. 1853. Parigi, Musée d’Orsay.

133 e 123-121 I Gracchi tentano la riforma agraria

102 Mario sconfigge i Teutoni e, l’anno successivo, i Cimbri

I secolo a.C.

II secolo a.C.

120 Conquista della Gallia Narbonese che diviene provincia romana

91-89 Guerra sociale

90-89 Concessione della cittadinanza romana ai Latini e agli alleati rimasti fedeli 83-82 Guerra civile

60 Primo triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso

I secolo d.C.

le date da ricordare

14-37 Tiberio è imperatore 14 d.C. Morte di Augusto

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41-54 Claudio è imperatore 37-41 Caligola è imperatore

68 Galba è imperatore 54-68 Nerone è imperatore

69-79 Vespasiano è imperatore 69 Nello stesso anno sono proclamati imperatori Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano

79 Eruzione del Vesuvio e distruzione di Pompei


I Gracchi

tra rivoluzione e riforme La vicenda politica di Tiberio Sempronio Gracco e di Caio Sempronio Gracco, figli della patrizia Cornelia, a sua volta figlia di P. Cornelio Scipione l’Africano, rende manifesta la crisi che, circa cento anni piú tardi, condusse alla fine della repubblica. Tribuno della plebe dal 10 dicembre 134 a.C., Tiberio riuscí a fare approvare una legge agraria per la redistribuzione della terra pubblica che però attentava gravemente agli interessi dell’oligarchia. Iniziando a temere per la sua vita per questo e per altri provvedimenti assunti o programmati, Tiberio cercò, contro ogni consuetudine, di farsi rieleggere tribuno della plebe allo scopo di fruire della protezione assicurata da questa carica. Per i settori piú intransigenti dell’oligarchia fu il segnale di una sorta di rivoluzione: nel luglio del 133 Tiberio venne giustiziato e, nel 132, molti suoi seguaci furono uccisi dopo inchieste brutali. La stessa sorte toccò, nel 121, al ben piú rivoluzionario fratello Caio, ma non prima che egli avesse varato riforme importanti, tra cui proprio la possibilità di essere rieletti consecutivamente al tribunato della plebe.

48 Dittatura di Cesare; Battaglia di Farsalo

58-51 Cesare conquista la Gallia

79-81 Tito è imperatore

44 Morte di Cesare

90 Istituzione delle province di Germania Inferior e Germania Superior

81-96 Domiziano è imperatore

privato cittadino che, in possesso di determinati requisiti minimi di onorabilità, avesse deciso di farsi carico dell’interesse comune. Questa trasformazione processuale favorí di fatto la nascita di una categoria di «accusatori di professione», propensi a favorire i peggiori intrighi con l’intento di guadagnare piú o meno lecitamente i compensi che la procedura consentiva loro di ottenere a scapito dell’accusato. Nacquero cosí personaggi che assunsero, anche a seconda della fase processuale considerata, le qualifiche di delatores e di accusatores: si trattava, in parte, degli antichi indices, che ora, però, se ne avessero avuti i requisiti, avrebbero potuto gestire da soli un’accusa in tribunale.

L’intervento del popolo Anche il processo dei tribunali specializzati permanenti non essendo espressione dell’imperium del magistrato, non conosceva il ricorso alla provocatio ad populum, ma, in questo caso, l’intervento del popolo era già (segue a p. 34)

43 Secondo triumvirato di Ottaviano, Antonio, Lepido; guerra di Modena 42 Battaglia di Filippi

41-40 Guerra di Perugia

27 Ottaviano riceve il titolo di Augusto 31 Vittoria di Ottaviano su Antonio ad Azio

16-15 Norico e Rezia diventano province

Calco di un cippo che delimitava un terreno assegnato in base alla legge agraria di Tiberio Gracco. Fine del II sec. a.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Promotori di riforme agrarie per la ridistribuzione della terra pubblica, i Gracchi furono tribuni della plebe rispettivamente nel 133 e nel 123-122 a.C.

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Inchieste straordinarie A partire dal II secolo a.C. lo sviluppo della città di Roma e la crescita della sua popolazione resero sempre piú difficile e farraginosa la riunione del popolo nell’assemblea centuriata e ciò ebbe ripercussioni anche per il processo criminale, dal momento che proprio quell’assemblea era incaricata, almeno da quando era entrata in vigore la Legge

delle XII Tavole del 451-450 a.C., di giudicare i crimini piú gravi, tra cui, naturalmente, anche quelli di natura politica. Il senato prese cosí l’abitudine di autorizzare i consoli o un pretore a svolgere «inchieste straordinarie», nelle quali però non trovava applicazione l’antica provocatio ad populum.

i Protagonisti della fine della repubblica

silla

mario

Ritratto del console e poi dittatore romano Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.). I sec. a.C. Monaco, Glyptothek. Sostenitore dell’oligarchia senatoria e vincitore della guerra civile contro Caio Mario e i suoi alleati, Silla utilizzò l’arma delle liste di proscrizione contro i suoi nemici nell’82 a.C.

Ritratto di Caio Mario, generale e uomo politico romano, in età avanzata (157-86 a.C.). I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Di parte popolare, dispose l’arruolamento dei proletari: la riforma rendeva i soldati piú fedeli al loro comandante che allo Stato, e aprí la strada alle guerre civili.

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Poiché le inchieste erano spesso condotte contro individui privi della cittadinanza romana e che quindi non potevano comunque chiedere di essere processati davanti all’assemblea del popolo romano, questa situazione di incostituzionalità strisciante non venne immediatamente affrontata. Solo Caio Sempronio Gracco, dopo le brutali

inchieste del 132 a.C. contro i sostenitori del fratello Tiberio, riuscí, nel 123, a ottenere, sulla base di alcuni precedenti, che le «inchieste straordinarie» potessero essere autorizzate solo da una legge votata dal popolo che, quindi, tornava a essere, teoricamente e per qualche tempo, arbitro delle piú importanti questioni giudiziarie.

pompeo magno

giulio cesare

Ritratto di Gneo Pompeo Magno, generale e politico (106-48 a.C.). I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Seguace di Silla, fu poi alleato di Cesare, con il quale fondò il primo triumvirato (di cui faceva parte anche Licinio Crasso). Passato dalla parte del Senato, combatté una nuova guerra civile contro Cesare.

Ritratto del generale e poi dittatore Caio Giulio Cesare (102/100-44 a.C.), da Pantelleria. Età tiberiano-claudia. Trapani, Museo Regionale «Agostino Pepoli». Protagonista della guerra civile contro Pompeo e l’oligarchia senatoria, segnò di fatto la fine della repubblica.

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stato garantito preventivamente dal fatto che il singolo tribunale era stato creato con una legge, appunto, popolare. Solo per intervento di Marco Antonio, nel 44 a.C., fu ammessa la provocatio proprio contro le sentenze in materia di violenza pubblica e di lesa maestà, ma la riforma fu presto abrogata. Tra gli altri, in questo periodo vennero creati e piú volte riformati anche tribunali permanenti per la repressione della perduellio e della lesa maestà. Privato da C. Sempronio Gracco dell’apparato repressivo rappresentato dalle inchieste straordinarie, il senato creò un nuovo e piú temibile strumento, che non operava piú sul piano della giurisdizione, ma su quello dell’amministrazione: il senatusconsultum ultimum, cioè la dichiarazione dello stato di emergenza, non meno incostituzionale rispetto alle inchieste straordinarie. Forse adombrato durante la repressione del tentativo «rivoluzionario» di Tiberio nel 133 a.C., esso fu certamente usato contro il fratello Caio nel 121. Il senatusconsultum ultimum rispondeva essenzialmente a tre funzioni: proclamare lo stato di emergenza sulla base di una minaccia portata da nemici interni, autorizzare la reazione armata dei magistrati e, infine, giustificarne l’operato con la necessità di salvaguardare la repubblica. Dall’88 a.C. divenne poi un atto autonomo la dichiarazione di qualcuno come hostis publicus populi Romani, cioè «nemico pubblico del popolo romano».

Prime proscrizioni Sulla base di questi precedenti, si comprende come le «liste di morte», vale a dire le proscrizioni, di età sillana e triumvirale non siano nate dal nulla, ma si collochino all’interno di una tendenza presente nella repressione dei reati capitali in generale e politici in particolare: quella di privare in sostanza della cittadinanza, di tutti i diritti e dei beni il vero o supposto «nemico pubblico» e quindi esporlo a una reazione senza limiti. In questo contesto, il classico sistema di informazioni e sicurezza si trasformò radicalmente. Un forte momento di passaggio è rappresentato dalla guerra civile tra Mario e Silla e dalle proscrizioni. Nell’88 a.C., Caio Mario avendo ricevuto da L.

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Cornelio Silla il rifiuto di consegnare il comando delle forze armate presenti a Capua per la guerra contro Mitridate, come invece era stato stabilito dal senato, «fece morire molti degli amici di Silla a Roma» (Plutarco, Mario, 35). Cacciato da Roma per opera di Silla e tornatovi nell’87, Mario fece un uso massiccio di cittadini armati quale polizia politica, praesidia, e di militi dell’esercito, al quale l’ingresso nel recinto sacro della città, il pomerium, era normalmente precluso. Egli aveva poi ai suoi ordini una speciale unità di schiavi, i Bardiei, divenuta tanto pericolosa da dover essere eliminata dagli stessi partigiani di Mario: si parla di circa 4000 uomini (Plutarco, Mario, 44, 9; Sertorio, 5). Le proscrizioni sillane, invece, iniziarono nel novembre dell’82 a.C., in una Roma «liberata» dai partigiani di Mario, che, nel frattempo, era morto agli inizi dell’86. Occasione, tra l’altro, di arricchimento personale attraverso il patrimonio dei proscritti, il sistema sillano venne replicato durante il secondo triumvirato nel 42 a.C. Forti di un’apparenza legale, infatti, Ottaviano, Marco

«il medesimo uomo era considerato amico dei triumviri (...) dal singolo triumviro, e loro nemico (...) dal complesso del triumvirato; perciò essi singolarmente si difendevano da chi li insidiava e collettivamente mandavano a morte i piú cari amici» (Cassio Dione)


In alto Roma. Veduta notturna dei resti del tempio di Venere Genitrice, voluto da Cesare e consacrato nel 46 a.C. Nella pagina accanto coppe di propaganda: riempite di cibo e bevande, venivano offerte nelle strade in occasione delle elezioni politiche. 63 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano. In quella a sinistra Marco Porcio Catone (l’Uticense) chiede di essere eletto tribuno della plebe; in quella di destra Lucio Cassio Longino chiede di supportare la nomina di Catilina a console.

Antonio e M. Emilio Lepido «presero i provvedimenti che vollero», eliminarono circa 300 senatori, tra cui M. Tullio Cicerone, e 2000 equites (Cassio Dione, 47, 2, 1). Ormai il «nemico pubblico del popolo romano» si identificava con il nemico del singolo triumviro o del triumvirato: «(...) avveniva che il medesimo uomo fosse considerato amico dei triumviri se considerato dal singolo triumviro, e loro nemico se considerato dal complesso del triumvirato; perciò essi singolarmente si difendevano da quelli che li insidiavano e collettivamente mandavano a morte i piú cari amici» (Cassio Dione, 47, 5, 4). Il ricorso agli omicidi politici e le connesse confische di beni a favore degli esecutori furono cosí ingenti che, allo scopo di impedire all’erario di richiedere in futuro la restituzione di questi «premi», come era già accaduto dopo la morte di Silla, nei pubblici registri non fu annotato il nome di alcun esecutore (Cassio Dione, 47, 6, 4). Ormai non esisteva piú un solo sistema di informazioni e sicurezza, ma tanti quanti erano i capi delle fazioni. I «servizi» erano ancora

composti da un variegato insieme di milites, uomini liberi, liberti o servi stretti da legami personali o solo formalmente istituzionali ai capi delle fazioni: era il tragico adeguamento ai tempi dell’antico uso da parte dei magistrati di ricorrere ad amici e clientes nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali. Altri esempi non sono meno drammatici nel dare la misura dei cambiamenti epocali in atto: nel 56 a.C., Pompeo e Crasso ottennero il consolato per l’anno successivo grazie alla presenza degli armati inviati da Cesare a Roma in servizio di ordine pubblico e a un clima di terrore e intimidazione (Cassio Dione 39, 31, 1-2). Fiorivano, naturalmente le spie e i delatori: poco prima della battaglia di Farsalo tra Cesare e Pompeo, nella Roma dell’anno 48 a.C. occupata dai cesariani «c’erano molti che spiavano e origliavano, attenti a ogni cosa che veniva detta o fatta» (Cassio Dione 42, 17, 2). Nel frattempo, la componente militare di questo nuovo sistema di informazioni e sicurezza sviluppò, proprio grazie alle guerre civili, capacità e competenze diverse da quelle precedenti e che si riveleranno preziose nel passaggio dalla repubblica all’impero. Comuni erano le operazioni di spionaggio, infiltrazione o contro-informazione. Un caso di infiltrazione a scopo di spionaggio e sedizione si ritrova per esempio nel corso dell’anno 43 a.C. durante la «guerra di Modena» tra Antonio e Ottaviano (Cassio Dione, 46, 36, 1).

La congiura di Catilina Ma l’evento che, forse meglio di altri, aiuta a comprendere il funzionamento e i meccanismi dell’informazione e della sicurezza interni nella tarda repubblica è la congiura di Catilina, repressa nel 63 a.C. Innanzitutto, l’elezione di M. Tullio Cicerone al consolato per quell’anno fu dovuta anche alle informazioni relative alla congiura lasciate filtrare in ambienti inizialmente ostili a Cicerone. Di ciò si rese artefice Fulvia, amante di uno dei congiurati, Quinto Curio, e con lui sorta di «doppio agente» di Cicerone. Fu proprio Fulvia a rendere noti dall’inizio i piani di Catilina a Cicerone. Grazie ai due agenti, inoltre, il console riuscí a sfuggire ad almeno un

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sicurezza interna

attentato (Sallustio, La congiura di Catilina, 23, 4-5; 26, 3 e 28, 2). Catilina, intanto, nel corso del 63, aveva reclutato gruppi di armati che teneva pronti all’insurrezione lungo l’Appennino, nella Pianura padana, in Campania e in altre regioni. Aveva inoltre fatto concentrare denaro e armi a Fiesole, dove Caio Manlio, un ex ufficiale di Silla, organizzava un esercito. Contemporaneamente, attraverso donne influenti ma fortemente indebitate, Catilina organizzava sollevazioni di schiavi urbani e incendi terroristici che distraessero l’attenzione dei magistrati (Sallustio, La congiura di Catilina, 24, 2-4 e 27, 2). Cicerone, dal canto suo, poteva vantare non solo l’aiuto di indices «eccellenti», ma anche di gruppi di cittadini armati, praesidia, anche a lui stesso personalmente fedeli. La possibilità di organizzare il popolo in praesidia non era certo una novità, ma ora la loro fedeltà appare rivolta in primo luogo ai singoli uomini politici piuttosto che alle istituzioni repubblicane, tra l’altro sempre piú astratte. Anche il loro uso costituisce quindi un valido indice della «personalizzazione» delle istituzioni di sicurezza della repubblica nel convulso periodo che precede l’instaurazione dell’impero.

Spiato «senza che tu te ne accorga» Del resto è lo stesso Cicerone a minacciare in senato Catilina in questo modo: «Senza che tu te ne accorga, gli occhi e le orecchie di molti ti spieranno e ti terranno sotto controllo, cosí come hanno fatto sinora » (Cicerone, Catilinarie, 1, 2, 6). Il 21 ottobre del 63 il senato, informato da Cicerone dei preparativi di Caio Manlio, votò il senatusconsultum ultimum. Squadre di gladiatori vennero inviate a presidiare Capua e altri municipi, mentre a Roma furono rinforzati i praesidia e le vigiliae, i corpi di guardia notturni. Vennero anche promessi premi per le delazioni (Sallustio, La congiura di Catilina, 30, 6, 7). Fallito nella notte tra il 6 e il 7 novembre un attentato contro Cicerone, il successivo giorno 8 ebbe luogo il confronto in senato tra il console e Catilina che, nella notte tra l’8 e il 9, si allontanò da Roma alla volta di Fiesole. In città, però, rimasero molti suoi uomini, i quali, tramite il mercante Publio Umbreno, cercarono di

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Processi e politica Lo stretto legame tra i processi e la politica è testimoniato già dai cosiddetti «processi rivoluzionari» della plebe o, piú tardi, all’interno della Legge delle XII Tavole, dal divieto di uccidere un uomo senza processo e dal correlativo obbligo di celebrare tale processo davanti all’assemblea popolare meno influenzata dal potere clientelare del patriziato, cioè quella centuriata. Negli ultimi anni della repubblica la connessione tra processi e politica si concretizzò in temi che divennero motivo di scontro tra la parte aristocratica e quella popolare.


In alto Roma, Palazzo Madama. Cicerone denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari. 1889 circa. A destra busto dell’avvocato e uomo politico Marco Tullio Cicerone. Metà del I sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.

Per quest’ultima, un primo problema fu quello di impedire che il senato autorizzasse i magistrati a compiere «inchieste straordinarie», la cui costituzionalità fu infatti sempre quantomeno assai dubbia. In seguito, durante il I secolo a.C., entrato nell’uso il sistema processuale che prevedeva singoli tribunali specializzati nella trattazione di altrettanti reati, divenne terreno di scontro la composizione sociale delle giurie chiamate a pronunciare i verdetti: i processi, infatti, riguardavano spesso importanti questioni di politica interna o estera.

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sicurezza interna

I corrieri avvicinare gli ambasciatori dei Galli Allobrogi, che si trovavano a Roma per denunciare un caso di malgoverno: la proposta era quella di scatenare un’insurrezione nella Gallia Cisalpina per impegnare l’esercito repubblicano su quel fronte. Gli Allobrogi, però, tramite il loro patrono romano Q. Fabio Sanga, denunciarono tutto a Cicerone, che immediatamente li arruolò come suoi «doppi agenti» (Sallustio, La congiura di Catilina, 41, 4). Il 2 dicembre gli Allobrogi organizzarono la cattura dei congiurati a Ponte Milvio, mentre si preparavano a lasciare Roma. Interrogati e incarcerati, i cospiratori romani non vennero neppure processati: Cicerone, sorvolando sul «problema» dei loro diritti e acquisito un comodo «benestare» essenzialmente politico da parte del senato, ordinò che essi fossero strangolati nel carcere Mamertino. Catilina, invece, moriva il 5 gennaio del 62 a.C. nei pressi di Pistoia, combattendo con i suoi sotto l’insegna di un’aquila che era appartenuta a un’unità di Caio Mario (Sallustio, La congiura di Catilina, 55, 1-6 e 60-61).

Controllare le comunicazioni Nella tarda repubblica grave era anche il problema dei collegamenti tra il centro e la periferia, a causa dell’assenza di un vero e proprio servizio pubblico di comunicazioni. La trasmissione delle notizie lasciava quindi ampi margini a manipolazioni, falsificazioni o distorsioni. Per esempio, Caio Mario, che nel 108 a.C., durante la campagna contro Giugurta, si era vista negare la licenza necessaria per recarsi a Roma e candidarsi al consolato, riuscí comunque a fare giungere a Roma tramite soldati e mercanti notizie false e poco rassicuranti circa l’attuale conduzione della guerra che, naturalmente, se invece fosse stata affidata a lui sarebbe finita molto prima. In questo modo, seminando e facendo circolare notizie false, Mario riuscí infine anche a farsi eleggere console contro le iniziali previsioni (Sallustio, La guerra di Giugurta, 64, 5; 65, 4 e Plutarco, Mario, 7 e 9, 1). Terminate le guerre civili, uno dei problemi che si presentò a Ottaviano fu proprio quello di creare e rafforzare un servizio pubblico di comunicazione per la circolazione rapida e

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La repubblica non disponeva di un vero e proprio servizio pubblico di comunicazioni e di trasporto tra il centro e la periferia e fu solo Augusto a crearne uno, il cursus publicus. Una prima forma di organizzazione per permettere a magistrati e incaricati del senato di recarsi in missione si rinviene comunque già dopo la fine della seconda guerra punica. Le spese erano in origine a carico dell’erario e in seguito delle città alleate. Si poteva eventualmente disporre anche di corrieri personali, i tabellarii, o affidare le comunicazioni a mercanti o marinai. In Cesare (La guerra civile, 3, 101) è attestato un sistema di staffette che fu ripreso e migliorato da Augusto.


A sinistra, in basso statua in marmo di Augusto togato con rotolo, rinvenuta a Velletri. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra, in basso vasetto in bronzo per l’inchiostro e stili in osso di epoca romana. Siena, Museo Archeologico Nazionale.

sicura delle notizie relative alla sicurezza interna e alla sicurezza militare: il cursus publicus. Ormai, infatti, chi aveva il controllo delle informazioni aveva il controllo della sicurezza non in una sola zona dell’impero, ma in tutto l’orbis Romanus; poteva decidere quali notizie divulgare, quali lasciare riservate e anche quali provvedimenti assumere sulla base delle informazioni ricevute. Cosí Svetonio (Augusto, 49) racconta gli esordi del cursus publicus: «Per essere avvisato piú rapidamente e per conoscere piú direttamente cosa avvenisse in ogni provincia, [Augusto] dapprima dispose come staffette dei giovani a breve distanza uno dall’altro, lungo le strade militari; successivamente dei veicoli. Questo secondo sistema venne trovato piú comodo, perché quelli che portano i messaggi da un certo luogo possono anche essere interrogati, se le circostanze lo richiedono». Augusto aveva inoltre adottato accorgimenti per garantire l’esatta data della redazione di un messaggio e della sua spedizione, che normalmente dovevano coincidere. Infatti, oltre a usare dei sigilli, sappiamo che aggiungeva «in tutte le sue lettere l’ora precisa, non solo del giorno, ma anche della notte, cosicché risultasse quando erano state spedite» (Svetonio, Augusto, 50). In linea di massima, solo alcune notizie avrebbero richiesto in via eccezionale una comunicazione davvero urgente all’imperatore, cioè quelle che potevano imporre la movimentazione di forze militari. In altri casi il governatore locale sarebbe stato in grado di affrontare direttamente la minaccia e solo successivamente avvertire il centro, come di fronte a limitati sconfinamenti o incursioni. In questi ultimi casi aveva un ruolo essenziale l’informazione militare di rilevanza locale raccolta dai servizi di informazione militare, exploratores e speculatores, e comunicata a mezzo del sistema di trasmissione delle notizie con segnalazioni ottiche, già ricordato da Cesare e prima ancora da Polibio e del quale si dirà piú

avanti. Tra i nemici esterni, un reale timore poteva aversi solo per i Parti, poiché, come ha scritto Giovanni Brizzi, «negli altri scacchieri il controllo delle minacce provenienti dal mondo barbarico presentava, ancora in età augustea, problemi molto minori: le incursioni di Germani, Sarmati e Daci avevano forza limitata, dimensioni esclusivamente locali e carattere sporadico» (Studi militari romani, Bologna 1983). La rapidità nella circolazione delle informazioni divenne essenziale anche durante le guerre civili: è noto il caso del liberto Icelo, che, nel 68 d.C., annunciò a Galba (68-69) la caduta di Nerone (54-68) quando Galba stesso era ormai convinto di aver fallito il proprio tentativo imperiale (Svetonio, Galba, 11 e 22). Non sappiamo con esattezza a chi fosse affidato il servizio del cursus publicus, ma si ritiene che si trattasse delle «spie» militari, gli speculatores delle legioni: «I corrieri – si legge ancora nel saggio di Brizzi – vennero sempre piú frequentemente scelti nell’esercito, da una unità selezionata di speculatores, esploratori che invece di esplorare le postazioni nemiche, indagavano sulla situazione delle postazioni militari alle quali recapitavano i messaggi; e in seguito, le strutture del cursus publicus divengono un supporto fondamentale per l’azione dei frumentarii e dei successivi servizi di sicurezza imperiali».

Il piú grave dei reati politici Nel nuovo regime imperiale, il crimine politico per eccellenza continuò a essere quello di lesa maestà, riformato da una lex Iulia maiestatis dell’8 a.C. di Augusto, in parte ricostruibile grazie alle opere dei giuristi e destinata, con numerose integrazioni, a restare un punto fermo in materia almeno sino al VI sec. d.C. Il bene giuridico protetto dalla legge continuò a essere la sicurezza del popolo romano, ma, agli altri comportamenti punibili, si aggiunsero quelli rivolti contro l’imperatore. Ormai attentare alla costituzione della res publica, lo «Stato», sarebbe equivalso ad attentare ai

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sicurezza interna

«[I Romani] Non potevano parlare con tutti senza paura, perché anche coloro che sembravano amici carissimi e persino gli stessi parenti potevano accusarli, alterando le loro parole o inventandone del tutto delle altre» (Cassio Dione)

poteri, alle funzioni, alle prerogative e alla persona stessa dell’imperatore. Lo spionaggio a favore del nemico rientrava appieno nel crimine di lesa maestà (Digesto 48, 4, 1, 1). Sempre come lesa maestà venivano puniti comportamenti ampiamente sviluppati durante le guerre civili: il rifiuto del governatore di consegnare la provincia al suo successore, la conduzione di guerre o arruolamenti senza autorizzazione dell’imperatore, la movimentazione di forze armate, l’assassinio di magistrati o la gestione di poteri magistratuali senza averne titolo (Digesto 48, 4, 1-3). La pena prevista era sempre quella capitale, secondo alcuni realizzata mediante l’«interdizione dall’acqua e dal fuoco», divenuta nel frattempo una pena vera e propria e che si sarebbe trasformata nella deportazione o nella relegazione su di un’isola. Alla condanna seguiva di solito la confisca dei beni, il divieto della sepoltura e del lutto. Per i giuristi era chiara la necessità di evitare qualsiasi applicazione arbitraria della legge (Digesto, 48, 4, 7-3), ma non di rado la normativa sulla lesa maestà veniva aggirata o impiegata abusivamente per eliminare personaggi scomodi.

I piú vicini all’imperatore Ad Augusto spettò anche di istituzionalizzare i corpi militari impiegati durante le guerre civili con compiti di sicurezza e di informazione e di cui le cohortes praetoriae sono gli esponenti principali. Il loro ruolo in materia di sicurezza derivava proprio dalla vicinanza all’imperatore ed era pertanto decisamente influenzato dalle caratteristiche dei singoli regnanti: diverso, per esempio, fu l’uso dei pretoriani e di altre componenti del sistema di informazioni e sicurezza fatto da Augusto e da Caligola. All’indomani della morte di Augusto fu proprio un tribuno o un centurione pretoriano della

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Nella pagina accanto rilievo con ufficiali e pretoriani. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Le cohortes praetoriae costituivano un corpo militare con compiti di sicurezza, utilizzato durante le guerre civili e reso stabile da Augusto con nove coorti. Guardie del corpo ufficiali degli imperatori, i pretoriani venivano usati anche per sevizi di spionaggio, per eliminare i nemici del principe e presero parte a varie congiure, oltre all’uccisione ed elezione di vari imperatori, prima di essere sciolti da Costantino.

scorta a uccidere Agrippa Postumo, potenziale avversario di Tiberio (14-37) in quanto nipote del defunto imperatore per parte della figlia Giulia (Svetonio, Tiberio, 22). I pretoriani ebbero del resto un ruolo di primo piano nell’eliminazione di Caligola (37-41), materialmente realizzata dai tribuni Cassio Cherea e Cornelio Sabino. Anche Messalina, sposa di Claudio (41-54), ma sospettata di congiurare contro di lui, venne eliminata nel corso di un’operazione che vide in azione i pretoriani, i Germani corporis custodes, la «guardia del corpo germanica», e i potentissimi liberti imperiali (Tacito, Annali, 11, 26-38). Membri delle cohortes praetoriae figurarono poi tanto tra gli inquisitori che tra gli inquisiti nel corso delle indagini sulla cosiddetta «congiura di Pisone» del 65 d.C., in cui persero la vita anche il filosofo Seneca e il poeta Lucano (Tacito, Annali, 15, 48-74). Negli stessi anni, incarichi riservati potevano essere affidati, come già in passato, a persone di particolare fiducia. Sappiamo che Augusto venne fatto oggetto di numerosi attentati che ci lasciano intravedere mandanti e disegni piú vasti, ma non sempre di facile lettura. Ampio e spregiudicato fu il ricorso ai delatores. Per eliminare il malcostume che si aggirava intorno a questi personaggi, si tentò invano di limitare il compenso che essi potevano ottenere a seguito della vittoria in una causa criminale in cui avessero ricoperto il ruolo di accusatori (Tacito, Annali, 11, 5, 3 e 11, 7, 4). Nerone, poi, per eliminare la madre Agrippina si valse dei «servigi» dell’ammiraglio della flotta di Capo Miseno, il liberto Aniceto. Fatta imbarcare su di una nave appositamente costruita per essere in grado di auto-affondarsi, Agrippina tuttavia non morí neppure dopo il naufragio e Nerone fu allora costretto a domandarne l’eliminazione ancora una volta agli uomini della flotta di Miseno, dal momento


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sicurezza interna

Acquaforte di Bartolomeo Pinelli in cui si immagina la vestale Cornelia, ingiustamente accusata e condannata al supplizio da Domiziano. Post 1824. La scena ben rappresenta il clima di terrore diffuso sotto il regno di Domiziano e si riferisce al processo contro la vestale massima Cornelia, condannata a essere sepolta viva per aver infranto il voto di verginità.

che gli stessi pretoriani si rifiutavano di compiere un atto tanto atroce. Cosí, precostituite le prove di un attentato contro di lui, Nerone inviò i marinai a massacrare Agrippina che, nel frattempo, aveva trovato un temporaneo rifugio nella sua villa di Anzio (Tacito, Annali, 14, 1-8). Sempre Aniceto, nel 62 d.C., si prestò a una falsa accusa nei confronti di Ottavia, figlia di Claudio e Messalina e moglie di Nerone: la giovane fu dapprima esiliata e poi fatta uccidere dai pretoriani (Tacito, Annali, 14, 63-64). Un ufficiale della flotta di Capo Miseno, Volusio Proculo, ebbe anche una parte nelle indagini relative alla «congiura di Pisone» (Tacito, Annali, 15, 51 e 57).

Un periodo di grandi turbolenze Dopo la morte di Nerone, nel convulso periodo del 68-69 d.C. che vide succedersi al trono Galba, Otone, Vitellio e infine Vespasiano, ebbe un ruolo essenziale uno speciale reparto a

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cavallo di pretoriani preposti alla scorta dell’imperatore: gli speculatores Augusti. Da non confondersi con le «spie» militari, essi erano stati costituiti al principio del I secolo d.C. con elementi scelti della cavalleria pretoriana e inseriti nell’organizzazione delle cohortes praetoriae probabilmente dal 23 d.C. Messi da parte da Nerva (96-98) dopo un’ennesima congiura nel 97, furono sostituiti da Traiano con un altro corpo, gli hastillarii. Tornando ai fatti del 68-69, osserviamo come per eliminare Galba e ottenere il trono, Otone avesse stretto rapporti personali con numerosi speculatores, dei quali grazie a Tacito conosciamo anche alcuni nomi. Essi realizzarono tra le forze armate presenti a Roma una vera e propria campagna clandestina a favore di Otone, che valse anche a frenare un attentato contro di lui, probabilmente ideato da esponenti del senato (Tacito, Storie, 1, 24-26). Furono proprio 23


speculatores, il 15 gennaio del 69, ad acclamare Otone imperatore e a spianargli la via del controllo delle cohortes praetoriae e delle altre forze presenti a Roma, mentre alcuni di loro rimanevano presso il palazzo imperiale come spie e agenti di disinformazione incaricati di spargere in quelle ore convulse notizie false o contraddittorie. Galba venne cosí indotto a credere che Otone fosse morto e si avventurò nelle strade. Giunti nel Foro, Galba e i suoi, quelli che non erano ancora fuggiti, vennero cosí massacrati dai militi di Otone. Particolarmente fedeli a Otone, tanto da chiedergli di essere autorizzati a eliminare il senato (Tacito, Storie, 1, 80-82 e Svetonio, Otone, 8), i pretoriani furono però drasticamente ridimensionati da Vitellio (Tacito, Storie, 2, 67 e Svetonio, Vitellio, 10).

L’accusa popolare degenera Al di là di questi episodi eclatanti, attraverso i delatores e gli accusatores si realizzava quella che Franca De Marini Avonzo ha definito «la periodica lotta contro l’opposizione senatoria» (La funzione giurisdizionale del senato romano, Milano 1957). Il termine delator assume ora anche una precisa valenza morale di segno negativo e ciò è significativo della degenerazione del sistema dell’accusa popolare. Gradualmente, inoltre, i termini index, delator e accusator tenderanno a perdere le loro specifiche differenze e finirono con l’indicare chi si prestava ad accuse false o tendenziose al solo fine del proprio personale tornaconto. Il teatro dell’azione di questi personaggi è ora soprattutto il senato, che, nella nuova procedura criminale imperiale, è competente a giudicare del reato di lesa maestà e tale rimase, non senza eccezioni e modifiche, sino ad Alessandro Severo. Se torniamo al periodo successivo all’anarchia militare del 68-69 d.C., osserviamo come per il principato di Vespasiano e per quello del figlio Tito (79-81) non vi sia notizia di particolari arbitrii, pur se congiure e repressioni non mancarono (Cassio Dione, 66, 16, 3-4 e Svetonio, Tito, 6). Con Domiziano (81-96), invece, la repressione sistematica di congiure vere o

presunte divenne all’ordine del giorno, specie dopo l’89 d.C. Un passo delle Dissertazioni (4, 13, 5) del filosofo Epitteto, che visse in prima persona in questo pericoloso clima, è di nostro diretto interesse: «In questo modo a Roma avviene che uomini imprudenti siano presi in trappola da soldati. Un soldato in abiti civili viene a sedersi vicino a te e incomincia a sparlare di Cesare e tu, considerando come una sorta di garanzia il fatto che lui comincia a sparlare, dici tutto quello che provi; subito dopo ti trovi legato e portato via». La stessa morte di Domiziano fu infine dovuta a una congiura ordita dall’ex moglie Domizia con l’appoggio dei prefetti al pretorio Norbano e Petronio, nonché dei liberti imperiali. Le cohortes praetoriae non avevano però appoggiato i piani dei due prefetti e la misura del loro scontento si palesò nell’inverno del 97 dopo che Nerva ebbe incautamente deposto alcuni ufficiali impopolari alla truppa, oltre allo stesso Norbano, e nominato prefetto Casperio Eliano, che aveva già ricoperto questa carica con Domiziano. I pretoriani si ribellarono e giustiziarono alcuni dei protagonisti della congiura contro Domiziano, obbligando Nerva ad assistere all’esecuzione. La guerra civile fu evitata grazie all’atteggiamento dell’imperatore e dei suoi collaboratori, ma l’episodio accelerò il passaggio dei poteri a Traiano (98-117). La congiura del 97 costituisce un momento di svolta nella storia delle strutture romane di informazione e sicurezza: era ormai evidente che per disporre di un sistema affidabile non era piú sufficiente appoggiarsi alle strutture militari ereditate dalle guerre civili e rese istituzionali o alla sola opera dei delatores, la cui attività rinviava ai momenti piú cupi del I secolo a.C. Sul lungo periodo ciò non comportò necessariamente una modificazione in senso sempre «virtuoso» delle strutture romane di informazione e sicurezza, ma introdusse comunque cambiamenti e innovazioni, probabilmente anche molto funzionali ed efficaci, di cui dovremo occuparci.

Busto-ritratto dell’imperatore Tito Flavio Domiziano (il naso è un’integrazione moderna). Fine del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Sotto Domiziano la repressione delle congiure, vere e presunte, era ormai diventata endemica, finché l’imperatore non morí proprio per un complotto, ordito dall’ex moglie Domizia, dai prefetti al pretorio e da liberti imperiali.


taci,

l’impero ti ascolta... roma è ormai divenuta una vera e propria superpotenza e la sua gestione non può piú fare affidamento sulle semplici norme del mos maiorum, che pure viene da molti invocato. lo spionaggio si fa prassi e spesso ha inizio nelle stanze del potere di Enrico Silverio

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Calco di un rilievo della Colonna Traiana raffigurante l’imperatore Traiano a colloquio con un ufficiale, forse Lucio Licinio Sura. Roma, Museo della Civiltà Romana. Forse già con l’avvento di Traiano, per la prima volta nella storia di Roma, fu istituita una struttura specializzata nell’acquisizione delle informazioni che si sviluppava su tutti i territori dell’impero, avvalendosi del cursus publicus creato da Augusto.

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sicurezza interna

Nella pagina accanto una veduta notturna dei Fori Imperiali, con, in primo piano, le «colonnacce» del Foro Transitorio (il Foro di Nerva) e, in secondo piano, il Foro di Augusto. In basso busto di Marco Cocceio Nerva (imperatore dal 96 al 98 d.C.). Fine del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

I

l complotto delle cohortes praetoriae contro Nerva del 97 d.C. segnò una cesura nella storia dei servizi di informazione e sicurezza romani, che coincise con l’avvento al trono da parte di imperatori per i quali era evidente la necessità di favorire la connessione e la comunicazione tra le varie componenti dell’impero. Si crearono cosí i presupposti di un servizio di informazione e sicurezza che, per la prima volta, apparve come una struttura davvero specializzata, anche perché si sviluppava sul territorio usufruendo dell’organizzazione del cursus publicus. Sin dalla creazione della nuova organizzazione fu dunque ben presente l’importanza delle informazioni e, conseguentemente, della celerità della loro circolazione dal centro alla periferia e viceversa. La nuova struttura di informazione e sicurezza che caratterizza il periodo grosso modo compreso tra l’epoca di Traiano (98-117) o di Adriano (117-138) e quella di

117-138 Adriano è imperatore

I secolo d.C.

98-117 Traiano è imperatore

II e III secolo d.C.

96-98 Nerva è imperatore

Diocleziano (284-305), è articolata attorno a una caserma nella regio II, Caelimontium, a Roma: i castra peregrina. I dati sulla creazione e l’organizzazione sono però incerti e contraddittori. Tra gli elementi certi vi è che, almeno dal principato di Adriano, i servizi di informazione e sicurezza furono essenzialmente svolti da milites che facevano capo ai castra del Celio, nei quali trovavano alloggio diversi gruppi di graduati, ciascuno di essi specializzato in incarichi concernenti la sicurezza: peregrini, frumentarii, speculatores delle legioni, centuriones deputati o supernumerarii e talvolta altre categorie. Il gruppo numericamente piú consistente era senz’altro quello dei frumentarii. Quanto alle origini del sistema dei castra peregrina, si tende a considerare superata la teoria del grande storico tedesco Theodor Mommsen (1817-1903), basata su di una lettura degli Atti degli Apostoli (27, 1; 28, 16), secondo il quale la struttura sarebbe stata operante dalla metà del I secolo d.C.

138-192 Dinastia degli Antonini

192-193 Pertinace è imperatore

193 Didio Giuliano è imperatore

IV secolo d.C.

le date da ricordare

306-337 Costantino è imperatore 306-307 Terza tetrarchia

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313 Editto di Tolleranza 308-311 Quarta tetrarchia

360-363 Giuliano l’Apostata è imperatore

337 L’impero è diviso tra Costante (337-350), Costanzo Il (337-361) e Costantino Il (337-340)

364-392 Dinasta valentiniana 363-364 Gioviano è imperatore


284-305 Diocleziano è imperatore

235-284 Anarchia militare; sono eletti diversi imperatori

293-305 Prima tetrarchia (Diocleziano, Galerio Massimiano, Costanzo Cloro)

395 Morte di Teodosio e divisione dell’impero romano 379-395 Teodosio I è imperatore

305-306 Seconda tetrarchia

V secolo d.C.

193-235 Dinastia dei Severi

410 I Goti di Alarico saccheggiano Roma 408-450 Teodosio Il è imperatore d’Oriente

455 I Vandali di Genserico saccheggiano Roma 452 Papa Leone Magno arresta la marcia di Attila su Roma

476 Deposizione di Romolo Augustolo ad opera di Odoacre. Fine dell’impero romano d’Occidente

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Altre teorie, che prendono in considerazione l’etimologia di «frumentarius» e altri dati, sono caratterizzate dall’ipotizzare una concentrazione a Roma di frumentarii provenienti da diverse legioni e collocati in una struttura deputata all’approvvigionamento granario civile o militare: in seguito, con modalità niente affatto chiare, questa organizzazione si sarebbe trasformata in un servizio informativo e di sicurezza. Secondo William G. Sinnigen si deve mettere in relazione la presenza dei frumentarii a Roma con la concentrazione nella capitale dei servizi logistici dell’esercito e con la creazione di un servizio militare di approvvigionamento. Tale evento sarebbe intervenuto all’epoca di Domiziano e proprio la presenza a Roma di soldati abituati a viaggiare, insieme al contemporaneo potenziamento del servizio pubblico di comunicazioni, avrebbero creato i presupposti della nuova organizzazione, benché le circostanze concrete sfuggano a ogni ipotesi di ricostruzione. Piú di recente Boris Rankov ha suggerito come il nome dei frumentarii sia invece collegato al fatto che, in ragione delle mansioni, spettasse loro una razione supplementare di viveri.

Sabino, «capo» dei castra peregrina? Benché normalmente, sulla base di fonti storiche di cui diremo, si ritenga che la struttura dei castra peregrina fosse operante con Adriano, alcuni credono che ciò avvenisse già con Traiano. Un’epigrafe databile ai primi anni del II secolo d.C. menziona infatti un certo Q. Geminio Sabino, che, nella sua carriera militare, avrebbe ricoperto anche l’incarico di princeps peregrinorum: si tratta della qualifica del «capo» dei castra peregrina e dunque l’epigrafe attesterebbe come questi esistessero già con Traiano. Anche un passo di Aurelio Vittore, relativo all’uso del servizio di comunicazioni pubblico come strumento di controllo, viene richiamato in tal senso (Aurelio Vittore, I Cesari, 13, 5-6). Vi è poi traccia durante il II e III secolo d.C. anche di frumentarii attivi negli uffici dei governatori provinciali o nelle legioni e ciò ha posto il problema dei rapporti tra costoro e i

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Roma, Colonna Traiana. Una delle scene del fregio elicoidale raffigurante l’imperatore che riceve rapporti da due cavalieri. Da Traiano (o da Adriano) fino a Diocleziano, il servizio di informazione si articolò intorno ai castra peregrina, una caserma della Regio II Caelimontium a Roma (comprendente l’area del Celio), che ospitava vari militi specializzati in incarichi di sicurezza.

frumentarii dei castra peregrina del Celio. La questione si articola sulla dipendenza di tutti i frumentarii dall’imperatore attraverso i castra peregrina, o sulla necessità di distinguere tra i frumentarii dei castra peregrina e quelli in servizio altrove. Secondo John C. Mann, le testimonianze epigrafiche escluderebbero che i frumentarii potessero avere un rapporto gerarchico con il governatore provinciale. Anzi, all’atto di entrare a fare parte di un ufficio governatoriale, un frumentarius sarebbe stato promosso al grado di beneficiarius consularis. In questo modo, inoltre, l’imperatore stesso avrebbe avuto uomini di sua fiducia all’interno degli uffici dei governatori. Secondo Rankov, invece, un frumentarius poteva svolgere la sua carriera in una legione, nei castra peregrina o in un ufficio governatoriale senza alcuna grande differenza, poiché, in ultima analisi, egli avrebbe comunque operato alle dipendenze dell’autorità imperiale e avrebbe svolto le stesse funzioni: quella cioè fondamentale di far circolare i messaggi tra il centro e la periferia e di essere curatore o esecutore della volontà del principe o dei suoi governatori. Questa idea appare condivisibile perché


valorizza una costante emersa anche in altri periodi storici: la tendenza ad affidare incarichi riservati o confidenziali a singoli uomini fidati, in questo caso traendoli da strutture militari o burocratiche e senza ancora riunirli in un corpo unitario. Del resto, il legame tra i frumentarii, Roma e l’imperatore è attestato anche epigraficamente. I castra peregrina sarebbero stati quindi il cuore di un sistema informativo e di sicurezza del quale i frumentarii furono gli agenti principali. La caserma romana avrebbe anche organizzato e inquadrato il personale in transito a Roma, disponendone compiti o impieghi secondo la volontà del principe.

Una fase di transizione È comunque possibile che ex frumentarii in servizio presso i governatori fossero anche veri e propri strumenti per il controllo dell’amministrazione periferica. L’epoca dei castra peregrina, infatti, è anche un’età di transizione che si colloca tra la fine del

Calco di un altro rilievo della Colonna Traiana raffigurante soldati romani che mietono. Roma, Museo della Civiltà Romana. Il gruppo piú consistente ospitato nei castra peregrina era quello dei frumentarii, che, addetti forse in origine ai rifornimenti di grano, assunsero la funzione di «corrieri», oltre a svolgere un servizio di «raccolta di informazioni» e quindi di spionaggio e di sicurezza.

principato vero e proprio e l’inizio della monarchia tardo-antica, caratterizzata dalla burocratizzazione dell’amministrazione e, soprattutto, dalla centralizzazione del suo apparato. Nel tardo impero il controllo della burocrazia venne affidato a una particolare categoria di agenti, che potrebbe essere stata almeno in parte anticipata o prefigurata proprio dai frumentarii. Nonostante la loro importanza all’interno del nuovo sistema di informazione e sicurezza, la denominazione della caserma romana non pare avere nulla a che vedere con i frumentarii e, anzi, almeno apparentemente, sembra derivare da un’altra categoria di milites: i peregrini. Occorre allora chiarire che in passato vi è stata notevole incertezza circa la corretta denominazione della caserma sul Celio: se castra peregrina o castra peregrinorum. Infatti, i peregrini menzionati in alcune iscrizioni della caserma erano un’autonoma categoria di militi o un ristretto numero di graduati addetti

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La caserma sul Celio Collocati sul Celio, all’interno della Regio II della divisione augustea, i castra peregrina non sono oggi visibilmente apprezzabili e neppure la loro esatta dislocazione è immediatamente riconoscibile. La struttura si estendeva, infatti, al di sotto dell’attuale chiesa di S. Stefano Rotondo, allungandosi a est verso il sito oggi occupato dal Calvary Hospital e dal convento delle suore della Piccola Compagnia di Maria. A sud, invece, l’edificio doveva incontrare un limite naturale nel declivio del colle, mentre a ovest pare terminasse nei pressi della zona antistante l’attuale chiesa di S. Maria in Domnica, occupata in antico dal comando, statio, della cohors V dei vigili. A nord, invece, le tracce della caserma antica si possono seguire fin sotto l’attuale Ospedale Militare. Dalle caratteristiche costruttive l’area si direbbe utilizzata dalla fine dell’età adrianea sino alla metà del III secolo d.C., con una fase anche nel IV secolo. Del resto Ammiano Marcellino (16, 12, 66) proprio per il 357 d.C. ci informa come l’edificio fosse stato impiegato quale prigione del re degli Alamanni Cnodomario. Anna Maria Liberati

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In alto plastico di Roma in età imperiale: nel riquadro è l’area occupata dai castra peregrina sul Celio. Roma, Museo della Civiltà Romana. A sinistra l’addestramento di un cavaliere.


Ricostruzioni di una corazza di un centurione con decorazioni al valore ( in alto), di un gladio (a destra) e di una spatha (a sinistra), quest’ultima di età tarda. Roma, Museo della Civiltà Romana.

qualifiche principali princeps castrorum peregrinorum

Poteva provenire dai centurioni delle legioni o dalla qualifica di centurio frumentarius, aveva il compito di gestire la caserma sul Celio (i castra peregrina) e di organizzare le attività dei militi che in essa erano di stanza

subprinceps castrorum peregrinorum e optio castrorum peregrinorum Con tali qualifiche venivano indicati rispettivamente il «vice comandante» dei castra peregrina e una figura di graduato per il quale è attestato anche l’incarico di istruttore

alla caserma? Ovvero: era la denominazione dei militi a derivare da quella dei castra peregrina o viceversa? Attualmente si ritiene che i peregrini non fossero un corpo di militi, ma che coloro che riportano nella denominazione della propria carica la dizione «peregrinorum» debbano intendersi come graduati «dei castra peregrina» e non come membri di un ipotetico corpo «dei peregrini». A questa considerazione si è giunti sulla base dell’assenza di fonti che realmente menzionino tale corpo, ma, in effetti, in tal senso hanno sempre deposto alcune evidenze epigrafiche, i cataloghi delle regioni urbane di Roma, cioè il Curiosum e la Notitia Urbis Romae, nonché un passo di Ammiano Marcellino (16, 12, 66). I peregrini furono quindi quella ristretta cerchia di personale preposto all’amministrazione della caserma sul Celio e al comando dei militari in essa alloggiati. Sono attestate con sicurezza tre qualifiche: princeps castrorum peregrinorum, subprinceps castrorum peregrinorum e optio castrorum peregrinorum. Non si trattava, inoltre, di veri e propri gradi gerarchici, ma di qualifiche attribuite a personale che aveva già un proprio grado militare.

Comandare e organizzare Generalmente si ritiene che il princeps peregrinorum non fosse solo il responsabile della gestione amministrativa della caserma del Celio, ma anche dell’organizzazione dei militi in essa presenti in vista dell’esecuzione di incarichi di informazione e sicurezza. L’ipotesi è molto verosimile e deriva, tra l’altro, dall’analisi di alcune carriere svolte all’interno dei castra peregrina: esse mostrano come militi ex frumentarii o speculatores potessero essere elevati alla qualifica di princeps castrorum peregrinorum e rendono cosí probabile l’ipotesi che costoro continuassero a svolgere a un livello piú elevato le attività eseguite sino ad allora. Tra le figure di principes peregrinorum a noi note spiccano quelle di M. Oclatinio Advento (vedi box a p. 55) e di Ulpio Giuliano e Giuliano Nestore, che furono principes peregrinorum probabilmente agli inizi del III secolo d.C. Questi ultimi avrebbero raggiunto la prefettura al pretorio «in

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Rilievo in marmo colorato che raffigura il dio Mitra nell’atto di uccidere il toro, dal mitreo dei castra peregrina. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. Nella caserma, oltre al mitraismo, è attestato il culto del genius castrorum peregrinorum (il genio protettore della caserma stessa), di Iuppiter Redux (che assicurava il ritorno dalla battaglia), di Iuppiter Optimus Maximus (Giove Ottimo Massimo), Silvano e altre divinità.

considerazione dei grandi servizi resigli [a Macrino, 217-218] in qualità di principes peregrinorum, soddisfacendo la sua infinita curiosità» (Cassio Dione, 78, 15, 1). Tali carriere dovettero però costituire altrettante eccezioni, perché un silenzio quasi totale avvolge le carriere di altri principes peregrinorum come L. Censorino Privato, T. Flavio Domiziano, Aurelio, M. Aurelio Decimo, Emilio Alcimo e Cocceio Patruino, i quali, verosimilmente, non ricoprirono incarichi tali da renderli noti o invidiati quanto i personaggi appena ricordati. Quello di princeps dei castra peregrina era quindi il gradino di una carriera che poteva arrivare anche a vertici piú elevati e non tutti dovettero avere le capacità o l’occasione di sfruttarne le grandi possibilità. Nella gerarchia si trattava comunque di un grado tutto sommato, e forse volutamente, abbastanza modesto, retto da centurioni anziani. Anche i subprincipes peregrinorum e gli optiones non risultano aver svolto particolari carriere, ma deve essere qui menzionato l’optio peregrinorum Sulgio Ceciliano, ricordato in un’epigrafe come «optio peregrinorum e istruttore di cavalleria (exercitator) dei militi frumentarii» (CIL VIII, 14854). La notizia è di sicuro interesse perché

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l’uso del cavallo conferma il ruolo di messaggeri svolto dai frumentarii e, con altre fonti, rinvia all’uso sistematico del cursus publicus e alla sua valenza di elemento qualificante del nuovo servizio di informazione e sicurezza incardinato nei castra peregrina. Questi ultimi, come si è detto, sono comunque associati soprattutto con i frumentarii, che alcune testimonianze epigrafiche indurrebbero a ritenere ivi riuniti e organizzati per ragioni amministrative in un reparto di cavalleria di almeno 200 o 300 uomini, talvolta descritto come un numerus frumentariorum. Tra i frumentarii avevano un ruolo particolare i centuriones frumentarii, che però non erano veri e propri centurioni come quelli delle legioni: in queste cariche si deve piuttosto vedere un avanzamento concesso ai frumentarii all’interno del particolare meccanismo delle qualifiche dei castra peregrina.

Investigatori nelle province Proprio un passo di Aurelio Vittore, non privo di intenti polemici, consente di porre in relazione i frumentarii con il servizio di informazioni e sicurezza del tardo impero, la schola agentum in rebus, e a identificare entrambi come investigatori dello stato della situazione delle


province e operatori di un ciclo di informazioni che dalla periferia arrivava alla capitale e viceversa, (Aurelio Vittore, I Cesari, 39, 44). A tale scopo era fondamentale la connessione con il cursus publicus, attestata da una serie di fonti epigrafiche e letterarie. Nelle fonti in greco, infatti, i frumentarii sono indicati con la traslitterazione del loro nome latino oppure come grammatoforoi o anghelliaforoi, cioè «portaordini» o «messaggeri». Ciò avveniva anche quando essi avessero svolto attività non direttamente connesse al trasferimento delle informazioni: questa funzione li connotava in modo inequivocabile (Cassio Dione, 78, 14, 1; 78, 15, 1; 78, 39, 3). La sola attività di corrieri è poi attestata anche da almeno due fonti epigrafiche. Non bisogna inoltre dimenticare che altre epigrafi attestano l’esistenza di una stazione di posta nell’area del sepolcro di Cecilia Metella, lungo la via Appia, e ne ricordano altrettanti successivi restauri. La presenza di ulteriori stazioni di posta lungo gli assi viari in direzione sud rispetto a Roma potrebbe essere suggerita dalla presenza di epigrafi funerarie di frumentarii rinvenute a Velletri, Formia e Pozzuoli.

Un controllo capillare e invasivo Insieme con l’attività di messaggeri, i frumentarii e gli altri uomini dei castra peregrina si rendevano anche esecutori degli ordini dell’imperatore o dei prefetti al pretorio e per tutte queste ragioni nelle fonti essi compaiono come un vero e proprio strumento invasivo di controllo. Un’invasività che, agli stessi contemporanei, li fece percepire come qualcosa di nettamente diverso dalle strutture del passato. Questi elementi sono già presenti nella fonte che riferisce un episodio dell’età di Adriano, il piú antico di cui abbiamo notizia relativo ai frumentarii: «Era poi cosí curioso di conoscere non solo i fatti della sua corte ma anche quelli degli amici da esplorare tutti quanti i loro affari privati per mezzo dei frumentarii» (Storia Augusta, Adriano, 11, 4). Se prescindiamo dal tono polemico della fonte, il quadro che emerge è quello di un servizio di sicurezza impegnato nel controllo e nella sorveglianza, anche invasiva, di chiunque e a

La religiosità degli agenti Tra i luoghi di culto all’interno dei castra peregrina doveva avere particolare importanza il mitreo, scavato negli anni 1973-75 e sito al di sotto dell’attuale chiesa di S. Stefano Rotondo. Una prima fase della struttura si data attorno al 180 d.C. con l’utilizzo di un ambiente in cui vennero collocati l’altare e la nicchia con la rappresentazione di Mitra Tauroctono. Una seconda fase si colloca, invece, verso la fine del III secolo d.C. ed è caratterizzata dall’ampliamento del piccolo santuario, che fu arricchito di altri altari e di una nuova rappresentazione della divinità. L’edificio venne distrutto in circostanze non chiare durante il IV secolo d.C. e su di esso si installò la chiesa di S. Stefano Rotondo. Nei castra peregrina non mancava, comunque, il culto del genius castrorum peregrinorum, insieme a quello di Iuppiter Redux, attestato nell’età dei Severi e che probabilmente godeva di un luogo di culto a parte, di Iuppiter Optimus Maximus e di altre divinità tra cui Silvano, il restauro del cui simulacro è commemorato in una dedica da parte di un princeps peregrinorum. A. M. L.

qualsiasi titolo si trovasse accanto a un individuo di potere. Sono significative due espressioni latine impiegate dalla fonte e dal preciso significato tecnico: explorare e curiosus. Explorare rinvia, infatti, a un’inchiesta o investigazione riservata e curiosus indica in questo periodo chi svolgesse un’indagine, appunto, riservata o relativa a materie particolarmente delicate. Certo la nostra fonte collega tali espressioni ad Adriano, ma se è vero che l’imperatore era «curiosum» e che egli «omnia exploraret», è anche vero che tutto ciò avveniva «per frumentarios», cioè proprio «attraverso i frumentarii». Durante il principato di Commodo (180-192) poi, nel 182 d.C., i frumentarii vennero impiegati per l’eliminazione di Saotero, un personaggio molto intimo dell’imperatore e ritenuto il principale responsabile dei suoi

Il mitreo dei castra peregrina, edificato intorno al 180 d.C., ampliato e arricchito verso la fine del III sec. d.C., e improvvisamente distrutto nel IV sec. Sui suoi resti, tra il 468 e il 483, fu costruita la basilica di S. Stefano al Monte Celio (comunemente detta S. Stefano Rotondo).

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eccessi. Sarebbero stati proprio i prefetti al pretorio a ordinarne la morte per mano dei frumentarii. Sappiamo, però, che la vendetta di Commodo fu terribile ed è probabile che anche gli agenti responsabili dell’eliminazione trovassero la morte (Storia Augusta, Commodo, 4, 5 e 11).

La trappola per Clodio Albino Un altro caso di impiego dei frumentarii come «eliminatori» è forse ricordato nell’episodio in cui Settimio Severo inviò presso il rivale Clodio Albino alcuni militi di sua fiducia come messaggeri. Gli ordini segreti erano di attirare Albino in un colloquio riservato e quindi di

M. Aquilio Felice

assassino di senatori e comandanti Didio Giuliano, proclamato imperatore a Roma nel 193 d.C., inviò propri agenti a uccidere i suoi rivali al trono Pescennio Nigro e Settimio Severo. Contro quest’ultimo venne inviato il centurione Aquilio «noto assassino di senatori». Da altre fonti sappiamo che egli fu un centurio frumentarius rinomato anche come «assassino di comandanti» e che proprio durante l’età dei Severi svolse una notevole carriera giungendo al grado di ammiraglio della flotta di Ravenna. Considerato che ciò avvenne durante il regno dell’uomo che era stato inviato a uccidere, non ci sarebbe da stupirsi se Aquilio, persona evidentemente di una certa esperienza, compresa la difficile posizione di Didio Giuliano, lo avesse tradito proprio a favore di Severo. Del resto, poco dopo la notizia relativa ad Aquilio, la nostra fonte ci informa che Severo inviò a Roma, ai pretoriani, l’ordine di uccidere Giuliano. Non sembra cosí improbabile che quegli ordini fossero stati portati a Roma proprio da Aquilio, impegnato in un fruttuoso «doppio gioco».

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ucciderlo (Storia Augusta, Albino, 8, 1-3). Lo stesso episodio è ricordato anche da Erodiano (3, 5, 4-5), che ci fornisce particolari interessanti: «[Severo] convocò i piú fedeli dei messaggeri imperiali e diede loro ordini segreti. Recatisi presso Albino avrebbero dovuto consegnargli pubblicamente una lettera, e nello stesso tempo chiedergli un’udienza privata per comunicazioni riservate. Quando egli avesse accondisceso, e fosse perciò senza scorta, dovevano aggredirlo di sorpresa e ucciderlo. Diede loro anche un veleno mortale, perché tentassero di farglielo somministrare a tradimento corrompendo un coppiere o un cuoco».


M. Oclatinio Advento

la spia che divenne prefetto di RomA M. Oclatinio Advento iniziò la sua carriera come speculator nell’ufficio di un governatore provinciale e divenne poi un centurio frumentarius. Siamo negli anni tra il 170 e il 180 d.C.: in seguito egli raggiunse la qualifica di princeps peregrinorum durante il regno di Settimio Severo. Tuttavia, la sua carriera non si arrestò e cosí, non prima del 213 d.C., egli divenne prefetto al pretorio, successivamente fu ammesso in senato, ricoprí il consolato nel 218 e infine, con grande scandalo viste le sue origini sociali, la prefettura urbana di Roma. Nel frattempo, tra il 205 e il 207, era stato procuratore in Britannia e il suo nome appare collegato alla ricostruzione di due forti prossimi alle odierne località di Chesters e Risingham. Quest’ultimo forte, almeno dal 213, fu la sede di un’unità di spie militari, gli exploratores Habitacenses. È stato quindi pensato che la presenza di Oclatinio Advento non fosse casuale e che egli, con la sua esperienza, dovesse in qualche modo partecipare alla creazione di questa nuova organizzazione.

Una scena del film Centurion, nel quale si ipotizzano le ultime vicende della IX legione romana in Britannia, prima della sua misteriosa scomparsa nel II sec. d.C.

Durante il breve principato di Macrino, il legame tra frumentarii e sicurezza dell’imperatore è confermato da un episodio riferito dalla nostra fonte in termini grotteschi. Informato da un frumentarius che alcuni soldati avevano tentato di insidiare una schiava di un suo ospite, Macrino li puní facendoli cucire all’interno di due buoi, lasciando sporgere la sola testa «cosicché potessero parlare tra loro» (Storia Augusta, Macrino, 12, 1 e 4-5). Infatti il frumentarius avrebbe potuto apprendere del comportamento dei due soldati soltanto durante l’attività di controllo delle persone piú vicine al principe o nel corso della vigilanza allo stesso Macrino. Si riferisce poi forse ai frumentarii un passo della Storia Augusta (Alessandro Severo, 23, 2): «Si procurava informazioni [Alessandro Severo] su ogni persona servendosi di uomini fedeli e dei quali nessuno fosse al corrente che svolgevano questa attività, sostenendo che tutti possono essere corrotti con un prezzo».

Un’ipotesi poco convincente Quanto alle funzioni dei frumentarii, di recente Rose M. Sheldon ha anche affermato che: «A quanto pare, nella città di Roma, i frumentarii lavoravano in stretta collaborazione con la polizia urbana, tanto che sul Celio il quartier generale dei frumentarii era proprio di fronte alla stazione dei vigiles» (Guerra segreta nell’antica Roma, Gorizia 2008). Una tesi suggestiva, ma poco convincente, perché

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In basso La morte di Caracalla in un’incisione ottocentesca di Giuseppe Mochetti su disegno di Bartolomeo Pinelli. L’imperatore morí a Carre, per una congiura ordita dal prefetto del Pretorio e suo successore Marco Opellio Macrino. Nella pagina accanto ritratto di Macrino. III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

basata solo su scarse testimonianze epigrafiche, non idonee a ricostruire un quadro cosí preciso. Inoltre, la casuale vicinanza topografica tra i castra peregrina e una qualsiasi delle tante caserme dei vigiles, in particolare la statio della cohors V non prova nulla, poiché le caserme vennero costruite in epoche differenti e anzi i castra peregrina, per essere edificati in prossimità del centro cittadino, dovettero addirittura occupare quello che appare essere il sito di una precedente domus. Inoltre, un eventuale rapporto tra frumentarii e vigiles sotto il profilo dell’attività di sicurezza dovrebbe piuttosto essere provato da legami tra i castra peregrina e il «comando centrale» dei vigiles, cioè la praefectura vigilum, probabilmente sita in antico presso l’attuale piazza dei Santi Apostoli. Vi è comunque l’errore di considerare i vigiles

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come la «polizia cittadina» di Roma, compito che invece spettava alle cohortes urbanae, essendo riservate alle cohortes vigilum la sorveglianza notturna e quella antincendio. Oltre che a Roma, frumentarii erano presenti a Ostia e a Portus, con funzioni probabilmente connesse ai rifornimenti di grano per l’Urbe, una materia i cui riflessi per l’ordine e la sicurezza pubblica sono di palese evidenza.

Strumento di controllo e propaganda Nei castra peregrina è anche attestata la presenza degli speculatores delle legioni, per i quali l’esecuzione di attività relative all’informazione e alla sicurezza è documentata anche prima della creazione dei castra peregrina. Si tratta, in particolare, di attività di messaggeri in materia di interesse non solo militare e anzi connesse con uno strumento di


controllo sociale come la propaganda e inoltre di attività di disinformazione durante la guerra civile del 68-69 d.C. Nel primo caso gli speculatores vennero impiegati da Caligola come corrieri durante la sua spedizione germanica per portare a Roma la notizia di presunti prodigiosi successi legati anche alla defezione del nobile britanno Adminio (Svetonio, Caligola, 44). Nel secondo caso (Tacito, Storie, 2, 73), invece, gli speculatores furono usati per ingenerare in Vitellio una falsa sicurezza circa il controllo delle province orientali da dove, di lí a poco, si sarebbe sollevato invece Vespasiano. Che non molti anni dopo gli speculatores svolgessero compiti analoghi a quelli dei frumentarii è provato dalla carriera di M. Oclatinio Advento e da un passo di Cassio Dione (77, 17) relativo all’età di Caracalla: «Infatti gli veniva [a Caracalla] riferita da ogni parte ogni cosa, anche quella piú umile, e cosí e per mezzo degli speculatores e dei frumentarii ordinava quelle stesse cose che non erano mai state inflitte da nessuno prima di lui e da ciò non ne nasceva nulla di buono, ma si comportò da tiranno».

Centurioni «in soprannumero» In epigrafi rinvenute nei castra peregrina compaiono anche i centuriones deputati e i centuriones supernumerarii. L’estrema scarsità delle fonti li rende difficilmente inquadrabili: Paul K. Baillie Reynolds (1896-1973)riteneva, per esempio, che i supernumerarii fossero quei militi che, scelti per prestare servizio a Roma, dovessero essere promossi al grado di centurione anche, appunto, «in soprannumero» rispetto al contingente di questi graduati di norma presente in ogni singola legione. Sembrerebbero assenti attestazioni non epigrafiche di questi militi, ma forse il primipilarius inviato da Didio Giuliano a uccidere Pescennio Nigro potrebbe essere identificato come un centurio deputatus o supernumerarius (Storia Augusta, Giuliano, 5, 1-8). Un’altra attestazione è forse contenuta nel racconto della fuga a Roma di Macrino dopo la sconfitta per opera dei Severi. Afferma infatti Erodiano (5, 4, 7-8) che Macrino, nel 218 d.C., preparandosi a

«allo scendere della sera, mentre ancora aveva luogo la battaglia, gettata via la porpora e ogni altra insegna imperiale scappò di nascosto con pochi centurioni da lui considerati fedelissimi. Al fine di non essere riconosciuto si tagliò la barba, indossò una veste da viaggio e si coprí il capo; per prevenire la notizia della propria sconfitta viaggiò notte e giorno, cambiando in gran fretta i cavalli per mezzo dei centurioni, i quali fingevano di essere stati inviati (in missione) per incarichi urgenti da Macrino, che era ancora imperatore». (Erodiano)

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fuggire a Roma «(...) allo scendere della sera, mentre ancora aveva luogo la battaglia, gettata via la porpora e ogni altra insegna imperiale scappò di nascosto con pochi centurioni da lui considerati fedelissimi. Al fine di non essere riconosciuto si tagliò la barba, indossò una veste da viaggio e si coprí il capo; per prevenire la notizia della propria sconfitta viaggiò notte e giorno, cambiando in gran fretta i cavalli per mezzo dei centurioni, i quali fingevano di essere stati inviati [in missione] per incarichi urgenti da Macrino, che era ancora imperatore». Questi centurioni potrebbero essere stati anche centuriones deputati o supernumerarii dei castra peregrina. A proposito di questo episodio, ancora Rose M. Sheldon ha scritto che: «L’imperatore Macrino (217-218 d.C.) sconfitto dai Severi nel 218 scappò travestendosi da frumentarius (...)». Anche questa suggestiva affermazione, tuttavia, appare priva di consistenza: come mostrato da Erodiano, la «veste da frumentarius», è, in realtà, una veste da viaggio.

Attività molto diversificate Fuori dalla città di Roma gli uomini dei castra peregrina, e in primo luogo i frumentarii, svolgevano anche attività tanto diversificate che un comune denominatore può essere individuato solo tenendo sempre presente come gli uomini dei castra del Celio

Roma, il mausoleo di Cecilia Metella, sulla via Appia. Alcune epigrafi attestano l’esistenza di una stazione di posta nella zona circostante il sepolcro e ne ricordano altrettanti successivi restauri.

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Fruttuoso e dei suoi diaconi fu operato in ultima analisi proprio dai frumentarii, dal momento che ad agire furono i beneficiarii consularis, che, come abbiamo visto, erano spesso frumentarii promossi a un grado militare superiore all’atto di essere inseriti nell’ufficio di un governatore provinciale.

Verso lo scioglimento

costituissero parte del tessuto connettivo di una nuova burocrazia imperiale, in gran parte ancora militare, il cui scopo era anche quello di fare circolare le informazioni dal centro alla periferia e viceversa e, inoltre, di garantire ovunque l’esecuzione di quanto ordinato dall’autorità centrale. Si spiega cosí il coinvolgimento dei frumentarii nella riscossione delle tasse, nella direzione, probabilmente di carattere eccezionale, di alcune carceri, nella cura del funzionamento delle cave di marmo di Luni e ancora nell’organizzazione di attività di controllo sociale come i pubblici spettacoli. È anche documentata la sovraintendenza dei frumentarii alla costruzione di particolari opere pubbliche o di infrastrutture militari, come nel caso del centurio frumentarius della legio II Traiana che, nel 170 d.C., coordinò la fortificazione del principale porto della Dalmazia, Salona. L’episodio è stato interpretato come il tentativo di garantire un corridoio marino tra la Dalmazia e l’Italia in coincidenza dell’assedio di Aqulieia da parte di forze germaniche. Ben attestate sono anche le attività dei frumentarii nella lotta al cristianesimo, inteso come fenomeno sociale in grado di minare le fondamenta costituzionali della res publica. In particolare, questa attività dei frumentarii appare spesso condotta in stretto rapporto con i governatori provinciali e i loro officia, in considerazione del fatto che a essi spettava la responsabilità della pubblica sicurezza nelle province di competenza. Nella capitale provinciale Tarragona l’arresto di san

Calco di un rilievo con l’arrivo a una mansio (stazione di sosta). Museo della Civiltà Romana. Gli uomini dei castra peregrina costituivano parte del tessuto della burocrazia imperiale, in gran parte ancora militare, e di conseguenza si occupavano anche di far circolare le informazioni dal centro alle province (e viceversa) e di controllare che gli ordini venissero eseguiti.

In Asia Minore, inoltre, i frumentarii sono attestati in epigrafi che ne commemorano i successi nella lotta contro il brigantaggio, endemico e a tratti anche estremamente pericoloso. La loro presenza è documentata anche da fonti epigrafiche che recano provvedimenti contro abusi di potere commessi da questi e da altri militi, nonché reclami elevati dalle comunità locali all’imperatore o al governatore contro tali comportamenti. Contrariamente alla relativa abbondanza di fonti sulla loro attività, non si hanno notizie certe circa lo scioglimento dei frumentarii e del sistema di informazione e sicurezza articolato sui castra peregrina. È tuttavia opinione comune che, sul finire III secolo d.C., Diocleziano abbia sciolto i frumentarii e tutta la struttura che ruotava attorno ai castra peregrina a causa di abusi come quelli documentati dalle epigrafi dell’Asia Minore. Certo, fonti decisamente ostili al governo centrale, come Aurelio Vittore, da sole non paiono comunque sufficienti a giustificare questa opinione comune e neppure appaiono determinanti le testimonianze epigrafiche relative ad abusi. Esse, infatti, andrebbero valutate in un piú ampio contesto in cui risulta come l’attività svolta da frumentarii sortisse anche effetti positivi contro il brigantaggio. Sarebbe forse piú utile cercare di inquadrare lo scioglimento dei castra peregrina nel piú ampio quadro delle riforme dioclezianee, visto che oltretutto quel servizio di informazioni e sicurezza era stato elaborato per agire nell’ambito di un’organizzazione amministrativa che proprio in quegli anni iniziava a essere profondamente modificata. Di certo, comunque, gli uomini dei castra peregrina vennero sostituiti da quelli della schola agentum in rebus.

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sicurezza interna

l’impero romano da augusto a traiano

L’impero romano da Augusto a Traiano (30 a.C.-117 d.C.)

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I territori di Roma alla vigilia della battaglia di Azio (31 a.C.)

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curiosi

di mestiere l’attività di intelligence venne strutturata con compiti e competenze ben definiti. un sistema che possiamo ricostruire soprattutto grazie alle fonti, che ci hanno lasciato un patrimonio prezioso, spesso composto da vivaci testimonianze di prima mano di Enrico Silverio

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Spalato. I sotterranei del palazzo di Diocleziano, una sorta di enorme villa fortificata eretta tra il 293 e il 305 d.C. All’imperatore si attribuisce la riorganizzazione del sistema di informazione e sicurezza romano, con l’istituzione degli agentes in rebus, inseriti in un’apposita schola, che di fatto sostituivano gli uomini dei castra peregrina, svolgendone gli stessi compiti.

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sicurezza interna

I

ncerta è la data della fondazione del nuovo servizio di informazione e sicurezza, la schola agentum in rebus, ma anche se la prima fonte che menziona gli agentes è una legge imperiale, una «constitutio», di Costantino del 319 d.C. (Codice Teodosiano, 6, 35, 3), si ritiene normalmente che il nuovo corpo fosse stato creato già da Diocleziano. Lo stretto legame tra la vecchia struttura dei castra peregrina e i nuovi agentes in rebus era avvertito anche dai contemporanei come Aurelio Vittore (I Cesari, 39, 44), che paragonavano gli uni agli altri. Gli agentes dovevano quindi indagare e riportare le notizie di fenomeni di carattere eversivo, svolgendo una funzione di cerniera tra il centro e la periferia, avvertita come sempre piú necessaria a causa del moltiplicarsi delle amministrazioni periferiche e dei fattori di crisi emergenti nel tardo antico. Tra l’altro, l’uso del termine tecnico «explorare» da parte di Aurelio Vittore non sembra poter giustificare seri dubbi circa l’esecuzione di queste funzioni a titolo ufficiale da parte degli agentes. Ancora piú esplicito è san Girolamo, secondo il quale «infatti quelli che ora chiamano agentes in rebus, oppure veredarii, gli antichi li chiamavano frumentarii». Questa fonte dimostra anche l’utilizzazione costante delle strutture del cursus publicus, poiché «veredarii» significa qui «utilizzatori dei veicoli e degli animali del cursus publicus».

Messaggeri ed esecutori Per comprendere appieno la funzione degli agentes, quindi, occorre ancora una volta considerare sia il ruolo del cursus publicus, sia le possibili implicazioni che per un agente potevano derivare dall’essere parte integrante ed essenziale di un sistema di comunicazioni che dipendeva direttamente dall’imperatore e dai piú alti funzionari. L’attività di «messaggeri» era quindi necessariamente inscindibile da quella di «esecutori» di ciò che l’imperatore o gli alti funzionari avessero deciso sulla base delle informazioni ricevute. Queste attività sono confermate dal contenuto delle leggi imperiali, «constitutiones», contenute nella raccolta fatta compilare dall’imperatore d’Oriente Teodosio II

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i Protagonisti

diocleziano Ritratto di Caio Aurelio Valerio Diocleziano (243 circa-316 d.C.), imperatore dal 284 al 305. III sec. d.C. Istanbul, Museo Archeologico. Promotore della tetrarchia (il governo dei quattro), riorganizzò i servizi di informazione e di sicurezza.

(408-450) e nota come Codice Teodosiano. Ogni suo libro è diviso in titoli, a loro volta suddivisi appunto in «costituzioni», cioè in leggi imperiali. All’interno del VI libro, ben tre titoli sono dedicati agli agentes in rebus: il 27, De agentibus in rebus, il 28, De principibus agentum in rebus, e, infine, il 29, De curiosis. Come altri codici antichi, quello di Teodosio II, in realtà, è una selezione del contenuto di norme precedenti, le cui disposizioni vengono


della riforma

teodosio ii Flavio Teodosio II (408-450), imperatore d’Oriente dal 408. V sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Sotto il suo regno fu redatto il Codice Teodosiano, una raccolta di constitutiones (leggi imperiali), in cui tre titoli sono dedicati agli agentes in rebus e ai curiosi, addetti al servizio di vigilanza e funzionamento del cursus publicus.

fuse a comporre un nuovo testo normativo: di qui deriva la notevole difficoltà di comprendere il contesto originario e l’intero contenuto dei provvedimenti in seguito selezionati e di cui solo singole porzioni vennero inserite nei nuovi codici da appositi commissari imperiali. Ciononostante, se ci limitiamo alla nostra materia, si ritiene generalmente come la definizione normativa dell’attività istituzionale della schola agentum in rebus sia ora presente

in tre distinte leggi imperiali inserite nel titolo De curiosis solo in fase di redazione del Codice di Teodosio II. Esse dovevano in principio riferirsi all’intero corpo, del quale i curiosi costituivano invece solo una parte. L’attività dei nuovi agenti viene definita come «agere curam rei publicae», cioè prestare la propria attività in tutte le materie di interesse per la res publica, lo «Stato». Una definizione che, considerati i molteplici significati del termine «cura», sembra volutamente molto ampia e che, proprio per questo, sembra però giustificare anche la peculiare denominazione del nuovo corpo, che ha suscitato molte perplessità tra gli studiosi. Tra l’altro, l’espressione «agere curam rei publicae» va ricollegata anche alle qualifiche di alcuni funzionari inviati a svolgere missioni speciali e presenti nel Codice Teodosiano in una legge imperiale databile tra il 315 ed il 319 d.C. (6, 35, 2). A loro volta questi funzionari vanno talvolta identificati con i curiosi menzionati da alcune fonti e da un’altra legge imperiale dello stesso Codice datata 22 luglio 355 d.C. (6, 29, 1). Quella di curiosus, infatti, è una qualifica che, prima di identificare gli agenti che nell’ambito della schola agentum in rebus svolgevano servizi particolari, era usata per definire chiunque fosse incaricato di specifici compiti investigativi.

Agenti speciali Agli agentes in rebus spettava anche l’attività ispettiva sul corretto uso del cursus publicus, definita «inspiciere evectiones cursus publici» oppure «regere cursus» e anzi una legge imperiale del 17 aprile 357 (Codice Teodosiano, 6, 29, 2) assegnò in via esclusiva tale mansione alla schola agentum in rebus e, in particolare, a una speciale categoria di agenti detti curiosi e diversi dai funzionari con lo stesso nome dei quali si è detto piú sopra. Le due attività del nuovo servizio di informazioni e sicurezza sono menzionate anche in una legge imperiale di Costanzo II (337-361) del 30 novembre 359 (Codice Teodosiano, 6, 29, 4). L’inserimento di queste leggi imperiali nel titolo del Codice dedicato in modo particolare ai curiosi piuttosto che in quello generale sull’intera schola può lasciare perplessi, ma non

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sicurezza interna

Una fonte che, tuttavia, sembrerebbe utile per fugare ogni dubbio circa lo svolgimento a titolo ufficiale o meno di attività di sicurezza da parte degli agentes in rebus potrebbe essere Giovanni Lido, funzionario della prefettura al pretorio nell’età di Giustiniano I (527-565) e autore, tra gli altri, del trattato in greco Sulle magistrature del popolo romano. Giovanni Lido, infatti, nell’indicare gli agentes impiega la traslitterazione greca del latino frumentarii, con ciò attestando oltre ogni ragionevole dubbio il legame tra le due istituzioni e confermando implicitamente, con il peso della sua esperienza nella pubblica amministrazione, la

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Un chiarimento prezioso

A destra l’impero romano nel IV sec. d.C. Sono evidenziati i confini alla morte di Teodosio I (395) e la successiva divisione tra Oriente e Occidente. In basso pagina da un manoscritto del Codice Teodosiano conservato nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino. La difficile interpretazione di alcune leggi nel titolo dedicato ai curiosi è dovuta all’inserimento nel Codice di norme estrapolate da leggi piú ampie e senza considerarne il contesto originario

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si deve dimenticare che le circostanze dell’inserimento dell’una o dell’altra legge in uno dei titoli del Codice prescindono dalle circostanze della loro redazione originaria e, in definitiva, si giustificano solo sulla base delle esigenze dei compilatori. Esistono comunque vivaci dibattiti tra chi nega lo svolgimento a titolo istituzionale di attività di sicurezza da parte della schola e chi ritiene che esse ne costituissero invece uno dei compiti ufficiali. La controversia muove anche dalla circostanza che la legge imperiale nella quale le attività di sicurezza politica sono chiaramente indicate (Codice Teodosiano, 6, 29, 4) venne inserita proprio nel titolo del Codice dedicato ai curiosi invece che in quello generale dedicato agli agentes.

Principali battaglie contro i barbari e data Invasioni e incursioni barbariche

L’impero e il cristianesimo nel IV secolo Editto di Milano (313) Concilio di Nicea (325)

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sicurezza interna

le cariche civili e militari nel IV secolo imperatore

cariche militari

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Comandavano gli eserciti mobili

Sovrintendevano alle prefetture dell’impero

comites

magister officiorum

Controllava il personale amministrativo e a lui spettava l’organizzazione della corte e delle udienze imperiali

(conti)

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(duchi) Comandavano gli eserciti regionali

comes domesticorum Comandava la guardia scelta del Palazzo

Insegne del prefetto del pretorio (in alto) e del magister officiorum (in basso), miniature da un’edizione illustrata della Notitia Dignitatum, registro delle cariche civili e militari dell’impero romano composto tra la fine del IV e il V sec. d.C. XVI sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek.

comes sacrarum largitiorum

Controllava miniere e zecche, incassava tributi e si occupava delle finanze

comes rerum privatarum

Controllava le proprietà imperiali

quaestor

Si occupava della cancelleria imperiale

primicerius notariorum

Dirigeva la segreteria imperiale (notarii)

comes et castrensis sacrii palatii Sovrintendeva al funzionamento del Palazzo imperiale

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«L’ordine amministrativo e politico era controllato dal magister officiorum sia per mezzo dei suoi agentes sia attraverso una sorveglianza sul punto di raccordo di tutta l’attività dello Stato, le segreterie imperiali» (Andrea Giardina)

natura ufficiale delle attività degli agentes. Dal punto di vista dell’organizzazione, gli agentes in rebus, a differenza degli uomini dei castra peregrina, erano riuniti in un corpo unitario definito, come altre strutture palatine, «schola». Si ritiene che la schola agentum fosse in origine subordinata al prefetto al pretorio, ma che, in breve tempo, la limitazione delle competenze, la moltiplicazione e la regionalizzazione di questa prefettura avrebbero causato lo spostamento della dipendenza a favore del magister officiorum. Il problema delle origini dei nuovi agentes si fonde cosí con l’analoga questione del funzionario destinato per secoli a esserne il direttore. La prima attestazione sicura di un magister officiorum risale al 324 d.C.: si tratta di Martiniano, magister di Licinio (308-324) e menzionato da diverse fonti. Una di queste, Giovanni Lido, ci informa però che Martiniano non fu il primo magister officiorum e, in effetti, da due costituzioni del Codice Teodosiano veniamo a conoscenza, per gli anni 321 e 323 d.C., di due diversi funzionari, definiti tribunus et magister officiorum. È stato ipotizzato che questo funzionario assumesse sino dalla sua creazione il controllo degli uffici centrali attraverso cui l’imperatore manteneva il contatto con la periferia dell’impero, gli scrinia memoriae, epistularum e libellorum. Ben presto dovettero aggiungersi il controllo generale su tutti gli uffici della corte, il comando della nuova guardia imperiale costituita dalle scholae palatinae e la gestione degli affari diplomatici. La prima fonte che, invece, ci informa con chiarezza della subordinazione della schola agentum in rebus al magister è una legge imperiale del 359 (Codice Teodosiano, 1, 9, 1), ma generalmente si sostiene che tale rapporto fosse iniziato durante il regno di Costantino (306-337). All’incirca dagli anni Quaranta del IV secolo

d.C. l’attività di vigilanza nei confronti della burocrazia imperiale venne perfezionata con l’invio di agentes in rebus, in servizio e di grado elevato, a svolgere le funzioni di capi degli uffici dei piú importanti funzionari civili e militari dell’impero. A ciò si aggiunse, anche a scapito della prefettura al pretorio, il controllo delle fabbriche di armi e la generale attività di vigilanza sull’uso del cursus publicus, cioè del principale strumento di comunicazione dell’impero. Già intorno alla prima metà del IV secolo d.C., il magister officiorum, anche grazie agli agentes in rebus, appare titolare di una serie di attività ispettive e di controllo tanto estese da rendere difficile agli studiosi una definizione completa e univoca della sua posizione in termini moderni, da alcuni indicata come «una specie di ministro della burocrazia» o di «ministre de l’Intérieur».

Segreterie imperiali In sostanza, come ha scritto Andrea Giardina, «L’ordine amministrativo e politico era controllato dal magister officiorum sia per mezzo dei suoi agentes sia attraverso una sorveglianza sul punto di raccordo di tutta l’attività dello Stato, le segreterie imperiali. In altre parole, soltanto una conoscenza diretta e illimitata della corrispondenza e degli atti di corte poteva rendere completa ed efficiente la funzione di magister officiorum» (Aspetti della Burocrazia nel Basso Impero, Roma 1977). In questo periodo, tuttavia, incarichi particolari e riservati vennero affidati anche a soggetti per i quali queste funzioni potevano essere normalmente estranee, ma che comunque godevano della fiducia dell’imperatore. Si tratta di funzionari definiti curagendarii, ma tali incarichi potevano essere affidati anche ai notarii, i «segretari imperiali» della schola notariorum o alle guardie imperiali, riunite nel corpo dalle scholae palatinae o

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sicurezza interna

nell’organizzazione dei protectores domestici. Questi ultimi sembrano avere affinità con gli agentes in rebus. Sorti durante l’anarchia militare del III secolo d.C., si vennero infine configurando per la loro preparazione pratica e teorica come una sorta di élite militare idonea a svolgere diversificati incarichi amministrativi e missioni speciali. In un certo senso, come gli agentes, anche i protectores dovevano garantire la funzionalità e l’uniformità dell’amministrazione, benché in circostanze e con metodi naturalmente diversi. Tornando ai nostri agentes in rebus, essi dovettero avere in principio status militare, come proverebbero i gradi rivestiti dal personale: biarchi, centenarii e ducenarii (Codice Teodosiano 1, 9, 1). Durante il regno di Giuliano (361-363), sia Libanio che Ammiano Marcellino (22, 7, 5) attestano una massiccia epurazione della schola, i cui effettivi sarebbero stati ridotti a soli 17 elementi rispetto ai circa 1000 che si

stima dovessero essere in servizio in precedenza. Nell’età dell’imperatore d’Oriente Leone I (457-474) una legge imperiale di datazione incerta tra il 457 e il 470 d.C., ci informa in quali gradi erano inquadrati gli agentes e ci fornisce anche il numero di effettivi per ciascun grado: in ordine crescente 450 equites, 300 circitores, 250 biarchi, 200 centenarii e 48 ducenarii, per un totale di 1248 effettivi (Codice Giustinianeo, 12, 20, 3).

Avanzamenti di carriera Arrivato al grado di ducenarius un agente avrebbe potuto essere trasferito nella schola notariorum o continuare il proprio servizio nella carriera dirigente della sua schola con la qualifica di princeps, cioè di capo dell’ufficio di un funzionario civile e militare della burocrazia periferica, o, ancora, avrebbe potuto essere promosso adiutor, cioè direttore della schola e aiutante del magister officiorum. Un agens con particolari capacità avrebbe inoltre potuto ottenere la qualifica di curiosus, cioè di agente addetto alla sorveglianza sulla corretta

servizi deviati Attorno a Q. Aurelio Simmaco, prefetto urbano di Roma nel 384-385 d.C., si muovono interessi e lotte inquadrabili nei dissidi tra ambienti cristiani e pagani. Le Relationes del prefetto, «rapporti ufficiali» destinati alla corte di Milano, informano su di un complotto svolto tra maggio-giugno e novembre del 384, materialmente condotto da un tribunus et notarius e da almeno due agentes in rebus. Il prefetto riuscí a scamparvi anche grazie all’agens che, in qualità di princeps, dirigeva l’ufficio della prefettura urbana. Il complotto prevedeva di accusare Simmaco di aver autorizzato il trasferimento di un testimone per evitare che costui testimoniasse contro l’ex prefetto urbano Basso, accusandolo di certi abusi. Nell’intricata vicenda, per scagionare Simmaco, divenne fondamentale la testimonianza di un certo Felice, che però fu rapito dagli agenti del notarius Fulgenzio. Grazie all’intervento del princeps che dirigeva l’ufficio della prefettura, Felice venne liberato e scortato in tribunale: le sue dichiarazioni e quelle dello stesso princeps scagionarono Simmaco, consentendo di svelare il complotto. A Fulgenzio non restò che fuggire a Milano il piú velocemente possibile con il cursus publicus (Simmaco, Relazioni, 23).

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A destra medaglione in oro di Costanzo II (317-361; imperatore dal 337), figlio e successore di Costantino il Grande, con l’imperatore che regge il globo e una vittoria alata. IV sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen. Durante il suo regno vi furono vari episodi e congiure che videro protagonisti comandanti delle scholae palatinae, domestici (militari con incarichi amministrativi), notarii (segretari imperiali) e agentes in rebus.

utilizzazione del servizio pubblico di comunicazioni, il cursus publicus. Un elenco degli uffici civili e militari delle due parti dell’impero, la Notitia dignitatum, ci informa che i curiosi pur restando agentes in rebus effettivi svolgevano un servizio distaccato rispetto al resto del corpo e dipendevano direttamente da un funzionario dell’ufficio del magister officiorum che aveva la qualifica di curiosus cursus publici praesentalis, anch’egli un agens in rebus. Tra gli altri agenti in servizio nell’ufficio del magister officiorum si distinguevano anche gli aiutanti addetti al controllo delle fabbriche pubbliche di armi, i subadiuvae fabricarum diversarum, quelli preposti agli «affari barbari», i subadiuvae barbarorum, e, infine, gli interpreti, interpretes omnium gentium o diversarum gentium, essenziali per svolgere l’attività diplomatica.

Al vertice dell’apparato burocratico

Nella pagina accanto valva del dittico in avorio di Quinto Aurelio Simmaco, prefetto urbano di Roma nel 384-385, con scena di apoteosi. Fine del IV sec. d.C. Londra, British Museum. Nel 384 Simmaco scampò a un complotto ordito da un tribunus et notarius e da alcuni agentes in rebus.

Meritano un’attenzione particolare i principes, a cui abbiamo accennato sopra. La carriera di un agens non necessariamente si arrestava al grado di ducenarius, ma poteva giungere anche alla qualifica di princeps. Si ritiene che si trattasse di agenti effettivi che avrebbero potuto prestare servizio come «dirigenti», sia negli uffici «maggiori», sia in quelli «minori» della burocrazia imperiale. Esistenti con sicurezza dal 368 d.C. ma probabilmente già menzionati in un episodio del 355, la loro posizione di vertice nell’apparato burocratico periferico li rendeva da un lato controllori e garanti dell’uniformità politica e amministrativa dell’impero e dall’altro protagonisti di quell’azione amministrativa su cui dovevano comunque vigilare. È dunque sbagliato, come talvolta viene fatto, presentare i principes come semplici «spie» o come figure analoghe ai «commissari politici» dell’esperienza sovietica e poi svalutarne l’efficacia sulla base della

mancata notizia, nelle fonti, di memorabili delazioni dei principes ai danni dei funzionari nei cui uffici essi prestavano servizio. Solo se il controllo operato dai principes si valuta anche in termini di ordinaria e quotidiana azione amministrativa si può comprendere perché le fonti non riportino alcun caso eclatante di delazione dei principes ai danni degli alti funzionari e perché, anzi, siano a volte ricordati casi di stretta collaborazione. Quanto ai curiosi, il loro compito non sembra esaurirsi in quello di semplici «ispettori postali», poiché essi avevano la responsabilità di garantire il corretto fluire delle notizie lungo il sistema di comunicazione pubblico, perseguendo ed eliminando ogni illegittimo comportamento che potesse in qualche modo rallentare il sistema. Durante il regno di Giuliano e sino al 390 d.C., si ritiene che questa sorveglianza sul cursus publicus fosse tolta alla schola per essere affidata a personale anziano delle scholae palatinae detto primi scholarum, ma altri giudicano che in questi funzionari siano invece da riconoscersi proprio agentes in rebus con il grado di ducenarii. Dalle fonti giuridiche si rileva l’attenzione a limitare l’operato dei curiosi alle sole vicende relative al funzionamento del cursus, allo scopo di evitare che essi tralasciassero la loro funzione primaria. Tuttavia in casi eccezionali e probabilmente temporanei, i curiosi potevano anche essere incaricati di sovraintendere all’intero funzionamento di settori del cursus publicus, assumendo la qualifica di praepositi cursus publici. Il numero dei curiosi in ciascuna provincia subí diverse oscillazioni: nel 390 d.C. si inviava un solo funzionario e, nel 412, questo numero venne modificato, ma una serie di scandali provocò nel 414 l’allontanamento dei curiosi dall’Africa, nel 415 dalla Dalmazia e nel 445 dalla Numidia e dalla Mauretania Sitifensis. Con Giustiniano I è probabile che il loro numero tornò a essere di uno per provincia

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sicurezza interna

L’agente e la Santa Un caso davvero particolare fu quello del curiosus Messalla che, a Tripoli, nel 436 d.C., avrebbe negato il permesso di usare il cursus a santa Melania e al suo seguito, poiché alcuni degli accompagnatori erano privi delle necessarie autorizzazioni. Durante la notte, tuttavia, la santa donna si sarebbe recata in preghiera in un luogo altrettanto santo, il Martirio di Leonzio, e la mattina seguente l’intero corteo sarebbe ripartito con tutti gli animali del cursus necessari. Percorse solo sette miglia, tuttavia, i viaggiatori

durante l’impero, incarichi particolari e riservati vennero affidati anche a soggetti per i quali queste funzioni potevano essere normalmente estranee, ma che comunque godevano della fiducia dell’imperatore, come, in età tardo-antica, nel caso dei notarii, i «segretari imperiali»

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sarebbero stati raggiunti dall’agente Messalla, che avrebbe richiesto al presbitero che accompagnava Melania di intercedere presso la donna affinché questa perdonasse il suo precedente comportamento. Messalla, infatti, avrebbe poi spiegato di avere avuto una rivelazione notturna grazie a san Leonzio. L’episodio, di cui esistono una redazione latina e una greca, coinvolge probabilmente anche questioni di mobilità sociale molto interessanti e legate allo stesso Messalla, che però non possono essere qui affrontate.

In alto miniatura raffigurante Melania la Giovane (383-439), dal Menologio di Basilio II (imperatore dal 976 al 1025), codice miniato bizantino con il calendario dei santi. Fine del X sec. Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana. Nel 436 la santa e il suo seguito si videro negare il permesso di usare il cursus publicus da Messalla, curiosus che sopraintendeva al funzionamento del servizio a Tripoli. Nella pagina accanto rilievo con figure di notarii. Età tardo-antica. Ostia Antica, Museo Ostiense.

(Codice Teodosiano, 6, 29, 7 e 10-12). In alcune leggi imperiali, come una Novella, cioè «nuova legge», dell’imperatore d’Occidente Valentiniano III (425-455), si nota la presenza di curiosi litorum, apparentemente una sorta di curiosi «addetti alle coste». Alcuni studiosi ritengono si tratti di normali curiosi, addetti però al controllo del traffico marittimo ed eventualmente alla riscossione delle tasse a esso collegate. Altri, invece, ricordando le ampie competenze in materia di sicurezza del magister officiorum, tendono a identificarli come speciali agenti addetti alla sorveglianza delle coste e a metterli in relazione con altre tipologie di curiosi.

La trappola per il Cesare Gallo Passiamo ora a osservare alcuni esempi del concreto funzionamento del servizio informativo e di sicurezza nell’età tardo-antica, della sua efficacia e anche dei suoi abusi. Come sopra ricordato, le attività di informazione e di sicurezza, sebbene spettanti di norma alla schola agentum in rebus non di rado erano svolte anche dai protectores domestici, da ufficiali delle scholae palatinae o da membri della schola notariorum. In circostanze eccezionali, anche altro personale palatino che godeva della fiducia, talvolta malriposta, dell’imperatore, poteva essere incaricato di indagini. Nel 354 d.C. Costanzo II (337-361), preoccupato per gli eccessi che il Cesare Gallo

(351-354) aveva commesso ad Antiochia, decise di tendere una trappola al co-imperatore e, dopo averlo attirato presso di sè, processarlo. Gallo fu «accompagnato» dal tribuno Scudilone, comandante di una schola palatina, la schola Scutariorum, e durante il tragitto, nel racconto fatto da Ammiano (14, 11), Costanzo II appare costantemente informato dell’operato di Gallo. Al corteo, che viaggiava con dieci veicoli del cursus publicus, si unirono quindi anche altri funzionari e ufficiali, tra cui il comes dei domestici Lucilliano e Bainobaude, comandante di un’altra schola palatina. La stretta sorveglianza cosí realizzata impedí che Gallo potesse essere avvicinato dai suoi fedeli. Il Cesare venne infine arrestato a Poetovio, nel Norico, da Barbazione, già comandante delle guardie dello stesso Gallo e dall’agens in rebus Apodemio, alla testa di alcuni militi. Prelevato, condotto a Pola, interrogato dal notarius Pentadio, dal tribunus della schola Armaturae Mellobaude e dal praepositus sacri cubiculi Eusebio, Gallo venne fatto decapitare e all’esecuzione parteciparono Pentadio, l’agente Apodemio e un oscuro personaggio di nome Sereniano. Seguirono feroci indagini tra i funzionari dello stesso Gallo, nel corso delle quali si distinse tristemente il notarius Paolo, brutale e corrotto, soprannominato «la Catena», «perché era in grado di stringere nodi indissolubili di calunnie» (Ammiano, 15, 3, 4). Questo personaggio, informa Ammiano (14, 5,

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6-9), aveva già imperversato in Britannia nel 353-354 durante le deportazioni dei militi che avevano appoggiato il tentativo imperiale di Magnenzio. In quell’occasione, senza che nessuno osasse opporsi, ordí trame inestricabili a danno di innocenti o di semplici sospetti, con il proposito di presentarsi a Costanzo II come il perfetto campione della sua sicurezza. Martino, vicario del prefetto al pretorio, dopo aver inutilmente protestato per queste illegalità, tentò di uccidere il potente notarius, che però venne solo ferito: al vicario, invece, non rimase altra scelta che il suicidio. Resosi responsabile di analoghi abusi nel 355 e ancora nel 359, finalmente, nel 361, Paolo venne arrestato su ordine di Giuliano, nel frattempo asceso al trono, condannato a morte e bruciato vivo. Con lui venne giustiziato anche l’ex agens in rebus Apodemio, che Ammiano definisce (15, 5, 8) «vecchio e pericoloso nemico di tutte le persone oneste».

l’espulsione del patriarca

Le macchinazioni di Rufino Nel 355 d.C. si colloca l’episodio narrato da Ammiano (15, 3, 5-11) in cui l’agens in rebus Gaudenzio riferí a Rufino, princeps della prefettura al pretorio, che, nel corso di un banchetto offerto a Sirmium da Africano, governatore della Pannonia Secunda, alcuni funzionari e ufficiali avevano criticato violentemente Costanzo II e avevano riferito presagi e profezie relative alla fine del suo regno. In realtà, i partecipanti al banchetto erano soltanto ubriachi, ma il rapporto provocò l’invio in Pannonia del protector domesticus Teutomere e di un altro ignoto protector per arrestare chi era stato presente al banchetto: costretti a confessare sotto tortura essi vennero condannati a morte. Lo stesso Rufino è ricordato da Ammiano anche in un’altra occasione (16, 8, 3-7), in cui tentò di costruire le prove di una nuova congiura della quale poi presentarsi a Costanzo II come lo scopritore. Questa volta, però, l’inchiesta fu affidata a due alti funzionari, che vennero infine a capo del piano di Rufino, il quale fu senz’altro condannato a morte. Di segno opposto a quelle sinora ricordate fu

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invece l’operazione del notarius Filagrio contro il re degli Alamanni, Vadomario, nel 361 d.C. Quest’ultimo era stato segretamente incaricato da Costanzo II di gettare nel caos le province governate da Giuliano, ma di questo piano erano circolate solo ipotesi, finché gli agenti della gendarmeria di Giuliano, gli stationarii, durante un controllo, trovarono un segretario


Qui accanto Scalea (CS), S. Nicola in Plateis. Affresco raffigurante san Giovanni Crisostomo. IX-XI sec. Nella pagina accanto un tratto delle mura di Istanbul, l’antica Costantinopoli, innalzate sotto il regno di Teodosio II.

Tra le fonti non giuridiche relative ai curiosi provenienti dalla schola agentum in rebus, ve ne è una che ricorda l’espulsione da Costantinopoli del patriarca Giovanni Crisostomo nell’anno 403 d.C. durante una disputa religiosa con un altro prelato, Teofilo (Patrologia Greca, 52, 532). La nostra fonte, lo stesso patriarca, indica questo funzionario in greco come il kouriosos tes poleos e alcuni studiosi moderni, pensando che l’allontanamento di Giovanni Crisostomo dovesse avvenire per mezzo del cursus publicus, vi riconoscono il curiosus cursus publici praesentalis in servizio a Costantinopoli. Altri, invece, credono si possa trattare del princeps della prefettura urbana di Costantinopoli, amministrazione che, a causa delle sue responsabilità nel mantenimento dell’ordine pubblico, sarebbe stata logicamente incaricata di eseguire l’espulsione. In ogni caso sarebbe stato quindi un agens in rebus a espellere il patriarca.

di Vadomario in possesso di lettere che facevano luce su questi intrighi. Giuliano, che non poteva agire troppo apertamente, decise dunque di tentare l’arresto del re con un’operazione segreta di cui fu incaricato il notarius Filagrio, il quale godeva di una particolare fiducia. In occasione di una missione in alcuni territori delle Gallie, Filagrio ricevette ordini

riservati, che avrebbe dovuto aprire solo qualora avesse incontrato Vadomario in territorio romano. Mentre il notarius si trovava presso un forte, Vadomario attraversò il confine con il suo seguito e accettò dal comandante del forte l’invito a un banchetto cui era stato invitato anche Filagrio. Questi lesse quindi l’ordine riservato di Giuliano e, al termine del banchetto, arrestò Vadomario, dando ordine al comandante del presidio, dopo avergli mostrato gli ordini di Giuliano, di curarne la custodia. Vadomario venne cosí inviato nelle Spagne per mantenerlo il piú possibile lontano dalle Gallie e da ogni contatto con Costanzo II (Ammiano, 21, 3-4).

Un’indagine scrupolosa Anni dopo, nel 365 d.C., durante il regno di Valentiniano I (364-375) e di Valente (364378), ancora Ammiano (26, 5, 14) ci informa che notarii e guardie imperiali furono incaricati di sovraintendere all’apparato difensivo dell’Africa e che, nel 374, il notarius Paterniano, inviato in Illirico per verificare un rapporto pervenuto dal prefetto Probo circa sconfinamenti di barbari, «indagò la cosa con una scrupolosa indagine» (30, 3, 2). Costanzo II, cosí criticato da Ammiano, non mancò tuttavia di tenere atteggiamenti fermi contro malcostume e sopraffazioni degli agentes in rebus. Cosí, le sue leggi, conservate nel Codice Teodosiano, vietano incarcerazioni, calunnie, corruzione e raccomandazioni. In ogni caso, questi abusi contribuirono di certo al drastico ridimensionamento del corpo operato da Giuliano e del quale si è accennato. Per gli anni seguenti, le Epistulae e le Relationes, «rapporti ufficiali», di Q. Aurelio Simmaco, prefetto urbano di Roma tra il 384 e il 385 d.C., ci mostrano agentes e notarii in attività piú quotidiane rispetto a quelle descritte da Ammiano. Per esempio, nella tarda estate del 384, Simmaco menziona (Relazioni, 18) un notarius incaricato di sovraintendere alla raccolta e alla spedizione delle annonae dall’Africa a Roma, il che peraltro aiuta anche a meglio inquadrare lo

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svolgimento di simili attività in passato da parte degli uomini dei castra peregrina. Tra il dicembre 384 e il gennaio 385, invece, un agens in rebus venne inviato a Roma per prendere in consegna la documentazione pertinente l’attività pubblica svolta dal prefetto al pretorio Vezzio Agorio Pretestato, deceduto poco tempo prima ed esponente di spicco della corrente culturale pagana osteggiata da ambienti di corte (Relazioni, 24). In altri rapporti ufficiali di Simmaco, gli agentes sono invece addetti a prelevare e a condurre a corte personaggi che dovevano essere processati presso i tribunali dei funzionari centrali (Relazioni, 30 e 38).

Ai confini dell’impero e oltre L’attività di corrieri degli agentes in rebus è menzionata in alcune orazioni ed epistulae di Libanio, che li definisce anche «occhi dell’imperatore» (Orazioni, 18, 140-145). Piú tardi, agli inizi del V secolo d.C., notarii e altri funzionari delle amministrazioni centrali intervengono per vigilare sul mantenimento dell’ordine pubblico da parte del prefetto urbano Aurelio Anicio Simmaco durante gli scontri del 418-419 per la successione a papa Zosimo. Cosí, accanto alle forze di sicurezza della prefettura urbana vediamo operare il tribunus et notarius Afrodisio o il cancellarius Vitulo. Gli agentes, comunque, sono presenti anche ai confini dell’impero e oltre. Sappiamo per esempio che uno di loro era di stanza presso la città di Clesma, importante snodo marittimo per i collegamenti con l’India, nei confronti della quale era incaricato anche di una certa attività diplomatica (Pietro Diacono, I luoghi santi, 18). Due leggi imperiali di Teodosio II emanate nel 443 d.C. attribuirono poi al magister officiorum la sorveglianza dell’intero limes orientale e non indifferenti poteri di controllo in ambito militare. Proprio per l’età di Teodosio II lo storico di lingua greca Prisco di Panion ricorda che l’imperatore, meditando il piano per uccidere Attila, si consultò con il magister officiorum Martinalio, il quale «era del tutto partecipe delle decisioni dell’imperatore, perché aveva ai suoi ordini gli agentes, gli interpretes e i soldati delle scholae palatinae» (Prisco, frammenti 7 e 8).

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complotto contro Attila Parigi, Palazzo dell’Assemblea Nazionale. Affresco di Eugène Delacroix raffigurante Attila e le sue orde barbariche che devastano l’Italia e le sue arti. 1838-1847. Nel 448 un gruppo di agentes in rebus organizzò un complotto per uccidere il re unno, che fallí per il «doppio gioco» di un congiurato.


Nel 448 d.C. un’ambasceria romana, a cui prese parte lo storico Prisco di Panion, si recò presso Attila, re degli Unni. Di essa faceva parte, in qualità di interprete, Bigila. La sua appartenenza alla schola agentum in rebus è stata sostenuta sulla base della presenza di interpretes sia presso il magister officiorum della parte occidentale dell’impero che presso il magister della corte di Costantinopoli. Durante l’ambasceria ebbe luogo un tentativo di uccidere il re unno per mezzo di un suo connazionale, Edecone, il quale, a sua volta, avrebbe tradito i Romani, svelandone il piano. Il complotto sarebbe stato organizzato dal potente eunuco Crisafio, uno dei principali consiglieri di Teodosio II, con il successivo avallo dello stesso imperatore e del magister officiorum Martinalio. Bigila avrebbe fatto invece parte del complotto sin dall’inizio. Non è però mancato chi, tra i moderni, non ha seguito questa interpretazione fornita dallo stesso Prisco e ha ipotizzato una sorta di operazione dei «servizi deviati». L’omicidio di Attila, in questa prospettiva, sarebbe stato organizzato da un partito della corte contrario a una politica accomodante verso gli Unni, favorevole a uno scontro diretto con loro e verso cui avrebbe avuto simpatie lo stesso Prisco. L’uccisione del re barbaro avrebbe dovuto infatti rappresentare un perfetto casus belli (Prisco, frammenti 7 e 8).

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Statua eroica, dal teatro di Cassino. Metà del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La natura della statua è rivelata dalla spada, solo in parte conservata, impugnata nella mano sinistra. Fino allo scontro con Annibale, l’esercito romano agí secondo principi ispirati dalla lealtà, anche nei confronti del nemico.

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La sicurezza militare

Chi erano gli 007 che agivano per conto dell’imperatore? Testimonianze letterarie e archeologiche permettono di definire un ritratto piú che affidabile di questi personaggi. I quali, tuttavia, non erano sempre agenti di mestiere, ma potevano essere militari temporaneamente assegnati alla raccolta delle informazioni e ai servizi di spionaggio

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quando il gioco

si fa sporco... La concezione «cavalleresca» che aveva caratterizzato il confronto con il nemico nella roma delle origini scompare durante le guerre combattute contro annibale. Aprendo la strada all’uso di mezzi poco ortodossi, tra cui l’impiego di spie e informatori di Anna Maria Liberati

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Mucio Scevola, olio su tela di Girolamo Brusaferro. Prima del 1760. Introdottosi nell’accampamento degli Etruschi per ucciderne il re, Porsenna, il Romano fu smascherato: il suo sacrificio può essere inteso come la punizione rituale di uno spergiuro, tale in quanto venuto meno al principio della fides.

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sicurezza militare

P

rendendo a prestito un termine di sapore medievale, cioè «cavalleria», i Romani dell’età piú antica e fino alle guerre puniche sono stati definiti latori di un’etica comportamentale che si può identificare con i concetti di lealtà e correttezza, anche e soprattutto nei confronti del nemico. Si trattava infatti di valori trasversali nati nell’universo aristocratico arcaico, in seguito estesi agli organismi cittadini e quindi sin dall’inizio non limitati alla sola città di Roma. Questo sentimento permeava cosí fortemente l’élite aristocratica arcaica da essere addirittura personificato in una divinità: la Fides. D’altro canto, l’elemento religioso era talmente intrecciato alle vicende degli uomini che il diritto umano, lo ius, si compenetrava con quello divino, il fas. Poiché l’avvento di tale sistema giuridico-religioso era connaturato con la nascita stessa della città, avvenuta proprio per volere divino, e alla promessa dell’eternità del suo impero, cosí gli uomini per permettere l’avverarsi di un tale destino avrebbero dovuto dimostrare verso gli dèi una particolare devozione e soprattutto l’osservanza della fides: in tal modo non sarebbe venuta meno la pax deorum, il buon rapporto tra uomini e dèi.

Gli antichi ritenevano che la condizione naturale fra gli uomini fosse la pace, e, del resto, in una società in principio essenzialmente contadina e dedita soprattutto alla pastorizia e alla cura dei campi, la guerra era considerata un evento negativo. E, se proprio inevitabile, si voleva essere ben sicuri non solo della sua ineluttabilità, ma anche del rifiuto del nemico a ottemperare a quelle norme divine e umane che proprio con il suo comportamento erano state offese. Una guerra quindi sarebbe stata qualificata come «giusta» solo dopo che i feziali, i sacerdoti preposti a custodire i valori di cui si è parlato anche in rapporto agli altri popoli, avessero eseguito i numerosi rituali previsti per garantirsi l’appoggio degli dèi.

La «conquista anticipata» Uno dei rituali riguardava la «conquista anticipata» del territorio nemico. Ce ne parla Servio (Commentario all’Eneide, 9,52): «Quando si voleva indire una guerra il pater patratus, cioè il capo dei fetiales, si recava presso il confine del territorio nemico, e, dopo aver pronunciato alcune formule prestabilite con voce chiara, proclamava aperte le ostilità per determinati motivi, o perché erano stati offesi

I baffi finti di Annibale Un valore fondante professato dai Romani, soprattutto dell’età arcaica, era la fides. L’importanza di tale valore era talmente forte da permeare di sé ogni azione compiuta dagli uomini. Esso si traduceva in sentimenti di lealtà e di rispetto, la cui osservanza da parte degli uomini avrebbe mantenuto il buon rapporto di Roma con gli dèi e avrebbe consentito all’Urbe di sopravvivere e prosperare. Tale comportamento era dovuto non solo nei rapporti privati e interni ma anche e soprattutto nei confronti del nemico. I Romani arrivarono a personalizzare questo ideale attribuendogli le sembianze di una dea: la Fides, che risiedeva in un tempio sul Campidoglio, accanto a Giove Ottimo Massimo. Fintantoché la politica espansiva di Roma si limitò alla penisola italica questo codice di comportamento, nato peraltro all’interno delle aristocrazie arcaiche e solo in seguito trasferito ai rapporti tra organismi cittadini, funzionò, ma andò in frantumi non appena i Romani vennero a contatto con Cartagine. Le guerre puniche

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costituiscono infatti una cesura che segna un progressivo ma radicale mutamento non solo nella politica estera ma anche nella mentalità di Roma e dei Romani. «Punica» fides era chiamata con disprezzo la condotta del nemico cartaginese, dedito a inganni, sotterfugi e, per dirlo con una parola greca, strategemata, cioè «stratagemmi», in opposizione alla vera fides, quella romana basata invece su comportamenti corretti e leali. In particolare, la figura di Annibale appare veramente spregevole nei racconti degli storici che descrivono la sua abitudine di ricorrere perfino a mezzi per nulla consoni alla dignità di un condottiero. Gli avvenimenti narrati si collocano in Italia in prossimità dei valichi dell’Appennino dove Annibale «a causa del freddo intollerabile» è costretto a passare l’inverno in attesa della primavera «in mezzo a grandi pericoli e paure». Secondo la nostra fonte: «Durante l’inverno ricorse anche a qualche stratagemma, caratteristicamente punico. Per timore dell’incostanza dei Celti e delle insidie che avrebbero potuto


gli alleati dei Romani, o perché gli avversari non intendevano restituire gli animali razziati o gli schiavi catturati. E quest’atto rituale era chiamato clarigatio per il fatto che la dichiarazione di guerra doveva essere pronunciata con chiarezza. Una volta effettuata questa clarigatio, il lancio di un’asta nel territorio nemico segnava l’inizio delle ostilità (…). Al tempo delle guerre contro Pirro, dal momento che i Romani si trovavano ad avere a che fare con un nemico che viveva al di là del mare, e, di conseguenza, non avevano a disposizione un posto in cui i fetiales potessero celebrare questa cerimonia dell’apertura delle ostilità, fecero in modo di catturare uno dei soldati avversari e lo costrinsero a comprare un appezzamento di terra nella zona del circo Flaminio, in modo da avere un territorio comunque appartenente al nemico su cui fosse possibile adempiere all’obbligo rituale della dichiarazione di guerra. Successivamente in quella località, davanti al tempio di Bellona, venne consacrata una colonna. Varrone, nell’opera Calenus, ci informa del fatto che il comandante dell’esercito, allorché doveva penetrare per la prima volta in un territorio (segue a p. 87)

tendergli, dato che cosí recente era la loro amicizia, soleva usare parrucche adatte alle età piú varie e le mutava continuamente: cosí cambiava gli abiti, scegliendoli sempre in armonia con le parrucche. Con questi mezzi riusciva a rendersi irriconoscibile non solo a quanti lo vedevano di sfuggita, ma anche a chi gli era familiare» (Polibio, 3,78). E ancora: «Annibale, spesso oggetto di assalti insidiosi da parte dei capi Galli, era stato poi salvato dalla malafede reciproca degli stessi capi che rivelavano la congiura con la medesima leggerezza con la quale l’avevano organizzata e, mutando ora il vestito, ora le parrucche, li aveva tratti in inganno difendendosi cosí dalle insidie» (Livio, 22, 1, 3). A onor del vero, occorre precisare che il vocabolo usato da Livio e interpretato come «parrucche» potrebbe anche riferirsi a semplici copricapi o comunque accessori della veste che mirassero a nascondere il viso.

cartagine contro la vera «fides» scipione l’africano Busto di Publio Cornelio Scipione (235-183 a.C.), generale e uomo politico romano, detto l’Africano per le vittorie su Annibale. Tarda età adrianea-prima età antoniniana. Roma, Musei Capitolini. Dovendosi confrontare con i «sotterfugi» del nemico, Scipione fu costretto a rompere con i valori tradizionali.

annibale Busto tradizionalmente identificato con un ritratto di Annibale (247-183 a.C.). Seconda metà del XVI sec. Roma, Palazzo del Quirinale. Il generale cartaginese, che sconfisse piú volte i Romani, era solito avvalersi di stratagemmi di varia natura, compreso il travestimento.

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IV secolo a.C.

sicurezza militare

343-341 Prima guerra sannitica, conclusasi con una pace di compromesso

348 a.C. Trattato Roma-Cartagine: ai Romani sono preclusi i commerci nel Mediterraneo occidentale, i Cartaginesi garantiscono le città latine soggette da attacchi dal mare

III secolo a.C.

298-290 Terza guerra sannitica: Roma affronta la coalizione di Sanniti, Galli, Lucani, Etruschi, Umbri 290 Pace con i Sanniti: il territorio di Roma si estende nel Centro Italia dal Tirreno all’Adriatico

326-304 Seconda guerra sannitica

340-338 Guerra Latina tra Roma e i Latini, sconfitti nella battaglia di Sinuessa; Roma scioglie la Lega Latina; alleanze bilaterali con le varie città

275 A Maleventum (che mutò nome in Beneventum) i Romani sconfiggono Pirro

279 Battaglia di Ascoli di Puglia, Pirro batte i Romani, subendo gravissime perdite

282-272 Guerra tra Roma e Taranto

280 Pirro, re dell’Epiro, chiamato da Taranto per combattere Roma, la batte a Eraclea; con Pirro si alleano Sanniti, Bruzii e Lucani

278-276 Pirro sbarca in Sicilia e affronta i Cartaginesi; dopo i primi successi, è costretto a tornare in Italia

le date da ricordare 219 Sottomissione romana dell’Illiria, inizia l’ingerenza sul fronte orientale; Cartagine, con Annibale espugna Sagunto; i Romani dichiarano guerra ai Cartaginesi 226 Trattato dell’Ebro tra Roma e Cartagine: riconoscimento delle sfere di influenza

II secolo a.C.

200-197 Seconda guerra macedonica tra Roma, Rodi, Atene e Pergamo contro Filippo V e Antioco III di Siria 196 T. Quinzio Flaminino ai giochi Istmici di Corinto proclama la libertà della Grecia

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218 Annibale varca le Alpi, sorprendendo i Romani, e vince al Ticino e alla Trebbia

218-201 Seconda guerra punica

216 Battaglia di Canne: i Romani subiscono una terribile sconfitta, cade anche il console Emilio Paolo; Capua, Sanniti, Lucani e Bruzii si alleano con Annibale

217 Battaglia presso il Trasimeno: Annibale vince il console C. Flaminio; in Spagna P. Scipione e Gn. Scipione vincono la flotta cartaginese alle foci dell’Ebro

192-189 Guerra contro Antioco III di Siria, che, alleato con gli Etoli, sbarca in Grecia ed è sconfitto dai Romani alle Termopili (191) e a Magnesia (189) 188 Pace di Apamea: Roma impone ad Antioco di lasciare i possessi in Asia Minore

215 In Spagna gli Scipioni prendono Sagunto; Annibale stipula un trattato di alleanza con Filippo V di Macedonia

171-168 Terza guerra macedonica: Perseo, figlio di Filippo V, vuole restaurare l’egemonia macedone sulla Grecia; i Romani vincono a Pidna; la Macedonia è divisa in 4 distretti indipendenti; presa di provvedimenti contro la Lega achea e la Lega etolica

149-146 Terza guerra punica


Trionfo di soldati romani sui barbari, figurine bronzee decorative da una bardatura di cavallo. I sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung.

306 Trattato Roma-Cartagine: conferma delle sfere di influenza stabilite nel 348 a.C. 321 Capitolazione dell’esercito romano alle Forche Caudine

264-241 Prima guerra punica

260 A Milazzo vittoria della flotta romana di Caio Duilio

256 Vittoria della flotta romana al promontorio di Ecnomo

212-205 Prima guerra macedonica: bloccata l’offensiva di Filippo V in Illiria, i Romani si alleano con Etoli, Spartani e Messeni, impegnando Filippo in Grecia 213-211 Annibale prende Taranto e marcia verso Roma; Roma prende Capua e Siracusa, alleata di Cartagine; in Spagna Asdrubale sconfigge e uccide i due Scipioni

207 Asdrubale, giunto in Italia per portare rinforzi ad Annibale è sconfitto al Metauro 210-206 Successi di P. Cornelio Scipione (l’Africano) in Spagna contro Asdrubale

148 La Macedonia è provincia romana 146 Scipione Emiliano distrugge Cartagine; i territori cartaginesi diventano provincia d’Africa; distruzione di Corinto, scioglimento delle leghe greche; la Grecia, tranne Atene e poche eccezioni, è posta sotto il comando del governatore romano di Macedonia

305 Presa di Boviano, capitale sannita; si stipula la pace

250-249 Vittoria romana nella battaglia navale di Panormo; vittoria cartaginese nella battaglia navale di Drepano

255 In Africa Attilio Regolo è sconfitto; la flotta romana vince a Capo Ermeo, ma è distrutta da una tempesta

241 Il console Lutazio Catulo vince alle Egadi; pace con Cartagine, che lascia la Sicilia; riforma democratica dei Comizi Centuriati

204 Scipione porta la guerra in Africa, si allea con Massinissa, re di Numidia, spodestato dai Cartaginesi 205 Pace di Fenice: fine della guerra macedonica, ristabilito in Grecia lo status quo

111-105 Guerra contro Giugurta di Numidia; fino al 107 le operazioni sono affidate a Q. Cecilio Metello, poi a Mario, che conclude vittoriosamente la guerra 105 Ad Arausio i Romani sono sconfitti dai Cimbri

303 Si deducono colonie latine in Italia centrale; trattato tra Roma e Taranto: impegno romano a non navigare nello Ionio

237 Spedizione di Amilcare Barca in Spagna: ripresa economica di Cartagine 227 Creazione delle prime due province, Sicilia e Sardegna-Corsica

202 Battaglia di Zama: Scipione sconfigge Annibale 203 Scipione vince ai Campi Magni; Annibale richiamato in Africa

104-100 Seconda rivolta degli schiavi in Sicilia; consolato di Mario: estensione del reclutamento militare ai proletari; Mario appoggia le proposte popolari dei tribuni Saturnino e Glaucia; violenta reazione senatoria (100)

201 Pace tra Roma e Cartagine

102-101 Mario vince Cimbri e Teutoni ad Aquae Sextiae e ai Campi Raudi

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sicurezza militare

Il maestro e gli allievi La seconda guerra punica rappresenta un vero e proprio punto di svolta nell’etica comportamentale romana. Lo scontro con un comandante come Annibale, che faceva un uso spregiudicato dello spionaggio, della sovversione e di ogni informazione disponibile fu davvero dirompente, tanto che il tragico confronto con il generale cartaginese è stato anche definito «la guerra della fides». A ben vedere, però, scopriamo che Annibale è discepolo dello spartano Sosilo. Eppure, anche a quest’ultimo sarebbero infine parsi indegni di un greco i comportamenti piú cruenti assunti da Annibale durante la lunga guerra punica, tanto che forse nella sua opera storica, alla quale dovette attingere Polibio, egli sentí la necessità di attribuire certe scelte terribili non direttamente ad Annibale, ma a una sorta di suo doppio, Annibale o Monomachos (letteralmente, «colui che combatte da solo»). Seguendo questo filone di pensiero, ci accorgiamo allora che Annibale rappresenta per Roma l’antitesi dei suoi valori, la negazione di tutto ciò che è romano, in poche parole l’Oriente. Per i Romani, comunque, Annibale si rivelò alla lunga un maestro non richiesto, ma che con la sua sola presenza impose alla repubblica di cambiare radicalmente alcuni dei propri valori. Il processo fu avviato da Q. Fabio Massimo e realizzato da Scipione l’Africano, ma successivamente Roma superò le posizioni dello stesso Africano, inasprendo i tratti della propria azione politica e militare, creando un sistema di

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deterrenza militare e compiendo azioni che in precedenza sarebbero state impensabili. Tra queste, la vera e propria «caccia all’uomo» scatenata contro Annibale, rifugiatosi infine in Bitinia presso il re Prusa. Vistosi ormai braccato sia dai Romani che dai soldati di Prusa, l’antico comandante cartaginese non riuscí a mettere in atto nessuno stratagemma per fuggire dalla sua casa accerchiata: «Per fare fronte a qualsiasi pericolo da qualsiasi parte gli arrivasse, e per avere sempre pronta una via di fuga, aveva munito la sua casa di sette uscite, alcune delle quali segrete perché non venissero bloccate dalle guardie. Ma il duro potere dei re non lascia nell’ombra nulla di quanto essi vogliono scoprire. Tutto il perimetro della casa fu circondato di guardie, in modo che nessuno ne potesse uscire». Compreso che era arrivata la fine, Annibale avrebbe pronunciato delle parole dalle quali emergerebbe anche la coscienza di essere stato protagonista di un cambio epocale nella storia di Roma. «Liberiamo (…) il popolo romano da questa preoccupazione che dura da tanto tempo, dal momento che trovano troppo lungo aspettare la morte di un vecchio. Non sarà una vittoria né grande né memorabile quella che Flaminino riporterà su un nemico inerme e tradito. Certo, quanto i costumi del popolo romano siano trasformati, basterà questo giorno a provarlo. I loro antenati avvertirono il re Pirro (…) a guardarsi dal veleno; questi, invece, mandano come ambasciatore un ex console per istigare Prusa ad uccidere un ospite a tradimento» (Livio, 39, 51).


«Quando si voleva indire una guerra, il pater patratus, cioè il capo dei fetiales, si recava presso il confine del territorio nemico, e, dopo aver pronunciato alcune formule prestabilite con voce chiara, proclamava aperte le ostilità» (Servio, Commentario all’Eneide)

nemico, scagliava una lancia in quel campo quale buon augurio in vista della sua conquista». La descrizione di usi giuridico-religiosi cosí arcaici è di sicuro interesse. Vediamo quindi come Livio (1, 32, 6-14) descrive l’apertura rituale delle ostilità nei confronti, per esempio, dei Latini, dando risalto alle funzioni del capo del collegio dei feziali, il pater patratus, che agisce come messo del popolo romano: «Quando il messo giunge nel territorio del popolo al quale si chiedono riparazioni, col capo bendato – è una benda di lana – dice: “Ascolta, Giove; ascolta, o territorio”, e qui nomina il popolo cui esso appartiene “ascolti la giustizia divina: io sono l’inviato ufficiale del popolo romano; vengo ambasciatore secondo il diritto umano e divino, e si presti fede alle mie parole”. Formula quindi le richieste. Poi chiama a testimone Giove. (…). Se non vengono soddisfatte le sue richieste, trascorsi trentatrè giorni – ché tanti ne fissa il cerimoniale – dichiara la guerra in questi termini: “Ascolta, Giove, e tu, Giano Quirino, e voi tutti dèi del cielo, della terra e degli inferi, ascoltate: io vi chiamo a testimoni che questo popolo” e qui nomina il popolo “è ingiusto e ci paga soddisfazione” (…) [Il messo tornava a Roma, qui il re consultava gli anziani per conoscere la loro opinione, e il primo anziano rispondeva] “penso che si debba ottenerle [cioè le cose che bisognava «restituire, risarcire e riparare»] con una guerra giusta e legittima, e cosí delibero e decido”. Quindi s’interrogavano a uno a uno gli altri: e quando la maggior parte dei presenti era dello stesso parere, la guerra era decisa. Era costume che il feziale portasse un’asta ferrata o con la punta bruciacchiata e tinta di sangue al confine dei nemici e, alla presenza di non meno di tre adulti dicesse: “Poiché il popolo dei Prischi Latini e i singoli Prischi Latini hanno agito e mancato contro il popolo romano dei Quiriti; poiché il popolo romano dei Quiriti ha voluto che vi sia guerra coi Prischi Latini, e il senato del

popolo romano dei Quiriti ha decretato, deliberato, deciso che si facesse guerra ai Prischi Latini, perciò io, col popolo romano, dichiaro e muovo guerra al popolo dei Prischi Latini e ai singoli Prischi Latini”. Detto ciò, scagliava l’asta nel loro territorio. In tal modo allora furono chieste riparazioni e fu dichiarata la guerra ai Latini, e i posteri accolsero quest’uso». In tale contesto i Romani non ricorrevano ancora allo spionaggio, al tradimento e ad altri espedienti, ritenuti con disprezzo propri di altri popoli quali per esempio i Greci, ma combattevano a viso aperto.

Mucio Scevola di fronte a Porsenna

Nella pagina accanto La battaglia di Zama, olio su tela di scuola romana. Fine del XVI sec. Mosca, Museo Puskin. Combattuto nel 202 a.C., lo scontro decisivo tra Annibale e Scipione l’Africano si svolse, probabilmente, nella località di Naraggara, circa 200 km a sud-ovest di Cartagine.

Tutti ricordiamo l’episodio di Mucio Scevola, il romano che introdottosi nell’accampamento nemico tenta di uccidere il re etrusco Porsenna, ma fallisce nel suo intento e, condotto alla presenza del sovrano, lascia che la sua mano destra bruci nel fuoco di un braciere. Ma perché Mucio si comportò in questo modo? Non certo per dimostrare il suo coraggio, che, del resto, sarebbe stato ben presto messo alla prova, visto che aveva attentato alla vita del re nemico. Secondo gli antichi, nella mano destra risiedeva la fides e dunque Mucio, entrato fraudolentemente nel campo nemico, con tale atto estremo vuole punire se stesso per un comportamento scorretto nei confronti dell’avversario. È pur vero che Porsenna, alleato di Tarquinio il Superbo aveva posto l’assedio a Roma con la speranza cosí di aiutare il re a riprendere il potere, ma Mucio si era comportato da spergiuro nel suo tentativo di assassinare il comandante etrusco, violando cosí la fides, cioè la lealtà dovuta anche nei confronti del nemico. Il racconto va quindi letto come il resoconto della punizione rituale di uno spergiuro. Le fonti, narrando avvenimenti che hanno a che vedere con la sicurezza dello Stato e dei suoi

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sicurezza militare

Il tempio di Fides ordinamenti riportano una serie di termini, sia in lingua latina che greca (e di cui si farà qui uso), che sono per noi illuminanti per comprendere, a volte anche con l’aiuto della filologia, i concetti e le nozioni che tali termini intendono esprimere. Si può dire che in tal senso esista un vero e proprio linguaggio spesso rintracciabile fin nel mondo greco e anche oltre, nell’epica. Per esempio, il vocabolo greco strategemata, da cui deriva l’italiano «stratagemmi», non ha un equivalente nella lingua latina, appunto perché Roma aborriva tutto ciò che era sotteso al suo uso e quindi anche lo spionaggio militare. Significativa è invece la considerazione che i termini latini che maggiormente si avvicinano al significato greco del vocabolo strategema abbiano tutti in origine, nonostante tesi diverse, un palese significato negativo: fraus, dolus e calliditas, cioè «frode», «dolo» e «furbizia», quest’ultima in senso deteriore.

Combattere faccia a faccia A proposito degli «stratagemmi» usati dai Greci, gli storici antichi ci dicono dei Romani: «I loro avi non avevano fatto le guerre ricorrendo a imboscate e a combattimenti notturni, a finte fughe e a ritorni improvvisi addosso a un nemico che non se lo aspettava, né in maniera da doversi gloriare della propria astuzia invece che del proprio autentico valore; avevano l’abitudine di dichiarare guerra, prima di farla, talvolta persino di annunciare la battaglia e di indicare il luogo in cui avrebbero combattuto (…). Questo era il modo di fare romano, ben diverso dalla doppiezza dei Cartaginesi e dalla furbizia dei Greci, agli occhi dei quali c’è piú gloria nell’ingannare il nemico che nel vincerlo con la forza delle armi (Livio, 42, 47, 5 e 7). E ancora Polibio: «Hanno in sostanza la gloriosa caratteristica di combattere faccia a faccia senza fare ricorso a insidie ed assalti notturni, disapprovando ogni espediente ed inganno e ritengono degno di sé soltanto lo scontro a viso aperto». Piú in generale, la fides è considerata il valore cardine attorno al quale devono ruotare tutti i legami non solo pubblici, ma anche privati, non solo in guerra, ma anche in pace. Roma, d’altro canto, doveva essere informata

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In alto il Campidoglio nel plastico di Roma imperiale. In evidenza, il tempio di Fides, sul lato sud del colle. Roma, Museo della Civiltà Romana.

Il tempio di Fides rappresenta la materializzazione di un principio giuridico-religioso di fondamentale importanza presso i Romani, la fides appunto, elevata a divinità. L’importanza di questo ideale presso i Romani è testimoniata dall’aedes Fidei populi Romani sul Campidoglio, dal culto di Semo Sancus dius Fidius e dalla tradizione storica secondo la quale, fin da epoca arcaica, esisteva sul Palatino un tempio consacrato a Fides da Rhome, nipote di Enea. Secondo gli antichi, il culto di Fides sarebbe stato istituito da Numa Pompilio, ma studi recenti ne hanno individuato la nascita fin dal IX-VIII secolo a.C. Teorizzato in età augustea, è dunque l’interpretazione di un patrimonio concettuale già arcaico per coloro che attesero alla sua sistemazione, nondimeno il concetto della fides ricorre in ogni momento della storia romana. Essa rappresenta una sorta di reciproco affidamento fondato su valori comuni e universali cui sono chiamati a testimoni e garanti gli stessi dèi, in particolar modo Giove. Lo stesso Giove è considerato il garante dei patti ed è quindi strettamente legato allo ius fetiale e ai suoi sacerdoti, i fetiales, la cui denominazione sembra derivare da fides e dalla nozione di trattato, foedus. I feziali hanno anche il compito di ricondurre la guerra, considerata un’effrazione violenta dello stato di natura degli uomini, all’interno di un contesto allo stesso tempo giuridico e religioso, attraverso complessi e articolati rituali il cui scopo è quello di giungere alla guerra stessa solo come ultima risorsa e con il fine ultimo di compiere un atto di giustizia nei confronti di chi ha manifestamente violato la fides, cioè naturalmente il nemico. Una significativa raffigurazione di Giove nella sua qualità di garante dei trattati si trova ancora, molto probabilmente, in uno dei pannelli dell’arco di Traiano a Benevento. Il rilievo mostra l’imperatore che stipula un patto con un capo barbaro di nazionalità germanica; al centro, fra i due, è rappresentato appunto Giove che, in questo caso, sta a simboleggiare il garante dei patti e quindi anche le manifeste virtú della politica imperiale. Il tempio di Fides è ricordato come esistente sul Campidoglio e fondato secondo la tradizione dal re Numa Pompilio. Al suo interno erano custoditi i trattati di Roma con gli altri popoli, venne ricostruito nel 254 a.C. da A. Atilio Calatino e ancora restaurato nel 115 da M. Emilio Scauro. I sacerdoti addetti al culto di questa divinità, il cui anniversario cadeva il 1° di ottobre, si recavano al tempio su di un carro chiuso e officiavano il rito coprendo le mani fino alla punta delle dita, a significare la custodia della fides. Situato sul versante meridionale del colle, il tempio in parte precipitò in seguito a una frana e ciò che ne rimane, fra cui resti di epigrafi bilingui in greco e latino di II-I secolo a.C., si ritiene sia da identificare con i frammenti rinvenuti nella sottostante area, presso la chiesa di S. Omobono. Tra di essi è da notare una grande testa femminile marmorea, probabilmente appartenente alla statua di culto. Nell’area del tempio doveva inoltre trovarsi un monumento onorario a cui appartengono i rilievi in calcare, rotolati anch’essi a valle e che rappresentano notevoli esempi di arte tardo-repubblicana. I soggetti si collegano a motivi iconografici con fregi d’armi romani e presentano, tra gli altri, anche un’allegoria di Giove che, nelle sembianze di un’aquila, stringe un fulmine tra gli artigli e un ramo di palma tra le ali. La prossimità al tempio di Fides ha fatto avanzare l’ipotesi, suffragata anche da testimonianze storiche, che possa trattarsi della base del monumento per la vittoria di Silla su Giugurta.

A sinistra Benevento, arco di Traiano. 114-117 d.C. Il rilievo con l’imperatore che stipula un patto (foedus) con un capo germanico alla presenza di Giove, garante dei trattati.

sulla situazione politico-militare dei suoi nemici e, per farlo senza ricorrere agli odiosi «stratagemmi», contava sulle alleanze strette con popoli amici, faceva affidamento sulle colonie, dislocate perlopiú in prossimità di genti ostili, e si serviva di strumenti particolari, come le informazioni fornite dai mercanti. Tuttavia, soprattutto gli stretti legami familiari costituirono il tessuto connettivo che permise a Roma la pianificazione della sua politica estera negli anni della conquista della Penisola. Un vero cambiamento avviene con la seconda guerra punica e con lo scontro con Annibale. Il comandante cartaginese si comporta

all’opposto dei Romani, facendo un uso spregiudicato dello spionaggio e di qualsiasi altro mezzo a propria disposizione.

Una guerra giusta Di fronte a un tale nemico, come ha scritto Giovanni Brizzi, i «contadini-soldati della Repubblica (…) continuano a combattere e a morire senza alcuna prospettiva immediata di successo. Quella che li anima è una forza profondamente morale: mai come in questa circostanza essi sono stati convinti di combattere una guerra giusta» (I sistemi informativi dei Romani, Wiesbaden 1982).

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sicurezza militare

Contro Annibale non rimane altra scelta che combattere ad armi pari e quindi Scipione, il comandante romano, è costretto a farsi autore di una frattura tra i valori degli antenati e una nuova prassi di governo. Egli non rinnega la fides, ma la relega in un ambito del tutto personale, che vede la sua persona fronteggiare il nemico con i suoi stessi mezzi. «Punica» fides diventa quindi sinonimo di tutto ciò che esclude la lealtà, l’onore e la correttezza (vedi box alle pp. 82-83). Il comportamento che, inaspettatamente annunciato da Q. Fabio Massimo il

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Temporeggiatore, ha inizio con Scipione e che venne definito «nova sapientia» fu infine adottato da Roma in questo nuovo corso della sua politica estera e militare, creando un vero e proprio apparato che puntava sullo strumento della deterrenza militare. Del resto, allargando i confini delle conquiste, la rete di quei rapporti familiari che precedentemente aveva avuto un ruolo fondamentale nella conquista dell’Italia andò progressivamente diminuendo, né poteva essere facilmente sostituibile. La sicurezza in campo militare trovò quindi la sua applicazione da un lato con l’aiuto di alleati fidati, dall’altro

In basso Nicolas Poussin, La magnanimità di Scipione l’Africano. 1640 circa. Mosca, Museo Puskin. Il generale romano è immaginato dal pittore mentre libera gli ostaggi celtiberi dopo la presa di Cartagine (oggi Cartagena) in Spagna.


A destra ritratto di Filippo V di Macedonia. Copia di età adrianea da un originale del 200 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Il senato romano era informato dei piani e della politica del sovrano Filippo grazie all’aiuto di fedeli alleati.

mediante un’oculata azione di manipolazione politica delle oligarchie filoromane, condotta soprattutto nel variegato mondo delle città greche. Questo modo di agire ebbe come conseguenza anche l’apprendimento da parte romana dei complessi apparati segreti creati in Grecia fin dall’epoca delle guerre persiane.

Le manovre di Filippo Vediamo ora alcuni esempi del funzionamento del sistema di informazione e sicurezza maturato nella seconda guerra punica. Nel 216 a.C., il capo illirico Skerdilaida, che aveva in passato intrattenuto un ambiguo rapporto di alleanza con Filippo V re di Macedonia, viene a sapere che quest’ultimo «faceva costruire molti lemboi (agili imbarcazioni usate in azioni di guerra e pirateria) e aspettandosi perciò un suo attacco via mare, aveva informato i Romani pregandoli di aiutarlo». La notizia non giunge inaspettata a Roma e il senato dispone che un contingente di 10 quinqueremi parta da Capo Lilibeo e faccia rotta verso Apollonia, in Macedonia. Filippo rimane all’oscuro delle manovre fino a quando, giunto nei pressi di Apollonia, viene informato che alcune sue navi hanno riferito sui movimenti della flotta romana. Appreso ciò «Filippo, pensando che ben presto sarebbe stato raggiunto dai Romani, impaurito, ordinò di levare subito le ancore e di invertire la rotta» (Polibio 5, 110). Nel 203 giungono invece a Roma alcuni ambasciatori provenienti da città greche alleate per riferire che contingenti di Filippo V hanno devastato i campi e che lo stesso re si è

rifiutato di ricevere in udienza gli ambasciatori inviati per lamentare la gravità dell’accaduto. Allo stesso tempo riportano anche la notizia che circa 4000 soldati macedoni sono stati inviati in Africa per aiutare i Cartaginesi ai quali è stata anche consegnata un’ingente somma di denaro. Ottenuta questa preziosa informazione, il senato invia a Filippo V degli ambasciatori con il compito di avvertire il re che il suo comportamento si configura come una grave trasgressione al vigente trattato di pace (Livio 30, 26, 2-4). Non molto tempo dopo, giungono a Roma anche gli ambasciatori del re di Pergamo Attalo I e dell’isola di Rodi. Entrambi riferiscono sui disordini provocati nel 201 dalla campagna in Asia Minore di Filippo V. Il particolare rapporto di alleanza con costoro induce il senato ad agire sulla base di quanto rappresentato, decretando l’invio in Macedonia di una flotta al comando di M. Valerio Livinio, il quale, durante la navigazione, viene raggiunto dal legato M. Aurelio, latore di notizie importanti sull’attività del re: la flotta macedone conta almeno 200 unità e in patria Filippo sta conducendo un’accesa propaganda antiromana per preparare il popolo allo scontro aperto con Roma. Livinio ritiene queste informazioni cosí importanti da avvisare immediatamente i consoli e il senato: «I Romani dovevano intraprendere la guerra con maggiore ardore per evitare che Filippo osasse, approfittando della loro esitazione, ciò che Pirro aveva in precedenza fatto con alle spalle un regno assai meno potente. Si decise che queste stesse parole Aurelio le riferisse per iscritto ai consoli e al senato» (Livio, 31, 3, 6).

L’importanza degli ambasciatori Altri episodi, avvenuti dopo la sconfitta di Filippo V, confermano ancora una volta l’operatività del sistema informativo romano. Poco tempo dopo i fatti di cui sopra, gli ambasciatori inviati in Macedonia per trattare la pace, riferiscono un’ulteriore e preoccupante evoluzione della situazione internazionale: il re di Siria, Antioco III, invia navi e soldati in Europa mentre cresce la potenza del tiranno di Sparta, Nabide, che mira a conquistare tutta la

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Inganno e ragione Il culto di Mens

Mens era la dea della ragione e dell’intelletto. Come la Fides, aveva un tempio sul Campidoglio, inaugurato nel 215 a.C., di cui però è rimasta solo la memoria. Il suo culto nasce in una fase cruciale per Roma, un momento in cui i principi etici fino a quel momento portati avanti con orgoglio sono travolti dalla furia cartaginese. I nemici, Annibale in testa, non rispettano alcuna regola e, pur di sopraffare i Romani, sono soliti ricorrere a ogni sorta di inganno e sotterfugio. In un tale scenario non c’è posto per la fides e anzi, dopo la grave sconfitta romana al lago Trasimeno, Roma inizia a capire che se vuole sopravvivere deve rivedere in fretta le sue regole, prima fra tutte l’osservanza della lealtà verso il nemico. Inizia cosí un processo che, nella persona del dittatore Q. Fabio Massimo, conduce alla creazione di un’altra entità. Si tratta di Mens, la ragione che segue regole piú sottili della fides, la lealtà incondizionata, tanto sottili da rasentare anche la malizia, riallacciandosi in questo alle arti professate dai Greci, tutte infine riconducibili all’astuzia crudele di Ulisse, il cavallo di Troia. Ma proprio da Troia arriva a Roma l’antidoto all’uso in negativo di Mens. Infatti, attraverso Enea, capostipite della stirpe romana e figlio di quella Venere a cui i Romani, sempre nel 215, consacrarono in Sicilia un tempio dedicato a Venus Erycina nel luogo in cui lo stesso Enea aveva fondato un santuario alla dea, Roma è legittimata ad agire con «accortezza», facendo cosí uso di un’arte non romana. La stessa personalità di Q. Fabio Massimo, noto come il Temporeggiatore, diventa lo strumento per mettere in pratica questo nuovo codice. Per Roma inizia cosí l’epoca della «nuova sapienza» e dopo le guerre puniche nulla sarà piú come prima. Ancorati formalmente agli antichi costumi, i protagonisti della storia romana si comportarono di fatto sempre di piú in maniera arrogante e spregiudicata, fino ad arrivare agli eccessi della tarda repubblica, in cui gli odiosi «stratagemmi» di Annibale diventano un pallido ricordo in confronto alle trame e agli omicidi perpetrati ai danni di cittadini romani nella stessa Roma.

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Grecia: è stato possibile acquisire tali importanti informazioni perché gli ambasciatori hanno indagato sul posto, constatando di persona l’affidabilità delle notizie di cui sono venuti a conoscenza. Allo scopo di vagliare le informazioni che giungevano a Roma, fu quindi creata la figura dell’ambasciatore, legatus, il quale, oltre a svolgere funzioni diplomatiche, si muove appunto quale elemento di controllo sul campo. Questo modo di agire si rivelò una componente essenziale nella raccolta e nel vaglio delle notizie e inaugurò un nuovo termine dal significato immediatamente comprensibile: exploratio. Tale vocabolo viene usato per indicare l’attività di indagine in materie riservate, condotta con una certa segretezza, anche se chi la esercita non sempre agisce clandestinamente. L’exploratio è svolta sul posto ed è utile per distinguere le informazioni affidabili da quelle false, infondate o ancora dalle dicerie, i rumores.

Non c’è difesa contro le insidie interne Un altro termine usato per indicare un’attività questa volta sicuramente segreta e clandestina di raccolta delle informazioni, e quindi definibile come spionaggio, è speculatio. Livio ne fa un uso sintomatico quando, parlando del re di Macedonia Perseo, fa dire a quest’ultimo che il figlio Demetrio è come uno speculator romano perché aveva passato a Roma la giovinezza come ostaggio: «A che serve tutto questo? La sicurezza che ci può dare un aiuto esterno non può in alcun caso compensare il pericolo creato da un’insidia interna. Noi abbiamo fra noi non voglio dire un traditore, ma certo almeno una spia, di cui i Romani – da quando è stato ostaggio a Roma – ci hanno restituito il corpo, tenendo però il cuore. Gli occhi di quasi tutti i Macedoni sono rivolti su di lui, e pensano che non avranno altro re se non quello che i Romani avranno loro assegnato» (Livio 40, 5, 11-13 ). Gli stessi legati potevano operare come speculatores, se avessero agito clandestinamente o esercitato compiti che travalicavano la loro missione ufficiale.

In alto tetradramma in argento di Perseo, ultimo re di Macedonia, dal 179 al 168 a.C., con il ritratto del sovrano. Nella pagina accanto, in alto Roma, Ara Pacis. 9 a.C. Rilievo raffigurante Enea (o Numa Pompilio) che compie un sacrificio ai Penati, forse sul luogo in cui verrà fondata la città di Lavinium. Nella pagina accanto, in basso testa della statua di Ulisse, facente parte del Gruppo di Polifemo che ornava la Grotta di Tiberio a Sperlonga. Copia di età tiberiana da un originale ellenistico. Sperlonga, Museo Archeologico Nazionale. Con la seconda guerra punica inizia un processo di «revisione» dei valori tradizionali che porta alla creazione di Mens, dea della ragione e dell’intelletto.

Un chiaro esempio in tal senso si rinviene in Livio a proposito di una missione romana in Macedonia, utile a comprendere l’azione di verifica delle informazioni. Contestualmente il re Perseo ebbe a lamentarsi che attraverso i legati gli fossero state contestate anche le decisioni che egli aveva preso durante un consiglio segreto: «Nello stesso periodo di tempo tornarono Cn. Servilio Cepione, Ap. Claudio Centone e T. Annio Lusco, i legati che erano stati mandati in Macedonia per presentare reclami al re e denunciare il trattato di amicizia stipulato con lui. Costoro accrebbero ulteriormente l’irritazione del senato (...) raccontando punto per punto tutto quello che avevano visto o sentito: avevano constatato che in tutte le città della Macedonia si preparava la guerra con la massima energia. Arrivati alla corte del re, per molti giorni non avevano avuto la possibilità di incontrarlo; (…). Il succo di quanto avevano detto al sovrano era il seguente: un trattato era stato concluso con Filippo e rinnovato con lui, Perseo, dopo la morte di suo padre, e questo trattato gli proibiva espressamente di condurre le armate fuori dalle sue frontiere, e gli proibiva di attaccare gli alleati del popolo romano. Gli avevano poi esposto in ordine tutti i fatti di cui loro stessi erano venuti a conoscenza poco tempo avanti, quando avevano ascoltato in senato il rapporto, veritiero e sottoposto a verifica, di Eumene. Inoltre, il re aveva tenuto a Samotracia un consiglio segreto, durato diversi giorni, con deputazioni delle città asiatiche. Tenuto conto di queste violazioni, il senato riteneva giusto che il re riparasse a tali torti e restituisse ai Romani e ai loro alleati quanto deteneva contro le clausole del trattato. A queste parole, il sovrano aveva risposto in un primo momento irato e con grande durezza, rinfacciando ai Romani avidità e tracotanza e protestando per il fatto che presso di lui arrivavano ambasciatori su ambasciatori per spiare le sue parole e le sue azioni, e per il fatto che si pretendeva che egli adeguasse ogni cosa che diceva e faceva ad un loro cenno e comando» ( Livio 42, 25, 1-6 ).

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spie e soldati speculatores, exploratores... l’evoluzione dei servizi di informazione e di spionaggio si tocca con mano nei secoli dell’impero, durante i quali si modificano ruoli e prerogative delle diverse classi di agenti

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di Anna Maria Liberati

Ricostruzione di un combattimento tra Romani e Galli durante l’assedio di Cesare ad Alesia (oggi Alise-Sainte-Reine), difesa da Vercingetorige nel 52 a.C..


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sicurezza militare

L

e campagne di Cesare in Gallia o il governatorato di Cicerone in Cilicia dimostrano che il sistema informativo e di sicurezza romano rimase pressoché inalterato lungo tutto il corso della repubblica. Un cambiamento decisivo si ebbe solo con il principato augusteo quando, alla fine delle guerre civili, prese forma un nuovo assetto politico. A differenza di quel che avvenne sin dall’inizio del principato, quando la raccolta di informazioni militari divenne in sostanza coordinata dai governatori provinciali, durante la repubblica le attività di intelligence sul campo erano affidate direttamente all’esercito e in modo particolare agli speculatores e agli exploratores. La differenza tra le due categorie di agenti è ben presente anche nelle fonti. Per esempio, il grammatico Festo (attivo nel II secolo d.C.) ci informa che: «Lo speculator differisce in questo dall’explorator, nel fatto che lo speculator scruta senza clamore le attività dei nemici, l’explorator [invece] investiga apertamente situazioni tranquille» (Il significato delle parole, p. 69, ed. Lindsay). La definizione della nostra fonte è senz’altro utile, ma occorre chiarire che non sempre l’explorator rivolge la sua attenzione a «situazioni tranquille» e che talvolta la differenza tra speculatores ed exploratores, al di là delle eventuali distinzioni formali, può essere molto sottile.

Agire in incognito Generalmente, comunque, i primi erano militari e si distinguevano per la loro abilità di agire in incognito. Ciò permetteva una notevole capacità di penetrazione in territorio nemico, ma, allo stesso tempo, imponeva un numero limitato di uomini. La segretezza delle loro funzioni e il confronto con quelle analoghe, ma meno occulte, degli exploratores, anch’essi militari, è evidente per esempio negli episodi narrati da Cesare che descrive l’impiego notturno degli speculatores in opposizione a quello degli exploratores, che poteva anche non svolgersi di notte. Gli exploratores, romani o alleati, si

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In basso, sulle due pagine ricostruzione di un drappello di cavalieri romani in marcia. Alla cavalleria dovevano verosimilmente appartenere anche gli exploratores impiegati nelle operazioni di ricognizione.

identificavano, infatti, anche con le guide di cavalleria o con una sorta di moderni scout, rapidi e veloci ricognitori piuttosto che agenti sotto copertura. Sappiamo quasi per certo che non esistevano reparti stabili costituiti esclusivamente da queste categorie di soldati, ma che di volta in volta, e a seconda delle necessità, venivano creati corpi appositi, come forse per esempio la cohors speculatorum attestata dalla monetazione di Antonio. È tuttavia probabile che, a prescindere dalla costituzione temporanea o stabile di reparti specializzati, ogni unità mantenesse almeno un contingente di esploratori


per assolvere a una funzione che, tutto sommato, appare essenziale. Con il tempo si verificarono cambiamenti nei rapporti fra speculatores ed exploratores che incisero anche in maniera significativa sulla natura e le funzioni dei primi, i quali, fino a tutto il I secolo d.C., continuarono a essere impiegati in circostanze collegate alla sicurezza, alla propaganda politica o ancora alla disinformazione militare.

I preparativi per la conquista In tutto ciò, una costante fonte di informazione continua a essere quella dei mercanti. Molto interessante è quanto scrive al riguardo Cesare, in merito ai preparativi della prima spedizione in Britannia del 55 a.C. Essa è strutturata come un’impresa esplorativa finalizzata all’acquisizione di notizie tattiche e logistiche in vista di una successiva campagna: «Quando ormai l’estate volgeva al termine, Cesare, per quanto in quelle zone – la Gallia essendo esposta a settentrione – gli inverni siano precoci, si apprestò a partire per la Britannia, in quanto vedeva che in quasi tutte le guerre

In alto moneta in argento battuta all’epoca di Marco Antonio. 32-31 a.C. Al retto, una galea pretoriana; al verso, tre insegne legionarie e la scritta che menziona la cohors speculatorum.

combattute in Gallia, venivano di là inviati aiuti ai nostri nemici, e se anche mancava il tempo per una campagna, tuttavia pensava che gli sarebbe già stato di grande utilità il solo sbarcare nell’isola, osservare le popolazioni e familiarizzarsi col paese, coi porti e gli approdi: tutte cose che erano quasi ignote ai Galli» (La guerra gallica, 4, 20). Allo scopo di reperire informazioni utili alla preparazione della spedizione, Cesare decide di rivolgersi alle uniche persone che potevano avere rapporti con l’isola, i mercanti. Indirettamente fornisce cosí una sorta di catalogo delle informazioni ottenibili da costoro: «A parte i mercanti, nessuno infatti vi si avventura; né a essi stessi è noto altro che la costa e le regioni che sono di fronte alla Gallia. Infatti, benché chiamasse i mercanti a sé da ogni parte, non riuscí a sapere né quale fosse la grandezza dell’isola, né quali o quante popolazioni vi si

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sicurezza militare

trovassero, né quali usi di guerra avessero, né quali istituti vigessero presso di loro; né infine quali porti si prestassero ad accogliere una flotta numerosa». Non riuscendo a ottenere alcuna informazione neppure dai mercanti, Cesare deve inviare un suo legato, C. Voluseno, a effettuare una ricognizione armata: «Per procurarsi tali informazioni prima di arrischiarsi nella spedizione, mandò in avanscoperta con una nave lunga Caio Voluseno, che egli riteneva idoneo. Lo incaricò di effettuare una perlustrazione generale e di tornare da lui il piú presto possibile» (21, 2).

Tetradramma con Mitridate VI, re del Ponto. Zecca di Pergamo, 120-63 a.C. Nell’88 a.C il sovrano fece massacrare gli Italici residenti nei territori da lui conquistati in Asia Minore, soprattutto mercanti che, per la loro mobilità, potevano agire come «informatori».

Gli alleati come informatori La campagna di Cesare in Gallia conferma anche la consuetudine di utilizzare gli alleati come mezzo di raccolta delle informazioni. Il loro impiego risultava prezioso per la familiarità con i luoghi e le realtà locali: «Incaricò i Senoni e gli altri Galli che confinavano con i Belgi di

90-88 a.C. Guerra sociale (dei socii, gli alleati): gli Italici si sollevano; dopo tre anni di guerra Roma è costretta a concedere loro la cittadinanza

87 A Roma prende il potere Mario e la sua fazione; stragi dei partigiani di Silla

88-84 Prima guerra mitridatica tra Roma e Mitridate VI re del Ponto

I secolo a.C.

informarsi su ciò che facevano i Belgi e di comunicarglielo. Essi tutti continuarono a riferire che si raccoglievano truppe e che si concentrava l’esercito in un sol luogo. Allora Cesare ritenne di non dover aspettare oltre per muovere contro di loro. Dopo aver provveduto al rifornimento di grano, toglie il campo e in circa quindici giorni perviene ai confini dei Belgi» (2, 2, 3-4). E ancora: «Dopo aver riunito queste truppe, mosse contro i Bellovaci e, posto il campo nel loro territorio, mandò squadroni di cavalleria in ogni parte, perché catturassero gente da cui poter aver notizia dei piani del nemico» (8, 7, 1). A volte, però, l’eccessiva fiducia riposta negli alleati rese le forze romane vittime di quelli che si potrebbero definire «doppi agenti». Un caso famoso è quello connesso al tradimento del re Augaro «che favoriva i Parti ma fingeva di essere amico di Crasso» e che inoltre «si teneva in stretto contatto con il comandante dei Parti con la scusa di spiarlo» (Cassio Dione, 40, 20, 2 e 40,

86 Morte di Mario; a Roma governo di Cinna; vittorie romane ad Atene, Cheronea, Orcomeno

83-82 Silla torna in Italia: guerra civile; battaglia di Porta Collina, i partigiani di Mario sono sconfitti 81-80 Dittatura di Silla: riforme oligarchiche e proscrizioni anti mariane

le date da ricordare 53 Battaglia di Carre contro i Parti e morte di Crasso (perse le aquile delle legioni) 58-50 Cesare conquista la Gallia, che diventa provincia romana

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48 Vittoria di Cesare a Farsalo; Pompeo fugge in Egitto ed è ucciso da Tolomeo XII; Cesare diventa dittatore 49 Cesare passa il Rubicone e marcia su Roma; Pompeo raggiunge l’Oriente

46 Sconfitta dei pompeiani a Tapso; suicidio di Catone l’Uticense

48-47 Guerra alessandrina: Cesare pone Cleopatra sul trono d’Egitto; sconfitta di Farnace re del Ponto

44 Alle idi di marzo Cesare viene assassinato in nome della libertà

45 Sconfitta dei pompeiani a Munda; morte di Gn. Pompeo, figlio di Pompeo Magno; Cesare dittatore a vita


Rilievo romano raffigurante l’interno della bottega di un venditore di coperte e cuscini. I sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi. Per via della loro mobilità, i mercanti erano considerati eccellenti veicoli di trasmissione e acquisizione delle notizie.

80-72 Rivolta di Sertorio in Spagna; nel 71 Pompeo riporta la Spagna sotto il controllo di Roma 74-63 Seconda guerra mitridatica

73-71 Rivolta di Spartaco

42 Battaglia di Filippi contro i cesaricidi: morte di Bruto e Cassio

66 Lex Mamilia: si affida a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate

70 Consolato di Pompeo e Crasso: abolizione della costituzione sillana

43 Guerra di Modena; secondo triumvirato fra Ottaviano (nipote ed erede di Cesare), M. Antonio e Lepido (istituito come magistratura ad rem publicam restituendam da una lex Titia); uccisione di Cicerone

63 Congiura di Catilina, repressa dal console M. Tullio Cicerone

66-63 Pompeo sconfigge Mitridate; presa di Gerusalemme

39 Accordo del Miseno: i triumviri riconoscono la posizione di Sesto Pompeo che ha il governo di Corsica, Sardegna e Sicilia 41-40 Guerra di Perugia; accordo di Brindisi tra Ottaviano e Antonio

36 Agrippa, braccio destro di Ottaviano, sconfigge Sesto Pompeo a Nauloco 37 Rinnovo del triumvirato

59 Consolato di Cesare

60 Primo triumvirato tra Cesare, Pompeo e Crasso

31 Battaglia di Azio, vittoria di Ottaviano

32 Rottura tra Ottaviano e Antonio: Ottaviano, dopo il giuramento di fedeltà da tutta l’Italia, dichiara guerra a Cleopatra

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sicurezza militare

messaggi in codice Le fonti antiche ci hanno tramandato vari esempi relativi alle modalità di inviare messaggi riservati trovandosi in territorio nemico e come essi venissero criptati in modo tale da non essere immediatamente comprensibili da parte dei nemici che li avessero intercettati. Un caso è riscontrabile in Cesare. Durante la campagna in Gallia del 54 a.C., una rivolta dei Nervii guidata da Ambiorige, mise in seria difficoltà i reparti comandati da Q. Tullio Cicerone, fratello dell’oratore, che vennero stretti d’assedio. Cicerone tenta piú volte di inviare messaggeri a Cesare per informarlo della situazione, ma i malcapitati vengono tutti catturati e torturati a morte. Alla fine un messaggero riesce a raggiungere Cesare che inizia la marcia in soccorso di Cicerone. Per rassicurare gli assediati sulla sua prossima venuta, Cesare decide di far pervenire loro un messaggio. Affida quindi la comunicazione a un cavaliere alleato ordinandogli, qualora fosse impossibilitato a consegnarlo di persona, di assicurarlo alla cinghia del suo giavellotto e di lanciarlo in direzione delle difese romane: «Stila il messaggio in caratteri greci, per fare in modo che, se anche la lettera viene intercettata, i nemici non vengano a conoscenza dei nostri piani. (…). Nella lettera scrive che è in marcia con le legioni e arriverà quanto prima, e lo incita a perseverare nell’antico valore» (La guerra gallica, 5, 48, 4). Nel corso della narrazione la fonte ricorda anche l’intensa attività degli uomini dei servizi segreti sia di parte romana che nemica. Sempre a proposito di Cesare, Svetonio dice: «Ci resta anche qualche lettera a Cicerone ed ai familiari su questioni domestiche. In queste ultime, quando voleva scrivere qualcosa di segreto o di riservato, lo metteva in cifra, mutando cioè l’ordine delle lettere, in modo da togliere ogni significato alle parole. Chi vuole esaminarle e decifrarle, non ha da cambiare la quarta lettera dell’alfabeto, la d, in a, e seguitare cosí con le altre» (Cesare, 56). Ugualmente Svetonio ci informa che Augusto: « Tutte le volte che scriveva usando la crittografia, metteva la B al posto della A, la C al posto della B e cosí di seguito, e invece della X usava una doppia A» (Augusto, 88). La notizia va collegata ad altre fornite dallo stesso Svetonio e relative alla cura posta da Augusto sia nei confronti della cronologia delle comunicazioni, che della riservatezza delle stesse. Augusto attribuiva molta importanza a quest’ultimo fattore, tanto che: «fece spezzare le gambe al suo segretario Tallo, perché aveva ricevuto cinquecento sesterzi per rivelare il contenuto di una lettera» (Augusto, 67).

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21, 1). Tale fiducia mal riposta fu una delle cause della disfatta di Carre nel 53 a.C. Come già accennato, nelle legioni e nei reparti di alleati esistevano categorie di soldati indicati come speculatores o exploratores, addetti al reperimento delle informazioni e a svolgere incarichi riservati. Tuttavia le fonti non ci forniscono dati sulla loro presenza stabile nell’organizzazione dell’esercito, e sappiamo soltanto che la presenza dei primi è attestata con regolarità solo dal I secolo d.C. e che la creazione di specifiche unità permanenti di exploratores si verificò a partire dalla seconda metà del II secolo d.C. È comunque logico ipotizzare, come già detto, che militi coinvolti in attività di sicurezza fossero presenti in ciascun reparto.

Silla contro Giugurta A prescindere dagli speculatores e dagli exploratores, siamo comunque a conoscenza del fatto che compiti specifici furono affidati non solo a soldati comuni, ma anche a traditori e delatori di parte avversa: vediamo a questo proposito qualche esempio. Nel 107 a.C. il re numida Giugurta viene catturato da Silla, grazie al tradimento di un altro re numida, Bocco. Un’altra operazione speciale per opera dei soldati di Silla è ricordata anche per l’anno 86 a.C., nel corso dell’assedio di Atene, il cui tiranno, Aristione, si era schierato con Mitridate contro Roma. Racconta Plutarco (Silla 14) che: «Alcuni soldati udirono al Ceramico (un quartiere della città. n.d.a.) dei vecchi che, parlando tra loro, sostenevano che il tiranno sbagliasse a non far sorvegliare le mura dalla parte dell’Eptacalco: si trattava dell’unico punto da cui i nemici potevano attaccare facilmente e superare le mura». Nella tarda repubblica poteva verificarsi che i soldati in zona di operazioni venissero inviati a infiltrarsi in territorio ostile per compiere omicidi, sabotaggi, o


Cesare, Pompeo e gli apparitores La componente militare dei diversi servizi di informazione e sicurezza fu la stessa che, nel convulso clima della tarda repubblica, si trovò a svolgere analoghi compiti nel corso delle guerre civili. Questi conflitti, proprio perché combattuti tra cittadini romani, contribuirono ad affinare ancora di piú le attività di spionaggio e di intelligence del personale militare. Tali attività si configurarono inoltre come diverse da quelle tradizionalmente svolte e si risolsero in una funzione molto piú simile allo spionaggio politico. Troviamo un esempio di spionaggio militare compiuto nelle guerre civili in un episodio della guerra d’Africa che, all’indomani della disfatta di Farsalo vede contrapposti Cesare e i seguaci di Pompeo: Gneo e Sesto figli di Pompeo e Catone l’Uticense: «Cesare, dopo che con il secondo convoglio le sue forze erano state accresciute dalle due legioni veterane e dalla cavalleria leggera, ordinò che subito le navi da trasporto, appena scaricate, ripartissero alla volta di Lilibeo per traghettare il resto dell’esercito; lui stesso il 6 delle calende di febbraio, circa all’ora del primo cambio della guardia, ordinò che tutti gli speculatores e gli apparitores fossero pronti ai suoi comandi» (La guerra africana, 37, 1). Apparitores è un termine generico, usato per indicare gli uomini preposti a un magistrato o a un ufficiale. La circostanza che essi siano qui menzionati accanto agli speculatores potrebbe lasciare immaginare che si trattasse in ogni caso di personale impiegato nelle stesse materie e forse di exploratores.

tentare di minare il morale dell’avversario. Nel 68 a.C. le forze di Mitridate attaccano una colonna romana nel corso di una marcia di trasferimento. La strage viene evitata solo grazie a un soldato il quale, approfittando della circostanza che alcuni reparti del re del Ponto erano equipaggiati alla romana, riesce a infiltrarsi tra le fila nemiche, ad avere un colloquio con il monarca e a ferirlo. Siamo senz’altro di fronte a un’iniziativa organizzata dai comandi romani, dal momento che, poco dopo, furono scoperti e messi a morte anche altri agenti infiltratisi tra le forze di Mitridate. Ma torniamo agli «agenti» militari, speculatores ed exploratores. Gli exploratores, di solito cavalieri, erano quindi essenzialmente esploratori con il compito della ricognizione del teatro operativo. Per questo motivo la loro attività non era del tutto clandestina, ma poteva esserlo nel caso in cui si trovassero a operare in territorio completamente in mano al nemico. Gli speculatores, invece, si caratterizzavano proprio per il loro agire esclusivamente

segreto, per la loro capacità di infiltrarsi e si presentavano perciò come una categoria di personale maggiormente versato rispetto agli exploratores nell’eseguire attività in incognito. Per tale caratteristica, connaturata alla clandestinità, il termine speculator viene talvolta impiegato non solo per indicare un agente, legionario o alleato, che agisce «in incognito», ma anche un individuo non collegato all’esercito ma indicato in senso generico come «spia».

Azioni combinate Risulta dunque evidente come non sia sempre semplice riuscire a distinguere gli speculatores dagli exploratores, proprio in considerazione della comune natura dei loro incarichi. Un caso esemplificativo dell’applicazione delle diverse capacità di ambedue le categorie in una stessa situazione tattica è in Cesare. Siamo nel 57 a.C., durante la campagna contro i Belgi: l’attività degli speculatores si rivela essenziale al fine di ottenere una prima e fondamentale

Qui sopra aureo con al retto testa di Sesto Pompeo barbato e, al verso, i profili del padre Pompeo Magno (a sinistra) e del fratello Gneo Pompeo. Zecca siciliana, 42-40 a.C. In alto, a sinistra busto in bronzo di Catone l’Uticense, da Volubilis (Marocco). Età neroniana (54-68 d.C.). Rabat, Museo Archeologico. Nella pagina accanto ritratto in scisto verde e occhi in marmo di Giulio Cesare, forse dall’Italia. Prima metà del I sec. d.C. Berlino, Staatliche Museen.

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sicurezza militare

informazione circa i movimenti delle forze nemiche, e quella degli exploratores conferma quanto appreso e rende noti altri dati sul nemico: «Presa dunque tale risoluzione, al secondo turno di guardia uscirono dal campo in gran confusione e tumulto, senza alcun ordine di marcia e senza comandi definiti, e poiché ognuno cercava di passare in testa alla colonna per arrivare prima in patria, fecero sí che la loro partenza apparisse simile a una fuga. Cesare fu subito informato della cosa dagli speculatores, ma poiché non gli era ancora chiara la causa per la quale partivano, temette qualche stratagemma e trattenne in campo l’esercito e la cavalleria. Quando però alle prime luci dell’alba gli exploratores gli confermarono la cosa, mandò tutta la cavalleria, agli ordini dei legati Quinto Pedio e Lucio Aurunculeio Cotta, a ritardare la marcia della retroguardia nemica, e ordinò al legato Tito Labieno di seguire con tre legioni» (La guerra gallica, 2, 11, 1-3). Sappiamo che Cesare, nelle campagne militari in Gallia, si avvalse spesso di alleati, socii, per effettuare i compiti usualmente svolti dagli exploratores. Gli exploratores potevano anche essere incaricati di reperire informazioni nei confronti di un potenziale avversario, come accadde

nel 336 a.C. in un episodio nel corso delle guerre sannitiche: «Mentre la situazione era tranquilla, la voce d’una guerra da parte dei Galli produsse lo stesso effetto di un attacco improvviso, tanto che si decise di nominare un dittatore. (…). Ma mentre questi facevano gli arruolamenti con maggior rigore che non per le guerre coi popoli confinanti, gli uomini che erano stati mandati in esplorazione riferirono che presso i Galli regnava un’assoluta quiete» (Livio 8,17,6-7).

Una tragica leggerezza La ricognizione del teatro operativo era dunque in ogni caso fondamentale e quando non venne curata per inesperienza del comandante o per eccessiva fiducia nei confronti degli alleati, gli esiti si rivelarono sempre disastrosi. Un esempio significativo è quello che, nel 201 a.C., condusse alla morte circa 7000 uomini. Il console P. Elio Peto, mentre era in Gallia in occasione delle operazioni di guerriglia che si sarebbero protratte fino al 191 contro i Galli Boi, viene informato che questa tribú si era resa responsabile di scorrerie ai danni di altre genti alleate. Formato un corpo di spedizione con due legioni e quattro coorti, Elio Peto ordina allora di invadere il territorio dei Boi. Il prefetto Caio Ampio, dopo essere penetrato in territorio ostile e aver eseguito anche saccheggi «con ottimi risultati e in piena sicurezza», si stabilí

Ritratto (su busto moderno) di Quinto Labieno. Primi decenni del II sec. d.C. Cremona, Museo Archeologico.

meglio vivere coi barbari che morire a roma... | servizi segreti | 102 |


«Allora la paura s’impadroní anche dei soldati armati, che si dettero alla fuga. Circa settemila uomini, dispersi tra le messi, fra cui lo stesso comandante Caio Ampio, furono uccisi» (Livio)

presso l’odierna città di Meldola, a nord-est di Modena per approvvigionarsi di frumento. Per un illusorio senso di tranquillità, egli ritiene di non dover eseguire una ricognizione del territorio prima di fermarsi, né dispone una reale protezione per i soldati impiegati nella raccolta del grano, viene quindi colto di sorpresa da un attacco nemico: «Scelto infine un luogo presso la città fortificata di Mutilo sufficientemente adatto a mietere il frumento, infatti le messi erano già mature, dopo essere avanzato senza aver esplorato il territorio all’intorno e senza aver predisposto delle sentinelle armate abbastanza valide che potessero proteggere i soldati inermi intenti al lavoro della mietitura, fu circondato insieme a coloro che raccoglievano il frumento dai Galli con un attacco improvviso. Allora la paura s’impadroní anche dei soldati armati, che si dettero alla fuga. Circa settemila uomini, dispersi tra le messi, fra cui lo stesso comandante Caio Ampio, furono uccisi; gli altri furono spinti dal timore a rifugiarsi nell’accampamento. Di là senza una sicura guida, per decisione unanime, la notte successiva,

abbandonata gran parte delle loro cose, giunsero dal console attraverso balze quasi inaccessibili» (Livio, 31, 2, 8-10).

Alla ricerca del percorso migliore

Denario con, al retto, testa di Quinto Labieno e, al verso, cavallo partico armato alla leggera, con briglie e sella a cui sono appesi una faretra e un arco. Seconda metà del I sec. a.C.

Vittima del nuovo e spregiudicato modo di operare dei servizi di sicurezza nella tarda repubblica fu Quinto Labieno, figlio del piú famoso Tito Labieno, legato di Cesare in Gallia. Schieratosi con i cesaricidi, Quinto Labieno era stato incaricato, poco prima della battaglia di Filippi, di cercare aiuto presso i Parti. Dopo la sconfitta delle forze di Bruto e Cassio, Labieno, pensando che i vincitori non lo avrebbero risparmiato, rimase presso la corte del re Orode, «preferendo vivere presso popoli barbari che morire a Roma». Nel frattempo, si decise però ad attaccare le forze romane nel settore assegnato ad Antonio. Costui, che intanto si trovava in Egitto presso Cleopatra «era informato di questi fatti e di

Vale la pena di citare altri esempi, ancora relativi alle campagne di Cesare in Gallia, per chiarire il ruolo degli speculatores e degli exploratores e l’impiego di tali termini nelle fonti. Nel 54 a.C. exploratores galli nemici riferirono al loro capo Ambiorige la notizia della marcia di Cesare in soccorso di Q. Tullio Cicerone, assediato dai Nervii all’interno del proprio accampamento. Cesare, dopo essersi accampato e dopo aver fatto fortificare il campo «nella posizione piú vantaggiosa possibile (…) mandò speculatores da ogni parte, per vedere quale fosse la via migliore per attraversare la valle» (La guerra gallica, 5, 49, 8). Poco piú avanti, Cesare, per sottolineare le misure adottate nell’attraversare il territorio ostile, ricorre all’espressione «explorare itinera», che indica la costante attività informativa circa le caratteristiche della

quanto avveniva in Italia. Nulla infatti gli restava ignaro». Nel 39 a.C. Labieno, abbandonato dai Parti e costretto a ripiegare in Cilicia dal legato di Antonio Publio Ventidio, cerca nottetempo di fuggire dal proprio accampamento. Tuttavia Ventidio «Appreso ciò da alcuni disertori, tese un’imboscata ai fuggiaschi uccidendone molti: poi uní al suo esercito tutti i soldati abbandonati da Labieno. Quello, camuffatosi, fuggí e per qualche tempo visse nascosto in Cilicia, ma in seguito fu catturato da Demetrio. Questi era un liberto di Cesare inviato da Antonio a Cipro; saputo che Labieno si era nascosto in Cilicia fece delle indagini e lo catturò» (Cassio Dione 48, 40, 5-6).

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sicurezza militare

i Protagonisti strada da percorrere. Lo stesso Cesare tramanda che l’attività di esplorazione, qualora la prudenza lo consentisse, poteva essere affidata agli alleati in quanto maggiori conoscitori della realtà locale: «Dopo aver saputo dagli exploratores Ubii che gli Svevi s’erano rifugiati nelle foreste, Cesare, temendo la mancanza di grano (…) stabilí di non avanzare oltre» (6, 29, 1). La menzione degli speculatores ricorre nei casi in cui sono necessarie operazioni da condurre in incognito e lascia intendere come questi militi fossero numericamente inferiori rispetto ai contingenti di exploratores. È il caso del massiccio movimento di forze dei Belgi lungo il fiume Aisne, notato nel 57 a.C. da speculatores, in seguito confermato dagli exploratores e che abbiamo piú sopra riportato. Abbiamo già detto come i termini «explorator» e «speculator», oltre che indicare precise categorie di militi preposti al servizio informativo sul campo, potessero designare anche chi si occupava di indagini piú o meno segrete e piú o meno lecite, adottando comportamenti che andavano da una seria, ma palese disamina di determinate situazioni allo spionaggio vero e proprio, con tutte le sfumature intermedie che spesso potevano ritrovarsi anche in una stessa situazione.

Ambasciatori in catene L’impiego in senso generico del termine speculator si ritrova anche nelle parole fatte pronunciare da Ariovisto e rivolte agli ambasciatori inviati da Cesare: «Ma quando Ariovisto li vide davanti a sé nell’accampamento, in presenza dell’esercito si mise a gridare: che venivano a fare? Forse per spiare (speculandi causa)? Essi volevano parlare, ma Ariovisto glielo impedí e li fece gettare in catene» (1, 47, 6). Il periodo storico fin qui descritto e che si protrasse fino ad Augusto, fu denso di avvenimenti che condussero all’istituzionalizzazione degli apparati di sicurezza in età imperiale. La crisi della repubblica e il progressivo oblio dei valori tradizionali contribuirono a far emergere gruppi di potere e nuove personalità politiche che

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marco antonio Ritratto in marmo di Marco Antonio (o Catone il Censore), generale e politico romano, scoperto nell’area del Comizio, nel Foro Romano. 80-70 a.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. Durante le guerre civili, Antonio era costantemente informato dei movimenti dei nemici e di quanto accadeva in Italia da suoi agenti.

determineranno l’insorgere di strutture articolate in organismi privati. Queste ultime, impiegando modelli arcaici e precivici basati su legami familiari e personali ma in un contesto di inedita relativizzazione dei valori, portarono avanti gli interessi economici o sociali di interi gruppi piuttosto che di una sempre piú astratta repubblica. Tutto ciò si avverte chiaramente anche in ambito militare e il ruolo dell’esercito e delle clientele a esso collegate in questo periodo certamente contribuí alla scelta operata da Augusto di


dell’ultimo duello flusso delle informazioni, e tra queste troviamo ancora una volta il ricorso ai mercanti. Essi, infatti, devono essere considerati veri e propri veicoli delle notizie che si voleva diffondere e non solo, quindi, come fonti passive d’informazione. Tuttavia, la presenza a tratti realmente invasiva dei mercanti e il loro conseguente ruolo di potenziali e spesso reali fonti di notizie fu comunque uno dei motivi che condussero, nell’88 a.C., alla strage dei mercatores romani e italici in Asia Minore per ordine del re del Ponto Mitridate VI.

Mercanti come fiancheggiatori

augusto Ritatto di Augusto, da Alessandria d’Egitto. Età imperiale. Alessandria, Museo Greco-romano. Per vincere l’ultimo duello contro Antonio e Cleopatra, Ottaviano non esitò a servirsi di agenti che diffondessero false notizie; inoltre, come il prozio e padre adottivo, quando scriveva utilizzava sempre un sistema di crittografia.

istituzionalizzare le strutture di sicurezza attraverso la predisposizione di un corpo stabile di cohortes praetoriae preposte alla salvaguardia del princeps. In questa età di transizione un problema particolarmente avvertito fu quello della manipolazione dell’informazione e della possibilità di un suo uso oculato o parziale. Inoltre, in assenza di un sistema in grado di garantire che le comunicazioni giungessero in modo celere e sicuro, si rafforzarono alcune modalità di utilizzare a proprio vantaggio il

Proprio per la loro grande mobilità, i mercanti potevano entrare in contatto con alti esponenti dell’esercito ed essere accortamente impiegati per favorirne le sorti grazie alle prospettive di pace e di prosperità per i commerci che i personaggi del caso si impegnavano a garantire una volta al potere. Ne è un esempio Caio Mario, il quale, nel 108 a.C., durante la campagna contro Giugurta, si vide negare dal proconsole il permesso necessario per essere presente a Roma e candidarsi al consolato. Egli iniziò quindi a creare una rete di consensi a proprio vantaggio: «(...) sui soldati al suo comando nei quartieri d’inverno allentava la disciplina; con i mercanti, numerosi a Utica, parlava della guerra al tempo stesso criticando e vantandosi: se gli fosse stata affidata la metà dell’esercito, in pochi giorni avrebbe avuto Giugurta in catene (...)» (Sallustio, La guerra di Giugurta, 64, 5). E ancora: «Facendo tutto questo, e conquistando per tal mezzo l’animo dei soldati, Mario ben presto invase l’Africa e insieme Roma del suo nome e della sua fama. Infatti i soldati scrivevano a casa dal campo che la guerra contro i barbari non sarebbe conclusa né terminata, se non fosse stato eletto console Caio Mario» (Plutarco, Mario, 7). L’esempio di Mario è indicativo dell’epoca di cui parliamo: in assenza di un sistema di collegamento reale tra Roma, le province e i comandi militari, questo episodio dimostra come le informazioni potessero essere distorte e impiegate ai piú diversi e personali fini, egli infatti venne eletto e ottenne il comando della guerra contro Giugurta.

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lettere a Cleopatra Nel clima della tarda repubblica, quando le istituzioni sembravano dimenticate e la lotta fra le varie fazioni politiche aveva creato proprie regole, portate avanti facendo ricorso a ogni mezzo, compreso l’omicidio, ecco comparire un’altra figura di liberto, Tirso. Come nel caso di Demetrio (vedi box alle pp. 102-103), anche Tirso, liberto di Ottaviano, è uno di quei personaggi che, negli ultimi e convulsi anni della repubblica, al pari di gladiatori e altre figure poco raccomandabili, divengono agenti ed esecutori agli ordini di fazioni o personaggi politici. Ecco l’accaduto. Dopo diversi tentativi, tutti però andati a vuoto, con i quali sia da un lato Ottaviano che dall’altro Antonio e Cleopatra cercano di sanare la situazione venutasi a creare in Egitto, dove Antonio ormai da tempo vive con la regina alla stregua di un monarca orientale, Ottaviano prende la decisione di inviarvi il liberto Tirso. Costui, siamo nel 30 a.C., recapita a Cleopatra messaggi, in realtà menzogneri, da parte di Ottaviano il quale promette l’impunità alla regina, di cui si dichiara innamorato, se avesse tradito Antonio. «Temendo però [Ottaviano], anche nella sua vantaggiosa posizione, che essi, disperando di essere perdonati da lui, continuassero la resistenza e riuscissero col proprio valore a salvarsi, o salpassero per la Spagna e per la Gallia, o distruggessero le immense ricchezze che, a quanto aveva sentito, possedevano (Cleopatra le aveva ammassate tutte nel sepolcro che stava preparando nella reggia, e minacciava di bruciarle tutte con sé, se fosse stata respinta anche la piú piccola delle sue richieste), mandò il proprio liberto Tirso a portarle molte e gentili notizie, e in particolare che si era innamorato di lei. Siccome Cleopatra era convintissima che tutti gli uomini dovessero amarla, Ottaviano voleva vedere se in questo modo la donna avrebbe tolto di mezzo Antonio, conservando intatte la sua persona e le sue ricchezze. E cosí avvenne» (Cassio Dione, 51, 5-8 ). Il piano quindi ha buon esito, Cleopatra garantisce a Ottaviano la resa della città di Pelusio, condizioni favorevoli ad Alessandria, la diserzione dei marinai della sua flotta e, infine, la morte stessa di Antonio. Ben presto, però, resasi conto dell’impossibilità di mantenere il regno, tenta di uccidersi. Catturata dagli uomini di Ottaviano, Cleopatra riesce comunque a togliersi la vita dopo un colloquio con il giovane vincitore.

Antonio morente viene portato a Cleopatra, olio su tela di Eugène-Ernest Hillemacher. 1863 circa. Grenoble, Musée de Grenoble. Cassio Dione tramanda che, per assicurarsi la resa di Cleopatra, Ottaviano mandò alla regina il liberto Tirso con falsi messaggi, per convincerla a trattare e a tradire Antonio.

Nel periodo delle guerre civili, la rilevanza acquisita dalla componente militare nel campo dello spionaggio condotto in quel frangente perlopiú a fini politici, portò a operare in modo diverso rispetto al tradizionale compito di ricognizione sul campo, prediligendo piuttosto attività di infiltrazione o contro-informazione presso il nemico, al fine di fiaccarne il morale, corrompere o addirittura commettere omicidi.

Le manovre di Cecilio Basso Un esempio significativo di questo nuovo modo di agire avvenne nel 42 a.C. ed ebbe quale vittima il governatore di Siria Sesto Giulio, parente di Cesare. L’esule pompeiano Cecilio Basso, rifugiatosi a Tiro, riunisce un nutrito gruppo di soldati pompeiani progettando di impadronirsi del governo della provincia ma, scontratosi con Sesto Giulio, viene sconfitto. Cecilio Basso decide allora di raggiungere diversamente il suo scopo: «Dopo questa sconfitta non affrontò piú apertamente Sesto, ma inviando in vari modi i suoi emissari presso i soldati del nemico, seppe attirarne alcuni dalla sua parte in modo tale che uccidessero Sesto» (Cassio Dione, 47, 26, 7). A volte, esecutori di attività che nel passato erano di competenza esclusivamente militare potevano essere addirittura i liberti o gli amici personali del singolo comandante militare o dell’uomo politico di turno. Nel clima di grande confusione istituzionale costoro non esitavano ad assumere il ruolo di esecutori anche in teatri operativi esterni. È il caso di Demetrio, liberto di Cesare inviato alla ricerca di Quinto Labieno (vedi box alle p. 102-103), o di Tirso, liberto di Ottaviano inviato in Egitto dalla regina Cleopatra (vedi box qui accanto). Queste figure aiutano a comprendere come l’esecuzione di attività decisamente riservate non fosse piú affidata, come per il passato, alle forze armate neppure in contesti propriamente militari. È la riprova di come, analogamente a quanto avveniva per la sicurezza interna, i tempi fossero cambiati e non esistesse piú alcun legame con le istituzioni, ma, al contrario, queste nuove procedure venissero usate a scopo strumentale in base ai disegni e agli interessi politici delle diverse parti.

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messaggi di fuoco

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le informazioni, oltre che raccolte, dovevano essere rapidamente trasmesse: ecco, dunque, una panoramica dei sistemi messi a punto per far circolare le notizie, senza metterne a rischio la riservatezza di Anna Maria Liberati

Sulle due pagine plastico del forte romano scoperto presso l’odierna Zwentendorf, in Austria. Vienna, Kunsthistorisches Museum. In età adrianea, vi fu acquartierata la coorte I Aelia Sagittariorum.

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U

Calco di un rilievo della Colonna Traiana nel quale si vede una struttura identificabile con una delle torri di segnalazione apprestate dai Romani lungo il Danubio durante le guerre daciche (101-102 e 105-106). Bucarest, Museo Storico Nazionale. Sulla sinistra si riconoscono cataste di legna per accendere i fuochi di notte e grandi pagliai conici per i segnali di fumo di giorno.

n fattore di vitale importanza per il mantenimento della saldezza dell’impero fu l’efficienza degli strumenti di informazione e comunicazione. Solo disponendo del controllo delle informazioni, infatti, si poteva provvedere alla sicurezza dell’apparato statale, non solo a Roma ma anche nelle province dell’impero. Augusto pose le fondamenta di un sistema idoneo a essere impiegato sia per la sicurezza interna, che per quella militare: il cursus publicus. Tale struttura, conosciuta anche come «posta pubblica» fu in realtà lo strumento per eccellenza finalizzato alla trasmissione e al controllo delle informazioni. Ben consapevole dell’importanza della celerità nella circolazione delle informazioni, Augusto istituí posti di cambio in corrispondenza dei quali diverse staffette potessero alternarsi dalla periferia al centro per riportare le notizie. Successivamente stabilí che l’informazione fosse condotta dallo stesso soggetto al quale ne era stata affidata la trasmissione, allo scopo di avere sempre notizie dirette. Al tempo stesso, soprattutto per le aree periferiche ed esterne, divenne di capitale importanza la raccolta delle informazioni sulle risorse di un territorio, la sua orografia, le distanze fra i vari siti, insomma su tutto ciò che poteva risultare fondamentale per la strategia dell’impero. Plinio il Vecchio ricordava gli itineraria, di cui

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anche Vegezio raccomanda l’uso: «Innanzitutto [il comandante] deve avere la descrizione esatta degli itinerari di tutte le regioni nelle quali si conduce la guerra, in modo che non soltanto conosca la distanza tra le località in numero di passi, ma anche la qualità delle strade; prenda in considerazione le fedeli descrizioni delle scorciatoie, dei monti, dei fiumi. Al riguardo, assicurano che i piú accorti condottieri non soltanto possedevano in nota, ma anche disegnati gli itinerari delle regioni nelle quali li portava la necessità, per poter scegliere la via da percorrere non esclusivamente per suggerimento della ragione, ma anche per la visione diretta» (3, 6).

L’Etiopia disegnata Gli itineraria, quindi, potevano anche essere illustrati e probabilmente rientrano in questa categoria i «paesi dipinti», situs depicti, realizzati nel 57-58 d.C. circa nel corso delle campagne di Corbulone in Armenia. Conosciamo inoltre l’esistenza di un disegno dell’Etiopia, Aethiopiae forma, di cui parla ancora Plinio, realizzato da un distaccamento di forze pretoriane inviate da Nerone appunto in quelle terre nell’ambito della pianificazione di una possibile campagna, e volto a correggere o


Ricostruzione, ispirata ai rilievi della Colonna Traiana, in cui si immaginano alcuni legionari romani impegnati nell’innalzare una torre di segnalazione sul Danubio.

verificare informazioni precedenti. Ugualmente, si conosce l’esistenza di «periploi», sorta di relazioni sulle linee costiere, il piú famoso dei quali è quello redatto da Flavio Arriano, relativo al Ponto Eusino, il Mar Nero. Storico, ma anche governatore della Cappadocia sotto Adriano, Arriano inviò all’imperatore i dati raccolti e un rapporto ufficiale, cosí da informarlo sullo stato dei territori, nell’eventualità di disordini che sarebbero potuti scoppiare dopo la morte del re del Bosforo Cimmerio, avvenuta proprio nel 131-132. Le informazioni che Plinio il Vecchio dimostra di possedere, fanno ipotizzare l’esistenza di opere di accesso riservato, contenenti dati di interesse geograficonaturalistico raccolti nel corso di spedizioni esplorative e che Plinio in qualche modo poteva visionare. Per esempio, descrivendo l’invasione dell’Arabia per opera del prefetto

d’Egitto Elio Gallo, in carica all’incirca dal 27 al 25 a.C., Plinio riporta che Gallo «riferí le altre informazioni che aveva indagato».

Cronache di guerra Piú accessibili dovevano invece essere i commentarii, le relazioni scritte durante le guerre. Famosi e molto conosciuti sono quelli di Cesare, il De bello Gallico. Opere simili, ma non tutte giunte sino a noi, furono quelle composte da Agrippa, da Svetonio per la campagna in Mauretania del 41 d.C. e in Britannia del 58-61, da Corbulone, generale di Nerone, per le campagne in Oriente dal 55 al 66, da Vespasiano per la guerra giudaica del 66-71, e da Traiano per le guerre daciche. Informazioni aggiornate potevano inoltre essere garantite dall’azione dei governatori delle province e dalle risorse della diplomazia. Soprattutto, il ruolo dei governatori e dei militari

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da essi dipendenti diviene sempre piú incisivo nell’ambito dell’attività di intelligence volta alla raccolta di informazioni di vitale importanza strategica e tattica. Inoltre, la circolazione di tali informazioni migliorò anche in virtú dell’incremento del sistema di comunicazioni pubblico, che garantiva celerità e costanza dalla periferia al centro dell’impero e viceversa.

Piú efficaci dei corrieri In tutto il vasto territorio controllato da Roma l’acquisizione e la trasmissione delle informazioni erano garantite anche da una rete di posti di osservazione e allarme. Le torri di vigilanza o segnalazione avevano il compito di annunciare il verificarsi improvviso di situazioni che necessitavano di una verifica immediata e quindi costituivano un mezzo piú efficace dell’invio di corrieri. Situati in aree geografiche anche molto diverse tra loro, questi manufatti se da un lato trovano riscontro in testimonianze iconografiche e storiche, dall’altro non sono di facile comprensione, proprio a causa della pluralità dei contesti sia geografici che cronologici d’appartenenza. Occorre inoltre sottolineare la portata di tali sistemi di segnalazione, anche in relazione alla

Da sinistra, sulle due pagine pianta e disegni ricostruttivi di uno dei forti costruiti, ogni miglio, lungo il Vallo di Adriano, limes difensivo eretto tra il 122 e il 126 d.C. per separare la Britannia romana e i territori dei barbari. A sinistra resti di uno dei forti lungo il Vallo di Adriano.

tipologia della minaccia segnalata. Essi appaiono di portata locale e quindi bisognosi di integrazione del messaggio trasmesso, soprattutto nel caso di pericoli a vasto raggio. In tal caso e anche per il problema della ritrasmissione della notizia, era di fondamentale importanza la figura del governatore locale, in grado di far giungere le notizie dalla periferia al centro, soprattutto nel caso in cui occorresse l’autorizzazione centrale per un serio movimento di truppe. Il discorso appare molto complesso, ma l’opinione comune individua come torrette di segnalazione i manufatti che compaiono sui rilievi iniziali delle Colonne di Traiano e Marco Aurelio. Esse figurano circondate da palizzate, con corpo di guardia e corredate da cataste di legno e grandi pagliai conici in cui

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sembrerebbe riconoscere la materia prima per effettuare le segnalazioni: legno per il fuoco di notte e paglia per il fumo di giorno. Le torrette appaiono disposte lungo il Danubio, rispettivamente in Mesia e Pannonia e sono realizzate in legno o pietra, con un basamento generalmente a pianta quadrata o circolare, spesso circondate da uno o piú fossati e collegate agli accampamenti di riferimento attraverso sistemi viari. Si trovano indicate anche con il nome di burgi, assumendo a volte il significativo appellativo di speculatorii o speculatorum. Potevano ospitare fino a 50 uomini e sembrano costituire parte integrante di un sistema di controllo del territorio. Nel limes di Adriano in Britannia, a intervalli regolari, incorporate nel muro tra un castello e l’altro si trovano tracce di torri di segnalazione

in pietra. A prosecuzione del limes adrianeo e lungo le coste dell’attuale Cumberland, allo scopo di prevenire aggiramenti via mare del limes stesso, fu creato un sistema fortificato, dotato anch’esso di torri. Altri avamposti sorsero a nord, verso il piú settentrionale limes di Antonino Pio, lungo il quale sono anche riconoscibili strutture interpretate come basamenti per torrette di segnalazione.

Un sistema ben collaudato Lo schema si ripete lungo il limes della Germania Inferior e Superior, anche se qui non troviamo una frontiera fortificata, bensí un sistema di assi viari aperti in profondità verso il territorio nemico. Lungo il Reno molti battelli svolgevano attività di perlustrazione, e, non a caso, troviamo anche qui un particolare posto

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di osservazione definito turris speculatoria. A conferma dell’esistenza di un capillare sistema integrato di acquisizione e trasmissione delle notizie, diverse testimonianze epigrafiche ricordano intorno al Taunus reparti di exploratores. Lungo il Danubio, nella Rezia e nel Norico è riscontrabile una fitta maglia di torrette a intervalli che vanno dai 400 agli 800 m. Anche lungo questo fiume la flotta, attiva dal 50 d.C., era impegnata nel pattugliamento, coadiuvata da torri sulla terraferma. Una situazione analoga si ebbe lungo il limes della Dacia, sul Mar Nero, in Armenia, Mesopotamia, Osroene (regione compresa tra le montagne del Tauro e i fiumi Khabur ed Eufrate, n.d.r.) e sull’Eufrate. Proprio lungo l’Eufrate i papiri ricordano i nomi dei posti di guardia e il numero, in realtà assai esiguo, degli uomini che vi facevano parte. Ancora, il

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limes Arabicus, lungo il quale i numerosi fortini sparsi nel territorio ospitavano spesso reparti di cavalleria che all’occorrenza potevano efficacemente integrare i normali metodi di trasmissione delle informazioni mediante segnalazioni. Proprio questo territorio è stato oggetto in tempi recenti di sperimentazioni allo scopo di verificare sia l’attendibilità delle fonti storiche che l’effettiva funzionalità del sistema di trasmissione delle notizie.

Presidi nel deserto Un altro settore di questo tratto del limes su cui si è soffermato l’interesse degli storici è quello del deserto del Negev, che dimostra una stretta connessione tra infrastrutture militari, tutela del territorio e osservazione e allarme. Schemi analoghi sono ravvisabili lungo tutte le frontiere dell’impero, pur con le differenze legate al contesto geografico e storico.

In alto ricostruzione delle abitazioni e delle scuderie di una caserma della cavalleria romana, basata sugli scavi del forte di Oberstimm in Germania, costruito sul limes tra Reno e Danubio. A destra calco di un rilievo della Colonna Traiana raffigurante alcuni cavalieri romani all’inseguimento di Decebalo, re dei Daci. Roma, Museo della Civiltà Romana.


Occorre infine far notare come l’insieme dei burgi, dei fortini, delle torri e dei soldati addetti all’osservazione e alla segnalazione fosse solo una parte del piú complesso sistema di raccolta delle informazioni. La funzione dinamica era pur sempre affidata alle unità di exploratores, dislocate in prossimità delle strade militari e alle quali, soprattutto in età medio e tardo imperiale spetta l’infiltrazione in territorio nemico. Rimane ora da comprendere quali fossero i sistemi di segnalazione e come funzionassero. Le fonti sottolineano come il successo di ogni azione militare dovesse essere fondato sulla possibilità di poter trasmettere con tempestività le informazioni necessarie.

Segnali di fumo Le prime testimonianze si riferiscono al sistema dei segnali di fumo di giorno e di fuoco di notte, effettuati durante campagne militari e dunque in contesti dinamici tutto sommato differenti da quelli relativi al limes e di cui ci siamo occupati sopra. Tuttavia, dobbiamo ritenere che proprio in tali ambiti nascessero i sistemi di segnalazione destinati poi a essere applicati nei posti di osservazione e allarme d’età imperiale. A questo proposito merita di essere evidenziato che i rilievi della Colonna Traiana, cosí spesso richiamati in questo senso, non illustrano, come già accennato, scene di segnalazione, ma si limitano a mostrare la presenza di torce o fiaccole accese sulle torrette. Viceversa, una scena di segnalazione è probabilmente riprodotta in un piccolo e in parte mutilo rilievo da Bischopshofen, presso l’odierna Salisburgo. Sembra possibile che segnalazioni di questo genere, operate da difese fisse, derivassero da quelle eseguite in zona d’operazioni durante le campagne militari. Livio descrive una segnalazione a mezzo di una colonna di fumo in occasione della conquista da parte romana di un accampamento volsco nel 431 a.C., preceduta da una ricognizione eseguita da exploratores: «(...) una prova esemplare d’avvedutezza, di coraggio e di merito non comune fu invece l’aver mandato di sua iniziativa ad assalire il campo dei nemici, donde

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Tiberio Claudio Massimo

l’uomo che inseguí Decebalo

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Calco del rilievo della Colonna Traiana raffigurante l’ufficiale degli exploratores Tiberio Claudio Massimo che tenta di impedire il suicidio del re Decebalo. Roma, Museo della Civiltà Romana.

La vicenda di Tiberio Claudio Massimo, oltre a essere nota perché raffigurata in un rilievo della Colonna Traiana, è uno dei rari episodi storici di cui conosciamo l’epilogo grazie a un fortunato ritrovamento archeologico. La storia del nostro cavaliere, però, è anche emblematica del cambiamento di ruoli e mansioni che avviene a partire dalla seconda metà del II secolo d.C. tra speculatores ed exploratores. In questo periodo unità costituite esclusivamente da exploratores vengono formate forse in modo stabile e a una di queste appartiene appunto Tiberio Claudio Massimo, già cavaliere della VII legione Claudia, duplicario della II ala dei Pannoni e vice comandante di un gruppo di exploratores durante la seconda guerra dacica di Traiano. Come raffigurato nel rilievo della Colonna Traiana, dopo essere penetrato con i suoi uomini in profondità tra i Daci in rotta, egli riesce quasi a catturare il re Decebalo prima che questi si suicidi per non cadere vivo in mano romana. Porterà poi la sua testa mozza nell’accampamento romano di Ranistorum. In questo periodo le differenze tra speculatores ed exploratores iniziano a sfumare, e proprio nelle guerre daciche si assiste alla trasformazione dei secondi, che sempre di piú agiscono in ambiti finora ricoperti dai primi. Da spie militari, gli speculatores sembrano progressivamente abbandonare il loro ruolo per essere impiegati come corrieri del cursus publicus in circostanze collegate alla sicurezza interna o alla propaganda politica. La sorte ha voluto che la stele funeraria di Tiberio Claudio Massimo fosse rinvenuta in Grecia, in una località nei pressi di Filippi. In essa è descritta tutta la carriera del cavaliere che, proprio grazie all’episodio qui ricordato, fu «promosso» al grado di comandante. La parte figurata illustra ancora una volta la scena della cattura di Decebalo e le ricompense ottenute per la valorosa azione: «Tiberio Claudio Massimo, veterano, si è preso la cura, durante la sua vita, di fare questo monumento; ha svolto servizio militare con rango di equites nella legione VII Claudia Pia Fidelis, è stato fatto questore dei soldati a cavallo e singular del legato della stessa legione, vexillarius della truppa a cavallo, ed è stato decorato per la sua virtú nella guerra dacica dell’imperatore Domiziano ed è stato fatto duplicarius dal divo Traiano nell’ala seconda dei Pannonici e dallo stesso è stato fatto explorator nella guerra dacica e per il suo valore è stato decorato per due volte, nella guerra dacica e in quella contro i Parti e dallo stesso imperatore è stato fatto decurione nella stessa ala, per aver preso Decebalo e aver portato la sua testa a Ranistorum; è stato smobilitato onorevolmente come volontario da Terenzio Scauriano, il consolare dell’esercito della nuova provincia».

gli esploratori avevano rilevato che il grosso dell’esercito era partito, Marco Geganio con coorti scelte. Costui infatti, assaliti quegli uomini mentre, intenti com’erano all’altrui pericolo, non badavano a se stessi e trascuravano sentinelle e posti di guardia, conquistò il campo prima ancora che i nemici si rendessero ben conto d’essere attaccati. Quando poi il dittatore vide il segnale dato col fumo, com’era stabilito, gridò che il campo nemico era stato conquistato e fece diffondere ovunque la notizia» (4, 27, 12). Anche Cesare riferisce di allarmi luminosi della rete di sorveglianza durante la campagna contro i Belgi: «Ma subito i nostri fecero le segnalazioni coi fuochi, secondo le disposizioni di Cesare, e i nostri soldati accorsero dalle vicine postazioni fortificate» (2, 33, 3-4). E ancora Cesare ne La guerra civile, scrive «Non molto dopo sopraggiunse in quello stesso punto Cesare con alcune coorti prelevate dai presidii, dopo essere stato avvertito con segnali di fumo trasmessi da un fortino all’altro, secondo un antico uso» (3, 65).

Il segnalatore di Enea il Tattico Lo storico che tuttavia fornisce i maggiori dettagli in proposito è Polibio. Egli, infatti, perfezionò un sistema che traeva le sue origini da quello ideato nel IV secolo a.C. dal greco Enea il Tattico, autore di un’opera di scienza militare. Costui aveva escogitato un sistema funzionale solo alla trasmissione di informazioni essenziali e non certo impreviste. Il segnalatore ottico ideato da Enea il Tattico era in grado di inviare una precisa serie di messaggi, codificati in simboli riportati lungo un’asta, la cui base, inserita in un sughero, veniva calata all’interno di un recipiente contentente acqua. Lungo una rete di segnalazione, piú recipienti di uguale misura erano dotati di un medesimo canale di scolo per far defluire il liquido, determinando cosí la posizione del sughero. In tal modo si evidenziava sull’asta il simbolo corrispondente al concetto che si voleva trasmettere. Il giusto

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deflusso dell’acqua era comunicato attraverso apposite segnalazioni luminose. Polibio migliorò nettamente questo sistema, elaborando un codice che, partendo dal metodo ideato da Cleosseno e Democlito, altrimenti sconosciuti, perfezionò quello di Enea il Tattico e superò nettamente quelli ancora piú elementari basati sull’uso di una torcia accesa per allertare su un pericolo generico o su un fuoco di cospicue dimensioni per comunicare un allarme. Egli escogitò un codice valido in ogni circostanza e, allo stesso tempo, abbastanza semplice da usare. Ideò infatti il modo di inviare vere e proprie frasi basate sull’uso dell’alfabeto, impiegando la posizione e il numero delle torce di volta in volta accese per indicare le singole lettere (vedi box qui accanto).

Un messaggio drammatico A distanza di secoli, un esempio meno teorico e anzi estremamente drammatico di uso di fuochi per segnalazione è in Sinesio di Cirene, il quale, nel 405 d.C., trovandosi assediato durante l’ennesima incursione barbara, cosí si esprime: «Ti sto scrivendo dietro le mura nelle quali sono assediato; piú volte all’ora vedo risplendere le fiaccole, e ne accendo anch’io per dare segnali agli altri» (Lettere, 130). A commento di quanto scritto dagli autori antichi, non si può non pensare che i sistemi di trasmissione a base di fuoco, fumo o segnalazioni luminose fossero universalmente conosciuti e adoperati con uguale efficacia in ogni angolo del vasto impero romano. Del resto, è altresí intuibile come il sistema descritto da Polibio costituisse una dissertazione teorica che presupponeva conoscenze verosimilmente ben al di sopra delle capacità realmente possedute da parte del personale impiegato in tali compiti. Tali osservazioni sono state avanzate soprattutto nel corso di analisi relative ai limites della Britannia, per i quali, peraltro, in alcune stagioni dell’anno, sarebbe stato difficilmente applicabile il sistema fumofuoco in ragione di evidenti e oggettive cause di natura climatica. Le avverse condizioni meteorologiche, caratterizzate da nebbie e

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scambi di lettere Nelle Storie, Polibio fornisce una descrizione puntuale del codice da lui ideato per lo scambio di messaggi: «(...) chi vuole segnalare per esempio che “circa cento soldati sono passati dalla parte degli avversari”, deve prima di tutto trovare il modo di esprimere la notizia con il minor numero di parole possibili, per esempio cosí: “cento Cretesi disertarono”; in questo caso si esprime la stessa cosa con meno della metà delle lettere. Scritta la notizia su di una tavoletta, la si trasmette con le fiaccole nel modo seguente. La prima lettera è una kappa che si trova al quinto posto sulla seconda tavoletta: si dovranno sollevare due fiaccole da sinistra in modo che chi riceve la segnalazione sappia di dover guardare la seconda tavoletta; poi si dovranno innalzare cinque fiaccole a destra in modo da indicare che la lettera è una kappa, cioè la quinta lettera sulla seconda tavoletta; chi riceve la segnalazione segnerà sulla sua tabella kappa. Quindi si dovranno innalzare quattro fiaccole a sinistra perché il ro si trova sulla quarta tavoletta, poi due fiaccole a destra, perché la lettera è al secondo posto. Chi riceve la segnalazione scrive ro e cosí di seguito. Con questo metodo si può segnalare qualunque avvenimento» (10, 46).


In alto i centurioni di un forte romano e il prefetto discutono sui messaggi da trasmettere, scritti su tavolette cerate. A sinistra tavoletta e stilo del tipo in uso presso l’esercito romano. Saintes, MusÊe ArchÊologique.

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brume, determinavano infatti una scarsa visibilità, tale da vanificare l’impiego di questi strumenti, a differenza di quanto avveniva con i cieli tersi e gli orizzonti rarefatti delle regioni medio-orientali e nordafricane.

Scrutare la polvere Proprio in queste ultime, tuttavia, le condizioni del terreno potevano presentare altri e diversi inconvenienti, controbilanciati dalla possibilità di usare proprio tali inconvenienti nell’ambito della raccolta delle informazioni, o della stessa contro-informazione. Come scrive Vegezio, a proposito dei tipi di segnali: «È altresí un segno muto e comune la polvere, ogni volta che si alza per l’avanzare della truppa, a somiglianza delle nubi e rivela l’avvicinarsi del nemico» (3, 5). Del resto, la considerazione che i sistemi di segnalazione attraverso il fuoco e il fumo dovessero essere usati proprio in condizioni di effettiva necessità, con il presupposto quindi di possedere standard di reale efficienza e rapidità in qualsiasi contingenza, anche la piú improvvisa e sfavorevole, depone a favore di una lettura critica delle fonti. Sempre Vegezio,

A destra Istanbul. Rilievo della base dell’obelisco di Teodosio I, già nel circo di Costantinopoli, con l’imperatore e la sua corte che assistono alle corse dei cavalli. Sulla sinistra si riconoscono due membri della guardia imperiale, corpo di cui fece parte, tra gli altri, lo storico Ammiano Marcellino. Nella pagina accanto, in basso Taq-e-Bostan, Iran. Rilievo sasanide raffigurante la morte di Giuliano l’Apostata, avvenuta nel 363 durante la campagna di Persia. L’imperatore giace, calpestato dal vincitore Shapur II.

Ammiano Marcellino

agente di Roma Ammiano Marcellino è lo storico che forse meglio di altri ci descrive come in un grande affresco le vicende politiche e militari dell’impero nel IV secolo. La sua prosa, anche se a volte un po’ faticosa, richiama alla mente gli scrittori dell’età classica, soprattutto Cesare. Inoltre, proprio come Cesare, Ammiano è un soldato e gli avvenimenti che descrive e che sono a lui contemporanei, assumono quindi un significato davvero unico. Nasce intorno al 330 d.C. ad Antiochia di Siria e muore poco dopo il 400. Serve l’impero sotto Costanzo II e Giuliano l’Apostata. Della sua opera, le Storie, che intendeva narrare le vicende dell’impero a partire dalla morte di Domiziano, continuando cosí l’opera di Tacito, ci sono giunti solo gli ultimi 18 libri, che vanno dal 353 al 378, anno della morte dell’imperatore Valente. Essi descrivono un arco temporale di ventisei anni, illuminando tempi e luoghi altrimenti poco noti. La sua opera si legge con piacere, quasi come un romanzo in cui l’autore stesso è il protagonista, piú

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ancora degli imperatori di cui tramanda il ricordo. Forse per sfuggire agli obblighi del decurionato, il ceto dirigente delle città gravato di sempre maggiori oneri, Ammiano entra a far parte del corpo dei protectores domestici, la guardia imperiale. Presta servizio nello stato maggiore del magister equitum Ursicino che segue fino a Milano, residenza di Costanzo II e poi ancora in Germania e in Gallia, fino a quando Ursicino, ormai comandante in capo, viene inviato in Oriente per tenere a bada il pericolo persiano. Ammiano continua a far parte del suo stato maggiore: «I piú vecchi del nostro gruppo furono avanzati di grado e ricevettero un comando, mentre noi giovani ricevemmo l’ordine di seguirlo pronti a compiere tutto ciò che avesse comandato nell’interesse dello stato» (16, 10, 21). Colto rappresentante dell’aristocrazia pagana e agente di Roma, Ammiano viene a un certo punto incaricato di recarsi da Gioviniano, satrapo della Corduene e favorevole ai


per esempio, informa subito dopo su come potessero essere impiegati il fuoco o il fumo: «Similmente, se le truppe siano separate, segnalino ai compagni di notte con le fiamme, di giorno con il fumo, quelle novità che in altro modo non potrebbero annunziare». Piú realisticamente, rispetto al complesso sistema descritto da Polibio, del quale non risulta un impiego effettivo, si potrebbe pensare a una sorta di semplice codice in uso a operatori opportunamente addestrati, la cui presenza è però difficilmente ipotizzabile ovunque. Probabilmente, invece che di vera specializzazione, si deve pensare piuttosto all’applicazione costante di elementi propri dell’addestramento militare di base, ma con il quale gli appartenenti ai posti di osservazione e allarme finivano per avere una particolare dimestichezza.

Mansioni temporanee Non doveva dunque trattarsi di un’attività specializzata nel senso moderno del termine e del resto qualcosa di analogo accadeva anche in un altro settore della raccolta e trasmissione delle informazioni in ambito militare. Si allude alla presenza nei reparti dell’esercito di personale impiegato in attività esplorative secondo turni a rotazione e dunque non particolarmente specializzato in questa funzione rispetto, per esempio, alle unità di exploratores di ridotta entità numerica, vere e

Romani, per assumere informazioni circa le forze persiane: in cima a una montagna osserva l’avanzata dell’esercito del re dei re Sapore: «Presso di lui (Gioviniano) fui inviato assieme a un centurione fidatissimo, per conoscere a fondo ciò che i nemici facevano, e vi giunsi attraverso montagne impervie e strette gole. Vistomi e riconosciutomi, mi accolse gentilmente e a lui solo confidai la ragione della mia visita. Accompagnato da un silenzioso conoscitore di quella zona, fui mandato su alcune rupi altissime, molto distanti da quel luogo, donde si poteva vedere, a meno che la vista non fosse mancata, ogni piú piccolo particolare per un raggio di cinquanta miglia. Ci trattenemmo in questa località per due giorni interi e il terzo giorno, al sorgere del sole, vedemmo sotto di noi tutta la regione nella sua ampiezza, sino a quelli che noi chiamiamo “orizontes”, piena di innumerevoli schiere in testa alle quali procedeva il re rilucente per lo splendore della veste» (18, 6, 21-22).

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il debitore... proprie spie e non piú semplici «esploratori», verosimilmente create per infiltrarsi in territorio nemico e attestate tra II e III secolo d.C., o a quelle, di maggior forza, istituite in occasione di specifiche campagne militari. Per esempio, nel caso della cohors XX Palmyrenorum di stanza a Dura Europos, sappiamo che questa attività era svolta a turno da un numero di militari variabile tra i 9 e i 15. L’applicazione di un sistema di segnalazione semplificato rispetto a quello descritto da Polibio avrebbe risentito di alcuni difetti molto penalizzanti, come l’impossibilità di trasmettere la reale portata dell’allarme, la mancanza di un eventuale dialogo tra gli operatori delle differenti torrette e, non ultimo, anche la possibilità di mistificazione o alterazione da parte nemica dei messaggi originariamente trasmessi, i cosiddetti «falsi allarmi». Probabilmente in molti casi si ricorreva al sistema delle staffette e in altri a quello dei segnali acustici per comunicare tra una vedetta e l’altra, anche in relazione al tipo di messaggio da trasmettere. Proprio il ritrovamento di parte di uno strumento a fiato tra quelli in uso presso l’esercito, all’interno di un burgus sul limes in Germania, è stato addotto a parziale conferma di tale ipotesi.

Dal fuoco al telegrafo ottico Sembra verosimile ipotizzare che la sola segnalazione tramite fumo, fuoco, segnali luminosi o acustici, eventualmente all’interno di una catena di vedette, servisse in caso di minacce locali ad allertare il meccanismo normalmente posto alle spalle delle vedette stesse e in grado di raggiungere la zona d’operazioni attraverso la rete di strade militari attestata in molti punti del limes. Viceversa, in presenza di minacce di piú vasta portata, la segnalazione avrà avuto il valore di un primo allarme da integrare con i rapporti delle

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La triste vicenda di Antonino s’inquadra nel clima torbido e confuso del IV secolo nella zona della Mesopotamia, al confine con l’impero persiano. Antonino era un ricco mercante, divenuto poi contabile al servizio del comandante militare e in seguito protector, soldato della guardia imperiale. Il racconto di Ammiano Marcellino descrive Antonino come vittima di raggiri e gravi soprusi che lo costrinsero suo malgrado a divenire disertore e fuggiasco presso la corte del re persiano: «Un certo Antonino da ricco mercante era divenuto contabile al servizio del comandante militare della Mesopotamia e successivamente soldato della guardia. Uomo esperto e prudente, era assai conosciuto in tutte quelle regioni e per l’avidità di alcuni era stato coinvolto in assai gravi danni. Considerando che a forza di contese si esponeva a divenire sempre piú vittima dell’ingiustizia, poiché coloro che erano incaricati di esaminare la sua faccenda, erano propensi a favorirli, per non tirare calci contro i pungiglioni, si volse a piú insinuanti lusinghe. Riconobbe che il debito era stato trasferito al fisco con inganni (…) si avvicinò il giorno fissato per il versamento della somma di cui egli, con la violenza e la paura, era stato costretto a riconoscersi per iscritto debitore. Vistosi minacciato da tutte le parti da ogni genere di pericoli e incalzandolo ostilmente il comes largitionum (sorta di ministro delle finanze e del tesoro, n.d.a.) che favoriva la parte avversa, tentò con uno sforzo estremo di fuggire in Persia con la moglie, i figli e con tutte le persone care» (18, 5). Se all’inizio Ammiano pare provare comprensione per la vicenda di Antonino, nel prosieguo del racconto il suo giudizio diviene piú severo perché il disertore, in preda a forti sentimenti di rivalsa, con le sue rivelazioni pare danneggiare seriamente i suoi vecchi commilitoni: «Ricevette il privilegio di portare la tiara che dà diritto di sedere alla mensa del re e ai Persiani benemeriti di esprimere un consiglio o il proprio parere nelle assemblee. (…). Con siffatti discorsi sovente questo disertore che si manteneva sobrio nei banchetti (…) eccitava il re, che di per sé aveva un temperamento focoso, affinché, trascorso l’inverno, scendesse in campo fiducioso nella sua prospera fortuna. Egli stesso gli prometteva baldanzosamente la sua assistenza in molte circostanze in cui potesse risultare necessaria».

A sinistra calco di un rilievo con la borsa dei viatores, addetti all’erario, ovvero al servizio di riscossione. I sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto rilievo con soldati romani. III sec. d.C. Lione, Musée gallo-romain de Fourvière.


...e il disertore Ammiano Marcellino impiega il termine speculator nel classico significato di spia e cosí definisce un Romano che operava come spia per il nemico. L’episodio si colloca nel 359 d.C. durante la campagna contro i Persiani. È lo stesso Ammiano, ufficiale dell’esercito romano, che cattura la spia e la uccide dopo averla interrogata: «Dopo essere sfuggiti a questo pericolo, giungemmo in una località boscosa e coltivata a vigne e ad alberi da frutta, chiamata, per le gelide fonti, Meiacarire. Tutti gli abitanti s’erano dati alla fuga e noi vi trovammo solo un soldato nascosto in un luogo solitario. Fu condotto dal comandante e per la paura diede risposte contraddittorie, per cui sorsero sospetti sul suo conto. Spaventato dalle minacce, si decise a dire tutta la verità e narrò d’essere nato a Parigi in Gallia e di aver militato in uno squadrone di cavalleria. Per paura di una punizione in conseguenza d’un delitto commesso, era passato dalla parte dei Persiani e successivamente, per il suo carattere onesto, dopo essersi sposato e aver avuto dei figli, era stato mandato a far la spia nei nostri territori, donde spesso aveva trasmesso sicure notizie. Allora però era stato mandato dai nobili Tamsapore e Nohodare, che avevano guidato le schiere dei razziatori, e ritornava da loro per riferire quanto aveva appreso. Dopo che c’informò di ciò che gli risultava che i nemici stessero facendo in diverse parti, venne ucciso» (18, 6, 16).

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Guerra di spie L’esistenza di una rete di spie che operava tra gli organi ufficiali romani e la Persia traspare nel racconto di Ammiano Marcellino. Nel 356 d.C. il prefetto del pretorio Musoniano e il comandante dell’esercito di Mesopotamia Cassiano apprendono «senza ombra di dubbio dalle concordi relazioni dei loro informatori che Sapore (il re di Persia, n.d.a.) a stento riusciva a respingere, con gravi perdite, i nemici agli estremi confini del suo regno, e per il tramite di oscuri soldati e con colloqui segreti tentarono di convincere il generale Tamsapore, che si trovava ai confini con il dominio romano, di persuadere con una lettera il re, se si fosse presentata l’occasione, a fare una buona volta la pace con l’imperatore romano» (16, 9, 3). Ancora, nel 361 Costanzo II: «Prese, assieme ad altre di minor conto, queste misure che egli riteneva utili nella situazione che s’era determinata, Costanzo venne informato da messaggeri e da lettere dei comandanti militari che le truppe persiane s’erano congiunte e, con alla testa il re gonfio di superbia, avanzavano ormai nei pressi delle rive del Tigri senza che si riuscisse a capire dove intendessero varcarlo. (…). [Costanzo] si diresse ad Edessa, città ricca di vettovaglie e fortificata. Aveva intenzione di trattenervisi per un breve periodo di tempo, finché non avesse appreso dagli esploratori o dai disertori i movimenti delle truppe nemiche» (21, 8, 6). Piú tardi, lo storico Procopio di Cesarea, parlando dell’uso che ai suoi tempi si faceva del cursus publicus cioè del sistema statale di comunicazione, indispensabile per la raccolta e la circolazione delle informazioni in modo rapido ed efficiente, cosí lo descrive: «Se poi questi [Giustiniano]

vedette o con le notizie che le unità di exploratores fossero state in grado di raccogliere muovendosi sul territorio ostile. I sistemi di segnalazione luminosa rimasero a lungo in vigore e se ne hanno testimonianze fino a epoche assai tarde. Risale infatti al IX secolo il ricordo di un «telegrafo ottico» in Asia Minore, usato per segnalare con tempestività incursioni arabe, ed è interessante notare come esso operasse in un contesto molto ravvicinato tra la capitale Costantinopoli e la frontiera. Basato su di un sistema di fuochi riflessi, questo apparato era dislocato lungo una serie di vedette su alture che dalle frontiere della Cilicia arrivavano fino al palazzo imperiale sul Bosforo. Sembra che, grazie alla celerità delle comunicazioni, l’imperatore fosse in grado di conoscere l’ingresso del nemico in Cilicia in appena un’ora dall’inizio della trasmissione del messaggio.

tenesse in qualche conto l’interesse dello Stato, sarà mostrato da quello che fece nei riguardi della posta e dello spionaggio. Gli imperatori romani del passato, preoccupandosi che ogni notizia venisse loro riferita al piú presto, e venisse comunicato senza indugio cosa accadesse per opera dei nemici nelle singole regioni e nelle città, nonché le rivolte e qualunque altro avvenimento improvviso (…) avevano istituito dovunque un servizio di posta pubblica» (Storia segreta 30, 1-7). Prosegue con la descrizione del funzionamento del cursus publicus e di seguito menziona l’esistenza, fino al regno di Giustiniano, di una rete di spie in territorio persiano. Lo stesso Giustiniano però, al contrario del re persiano Cosroe, apportò alla voce «spie» drastici tagli di spesa che, a detta di Procopio, si rivelarono nefasti: «Per lo spionaggio le cose vanno cosí. Da tempo l’erario foraggiava molti individui che, recandosi presso i nemici ed entrando fin nella reggia persiana a titolo di commercio o in altro modo, e indagando con esattezza ogni cosa, erano in grado, al loro ritorno in territorio romano, di riferire alle autorità tutti i segreti nemici. Quelli naturalmente lo sapevano, stavano all’erta e nulla giungeva loro imprevisto. (...) Cosroe aumentò, a quanto dicono, gli stipendi delle spie e si giovò molto di questa misura: a lui non sfuggiva niente di quanto accadeva presso i Romani. Ma Giustiniano non volle spendere nulla e cancellò addirittura la voce spie dal territorio romano. Ne nacquero gravi conseguenze, e fra l’altro fu presa dai nemici la Lazica senza che i Romani sapessero neppure dove fosse il re di Persia con le sue truppe» (30, 12 ss.).

A sinistra busto in bronzo raffigurante un sovrano sasanide, da Ladjvard (Iran). V-VII sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto particolare di una valva di dittico in avorio raffigurante un imperatore in trionfo probabilmente, Giustiniano I. Prima metà del VI sec. Parigi, Museo del Louvre.

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Calco di un rilievo della Colonna Traiana raffigurante militari romani su barche lungo il Danubio. Bucarest, Museo Storico Nazionale.

notizie che

corrono sull’acqua nell’ambito dei servizi di intelligence, un caso particolare fu quello delle informazioni legate alla marina. storie di flotte in fuga e di sbarchi, in occasione dei quali era di vitale importanza essere a conoscenza dei movimenti del nemico di Anna Maria Liberati

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L

a raccolta e la trasmissione delle informazioni in ambito militare non si verificava solo in campo terrestre, ma era anche collegata alle vie d’acqua e al mare. Attività analoghe a quelle svolte dagli speculatores o dagli exploratores sono note anche con riferimento alla marina da guerra. Le notizie a nostra disposizione, però, sono piú carenti rispetto a quanto finora descritto, né è possibile dire se nelle flotte romane esistessero singole unità che avessero tali funzioni in maniera stabile o se fossero

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lo sbarco in Britannia Ricostruzione dello sbarco in Britannia della X legione di Cesare nel 55 a.C. Nell’occasione furono impiegati anche i navigia speculatoria, legni generalmente utilizzati con funzioni di pattugliamento e raccolta di informazioni.

Riportiamo, qui di seguito, i brani in cui Cesare descrive il suo primo sbarco in Britannia nel 55 a.C. L’episodio è interessante perché mette in evidenza l’uso di uomini impiegati in azioni di intelligence, e perché attesta l’esistenza di particolari battelli da perlustrazione, i navigia speculatoria, qui impiegati da Cesare anche se per finalità non inerenti l’acquisizione di informazioni: «Dopo aver preso questi provvedimenti, verso il terzo turno di guardia, approfittando del tempo propizio alla navigazione, fece salpare le ancore e ordinò alla cavalleria di raggiungere il porto ove si trovavano le altre navi, di imbarcarsi e di seguirlo. (…) verso l’ora quarta egli, con le prime navi, toccava la Britannia, e poteva scorgere, schierate su tutte le alture, le truppe nemiche in armi. La conformazione del luogo era tale, e il mare era cosí strettamente serrato dai dirupi rocciosi, che i dardi inviati dall’alto potevano agevolmente raggiungere il lido. Cesare, giudicando il posto niente affatto adatto a uno sbarco, aspettò alla fonda fino all’ora nona che le altre navi lo raggiungessero. Intanto, convocati i legati e i tribuni, li mise al corrente di tutto ciò che aveva appreso da Voluseno (Voluseno era stato precedentemente inviato da Cesare in ricognizione in incognito con una «nave lunga» per acquisire informazioni utili al prossimo sbarco, n.d.a.), diede loro le istruzioni necessarie e si raccomandò perché vi si attenessero con la massima scrupolosità e puntualità, come richiedevano le regole dell’arte militare e in special modo la guerra sul mare, come quella che è soggetta a movimenti bruschi e instabili. Dopo averli congedati, trovando favorevoli insieme il vento e la marea, diede il segnale e, levate le ancore, avanzò a sette miglia dal luogo e andò a fermarsi con le navi davanti a una costa piana e aperta. Ma i barbari, capita l’intenzione dei Romani, mandarono avanti la cavalleria e gli essedari (…) e seguendo poi col grosso delle truppe, impedivano ai nostri di sbarcare dalle navi. Lo sbarco si presentava in realtà sommamente difficile per il fatto che, non potendo le navi, per la loro mole, che ancorarsi al largo, i nostri soldati dovevano, in luoghi sconosciuti, con le mani impedite e gravati com’erano dal non indifferente peso delle armi, pensare insieme a saltare dalle navi, a star ritti tra i flutti e ad affrontare i nemici (…) Per contro i nemici, che ben conoscevano quel tratto di mare, appena dal lido vedevano sbarcare dalle navi gruppi isolati di soldati, spronavano i cavalli e li assalivano mentre erano impediti; si facevano in molti intorno a pochi e altri scagliavano dardi dal fianco scoperto contro la massa. Vedendo ciò, Cesare fece riempire di soldati le scialuppe delle navi lunghe e i battelli di perlustrazione – speculatoria navigia – e, dove vedeva i nostri in difficoltà, lí inviava soccorsi. Appena i nostri giunsero all’asciutto, si riunirono con tutti i loro e, caricati i nemici, li volsero in fuga. Però non poterono inseguirli oltre, in quanto la cavalleria non era riuscita a mantenere la rotta e a toccare l’isola. Solo questo mancò all’antica fortuna di Cesare» (La guerra gallica, 4, 23-26).

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allestite di volta in volta a seconda delle necessità. Sappiamo che la circolazione delle informazioni era affidata a battelli veloci e snelli che pattugliavano le frontiere «calde» dell’impero. Le navi addette alla raccolta di informazioni sono note anche come navi «speculatorie» e sono conosciute già per l’età repubblicana. Livio afferma che sono prive di rostro, l’elemento tipico delle navi da guerra romane con cui si attaccavano, danneggiandole gravemente, le navi nemiche, e ricorda espressamente tali imbarcazioni a proposito di una ricognizione condotta in segreto dai Romani allo scopo di acquisire informazioni circa la flotta cartaginese ancorata alla foce del fiume Ebro in Spagna. Definite «plurifunzionali», venivano impiegate indifferentemente per trasportare non solo uomini, ma, all’occorrenza, anche vettovagliamenti, a seconda delle necessità, e avevano come caratteristica peculiare l’estrema manovrabilità e celerità.

coste come meglio poté senza scendere dalla nave, perché non osava affidarsi ai barbari e il quinto giorno, ritornato da Cesare, riferí tutto ciò che vi aveva notato» (4, 21, 1 e 9). Nell’età della guerra civile tra Cesare e Pompeo, lo Pseudo Cesare de La guerra africana ricorda una nave portaordini che definisce catascopum, il cui nome risulta essere un adattamento dal greco, e che pare essere assimilabile a una nave-spia.

La commozione di Cesare Sulla base del passo è anzi ipotizzabile che, proprio imbarcazioni di questo genere, in considerazione della loro manovrabilità e velocità, fossero impiegate anche come rapidi corrieri per il trasporto di messaggi urgenti: «Cesare, commosso dai loro pianti e dalle loro lamentele (…) decise, e scritte velocemente lettere per la Sicilia ad Allieno e Rabirio Postumo, e speditele con un catascopo, ordinò che gli trasportassero il

Polivalenti e veloci Anche Cesare menziona navigia speculatoria, in occasione del primo sbarco in Britannia nel 55 a.C., rilevandone l’efficienza e l’affidabilità anche se in un contesto operativo diverso da quello loro proprio. Cesare ne rammenta l’impiego per spostare i propri contingenti durante le fasi convulse del primo sbarco in Britannia, sottolineandone la velocità come una delle loro principali caratteristiche (vedi box a p. 129). La flotta allestita da Cesare per lo sbarco in Britannia doveva essere formata da diversi tipi di navi, trattandosi delle stesse unità impiegate precedentemente contro i Veneti, popolazione della Gallia. Non deve essere considerata invece una missione di spionaggio l’esplorazione precedente la spedizione in Britannia ordinata da Cesare a Gaio Voluseno e per la quale venne impiegata una longa navis: «Per procurarsi tali informazioni prima di arrischiarsi nella spedizione, mandò in avanscoperta con una nave lunga Gaio Voluseno, che egli riteneva idoneo. Lo incaricò di effettuare una perlustrazione generale e di tornare da lui il piú presto possibile. (…). Voluseno esplorò le

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La ritirata di antonio Nel periodo che precede lo scontro finale tra Ottaviano e Antonio si assiste a una intensa attività di navi-spia nel Mediterraneo. Cassio Dione ci descrive il clima quasi irreale di quei giorni in cui Romani combattevano gli stessi Romani e inquietanti prodigi si verificavano un po’ ovunque: «Per questi fatti erano tutti egualmente turbati. In quell’anno dunque non accadde altro. Ottaviano sistemò gli affari dell’Italia con una cura ancora maggiore, poiché aveva avuto notizia dell’opera di corruzione tentata da Antonio; però non poté mettersi in viaggio prima dell’inverno. Antonio (che si trovava allora in oriente) partí con l’intenzione di fare la guerra in Italia contro i nemici, prima che se lo aspettassero. Giunto però a Corcira (isola del mare Ionio di fronte all’Epiro, oggi Corfú, n.d.a.) e saputo che le navi esploratrici di Ottaviano mandate a spiare i suoi movimenti erano ancorate presso i Monti Ceraunii (a nord dell’Epiro, n.d.a.), credette che Ottaviano fosse già giunto con tutta la flotta: perciò non proseguí oltre, ma tornò nel Peloponneso. Poiché era autunno inoltrato, passò l’inverno a Patrasso e distribuí i suoi soldati dappertutto, perché sorvegliassero i luoghi e si rifornissero piú facilmente delle vettovaglie» (50, 9, 1-4).


piú rapidamente possibile l’esercito, senza ritardo e senza nessuna scusa per l’inverno e per i venti» (26, 3). Un altro esempio dell’impiego di navi-spia, questa volta nel Mediterraneo, ci viene narrato da Cassio Dione e riguarda le operazioni militari che precedettero la battaglia di Azio (vedi box alla pagina precedente). Questi battelli, dalle caratteristiche cosí particolari, pur nelle inevitabili differenze dettate dal periodo e dal contesto geografico in cui si trovarono a operare, vennero utilizzati fino al tardo impero. Sovente, come sopra accennato, erano addetti alla sorveglianza fluviale lungo il limes e operavano per raccogliere informazioni, oltre che per effettuare attività di vigilanza in senso stretto. Sappiamo dalle fonti che le flotte fluviali vennero impiegate anche in «operazioni speciali», all’esito di preventive attività di intelligence. Un caso noto è quello della fuoriuscita di Vannio, re degli Svevi, al quale nel 50 d.C., Claudio non era piú disposto ad accordare aiuti militari contro sedizioni interne, ma che tuttavia accolse, facendolo prelevare da una nave della flotta danubiana,

adeguatamente supportata da un dispositivo militare marittimo e terrestre, e fece stanziare in Pannonia: «In quel tempo fu scacciato dagli Svevi Vannio, creato re da Druso Cesare (…) Claudio, per quanto fosse spesso sollecitato, non era mai intervenuto con le armi in tali contese fra barbari e si era limitato a promettere a Vannio un sicuro rifugio (…). (Vannio) si rifugiò, pertanto, presso le nostre navi che aspettavano sul Danubio, e fu seguito piú tardi dai suoi clienti, coi quali si insediò nei campi della Pannonia che erano stati loro assegnati» (Tacito, Annali, 12, 29-30 ).

Ricostruzione della realizzazione di un un ponte di barche sul Danubio da parte dei legionari impegnati nelle campagne contro i Daci (85-96, 101-102 e 105-106 d.C.).

Dieci remi per lato Nel IV secolo, le flotte furono rinforzate e dotate di un nuovo tipo di imbarcazione veloce chiamata lusoria. Vegezio, autore dell’età tardo-antica che ci parla dell’organizzazione dell’esercito e della marina da guerra romane, ricorda questi battelli per la loro velocità, assicurata dall’essere forniti di dieci remi per lato. Lo stesso autore specifica anche che erano in grado di rendersi quasi invisibili grazie a un’apposita colorazione scura che consentiva

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In alto ricostruzione della riparazione di un sentiero lungo una gola del Danubio durante la campagna contro i Daci di Domiziano (85-96 d.C.). Nella pagina accanto calco di un rilievo della Colonna Traiana con navi romane sul Danubio che trasportano salmerie. Roma, Museo della Civiltà Romana.

loro di passare inosservati, soprattutto di notte. Ecco la sua descrizione: «Comunque, si affiancano alle galee di maggiori dimensioni battelli da esplorazione con dieci remi per lato, che i Britanni chiamano “pitte”. Con essi si fanno gli assalti e qualche volta ci si appropria con le insidie delle masserizie delle navi nemiche e, stando di vedetta, si può individuare il sopraggiungere o l’intenzione di queste. Per altro, affinché la presenza dei battelli esploranti non sia rivelata dal loro nitore, si dipingono velature e gomene di color “veneto”, che è simile all’onda del mare, e si cospargono anche di quella cera con la quale generalmente si rivestono le navi. Anche i marinai e i combattenti si

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vestono alla maniera “veneta”, allo scopo di non essere facilmente visibili agli esploratori non soltanto di notte, ma altresí di giorno» (L’Arte Militare, 4, 37).

Un «codice operativo» Lo stesso Vegezio parla delle lusoriae di pattuglia lungo il Danubio e, pur senza trattarne direttamente, ne menziona i compiti collegati alla vigilanza quotidiana. Un suo passo appare interessante, perché sembrerebbe suggerire l’esistenza di una sorta di «codice operativo», a cui dovevano attenersi le lusoriae in servizio fluviale. Nella sua essenzialità, il brano non lascia intendere altro, anche se è evidente l’importanza dell’esistenza di tale codice in


«Voluseno esplorò le coste come meglio poté senza scendere dalla nave, perché non osava affidarsi ai barbari e il quinto giorno, tornato da Cesare, riferí tutto ciò che vi aveva notato» (Giulio Cesare)

relazione all’acquisizione e trasmissione delle informazioni. A questo proposito è interessante notare come, secondo alcune ipotesi, le torrette raffigurate nelle prime scene della Colonna Traiana, come pure le analoghe, ma molto rovinate presenti sulla Colonna Antonina, possano riferirsi alla navigazione sul fiume, per l’appunto il Danubio. Infatti, le torce accese posizionate sulle torrette non appaiono manovrate, né si registra nei pressi la presenza di operatori, esistenti invece in casi di segnalazione. Di qui l’ipotesi che costituissero una parte di quel sistema, che doveva pur esistere, utile a segnalare alle imbarcazioni in navigazione notturna sul fiume l’esatta posizione, fornendo allo stesso tempo

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le navi di importanti punti di riferimento. Anche l’altro grande fiume confinario, il Reno, era percorso da questi battelli. I dati forniti dalle fonti sono comparabili con un fortunato riscontro archeologico. Sembra, infatti, che possano attribuirsi a lusoriae i relitti rinvenuti a Magonza, in Germania, l’antica Mogontiacum (vedi box qui accanto).

Trasportati dalla corrente Un altro autore tardo-antico, Ammiano Marcellino cosí descrive l’efficienza delle lusoriae in un episodio del 359 d.C., descrivendo come esse scivolassero silenziosamente lungo il Danubio, trasportate dalla corrente e senza l’ausilio dei remi, sollevati, affinché lo sciabordio dell’acqua non rivelasse al nemico l’avvicinarsi delle forze romane: «Riuniti nel cuor della notte, furono imbarcati, quanti poterono essere contenuti, su quaranta navi vedetta (lusoriae) – di piú non fu possibile trovarne – e ricevettero l’ordine di lasciarsi trasportare dalla corrente nel massimo silenzio, tanto che dovevano tenere i remi sollevati, perché il rumore delle onde non allarmasse i barbari. Grazie alla loro agilità fisica e alla prontezza mentale i soldati dovevano sbarcare sulla riva opposta mentre i barbari osservavano i nostri fuochi» (18, 2, 12). In un altro episodio, sempre dello stesso anno, Ammiano descrive un pattugliamento fluviale in occasione di un incontro, rivelatosi poi un tranello, tra i Sarmati della tribú dei Limiganti e Costanzo II. A bordo venne impiegato anche un agrimensore che, esperto dei luoghi, avrebbe potuto rivelarsi utile nel caso fosse stato necessario intervenire alle spalle dei

Un fortunato quanto imprevisto ritrovamento archeologico ha permesso di conoscere da vicino le imbarcazioni che in età romana solcavano i grandi fiumi d’Europa, il Reno e il Danubio, che in antico costituivano le frontiere piú a rischio dell’impero. In particolare, un esempio di quella che doveva costituire la flotta germanica è venuta alla luce nel 1982 a Magonza, proprio in prossimità del fiume Reno. Si tratta di quattro vascelli da guerra e di un battello per il trasporto passeggeri d’età tardo romana. Attualmente i relitti sono esposti nel Museo della Navigazione Antica di Magonza, costituito per l’occasione proprio nei pressi del

«Spesso noi non sappiamo dove il nemico sia e siamo impreparati quando lo incontriamo. Alcuni dei nostri uomini dovrebbero perciò viaggiare per terra e in mare per spiare e riportare la situazione del nemico» (Siriano Magister)

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Magonza e le flotte fluviali

ritrovamento, dove sono stati anche portati alla luce i resti di un approdo con moli in legno, probabilmente quanto rimane di un porto militare. Le imbarcazioni facevano parte della flotta confinaria che nel IV secolo operava sul Reno ed erano impiegate per il servizio di pattugliamento, per compiti di sorveglianza e anche per scorte a funzionari imperiali o trasporti celeri di un certo tipo, come sembrerebbe provare l’esistenza di un apposito spazio ricavato longitudinalmente in una delle navi. Nel Museo sono state ricostruite al vero due di queste imbarcazioni. Un tipo, piú massiccio rispetto agli altri, era ragionevolmente utilizzato per il trasporto

Sulle due pagine il vascello da guerra rinvenuto nel 1982 a Magonza (Germania), presso il Reno e la sua ricostruzione. IV sec. d.C. Magonza, Museo della Navigazione Antica.

truppe ma, all’occorrenza impiegato anche per trasportare passeggeri particolari, come funzionari o magistrati. L’esemplare definito da guerra si presenta invece come un vascello snello e leggero, a un solo ordine di remi per venti operatori, sprovvisto di ponte e lungo all’incirca 20 m. Probabilmente era anche dotato di un albero per la vela che, all’occorrenza, poteva essere usato come palo da alaggio. Secondo alcune ipotesi potrebbe proprio trattarsi di un esemplare giunto sino a noi di quelle imbarcazioni agili e veloci, chiamate lusoriae, il cui compito era appunto quello di perlustrare e vigilare per la sicurezza dell’impero.

barbari se costoro avessero minacciato l’imperatore: «Perciò, fatta scavare una trincea nei pressi di Acimincum (città della Pannonia, n.d.a.) e fatto erigere un elevato terrapieno in forma di tribuna, fu dato l’ordine che alcune navi, con a bordo legionari armati alla leggera, andassero in pattuglia lungo il letto del fiume tenendosi vicini alle rive. Doveva pure imbarcarsi su di loro un certo Innocenzo, agrimensore» (19, 11, 8). L’incontro con l’imperatore si era reso necessario a fronte

dello sconfinamento dei Limiganti. Ammiano racconta che i barbari, interessati in realtà solo al saccheggio, avevano chiesto un incontro con l’imperatore fingendo di volersi sottomettere.

Una scarpa contro l’imperatore Poco prima alcuni tribuni accompagnati da interpreti avevano condotto presso i barbari una exploratio per cercare di comprendere le ragioni della violazione degli accordi. Costanzo II accetta di ricevere i barbari che si

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sicurezza militare

fingono pentiti e sottomessi, ma accade un fatto imprevisto quanto insolito: «Alla vista dell’imperatore che dall’alto della tribuna s’apprestava a pronunciare un discorso mitissimo e pensava di rivolgersi a persone che stessero ormai per divenire sudditi obbedienti, uno di loro, preso da violento furore, scagliò una scarpa verso la tribuna e gridò: “Marha, marha”, che è il loro grido di battaglia. Lo seguí una disordinata moltitudine, la quale, sollevato improvvisamente un vessillo barbarico, si scagliava con urla feroci addirittura contro il sovrano».

I segreti della cantieristica L’importanza fondamentale dei battelli-spia è ancora ricordata nel Codice Teodosiano (una raccolta di «costituzioni», cioè di leggi imperiali), sempre in riferimento alle lusoriae del Danubio. In una costituzione del 28 gennaio 412 (7, 17, 1) sono contenute dettagliate disposizioni relative alla costruzione e al mantenimento di un cospicuo numero di lusoriae operanti lungo il confine della Mesia e della Scizia. Per lo stesso periodo, sempre nel medesimo Codice (1, 29, 1), con un’altra legge imperiale in seguito ripresa anche dal Codice di Giustiniano (9, 47, 25), sono attestati anche il divieto di rendere note ai barbari le nozioni di cantieristica navale e anche uno speciale controllo sulle navi da carico, al fine di evitare l’esportazione presso i barbari di generi vietati.

Siamo in presenza di una forma di gestione dell’informazione che varia dall’uso delle navi militari per l’acquisizione di notizie mediante il pattugliamento fluviale, al mantenimento del segreto sulle tecniche cantieristiche. Un’altra fonte importante, probabilmente databile al V-VI secolo, è l’opera di Siriano Magister, che sembra tuttavia interessato solo all’acquisizione delle notizie in teatri di guerra. L’autore attesta un principio fondamentale nella raccolta delle informazioni: l’integrazione del messaggio segnalato con il rapporto personale: «Spesso noi non sappiamo dove il nemico sia e siamo impreparati quando lo incontriamo. Alcuni dei nostri uomini dovrebbero perciò viaggiare per terra e in mare per spiare e riportare la situazione del nemico. Essi dovrebbero rendere noto questo in primo luogo attraverso segnali e successivamente, ritornando velocemente, anche a parole, indicando al meglio il luogo dove essi hanno osservato ciò e il numero presente dei nemici» (6, 1). Nel passo si nota come le navi-spia, i katascopoi, attraverso la segnalazione, debbano solo far presente di avere avvistato il nemico, mentre la trasmissione di ogni altra informazione è affidata alla relazione personale. Siriano indirettamente ci indica come almeno due informazioni trasmesse per segnalazione dovessero essere poi confermate di persona: la localizzazione e il numero dei

con le vele del colore dell’acqua Relativamente al solo tardo impero, ma probabilmente le fonti sono riferibili anche a periodi precedenti, siamo a conoscenza di utili informazioni che ci fanno meglio comprendere alcuni dettagli che qui interessano. Uno di questi riguarda il sistema di mimetizzare navi ed equipaggio allo scopo di passare «inosservati« durante missioni particolari in cui la riservatezza poteva rivelarsi un fattore determinante. Flavio Renato Vegezio, scrittore tardo-antico di cose militari, annota che per evitare che il biancore della vela o del sartiame potesse rivelare la presenza delle imbarcazioni, per cosí dire in missione, si era soliti tingerle colore veneto, cioè di azzurro-verde acqua, similmente ai flutti, in modo tale che potessero rendersi quasi invisibili, soprattutto di notte. Uguale precauzione era presa per le uniformi dei marinai e dei soldati imbarcati.

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Piazza Armerina, Villa del Casale. Particolare di un mosaico pavimentale raffigurante un’imbarcazione. IV sec d.C.

nemici. Successivamente, si sofferma sulla raccolta di informazioni a mezzo di battelli, che deve essere eseguita dalle «navi piú leggere e piú veloci», le quali non devono ingaggiare il combattimento con il nemico, ma «investigare e fare rapporto a quelli che le hanno inviate».

Una catena di navi Viene di seguito descritto un sistema di acquisizione e trasmissione della notizia che prevede la presenza di quattro navi distaccate dal corpo della flotta. Di queste, discendenti dei navigia speculatoria di Livio e Cesare, due non devono allontanarsi piú di sei miglia dalla flotta, mentre le altre due devono allontanarsi maggiormente. Viene cosí a determinarsi una

catena di navi «in modo tale che quelle al secondo posto sono informate dell’avvicinamento del nemico dalle prime due attraverso alcuni segnali che esse hanno concordato e quelle poi trasmettono la stessa informazione alla flotta, con il risultato che quando arriva il nemico ogni cosa è stata disposta pronta per la battaglia». L’opera di Siriano prosegue con l’esplorazione via terra e i relativi problemi di segnalazione, raccomandando un’attenzione particolare alle caratteristiche orografiche del territorio. Analizza infine i sistemi di segnalazione terrestre a breve e lunga distanza: drappi bianchi o segnali di fumo, e segnali di luce realizzati con l’ausilio di specchi o spade.

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uomini del conte e seguaci del re di Enrico Silverio

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Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico parietale raffigurante il palazzo di Teoderico. Creata all’epoca dello stesso Teoderico, l’opera fu rimaneggiata per iniziativa del vescovo Agnello tra il 556 e il 565. Dopo la conquista dell’Italia, il re degli Ostrogoti riformò le strutture di informazione e sicurezza.

L

e strutture romane di informazione e sicurezza non vennero del tutto meno in Occidente dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 d.C. e, in seguito, negli anni della monarchia ostrogota. Esse subirono tuttavia pesanti modificazioni e anzi le scholae palatinae e i protectores domestici furono sciolti, pur continuando a godere di un certo appannaggio. Ricorda Procopio di Cesarea: «Teoderico, conquistata l’Italia, non molestò chi prestava servizio nel palazzo imperiale, (…) e lasciò a ciascuno un piccolo stipendio giornaliero. E quelli erano moltissimi, perché tra di essi vanno considerati i silentiarii, i domestici e gli scholares: non era rimasto loro che il titolo e quello stipendio giornaliero appena sufficiente per sopravvivere» (Storia segreta 26, 24-28). Il magister officiorum, la schola agentum in rebus e la schola notariorum, continuarono invece a esistere, ma con funzioni molto limitate rispetto al passato. Infatti, nonostante il retorico e ampolloso fraseggio impiegato da Cassiodoro nella formula di investitura a uso di Teoderico e preparata proprio per il magister officiorum (Varie, 6, 6), la presenza di vistosi anacronismi, come il richiamo alle scholae palatinae o all’attività diplomatica, e alcuni significativi silenzi lasciano intravedere, al di sotto dell’ufficialità, una sostanziale perdita di funzioni del magister e degli stessi agentes, a vantaggio di nuove categorie di funzionari militari, i saiones goti e i comitiaci romani. Questo rafforzamento della componente militare dell’amministrazione anche in ambiti in linea di principio civili, è stato riconosciuto come l’eredità di una tendenza già ben avviata negli ultimi decenni di esistenza della parte occidentale dell’impero. Nell’Italia ostrogota comitiaci e saiones rilevarono quindi la funzione di collegamento tra il centro e la periferia, in un momento in cui la necessità del centralismo non era certo meno avvertita che in precedenza, anche a causa di fenomeni di grave allarme sociale come le usurpazioni fondiarie e le collegate e ripetute violenze.

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Attualmente i comitiaci, letteralmente «gli uomini del comes», cioè del «conte», tendono a essere identificati come i funzionari militari dell’ufficio del comandante generale dell’esercito, che nel tardo antico aveva appunto il rango di «conte», comes. In età ostrogota le sue funzioni avrebbero infatti fatto capo in ultima analisi al monarca. Proprio per la loro posizione all’interno della burocrazia, i comitiaci sarebbero stati cittadini romani e non goti. Da quanto è possibile comprendere sulla base di Cassiodoro (Varie, 7, 31, 1), i comitiaci sarebbero stati comandati da un princeps cardinalis, inquadrato nel comitatus del re ostrogoto e a Roma vi sarebbe stato anche un princeps con funzioni vicarie. Invece i saiones, letteralmente «seguaci (del re)», erano Ostrogoti che avevano già militato nell’esercito, erano stati

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distaccati in servizio presso il monarca e per questo conservavano il diritto di portare la spada. Come anche i comitiaci, essi erano gli esecutori per eccellenza degli ordini del re e quindi si trovavano a svolgere i compiti piú diversificati: mobilitare intere comunità per emergenze militari, scortare all’interno del regno comunità di altri barbari e impedire ogni turbativa, In basso Ravenna, basilica di S. Vitale. Mosaico raffigurante Giustiniano I, dignitari e guardie imperiali. VI sec. d.C. Nella pagina accanto particolare di una valva del dittico in avorio dei Lampadi, con un magistrato seduto nella tribuna d’onore del circo. IV-V sec. d.C. Brescia, Museo di Santa Giulia.

sotto la protezione del re

Nell’Italia ostrogota il monarca dovette incaricarsi, ove fosse stata avanzata una motivata richiesta, anche della protezione di singole persone, assumendone la cosiddetta tuitio. Di solito il beneficiario della protezione regia si vedeva assegnato come guardia del corpo un aristocratico romano, un nobile goto oppure un saio, a cui era però tenuto a garantire vitto, alloggio ed emolumenti, dovendosi peraltro impegnare anche al pagamento di una multa e al risarcimento del danno nel caso in cui il saio avesse provocato a terzi danni ingiusti dietro istigazione proprio della persona che avrebbe dovuto proteggere. La tuitio poteva essere domandata e concessa per fronteggiare i pericoli piú diversi, da quelli materiali alle insidie giudiziarie. A volte, infine, i saiones incaricati della tuitio potevano a loro volta comportarsi in modo sopraffattorio.


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sovraintendere ad attività logistiche di interesse militare come già in passato era avvenuto con i frumentarii. I saiones potevano anche essere incaricati di condurre gli imputati a giudizio presso il re oppure di svolgere indagini e comminare sanzioni, anche in situazioni che coinvolgevano la coabitazione tra Romani e Goti ed eventualmente in concorso con i comitiaci. Un fenomeno particolarmente allarmante e che richiese l’intervento del monarca e dei suoi agenti fu quello delle usurpazioni fondiarie, che potevano avvenire tra Romani e Romani o tra Goti e Romani. Per esempio, il saio Duda venne inviato da Teoderico a imporre al principe goto Teodato la restituzione di alcune terre sottratte al nobile romano Domizio, mentre piú tardi il saio Dumerit e il comitiacus Fiorenziano vennero incaricati da Atalarico di indagare su gravi fatti di saccheggio avvenuti vicino a Faenza. In questo contesto non stupisce trovare i saiones impiegati nel controllo del cursus publicus in concorso con i dipendenti del magister officiorum e del prefetto al pretorio e anzi questa presenza sottolinea, ancora una volta, l’ingerenza dell’amministrazione militare in ambiti già di competenza prettamente civile. Le istruzioni date ai saiones lasciano intravedere come il sistema di comunicazione pubblico versasse in una crisi costante a causa di numerosi abusi che ne riducevano la funzionalità, impedendo la circolazione di ordini e informazioni e ritardando l’afflusso dei tributi riscossi. Si trattava di verificare cose elementari, ma di estrema importanza: che gli animali del cursus non fossero sovraccaricati e che gli utilizzatori della posta pubblica avessero i regolari permessi, le evectiones. I saiones erano autorizzati a comminare le multe previste e anzi il denaro riscosso avrebbe dovuto essere impiegato dagli agentes del magister per le necessità del servizio di comunicazioni e per altre pubbliche necessità.

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A sinistra dritto di un solido di Eraclio I, imperatore d’Oriente dal 610 al 641, con il sovrano incoronato che regge una croce nella mano destra. Zecca di Costantinopoli, 610-613. Londra, British Museum. In basso tavoletta in avorio raffigurante la processione per il trasporto di una reliquia, con l’imperatore in testa e due vescovi su un carro. Arte bizantina, prima metà del VI sec. Treviri, Tesoro della Cattedrale.


La riconquista romana dell’Italia al termine della guerra gotica, condusse a una generale riforma delle istituzioni della Penisola. Ciò comportò anche lo scioglimento del magisterium officiorum, della schola agentum in rebus e della schola notariorum, che avevano continuato a esistere durante i regni degli Eruli e degli Ostrogoti, benché con funzioni gravemente ridotte rispetto al tardo impero romano in Occidente. In Oriente le strutture civili e militari del sistema di informazione e sicurezza del tardo impero continuarono invece a esistere

e a svilupparsi, anche con notevoli e significativi mutamenti. L’esistenza della schola agentum in rebus è attestata sino al IX secolo d.C., durante il regno dei figli di Basilio I (867-886), Leone VI (886-912) e Alessandro (912913). Nella fonte, la Vita Basilii iunioris (2-4), gli agentes sono identificati con il nomignolo di maghistrianoi e appaiono svolgere le attività di corrieri imperiali e di agenti di sicurezza. Ciò non deve però indurre a ritenere che sino al IX secolo le funzioni del magister e dei suoi agentes non avessero subito alcuna modifica.

Al contrario, infatti, il magister officiorum e altre importanti cariche centrali furono travolte dalle grandi riforme del VII secolo d.C. volute dall’imperatore Eraclio (610-641), che comportarono un decisivo ripensamento dei rapporti tra centro e periferia e dell’organizzazione burocratica. Nelle fonti relative al regno di Costantino IV (668-685), il magister del VII sec. d.C. non sembra discostarsi troppo dai suoi predecessori, ma fu nell’VIII secolo che tale carica, oltre a perdere la titolatura «officiorum», si trasformò in un vero e proprio titolo onorifico e conferito a vita

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samonas: eroe o traditore ?

Un personaggio che compare in un episodio del tardo IX secolo d.C. in cui sono menzionati i maghistrianoi è l’eunuco arabo Samonas. Presentato anacronisticamente in quell’occasione come un alto funzionario di corte, una carica che assunse solo piú tardi, egli dovette nascere a Melitene intorno all’875. Serví in seguito nella casa di Stiliano Zautze e divenne l’uomo di fiducia dell’imperatore Leone VI dopo che gli ebbe denunciato una congiura ordita proprio dai membri della famiglia di Stiliano. Intorno al 904 l’eunuco fu protagonista di un’enigmatica fuga oltre le frontiere orientali dell’impero: arrestato da Costantino Dukas e ricondotto a Costantinopoli, non fu mai chiaro se in realtà egli intendesse tradire o se invece stesse compiendo una missione segreta di spionaggio contro il califfato. Impegnato in seguito nelle lotte interne di potere dell’impero tra i grandi funzionari e l’aristocrazia militare, nel 908 venne scoperto un suo complotto contro il patrizio Costantino. L’eunuco venne allora costretto a prendere l’abito monastico: morí a Costantinopoli in una data imprecisata.

Miniatura raffigurante l’eunuco Samonas condotto di fronte all’imperatore Leone VI per rispondere del suo fallito tentativo di fuga, dalla Sinossi della storia del bizantino Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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ai membri piú anziani dell’ordine del patriziato. Il maghistros conservava comunque la funzione di presiedere il gruppo dei consiglieri imperiali, il sekreton, di presiedere il senato e di rappresentare l’imperatore quando questi fosse stato assente da Costantinopoli. Il titolo di maghistros divenne poi collegiale e fu concesso anche a regnanti esterni all’impero. Proprio durante il regno di Leone VI tuttavia, è interessante notare che il protomaghistros, cioè il maghistros che in un certo senso «derivava» direttamente dall’antico magister officiorum, tornò titolare di molte delle sue originarie competenze con Stiliano Zautze, il quale, non a caso, ricopriva anche la carica di ministro del cursus publicus, cioè di logothethes tou dromou.

Questa carica, già dall’epoca di Leone III (717-741), aveva «ereditato» la direzione degli antichi curiosi, dello scrinium barbarorum, degli interpretes omnium gentium e le attività di politica estera un tempo svolte dal magister officiorum. Si trattava, forse, di una figura di funzionario evolutasi dall’antico curiosus cursus publici praesentalis, ma di certo essa ereditò piú o meno direttamente, moltissimo dal magisterium officiorum: responsabilità diplomatiche, interpreti, investigatori e messaggeri tra il centro e le nuove amministrazioni provinciali. Degli altri uffici già dipendenti dal magister officiorum, alcuni si trasformarono in amministrazioni autonome, mentre altri passarono sotto il controllo di un altro funzionario palatino, il «questore del sacro palazzo», che nell’impero romano d’età medievale era venuto fondendosi con il «quesitore» creato da Giustiniano I nel 539 d.C., un alto funzionario di polizia specializzato anche nella raccolta di informazioni sugli stranieri residenti a Costantinopoli. Tra i cambiamenti che accompagnarono l’ingresso dell’amministrazione romano-orientale nel Medioevo, anche la schola notariorum sopravvisse almeno sino al IX secolo, ma con un’importanza diminuita a favore dei nuovi asekretai, nella cui struttura essa venne peraltro incardinata. Anche per questi nuovi funzionari, attestati già tra il VI e il VII secolo d.C., sono documentate funzioni simili a quelle svolte dai piú antichi notarii.


per saperne di piÚ Le citazioni di autori antichi inserite nei vari capitoli e prive del titolo si riferiscono alle seguenti opere: • Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione • Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane • Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri (o Res gestae) • Cassio Dione, Storia romana • Polibio, Storie • Plinio il Vecchio, Storia naturale La bibliografia moderna sull’argomento è molto vasta e, in larga parte, di taglio specialistico. Qui di seguito si riportano alcuni dei titoli piú importanti e di piú facile reperimento • Giovanni Brizzi, I sistemi informativi dei Romani. Principi e realtà nell’età delle conquiste oltremare (218-168 a.C.), Franz Steiner, Wiesbaden 1982 • Giovanni Brizzi, Studi militari romani, CLUEB, Bologna 1983 • Eva Cantarella, I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Feltrinelli, Milano 2005 • Pierangelo Catalano, Diritto e persone. Studi su origini e attualità del sistema romano, I, Giappichelli, Torino 1990 • Franca De Marini Avonzo, La funzione giurisdizionale del Senato romano, Giuffré, Milano 1957 • Andrea Giardina, Aspetti della Burocrazia nel Basso Impero, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1977

• Anna Maria Liberati, Enrico Silverio, Sotto il segno dell’aquila. L’esercito e la marina militare dell’antica Roma, De Rosa, Roma 2003. • Anna Maria Liberati, Enrico Silverio, Servizi segreti in Roma antica. Informazioni e sicurezza dagli initia Urbis all’impero universale, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2010 • Maria Federica Petraccia, In rebus agere. Il mestiere di spia nell’antica Roma, Pàtron Editore, Bologna 2012 • Lucietta Di Paola, Per la storia degli «occhi del re». I servizi ispettivi nella Tarda Antichità, Dipartimento di Scienze dell’Antichità di Messina, Messina 2005 • Rose M. Sheldon, Guerra segreta nell’antica Roma, Editrice Goriziana, Gorizia 2008.

Soldati romani obbligano un nemico a rendere omaggio a Cesare (che non compare nella foto), particolare di un dipinto raffigurante la resa di Vercingetorige. Olio su tela di Lionel Noël Royer. 1899. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier.


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