Archeo Speciale n. 1 - 2019

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Timeline Publishing srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

speciale

Sulla Via della Seta Avventure e scoperte tra oriente e occidente di Marco Di Branco e Filippo Donvito

€ 7,90 SULLA VIA DELLA SETA

IN EDICOLA IL 15 MAGGIO 2019

ARCHEO SPECIALE

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Sulla Via della Seta Avventure e scoperte tra oriente e occidente di Marco Di Branco e Filippo Donvito

6. Presentazione Un simbolo globale

16. Le origini Prima della via

52. Le grandi potenze Imperi a confronto

70. Le religioni Un mosaico di fedi

96. Samarcanda e Bukhara Gemme d’Oriente

118. gli occidentali in asia L’età della riscoperta




UN SIMBOLO

GLOBALE


«NON È UNA SOLA STRADA, MA MOLTE»: COSÍ LO SCRITTORE DI VIAGGIO COLIN THUBRON DEFINISCE QUELLA STRAORDINARIA RETE DI PERCORSI CAROVANIERI CHE, SIN DALL’ANTICHITÀ, METTEVA IN CONTATTO L’OCCIDENTE CON L’ORIENTE, E VICEVERSA I resti di Jiaohe, nei pressi dell’oasi di Turfan (Xinjiang). La città si sviluppò verosimilmente dal III sec. a.C. fino al XV sec., quando fu abbandonata.


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L

a «Via della Seta». Un’espressione che evoca terre lontane ed esotiche, imperi scomparsi da tempo immemorabile, conquistatori coraggiosi e violenti, lunghe carovane tra dune roventi mosse dal vento e aspri terreni montuosi, commerci di tessuti, pietre preziose e spezie, scambi di idee, religioni, invenzioni. La Via della Seta rappresenta tutto questo e molto altro: non era certo una strada come potremmo intenderla noi oggi, sebbene venga a volte descritta come la prima via di comunicazione davvero internazionale. Si trattava piuttosto di una vasta rete di itinerari che si estendevano dal cuore della Cina attraverso l’Asia, in direzione del Mediterraneo, con collegamenti a vie trasversali che portavano verso nord e verso sud. Questa rete si ampliò per molti secoli e venne percorsa in lungo e in largo da viaggiatori impavidi e abili mercanti appartenenti alle culture piú diverse.

Scambi di merci, innovazioni e religioni Su di essa, attraverso un ambiente naturale estremo e ostile, si muovevano grandi varietà di merci, manufatti, innovazioni e fedi. La storia della Via della Seta è legata a quella delle popolazioni delle terre che attraversava: ai loro conflitti e alle loro alleanze, alle influenze reciproche e alle caratteristiche di ciascuna di esse. All’apice del suo utilizzo, in queste regioni prosperavano gli imperi piú

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Le «vie» della seta Percorso principale Itinerario descritto nel manuale per mercanti di Francesco Balducci Pegolotti (1330-1340)

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Percorsi alternativi Il canale imperiale in epoca Yuan (1279-1368) Rotte marittime

potenti del mondo. La suggestiva definizione di «Via della Seta» non è nata insieme alla strada stessa: essa fu coniata solo nel 1877 dal barone Ferdinand von Richthofen (1833-1905), esploratore e geografo tedesco che per primo la chiamò Seidenstrasse (tedesco per «Via

In basso tavoletta lignea raffigurante la leggenda della «Principessa della seta», che, andando in moglie al re di Khotan, nascose uova di baco e semi di gelso nel suo copricapo, introducendo cosí la sericoltura nell’Asia centrale, da Dandan Oilik (Khotan, Xinjiang). VIII sec.

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Un percorso con molte varianti Il termine Seidenstrasse (Via della Seta) apparve per la prima volta nel 1877, nei Diari della Cina (Tagebücher aus China) di Ferdinand von Richthofen (1833-1905). In realtà, sarebbe piú opportuno parlare di «vie» della seta, considerando i molti tragitti e diramazioni che si sviluppavano per migliaia di chilometri e che, dalla capitale cinese, Chang’an (oggi Xi’an), arrivarono a raggiungere il Mediterraneo.

A sinistra statuetta in terracotta policroma raffigurante un carovaniere in sella al suo cammello. Epoca Tang, metà del VII sec. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet.

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tutto comincia con una farfalla mancata...

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a seta nasce dalla secrezione del Bombyx mori che si nutre del gelso bianco (Morus alba). Gli arbusti venivano tagliati, nei primi anni, a 50 cm circa da terra, per permettere la crescita fino a quasi 2 m d’altezza. È stato calcolato che ci vogliono 30 piante di gelso per ricavare poco meno di 3 kg di seta

della Seta», appunto). La materia prima che diede il nome alla Via fu quella che agli Occidentali appariva la piú esotica e stupefacente. Ma la seta non era l’unica merce di valore trasportata lungo il viaggio, diventato ormai un percorso a doppio senso. Verso oriente, in direzione della Cina, le carovane portavano con sé oro, avorio, pietre preziose e vetro, mentre a ovest le missioni trasportavano pellicce e manufatti in ceramica, giada, bronzo, legno laccato, profumi e spezie.

Un tessuto dalle origini leggendarie La produzione della seta – il termine tecnico è sericoltura – ha una lunga storia, che inizia in Cina alcuni millenni prima di Cristo. Per secoli gli Occidentali hanno saputo pochissimo di questo prezioso tessuto, prodotto da bachi, cioè larve di una particolare specie di farfalle, il Bombyx mori. I bachi di questa specie secernono la seta per costruirsi attorno un bozzolo al cui interno subiscono la metamorfosi che li trasforma in farfalle. Fin da tempi molto antichi, in Oriente, gli uomini hanno imparato ad allevare questi insetti per ottenere quel tessuto di grande qualità.

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dipanata. Le ghiandole sericigene del bruco iniziano a secernere filamenti liquidi ricoperti da una sorta di gomma (sericina) che li salda in unico filamento, solidificandosi al contatto con l’aria. II bruco si chiude in questo filo continuo che diventa il bozzolo. Alcuni vengono conservati per la riproduzione, attendendo che il bruco si trasformi in farfalla e deponga le uova; altri bozzoli invece forniscono la seta «dipanata», quelli rovinati la seta «filata di scarto». Perché il filamento sia continuo è necessario uccidere la crisalide: i bozzoli vengono immersi in un bagno d’acqua calda che dissolve la sericina, saldando tra loro tutte le spire del filamento. Nell’acqua tiepida vengono afferrate le estremità di questi fili, unendone sei o sette per ottenere un sottile filo di seta, mentre ne occorrono fino a venti e trenta per un filo piú consistente. Tale operazione si effettua con un aspatoio rotativo azionato a pedali, il saosiji, macchina per dipanare e filare. Si ottiene un filo continuo, resistente, brillante, morbido e di un’elasticità estrema.

Secondo la tradizione cinese, la tecnica della lavorazione della seta nacque in Cina: sarebbe stata Hsi Ling Shih, moglie leggendaria di un altrettanto leggendario imperatore, a introdurre l’allevamento del baco da seta intorno al 3000 a.C. Tuttavia, alcuni recenti ritrovamenti archeologici (attrezzi per la lavorazione della seta, frammenti di tessuto e bozzoli fossili risalenti ad almeno 6000 anni fa) mostrano che nella regione cinese vicino al Fiume Azzurro l’origine della sericoltura era ancora piú antica. Nel corso dei millenni, la selezione operata dagli allevatori ha portato a fare del Bombyx mori una specie il cui unico scopo sembra essere la produzione di seta: la farfalla è cieca e incapace di volare, ed è in grado solo di deporre uova per formare un’altra generazione di bachi. La produzione di seta è un processo molto delicato (vedi box in queste pagine); richiede grande attenzione nell’allevamento dei bachi, che vengono nutriti con foglie di gelso e tenuti in particolari condizioni di umidità e temperatura. Quando hanno raggiunto un’adeguata fase del loro sviluppo, per alcuni giorni producono i lunghi filamenti con i quali costruiscono il bozzolo.


In basso e nella pagina accanto, a destra due immagini tratte da un album che illustra le varie fasi della coltivazione e produzione della seta. Dinastia Qing, XIX sec. Brooklyn, Brooklyn Museum.

L’allevatore, a quel punto, uccide i bachi, di solito con un getto di vapore, dopodiché i bozzoli vengono immersi in acqua, per ammorbidire la seta, che si libera in sottili filamenti. L’uccisione dei bachi è necessaria per impedire che, uscendo dal bozzolo, gli insetti rompano i lunghi fili; sono questi ultimi, infatti, che sapranno dare alla seta le sue caratteristiche peculiari. Il tessuto che si ottiene dal filato è piú leggero e bello da vedere della lana o del cotone, è molto resistente e mantiene il caldo in inverno e il fresco in estate. Il suo prezzo elevato è dovuto alla complessità del processo di produzione e ai suoi costi.

Uno status symbol esclusivo e ricercato In Cina, la seta rimase per un certo tempo un privilegio degli imperatori, i soli ai quali era permesso di indossare abiti confezionati con il prezioso materiale. In seguito, però, l’uso del tessuto si diffuse in tutte le classi sociali. Non solo, ma la seta iniziò a essere utilizzata, oltre che per realizzare abiti e tessuti ornamentali, anche per produrre corde per strumenti musicali, reti da pesca, cinture e legacci. Divenne, insomma, una componente fondamentale dell’economia cinese, e la sua produzione

I Cinesi inventarono, quindi, la manovella e una sorta di mulinello che consentiva di raccogliere il filo in matasse. Del resto, la seta si commerciava spesso in questa forma (non ancora tessuta). Le matasse venivano colorate con tinture d’origine vegetale. Col tempo furono utilizzati telai assai elaborati, dotati di cinghie per convertire il movimento rotatorio in rettilineo, longitudinale e viceversa. Si arrivò quindi alla creazione del telaio detto «a bacchette», attrezzato con un sistema paragonabile a quello dei telai a spolette, in uso da tempi molto antichi, e quello detto «a navetta», che consentiva il disegno su trama (e non in ordito), realizzato a partire dal VI secolo, e che velocizzò i tempi di tessitura.

Un baco da seta (Bombyx mori) secerne i filamenti che danno vita al suo bozzolo e dai quali si ricava poi il filo di seta.

aumentò al punto che i Cinesi iniziarono a esportare la seta verso l’Occidente. La tecnica della produzione rimase a lungo un segreto per gli Occidentali, che però conoscevano i tessuti giunti attraverso le rotte commerciali che univano la Cina al Mediterraneo. Abiti in seta sono stati ritrovati in tombe egizie, e vesti di seta erano indossate dai membri delle piú ricche famiglie romane. Si racconta che, intorno al VI secolo d.C. alcuni monaci avessero portato segretamente a Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’Oriente, le uova dei bachi da seta dalla Serindia (odierno Xinjang), dando un contributo decisivo alla diffusione della sericoltura a Bisanzio, mentre l’Europa, e in particolare l’Italia, dovettero attendere fino al XIII secolo per impiantare una propria produzione di seta. Oggi, sebbene le fibre

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sintetiche abbiano sostituito la seta per moltissimi usi, questo tessuto rimane molto diffuso e la Cina è tornata, da alcuni anni, a esserne il maggior produttore mondiale, grazie a costi di produzione estremamente contenuti, mettendo in crisi, tra l’altro, la produzione italiana, un tempo fiorente, soprattutto in Lombardia.

Commerci transnazionali L’enorme interesse suscitato dalle storie connesse ai commerci tra Oriente e Occidente è dovuto anche al fascino evocativo del nome stesso di «Via della Seta», tanto suggestivo quanto ambiguo e ingannevole. Cosí, per esempio, nel cosiddetto deep web, quella parte della rete ai limiti della legalità che non viene indicizzata dai motori di ricerca, uno dei siti piú tristemente famosi per offrire protezione e anonimato a potenziali trafficanti di armi e droghe e membri di organizzazioni criminali è chiamato, appunto, «Silk Road». Nel bene e nel male, un simbolo globale del commercio transnazionale. La storia millenaria, e in gran parte consegnata alla leggenda, della Via della Seta continua ad affascinare segretamente la modernità. Cosí, in un libro giustamente famoso, Ombre sulla Via della Seta (edito nel 2006 e disponibile anche nella traduzione italiana di Raffaella Belletti, pubblicata da Ponte alle Grazie, Milano) Colin Thubron, uno dei piú noti scrittori di viaggio inglesi, ha ripercorso le strade che per secoli hanno dato vita a una globalizzazione arcaica quanto febbrile, di cui la seta divenne il simbolo. Il confronto con l’attualità suggerisce che neppure le devastazioni piú A sinistra dipinto su seta raffigurante un’ancella, dall’oasi di Astana (Turfan, Xinjiang). VII-VIII sec. d.C. Nella pagina accanto e a destra foto e restituzione grafica di una pittura su seta raffigurante una dama in vesti sfarzose, un drago e una fenice, principale animale totemico dello Stato di Chu, da Chenjiadashan (Changsha, Hunan). Periodo degli Stati Combattenti (475-221 a.C.). Hunan, Museo Provinciale.

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una magnifica ossessione

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on c’è merce che non abbia valore di sogno. Ma la seta, con i suoi magici riflessi, è forse quella che ha acceso i desideri piú ardenti. Dopo essere apparsa per la prima volta a occhi occidentali oltre duemila anni fa, durante una battaglia nel deserto fra Romani e Parti, non ha mai smesso di rappresentare una magnifica ossessione. Simbolo di ricchezza e potere, primo esempio di valuta pregiata in India e in Cina (dove il segreto della sua fabbricazione, custodito gelosamente per secoli, è stato oggetto dei primi tentativi di spionaggio industriale della storia), il prezioso tessuto ha viaggiato attraverso le piste inaugurate da Alessandro Magno, poi percorse in pace dalle carovane dei mercanti e dai monaci buddhisti, e in guerra dalle armate dell’Islam, del Celeste Impero e dei khan mongoli. La riscoperta della Via della Seta da parte del mondo cristiano si deve alle cronache, in parte favolistiche, di Giovanni da Pian del Carpine, ai miti esotici raccolti nel Milione da quel geniale millantatore che fu Marco Polo e ai diari di viaggio di un prestigioso intellettuale islamico del Medioevo, Ibn Battuta. Ma anche a opere di taglio piú schiettamente letterario (dalle Mille e una notte ai racconti dei sette viaggi di Sindbad il marinaio) oppure a tradizioni improbabili (come quella del fantomatico Prete Gianni, il cui misterioso regno, mai localizzato con certezza sulle carte geografiche del tempo, fu però nominato da tutti), che sono ancora oggi capaci di trasmettere un riverbero di quel lontano splendore. Questo turbinio di storie, leggende, avventure, incontri e scontri è stato narrato sapientemente da Édith e François-Bernard Huyghe in La Via della Seta da Alessandro a Tamerlano (Lindau, Torino 2007). Nelle pagine del libro, la Via della Seta appare come un orizzonte aperto, un ponte gettato fra civiltà e culture diverse, un’arteria vitale per gli scambi commerciali e la circolazione delle idee, che ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione, mantiene intatta la sua suggestione.

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Il quadrante settentrionale dell’antica Jiaohe (Xinjiang), una delle zone piú interessanti della città, nella quale si concentrano 101 stupa. Questi ultimi sono monumenti funerari o cenotafi – sepolcri vuoti – che compaiono in India e si diffondono poi in Cina, dove assumono forme simili a quelle delle torri di avvistamento Han, che preludono alla creazione delle pagode.

feroci – dalle orde di Tamerlano al flagello della SARS – possono cancellare simili legami ancestrali. La Cina moderna, lo smarrimento delle repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan dilaniato da decenni di conflitti, le contraddizioni dell’Islam: tutto questo rivive nel racconto di Thubron, in una ricerca minuziosa fra le rovine di epoche lontane, che riemergono nei resti di un minareto nel deserto, nelle iscrizioni intraducibili di un tempio perduto, nei tratti somatici delle persone incontrate.

«Seguire un fantasma...» La Via della Seta finisce per assumere su di sé il significato piú oscuro – tanto pauroso quanto attraente – del viaggio stesso: la sensazione di partire e, come accade al fantasma del mercante sogdiano che si annida fra le pagine del racconto, di smarrirsi nel deserto. Invitiamo dunque il lettore a seguirci in questo itinerario nello spazio e nel tempo. Come scrive Thubron, infatti, «cento motivi reclamano la partenza. Si parte per entrare in contatto con altre identità umane, per riempire una mappa vuota. Si ha la sensazione che quello sia il cuore del mondo. Si parte per incontrare le molteplici forme della fede. Si parte perché si è ancora giovani e si desidera ardentemente essere pervasi dall’eccitazione, sentire lo scricchiolio degli stivali nella polvere; si va perché si è vecchi e si sente il bisogno di capire qualcosa prima che sia troppo tardi. Si parte per vedere quello che succederà. Tuttavia, seguire la Via della Seta significa seguire un fantasma. Si dipana attraverso il cuore dell’Asia, ma ufficialmente è scomparsa lasciandosi alle spalle il tracciato della propria irrequietezza: confini alterati, popoli non riportati sulle carte. La Via si biforca e vaga ovunque voi siate. Non è una sola strada, ma molte: una rete di scelte».




Gonur Nord (Turkmenistan). Foto aerea zenitale dell’imponente complesso palatino scavato da Viktor Sarianidi. 2300-2100 a.C. L’insediamento si trova nell’area un tempo compresa nella Margiana, provincia nord-orientale dell’antica Persia.

PRIMA

DELLA VIA

Molti secoli prima dell’apertura «ufficiale» della via della Seta, l’Asia centrale fu un importante crocevia di civiltà tra la Mesopotamia e la Cina: un mondo rimasto sconosciuto per millenni e la cui scoperta risale a pochi decenni fa

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LE ORIGINI

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ebbene gli storici facciano risalire l’apertura «ufficiale» della Via della Seta al viaggio compiuto dal diplomatico cinese Zhang Qian alla fine del II secolo a.C., influenze culturali e rapporti commerciali indiretti tra le civiltà della Mesopotamia, della valle dell’Indo e del fiume Giallo erano già in corso da diversi secoli attraverso i crocevia dell’Asia centrale. Quest’ultima, proprio come l’Egitto, la Mesopotamia, l’India e la Cina, era attraversata da grandi bacini fluviali che consentivano lo sviluppo dell’agricoltura e, con essa, della civiltà. Di questa civiltà, tuttavia, l’archeologia moderna non ha avuto consapevolezza fino a tempi molto recenti. Niente di simile ai grandi palazzi di Micene e Cnosso, alle necropoli egizie, agli ziqqurat mesopotamici o alle città sull’Indo di Harappa e Mohenjo Daro era stato mai rinvenuto in questa parte dell’Asia fino a pochi decenni fa. Ma quando le scoperte cominciarono finalmente ad affiorare dai deserti e dalle

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steppe, i risultati furono incredibili. Il merito di aver riportato alla luce questo antico mondo perduto spetta all’archeologo sovietico di origine greca Viktor Sarianidi (1929-2013), il quale, durante un viaggio compiuto negli anni Cinquanta, rimase colpito da una serie di tumuli che aveva individuato nel deserto del Kara-Kum (Turkmenistan). Si era fatto l’idea che quelle strane escrescenze del terreno potevano essere i resti di antichi insediamenti costruiti con mattoni di fango, che, col passare del tempo, gli agenti atmosferici e la sovrapposizione di altre costruzioni avevano «compresso» in colline artificiali.

Sulla «Collina di Gonur» Deciso ad andare fino in fondo, una trentina d’anni piú tardi Sarianidi ritornò sul posto che i locali chiamavano Gonur Tepe, «la Collina di Gonur», e finí per dissotterrare non uno, ma addirittura due insediamenti fortificati disposti lungo un asse nord-sud, oltre una vasta

Nella pagina accanto i resti del Palazzo Reale di Gonur, costruito con mattoni crudi. In basso Gonur (Turkmenistan). L’archeologo Viktor Sarianidi (1929-2013) riporta in luce i resti di una cassa intarsiata con immagini di creature mitologiche ed elementi geometrici in faïence. Tardo III mill. a.C.


Nettare divino

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l ritrovamento, in alcuni locali degli insediamenti di Gonur Tepe e Togolok, di residui di efedra e semi di papavero ha spinto l’archeologo Viktor Sarianidi a ipotizzare l’esistenza di un culto «protozoroastriano», incentrato sul consumo di una bevanda narcotica e allucinogena a base di efedra, simile all’haoma dei rituali zoroastriani e al soma dei Veda, che farebbe della Civiltà dell’Oxus la culla della religione fondata dal profeta Zarathustra. Una simile ipotesi, che ha trovato finora solo scarso consenso tra gli esperti, potrebbe in qualche modo avvalorare le notizie riportate

dallo storico greco Xanto di Lidia (V secolo a.C.), secondo il quale Zoroastro, nome ellenizzato di Zarathustra, sarebbe vissuto 6000 (o 600!) anni prima del 480 a.C., quando il re persiano Serse invase la Grecia. Le notizie sulla vita di Zarathustra sono tuttavia confuse e contraddittorie; secondo il Bundahishn, un testo zoroastriano il cui esemplare piú antico risale al IX secolo d.C., il profeta iranico sarebbe vissuto nel periodo compreso tra il 618 e il 541 a.C. Tale datazione è quella oggi maggiormente accettata dagli studiosi, fra cui il celebre iranista e storico delle religioni italiano Gherardo Gnoli (1937-2012).

necropoli piú a ovest. L’intera area archeologica copriva una superficie di piú di 30 ettari. Gonur Nord, l’insediamento piú antico e imponente, risaliva all’età del Bronzo Medio (2500-1500 a.C.) ed era costituito da una cittadella fortificata con torri rettangolari e da una parte residenziale piú esterna, protetta da un’altra cinta muraria turrita. Il complesso sorgeva all’interno di un’area ancora piú grande, delimitata da un lungo muro ovale. Nella cittadella era situato il palazzo composto da sale e corti, un magazzino e quelli che Sarianidi identificò come i vari templi «del Fuoco», «delle Acque», «dei Sacrifici», «dei Banchetti comunitari» e «di Mithra». Il sito venne abbandonato nella tarda età del Bronzo in favore del piú piccolo centro di Gonur Sud, composto da un duplice sistema difensivo: una fortezza quadrangolare esterna con torri di pianta circolare e un palazzo all’interno di una rocca protetta da altre torri rotonde. La scoperta di Gonur Tepe innescò un effetto domino nella regione, tanto che negli anni

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LE ORIGINI

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Sulle due pagine recipienti in terracotta contenenti ossa animali, pigmenti colorati, sigilli in bronzo e qualche vaso in alabastro, dalle tombe comuni di Gonur. Tardo III mill. a.C.

successivi furono dissotterrate altre maestose cittadelle fortificate a Togolok (Turkmenistan), Jarkutan e Sapalli Tepe (Uzbekistan) e Dashli (Afghanistan). Lo stile delle fortificazioni era leggermente diverso da regione a regione, ma la suddivisione degli spazi si ripeteva secondo uno schema costante: un palazzo fortificato al centro, affiancato da un tempio, e uno o piú quartieri residenziali racchiusi da altrettante sezioni di mura concentriche, come a Togolok; oppure palazzo e tempio separati, ma protetti comunque da imponenti strutture difensive, come a Jarkutan e Dashli. Questo tipo di architettura si inseriva perfettamente nella piú vasta ecumene delle «civiltà palaziali» diffuse nell’Eurasia dell’età del Bronzo e presenta significative affinità con i grandi centri della Grecia micenea e dell’Anatolia ittita e con le città-fortezza della Cina di epoca Shang. Con quest’ultima le antiche città dell’Asia centrale condividevano anche il tipo di economia idraulica, basato sulla costruzione di imponenti opere di canalizzazione dei fiumi per lo sviluppo di un sistema di agricoltura

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LE ORIGINI

questo, gli archeologi hanno scoperto impressionanti analogie tra una serie di sigilli circolari, quadrati e cruciformi rinvenuti nelle città dell’Oxus e la stessa tipologia di oggetti già noti negli antichi centri della Mesopotamia e della valle dell’Indo. L’aspetto ancor piú sorprendente è dato dalla grande varietà dei sigilli centro-asiatici, che sembra raggruppare tutte le diverse tipologie diffuse singolarmente nelle diverse culture dell’età del Bronzo dell’Asia occidentale e meridionale, probabile segno che i contatti tra queste e la Civiltà dell’Oxus dovevano essere davvero molto intensi, e che forse l’ambiente di questi insediamenti fosse, almeno inizialmente, multietnico. Quanto alla specifica funzione dei sigilli, si pensa che venissero utilizzati come segni di riconoscimento delle varie classi sociali o, in alternativa, come marchi di proprietà da apporre sulle merci. L’influenza mediatrice della Civiltà dell’Oxus e la rete dei traffici che la attraversavano erano intensiva. In Asia centrale questo avveniva paradossalmente a discapito dell’aridità del clima della regione e garantiva la popolazione dal rischio di carestie, poiché i due principali bacini fluviali che alimentavano questi insediamenti, il Murghab in Turkmenistan e l’Amu Darya in Afghanistan e Uzbekistan traevano origine dai ghiacciai delle vicine catene montuose, il Kopet Dagh nel primo caso e il Pamir-Hindu kush nel secondo, assicurando un flusso continuo di acque. L’influenza delle acque era talmente importante che gli archeologi hanno tratto il nome proprio da uno di questi fiumi per definire questa civiltà altrimenti anonima: la Civiltà dell’Oxus, il nome con cui era noto l’Amu Darya agli antichi Greci.

All’incrocio di tre mondi La Civiltà dell’Oxus era situata all’incrocio di tre mondi, con i quali manteneva stretti rapporti culturali e commerciali: la Mesopotamia a sudovest, la valle dell’Indo a sud-est e le steppe a nord, che, a loro volta, la mettevano in comunicazione con la Cina. A riprova di tutto

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Sulle due pagine reperti emersi dalla tomba 3220, una delle piú ricche di Gonur. Tardo III mill. a.C. A sinistra e in basso vaso in oro sul cui fondo sono incisi il profilo di un cammello e di un arco, che potrebbero essere simboli del valore militare di un capo nomade. Nella pagina accanto un ornamento in lamina d’oro a forma di stella.


cosí estese da far sentire i loro effetti addirittura fino in Cina. Sembra, infatti, che l’arte del bronzo e alcuni motivi artistici di carattere animalistico diffusi in Cina a partire dal periodo Shang (1700-1046 a.C.) siano il frutto di lontani influssi mesopotamici attraverso l’Asia centrale. Forme del vasellame Shang si ritrovano nella cultura tardo-sumerica di Jemdet Nasr in Mesopotamia e nella grande metropoli di Mohenjo Daro, sul basso corso dell’Indo. Permane solo il dubbio sull’identità delle genti che fecero emergere quasi dal nulla una civiltà di tale importanza e influenza, in una zona sí favorevole allo sviluppo dell’agricoltura, ma pur sempre a grande distanza dai piú antichi centri di diffusione della civiltà a sud e a ovest.

Le grandi migrazioni Le imponenti e sofisticate opere difensive che proteggevano le città dell’Asia centrale nell’età del Bronzo sono indice di una società militarizzata che doveva guardarsi dal pericolo di aggressioni di varia natura. Poteva trattarsi di invasori e razziatori esterni, ma forse anche

di lotte intestine fra centri rivali; gli studiosi non concordano sulla forma di governo prevalente nella Civiltà dell’Oxus. Alcuni ritengono che la massiccia opera di canalizzazione e parcellizzazione dei lotti agricoli fosse possibile solo in presenza di un forte potere centralizzato, come accadeva anche in Egitto, Mesopotamia e Cina; altri ipotizzano invece una struttura a carattere federale, con numerose città-stato unite da vincoli culturali e religiosi, ma formalmente indipendenti tra loro, come dimostra la storia dell’Asia centrale in età piú recenti. La presenza di tribú bellicose oltre i confini, specialmente a nord, è comunque un elemento accertato, e per la Civiltà dell’Oxus doveva costituire tanto un fattore di rischio, quanto una potenziale fonte di guadagno dal commercio in tempo di pace. L’Asia centrale si trovava infatti lungo una delle principali rotte migratorie utilizzate dalle popolazioni parlanti le prime lingue indoeuropee della storia. In particolare, durante la media e tarda età del Bronzo, nelle vaste steppe subito a nord della Civiltà dell’Oxus si era venuta formando la cosiddetta Cultura di Andronovo (2000-1000 a.C.), che gli archeologi hanno identificato con il nucleo originario delle prime culture indo-iraniche: gli Arii dell’India vedica e gli antenati dei Medi e dei Persiani. Gli Andronoviani vivevano in piccole città e villaggi all’interno di grandi case parzialmente interrate (probabilmente a fini di termoregolazione) e basavano la propria sussistenza sull’allevamento di buoi, pecore, capre, maiali e cavalli; erano pastori seminomadi e agricoltori occasionali. La loro espansione si accompagna alla comparsa di molti insediamenti fortificati e «tombe reali», nelle quali il capo veniva seppellito assieme al suo carro da guerra, una nuova arma che, seguendo le rotte delle migrazioni indoeuropee, nel corso del II millennio a.C. era destinata a diffondersi in gran parte dell’Eurasia. Arrivò in Grecia con i Micenei, con gli Ittiti in Anatolia e nel Vicino Oriente, con gli Arii in India e fu introdotto persino nella Cina del Nord dalla dinastia

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LE ORIGINI

Shang. Raffigurazioni di carri da guerra, spesso accompagnati dalla simbologia solare delle svastiche e da decorazioni geometriche sono frequentissime sulla ceramica di Andronovo, che è stata rinvenuta in quantità considerevole anche nel periodo finale dell’area culturale dell’Oxus. La tipica struttura circolare a piú livelli concentrici dei villaggi fortificati L’estremità occidentale del deserto del Taklamakan (Xinjiang, Cina), ai piedi dei monti del Pamir. Detto il «Mare della Morte», il deserto è attraversato, lungo i margini settentrionale e meridionale, dalla Via della Seta.

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andronoviani, cosí simile alla pianta difensiva di alcuni fra i maggiori centri dell’Oxus – come il complesso templare di Dashli – desta molti sospetti circa le influenze reciproche e, forse, sulle lontane origini di questa misteriosa civiltà. Certo è che, nell’ultima fase dell’età del Bronzo, la Civiltà dell’Oxus sembra declinare lentamente a scapito dell’espansione


dell’area culturale di Andronovo. Gli scambi con Iran, Mesopotamia e valle dell’Indo diminuiscono a favore dei traffici con il Nord, la tradizione dell’architettura monumentale non viene rinnovata e in alcuni siti della Margiana (Turkmenistan) compaiono le caratteristiche case dei villaggi andronoviani, probabile segno di un’immigrazione e di una

graduale sovrapposizione etnica di gruppi indoeuropei dalle steppe.

Il mondo degli Sciti L’espansione demografica attraverso le steppe eurasiatiche e l’altopiano iranico delle popolazioni indoeuropee durante l’età del Bronzo ebbe come risultato, nella successiva (segue a p. 28)

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LE ORIGINI

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Le mummie del Tarim

D

alla fine degli anni Settanta del XX secolo, gli archeologi cinesi che lavoravano nello Xinjiang hanno portato alla luce dai siti sabbiosi del bacino del Tarim (il fiume che attraversa il deserto del Taklamakan, n.d.r.) numerosi corpi essiccati. Si erano preservati in ottime condizioni, subendo un processo di mummificazione naturale dovuto all’azione combinata dell’aridità del deserto di Taklamakan e del tremendo freddo invernale, che limita la crescita batterica. Il fattore piú straordinario è che quasi tutti i cadaveri sono europoidi o caucasoidi e risalgono a un periodo compreso tra i 4000 e i 2000 anni fa. La scoperta è ancor piú sorprendente se si considerano i tratti somatici dei popoli che vivono intorno a questa regione dell’Asia interna. All’inizio si pensò che fossero mercanti o viandanti solitari spintisi molto a oriente della loro patria d’origine, ma negli anni successivi il numero dei ritrovamenti crebbe a tal punto da indurre gli studiosi a elaborare nuove teorie. L’archeologo Han Kangxin è giunto alla conclusione che «i primi abitanti del Bacino del Tarim erano quasi esclusivamente caucasoidi; individui di tipo mongoloide compaiono solo piú tardi e inizialmente in piccolo numero, con una proporzione gradualmente crescente nel tempo». Alla fine dell’Ottocento, in un monastero buddhista dello Xinjiang furono ritrovati manoscritti in piú lingue tra cui il cinese, il mongolo, il sanscrito e vari idiomi iranici. Ma vi erano anche testi scritti in due lingue fino ad allora ignote, databili tra il VI e l’VIII secolo. Le scoperte di altri manoscritti in queste misteriose lingue mai registrate prima si intensificarono

nei primi anni del XX secolo, fino a che, nel 1908, due studiosi tedeschi intuirono trattarsi in gran parte di traduzioni di originali sanscriti già noti e riuscirono cosí a decifrarle. Si rivelarono due dialetti della stessa lingua indoeuropea, una varietà orientale corrispondente alla zona di Turfan e una varietà occidentale della zona di Kucha. A battezzare la nuova lingua fu l’orientalista Friedrich W. K. Müller (1863-1930), che scelse il termine «tocario», quando notò che in calce a uno dei manoscritti si diceva che quell’opera era stata tradotta dal sanscrito in tokhri e dal tokhri al turco. Il fatto straordinario è che il tocario, la lingua indoeuropea piú a oriente mai scoperta finora, appartenga al sottogruppo delle lingue centum, come il celtico e l’italico, e non a quello delle lingue satem, come lo slavo o l’indoiranico, geograficamente piú prossimi allo Xinjiang. Come spiegare allora questa singolarità? Sono state formulate varie ipotesi, ma la piú accreditata è quella di un’antica migrazione dei primi parlanti proto-tocario dalle steppe della Russia meridionale verso est, che vennero poi separati dai loro cugini occidentali da altre ondate migratorie di parlanti lingue indoeuropee del gruppo satem. Si sa poco degli usi e costumi dei primi parlanti tocario, ma gli stupendi siti buddhisti dello Xinjiang mostrano il loro aspetto nel I millennio della nostra era: avevano capelli biondi o rossi, nasi lunghi, occhi verde-azzurri in un viso stretto e corpi alti e snelli. Portavano lunghe spade dritte ai fianchi, proprio come i cavalieri dell’Europa feudale, ma erano abbigliati alla foggia persiana e truccati alla maniera indiana.

In alto la mummia dell’Uomo di Yingpan sfarzosamente abbigliata in seta, dal Bacino del Tarim. IV-V sec. Nella pagina accanto mummia femminile detta la «Bella di Xiaohe», dallo Xinjiang. 1615 a.C. circa.

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LE ORIGINI

età del Ferro (1200-500 a.C. circa), la nascita di vari regni e confederazioni di tribú, che contribuirono a creare un vasto network culturale e commerciale nell’area compresa, alle sue estremità, dalla fascia costiera del Mediterraneo orientale e alle grandi pianure del Fiume Giallo nella Cina settentrionale. Oltre ai beni di lusso e alle idee, che circolavano piú liberamente di quanto spesso si creda ancor oggi, i fattori che illustrano meglio di ogni altro questa nuova rete di scambi furono la diffusione dell’arte della lavorazione del ferro e soprattutto dell’equitazione, che rese obsoleto l’utilizzo del carro da guerra. Tra i principali promotori delle nuove tecniche vi furono gli Sciti, tribú di cavalieri nomadi iranofoni, resi celebri dalle descrizioni che di loro ci ha tramandato lo storico greco Erodoto. Gli Sciti, o Saka – come erano noti ai Persiani –, occupavano un’area vastissima, che si estendeva dalle steppe della Russia meridionale alle pendici degli Altai, i monti che segnano il confine occidentale della Mongolia. Il loro stile di vita e la loro

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economia, descritti dai Greci con un misto di stupore e curiosità, erano qualcosa di mai visto prima nella storia dell’uomo: pastori nomadi che vivevano in tende di feltro e si spostavano sempre a cavallo, accompagnando le mandrie e le greggi durante le migrazioni stagionali da un pascolo all’altro. Si trattava dei primissimi nomadi delle steppe che, da quel momento in avanti, avrebbero dominato incontrastati gli immensi spazi interni del continente eurasiatico, fino alle soglie della Rivoluzione Industriale.

Tre ipotesi per un fenomeno Sebbene siano noti diversi fattori che potrebbero aver contribuito alla nascita del nomadismo e della cultura equestre nei primi secoli dell’età del Ferro, gli storici non concordano sull’esatta sequenza di cause ed effetti che portò a questa rivoluzione nello stile di vita dei popoli delle steppe. Si sa, per esempio, che la pratica dell’equitazione cominciò a diffondersi solo dopo l’invenzione dei primi morsi in

In basso placca in oro a forma di cervo accovacciato dal tumulo di Kul’Oba. V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Elemento decorativo di uno scudo in ferro, il manufatto è un esempio tipico dell’arte scitica, caratterizzata da una combinazione di elementi realistici e astratti, nonché da un senso di compattezza e, al contempo, di dinamismo.


In basso la Patera di Kelermes, da uno dei kurgan dell’omonima regione. VII-VI sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Il felino è realizzato in oro, a stampo, mentre gli occhi, l’orecchio e il naso sono stati ottenuti con la tecnica cloisonné, utilizzando smalti, vetro colorato e pietre preziose.

metallo, i quali, a differenza dei precedenti modelli in corno o in osso, erano molto meno soggetti a usura e permettevano un piú facile controllo dell’animale; ma chi può dire se il nuovo animale da trasporto costituí il volano per lo sviluppo del nomadismo puro, o non fu piuttosto una risposta dovuta a un piú precoce sviluppo della pastorizia nomade, che impose agli allevatori di spostarsi velocemente assieme ai loro animali? Al riguardo sussistono almeno tre diverse teorie. Secondo una prima ipotesi, intorno al 1000 a.C. un cambiamento climatico portò a una diminuzione delle piogge e a un conseguente inaridimento delle steppe, che ridusse l’estensione della terra coltivabile ai margini delle aree agricole, costringendo gli abitanti del posto, già avvezzi a un certo tipo di economia pastorale, a compiere con i loro animali giri lunghi anche centinaia di chilometri per trovare nuovi pascoli da sfruttare. Per una variante di questa teoria, i pastori nomadi esistevano già ai margini delle civiltà agricole, ma furono costretti a

spostarsi e a intensificare la loro economia per effetto della spinta causata dalla pressione demografica degli agricoltori sedentari. Una terza teoria considera invece piú probabile che a segnare il passaggio a uno stile di vita nomade fosse proprio l’improvviso miglioramento delle abilità equestri: era diventato piú facile per ladri di bestiame e razziatori maneggiare armi anche a cavallo, e, di conseguenza, i pastori dei villaggi cominciarono a loro volta a imparare i rudimenti dell’equitazione allo scopo di proteggere i propri animali.

Guerre tribali Nei primi secoli del loro dominio sulle steppe, gli Sciti erano divisi in numerosi gruppi tribali in lotta tra loro e guidati da aristocrazie guerriere di arcieri a cavallo. La competizione per i pascoli e la necessità di difendere i membri non combattenti della tribú, in particolare donne e bambini, imponeva il primato dell’elemento militare, un aspetto della società degli Sciti che è ben testimoniato dagli oggetti ritrovati nelle loro (segue a p. 33)

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La carta mostra l’area interessata dalla presenza degli Sciti nel piú ampio contesto delle civiltà dei nomadi delle steppe euroasiatiche e, nel particolare ingrandito nel riquadro, la zona nella quale è attestata la maggiore presenza di siti riferibili alla loro cultura, concentrati soprattutto nelle regioni bagnate dal Mar Nero.

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LE ORIGINI tesori dalle steppe 1714 Pietro il Grande fonda a San Pietroburgo la Kunstkamera, il primo museo reale russo. 1715-1716 Funzionari imperiali donano allo zar raccolte di oggetti d’oro provenienti da kurgan siberiani. Ancora agli inizi del Novecento la raccolta veniva chiamata dagli studiosi «misteriosa e meravigliosa raccolta di antichità siberiane». 1700-1750 L’Accademia delle Scienze organizza ripetute spedizioni in Siberia e in Kazakistan alla ricerca di tesori sepolti. 1763 Il generale A. P. Melgunov scava un kurgan scitico del VI-VII secolo a.C. nei pressi della città di Elizavetgrad (ora Kirovograd) in Ucraina. 1794 Prima corretta identificazione del sito greco di Olbia Pontica.

In alto il kurgan di Alexandropol in una tavola ottocentesca. Qui sopra sezione ricostruttiva di un kurgan.

In basso pettine in oro decorato con una scena di battaglia, dal kurgan di Solokha (Ucraina). Arte greco-scitica, 530-490 a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

1830 Scoperta casuale e scavo del kurgan di Kul Oba, presso Kersh, con la ricchissima sepoltura di un capo scita del IV secolo a.C., della moglie e di un servo. Il tesoro raggiunge l’Ermitage nel 1831.

1853-1856 Scavo del kurgan di Alexandropol (IV-III secolo a.C.), con ricche sepolture di cavalli seppelliti con i riti descritti da Erodoto. Inizia la grande stagione degli scavi dei kurgan russi. Scoperta nei tumuli di oggetti egiziani, achemenidi e di foggia assira. 1901 Inizio degli scavi scientifici a Olbia. 1903 Scavi irregolari dei tumuli di Kelermes, con altri di notevole ricchezza. 1908-1909 Fine degli scavi a Ul’skij Aul (Kelermes): un tumulo enorme con elaborata struttura lignea e 360 cavalli sacrificati (VI secolo a.C.).

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1913 Nel kurgan di Solokha viene in luce il famoso pettine aureo di foggia greca con scena di duello tra due guerrieri sciti (400-350 a.C. circa). 1960-1970 In Ucraina, lavori per la costruzione di canali di irrigazione intorno al Mar Nero portano allo scavo di centinaia di tumuli databili al VI-V secolo a.C., ricchi di preziosi manufatti. Cresce la consapevolezza delle connessioni stilistiche tra Scizia europea, Caucaso, Armenia e Azeirbaigian. 1971 Nella stessa regione, il tumulo di Tolstaja Mogila restituisce il celebre torque in oro con scene di vita dell’aristocrazia scita. 1990-2014 Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, l’enfasi degli scavi in Ucraina e in Russia si sposta gradualmente dai complessi sepolcrali agli insediamenti e alle fortezze scitiche. Nel frattempo, le tombe gelate che si trovano tra i monti Altai, la Cina, il Kazakistan, la Mongolia e la Russia, con il loro carico di corpi mummificati, uomini e cavalli sacrificati, tessuti, selle e gioielli in legno dorato e oro, stanno per scongelarsi insieme al permafrost che le circonda, per effetto del riscaldamento globale.

tombe, i tumuli disseminati per la steppa noti come kurgan, che contenevano soprattutto punte di lance e frecce, finimenti per cavalli e piccoli oggetti d’oro o di bronzo come fibbie e monili. Col passare del tempo, man mano che le tribú piú forti assorbivano o si imponevano sulle altre, le guerre tribali persero di intensità e si vennero formando le prime confederazioni di tribú, che in alcuni casi assunsero i connotati di veri e propri regni. Erodoto ne ricorda due, gli Sciti reali nelle steppe a nord del Ponto Eusino (Mar Nero) e i Massageti nelle steppe dell’Aral. Le conseguenze di questi sviluppi, che potremmo definire proto-statali, si fecero sentire anche sulle classi dominanti del mondo

Filosofia scita?

C

hristopher I. Beckwith, storico dell’Asia centrale e dei popoli delle steppe, nel libro Empires of the Silk Road (Imperi della Via della Seta, Princeton 2009) ha di recente riproposto la questione del simultaneo sviluppo della filosofia e della scienza politica nella Grecia classica, in India e in Cina. Come valutare infatti il dato che i grandi filosofi greci Socrate, Platone e Aristotele fossero piú o meno contemporanei degli indiani Gautama Buddha (VI-V secolo a.C. circa) e Kautiliya (321-296 a.C. circa), e dei cinesi Confucio (550-480 a.C. circa) e Lao-tzu (V secolo a.C.)? Sebbene non vi siano prove di contatti o influenze dirette tra questi tre mondi, Beckwith ritiene che l’improvvisa fioritura del nuovo sapere nelle civiltà ai margini del continente eurasiatico non sia stata casuale. In tutti e tre i casi si trattò di pensatori che – a differenza della scienza che li aveva preceduti – si interrogarono su quale fosse la migliore forma di governo praticabile e se fosse possibile per l’uomo raggiungere la felicità in questa vita. Del resto, lo sviluppo di città e commerci in quei secoli facilitò l’emergere di nuovi ceti mercantili che non erano piú legati esclusivamente al potere

centrale come gli scribi, ma, attraverso i viaggi, entravano in contatto con nuovi popoli e le loro idee. E siccome a quei tempi l’unica forma di collegamento, seppure indiretto, tra Paesi come la Grecia, l’India e la Cina erano le vie terrestri attraverso le steppe dell’Asia centrale, il ponte tra tutte queste idee, poi sviluppatesi in forme diverse e originali nelle tre civiltà, potrebbe effettivamente essere stato il mondo degli Sciti e dei loro «sciamani». A tal proposito Beckwith ricorda come uno dei celebri sette sapienti di Grecia fosse proprio il principe scita Anacarsi, mentre secondo la tradizione cinese Lao-tzu, ormai alle soglie degli ottant’anni, decise di ritirarsi come eremita in cerca della saggezza ultima tra i popoli «barbari» dell’Ovest. In Greek Buddha (Princeton 2015), Beckwith ha spinto la sua affascinante teoria ancora oltre: culla del buddhismo sarebbe l’Asia centrale e non l’India. Lo storico statunitense traduce infatti l’appellativo onorifico del Buddha, Shakyamuni, con l’espressione «il saggio scita» (Saka= Scita) e, nel primo capitolo del saggio, «Filosofia scita», lo classifica come uno dei due grandi filosofi sciti della tradizione greca.

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LE ORIGINI

scita. Le tombe piú recenti diventano infatti piú grandi, e, oltre al consueto corredo di armi e finimenti per cavalli, sepolti assieme ai cavalieri, contengono veri e propri tesori di oggetti d’oro, la maggior parte dei quali lavorati nel cosiddetto «stile animalistico», diffuso in tutta l’area di influenza degli Sciti. Un simile splendore doveva essere probabilmente il risultato della concentrazione del potere nelle mani di una cerchia piú ristretta di aristocratici, i membri dei nuovi clan reali e le famiglie piú in vista a essi legati da vincoli di parentela o alleanza, i quali, a fianco della tradizionale funzione guerriera, erano divenuti i nuovi garanti dell’ordine e della pace tra le tribú. Per tre lunghi secoli, dal VI al III a.C., non si assiste infatti a grandi spostamenti e stravolgimenti di popoli nelle steppe.

Nella pagina accanto, in alto frammento di una copertura di sella raffigurante un alce, dal kurgan 2 di Pazyryk (Altai). Feltro. V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. In basso terminale raffigurante un grifone che tiene nel becco un cervo, da Pazyryk (Altai). V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

proprio il satrapo della Battriana a offrire ad Alessandro Magno un pretesto per invadere queste regioni. La resistenza delle locali popolazioni iraniche, coalizzate con gli Sciti contro gli invasori macedoni fu una lotta spesso all’ultimo sangue, ma in definitiva senza possibilità di vittoria. Dovettero comunque guadagnarsi il rispetto del grande conquistatore, se per realizzare il suo sogno di fusione tra Greci e Persiani Alessandro scelse di dare l’esempio prendendo in moglie Roxana, una principessa sogdiana.

Pezze di seta e specchi cinesi Nelle tombe scitiche piú recenti è stata rinvenuta anche una terza tipologia di oggetti che getta nuova luce sulle principali attività svolte dalle aristocrazie delle steppe. Si tratta di beni di lusso come specchi e abiti pregiati. Nei kurgan di Pazyryk, negli Altai, erano sepolti pezze di seta e specchi cinesi del lontano regno di Qin, mentre dagli stessi Altai partiva la cosiddetta «Via dell’Oro», che collegava i giacimenti auriferi di quei monti all’emporio greco di Tanais, sul Mar Nero. Gli Sciti erano anche gli intermediari del commercio del miele e delle pellicce tra la Siberia meridionale e i regni dell’Asia del Sud. I re delle steppe si erano trasformati in veri e propri principi mercanti, i primi impresari commerciali della Via della Seta. Nel corso del VI secolo a.C. i territori dell’Asia centrale vennero incorporati nell’Impero persiano degli Achemenidi, suddivisi nelle tre grandi satrapie di Margiana (Turkmenistan), Sogdiana (Uzbekistan) e Battriana (Tagikistan e Afghanistan). Circa duecento anni piú tardi, con l’assassinio dell’ultimo re dei re, Dario III, fu

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La ricchezza dei corredi rinvenuti nelle tombe piú recenti riflette la concentrazione del potere nelle mani degli aristocratici


Prima di ripartire alla volta dell’India, il Macedone fondò cinque colonie centroasiatiche alle quali diede il suo nome, lasciandovi di guarnigione alcuni veterani con le famiglie e gli schiavi. Alla sua morte, nelle lotte di successione scatenate dai suoi generali, l’Asia centrale finí tra i possedimenti di Seleuco Nicatore, il quale, ironia della sorte, aveva anch’egli sposato una principessa sogdiana, Apama. Sebbene si fosse trattato, almeno inizialmente, di un matrimonio combinato, la loro fu l’unica unione interetnica tra un generale macedone e una donna orientale che sopravvisse alla morte di Alessandro. A Seleuco la moglie faceva certamente comodo nei rapporti coi nuovi sudditi iranici, ma piú di un indizio lascia comunque supporre che la durata del sodalizio tra i due fosse resa possibile anche dal sincero amore di Seleuco per la propria sposa. Ai tempi del re Antioco II, nipote di Seleuco, i coloni greci stanziati in Battriana si ribellarono al dominio macedone e dichiararono

A destra terminale raffigurante un cervo, da Pazyryk (Altai). Cuoio e legno. V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

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LE ORIGINI

l’indipendenza. Verso il 250 a.C. il loro satrapo Diodoto si proclamò re della Battriana e diede cosí inizio a quello che gli storici moderni definiscono il «regno greco-battriano». Di questo regno, durato oltre un secolo, si hanno purtroppo notizie scarse e frammentarie dalle pagine degli storici antichi, cosí che per ricostruirne la storia si deve necessariamente ricorrere all’interpretazione del materiale

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In alto coprisella decorato con grifoni che attaccano capre di montagna, dal kurgan 2 di Pazyryk (Altai). Feltro, cuoio, pelliccia e oro. V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

archeologico e numismatico, quest’ultimo disponibile fortunatamente in una grande varietà di monete pregiate, che testimoniano la ricchezza e il potere raggiunti dai misteriosi sovrani greco-battriani. Conservata nel Cabinet des Medailles di Parigi, si può oggi ammirare la piú grande moneta dell’antichità, un magnifico pezzo in oro da 20 stateri, di 58 mm di diametro, coniato dal re greco Eucratide il


La piú grande moneta dell’antichità celebra la presa di Alessandria al Caucaso

In basso, sulle due pagine mummia di un personaggio influente di Pazyrik, dal kurgan 5 del sito. V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. A sinistra moneta di Eucratide I, il Grande, del valore di 20 stateri. II sec. a.C. Parigi, Cabinet des Medailles. Al dritto, la testa del re; al rovescio, due lancieri a cavallo identificati con i Dioscuri, Castore e Polluce, i numi tutelari di Eucratide.

Grande (171-145 a.C.) per commemorare la conquista di Alessandria al Caucaso (Hindu Kush, nei pressi dell’odierna Begram, Afghanistan): su una delle due facce compare il re con indosso l’elmo beotico della cavalleria macedone, sull’altra una coppia di lancieri a cavallo identificati con i Dioscuri Castore e Polluce, i numi tutelari di Eucratide.

«L’invincibile» Demetrio Dopo avere resistito a un tentativo di riconquista seleucide da parte di Antioco III, la direttrice di espansione dei re greco-battriani si spostò a sud-est, verso l’India, dove persino Alessandro si era fermato. Il declino dell’impero Maurya e l’occasione di superare le gesta del Macedone spinsero nel 180 a.C. il re Demetrio I a organizzare l’invasione della pianura indogangetica, che si rivelò una marcia trionfale conclusasi con la presa di Pataliputra, la capitale Maurya sul basso corso del Gange, il punto piú a oriente mai raggiunto fino ad allora da qualsiasi generale greco, tanto da consentire a Demetrio di fregiarsi del titolo di aniketos, «l’invincibile». L’influenza del regno greco-battriano si estendeva in profondità anche nelle steppe centroasiatiche e oltre la catena del Pamir, verso la Cina. Il geografo greco Strabone – forse con una punta di esagerazione – riferiva infatti che l’impero dei Greci di Battriana arrivava fino alla zona abitata dai popoli dei Seri

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LE ORIGINI

A sinistra capitello con i quattro leoni, proveniente dalla sommità della colonna di Ashoka. III sec. a.C. Sarnath, Museo Archeologico. Nella pagina accanto statua in arenaria forse rappresentante una dea madre, da Nongarh, località nello Stato indiano del Bihar che sorgeva non lontano da Pataliputra (oggi Patna), capitale dell’impero Maurya. II-I sec. a.C. In basso frammento di ceramica raffigurante un mercante sogdiano. Dinastia Sui, 581-618 d.C. Parigi, Musée Cernuschi.

e dei Phryni. I Seri in particolare, il cui nome richiama la seta come era nota ai Greci e ai Romani, rappresentano un piccolo mistero. La loro ricorrente identificazione con gli antichi Cinesi sembra non tenere conto delle notizie riportate nella Storia naturale di Plinio il Vecchio, il quale cita il racconto di alcuni mercanti indiani che li avevano raggiunti per commerciare: «Oltre i Monti Emodi [Himalaya], essi incontrarono il popolo dei Seri, conosciuti mediante il commercio. Il padre di

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Rachias si era recato laggiú e al suo arrivo i Seri si erano mossi a incontrarlo. Erano individui di alta statura, biondi di capelli e con gli occhi azzurri, dotati di voce rauca e di una lingua poco adatta al commercio» (Storia naturale, VI, 88). Questa descrizione non può certo riferirsi alle caratteristiche antropologiche delle popolazioni cinesi, ma sembra adattarsi meglio alle tribú di Sciti che fungevano da mediatori tra la Cina e la zona dell’India e dell’Asia centrale. Potrebbe anche trattarsi dei misteriosi Tocari abitanti a nord del Monte Imaus (altra variante greca dell’Himalaya) di cui parla Tolomeo, quei parlanti la misteriosa lingua indoeuropea dei manoscritti ritrovati nello Xinjiang (vedi box a p. 27).

Le imprese di Eudosso e Ippalo L’estensione delle vie commerciali terrestri con l’India e la Cina non furono le sole imprese compiute dai Greci in epoca ellenistica. Sembra che verso la fine del II secolo a.C., un greco di Cizico, Eudosso, avesse scoperto, grazie ai consigli di un naufrago indiano, la rotta dal Mar Rosso all’India. Eudosso compí due traversate dall’Egitto all’India, ma non è chiaro se la loro buona riuscita fosse dovuta alla fortuna o alla sua abilità di marinaio, e comunque, in entrambi i casi, si vide la merce confiscata al rientro in Egitto dalle autorità tolemaiche. Fu invece un altro navigatore greco, Ippalo, a intuire, nel I secolo a.C., la regolarità dei monsoni, una scoperta eccezionale, che consentí di aprire una nuova via commerciale tra India ed Egitto in diretta concorrenza alla via regia dei Seleucidi, ormai caduta sotto la sorveglianza della monarchia iranica dei Parti. La rotta via mare, descritta in un’opera anonima del I secolo d.C. nota come Periplo del mare Eritreo, seguiva il Mar Rosso e il Golfo di Aden costeggiando la Penisola Arabica fino al Capo Fartak (nello Yemen del Sud) e, infine, attraversava l’Oceano Indiano fino alla costa del Malabar. Nel 150 a.C. il re Menandro portò il regno indo-greco alla sua


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LE ORIGINI

massima espansione, ma, poco dopo la guerra civile con Eucratide il Grande, che nel frattempo aveva usurpato il trono battriano, finí per spezzare in due tronconi l’impero dei Greci in Asia centro-meridionale, indebolendo a tal punto il loro dominio che, nel giro di una ventina d’anni, sarebbe crollato di fronte a un’invasione di nomadi delle steppe.

Come una spada di Damocle Questi popoli di cavalieri, sospesi come una spada di Damocle sul regno greco-battriano, avevano sempre rappresentato una minaccia latente pronta a esplodere, ma fino ad allora i Greci erano in qualche modo riusciti a rintuzzare i loro attacchi. Nel 130 a.C., tuttavia, alle tribú scite che già abitavano in gran numero a nord della Sogdiana si aggiunse l’orda degli Yuezhi, in fuga dal confine cinese dopo aver subito una cocente sconfitta per mano degli Xiongnu, un’altra grande confederazione di nomadi delle

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steppe che dominavano sull’antica Mongolia ed erano forse i lontani progenitori degli Unni di Attila. Questi Yuezhi, da identificare coi Tocari descritti dai geografi greci, spinsero di fronte a sé gli Sciti, i quali, a loro volta, si riversarono in massa sulla Battriana, sommergendo come un’onda di marea le terre dei Greci. La parte settentrionale del loro regno andava cosí perduta per sempre, mentre la porzione indiana sotto il dominio greco sopravvisse per circa un altro secolo ancora, prima d’essere a sua volta conquistata dai nomadi. Gli ultimi sovrani indo-greci, che pure avrebbero potuto fare ancora molto, vista la forte personalità di alcuni di essi, si consumarono combattendo tra loro e contro gli Sciti spinti avanti dagli Yuezhi, mentre questi ultimi consolidavano il loro dominio sulla Battriana.


Mentre in Asia centrale il nomadismo combatteva la sua battaglia contro l’ellenismo, in Estremo Oriente arrivava a minacciare l’unità del rinato impero cinese sotto la dinastia Han. Sotto la guida del potente shanyu («imperatore») Maodun (234-174 a.C. circa), i nomadi conosciuti come Xiongnu avevano creato il primo grande impero delle steppe, unificando l’intera Mongolia sotto il proprio dominio e cacciando gli Yuezhi dal bacino del

Tarim (Xinjiang). Costretto ad affrontare con scarso successo le razzie e le incursioni della cavalleria Xiongnu nella Cina del Nord, l’imperatore Han Wudi (156-87 a.C.) cominciò a guardare a ovest in cerca di alleati contro gli Xiongnu. Nel 138 a.C. un ufficiale di nome Zhang Qian venne cosí mandato nelle «regioni occidentali» in cerca degli Yuezhi, con il compito di persuaderli a ritornare alle loro sedi originarie, al confine ovest della Cina, per ricominciare a combattere contro gli Xiongnu.

Le scoperte di Zhang Qian Dopo mille peripezie, tra cui la cattura e poi la fuga dagli Xiongnu, Zhang Qian riuscí a raggiungere gli Yuezhi nella Battriana – che i Cinesi chiamavano Daxia –, ma, alla proposta dell’inviato cinese, i nomadi risposero di Sanchi (India). Lo stupa 1 nel grande monastero buddhista. I rilievi descrivono episodi della vita e dell’illuminazione del Buddha.

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LE ORIGINI

Buddha e i commerci

I

l buddhismo deve molta della sua fortuna postuma alla dinastia indiana dei Maurya, e, in particolare, al suo terzo sovrano, Ashoka (268-233 a.C.). Senza l’opera di questo energico riformatore è infatti probabile che la dottrina di Gautama sarebbe rimasta solo una delle molte sette che nascevano e scomparivano nell’India antica. Ashoka era il nipote del grande condottiero Chandragupta, il quale fondò il primo impero pan-indiano della storia, dopo avere scacciato i generali di Alessandro dalla valle dell’Indo. Si narra che, dopo aver vinto la guerra di Kalinga – un conflitto ferocissimo, che provocò la morte di 100 000 persone e la deportazione di altre 150 000 –, Ashoka, preso dal rimorso, si fosse pentito e avesse deciso non solo di ispirare la sua futura condotta di vita ai principi del Dharma (o Dhamma, la legge buddhista), ma di convertire il suo impero ai dettami della dottrina del Buddha. Ispirato forse anche da modelli politico-religiosi

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achemenidi nella ricerca di un culto di Stato legittimante, Ashoka fece erigere lungo i confini del regno 33 colonne e pilastri sui quali incise nelle diverse lingue dell’impero (fra cui il greco) i suoi editti, in cui si illustravano il concetto di Dharma e gli sforzi compiuti dal re indiano per propagarne il messaggio. Ashoka, che si definiva piyadassi, «re caro agli dèi», spedí varie missioni di monaci ai sovrani dei regni ellenistici dell’Ovest, tra cui spiccano la corte dei Tolomei ad Alessandria d’Egitto e quella di Alessandro II


d’Epiro, figlio di Pirro. Di questa precoce, ma interessante attività missionaria buddhista in Occidente pare sia rimasta anche qualche notevole traccia: il grande storico dell’ellenismo William Woodthorpe Tarn (1869-1957), in The Greeks in Bactria and India (1938), ricorda infatti la presenza ad Alessandria di pietre tombali decorate con la ruota a otto raggi, simbolo del Dharma, mentre il filosofo ebreo Filone di Alessandria (20 a.C.-45 d.C. circa) registrò l’attività nel regno tolemaico di monaci noti come «Terapeuti», il cui nome potrebbe essere una corruzione di Theravada, termine pali con il quale si indicava e si indica ancor oggi la piú antica scuola buddhista mai esistita.

L’impero dei Maurya, fondato da Chandragupta e ampliato e consolidato da Ashoka, era strutturato in modo da favorire i commerci e le comunicazioni fra il suo centro, la grande metropoli di Pataliputra, e i confini con l’Asia centrale, dove entrava in contatto con i regni ellenistici eredi dell’impero di Alessandro Magno. Una grande strada reale, a imitazione dell’antica strada regia persiana, collegava la capitale Pataliputra e le bocche del Gange all’alta valle dell’Indo, dove sorgeva la grande città di Taxila, e da lí proseguiva lungo le piste e i passi di montagna che valicavano l’Hindu Kush e sfociavano in Battriana, a sua volta il punto piú a oriente della via regia seleucide. In questo modo, con l’affermarsi dell’ellenismo in Asia, i due estremi della nuova ecumene indo-mediterranea entravano in contatto diretto fra loro, favorendo ancor piú la diffusione su ampia scala delle merci, della filosofia e dei culti religiosi.

Sanchi. Veduta posteriore della porta settentrionale dello stupa. La struttura è coronata, al centro, dal dharmachakra (solo parzialmente conservato), la ruota che è simbolo della religione buddhista.

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LE ORIGINI

preferire al ritorno alla loro casa ancestrale i territori di recente conquistati in Asia centrale e declinarono l’invito. Dopo essere caduto nuovamente prigioniero degli Xiongnu – ed essere riuscito a fuggire per la seconda volta –, Zhang Qian rientrò finalmente in Cina nel 125 a.C. Sebbene non fosse riuscito nella sua missione principale, egli portava per la prima volta all’imperatore notizie dirette sui regni e i potentati dell’Asia centrale, notizie che piú tardi avrebbero permesso di organizzare nuove spedizioni tra la Cina e Paesi centro-asiatici, dando il la a una nuova serie di rapporti diplomatici che avrebbero permesso di aprire nuove piste commerciali: le prime strade e rotte carovaniere che Ferdinand von Richthofen avrebbe poi ribattezzato «Via della Seta». Ecco i principali Paesi «scoperti» da Zhang Qian: • Dayuan, corrispondente alla regione uzbeka di Fergana, dove era allevata una speciale razza di cavalli nota come Tien Ma, «cavalli celesti», molto apprezzata dai Cinesi per la capacità di portare in groppa uomini corazzati senza sfiancarsi; • Daxia, la Battriana da poco conquistata dagli Yuezhi, un Paese ricco di cittadine e villaggi dediti all’agricoltura; • Shendu, l’India; • Anxi, il regno dei Parti, corrispondente all’attuale Iran; • Tiaozhi, ciò che rimaneva dell’impero seleucide in Siria e Mesopotamia; • Kangju, la Sogdiana delle fonti classiche, corrispondente ai territori di Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan; • Yancai, le «vaste steppe» tra Caucaso e Mar Caspio. Dopo averla strappata ai Greci, gli Yuezhi divisero la Battriana in cinque potentati, ciascuno retto da un suo principe. Nel I secolo d.C., uno di questi principi, Kujula Kadphises, attaccò e sconfisse i suoi quattro pari, riunendo sotto di sé in un unico regno tutti i domini Yuezhi. Il nuovo Stato cosí fondato prese il nome dalla dinastia di Kadphises, i Kushana, e cominciò a

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espandersi ai danni dei Parti in Iran orientale e degli Indo-sciti nell’India del Nord. Kadphises invase la Partia e conquistò la regione di Kabul e del Gandhara (oggi in Pakistan), mentre suo nipote, Kanishka il Grande, forse contemporaneo della dinastia imperiale romana degli Antonini (II secolo d.C.), estese i domini dell’impero kushana all’India indo-gangetica e all’Asia centrale a ridosso del Caspio.

Arte e religione Sotto il patrocinio dei Kushana videro la nascita la celebre arte del Gandhara e una nuova forma di buddhismo, il Mahayana, o «grande veicolo», che fu portato da missionari parti e kushana fino in Cina. La principale preoccupazione di questi sovrani era però quella di creare una forte ideologia politica per evitare le tendenze centrifughe di un impero multietnico composto da Greci, nomadi e Indiani, e di tenere aperte il maggior numero possibile di rotte commerciali con Roma e la Cina, fonti di continue e ingenti ricchezze non solo per i forzieri dello Stato, ma anche per i ceti mercantili delle numerose città dell’impero. In ciò i Kushana si ritrovarono a

Patna (India). Una veduta del grande stupa buddhista e della colonna di Ashoka, una delle 33 che il sovrano fece innalzare lungo i confini del suo regno per diffondere i concetti del Dharma e celebrare gli sforzi compiuti dal re per la sua diffusione.


il monopolio virtuale della Via della Seta, il che spiega come mai si trovarono spesso in conflitto con i Parti e in alleanza coi Romani.

Gli Unni eftaliti

lottare contro i Parti per il controllo della rotta terrestre della Via della Seta, in particolare per via della posizione strategica occupata della grande città-oasi di Antiochia Margiana (oggi Merv in Turkmenistan). Anticamente, infatti, il corso del fiume Oxus (Amu Darya), che aveva origine nel Pamir, invece di sfociare, come oggi, nel Lago d’Aral, seguiva una rotta piú a ovest attraverso il deserto del Kara Kum, e andava quindi a gettarsi nel Mar Caspio. Il fatto che Antiochia Margiana sorgesse vicinissima all’antico corso dell’Oxus ne faceva un avamposto strategico-commerciale della massima importanza, poiché il fiume era navigabile e, seguendolo fino al Caspio, dopo cinque giorni di viaggio, era possibile trasbordare le merci fino al Mar Nero attraverso altri due fiumi della Caucasia, il Cyrus e il Phasis, estromettendo completamente i Parti dai pedaggi e dalle imposte sulle carovane provenienti dalla Cina attraverso la Battriana e la Sogdiana. In tal modo, controllando già la via marittima dall’India all’Egitto, fintanto che i Kushana fossero riusciti a mantenere anche il possesso dell’oasi di Margiana avrebbero avuto

Nel III secolo d.C. la nuova dinastia dei Sasanidi di Persia strappò la Battriana ai Kushana, i quali, come i Greci prima di loro, iniziarono un lento declino, confinati nei loro possedimenti indiani. In questo modo l’Iran riconquistava il controllo delle principali rotte centro-asiatiche della Via della Seta e, grazie allo sviluppo di una fiorente industria locale strettamente regolamentata dalla corona, acquisiva il monopolio del commercio della seta verso l’impero romano. La situazione era tuttavia destinata a precipitare nuovamente a causa dei periodici movimenti di popoli che, con il loro effetto domino, provocavano invasioni e migrazioni a catena. Una di queste grandi invasioni si verificò proprio nella prima metà del V secolo, quando una nuova orda di cavalieri nomadi, conosciuti con il nome di Eftaliti, irruppe dalle steppe per conquistare l’Asia centrale e l’India del Nord, i territori che un tempo erano stati sotto il controllo dell’impero kushana. Gli Eftaliti, noti nelle fonti bizantine come Unni Bianchi per via del loro aspetto caucasoide (che li distingueva cosí dagli Unni Neri di Attila), costituirono una spina nel fianco per i re sasanidi per quasi un secolo e mezzo. Uno di questi, Peroz I, combatté addirittura tre guerre contro di loro, perdendo infine la vita nella battaglia di Herat nel 484. Per non vedere le loro terre devastate, gli orgogliosi re persiani furono cosí costretti a pagare un tributo agli Eftaliti. Anche la tradizione indiana ha conservato un triste ricordo di questi nomadi: sembra che uno dei loro maggiori re, Mihirakula, definito da taluni storici come l’Attila d’India, fosse tanto crudele quanto valoroso in battaglia e, oltre a perseguitare con il massimo zelo i monaci buddhisti, si divertiva a precipitare sventurati elefanti giú da un burrone. La massima colpa che alcuni storici moderni, seguendo i resoconti di monaci e viaggiatori di fede buddhista, attribuiscono agli Eftaliti è

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LE ORIGINI

Illustrazione raffigurante l’imperatore Wu di Han, al secolo Liu Che, con due attendenti. II-I sec. a.C.

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Il re greco e il monaco buddhista

I

ntorno al 150 a.C., assediato dai nemici, di ritorno da una spedizione militare, il grande re indo-greco Menandro era in preda a un’angoscia esistenziale, che né i filosofi greci al suo seguito, né i saggi brahmani (bramini) che aveva incontrato nelle varie città indiane erano stati in grado di alleviare. In preda allo sconforto, quando seppe dell’arrivo di un grande saggio buddhista nella città di Sagala (Sialkot, Pakistan), la capitale del regno indo-greco, il sovrano decise di invitarlo a corte per iniziare un dibattito con lui. Menandro conversò con Nagasena, questo il nome del saggio monaco, per tutta la notte, ponendogli domande d’ogni tipo, a cui Nagasena rispose sempre brillantemente, illustrando di volta in volta le dottrine dell’incarnazione e dell’illuminazione, la vita del Buddha e i modi che conducono ai meriti e ai demeriti di ciascuno. All’alba, finalmente, i due si salutarono, lodandosi reciprocamente, sebbene il re dovette concludere con rammarico di non poter seguire appieno la via del Buddha, poiché troppi nemici attendevano di trovarlo inerme per piombargli addosso e ucciderlo. Il resoconto di questo incredibile dialogo è contenuto nel Milindapanha (letteralmente, Le domande di Menandro), una delle opere piú antiche del Tripitaka (I tre canestri), il canone del buddhismo Theravada scritto in lingua pali, un dialetto sanscrito. Nagasena era figlio di un brahmano del Kashmir e aveva avuto come maestro uno dei missionari di Ashoka, un buddhista greco (yavana, cioè «ione») conosciuto col nome indiano di Dhammarakkhita. L’incontro con Menandro testimonia il grado compartecipazione e influenza reciproca tra il mondo ellenistico e il buddhismo indiano, che, almeno fin dai tempi di Ashoka, doveva aver attirato non pochi Greci allo studio delle sue dottrine. Menandro, in particolare,

quella di aver assestato con le persecuzioni e la distruzione dei monasteri un colpo mortale alla civiltà buddhista del Gandhara, la quale, da poco passata la sua fase «classica» sotto i Greci e i Kushana, si accingeva a vivere una sorta di periodo «gotico», caratterizzato da uno stile forse piú cupo e austero, ma non meno privo di espressività e originalità, che invece

In alto: testa in scisto raffigurante il bodhisattva Maitreya, il futuro Buddha, dal Pakistan. Arte gandharica. Collezione privata. In basso: dritto di un tetradramma in argento del re Menandro I, il Grande, con il profilo del sovrano.

dimostrò un sincero interesse per questa filosofia, tanto da adottare sulle sue monete il simbolo del Dharma, la ruota a otto raggi, probabile segno dell’intenzione del re indo-greco di presentarsi alla maniera di Ashoka come un Chakravartin, un «sovrano universale» protettore della legge buddhista. Egli poteva cosí giustificare il suo intervento contro Pataliputra, al fine di proteggere i monaci buddhisti dalle persecuzioni del re Pushyamitra Sunga, successore dei Maurya nella valle del Gange, e ardente sostenitore del brahmanesimo tradizionale.

venne praticamente troncato sul nascere da questi «Unni». In realtà, se vi furono monarchi eftaliti ostili al buddhismo, ve ne furono altrettanti a esso favorevole, che protessero i monaci e ricostruirono i monasteri distrutti. La questione meriterebbe perciò un’analisi piú approfondita, come pure l’origine e la storia degli Eftaliti in Asia centrale.

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LE ORIGINI

La titolatura dei sovrani Kushana

I

Kushana compirono un passo fondamentale nell’arte del governo quando si diedero appellativi diversi, basati sulla tradizione politica e religiosa dei vari gruppi etnici che componevano il loro impero. I governanti della Mesopotamia e di Roma usavano assorbire nella propria ideologia imperiale i culti dei popoli sconfitti, traslandone le statue nella capitale. I Kushana si astennero da questa pratica impopolare e preferirono invece incorporare nella persona del monarca le titolature che denotavano le tradizionali forme di potere (quasi sempre di derivazione sacra) dei popoli sottomessi. Cosí, le statue e i luoghi che

L’avvento degli uomini celesti L’impero eftalita venne definitivamente annientato, verso il 560, da un’alleanza congiunta guidata dal re sasanide Cosroe I Anushirvan («anima immortale») e dal qaghan (sovrano) dei Turchi Occidentali Istemi. Le due potenze poi si spartirono gli ex domini degli Unni Bianchi, fissando il confine tra i due imperi, il turco e il persiano, lungo il fiume Amu Darya. I primi Turchi, che si autodefinivano Göktürk, «Turchi celesti» o anche «Turchi blu», avevano da poco fatto la loro comparsa nella storia dell’Asia interna, capeggiando una grande ribellione delle steppe contro l’impero dei Rouran, forse antenati degli Avari che piú tardi si stabilirono nei Balcani. I Turchi, che originariamente vivevano come vassalli dei Rouran nei monti Altai ed erano noti per la loro grande abilità nella lavorazione del ferro, si erano rivoltati nel 551 contro i loro padroni (per il rifiuto opposto al loro capo, Bumin Qaghan, di

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santificavano rimanevano nella disponibilità dei fedeli, mentre il re kushana legittimava il proprio potere ai loro occhi, facendosene il rappresentante e il garante. Tanta lungimiranza fu adottata, prima di loro, solo dal monarca persiano Ciro il Grande, ma mai con tale intensità. Fra i titoli utilizzati dai sovrani kushana figurano espressioni come maharaja, «grande re», tipicamente indiano; shaonanoshao, variante battriana del persiano shahanshah, «re dei re»; devaputra, «figlio di Dio» o «figlio del Cielo», forse di ispirazione cinese; e persino Kaisara, «Cesare», chiaro omaggio all’impero di Roma.

Mary, (Turkmenistan). Veduta dei resti dell’antica città di Merv o Antiochia Margiana, snodo centrale per i transiti sulla Via della Seta.

ottenere in sposa una principessa Rouran) e, nel giro di un anno, avevano distrutto e rimpiazzato il qaghanato Rouran con il loro, esteso dalle steppe della Crimea alle foreste della Manciuria. Con una simile massa di terre sottoposte al loro dominio, i Turchi erano divenuti improvvisamente i nuovi intermediari tra la Cina e il resto dell’Eurasia lungo la Via della Seta. Il prezioso tessuto – e il nuovo confine stabilito dopo la distruzione dell’impero eftalita – non poteva tuttavia non metterli in attrito con i Persiani, che vedevano in loro un potenziale concorrente al commercio della seta con l’Impero romano d’Oriente. Tuttavia, prima di rivolgersi ai Bizantini – che potevano tranquillamente essere raggiunti attraverso le steppe a nord del Mar Caspio e del Mar Nero –, i Turchi decisero comunque di tentare l’apertura di una missione commerciale a Costantinopoli attraverso la mediazione dell’imperatore di Persia. Ma il re dei re trattò



LE ORIGINI

I piú potenti fra i barbari

S

ung Yun, un pellegrino cinese di fede buddhista, ha cosí descritto gli usi e i costumi degli Eftaliti durante un viaggio compiuto nel 518 attraverso il loro impero: «Gli Eftaliti non vivono in città cinte da mura; la sede del loro governo è un accampamento mobile. Le loro abitazioni sono di feltro. Si muovono in cerca di acqua e pascoli, trascorrendo l’estate in luoghi freschi e

riparando in zone piú temperate durante l’inverno (…). Il re possiede una grande tenda di feltro di quaranta piedi per lato con le pareti interne tappezzate di lana. Egli porta indumenti di seta ricamata, e siede sopra un divano d’oro avente le gambe nella forma di quattro fenici d’oro. Anche la sua prima moglie veste un abito di seta ricamato che scende fino a terra e si trascina dietro di lei per

con sdegno gli inviati del qaghan turco: fece acquistare tutta la seta che trasportavano e subito dopo, per dimostrare l’infinito disprezzo che aveva e l’irrilevanza del valore della loro merce ai suoi occhi, ordinò di bruciarla alla loro presenza. La Persia si guadagnò cosí l’inimicizia dei Turchi e la tacita gratitudine dei Bizantini, i quali, poco dopo, presero contatti col qaghan attraverso varie legazioni diplomatiche e inaugurarono la rotta a nord attraverso le steppe fino ai porti del Mar Nero.

I mercanti della Sogdiana Le spedizioni commerciali che portavano le merci e la parola del qaghan turco ai confini dell’Asia erano spesso guidate dai mercanti della Sogdiana, regione inglobata nei domini dell’impero turco dopo la sconfitta degli Unni Bianchi. I Sogdiani erano un popolo iranico dell’Asia centrale che, in età tardo-antica, aveva assunto il monopolio delle principali rotte carovaniere del tratto orientale della Via della Seta, giungendo a fondare varie colonie ed empori commerciali tra il proprio Paese e la Cina. La loro civiltà, a metà tra una monarchia feudale e una confederazione di città-stato dedite ai commerci e all’agricoltura idraulica intensiva, aveva assorbito influenze religiose quasi da ogni angolo d’Asia. Il mazdeismo era la religione piú diffusa, ma a differenza dell’Iran, in Sogdiana il culto non era soggetto allo stretto controllo di un clero di Stato, e per

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la lunghezza di tre piedi. In testa porta un cappello a forma di corno alto otto piedi e decorato con pietre preziose di cinque colori diversi. Di tutti i barbari gli Eftaliti sono i piú potenti. Essi non credono nella Legge del Buddha e adorano un gran numero di dèi. Uccidono le creature viventi e sono mangiatori di carne. I vari regni vicini gli offrono grandi quantità di gioielli e oggetti preziosi».

questo manteneva probabilmente forme ed espressioni piú antiche, che in Persia erano state ridisegnate dall’ortodossia sasano-zoroastriana. Molti Sogdiani erano naturalmente buddhisti, e vi erano anche delle consistenti comunità di cristiani nestoriani e di manichei. Anche l’arte era soggetta a influssi

In basso veduta del corridoio di Wakhan (Tagikistan), solcato dal corso di uno dei rami sorgentiferi dell’Amu Darya, l’antico fiume Oxus.


In alto particolare di una coppa in argento di probabile produzione eftalita raffigurante un cacciatore. 460-479. Londra, The British Museum.

e temi che venivano ad arricchire il sostrato iranico della cultura sogdiana. Nelle magnifiche sale affrescate dei palazzi di Afrasyab (l’antico nucleo sogdiano di Samarcanda) e di Panjakent (in Tagikistan occidentale), erano dipinte soprattutto gesta di antichi eroi dell’epica iranica come Rostam

e Siyavash, ma, accanto a esse, trovavano spazio anche scene che ritraevano l’arrivo di carovane e ambascerie in città, composte da personaggi e animali provenienti da tutta l’Asia, giostre e duelli tra cavalieri e addirittura leggende di origine straniera, come quella dei gemelli Romolo e Remo allattati dalla lupa. L’alfabeto sogdiano, i cui segni erano di derivazione aramaica, come quello usato in Iran per la lingua medio-persiana, costituisce un altro grande apporto culturale di questi mercanti ai popoli dell’Asia centrale. I Sogdiani lo trasmisero ai Turchi, che precedentemente si erano serviti di un alfabeto runico, primo caso registrato di scrittura di un popolo delle steppe, e i Turchi Uiguri a loro volta lo trasmisero ai Mongoli di Gengis Khan. Oltre alla seta, i Sogdiani commerciavano ed esportavano dal loro Paese vino – di cui pare abbiano introdotto in Cina la tecnica della produzione –, ottimi cavalli, cammelli, asini, oro, incensi, perle, pelli di daino muschiato, tela, legni scolpiti, vasellame pregiato, armature di maglia o a lamelle e oggetti in vetro lavorato.

da leggere

• Pierre Amiet, L’Âge des échanges inter-iraniens, Réunion des Musées Nationaux, Parigi 1986 • Viktor Sarianidi, Margush, Ancient Oriental Kingdom in the Old Delta of Murghab River, s.e., Ashgabat 2002

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Palmira (Siria). Veduta della Via Colonnata e dell’arco severiano. La fotografia è stata scattata in un momento precedente ai recenti eventi bellici che hanno visto il sito archeologico ripetutamente assediato e parzialmente distrutto.


IMPERI A

CONFRONTO

DALLA PERSIA ACHEMENIDE ALLA CINA DEI TANG, LE REGIONI ATTRAVERSATE DALLA VIA DELLA SETA FURONO LA CULLA DI REGNI POTENTI E SPESSO VASTISSIMI. DEI QUALI OGGI POSSIAMO AMMIRARE TESTIMONIANZE MONUMENTALI STRAORDINARIE

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LE GRANDI POTENZE

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Nei decenni successivi, mentre l’impero seleucide si logorava in continue lotte con l’Egitto tolemaico per il possesso della Palestina, i Parti conquistarono progressivamente la supremazia sull’Iran orientale, facendo terra bruciata e ritirandosi momentaneamente nelle steppe in occasione di qualche fiacco e sporadico tentativo di riconquista seleucide. Quando poi i Seleucidi entrarono in conflitto con Roma all’inizio del II secolo a.C., perdendo il possesso dell’Anatolia, la spinta dei Parti sul fronte

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L’avvento dei Parti

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el IV secolo a.C., quando conquistò l’impero persiano degli Achemenidi, Alessandro Magno ne era talmente ammirato da proclamarsene erede. Dopo la sua morte, i territori asiatici del vecchio impero persiano furono riuniti in un regno da uno dei suoi generali, Seleuco Nicatore, che si rivelò un abile amministratore, rispettando le usanze e le tradizioni persiane. I suoi successori, tuttavia, trascurarono sempre piú la parte orientale dei loro domini, dove cresceva il malcontento delle aristocrazie iraniche e la pressione delle tribú scitiche dall’Asia centrale. Fra queste spiccavano i Dahae, che si aggiravano nelle steppe tra il Mar Caspio e il Lago d’Aral, e i Massageti, i cui territori si estendevano subito a nord dei primi. Intorno al 250 a.C., un signore della guerra Dahae di nome Arshak, latinizzato in Arsace, invase con i suoi cavalieri la satrapia seleucide della Partia (attuale Khorasan, Iran nord-orientale), proclamandosi re e fondando la dinastia arsacide, meglio nota come la casa regnante dei Parti.

Ep

In basso Persepoli (Shiraz, Iran). Le rovine dell’Apadana e del Palazzo di Dario emergono dietro la monumentale scalinata, decorata sul fianco con incisioni a bassorilievo tra le quali campeggia la raffigurazione di un leone che azzanna un toro.

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Lago dell’Oxo (Lago di Aral)

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I regni degli Epigoni

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Altri territori ellenistici

Antigonidi di Macedonia

Regno attalide di Pergamo (188-133 a.C.)

Lega greca contro gli Antigonidi

Seleucidi di Siria

Conquiste dei Parti e data

Città greche libere

Tolomei d’Egitto

Conquiste del Regno greco-battriano e data

opposto divenne incontenibile. Nel 140 a.C. erano già in Mesopotamia, e il loro re Mitridate I (195-138 a.C.) aveva assunto il titolo di «Re dei Re», un chiaro rimando alla monarchia achemenide, di cui probabilmente intendeva proporsi come vendicatore e restauratore agli occhi dei popoli orientali. Demetrio II (145-139 a.C.) e il fratello Antioco VII (138-129 a.C.) tentarono di ristabilire il controllo seleucide in Mesopotamia, ma

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Battaglie e date

69 Conquiste di Roma e date

furono entrambi sconfitti in battaglia, il primo cadendo prigioniero dei Parti, il secondo ucciso in combattimento vicino a Ecbatana. I successori di Mitridate I si trovarono cosí a regnare su un impero che andava dalla Siria all’Indo, spartendo con Roma e la Cina il dominio sul mondo civilizzato. La particolare posizione geografica assicurava inoltre all’impero partico il controllo dei traffici commerciali tra Est e Ovest su quella che fu

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LE GRANDI POTENZE

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Naqsh-i-Rustam, Iran. Uno dei rilievi che ornano le tombe monumentali dei sovrani persiani nel quale è raffigurato il trionfo di Shapur I, figlio e successore di Ardashir, di fronte al quale si riconoscono due imperatori romani: Filippo l’Arabo, che implora la pace, e Valeriano, in ginocchio, catturato dal re di Persia.

poi appunto chiamata Via della Seta, «aperta» per la prima volta proprio durante il regno di Mitridate I. Una politica di rispetto e collaborazione con le minoranze, tra cui i coloni greco-macedoni abbandonati dai Seleucidi e gli Ebrei della Diaspora, garantí ai Parti un ampio sostegno tra le masse popolari; mentre la suddivisione amministrativa dell’impero, molto decentrata, evitò, almeno in un primo momento, l’insorgere di spinte centrifughe e rivolte tra i satrapi e i piccoli dinasti locali. Nel I secolo d.C. la monarchia partica cominciò a indebolirsi a causa di continue lotte dinastiche scoppiate all’interno della famiglia reale e ai continui scontri con i Romani. La poligamia praticata dai re arsacidi generava un gran numero di eredi sempre in lotta per la conquista del trono. Roma aveva invece assunto una costituzione imperiale con Augusto e, terminate le guerre civili, aveva stabilizzato le sue frontiere settentrionali sul Reno e sul Danubio. Ciò si traduceva nella maggiore disponibilità di truppe da destinare al fronte orientale, dove era necessario risolvere anche la questione dell’Armenia, Stato cuscinetto tra le due superpotenze. I Romani passarono decisamente all’offensiva con Traiano, il quale conquistò e trasformò in provincia l’Armenia nel 114, e, l’anno successivo, occupò l’intera Mesopotamia fino al Golfo Persico. I Parti non opposero alcuna resistenza. Nel 161 tentarono di conquistare l’Armenia a loro volta, ma, quattro anni piú tardi, furono gravemente sconfitti a Dura Europos, sull’Eufrate, dalle legioni di Avidio Cassio, il miglior generale di Marco Aurelio. L’ultimo scontro di una certa rilevanza avvenne al tempo dell’imperatore Settimio Severo, e si risolse con un’altra vittoria per i Romani, che espugnarono e saccheggiarono la capitale partica, Ctesifonte, nel 197. L’ago della bilancia

pendeva ormai dalla parte di Roma, dove si giunse a pensare che sarebbe stato possibile gestire direttamente i traffici con l’Oriente, fino ad allora sempre mediati dai Persiani. Ma proprio quando la questione orientale sembrava risolta una volta per tutte, ecco rispuntare la minaccia, piú grave che mai. Nel 224 la dinastia partica venne rovesciata da Ardashir, sovrano del piccolo regno del Fars, l’antica Perside che un tempo aveva dato i natali a Ciro e Dario. Ardashir fondò quindi una nuova dinastia persiana, quella dei Sasanidi (da Sasan, il capostipite della famiglia), che, in pochi anni, si impadroní di Iran e Mesopotamia, e, in nome dell’antica eredità achemenide, contestò a Roma il dominio sul Vicino Oriente. Nel 230, il nuovo re di Persia attaccò i Romani in alta Mesopotamia, mentre la sua cavalleria compiva scorrerie in Siria e Cappadocia. L’anno successivo l’imperatore Alessandro Severo reagí con una massiccia controffensiva diretta contro la capitale sasanide Ctesifonte, ma venne duramente sconfitto in battaglia da Ardashir, e costretto a ritirarsi dopo aver firmato una tregua.

La resa di Roma Il figlio e successore di Ardashir, Shapur I (240-270), continuò con successo la politica di aggressione contro Roma. Nel 244 inflisse una pesante sconfitta all’imperatore Gordiano III nella battaglia di Misiche (combattuta nei pressi di Ctesifonte), mentre nove anni dopo distrusse un altro esercito romano a Barbalisso (100 km a sud-est di Aleppo) e, invasa la Siria, ne saccheggiò la capitale Antiochia. Ma il suo piú grande successo fu senza dubbio la battaglia di Edessa (260), nella quale sbaragliò 70 000 Romani e catturò – fatto mai accaduto prima di allora – l’imperatore Valeriano in persona. Questa impressionante serie di vittorie dimostrò quanto la nuova Persia sasanide fosse un avversario molto piú agguerrito del vecchio impero partico, capace perfino di battere Roma piú di una volta. Alla morte di Shapur, gli imperatori romani (segue a p. 60)

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LE GRANDI POTENZE

una città carovaniera fra Roma e la Persia

P

osta a metà strada fra l’impero romano e il cuore della Persia, Palmira (l’antica Tadmor, oggi in Siria) fu una delle piú grandi e importanti città carovaniere del mondo antico. Le carovane che trasportavano incenso, seta (alcuni frammenti rinvenuti nella necropoli sarebbero di manifattura cinese) e altre merci preziosissime, facendo obbligatoriamente tappa in questa grande oasi, ne determinarono la ricchezza per almeno 300 anni. L’inizio della fioritura di Palmira si colloca alla metà del I secolo a.C., quando Augusto mise momentaneamente fine al contrasto tra Roma e l’impero partico per mezzo di un’intesa diplomatica

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che si protrasse fino al regno di Traiano. Cosí, per assecondare l’enorme richiesta di beni di lusso da parte di Roma, il commercio carovaniero attraverso la Siria e lungo l’Eufrate (e di lí verso la Persia e l’Asia centrale) si riattivò, sino ad assumere proporzioni mai raggiunte prima. La città si arricchí di vie colonnate, di templi, di strutture commerciali e di tombe monumentali. Attraverso grandi opere pubbliche, si provvide all’approvvigionamento idrico, rendendo coltivabili anche le aree circostanti l’abitato. Tuttavia, all’inizio del II secolo d.C., la politica di indipendenza che caratterizzava la città ricevette un duro colpo a opera di Traiano, che tentò di mettere


l’impero partico, e di conseguenza anche Palmira, sotto il diretto controllo di Roma. Alla morte di Traiano, il suo successore, Adriano, non proseguí questa politica interventista e per Palmira si aprí un’epoca di notevole prosperità, che durò fino al III secolo d.C. La maggior parte dei monumenti oggi visibili a Palmira risale a questo periodo. A destra particolare di un tessuto con raffigurati due tori affrontati, all’interno di un medaglione borchiato, manifattura iraniana o uzbeka. VIII-IX sec. Sulle due pagine i resti di Palmira (Siria), con, al centro, la grande Via Colonnata. L’immagine risale a un periodo precedente gli eventi bellici che hanno visto il sito piú volte assediato e parzialmente distrutto.

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LE GRANDI POTENZE

passarono al contrattacco, cogliendo anche qualche grande vittoria, ma il confine venne infine riportato sull’originaria linea del fronte in alta Mesopotamia. Si era giunti cosí al punto in cui i due grandi avversari si eguagliavano in potenza e, sebbene nei secoli successivi continuassero a scoppiare guerre a intermittenza lungo la frontiera, l’equilibrio era destinato a rimanere immutato.

La sfida sasanide Il rinnovato vigore con cui l’Iran sfidò Roma in Oriente era dovuto principalmente a una serie di riforme politiche e militari che caratterizzarono la nascita e lo sviluppo dell’impero sasanide. A differenza dei Parti, i Persiani organizzarono lo Stato in maniera molto piú accentrata, imponendo il mazdeismo come religione ufficiale. L’esercito sasanide si distingueva per l’impiego sistematico della cavalleria corazzata, che cominciò a utilizzare anche armature di maglia, piú flessibili e leggere; l’introduzione di nuovi reparti, come gli elefanti da guerra e,

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Xi’an (Shaanxi, Cina). La Pagoda della Grande Oca Selvatica (Dayan Ta). Periodo Tang, VII-VIII sec.


soprattutto, per lo sviluppo di una valida tecnica d’assedio. Quest’ultima modifica si rivelò di fondamentale importanza, perché sanò quella grave lacuna che sempre aveva impedito ai Parti di condurre offensive su larga scala contro i numerosi centri fortificati della Siria romana. Una percezione non del tutto positiva del commercio, influenzata da alcuni dettami religiosi, non ostacolò il grande sviluppo dei traffici che attraversavano i territori dell’impero persiano, favoriti dall’impegno della dinastia nella costruzione di infrastrutture quali ponti, strade, dighe ecc., al fine di incrementare popolazione e ricchezza, e dalla posizione strategica per i contatti tra il Mediterraneo e la Cina. I sovrani sasanidi fondarono o rifondarono numerose città, quasi sempre sulla base di esigenze agricole, commerciali, artigianali o strategiche. La lunga durata del periodo sasanide e soprattutto la sua collocazione a cavallo tra l’età antica e quella medievale rendono netta la distinzione tra la prima fase, compresa tra il III e il IV secolo, in cui l’impero si

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LE GRANDI POTENZE

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Legenda Dinastia Tang

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Mare Cinese Orientale

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500 Km

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Golfo del Bengala

consolidò, una fase mediana, nel V secolo, caratterizzata da una profonda crisi politica e sociale, e una fase tarda, tra il VI e il VII secolo, in cui, a momenti di intenso splendore, fa seguito il rapido crollo, sotto i colpi dei Bizantini prima e degli Arabi poi.

Merci e commerci La seta prodotta in Persia o in Cina per la corte sasanide si caratterizza per composizione e iconografia proprie. I non abbondanti rinvenimenti di sete di indubbia produzione sasanide sono integrati da un numero ampio di manufatti di altra provenienza e datazione, che tuttavia richiamano motivi sasanidi, quali il medaglione perlato che racchiude una testa di cinghiale o un’immagine del mitico uccello Simurgh. Nel periodo medievale stoffe sasanidi o di tradizione sasanide vengono utilizzate per raccogliere e trasportare in Occidente le venerate reliquie dei santi orientali. Tali stoffe giungono con il loro contenuto simbolicamente prezioso e costituiscono uno straordinario veicolo di trasmissione di iconografie dalla Persia al Medioevo europeo. I capitoli delle cronache dinastiche cinesi dedicati ai regni occidentali ne descrivono settantacinque: tra i piú importanti, Bosi, cioè, appunto, la Persia, della quale si

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Guangzhou

Mare Cinese Meridionale

In alto l’estensione dell’impero cinese in epoca Tang. A destra statuetta in ceramica sancai raffigurante un giocatore di polo. Epoca Tang. Collezione privata.


In alto ancora statuette in ceramica sancai, di epoca Tang. Collezione privata.

elenca un gran numero di prodotti, mostrando come la Cina avesse molti rapporti diretti con questo Paese, che non aveva mai tentato di conquistare, contro il quale non aveva mai condotto guerre e che costituiva l’area di transito della seta verso il Mediterraneo. Alla Persia sono ascritti il corallo, l’ambra, il profumo suh, il cinabro rosso, il cristallo di rocca, l’oro, il rame, il mercurio, lo stagno, varie pietre preziose – tra cui il turchese –, grosse perle, vetri, diversi tessuti di lana, pelli di daino, sete, molte piante da profumo, pepe nero, datteri canditi nel miele, cavalli, asini, cammelli, leoni, elefanti bianchi e uova di struzzo. Sono descritti anche il governo, gli abiti, l’irrigazione, gli armamenti e perfino l’usanza funeraria mazdaica di esporre i morti sulle «torri del silenzio».

La Via della Seta e la civiltà islamica Gli eserciti islamici penetrarono in Asia Centrale fin dal VII secolo e nel 751, con la battaglia del fiume Talas posero fine all’influenza cinese sulla regione. Ma fu soprattutto l’incontro con le popolazioni turche a rappresentare un momento di straordinaria importanza per la storia successiva dell’Islam. Ai Turchi, che già risiedevano in quelle regioni, si andarono aggiungendo con il tempo altre

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LE GRANDI POTENZE

migrazioni di genti dello stesso ceppo, che in breve affermarono in gran parte dell’Asia centrale la loro egemonia, al punto da indurre gli Arabi a chiamare la regione bilad al-Atrak, «i paesi dei Turchi». Di religione animista, manichea o cristiana, inizialmente questa popolazione rappresentò per il califfato di Baghdad un’inesauribile fonte di schiavi, che un lucroso mercato trasferiva nella capitale e nelle altre grandi città dell’impero islamico. Arabi e Persiani apprezzavano moltissimo le capacità militari dei Turchi e cominciarono a utilizzarli nei propri eserciti o come «guardie pretoriane» di califfi ed emiri. Successivamente, in maniera

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graduale ma costante, i Turchi d’Asia centrale strinsero rapporti con i numerosi mercanti musulmani della regione e cominciarono ad assimilarne la lingua, la cultura e la fede. Verso la fine del X secolo, interi clan turchi si convertirono all’Islam e diedero vita alle prime dinastie turco-musulmane. Nel secolo successivo, un altro clan turco, quello dei Selgiuchidi, assunse di fatto il controllo del califfato di Baghdad: da allora in poi, con rare eccezioni, dall’India al Mediterraneo i principali imperi e regni musulmani rimarranno saldamente nelle mani dei Turchi. La civiltà turco-musulmana contribuí in misura

Pianta a volo d’uccello della città di Chang’an, capitale cinese sotto la dinastia Tang, fino alla metà dell’VIII sec.



LE GRANDI POTENZE

decisiva alla crescita e allo sviluppo di uno dei tratti piú importanti della Via della Seta. I Turchi resero piú efficienti e sicure le rotte commerciali da e verso Oriente, assolvendo al compito di guidare e proteggere le carovane nei loro lunghi viaggi tra la Mesopotamia e la Cina. Lungo questa rete di strade si dispiegarono i centri urbani già esistenti e ne nacquero di nuovi; si perfezionarono le tecniche

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agricole e di irrigazione, vennero erette grandi muraglie a difesa delle città piú ricche. Questo sistema garantí alla regione una lunga fase di prosperità, ma dovette infine crollare davanti all’invasione mongola. Fra il XII e il XIII secolo, i Mongoli di Genghis Khan e dei suoi discendenti dilagarono in Asia Centrale, in Iran e in Mesopotamia, devastando l’impero islamico e mettendo fine al califfato di

Sun Wukong, lo scimmiotto protagonista, insieme al monaco Sanzang, del Viaggio in Occidente, in una xilografia di Kubo Shunman. 1812.


storia di un monaco e di uno Scimmiotto

N

el 630 un monaco buddhista cinese, di nome Xuanzang, partí alla volta dell’India, alla ricerca degli originali testi del buddhismo scritti in sanscrito. Il viaggio e il soggiorno di studio e ricerca in India lo impegnarono per 17 anni, al termine dei quali Xuanzang portò in Cina oltre 650 sutra (raccolte di brevissimi aforismi) del Tripitaka (I tre canestri), l’antico canone buddhista, e ricevette l’incarico dall’imperatore Taizong, fondatore della dinastia Tang, di stendere il racconto dei suoi viaggi, anche al fine di offrire alla corte un resoconto aggiornato delle «regioni occidentali». L’opera, intitolata Grandi cronache Tang sulle regioni occidentali, divenne poi la fonte d’ispirazione per uno dei quattro grandi romanzi classici cinesi, composto in epoca Ming (XVI secolo) e noto come Viaggio in Occidente o anche con il titolo di Lo Scimmiotto. Vi si narra la storia del monaco Sanzang (versione idealizzata di Xuanzang), il quale, in compagnia di un allegro scimmiotto, di uno strano maiale, di uno spirito dei fiumi e di un principe drago travestito da cavallo, si mette in viaggio verso ovest, incappando in episodi all’insegna dell’avventura, della comicità e dell’arricchimento spirituale. Tutto il libro è un moto inarrestabile di fatti e sorprese, un grande romanzo di avventure che ne contiene in sé tanti altri. Facendosi strada tra queste vicende, il lettore si renderà conto che Lo Scimmiotto è anche un’allegoria, un viaggio mistico, una satira sociale, e vi scoprirà un immenso repertorio di pratiche e tradizioni religiose. Il cielo e i suoi abitanti sembrano qui essere un travestimento della terra e degli uomini, la terra una continuazione del cielo: sfrontatezza e devozione, familiarità con la natura e i suoi prodigi, sapienza psicologica, diffusa ilarità convivono in questo mondo fondato sulla magia, in queste vicende che sembrano fatte per essere raccontate a dei bambini e insieme sono cariche di sottintesi, sicché

giustamente ebbe a dire di questo romanzo il suo congeniale traduttore, il grande sinologo Arthur Waley: «Lo Scimmiotto è unico nel suo complesso di bellezza e assurdità, di profondità e insensatezza». Il racconto originale di Xuanzang, è invece una fonte inesauribile di dati storici, etnografici, artistici e religiosi per le regioni e i paesi attraversati dal pellegrino cinese. Molta della cattiva fama attribuita agli Eftaliti si deve, per esempio, proprio a Xuanzang, il quale riporta che i sovrani degli Unni Bianchi erano responsabili del massacro di due terzi della popolazione del Gandhara, della riduzione in schiavitú dei sopravvissuti e della distruzione di quasi tutti i monasteri e degli stupa della regione. Un altro dato molto importante fornito da Xuanzang è la descrizione delle cosiddette oasi indoeuropee del bacino del Tarim, le città-stato dei Tocari che fiorivano ai margini settentrionali e meridionali del deserto di Taklamakan, dove passavano due diramazioni della Via della Seta. Xuanzang percorse all’andata il tragitto settentrionale, attraversando Turfan, Kara Shahr, Kucha e Aksu, e al ritorno la via a sud, passando per Kashgar, Yarkand, Khotan, Shanshan e Tunhuang. In tutte queste località poté ammirare la fiorente vita cittadina delle ultime comunità indoeuropee dell’Asia centrale, prima che fossero definitivamente assorbite dai Turchi nel secolo successivo. Gli stupendi affreschi di città e monasteri rupestri in oasi come Tunhaung, Turfan e Kucha ci mostrano una civiltà che ricorda quella affine della Sogdiana: episodi delle vite passate e della leggenda del Buddha, carovane di mercanti e ambasciatori di ogni religione e razza, assemblee di monaci e cortei di cavalieri, il tutto dipinto coi colori piú vivaci, in stridente contrasto con l’arido deserto che circondava quelle piccole isole buddhiste, destinate a essere travolte dalle invasioni e inghiottite dalla sabbia.

Baghdad. Distruzioni e massacri non cessarono fino a quando gli invasori non iniziarono anch’essi ad abbracciare l’Islam, ricostruendo sulle macerie l’ordine che avevano abbattuto. Sul finire del XIV secolo si affermò il nuovo impero turco-mongolo di Tamerlano, che impose il suo dominio sull’Iran e sull’Asia centrale, invase l’India e progettò perfino di conquistare la Cina. Samarcanda, la sua

capitale, fu ricostruita e ampliata, e il tratto centro-asiatico della Via della Seta conobbe nuovamente una stagione di prosperità. La rapida dissoluzione dell’impero timuride e, soprattutto, l’affermarsi di nuove rotte marittime verso l’India e la Cina decretarono il definitivo tramonto della civiltà islamica dell’Asia centrale e dell’intera Via della Seta. La dinastia Tang, che regnò in Cina dal VII

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LE GRANDI POTENZE

all’inizio del X secolo, attuò politiche che portarono a un eccezionale slancio del commercio e degli scambi culturali con l’intera Asia e perfino con l’Europa. Alla corte dei Tang giungevano gli ambasciatori fin da Bisanzio, mentre i mercanti dalla Persia e dall’Assam portavano le loro merci e buddhisti, manichei e nestoriani portavano le loro religioni nell’impero Tang, il piú aperto e culturalmente vario che la Cina abbia mai conosciuto. I viaggiatori arrivavano nell’impero cinese dal Nord per le piste polverose dell’Asia centrale, dal Sud per mare. Gigantesche flotte commerciali portavano dall’India, da Ceylon, da Giava, dall’Arabia e dalla Persia i loro carichi esotici nei porti di Guangzhou e Jiaozhu: spezie e farmaci, legname tropicale, avorio e perle venivano scambiati con sete, ceramiche e schiavi. Guangzhou era la porta della Cina sul mondo: piú della metà dei suoi 200 000 abitanti erano stranieri. Da Guangzhou, si procedeva per nave sui fiumi Chen e Gan fino allo Yangzi o a uno dei grandi laghi o degli innumerevoli fiumi e canali della Cina meridionale. A vela, a remi o trainate

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da schiere di alatori, le navi viaggiavano in file interminabili su ogni fiume dell’impero. La maggior parte di esse arrivava a Yangzhou, il porto principale della confluenza dello Yangzi con il Canale imperiale, le due principali vie d’acqua dell’impero.

La Venezia d’Oriente Yangzhou era la Venezia d’Oriente, città di canali e di giardini, di teatri e di taverne, un’elegante metropoli piena di attività e gioia di vivere. Qui avevano sede banchieri, sensali marittimi, commercianti statali di sale, mercanti arabi e persiani che vendevano pietre preziose e legno di sandalo, damaschi e tappeti. Da Yangzhou, le merci, lungo il Canale imperiale o una delle molte strade aperte dai Tang, raggiungevano le metropoli settentrionali: Kaifeng e Luoyang. Infine, tutte le strade portavano al centro dell’impero mondiale, Chang’an. La Chang’an dei Tang era la piú grande città del mondo. Almeno 600 000 abitanti (ma forse molti di piú) vivevano all’interno delle sue mura, lunghe 30 km.

In alto, a sinistra illustrazione raffigurante la stazione delle barche a Canton, davanti alle residenze francese e spagnola, da L’Illustration, Journal Universel. Parigi, 1858. In alto, sulle due pagine Yanghzou. Una veduta del Parco di Yechun.


una prospettiva globale

A

l commercio della seta, principale motore dei rapporti fra Cina ed Europa, è dedicato il volume di Xinru Liu e Lynda Norene Shaffer Le vie della seta (il Mulino, Bologna 2010). Le autrici ripercorrono i differenti itinerari, sia terrestri sia marittimi, lungo i quali esso si svolse nel corso di millecinquecento anni, dal II secolo a.C. al 1300, dedicando una particolare attenzione al mutare delle condizioni politiche, economiche e anche religiose che di volta in volta favorirono oppure ostacolarono lo sviluppo

delle comunicazioni eurasiatiche. Seguire le vie della seta in una prospettiva globale, come fa questo libro, ci permette di comprendere l’impatto decisivo che gli scambi tecnologici e culturali, favoriti dallo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni, ebbero sulle popolazioni e sulle aree interessate. Lungi dall’essere appannaggio esclusivo della modernità, tali scambi rivelano come molto di ciò che consideriamo originario della nostra cultura regionale o locale in realtà sia stato importato da un’altra zona del mondo.

Molti degli abitanti erano stranieri: Turchi, Persiani, Armeni, Mongoli, Tibetani, Giapponesi, Coreani, Uiguri, Ebrei. Nei templi venivano venerati Buddha, Zoroastro, Mani e Gesú; nelle strade, si avvicendavano giocolieri e acrobati di origini diverse; nei quartieri «a luci rosse» della parte orientale, gli avventori delle taverne si inebriavano col vino straniero, la musica persiana e le bellissime danzatrici bionde dell’Asia centrale; nei bazar del mercato occidentale si contrattava in tutte le lingue per l’incenso, l’oro, lo zucchero e le famose pesche dorate di Samarcanda. Anche la corte, a

Chang’an, si abbandonava senza freni al fascino dell’esotico: belletti dall’Asia centrale, vesti iraniche e cappelli di leopardo rappresentavano l’ultima moda, e i nobili, nei loro palazzi, facevano installare cascatelle che fungevano da climatizzatori.

da leggere

• Pierfrancesco D’Arelli e Pierfrancesco Callieri (a cura di), A Oriente. Città, uomini e dei sulla Via della Seta (catalogo della mostra; Roma, 21 ottobre 2011-26 febbraio 2012), Electa, Milano 2011

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UN MOSAICO DI FEDI


LA VIA DELLA SETA, OLTRE A FAVORIRE GLI SCAMBI COMMERCIALI, EBBE UN RUOLO DECISIVO NEL VEICOLARE NUOVE IDEE E RELIGIONI. CONTRIBUENDO ALLA CREAZIONE DI UN PANORAMA STRAORDINARIAMENTE ARTICOLATO, NEL QUALE HANNO CONVISSUTO E CONVIVONO MOLTEPLICI VISIONI DELL’UNIVERSO

Una veduta dei territori che circondano la città iraniana di Kirkuk. Nel III sec. d.C. molti cristiani si rifugiarono in questa zona per sfuggire alle persecuzioni promosse dagli imperatori romani.


LE RELIGIONI

I

l cristianesimo giunse in Iraq in età partica ed è già ben attestato nell’area nel II secolo d.C. La sua prima diffusione è attribuita all’apostolo Tommaso, il grande evangelizzatore dell’Oriente (vedi box in questa pagina), ma i missionari piú antichi di cui abbiamo cognizione venivano da Antiochia, ed è ugualmente importante la tradizione di evangelizzazione di Persia e Mesopotamia da

In basso Damasco (Siria). Una veduta della Bab Tuma o Porta di Tommaso.

parte di Taddeo-Addai, Aggai e Mari. La prima voce dei vescovi mesopotamici si ode in occasione della celebre controversia sulla data della Pasqua, che vide opporsi le Chiese d’Africa e di Roma alle altre Chiese occidentali: lo scrittore e vescovo Eusebio di Cesarea, nella sua Storia Ecclesiastica, scrive che costoro si incontrarono nel 189-90 e presero la decisione di sostenere le posizioni

l’evangelizzatore dell’Oriente

S

econdo la tradizione, l’apostolo Tommaso partí dalla Palestina, percorse la via di Damasco, ove si fermò per dirigersi in Siria e Mesopotamia, fino a raggiungere l’India settentrionale, che corrisponde all’odierno Pakistan. A Damasco, collegata alla Palestina da una importante strada imperiale romana, l’apostolo soggiornò per un certo tempo e predicò il Vangelo. Ancora oggi a Damasco, è visibile una delle porte piú antiche della città, intitolata proprio al

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santo (Bab Tuma, la Porta di Tommaso), presso la quale, intorno al IV secolo, fu costruita una chiesa a lui dedicata. Secondo varie fonti, tra cui il grande teologo Origene, Tommaso, tra il 42 e il 49 evangelizzò i Parti, i Medi, i Persiani e gli Ircani. In seguito, si recò per due volte in missione in India, dove, infine, sarebbe stato martirizzato a colpi di lancia dai bramini. Gli antichi martirologi siriaci hanno identificato la data del martirio nel 3 luglio del 68.


Piskek

Mar Nero

Lago d’Aral

Mar Caspio

Semirec'e Lago Ja va Bakhas rte s Cimkent

Tokmak Altai

Suyab

Agni

Turfan Hami Fiume Giallo Sogdiana Kuca Talas T (Huanghe) arim Qoco s Taskent x Samarcanda Dunhuang us ra Pechino o Tumsuq Bet’Abe C (Cac) Margiana Kasgar Bukhara Loulan Fangshan Miran Merw Yarkend Antiochia Balkh Nisabur Chotan Cercen Nisibi Ganzhou Gilgit Battriana Khorasan Louyang Zhouzhi La Baghdad Partia Gandhara Herat da k r Sin h i Seleucia-Ctesifonte Aprah (Farah) Eu m (Sinestan) fra sh xi Chang’an Tibet a n Segestan te K (Xi’an) Hangzhou aa Gerusalemme Rew-Ardasir Sh g Me Zarang an H dia Branupatra gri Far n Yan Golfo s Masin jia Fuzhou Fu Persico Gan ge i Canton gx India Arabia Quanzhou an Mar u G

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Oceano Indiano

delle Chiese occidentali. Nel corso del III secolo d.C. molti cristiani si rifugiarono nei territori dell’impero persiano per sfuggire alle persecuzioni degli imperatori romani: in particolare, in Adiabene e nei centri di Karka Beth Slokh (l’attuale Kirkuk), Nisibi, Bet Lapat, Ray Ardashir e Seleucia-Ctesifonte.

Cristiani e potere nell’impero persiano Se la dinastia partica degli Arsacidi non adottò politiche specifiche nei confronti dei cristiani, ma, grazie alla sua tolleranza in campo religioso, garantí un ambiente favorevole alla crescita delle prime comunità, il fondatore della dinastia sasanide, Ardashir I, pur non offrendo loro un riconoscimento ufficiale, manifestò verso di essi rispetto e simpatia e incluse una chiesa all’interno della sua nuova capitale, Koke, che aveva costruito presso Ctesifonte. Ai cristiani già presenti nel Paese, si unirono poi, a partire dalla seconda metà del III secolo, le popolazioni di alcune aree della Siria soggette a Roma e cadute in mano sasanide,

Ceylon

In alto cartina dell’Asia sulla quale, in rosso, sono evidenziate le piú importanti località del Medio ed Estremo Oriente che hanno restituito testimonianze della presenza cristiana nel corso del I mill.

che vennero deportate in Babilonia e in Persia. Fra i deportati, molti erano cristiani, e tra loro vi erano anche presbiteri e vescovi. Si registrano cosí varie trasmigrazioni di cristiani che, dall’Occidente greco-romano, giungono, come fuggitivi o come deportati, in Oriente, contribuendo a ingrossare le fila delle comunità cristiane già presenti o a fondarne di nuove. Una fonte di grande interesse per la storia religiosa di quest’area, la Cronaca di Seert, rileva che fu questo il motivo per cui i cristiani crebbero nella regione. All’inizio del IV secolo, Papa, il vescovo della capitale sasanide Seleucia-Ctesifonte (310-329), avanzò pretese di egemonia sugli altri vescovi persiani, a imitazione del pontefice romano, e due vescovi persiani parteciparono al Concilio di Nicea del 325 d.C. Tuttavia, pochi anni piú tardi, durante il lungo regno di Shapur II (339-379), i cristiani di Persia – anche a causa del fallimento delle trattative di pace fra quest’ultimo e Costantino – furono duramente perseguitati perché accusati di collaborare con

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LE RELIGIONI

i Romani: la tradizione, che parla di una persecuzione di quarant’anni, menziona l’enorme numero di 16 000 martiri. L’episodio piú cruento registrato dalle fonti è quello dell’uccisione del vescovo Shimon Bar Subba’e insieme a molti altri vescovi e preti, poiché si era rifiutato di sottoporre i suoi correligionari a una doppia tassazione. Dopo la morte di Shapur II, la situazione dei cristiani migliorò, ma le persecuzioni non cessarono del tutto fino al 399, quando l’imperatore Yazdagird I firmò la pace con i Bizantini e vennero avviati scambi diplomatici fra i due imperi. La gerarchia cristiana giocò un ruolo molto importante in tali negoziati e vescovi mesopotamici guidarono molte missioni diplomatiche persiane a Bisanzio; analogamente, l’impero bizantino era rappresentato alla corte persiana da membri della chiesa di Costantinopoli. Proprio grazie ai buoni uffici di una di queste delegazioni,

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Sulle due pagine particolari dell’interno della chiesa di S. Giacomo a Nusaybin (Turchia), l’antica Nisibi. Il tempio venne fondato nel IV sec., in onore del secondo vescovo metropolita della città, Giacomo, che ebbe un ruolo decisivo nella diffusione del cristianesimo.

guidate dal vescovo aramaico Marutha di Maipherqat, Yazdagird I concesse il rilascio dei prigionieri cristiani e la ricostruzione delle chiese distrutte durante le persecuzioni.

La lezione di un teologo «eretico» Uno dei malintesi piú diffusi a proposito della «Chiesa d’Oriente» (vedi box a p. 76) è quello di considerarla ancorata, sin dalle origini, alle dottrine del grande teologo «eretico» Nestorio, il principale esponente della cosiddetta «scuola antiochena», che fu anche, per un periodo breve e turbolento, patriarca di Costantinopoli. È importante sottolineare che la «nestorizzazione» della «Chiesa d’Oriente» si realizzò soltanto nella seconda metà del V secolo, come reazione alle posizioni del Concilio di Efeso contro Nestorio (431) e a quelle del Concilio di Calcedonia, nel desiderio di restare fedeli alla teologia antiochena contro la radicalizzazione della corrente teologica


alessandrina. In questa prospettiva i siroorientali si opposero anche alla cristologia della Chiesa siro-occidentale (detta impropriamente «giacobita») e adottarono la dottrina nestoriana, riconoscendo soltanto i primi due Concili ecumenici. Il principale artefice di tale «nestorizzazione» è il vescovo di Nisibi, Barsauma. Da quel momento, le Chiese greca e latina etichettarono la Chiesa assira come «scismatica». Ma, come ha giustamente notato Matteo Nicolini Zani nel suo bel volume intitolato La Via radiosa per l’Oriente, il carattere marcatamente diofisita (cioè imperniato sull’idea della doppia natura, divina e umana, di Gesú Cristo) assunto dalla «Chiesa orientale» con il Secondo Sinodo di SeleuciaCtesifonte del 486 andrebbe meglio riletto come effetto degli eventi politici del tempo occorsi tra impero bizantino e impero persiano.

Proselitismo e missione Successivamente, la Chiesa d’Oriente completò il suo sviluppo in tutto il territorio persiano e intensificò il suo processo di espansione anche all’esterno. Si costituirono le cosiddette province ecclesiastiche interne, corrispondenti alle grandi divisioni amministrative dell’impero sasanide e che, dal punto di vista territoriale, si estendevano nell’attuale Iraq e nelle zone dell’Iran nord-occidentale immediatamente a est del Tigri. A queste si aggiunsero presto le province ecclesiastiche esterne, create in seguito al moltiplicarsi delle comunità cristiane, con propri vescovi, nei territori di missione verso Oriente. È molto difficile determinare il numero esatto di tali province in un periodo ben preciso. Alcune di esse, infatti, furono create in un certo momento e poi scomparvero; altre ebbero metropoliti che portavano piú titoli, trovandosi cosí alla guida di piú province; alcune ebbero due sedi metropolitane diverse e altre ancora furono create per popolazioni nomadi, quindi senza sedi fisse e con un episcopato itinerante. In questa situazione di evoluzione permanente, risulta quasi (segue a p. 78)

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La Chiesa d’Oriente

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onostante si sia storicamente autodefinita come «Chiesa d’Oriente» (o, piú recentemente, «Chiesa assira d’Oriente»), uno dei nomi con cui essa fu anche nota in Occidente è «Chiesa di Persia», in relazione all’appartenenza politica del territorio in cui si strutturò in maniera indipendente a partire dal V secolo e in cui, per diversi secoli, si è trovato il suo centro (Seleucia-Ctesifonte). Una simile definizione risulta però restrittiva, avendo il limite di trascurare

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sia l’enorme diffusione di quella che è stata la piú missionaria tra le Chiese orientali, sia la sua primitiva matrice aramaica. La culla della «Chiesa d’Oriente», infatti, è il Nord-Ovest della Mesopotamia, area di cultura semitica molto influenzata anche dalla cultura greco-ellenistica, ma terra di confine tra due potenze politiche, quella bizantina e quella persiana: qui si impiantarono delle comunità cristiane di matrice antiochena sin dalla fine del I secolo d.C.


Ctesifonte (oggi Al-Mada’in, Iraq). I resti del Taq-i Kisra, il grande palazzo imperiale del re sasanide Cosroe I. VI sec.

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Calco in gesso della stele di Xi’an. Parigi, Musée national des Arts Asiatiques Guimet. VIII sec. Il testo inciso sul monolite (il cui originale è conservato nel Museo delle Stele di Xi’an) costituisce un memoriale attraverso cui la Chiesa cinese racconta la storia delle sue origini ed è uno dei piú straordinari documenti sulla diffusione delle dottrine cristiane in terra d’Oriente.

impossibile farsi un’immagine esatta dell’organizzazione amministrativa della Chiesa d’Oriente, soprattutto nel periodo di piú intensa espansione missionaria. Sappiamo comunque che comunità cristiane «orientali» erano ampiamente diffuse in territorio cinese da tempi assai remoti.

La storia scritta sulla pietra Nel 638, l’imperatore cinese Taizong approvò ufficialmente, tramite un editto, il culto cristiano nei territori imperiali. Il testo dell’editto è contenuto nella celeberrima stele di Xi’an, che è stata definita efficacemente come una sorta di «stele di Rosetta cristiana». Conservata al Museo delle Stele di Xi’an, è alta 2,8 m circa, poggia su uno zoccolo a forma di tartaruga e, nella parte superiore, è decorata da dragoni simmetrici e da una croce gemmata di tipo «nestoriano». Il corpo principale della stele è scritto in cinese e disposto su colonne, mentre alcune brevi porzioni di testo, che riportano i nomi di religiosi cristiani in una lista bilingue cinese/siriaco, sono incise sulle due facce laterali. Il testo della stele di Xi’an costituisce un memoriale attraverso cui la Chiesa cinese (che definiva il cristianesimo come «religione della Luce») racconta la storia delle sue origini ed è uno dei piú straordinari documenti sulla diffusione delle dottrine cristiane in terra d’Oriente. Un elemento centrale nella formazione e nell’immaginario dei cristiani d’Oriente è quello delle scuole, e ciò è ben illustrato, tra il V e il VI secolo, da Giacomo di Sarug. Nel suo Quarto discorso contro gli Ebrei, in cui giustifica le ragioni dell’economia divina di fronte alle obiezioni mosse dal popolo di Israele alla dottrina cristiana, leggiamo infatti: «Neppure un insegnante dà subito un libro completo da

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leggere a un bambino, ma prima lo esercita nella lettura di ogni singola sillaba. Inizia dalle lettere: le scrive e gliele mostra. Poi, col sillabare le parole lo fa salire piú su, e quando è pronto a leggere bene, allora gli dà il grande Libro in cui si trova ogni sapienza. Anche Dio, che è l’insegnante degli uomini, li fa salire a poco a poco fino alla perfezione. Comanda ad Adamo di non mangiare del frutto dell’albero e a Noè ha insegnato a uccidere la carne e poi a mangiarne. Ad Abramo ha dato la circoncisione, un segno manifesto, e a Mosè

Pittura murale forse raffigurante la celebrazione della Domenica delle Palme, dalla chiesa nestoriana di Gaochang (Xinjiang, Cina). Fine del IX sec. Berlino, Museum für Asiatische Kunst.

ha manifestato i nascosti misteri della sua creazione. Dopo costoro ha mandato suo figlio, perché tutto si compisse. Rimprovereremo, dunque, all’insegnante di aver dato tardi ai bambini i libri da leggere, solo dopo che si erano esercitati nella scrittura? Il mondo cresce poco a poco, come l’uomo, e questi unicamente allora diviene uomo perfetto, quando è del tutto compiuto. Un tempo, lattante, poco dopo bimbo e quindi fanciullo, diviene, nella sua quarta età, adolescente e, dopo ciò, uomo perfetto sul

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quinto gradino. Cinque età, cinque divine alleanze, attraverso cui il mondo tutto ha ricevuto compimento perché divenisse uomo». Per la gerarchia della Chiesa d’Oriente, è dunque fondamentale cogliere ed esplicitare le ragioni del comportamento paziente ma fermo adottato da Dio nei confronti della sua creazione, e l’immagine che meglio si presta a rappresentare ciò è quella della scuola e dell’educazione che vi si esercita. Ma v’è di piú: sul finire del VII secolo, la Causa della fondazione delle scuole, composta e pronunciata a Nisibi dal vescovo e teologo Barhadbeshabba di Holowan, pone sotto il segno di un’ininterrotta successione di scuole l’intera vicenda mondana, concernente gli uomini ma anche gli angeli. Un testo-chiave, che fornisce informazioni sulla tipologia delle scuole siro-orientali è il trentunesimo capitolo della Storia ecclesiastica di Barhadbeshabba ‘Arbaya, che scrive negli ultimi anni del VI secolo. In questo capitolo, l’autore narra le vicende biografiche di un pio monaco siriaco, Mar Narsai, e menziona i diversi tipi di scuola da lui frequentati: scuole di villaggio, scuole interne a monasteri e una grande scuola cittadina, quella di Edessa, matrice di quella nisibena. Si tratta di istituti tra loro indipendenti, che corrispondono a esigenze e pubblici diversi, pur se in parte tra loro correlati. Solo la terza è una scuola nel senso alto del termine, anche se solo a Nisibi evolverà fino a divenire un centro al tempo stesso di ricerca e didattica, dotato di un collegio, ovvero di proprie strutture atte a ospitare gli studenti e consentire loro una vita di studio e preghiera, disciplinata e severa. L’insegnamento al suo interno, poi, pur incentrato sulla lettura e sul commento delle Scritture, si articolerà sempre piú, prevedendo anche la lettura di libri di esegesi, oratoria, controversistica ed erudizione sacra e profana, anche al fine di venire incontro alle esigenze di formazione della classe dirigente locale, che, a partire dall’inizio del V secolo d.C. – a causa della progressiva crisi del sistema

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dell’insegnamento sofistico –, non disponeva piú di scuole adeguate. D’altra parte, le fonti danno testimonianza di percorsi di studi diversi da quello piú accentuatamente segnato dal confronto con i modelli di organizzazione del sapere prodotti in area greca. È il caso, per esempio, della scuola di Simeone di Kashkar, che non è certo riconducibile a una scuola di villaggio, ma che non è neppure collocabile tra le scuole ellenizzanti come quella edessena e poi nisibena.

Sapere cristiano, sapere profano Una questione fondamentale riguarda il rapporto che intercorre tra scuole ecclesiastiche e teologiche – come quelle di Nisibi, Seleucia-Ctesifonte, Gundishapur, ecc. – e la formazione intellettuale delle élite laiche dell’impero persiano e la vita culturale delle sue città. Nella Siria bizantina, ancora nel V secolo d.C., era in funzione il doppio circuito sacro e profano delle scuole. Personaggi come Giovanni bar Aphtonia o Giovanni di Tella hanno ricevuto un’educazione «mondana», che, accolta o rifiutata, sembra precedere e restare indipendente dall’educazione cristiana e monastica, che essi assimilano forse in ambienti diversi e in momenti prevalentemente successivi. Tuttavia, a Edessa, già con l’arrivo di Efrem e poi soprattutto con Rabbula, si erano venuti organizzando una cultura e un insegnamento siriaci, che si orientavano sempre piú insistentemente sui testi dei grandi teologi ed esegeti di lingua greca, i cui scritti erano allora oggetto di sistematica traduzione e integrazione nelle tradizioni locali. A partire dal VI secolo si avviò anche il processo di traduzioni aristoteliche, sia all’interno di un programma di diffusione degli scritti galenici in lingua siriaca, nella convinzione che la logica di Aristotele fosse uno strumento fondamentale per un’organizzazione efficace del sapere fisico, sia con l’obiettivo di fornire nuovi strumenti nelle controversie cristologiche. Sempre nel VI secolo, a Nisibi emerge una scuola medica di matrice ellenistico-romana, i

Nella pagina accanto Ritratto di sant’Efrem il Siro, olio su tela di Giuseppe Franchi. XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nato a di Nisibi nel 306 (o 307), Efrem venne battezzato a 18 anni dal vescovo Giacobbe, che alcuni anni dopo gli affidò la direzione della locale scuola catechetica. Nel 363, quando la città cadde in mano ai Persiani si trasferì a Edessa, dove diresse la scuola teologica e condusse vita monastica.


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cui maggiori dottori divengono potenti medici di corte e spesso influenti consiglieri dell’imperatore sasanide. Anche questa scuola utilizzava testi greci, probabilmente in tutto o in parte attraverso la presentazione fattane da Sergio di Rish’ayna (morto nel 536), il primo cultore di Aristotele in siriaco. Come è stato giustamente evidenziato, i membri dell’alta gerarchia della Chiesa orientale erano frequentemente trilingui, conoscendo alla perfezione il greco, il siriaco e il mediopersiano, e traducevano non solo dal greco al

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siriaco, ma anche dal siriaco al medio-persiano sia scritti teologici, sia opere filosofiche e scientifiche. Inoltre, la formazione garantita nei maggiori centri intellettuali siriaci prevedeva, almeno fino al VII-VIII secolo, anche la lettura dei grandi testi greci in lingua originale.

Una civiltà «islamo-cristiana» Prima di concludere, va menzionato il ruolo dei cristiani di lingua aramaica o siriaca (alcuni dei quali erano arabi come il celebre traduttore Hunayn Ibn Ishaq) nel movimento di traduzione


Sulle due pagine Il monaco Bahira incontra Maometto fanciullo e predice la sua missione. Miniatura tratta da un manoscritto del Jami’ al-tawarikh di Rashid-al-Din. XIV sec. Edimburgo, University Library.

di epoca abbaside. Costoro conoscevano il greco come lingua liturgica e, poiché esistevano traduzioni scientifiche dal greco in siriaco elaborate nel periodo pre-islamico, talora anche come lingua scientifica. Questi stessi traduttori dal greco e dal siriaco appartenevano alle Chiese cristiane dominanti nella Mezzaluna Fertile: melkiti od ortodossi, come i Bitriq padre e figlio e Qusta ibn Luqa; giacobiti, come ibn Na’ima al-Himsi e Yahya ibn ‘Adi; nestoriani, come la famiglia di Hunayn ibn Ishaq e Matta ibn Yunus.

Proprio il movimento di traduzione, caso straordinario di collaborazione fra cristiani e musulmani, costituisce uno splendido esempio di quella che un grande islamista americano, Richard W. Bulliet, ha suggestivamente definito «civiltà islamo-cristiana». Peraltro, adottare il punto di vista islamo-cristiano sarebbe forse utile anche oggi, affinché tutti gli occidentali trovino un terreno di dialogo con le comunità musulmane. Come ha scritto Bulliett, «la civiltà islamo-cristiana è un concetto di cui abbiamo un bisogno disperato se vogliamo ancora

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sperare di riuscire a trasformare la fase tragica e nefasta in cui ci troviamo in un momento storico di integrazione sociale e religiosa».

La Via del Buddha Sulla vicenda biografica della figura storica di Buddha (566-486 a.C.?) regna fra gli studiosi la piú totale incertezza. Le stesse date di nascita e di morte tradizionalmente accettate sono oggi messe radicalmente in discussione. Nella versione tradizionale, Siddhartha Gautama Sakyamuni («il Maestro dei Sakya) è un principe del Nepal meridionale, la cui nascita è preceduta da segni miracolosi. Gli astrologi predicono che sarà un gran re o un grande mistico. Preferendo l’ipotesi della regalità, il padre non lo fa uscire dal palazzo e gli evita qualunque esperienza spiacevole. Solo a ventinove anni, spinto dalla curiosità, Siddhartha esce dalla casa paterna e si fa portare per quattro volte in città. La prima volta incontra un vecchio, e il cocchiere gli spiega che tutti prima o poi diventano vecchi (una circostanza di cui era stato accuratamente tenuto all’oscuro). La seconda volta incontra un malato, la terza un cadavere, la quarta un monaco mendicante. Sconvolto dalla scoperta della sofferenza e della morte, il giovane abbandona la moglie e il figlio appena nato, e – ribellandosi al padre – conduce per sei anni la vita dell’asceta. Tuttavia, alla fine di questo percorso, si convince che le rigorosissime pratiche ascetiche tradizionali non aiutano a liberarsi dai dolori della vita, dalla morte e dal male costituito dalla stessa nascita. Decide quindi di dedicarsi alla meditazione solitaria seduto sotto un grande albero: qui, viene attaccato da uno spirito demoniaco, Mara, e dalle sue legioni. Dopo avere respinto questo assalto, e meditato per tutta la notte, raggiunge il «risveglio» (bodhi) in modo immediato e completo e diventa il Buddha («il risvegliato»), libero dalla ruota delle reincarnazioni a cui sono destinati tutti gli altri uomini che non conoscono la via della liberazione. Il Buddha si reca allora nell’antica città santa di Varanasi (Benares), dove raccoglie come primi

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discepoli cinque compagni che aveva conosciuto nella sua vita ascetica e pronuncia il suo primo, celeberrimo discorso. Le sue doti di insegnante sono descritte come straordinarie: non insegna soltanto con le parole, ma già con la sua semplice presenza. All’età di ottant’anni – sempre secondo la versione tradizionale – Buddha muore, o – piú esattamente – passa nel nirvana, uno stato al di là della sofferenza e

Una veduta della città santa di Varanasi (Benares, India), sul Gange. Qui il Buddha avrebbe pronunciato il suo primo discorso.


della morte. Il suo corpo è cremato, ma rimangono diverse sue reliquie, che i discepoli conservano in monumenti semisferici chiamati stupa. Lo stupa, nei primi secoli, è al centro delle comunità buddhiste, perché è intorno allo stupa che nascono le scuole e i monasteri. Piú tardi, negli stupa saranno custodite anche le reliquie dei primi discepoli di Buddha, o anche tavolette contenenti i suoi insegnamenti.

Anche le immagini e le statue del Buddha, nate dall’incontro fra la statuaria di origine grecoellenistica e la necessità di raffigurare il Buddha storico, acquisiscono una notevole importanza.

Il «Grande veicolo» Il buddhismo fiorí in India soprattutto durante la dinastia maurya (circa 322-187 a.C.), in particolare durante il regno dell’imperatore

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L’arte del Gandhara

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a vera base di partenza dell’arte buddhista è il regno del Gandhara, nell’odierno Pakistan nord-occidentale: qui si era infatti realizzata la fusione artistica tra l’arte buddhista indiana, importata dai Kushana nel I secolo d.C., e l’arte greca, introdotta nella regione da Alessandro Magno. Il prodotto piú rivoluzionario di questo connubio fu la rappresentazione del Buddha in forme umane di stile ellenistico. I primi viaggiatori occidentali che nel XIX secolo raggiunsero l’area del Gandhara dall’India furono particolarmente colpiti dai dipinti e dalle sculture gandhariche, e cercarono subito di ottenerne esemplari per i musei europei: la precipitazione con cui ciò avvenne, fu causa di grandi danni per i siti che

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custodivano quelle opere. Fu comunque l’arte del Gandhara a portare il messaggio della religione e dell’arte buddhiste in Asia centrale e in Cina. L’avanzata del nuovo credo lungo le oasi che bordavano il deserto del Taklamakan causò il proliferare di monasteri, grotte buddhiste e stupa. Alla costruzione e alla manutenzione di questi luoghi sacri provvedevano i notabili locali e i ricchi mercanti di passaggio, che chiedevano al Buddha protezione o lo ringraziavano per essere tornati sani e salvi dai loro viaggi. In molti dipinti delle grotte o degli stupa della Via della Seta si possono vedere raffigurati i donatori e i benefattori, spesso identificati da iscrizioni commemorative.


Ashoka (268-232 a.C. circa), che organizzò e sostenne una vasta rete di monasteri. Nei primi secoli dell’era cristiana si sviluppò, originariamente in India, il movimento Mahayana (del «Grande veicolo»), che condusse il buddhismo a un’importante divisione, che persiste ancora oggi. Il Mahayana fu inizialmente un grande movimento di monaci e laici che si ribellarono allo stretto controllo della rete monastica ufficiale. Nel suo ambito venne composta una serie di testi che, pur se scritti con tutta evidenza molti secoli dopo la vita terrena di Siddharta, sono considerati dai buddhisti mahayana come veri e propri sutra, cioè discorsi del Buddha stesso o divulgati con la sua autorizzazione. Tali testi – e in particolare il celebre Sutra del Loto – offrono una nuova interpretazione della storia del Buddha. La ricerca dell’illuminazione attraverso l’abbandono del palazzo paterno, la vita ascetica, e l’esperienza finale sotto l’albero della bodhi sono soltanto una parabola, che il Buddha ha raccontato a uso di discepoli non ancora preparati a comprendere la verità. In realtà, il Buddha ha già raggiunto l’illuminazione da miliardi di anni, e da allora predica la vera dottrina in questo mondo e in migliaia di altri mondi. Anche il suo passaggio nel nirvana è una finzione, un mezzo per insegnare a persone limitate: il Buddha continua e continuerà a vivere per miliardi di anni.

Il «Piccolo veicolo» e il «Veicolo del diamante» Se la verità sul Buddha è questa, chi resta legato alla versione originaria della sua storia si confina a insegnamenti esplicitamente destinati a persone limitate, non ancora mature per una comprensione piena del suo messaggio salvifico. Di qui, il termine dispregiativo Hinayana («Piccolo veicolo», ma anche «Veicolo inferiore»), utilizzato dagli aderenti al movimento Mahayana («Grande veicolo») per designare le scuole piú antiche. Proprio per il suo carattere denigratorio, il termine «Hinayana» viene oggi evitato dagli

Nella pagina accanto frammento di soffitto decorato con scena di Buddha in preghiera, arte del Gandhara, scuola di Bamiyan. V-VI sec. Kabul, Museo Nazionale dell’Afghanistan. In alto lastra in ardesia grigia con scene della vita del Buddha: il grande miracolo di Shravasti (in alto) e Kasyapa Buddha con la sua comunità. Berlino, Museum für Asiatische Kunst.

studiosi occidentali del buddhismo ed è sostituito dalla designazione di «Theravada» («Tradizione degli antichi»). A rigore, tuttavia, «Theravada» e «Hinayana» non sono sinonimi. Le scuole chiamate dagli oppositori «hinayana» erano originariamente diciotto; la scuola Theravada, una di queste (originaria dello Sri Lanka), è la sola sopravvissuta fino ai giorni nostri. Alcuni parlano perciò, con riferimento al complesso delle scuole hinayana, di «buddhismo originario» o «buddhismo della fondazione». Secondo una versione comune, il movimento mahayana avrebbe soppiantato rapidamente le scuole piú antiche, confinandole in un’area meridionale che comprende Sri Lanka e la penisola indocinese (Thailandia, Cambogia, Birmania, Laos, Vietnam). In realtà, il processo è stato piú complicato. La separazione fra un «buddhismo del Sud» theravada e un

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«buddhismo del Nord» mahayana (Cina, Giappone, Corea, Vietnam, Tibet e Mongolia) è relativamente tarda, essendosi verificata fra il X e il XIII secolo. In precedenza tradizioni mahayana e del «buddhismo della fondazione» coesistono fianco a fianco nei vari Paesi e talvolta perfino negli stessi monasteri. Inoltre, circa cinque secoli dopo il movimento mahayana, all’interno del buddhismo indiano si sviluppa un terzo «veicolo», il Vajrayana («Veicolo» o «Via della folgore adamantina», o «del diamante»): una strada che afferma la possibilità di conseguire l’illuminazione qui e ora, in questo corpo e in questa vita, in modo molto piú rapido di quanto non pensassero gli aderenti agli altri «veicoli». All’interno del Vajrayana – ma non solo – si manifesta l’influenza del tantrismo indiano, una forma di gnosticismo, a cui partecipa l’intera psiche dell’iniziato, per il quale a fondamento del reale si trova il dualismo che oppone spirito e materia, microcosmo e macrocosmo.

Fuori dall’India Tra l’XI e il XIII secolo si verifica una concatenazione di eventi che porta alla quasi totale sparizione del buddhismo dall’India continentale, un fenomeno sulle cui cause gli storici non hanno smesso di interrogarsi. La causa immediata è costituita dalle invasioni islamiche, che portarono alla distruzione dei grandi monasteri come quello di Nalanda, famoso per i suoi 10 000 monaci, la cui esistenza viene brutalmente a cessare nel 1197. Se il buddhismo indiano non è in grado di resistere alle pressioni musulmane – mentre aveva fatto fronte alle reiterate persecuzioni di re induisti – è perché, nel frattempo, era diventato troppo dipendente da monasteri che potevano sopravvivere soltanto con il sostegno statale. Lo stesso sostegno, peraltro, alla fine di questo periodo, è assicurato dal successo e dalla permanenza

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In basso scultura in pietra raffigurante il principe Siddharta, dalla caverna di Guyang. Dinastia Wei Settentrionale, V-VI sec. Grotte di Longmen (Henan, Cina), Museo.

della scuola theravada nei regni della Thailandia, della Birmania, della Cambogia e del Laos, cui la scuola fornisce un’ideologia nazionale monarchica fondata sul modello imperiale di Ashoka.

Verso nuove frontiere Dai primi secoli dell’era cristiana, la storia del buddhismo è anche la storia della sua trasformazione in una grande religione continentale asiatica, che è stata capace di trascendere l’origine indiana. Monaci e mercanti l’avevano portata in Tibet, in Cina, poi dalla Cina alla Mongolia e alla Corea, e dalla Corea al Giappone. Dallo Sri Lanka, il buddhismo era passato in Thailandia e nel resto della penisola indocinese. Si dice spesso che il successo del buddhismo sia dovuto al suo carattere di religione «traducibile», non legata cioè a una particolare lingua, al punto che i buddhisti considerarono sempre la traduzione dei testi antichi in altre lingue come un grande merito. La «traduzione», in effetti, non è solo testuale ma culturale: in Tibet, in Cina, in Giappone, in Corea il buddhismo incontrò idee religiose preesistenti, con cui stabilí rapporti non sempre facili, ma spesso fecondi. Se alcuni preferiscono parlare di buddhismi – al plurale –, con riferimento non solo alle diverse scuole ma anche alle sue varie manifestazioni regionali e nazionali, non si deve però dimenticare che molti elementi rimangono comuni. Si può quindi parlare di un solido nucleo che costituisce le basi fondamentali dell’insegnamento del Buddha e di un livello superficiale piú malleabile che si è adattato nel corso dei secoli alle diverse realtà storiche, sociali e culturali incontrate nel suo cammino di espansione in Asia. Il buddhismo comprende una cosmologia che distingue nell’universo tre


le prime immagini

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li studiosi suddividono il primo sviluppo della scultura buddhista cinese in tre fasi principali. Della prima sono giunte fino a noi alcune raffigurazioni in bronzo dorato e pietra, risalenti al IV-V secolo, che risentono fortemente dell’influenza indiana e dell’Asia Interna, sebbene già si intravedano scelte estetiche, oltre che stilistiche, appartenenti al repertorio artistico cinese. Il Buddha Shakyamuni dell’Asian Art Museum di San Francisco, databile al 338, è la piú antica scultura di un Buddha in Cina che presenti un’iscrizione e rievoca le rappresentazioni provenienti dalle regioni di Khotan (Xinjiang) e della valle dello Swat in Pakistan. Ogni accenno anatomico è stato volutamente soppresso. Col tempo emergono scelte stilistiche che tendono ad adottare linee sempre piú fluide e morbide, mentre i corpi allungati si assottigliano fin quasi a scomparire sotto i panneggi. Un esempio evidente di questa tendenza stilistica, giunta a piena maturazione nella prima metà del VI secolo, è rappresentato dal sacrario in bronzo dorato di Prabhutaratna e Shakyamuni risalente al 518, coevo alle prime realizzazioni di

Longmen, e conservato al Musée Guimet. La scultura nella Cina del Nord durante i Qin settentrionali, i Zhou settentrionali e infine i Sui, viene solitamente definita «scultura del periodo di transizione», e presenta uno stile a sé che si differenzia dall’arte delle epoche precedenti e successive. I contatti diretti e sempre piú frequenti con l’India e con i Paesi dell’Asia occidentale, contribuiscono allo sviluppo di una scultura che non è generata dallo stile geometrico, lineare, della prima metà del V secolo, bensí dalle rielaborazioni di modelli indiani dell’era Gupta (320-600 d.C.). Una forte attenzione al dominio e all’attenuazione del motivo ornamentale sul naturalismo, assieme al gusto nuovo per il volume e per i giochi di luci e ombre, determina la fisionomia dei caratteri tipicamente cinesi.

A sinistra statuetta cinese in bronzo dorato del Buddha Shakyamuni, datata da un’iscrizione al 338 d.C. San Francisco, Asian Art Museum. A destra statue in bronzo dorato dei Buddha Prabhutaratna e Shakyamuni, dalla provincia di Hebei. Dinastia degli Wei Settentrionali, 518 d.C. Parigi, Musée national des Arts Asiatiques Guimet.

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mondi: il mondo senza forme (arupyadhatu), il mondo della forma (rupadhatu), e il mondo del desiderio (kamadhatu). Nel mondo senza forme, gli dèi esistono in uno stato di pura beatitudine, senza corpi e senza organi del senso. Nel mondo della forma vivono divinità che hanno organi per la vista, il suono, il tatto (ma non il gusto e l’odorato). Nel mondo inferiore del desiderio vivono sia divinità meno perfette rispetto a quelle degli altri due mondi, sia gli uomini. Al centro del mondo del desiderio si trova il Monte Meru, circondato da quattro isole, di cui solo la piú meridionale, Jambudvipa, è accessibile all’umanità ed è il luogo dell’illuminazione. Sul Monte Meru vivono gli asura («semidei»), divinità minori che possono essere pericolose per gli uomini che le incontrano. Piú in alto, si trovano sei «paradisi»

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che contengono diverse categorie di divinità, i deva, i «trentatré dèi» e Maitreya, il Buddha del futuro, che attende di venire nel mondo. I nomi di queste divinità sono spesso tratti da tradizioni pre-buddhiste e rivelano la capacità del buddhismo di assorbire elementi delle religioni precedenti. Piú in basso, nel mondo del desiderio, vivono – insieme agli uomini – gli animali e gli «spiriti affamati» (preta), costantemente alla ricerca di nutrimento e di cui devono occuparsi pietosamente i monaci. Al di sotto del mondo del desiderio, si trovano diversi inferni, infuocati o gelidi.

Una storia ciclica La visione buddhista della storia è ciclica: al termine di una serie di venti cicli (ognuno caratterizzato dall’apparizione di un Buddha), l’universo sarà distrutto, per rinascere dopo un

Dunhuang (Cina). Una veduta delle Grotte di Mogao o «dei mille Buddha»: 492 templi scavati nella roccia che conservano una collezione di arte buddhista cinese imponente, comprendente oltre 2000 statue e affreschi che coprono oggi una superficie di oltre 42 000 mq.


periodo di vuoto. Gli uomini dell’era attuale sono inseriti in questo schema cosmico, ma sono chiamati a trascenderlo apprendendo le «quattro nobili verità», che avrebbero costituito storicamente il primo insegnamento del Buddha. La prima verità è che la vita è sofferenza, caratterizzata com’è dalla vecchiaia, dalla malattia e dalla morte. Anche le situazioni apparentemente piacevoli sono caratterizzate da uno stato di non-permanenza (anitya): il piacere sarà comunque breve, e gli succederà il dolore. Si può quindi dire che esiste uno stato di insoddisfazione inerente all’esistenza stessa, che, pur avendo momenti di gioia e felicità, ha come substrato questo sottile malessere legato all’impermanenza di tutti gli stati e all’incapacità umana di accettarla. La seconda verità è che la causa della sofferenza è l’azione (karma), e in particolare l’azione non virtuosa provocata dal desiderio e dall’odio, a loro volta figli dell’ignoranza. La prima ignoranza è costituita dalla credenza nell’esistenza di un sé (atman) permanente; ovvero eterno, indipendente e autonomo, un sé al di là dell’essere contingente e determinato. L’individuo esiste, secondo il buddhismo, solo come insieme di cause e relazioni determinate

all’interno di un piú complesso sistema di cause e relazioni che costituisce il samsara, il mondo in cui viviamo. Finché permane questa credenza, ogni azione consapevole – anche apparentemente buona – mantiene la persona legata alla ruota della vita e della morte (samsara, «peregrinare»). A seconda dei meriti o dei demeriti accumulati ci si reincarnerà nel regno degli dèi, dei semidei, degli uomini, degli animali, degli spettri o degli spiriti infernali. Rinascere come dio nel mondo del desiderio è considerato raro e richiede particolari meriti consapevolmente accumulati.

Sfuggire al samsara Spesso l’esistenza umana offre invece maggiori possibilità di risveglio, in quanto non è né troppo dolorosa, né troppo piacevole, e rende possibile un profondo lavoro su se stessi. Si parla spesso, infatti, di «preziosa esistenza umana» proprio in quanto possibilità specifica e migliore per un cammino di liberazione dalle rinascite, che è il fine piú alto. Rinascere come una divinità nel mondo della forma, o nel mondo senza forma, richiede che già nella vita sia stato raggiunto un particolare stato di concentrazione meditativa (in pratica

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cosí difficile che di questi mondi si parla abbastanza poco nei testi). Nella tradizione mahayana, è anche possibile – e altamente desiderabile – rinascere nelle «terre pure» (buddhaksetra) create dai Buddha che hanno attraversato l’universo nel corso della sua storia. Secondo alcune scuole questo stesso nostro mondo è una «terra pura», e tutto sta nel rendersene conto. In assoluto, comunque, per il buddhismo, sfuggire al ciclo delle reincarnazioni è preferibile alla migliore rinascita. È questa la terza verità, che implica l’esistenza di uno stato al di là della sofferenza a cui si accede eliminando la sua causa ultima, l’ignoranza. Questo stato è chiamato nirvana, anche se, come si è accennato, esistono controversie fra le varie scuole sulla sua natura. La quarta verità insegna che è possibile superare l’ignoranza attraverso l’etica, la meditazione e la saggezza. Compiere azioni meritorie è importante, ma i meriti si acquisiscono se non si fa il bene per caso (soltanto perché non è capitata l’occasione di fare il male), ma in ottemperanza a uno scopo

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Testa di Buddha, nella grotta 194 del tempio rupestre di Mogao (Dunhuang, Gansu, Cina). Periodo Tang, 618-907.

che ci si è consapevolmente prefissi. La principale saggezza è la consapevolezza che non esiste, propriamente, un sé, e la meditazione mira a spezzare tale illusione del sé.

Nessun dio Nell’universo buddhista non c’è, comunque, un dio creatore. Gli dèi sono sottoposti al destino e al samsara, come gli uomini. Il Buddha, in quanto perfettamente illuminato, è superiore agli dèi, ma neppure lui può essere paragonato al dio creatore delle religioni monoteistiche. È difficile anche parlare di un rapporto personale fra il fedele buddhista e il Buddha, paragonabile al rapporto con Dio nelle religioni monoteistiche. La devozione al Buddha passa spesso attraverso i piú accessibili bodhisattva (i Buddha in potenza, «coloro che sono sulla via dell’illuminazione», anche, ancora una volta, l’etimologia del termine è controversa). I bodhisattva, che appaiono originariamente in testi sulle precedenti incarnazioni di Gautama Buddha, sono individui che hanno fatto voto di rimanere nell’universo per liberare tutte le


creature dalla sofferenza, e che sono sulla strada per diventare futuri Buddha. In diverse scuole mahayana sono previste cerimonie in cui si fa voto di diventare bodhisattva e di iniziare il lunghissimo cammino che, dopo miliardi di anni, potrà portare a diventare un Buddha. I grandi bodhisattva svolgono anche una funzione di protettori degli uomini, e alcuni sono particolarmente venerati, come Maitreya – destinato a divenire il prossimo Buddha – e Avalokiteshvara (in versione femminile – anche se il genere resta per qualche verso ambiguo – in Cina e in Giappone), che in Tibet prende forma umana attraverso la successione dei Dalai Lama, che ne sono la manifestazione.

I «Tre Gioielli» Secondo alcuni studiosi, l’autentico principio supremo nel buddhismo sarebbe il dharma («legge» o «insegnamento»), il secondo dei «Tre Gioielli» insieme allo stesso Buddha e al sangha, la comunità dei credenti. Tuttavia, il dharma è il principio impersonale che regola l’universo e non l’agente personale che costituisce l’essere supremo delle religioni monoteistiche. Il terzo «gioiello» è il sangha, parola che originariamente designava la comunità monastica maschile e femminile, ma che si è estesa fino a indicare il popolo dei credenti o praticanti nel suo insieme. L’atto fondante con cui un uomo o una donna entrano a fare parte della comunità è il cosiddetto «prendere rifugio», che in alcune tradizioni presuppone una precisa cerimonia alla presenza di un lama o di un monaco. Si tratta, in effetti, di un impegno preso personalmente nei confronti dei «Tre Gioielli» – il Buddha, il dharma e il sangha –, che viene esplicitato di fronte alla comunità dei praticanti. I voti sono importanti nella vita del buddhista in genere, e aiutano ad acquisire meriti tramite le buone azioni compiute con piena consapevolezza. La vita monastica assume una grande varietà di forme nel mondo buddhista, e rimane ancora oggi al centro di molte comunità. Tra i voti dei laici, particolare importanza assumono nel mondo mahayana

In basso I mille Buddha, pittura del periodo Tang (618-907) dalle grotte di Mogao. Dunhuang, Gansu, Cina. Oltre alle tematiche religiose, le pitture di questo periodo offrono anche rari scorci di vita, abitudini musicali, mode e tendenze architettoniche della raffinata corte Tang.

quelli che avviano a diventare bodhisattva, e che si configurano come iniziazioni. A questi, soprattutto nelle scuole vajrayana, si affiancano iniziazioni di tipo tantrico. Alcune di queste – praticate generalmente in modo simbolico – implicano l’unione rituale con una persona dell’altro sesso, e un’ampia discussione si è sviluppata (particolarmente in Tibet) se queste pratiche debbano essere aperte ai monaci, in linea di principio votati al celibato.

L’etica buddhista Il buddhismo include regole etiche, riassunte nel trinomio «retta parola, retta azione e retta condotta di vita». Nella pratica, l’etica buddhista si fonda sui cosiddetti «cinque precetti» (panca sila) accompagnati da «cinque atti propositivi» (panca dharma): non uccidere esseri viventi e proteggere la vita in tutte le sue forme; non rubare e prendere solo ciò che si è onestamente guadagnato; non dire menzogne,

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LE RELIGIONI

ma utilizzare la parola in modo misurato e sincero; non commettere atti sessuali illeciti (cioè non tenere un comportamento disordinato, che può essere causa di sofferenza per gli altri); sostenere la fedeltà nei rapporti; non assumere sostanze intossicanti e droghe e lasciare la mente sgombra e attenta. Il buddhismo non possiede vere e proprie espressioni di «culto della divinità», ma piuttosto sessioni di meditazione, in cui i partecipanti sono guidati nella pratica da maestri, spesso monaci. Queste sessioni hanno un valore tanto spirituale, di ricerca del divino insito in se stessi e nella propria coscienza, quanto psicologico, di conseguimento della calma e della serenità. Non mancano, naturalmente, riunioni per l’insegnamento della dottrina e cerimonie caratterizzate dall’offerta simbolica di fiori e incenso, con canti e preghiere, iniziazioni che prevedono l’entrata dell’adepto in una determinata pratica. Tra gli eventi cerimoniali piú importanti vanno menzionate le ordinazioni di monaci e le iniziazioni, in cui un maestro abilita un discepolo a ricevere gli insegnamenti piú avanzati.

La religione di Mani Il buddhismo e il cristianesimo non furono le sole religioni straniere a giungere in Cina attraverso la Via della Seta: a esse si aggiunse infatti il manicheismo. Questo credo, che prende il nome da Mani, il suo fondatore, nacque in Persia nel III secolo d.C. ed è considerato un’eresia del mazdeismo, la religione nazionale dell’Iran preislamico. Esso si fonda sostanzialmente sull’opposizione di due principi: la luce e l’oscurità, perennemente in lotta fra loro. Nato in Mesopotamia nel 216 d.C., Mani crebbe con il padre in una comunità religiosa in cui si praticava l’ascesi. Secondo la tradizione, all’età di dodici anni ebbe una prima rivelazione divina e a ventiquattro anni, in seguito a una seconda rivelazione, iniziò la sua vita pubblica. Ebbero cosí inizio i suoi viaggi missionari in India, in Persia e in altre regioni

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dell’impero sasanide, dove stabilí ottime relazioni con il sovrano Shahpur I ed entrò a far parte della corte imperiale. Tuttavia, dopo la morte di Shahpur, Mani cadde rapidamente in disgrazia: nel 277, il successore di Shahpur, Bahram I, lo fece imprigionare a Gundeshahpur, dove morí tra atroci torture. Il manicheismo è una religione dualistica, che presuppone la coesistenza di due principi contrapposti, il Bene e il Male, la Luce e la Tenebra. Secondo la dottrina manichea, esistono due sfere distinte: il mondo della Luce, governato da Dio, il Padre di Grandezza, e il mondo delle Tenebre, il regno della materia, del disordine, dove regna Ahriman, il piú grande dei demoni. Dal rapporto conflittuale fra le potenze del male e il mondo della Luce scaturiscono il mondo e l’uomo, la cui parte materiale è dovuta all’azione del male, mentre la parte spirituale ha origine divina ed è intrappolata nella materia. Per i manichei, compito della religione era liberare le particelle di luce intrappolate nella materia e farle salire verso la Luce. Per ottenere questo scopo era necessario seguire pratiche ascetiche attentamente codificate e bisognava che gli eletti prendessero parte al pasto rituale quotidiano. La comunità manichea era divisa in due categorie principali: gli uditori (semplici fedeli laici, ai quali era consentito uno stile di vita sobrio, ma non molto diverso da quello vigente nelle comunità cristiane) ed eletti (religiosi facenti parte della gerarchia ecclesiastica, suddivisa in quattro gradi: semplici eletti, presbiteri, vescovi e maestri, a capo della quale vi era il Principe). Anche a causa del suo intellettualismo e della sua elaborazione dottrinale, il manicheismo non riuscí a imporsi come religione di massa. Esso attrasse grandi personalità come Agostino, il futuro vescovo di Ippona, che prima di convertirsi al cristianesimo fu manicheo e, piú tardi, autore di importanti opere di confutazione del manicheismo. Data l’importanza degli scritti anti-manichei di Agostino, si è a lungo ritenuto, erroneamente, che il manicheismo fosse un’eresia cristiana.


Mani come pittore ritrae un cane morto su una sorgente ghiacciata per ammonimento alle donne, miniatura da un manoscritto persiano, da Nisami. 1460. Istanbul, Biblioteca del Palazzo del Topkapi.

Lo studio di testi manichei scoperti in Egitto, in Asia centrale e in Cina ha ormai contribuito in maniera decisiva a dimostrare il carattere autonomo della religione manichea, sia rispetto al cristianesimo, sia rispetto al buddhismo. I manichei furono perseguitati come eretici sia in Persia, sia in Occidente; cosí, fra il VI e il VII secolo d.C., alcuni di essi, in fuga dalle persecuzioni, si stabilirono in Cina. Fino a quando gli archeologi occidentali non si imbatterono nelle grandi biblioteche manichee della regione di Turfan, si riteneva che il manicheismo fosse una religione priva di scritture. Sulla Via della Seta, questa dottrina cosí minoritaria e, per certi versi, «sovversiva», molto diffusa nel ceto mercantile, ebbe poi la ventura di divenire religione ufficiale di uno Stato. Essa venne infatti adottata dai Turchi Uighuri, sotto il cui regno conobbe il suo apogeo. Dalla fine del X secolo, cominciò invece il lento declino del manicheismo: nelle città-oasi occidentali, esso venne cancellato dall’onda dell’Islam, mentre a Oriente fu soppiantato dal buddhismo. Una testimonianza eccezionale di questa evoluzione storico-religiosa è visibile a Karakhoja (Gaochang), sul confine nord-orientale del deserto del Taklamakan: qui infatti, alcune splendide pitture murali manichee sono state ricoperte e nascoste da dipinti buddhisti di epoca successiva.

da leggere

• Suha Rassam, Christianity in Iraq, Gracewing, Leominster 20102 • Matteo Nicolini Zani, La Via radiosa per l’Oriente, Edizioni Qiqajon, Bose 2006 • Richard W. Bulliett, La civiltà islamico cristiana, Laterza, Roma-Bari 2005 • Dimitri Gutas, Pensiero Greco, cultura araba, Einaudi, Torino 2002 • Florinda De Simini, Il buddhismo. Storia di un’idea, Carocci, Roma 2013

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Samarcanda. Una veduta del Gur-i Mir, il mausoleo di Tamerlano. XIV-XV sec.

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GEMME

D’ORIENTE SAMARCANDA E BUKHARA: CITTÀ DAI NOMI ESOTICI E QUASI LEGGENDARI, LE CUI MERAVIGLIE ARCHITETTONICHE LASCIARONO SENZA FIATO GLI OCCIDENTALI CHE GIÀ NEL MEDIOEVO SI AVVENTURARONO LUNGO LA VIA DELLA SETA. PRIMO FRA TUTTI MARCO POLO


SAMARCANDA E BUKHARA

«C

’è un turco, a Shiraz: mi dicesse di sí, a Samarcanda rinuncio, a Bukhara, per l’indico nero nonnulla che ha in volto. / L’eternità sta nel vino, coppiere, a me versane l’ultima goccia: lassú non fiorita è radura, non quale a Shiraz riva d acque. / Ma a bellezza d’amico che giova, se l’amo d amore imperfetto? Non sono tocchi, non sono, che valgano a fare un bel volto piú bello. / Di liuti parlatemi solo, parlatemi solo di coppe: il segreto di questo mondo è un enigma che mai saprà scioglier sapienza». In questi celebri versi, il grande poeta persiano Hafez fa mostra di scambiare ciò che vi è di piú bello e prezioso al mondo con l’amore. E, come termine di paragone, individua ciò che per la cultura persiana del XIV secolo è

Alessandro a Maracanda

A

lla fine dell’autunno del 328 a.C. Alessandro era riuscito a stabilire definitivamente la sua autorità sulla Battriana e sulla Sogdiana e svernava con le sue truppe a Maracanda, capitale della Sogdiana, il cui governo egli aveva affidato a Clito. Quest’ultimo era stato uno dei collaboratori piú fidati di Filippo II e aveva giocato un ruolo importante anche presso la corte di Alessandro, soprattutto da quando gli aveva salvato la vita nella battaglia del Granico (334 a.C.). Durante uno di quei banchetti faraonici in cui i generali macedoni bevevano senza posa fino al mattino, mentre tutti rivolgevano encomi al re, Clito, che, evidentemente, come racconta Arriano, «da tempo era adirato per il mutamento di Alessandro in favore di abitudini barbare e per i discorsi degli adulatori», prese a parlare in toni polemici. Era eccitato dal vino, forse troppo. Ma anche Alessandro lo era. Clito disse che la gloria del re era dovuta Alessandro uccide Clito, olio su tela di Daniel de Blieck. 1663. Hull, Ferens Art Gallery.

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L’impero di Alessandro Regno di Macedonia all’avvento di Alessandro (336 a.C.) Lega di Corinto alleata di Alessandro Territori conquistati da Alessandro (336-323 a.C.) 333

Le spedizioni in Asia (334-326 a.C.) Esercito di Alessandro in marcia verso est

Il ritorno in Occidente Esercito di Alessandro Esercito di Cratero Flotta di Nearco

Anno delle conquiste

Battaglie e data

Limite estremo dell’impero

Città fondate da Alessandro

anche e soprattutto alle truppe, che Alessandro gli doveva la vita, dopo quanto era accaduto sul Granico, che le imprese di Filippo erano superiori per importanza rispetto a quelle del figlio. Mentre Clito, ormai fuori di sé, lo diffamava pubblicamente, Alessandro tentava malamente di ribattere, e intanto la sua rabbia cresceva. Clito non cedeva, al punto da monopolizzare l’attenzione degli astanti, che iniziavano a temere seriamente per l’esito di quel diverbio tra ubriachi. A un certo punto, afferma ancora Arriano, «Clito osò difendere perfino Parmenione»,

Produzioni e attività nel periodo ellenistico Au Oro

Sale

Cereali

Vetro

Ag Argento

Marmo

Vino

Lana

Cu Rame

Papiro

Legname

Tessuti

Zn Zinco

Profumi

Incenso

Fe Ferro

Cantieri navali

Lino

uno dei suoi migliori generali, che Alessandro aveva fatto uccidere con l’accusa di aver partecipato a una congiura contro di lui. Allora il re, punto sul vivo, cominciò a cercare un pugnale, a gridare al complotto. Quando poi Clito, citando un celebre verso di Euripide, esclamò «Ohimè! Che cattivi costumi ci sono in Grecia!». Alessandro, nell’impeto, strappò la lancia a uno degli scudieri e lo trafisse. Clito si accasciò a terra, moribondo. La scena lasciò tutti senza parole, mentre nella sala riecheggiava solo un lamento: era il pianto disperato di Alessandro.

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SAMARCANDA E BUKHARA

facezia. Samarcanda, come Timbuctu e poche altre città al mondo, significa «lontananza»: è il luogo dove si spera – sia pure invano – che neppure la morte riesca a raggiungerci.

Dagli Achemenidi ai Greco-Battriani Con il nome di Marakanda, Samarcanda compare nelle fonti greche come una delle città principali della Sogdiana, satrapia persiana sin dall’inizio dell’epoca achemenide. Per Sogdiana si intende una regione storica dell’Asia centrale – oggi corrispondente all’Uzbekistan meridionale e al Tagikistan occidentale – dove, a partire almeno dal VI secolo a.C., si è sviluppata un’importante civiltà di lingua e cultura iranica, che ha raggiunto il suo acme tra il V e l’VIII secolo d.C. Alla fine del IV secolo a.C., la regione venne conquistata da Alessandro Magno e, dopo la sua morte (323 a.C.), entrò a far parte del In alto un bazar di Samarcanda in una fotografia scattata intorno al 1875. Nella pagina accanto il Mar Caspio, il Golfo Persico e le regioni circostanti in una mappa tratta dall’Atlante catalano del geografo e cartografo maiorchino Abraham Cresques. 1375. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella cornice, la città di Samarcanda.

considerato il paradigma ideale della bellezza terrena: le splendide città carovaniere di Samarcanda e Bukhara, gemme luminose dell’Asia centrale. Partiamo, dunque, per un breve itinerario ideale in questi due luoghi-simbolo della Via della Seta.

Una città mitica Marakanda, Marachanda, Maraganda, Maracadra, Maracunda, Afrasyab, Samarkent, Semerkant, Samarqand, Samarcanda. Non importa come si scriva: il suo nome è uno slogan, una formula rituale, sentito una volta non si dimentica. C’è l’antica città conquistata da Alessandro Magno, la metropoli commerciale dei Sogdiani, la capitale di Tamerlano il Grande, dalle cupole sfavillanti nel sole; e poi c’è la Samarcanda mentale – città mitica di un regno delle favole, miraggio antipodale, simbolo del chissà dove o banale

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il maestro e l’angelo della morte

N

arra una storia sufi risalente, nella sua prima redazione, al IX secolo d.C., che il discepolo di un Sufi di Baghdad era seduto un giorno nell’angolo di una locanda, quando sorprese una conversazione tra due persone. A sentirle parlare, capí che una di loro era l’Angelo della Morte. «Ho molte visite da fare in questa città nelle prossime tre settimane», diceva l’Angelo al suo compagno. Terrorizzato, il discepolo si rannicchiò nel suo angolino finché i due non se ne furono andati. Poi fece appello a tutta la sua intelligenza per trovare il modo di scampare all’eventuale visita dell’Angelo, e, alla fine, decise di allontanarsi da Baghdad, affinché la morte non potesse raggiungerlo. Dopo aver fatto questo ragionamento, non gli restava che noleggiare il cavallo piú veloce e, spronandolo giorno e notte, arrivare fino alla lontana Samarcanda. Nel frattempo, la Morte si incontrò con il maestro sufi, col quale si mise a parlare di varie persone. «Ma dov’è dunque quel vostro discepolo?», chiese la Morte. «Dovrebbe trovarsi da qualche parte in città, immerso in contemplazione, forse in un caravanserraglio», rispose il maestro. «È strano», disse l’Angelo, «perché è proprio nella mia lista... Ah, ecco, guardate: devo prenderlo fra quattro settimane a Samarcanda, e in nessun altro luogo».


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CAPITOLO

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In alto illustrazione artistica che ipotizza l’aspetto originario della Sala degli ambasciatori dell’antica Afrasyab. Nella pagina accanto due frammenti della decorazione originale della sala, ad affresco. VII-VIII sec. Samarcanda, Museo Archeologico di Afrasyab.

regno seleucide, ma di lí a poco, dalla secessione delle regioni orientali del dominio seleucide si formò il regno detto «greco-battriano» (245-125 a.C. circa), noto soprattutto grazie alle sue emissioni monetali. In questo periodo, la classe dominante era rappresentata da Macedoni e Greci, mentre la maggior parte della popolazione era costituita da Sogdiani e, soprattutto, da Battriani.

Le invasioni dei nomadi Le dinamiche che portarono agli sviluppi successivi non sono del tutto note, ma sembra che, intorno al 200 a.C., la Battriana riuscí a sottrarsi al controllo dei Greco-Battriani per diventare però presto l’obiettivo delle invasioni nomadiche provenienti da est e innescate dalla formazione dell’impero nomade degli Xiongnu. Nelle testimonianze archeologiche relative a Samarcanda tra il III secolo a.C. e il III secolo

d.C. sono quasi del tutto assenti materiali di matrice battriana, e ciò sembra indicare che l’influenza greco-battriana sulla città non fu particolarmente importante. Verso la metà del II secolo a.C. gli Xiognu giunsero nella regione del Bacino del Tarim e attaccarono la popolazione di origine indoeuropea che qui risedeva, chiamata dalle fonti cinesi «Yuezhi». Scacciati dalle loro terre, gli Yuezhi si trasferirono prima in Transoxiana (i territori oltre il fiume Oxus, l’odierno Syr Darya), poi in Battriana, e formarono un grande impero, che prese il nome di impero kushana (I secolo a.C.-III secolo d.C.). La regione di Samarcanda ne entrò a far parte sin dall’inizio. In questo periodo di relativa pacificazione dell’Asia centrale, in Sogdiana si diffuse il buddhismo ed ebbe inizio una fase di grande sviluppo economico e culturale, con un notevole incremento dell’irrigazione e

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SAMARCANDA E BUKHARA

Tra la metà del V e l’inizio del VI secolo d.C. la Sogdiana subisce le invasioni degli Unni Eftaliti e, per un breve periodo, entra a far parte dell’effimero impero da questi fondato. Intorno al 550 d.C., però, Cosroe I (531-579), anche grazie all’alleanza con i Turchi, riuscí a infliggere loro una sonora sconfitta e a porre nuovamente la regione sotto il controllo sasanide. È questa un’epoca di notevole espansione commerciale: i Sogdiani divengono infatti i monopolisti dei traffici sulla cosiddetta «Via della Seta», una serie di itinerari che collegavano la Cina al Mediterraneo e, nello stesso tempo, si impongono come mediatori politici e culturali tra il mondo cinese e quello persiano.

La sala degli ambasciatori

dell’edilizia nelle località piú importanti: Afrasyab («[la città] sul fiume Sijab», un altro dei nomi con cui Samarcanda fu conosciuta di qui e fino alla distruzione mongola del XII secolo d.C.), Pjandjikent, Varachsha, Pajkend, Tali-Barzu, Mug.

Geopolitica e religione Il collasso dell’impero kushana fu la conseguenza della politica aggressiva del primo «Re dei Re» sasanide Ardashir I (224-241 d.C.), che riuscí ad assoggettarlo intorno al 230 d.C., riportando l’Asia centrale sotto il diretto controllo persiano. In Transoxiana, cristianesimo, giudaismo e manicheismo trovarono nuovi adepti, anche se la religione predominante tornò a essere il mazdeismo, come in epoca achemenide.

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Veduta degli scavi di Afrasyab.

Intorno alle antiche cittadelle fortificate sogdiane, sorgono ora le residenze dei grandi mercanti e dei proprietari fondiari e si afferma la tipologia del castello (rappresentata nell’area di Samarcanda e nell’alto Zerafshan). La corte di Samarcanda si trasforma in un luogo di importanti trattative diplomatiche tra ambasciatori persiani, turchi, indiani e cinesi. E una delle piú straordinarie testimonianze di questa temperie politica è certamente la cosiddetta «sala degli ambasciatori» di Afrasyab. Nel 1965, in occasione di lavori di costruzione di una strada, furono infatti scoperte pitture murali di altissima qualità, oggi conservate nel Museo Archeologico di Afrasyab, che ornavano originariamente un ambiente a pianta quadrata di circa 11 m di lato, a sua volta parte di un palazzo. Il nome della sala è legato al soggetto principale della decorazione: l’arrivo a Samarcanda di delegazioni straniere nell’atto di presentare omaggi al sovrano della città (Varkhuman). Secondo l’interpretazione di Matteo Compareti (vedi box alla pagina accanto), uno dei maggiori esperti mondiali di arte dell’Asia centrale, la sala degli ambasciatori di Afrasyab presenta un ciclo pittorico articolato, nel quale sono raffigurati i rappresentanti di diversi regni in contatto con la Sogdiana (il regno di


al centro del mondo

P

er quanti siano interessati alla storia e all’arte della Samarcanda preislamica è fondamentale la lettura della monografia di Matteo Compareti (Samarcanda centro del mondo. Proposte di lettura del ciclo pittorico di Afrasyab, Mimesi, Bologna 2009), dedicata in particolare all’analisi delle pitture

ritrovate ad Afrasyab (la Samarcanda pre-islamica o, meglio, pre-mongola) negli anni Sessanta del secolo scorso dai Sovietici. Grazie al lavoro di Compareti, è ora possibile comprendere meglio lo straordinario ciclo pittorico nel quale compaiono, oltre agli abitanti stessi di Samarcanda,

Samarcanda, la Cina dei Tang, l’India) dalla metà del VII secolo circa. Con ogni probabilità, quei personaggi stanno celebrando feste locali connesse al proprio Capodanno e al periodo estivo. Qualora tali feste non riescano a combaciare tra loro, ecco che gli artisti sogdiani avevano escogitato una serie di rimescolamenti onde ottenere occorrenze quanto piú precise possibili sul piano dell’importanza delle festività e del periodo dell’anno in cui cadevano. Le dimensioni del palazzo che accoglieva quel ciclo pittorico propendono a favore di un edificio privato, forse una sorta di tempio dedicato agli antenati del sovrano locale, dove si poteva porgere loro omaggio e, forse, conservarne le spoglie mortali. In questo modo, le informazioni contenute nelle fonti

In alto ossuario sormontato da testa maschile, da Afrasyab. VII sec. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

anche rappresentanti delle civiltà attigue come Cinesi, Indiani, Turchi in un periodo preciso dell’anno, mentre officiano celebrazioni specifiche. L’opera comprende un’introduzione storica e traduzioni da fonti relative all’epoca in questione, fornendo dati di prima mano e approfondimenti anche al lettore non esperto.

cinesi relative all’VIII secolo possono ritenersi veritiere in quanto esse riportano l’esistenza di un edificio cosí decorato in Sogdiana centrale, dove il sovrano pregava ogni giorno. I risultati dello studio di Compareti non sono importanti solo per quanto concerne la cultura materiale sogdiana alla vigilia dell’invasione araba, ma riguardano indirettamente anche altre parti dell’Asia centrale, del Caucaso e della Persia, dove, cioè, vigeva lo stesso sistema calendariale.

Lotta per l’egemonia Dopo un lungo periodo di pace, la Sogdiana divenne terreno di scontro di due grandi imperi che volevano stabilire la loro influenza in Asia centrale: quello islamico e quello cinese. Le prime incursioni arabe in territorio sogdiano

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SAMARCANDA E BUKHARA

avvennero nel 654 sotto la guida del condottiero Abu ‘Ubayda. I primi califfi omayyadi intrapresero attacchi e razzie in Transoxiana, senza mai riuscire a stabilire un dominio duraturo sulla regione, che era ancora, formalmente, un protettorato cinese. La conquista vera e propria avvenne all’epoca del califfo al-Walid I (705-715), grazie alla sagacia del governatore del Khorasan Qutayba bin Muslim. I rapporti fra conquistatori e conquistati restarono però molto tesi fino alla metà dell’VIII secolo, anche perché i Cinesi fomentavano rivolte nel tentativo di scalzare gli Arabi dalle loro posizioni. Il 26 novembre, fu proclamato califfo Abu ‘l-’Abbas al-Saffah, il primo dei califfi abbasidi (749/50-754). Tra i suoi piú grandi successi – la cui portata fu pienamente compresa solo dopo qualche tempo –, v’è l’arresto dell’espansione cinese in Asia centrale, grazie alla battaglia combattuta presso il fiume Talas (in un’area di confine fra gli odierni Kazakistan e Kirghizistan) nel 751. Qui, infatti, il comandante arabo Ziyad ibn Salih al-Khuza‘i inflisse al generale cinese Gao Xianzhi una dura sconfitta.

La scoperta della carta L’evoluzione successiva della situazione cinese fece di questo evento un vero e proprio spartiacque fra due epoche:

Tamerlano era intriso di cultura persiana ma aspirava a riedificare l’impero mongolo di Gengis Khan, del quale si proclamava discendente | VIA DELLA SETA | 106 |

Miniatura che raffigura l’ingresso di Tamerlano a Samarcanda con l’esercito, da una copia dello Zafar Nama, una biografia di Tamerlano redatta dallo storico persiano Sharaf ad-Din Ali Yazdi. 1424-1428 circa.

da allora in poi, il processo di islamizzazione dell’Asia centrale non avrebbe piú incontrato ostacoli. L’aneddoto secondo cui, in tale occasione, alcuni fabbricanti di carta cinesi fatti prigionieri al Talas avrebbero introdotto gli Arabi all’uso della carta è molto probabilmente un’invenzione: tuttavia, è vero che in Asia centrale e in Khorasan i musulmani entrarono per la prima volta in contatto con questo economico prodotto di origine cinese, che divenne presto di uso comune nell’impero


islamico. Anche in questo caso, il risultato è epocale: un’efflorescenza di libri e di cultura scritta incomparabilmente piú intensa, vigorosa di quanta ne conobbe l’Europa prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili nel XV secolo. Nel IX secolo la Transoxiana fu amministrata, per conto del califfato abbaside, dalla dinastia iranica dei Samanidi (in realtà quasi totalmente indipendenti da Baghdad), sotto i quali la regione visse un’epoca di «rinascimento culturale»: in questo periodo, Samarcanda perde importanza nei confronti di Bukhara, nuova capitale dell’emirato. Nondimeno, all’inizio dell’XI secolo, i Samanidi furono eliminati dai Qarakhanidi, che, nel 1089, si sottomisero ai Turchi Selgiuchidi, i quali, nel 1141, cedettero il passo ai Qara Kitai, provenienti dalla lontana Manciuria e che, a loro volta, tra il 1210 e il 1212, vennero sconfitti dai Khwarezmshah. Questi ultimi dovettero sostenere l’impatto devastante dei Mongoli di Gengis Khan (1218), che diedero il colpo di grazia alla già morente cultura sogdiana. Le città principali furono rase al suolo, e con loro tutto il sistema economico (agricoltura, commercio, manifattura), politico e sociale della regione.

Città «grandi e nobili» Tuttavia, si trattò in realtà di un nuovo inizio, poiché i Mongoli, anche grazie all’influsso delle popolazioni conquistate, seppero acculturarsi (anche attraverso la massiccia conversione all’Islam) e, dopo un periodo di assestamento, garantire, attraverso la Pax Mongolica, una nuova epoca di prosperità all’enorme distesa di territori da loro amministrati. Bukhara e Samarcanda tornarono a fiorire: non è un caso che Marco Polo le menzioni nel Milione, definendole città «grandi e nobili». Per Samarcanda, in particolare, fu questo un tempo sospeso, che potremmo definire di «incubazione»: si ponevano le basi della straordinaria vicenda politica, artistica e culturale che, circa 160 anni piú tardi, ebbe per protagonista un altro mitico sovrano mongolo: Tamerlano il Grande.

Samarcanda. L’Ak Saray (Palazzo di Tamerlano o Palazzo Bianco). XIV-XV sec. Resti dell’ivan di ingresso, con un minareto decorato a motivi geometrici policromi.

Timur bin Taraghay Barlas (timur significa «ferro» in turco-ciagatai), ovvero Timur-i lang, cioè «Timur lo zoppo», occidentalizzato in Tamerlano (1336-1405), fu il fondatore della dinastia timuride, che dominò l’Asia centrale e la Persia orientale tra il 1370 e il 1507 e i cui discendenti fondarono in India l’impero Moghul. Di origine turco-mongola, Timur era intriso di cultura persiana, ma aspirava a riedificare l’impero mongolo di Gengis Khan, dal quale affermava di discendere. Si considerava un «ghazi», ovvero un combattente per la Fede, ma intraprese le sue campagne militari piú importanti contro Stati musulmani. Personalmente non volle mai assumere altro titolo se non quello di Emiro («Amir»), e non si fregiò mai del titolo di «Khan». Tamerlano scelse come capitale Samarcanda, che abbellí con splendidi

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SAMARCANDA E BUKHARA

un nome enigmatico

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uò sembrare paradossale, ma il significato del nome di una delle città piú affascinanti dell’Oriente non è ancora ben chiaro. Secondo alcuni studiosi, esso deriverebbe dall’avestico «Zmar-kanta», «Nascosta nel sottosuolo»; secondo altri, dal sogdiano «Smara-kanta», «Città di pietra». Nell’XI secolo, al-Biruni, un celebre dotto musulmano pensava che il nome avesse origine dal turkic «Semizkand», cioè «Città grassa». Secondo la tradizione araba, che era solita costruire genealogie immaginarie, Samarcanda sarebbe stata cosí chiamata dal nome del suo leggendario fondatore, il re yemenita Samar ibn Afrikish (o, secondo altri, l’altrettanto mitico khan turkic Samar).

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monumenti, di cui affidò la costruzione ad architetti, artisti e decoratori fatti giungere nella città da tutto il mondo islamico. Molti autori descrivono la città nell’epoca timuride, ma nessuno lo fa con la vividezza di Ruy González de Clavijo. Costui, membro di una nobile famiglia di Madrid, era ciambellano del re di Castiglia e León quando fu scelto da Enrico III per guidare una missione diplomatica a Samarcanda presso la corte di Tamerlano. Partito da Cadice nel 1403 tornò in patria nel 1406 e fino alla sua morte, nel 1412, continuò a ricoprire alte cariche sotto Enrico III e il suo successore Giovanni II. Il resoconto della sua missione, scritto al ritorno in Spagna, è un documento storico di notevole importanza e, per il lettore moderno, una straordinaria avventura di viaggio. Lungo un percorso di oltre 20 000 km, tra andata e ritorno, per mare e per terra, vengono descritti con ricchezza di particolari ambienti, personaggi e fatti dei luoghi toccati nelle varie tappe. Nella tratta mediterranea il lettore viene inizialmente


portato da Cadice – dove Clavijo s’imbarca il 21 maggio 1403 – alla costa italiana, attraverso le Baleari, le Bocche di Bonifacio, Ponza. Dopo uno scalo a Gaeta, il percorso si dirige, passando per Ischia e Capri, verso le isole Eolie – con la descrizione dell’eruzione dello Stromboli – e Messina. Da qui prosegue per il Peloponneso, Rodi, Chio, Costantinopoli e, dopo una sosta di tre mesi nella capitale bizantina per svernare, Trebisonda sul Mar Nero. Da Trebisonda inizia la marcia via terra, lungo la Via della Seta. Clavijo costeggia il monte Ararat, attraversa l’Armenia e la Persia, toccando Soltaniye, Teheran, Nishapur, valica i deserti del Turkmenistan meridionale, e infine, l’8 settembre 1404, a un anno e mezzo dalla partenza, arriva a Samarcanda, da cui, dopo una sosta di due mesi e mezzo, inizia il viaggio di ritorno. In un mondo in conflitto e denso di pericoli, il lettore rimane sorpreso dall’intensità dei traffici commerciali, dalla natura e dalla qualità dei prodotti scambiati per migliaia di chilometri, dalla presenza dei mercantili

Una panoramica della piazza del Registan e della facciata della madrasa (scuola coranica) di Tilya Kori (XVII sec.); a sinistra e a destra si distinguono le estremità, rispettivamente, della madrasa di Ulug Beg (XV sec.) e della madrasa di Sher-Dor (XVII sec.).

genovesi e veneziani nei porti piú lontani del Mar Nero, dalle carovane di centinaia di cammelli sulla Via della Seta che collegavano l’Occidente alla Cina, scambiando non solo merci, ma anche idee, culture, lingue. In questo quadro spicca la figura del «grande signore Timur Beg», Tamerlano. Conquistatore spietato e crudele, creatore di un immenso impero nell’Asia centrale, ma nello stesso tempo grande mecenate, (segue a p. 113)

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SAMARCANDA E BUKHARA

Disegno ricostruttivo di Samarcanda al tempo di Ulug Beg, nipote di Tamerlano (XV sec.). Tra i principali monumenti: 1. la moschea di Bibi Khanum; 2. la via coperta popolata di botteghe; 3. la piazza del Registan; 4. il Gok Saray, palazzo imperiale di Tamerlano; 5. il mausoleo Gur-i Mir; 6. fuori le mura, la necropoli di Shah-i Zinde; 7. il cimitero di Djakardizah.

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Un sogno color turchese

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essuna città ha un nome evocativo come quello di Samarcanda: appena lo pronunci, l’Oriente t’assale. La città delle fortezze e dei sepolcri; il nodo carovaniero sulla Via della Seta, il maggior raccordo commerciale di terra fra Cina ed Europa; la sede del Gur-i Amir, centro del mondo dalla cupola turchese sotto la quale riposa il grande Tamerlano. Parla una lingua in cui coesistono e si contrappongono tre alfabeti – cirillico, latino, arabo – come specchio

della lotta tra chi ancora guarda al vecchio colonizzatore russo, chi sostiene l’islamizzazione e chi vorrebbe giocare sino in fondo la carta dell’Occidente. Alla storia e alle glorie di Samarcanda, lo storico Franco Cardini ha dedicato un libro affascinante: Samarcanda. Un sogno color turchese (Il Mulino, Bologna 2016). Una lettura da consigliare a chiunque voglia conoscere qualcosa di piú sulle vicende millenarie di uno dei luoghi piú affascinanti dell’Oriente.

promotore di studi storici e filosofici, ospite cortese e generoso, dotato, nonostante l’infermità e l’età avanzata, di un’instancabile curiosità intellettuale. De Clavijo si sofferma poi a descrivere la capitale di Tamerlano: «La città di Samarcanda è situata in una pianura ed è recintata da un muro di terra e da un fossato assai profondo. È poco piú grande della città di Siviglia, però fuori delle mura vi sono molte piú case raggruppate in sobborghi sparsi in ogni direzione. Infatti, tutto intorno, entro un raggio di una lega e mezzo o di due leghe, vi sono molti orti e vigneti tra i quali vi sono strade e piazze assai animate, perché ci vive molta gente. Vi si vende pane, carne e molte altre cose, di modo che la parte che si estende fuori delle mura è piú popolosa di quella che sta dentro. Tra questi orti vi sono dimore assai grandi e ricche e anche Timur Beg ha lí le sue belle residenze con i loro giardini. Tutti i grandi signori di Samarcanda hanno le loro case fra questi giardini e gli orti e le vigne che stanno

In alto, a sinistra un particolare dell’interno della madrasa di Ulug Beg. XV sec. Nella pagina accanto la moschea di Bibi Khanum, e, in alto, a destra, un particolare della sua copertura esterna, interamente rivestita in maiolica policroma. XIV-XV sec.

intorno alla città sono cosí numerosi che, quando vi si arriva, sembra di avanzare in una foresta di alberi d’alto fusto con la città stessa adagiata in mezzo. Sia questi orti sia la città sono attraversati da molti corsi d’acqua. Si vedono molte piantagioni di cotone e di meloni che qui sono buonissimi. Ci si meraviglia nel constatare che ancora per Natale vi siano tanti meloni e tanta uva».

Invito alla visita Samarcanda è ancora oggi ricca di monumenti che testimoniano il suo grandioso passato, sebbene il contesto urbanistico della città sia stato sconvolto in epoca sovietica. Gli archeologi russi ebbero però il merito di restaurare molti degli edifici timuridi che all’inizio del XX secolo versavano in condizioni di degrado. Tra i luoghi che costituiscono una tappa irrinunciabile, spicca la piazza del Registan (antico luogo delle esecuzioni e delle parate militari), dove oggi sorgono tre splendide scuole coraniche (madrase) del XV

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SAMARCANDA E BUKHARA

Marco Polo descrive Bukhara e Samarcanda

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el 1271 Marco Polo partí alla volta di Khanbalik, cioè Pechino, la «città del Khan» (che nel Milione è indicata come Cambaluc), nuova capitale di Kubilai, discendente di Gengis Khan. È difficile ricostruire il suo itinerario, poiché Marco menziona anche luoghi per i quali non passò e di cui sentí solo parlare. Probabilmente transitò per Tabriz, quindi per la regione a sud del Mar Caspio, e si diresse verso Balkh e quindi alla volta di Kashgar, di Yarkand, di Khotan, per poi giungere nel Gansu e finalmente in Cina. Come si partiro dal re Barca Quando ebbono passato in ponente overo il diserto, vennero a una città ch’à nnome Baccara, la piú grande e lla piú nobile del paese; e eravi per signore uno ch’avea nome Barac. Quando i due fratelli vennero a questa città, non poterono passare piú oltre e dimorònvi tre anni. Adivenne in que’ tempi che ’l signore del Levante mandò imbasciadori al Grande Cane, e quando vidono in questa città i due frategli, fecionsi grande meraviglia perché mai none aveano veduto niuno latino; e ffecionne gran festa e dissono loro, s’eglino voleano venire col loro al Grande Signore e Gran Cane, e egli gli porrebbe in grande istato, perché il Gran Cane none avea mai veduto nessuno latino. Li dui fratelli risposono: «Volentieri».

Di Samarcan Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini. E’ sono al Grande Cane, e sono verso maestro. E dirovi una meraviglia ch’avenne in questa terra. (...) Gigata, fratello del Grande Cane, si fece cristiano, e era signore di questa contrada. Quando li cristiani della cittade videro che llo signore era fatto cristiano, ebbero grande alegrezza; e allora fecero in quella cittade grande chiesa a l’onore di san Giovanni Battista (...) E’ tolsero una molto bella pietra ch’era di saracini e poserla in quella chiesa, e miserla sotto una colonna in mezzo la chiesa (...). Or venne che Giagatai fu morto, e gli saracini, vedendo morto ‘l segnore, abiendo ira di quella pietra, la volloro tòrre per forza (...) E mossorsi alquanti saracini, e andarono a li cristiani, e dissero che voleano questa pietra. Li cristiani la voleano comperare ciò che nne voleano; li saracini dissero che no voleano se non la pietra. E allotta li signoregiava lo Grande Cane, e comandò a li cristiani che ‘nfra .ij. die li rendessero la loro pietra. Li cristiani (...) funno molto tristi e non sapeano che ssi fare. La mattina che lla pietra si dovea cavare di sotto dalla colonna, la colonna si trovò alta di sopra a la pietra bene.iiij. palmi; e non toccava la pietra per lo volere di Nostro Signore. E questa fue tenuta grande meraviglia e è ancora; e tuttavia vi stette poscia la prieta.

e XVII secolo; la gigantesca moschea di Bibi Khanum, voluta da Tamerlano come moschea congregazionale della città con i proventi del saccheggio di Delhi; il Gur-i Mir, cioè lo splendido mausoleo fatto costruire originariamente dall’emiro per ospitarvi i resti del suo amatissimo nipote Muhammad Sultan, e poi trasformato in mausoleo dinastico timuride alla morte dello stesso Tamerlano, il cui corpo riposa nella cripta sottostante; le vestigia dell’osservatorio di Ulug Beg, il re astronomo, anch’egli nipote di Tamerlano, che aveva fatto costruire a Samarcanda uno degli osservatori astronomici piú all’avanguardia del mondo. Ma il luogo piú suggestivo della città è probabilmente la grande e antica necropoli dello Shah-i Zinde, che risale all’epoca della conquista araba e che i Timuridi abbellirono con una strabiliante

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serie di splendidi mausolei dedicati ai membri eminenti della famiglia reale: con il sole al tramonto, una visione indimenticabile.

Bellezza dello spirito Un antico detto islamico recita che «se Samarcanda è la bellezza della terra, Bukhara è la bellezza dello spirito». In effetti, ancora oggi la città emana un fascino tanto discreto quanto intenso, a cui nessun visitatore può sottrarsi. Il nome di Bukhara deriva probabilmente dal termine battriano vikhara o bohoro, che definiva i monasteri buddhisti, o forse dal sogdiano fwq’r, «glorioso», «celebre». Come nella Samarcanda del periodo piú antico, gli abitanti di Bukhara erano originariamente soprattutto commercianti e artigiani, specializzati nella produzione di vesti e tessuti esportati in Mesopotamia, in India e altrove.

In alto miniatura raffigurante il battesimo di Ciagatai Khan nella chiesa di S. Giovanni a Samarcanda, da un’edizione del Milione di Marco Polo. 1412 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto Samarcanda. L’osservatorio astronomico fatto costruire dal re Ulug Beg, nipote di Tamerlano. XV sec.

La città fu presa dagli Achemenidi nel VI secolo a.C.; da Alessandro Magno nel 329 a.C.; dagli Unni Eftaliti e dai Kushana. In epoca sogdiana, accanto a essa sorgevano altri importanti centri carovanieri: Varakhsha, Paikent e Romitan. Dopo la caduta di Merv (641) e Paikent (672), Bukhara cercò di tenere lontana la minaccia islamica attraverso il pagamento di un tributo annuale. Per un certo periodo, questa politica ebbe successo, ma alla fine la città cadde nelle mani nei musulmani (709). A partire dal IX secolo, la regione fu governata da una dinastia locale di origine iranica: quella dei Samanidi. Sotto di essi, Bukhara divenne un grande centro culturale: la corte samanide diede infatti ospitalità ad alcuni tra i piú grandi intellettuali dell’epoca, come i filosofi Ibn Sina’ (noto in Occidente come Avicenna) e al-Biruni, lo storico Narshaki e il poeta Rudaki. La città

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SAMARCANDA E BUKHARA

conobbe un eccezionale sviluppo urbanistico e la sua popolazione giunse a toccare le 300 000 unità. Simbolo della Bukhara samanide è il bellissimo mausoleo di Ismail Samani, il fondatore della dinastia, un cubo di mattoni coronato da una cupola che costituisce una sintesi perfetta di tutte le correnti architettoniche e stilistiche dell’Asia centrale.

Gli ultimi bagliori Nel 999 i Samanidi furono rovesciati dai Karahanidi, una popolazione di origine turca, che, a sua volta, nel 1141, lasciò il posto ai Karakhitay, una dinastia protomongola che in Cina aveva dato vita all’impero Liao. In questo periodo furono costruiti alcuni dei monumenti piú importanti della città, tra cui lo splendido minareto Kalon, alto 48 m. Nel 1206 Bukhara venne conquistata dagli Shah della Corasmia, una regione a ovest del fiume Oxus, ma solo 14 anni dopo, alle porte della città giunsero i

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Bukhara. Una veduta panoramica della città, con, al centro, il complesso del Poi Kalon, che comprende la moschea Kalyan e la madrasa Mir-i Arab.

Mongoli di Gengis Khan, che in breve tempo la conquistarono, la saccheggiarono e la distrussero. Ci volle piú di un secolo perché essa si riprendesse dal trauma: ancora nel 1366 il grande viaggiatore arabo Ibn Battuta scrive che «tutto, a Bukhara, è in rovina, a parte qualche moschea, qualche scuola coranica e qualche mercato». Sotto i Timuridi, vi fu una notevole ripresa, ma la città non raggiunse nemmeno lontanamente i fasti di Samarcanda. Solo dopo la caduta di quest’ultima dinastia, Bukhara conobbe la sua seconda età dell’oro: a partire dal 1500, infatti, essa divenne la capitale di un grande regno governato dai khan shaybanidi di etnia uzbeka (un’etnia presente nell’area già da molti secoli), che vi intrapresero grandiosi progetti edilizi, con la costruzione di ben 150 madrase e di piú di 200 moschee, affidando i lavori ai grandi maestri decoratori di Herat, fatti prigionieri dagli shaybanidi dopo la conquista della città.


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Sikkim (India). Una strada tortuosa che risale un rilievo ricalcando il tracciato dell’antica Via della Seta.


GLI OCCIDENTALI IN ASIA

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l percorso della Via della Seta rimase in voga per molti secoli, ma, a partire dal Cinquecento, quando nei grandi commerci intercontinentali le carovane vennero sostituite dalle caravelle, iniziò un lento declino, che culminò alla fine del XIX secolo, quando la maggior parte dei centri commerciali un tempo fiorenti fu completamente abbandonata. È proprio allora che comincia la storia della riscoperta (e del saccheggio) di questa regione straordinaria, portati ambedue a termine con la medesima sagacia e determinazione da alcuni dei piú grandi studiosi europei. Una storia che merita di essere raccontata.

L’età dell’oro della Cina L’arte e la civiltà della Via della Seta raggiunsero il loro apogeo durante la dinastia Tang (618-907 d.C.), i cui tre secoli di governo sono considerati come l’età dell’oro cinese. L’epoca Tang fu infatti caratterizzata da lunghi periodi di pace e prosperità, che condussero a un notevole incremento demografico e a un eccezionale sviluppo culturale. La capitale Ch’ang-an si era trasformata in una vera e propria metropoli, circondata da un imponente circuito murario. Vi risiedevano piú di cinquemila stranieri, e i loro culti (mazdeismo, manicheismo, cristianesimo, giudaismo, buddhismo, induismo) erano tutti leciti e ben accetti. Un’ininterrotta processione di viaggiatori varcava giorno e notte le porte della città, comprendendo Persiani, Turchi, Arabi, Sogdiani, Mongoli, Armeni, Indiani, Malesi, Coreani e Giapponesi. Molto spesso si trattava di mercanti, ma vi erano anche pellegrini, cortigiani, musici e diplomatici. Il rapporto tra i Tang e il commercio sulla Via della Seta era di fatto strettissimo, tanto che, quando tali traffici cominciarono a declinare, lo stesso accadde alla dinastia. La decadenza di una delle piú importanti vie commerciali della storia fu un processo lungo ma inesorabile, che ebbe esiti estremi, conducendo alla definitiva scomparsa di molte ricche città, con tutti i loro monasteri, i templi e le opere d’arte che furono riportati alla luce solo alla fine dell’Ottocento.

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La vita nelle città-oasi

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olto tempo prima di Marco Polo, alcuni viaggiatori e pellegrini che percorsero la Via della Seta hanno lasciato vivide descrizioni della vita quotidiana nelle ricche e fiorenti città-oasi che ne costituivano per cosí dire l’ossatura. Per esempio, il diario di viaggio di un pellegrino cinese, Fa-Shien, contiene interessanti notazioni sul regno di Khotan: «Questo è un paese prospero e felice. Il suo popolo è benestante e trova il suo svago nella musica religiosa (…). Nel regno vi sono quattordici monasteri, senza contare i piú piccoli. Alla porta di ogni casa si innalza una pagoda, la piú piccola delle quali è alta sei metri (…). Gli abitanti hanno in casa stanze per i sacerdoti in viaggio e le mettono a disposizione con tutto il necessario».


Alla sua base vi furono soprattutto il graduale prosciugamento delle oasi, l’espansione islamica e la radicale riorganizzazione delle vie commerciali dopo la scoperta dell’America. In questa situazione, solo le oasi piú ricche e meglio irrigate sopravvissero; le altre, con i loro segreti ormai dimenticati, finirono sepolte sotto le sabbie del Taklamakan, dove sarebbero rimaste celate per molti secoli.

A caccia di tesori con Sir Aurel Stein Tra i primi studiosi e avventurieri occidentali a compiere scorrerie sulla Via della Seta alla ricerca dei suoi tesori vi fu Marc Aurel Stein. Le sue spedizioni, che sarebbero durate sedici anni, ebbero come risultato

l’asportazione di un numero enorme di opere d’arte e di manoscritti dell’Asia centrale. Non a caso, i Cinesi lo considerano tuttora il peggiore dei «diavoli stranieri» che li depredarono delle venerande vestigia della loro storia. Nato a Budapest nel 1862 da genitori ebrei (dai quali, per facilitargli la carriera, fu battezzato), Stein studiò lingue orientali a Vienna, Lipsia e Tubinga e, dopo aver ottenuto il dottorato a soli ventun anni, si recò in Inghilterra, destinata a divenire la sua patria adottiva. Trascorse tre anni a Oxford e al British Museum, studiando archeologia e lingue orientali (ma non il cinese). A ventisei anni si trasferí in India, dove entrò nel servizio scolastico e divenne amico del padre di Rudyard Kipling, che lo iniziò ai Turpan (Xinjiang, Cina). Una veduta dei resti dell’antica oasi-villaggio di Tuyuk: situata ai confini del deserto del Taklamakan, in una valle che attraversa le Montagne Fiammeggianti, fu un’importante tappa per le carovane in transito sulla Via della Seta.

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GLI OCCIDENTALI IN ASIA

A sinistra tavoletta con testo in pracrito scritto in caratteri kharosthi, da Niya (Xinjiang, Cina). III sec. d.C. Nuova Delhi, Museo Nazionale dell’India.

«misteri»del buddhismo dell’Asia centrale. La sua prima spedizione nella regione del Taklamakan ebbe inizio nel maggio del 1900 e durò quasi un anno, durante il quale Stein ebbe modo di visitare molti siti importanti, scoprire varie città-oasi abbandonate, tra cui l’antica Niya, dove rinvenne, tra l’altro, ottantacinque tavolette iscritte in pracrito (un’antica lingua indiana), ma con caratteri kharoshti (un alfabeto usato nell’India nord-occidentale alcuni secoli prima e dopo l’inizio dell’era cristiana) e alcune tavolette lignee chiuse da sigilli di terracotta che ritraevano divinità greche ed eroi (Atena, Eros, Eracle). Si trattava in gran parte di rapporti di polizia e di funzionari locali, liste di lavoratori, libri contabili, che offrono uno straordinario spaccato della vita quotidiana nelle città-oasi del Taklamakan in epoca medievale. Le scoperte della prima spedizione di Stein suscitarono grande interesse in tutta Europa: esse infatti davano conto di una civiltà buddhista fino ad allora sconosciuta e

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A destra fotografia d’epoca di Sir Marc Aurel Stein (sulla destra, con il casco coloniale) che ritrae la missione archeologica sul sito di Niya. 1906. Londra, British Library.


straordinariamente ricca di arte e letteratura. Fino a quel momento, peraltro, gli archeologi si erano dedicati quasi esclusivamente ai siti faraonici dell’antico Egitto e ai siti biblici: l’archeologia dell’Asia centrale era un’assoluta novità. Nel 1901, quando ad Amburgo si tenne il tredicesimo congresso internazionale degli orientalisti, Stein ricevette un messaggio di felicitazioni per le sue eccezionali scoperte. Ma i suoi successi ebbero anche un effetto collaterale certamente non gradito dallo stesso Stein: la proliferazione di missioni archeologiche europee nate con il fine di seguirne le orme. Dalla Germania alla Francia, tutti volevano la loro porzione di Via della Seta: la sfida era cominciata.

Von Le Coq e la scoperta di Karakhoja In Asia centrale, le spedizioni tedesche piú importanti furono guidate da Albert von Le Coq. Nato a Berlino nel 1860, von Le Coq era figlio di un ricco mercante di vini ugonotto. A ventun anni il padre lo mandò a Londra e poi negli Stati Uniti, dove studiò anche medicina,

Frammento di tessuto rinvenuto a Niya, in cui è leggibile la compresenza di influenze occidentali e cinesi. II-III sec. d.C.

per avviarlo al lavoro nell’impresa di famiglia. A ventisette anni, tornò in Germania ed entrò nell’azienda, ma, dopo tredici anni di lavoro, vendette tutto e cominciò a studiare lingue orientali a Berlino. A quarantadue anni, entrò come volontario nella sezione indiana del Museo Etnologico berlinese, proprio mentre veniva organizzata una prima missione sulla Via della Seta. Nel 1904, von Le Coq fu selezionato come direttore di una nuova spedizione, che comprendeva solo lui stesso e il tuttofare del museo, Theodor Bartus. Il 18 novembre 1904, dopo un viaggio avventuroso e ricco di imprevisti, i due esploratori raggiunsero Karakhoja, una città-oasi completamente in rovina nella regione di Turfan. Gran parte dell’insediamento, costruito in argilla cruda, era stato livellato e arato dagli agricoltori locali: tuttavia, nel cuore della città, von le Coq e Bartus trovarono un affresco alto circa 2 m, in cui era rappresentata una figura maschile con aureola attorniata da discepoli. Von le Coq comprese subito che doveva trattarsi di Mani: quello era dunque il primo ritratto del fondatore del manicheismo mai venuto alla luce. Le scoperte che seguirono confermarono che Karakhoja, il cui nome antico era Khocho, aveva ospitato tra l’VIII e il IX secolo un’importante comunità manichea. Von le Coq rinvenne splendidi manoscritti miniati su seta, pergamena e carta, pitture

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GLI OCCIDENTALI IN ASIA

murali, dipinti su stoffe e altri tessuti che fornirono informazioni fondamentali sul manicheismo, fino ad allora conosciuto solo attraverso gli scritti polemici degli eresiografi cristiani e musulmani. Un’altra scoperta eccezionale fu quella di una piccola chiesa nestoriana che conteneva i resti di dipinti in stile bizantino raffiguranti una processione (forse la cerimonia della Domenica delle Palme, oggi a Berlino, nel Museum für Islamische Kunst; vedi foto a p. 79).

In basso l’archeologo ed esploratore tedesco Albert Von Le Coq. Nella pagina accanto a destra frammento di pittura murale, da Gaochang (Xinjiang, Cina). VIII-IX sec. Berlino, Museum für Asiatische Kunst.

le grotte di Bezeklik, von Le Coq e Bartus si resero conto che la maggior parte delle grotte contenevano grandi cicli pittorici buddhisti, recanti iscrizioni in brahmi, uighuro e cinese che identificavano i ritratti dei loro committenti. I due tedeschi non avevano dubbi: quelle pitture avrebbero fatto la loro fortuna. Dunque, dovevano essere assolutamente staccate e portate a Berlino. Cominciò allora un’opera di saccheggio sistematico che ancora oggi lascia stupefatti i visitatori che riescono a raggiungere

Piccolo manuale del razziatore Ma il nome di von Le Coq è soprattutto celebre per la scoperta (e il furto!) di alcuni dei dipinti buddhisti piú interessanti dell’Asia centrale. La razzia iniziò a Bezeklik, un vasto insediamento monastico scavato nella roccia, ben nascosto e di difficile accesso. Esplorando

Le fatiche dell’archeologo

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n un passo del suo libro fondamentale sulle missioni europee in Asia centrale all’inizio del XX secolo, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, irrinunciabile per chiunque voglia saperne di piú su questo straordinario capitolo dell’archeologia mondiale, Peter Hopkirk descrive con vivacità la vita difficile di von Le Coq e Bartus durante gli scavi di Karakhoja: «Incominciavano a lavorare all’alba, qualche volta alle quattro di mattina o anche prima, e partecipavano agli scavi, esposti al caldo o al freddo estremi, fino alle sette del pomeriggio, l’ora in cui gli operai ricevevano la paga giornaliera e i due tedeschi si mettevano a registrare e imballare i ritrovamenti della giornata. Una delle maledizioni degli scavi di Karakhoja era la polvere che si levava in nuvole soffocanti. “La sera” – si lamenta von Le Coq – “ci capitava d tossire espellendo dai bronchi blocchi compatti di Löss”. Benché la polvere attenuasse un po’ il calore crudele del sole del Turkestan, essa però rendeva difficile la fotografia e tutte le loro prime immagini risultarono sottoesposte. I pasti erano estremamente monotoni: “Riso con grasso di montone, o grasso di montone con riso”, annota von Le Coq. Per di piú, d’estate, il grasso di montone era invariabilmente rancido. Questa dieta poco appetitosa

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era però completata, in tutte le stagioni, da uva e meloni freschi, da frutta secca e dall’eccellente pane sfornato dalla loro padrona di casa. In occasioni molto speciali i tedeschi si permettevano di stappare una delle preziose bottiglie di Veuve Clicquot Ponsardin, dopo averla rinfrescata alla maniera turkestana, avvolgendola in un feltro bagnato. Alla loro partenza dalla Germania, infatti, una cassa di champagne era stata il premuroso regalo d’addio delle sorelle di von Le Coq».


i siti in questione. Intorno a ogni dipinto veniva praticato un taglio, in modo tale da penetrare attraverso lo strato preparatorio (composto da fango, sterco di cammello, paglia e gesso) sul quale era stato disteso il colore; accanto al taglio, si scavava un buco con il piccone o con martello e scalpello, in modo da potervi introdurre una piccola sega; poi il dipinto veniva tagliato e rimosso con delicatezza dalla parete. Quando l’opera non era in buone condizioni, gli operai tenevano premuta una tavola ricoperta di feltro contro il dipinto da asportare e facevano in modo di rimuoverlo scostando il bordo superiore e poi facendolo scivolare verso il basso, fino a farlo giacere orizzontalmente sulla tavola. A questo punto si applicavano strati protettivi di canne e ovatta, sui quali si depositava un altro dipinto, creando cosí una sorta di sandwich. Infine, il tutto veniva legato con corde e inserito all’interno di una cassa foderata di paglia e lino al fine di impedire movimenti durante il trasporto. Dopo venti mesi di viaggio, i dipinti cosí imballati arrivavano sani e salvi a Berlino. Tuttavia, il «metodo von Le Coq» e, soprattutto, la sua disinvoltura nel saccheggio non erano apprezzati da tutti: in particolare, alcuni archeologi tedeschi condannavano gli esami superficiali dei siti condotti da von Le Coq e consideravano molto negativamente l’appropriazione dei dipinti e delle opere piú rilevanti, ritenendola un vero e proprio ladrocinio, privo di ogni giustificazione.

il Museum für Asiatische Kunst

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rutto dell’unione del Museo d’arte indiana e del Museo d’arte dell’Estremo Oriente, il Museo d’arte asiatica (Museum für Asiatische Kunst) di Berlino ospita una delle piú importanti collezioni di arte proveniente dall’area culturale indo-asiatica. Le opere sono suddivise in due aree geografiche. La prima è la collezione dell’Asia centrale, del Sud e del Sud-Est e spazia dal IV millennio a.C. a oggi. Qui si trova l’importante «collezione di Turfan», che raccoglie oggetti provenienti dalla Via della Seta, frutto delle missioni di von Le Coq in Turkestan. Spicca la ricostruzione a grandezza naturale di un tempio buddhista con decorazioni murali originali. La storia del museo comincia nel 1906, quando il Direttore generale dei Musei reali di Berlino raccomandò che venisse istituita la prima Collezione d’arte dell’Estremo Oriente. Oggi la collezione vanta opere provenienti da Cina, Corea e Giappone. Il salone centrale è dedicato all’arte buddhista nei tre Paesi. Ci sono poi importanti collezioni di ceramiche cinesi dal Neolitico al Quattrocento, una sala da tè realizzata da falegnami giapponesi e una selezione di giade e bronzi antichi. Uno spazio è poi dedicato alle nuove tendenze artistiche nell’area, compresa un’installazione video dell’artista coreano Nam June Paik. Ulteriori approfondimenti sono forniti da filmati e presentazioni interattive. Per entrambe le sezioni del museo sono disponibili audioguide in diverse lingue. Info: www.smb.museum (anche in lingua inglese).

«I dipinti piú belli del Turkestan» La scoperta di gran lunga piú celebre delle missioni tedesche in Asia centrale fu senza dubbio quella delle pitture murali delle grotte di Kyzil, un altro importante sito buddhista del Turkestan cinese. Scrisse von Le Coq: «I dipinti erano i piú belli di tutto il Turkestan, e ritraevano scene della leggenda di Buddha in uno stile ellenistico quasi puro (…). Trovammo ovunque templi non profanati e come nuovi, pieni delle piú interessanti e artisticamente perfette pitture, tutte

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GLI OCCIDENTALI IN ASIA

molto antiche». In effetti, i dipinti erano anteriori al 685 d.C., anno nel quale la regione si sottomise alla Cina, e dunque in essi non si manifestava ancora quella forte influenza cinese che caratterizza le pitture di epoca successiva. Divenuto direttore del Museo Etnologico di Berlino, fu lo stesso von Le Coq a stabilirvi la disposizione dei reperti provenienti dal Turkestan. Quando ebbe inizio la seconda guerra mondiale, tutti gli oggetti rimuovibili esposti nei musei berlinesi furono depositati in luoghi sicuri, ma i dipinti piú grandi, provenienti da Bezeklik, non si poterono rimuovere. Tra il 23 novembre 1943 e il 15 gennaio 1945, il Museo fu colpito almeno sette volte dalle bombe anglo-americane, e ventotto affreschi furono totalmente distrutti. Gli affreschi piú piccoli e i manoscritti, invece, si salvarono. Una parte di essi finí nelle mani dei Russi come preda di guerra, ma la gran parte della collezione si può ammirare in uno dei musei berlinesi piú belli e meno noti: il Museum für Asiatische Kunst (vedi box a p. 125).

Le meraviglie di Dunhuang Il centro carovaniero di Dunhuang, situato nel cuore del deserto dei Gobi, all’incrocio dei rami settentrionale e meridionale della Via della Seta, racchiude uno dei piú splendidi tesori artistici della Cina: le «Grotte dei Mille Buddha», una vera e propria galleria d’arte buddhista in mezzo al deserto, databile tra il IV e il XIII secolo d.C.: pitture, ma anche sculture straordinarie, alcune delle quali di dimensioni gigantesche. Questo grandioso complesso monastico ebbe origine grazie alle donazioni di mercanti e pellegrini che all’entrata (o all’uscita) del deserto del Taklamakan si fermavano a pregare o a ringraziare il Buddha. Il primo «diavolo straniero» a raggiungere Dunhuang fu Aurel Stein. Qui egli venne a sapere che un prete taoista aveva scoperto una grande biblioteca di libri e manoscritti antichi, custoditi per secoli in una camera segreta di una delle «Grotte dei Mille Buddha». Stein riuscí a sapere il nome del monaco, un certo Wang Yuan-lu, e, dopo non poche

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difficoltà, poté contattarlo e chiedergli il permesso di vedere i manoscritti. Unendo offerte economiche a professioni di devozione nei confronti dei sacri testi buddhisti, l’archeologo riuscí infine a ingraziarsi il religioso e a convincerlo a mostrargli la biblioteca segreta. Vale la pena di lasciare la parola a Peter Hopkirk, che ha magistralmente descritto la scena del «disvelamento» nel suo libro dedicato alle spedizioni europee nel Turkestan: «Prima che tramontasse il sole Stein stava sbirciando nella stanza segreta alla luce della primitiva lampada a olio di Wang.

Alla luce fioca di una lampada... La scena ne ricorda un’altra, di una quindicina di anni successiva: quando Howard Carter, alla luce tremolante di una candela, posò il suo primo sguardo all’interno della tomba di Tutankhamon. Per un archeologo, ciò che vide Stein non era meno sbalorditivo: “La vista che offriva la piccola stanza era tale da farmi spalancare gli occhi” – racconta. “Alla luce fioca della lampada del monaco, mi apparve una massa compatta di fasci di manoscritti, ammucchiati a strati ma senza alcun ordine; essa raggiungeva l’altezza di quasi tre metri e occupava, come dimostrarono poi le misurazioni, uno spazio di quasi cinque metri cubi”. Si trattava, con le parole di Sir Leonard Woolley, scopritore di Ur, di uno “scoop archeologico senza pari”. Il Times Literary Supplement proclamò: “Pochi archeologi hanno fatto scoperte piú mirabili di questa”». La biblioteca, che era stata murata intorno all’anno 1000 per proteggerla dalle invasioni di popolazioni guerriere, non conteneva solo manoscritti cinesi, sanscriti, sogdiani, uighuri, tibetani, turchi e runici, ma anche una ricca collezione di pitture buddhiste e stendardi su seta. Il pezzo piú importante conservato nella stanza segreta è la versione cinese di un celebre discorso attribuito al Buddha e noto come Sutra del Diamante. La sua fama non riguarda l’opera in sé, di cui esistono innumerevoli copie, ma il fatto che quello di Dunhuang è il piú antico testo a stampa del


Ricostruire la biblioteca: l’International Dunhuang Project

L’

International Dunhuang Project (IDP: http://idp.bl. uk/) è un progetto internazionale il cui scopo è quello di rendere gratuitamente accessibili su Internet le informazioni e le immagini di tutti i manoscritti, i dipinti, i tessuti e gli oggetti d’arte provenienti da Dunhuang e dai siti archeologici della Via della Seta, ricostruendo virtualmente quel contesto che le spedizioni dei «diavoli stranieri» hanno irrimediabilmente alterato e distrutto, pur salvando i singoli oggetti.

In alto Dunhuang (Gansu, Cina), grotte di Mogao. Statua di Buddha dormiente (particolare). Periodo Tang, 618-907.

Ogni giorno, il progetto si arricchisce di nuovi dati, e tutte le informazioni e le immagini sono accessibili liberamente. L’IDP, che utilizza le piú sofisticate tecniche di digitalizzazione e informatizzazione, ha aperto sezioni locali a Londra, Pechino, Dunhuang, San Pietroburgo, Kyoto e Berlino. Le risorse offerte dal progetto sono state alla base della grande mostra «The Silk Road: Trade, Travel, War and Faith», organizzata alla British Library nel 2004, che ha fatto registrare oltre 150 000 presenze.

mondo. La copia è composta da sette strisce di carta unite tra loro e presenta un frontespizio riccamente illustrato. Oggi conservata nel British Museum, la copia riporta il nome del committente, Wang Jie (altrimenti ignoto), e la data della stampa: il quindicesimo giorno del Quarto mese del

Nono anno del periodo Xiantong del sovrano Tang Yizong, corrispondente all’11 maggio 868 d.C., circa 587 anni prima della data della stampa della Bibbia di Gutenberg. Aiutato da Wang, Stein cominciò a rimuovere l’enorme mole di materiale dalla biblioteca nascosta e in sedici mesi raccolse ventiquattro

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LA RISCOPERTA

La missione di Sir Aurel Stein nel Taklamakan, in una illustrazione del Journal des Voyages dell’aprile 1910.

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casse di manoscritti e cinque di pitture e ricami, che furono spedite al British Museum. Stein non fu il solo a essere assistito dalla collaborazione interessata di Wang: egli infatti permise di asportare un gran numero di manoscritti e dipinti anche al linguista ed esploratore francese Paul Pelliot, che giunse a Dunhuang nel 1906 e, dopo un’intensa attività di studio in loco, scelse le opere piú significative da spedire a Parigi, dove sono oggi conservate nel Musée national des arts asiatiques-Guimet. Quando finalmente vennero informate dei fatti, le autorità cinesi posero fine alla razzia, mettendo sotto tutela tutto ciò che era rimasto nella grotta. Ma i pezzi migliori avevano ormai preso il volo. Se, dal punto di vista etico, le spedizioni sulla Via della Seta dei «diavoli stranieri» devono essere considerate come veri e propri saccheggi, è pur vero che esse dettero un contributo decisivo alla conoscenza occidentale della storia e della cultura dell’Asia centrale.

In alto rilievo in scisto grigio con l’immagine di un bodhisattva assiso in trono, dal Gandhara, regione dell’attuale Pakistan situata grosso modo nella piana di Peshawar. II o III sec. d.C. Parigi, Musée national des Arts Asiatiques Guimet.

Un giudizio complessivo su queste campagne, a metà strada tra la razzia coloniale e l’impresa scientifica, resta dunque molto difficile. D’altra parte, anche le attuali rivendicazioni dei Cinesi sembrano abbastanza pretestuose, dato che, nell’area in oggetto, anche la Cina ha sempre giocato il ruolo di potenza coloniale, né piú né meno della Francia, della Germania e dell’Inghilterra. Forse, piú che giudicare, bisogna cercare di capire. Come scrisse una volta Benedetto Croce, con le lamentazioni e i giudizi moraleggianti «si fa poesia, e non già storia. Quei fatti sono avvenuti e nessuno può cangiarli; come nessuno può dire che cosa sarebbe avvenuto se non fossero avvenuti».

da leggere

• Luce Boulnois, La Route de la soie, Parigi, Arthaud, 1963 • Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, Adelphi, Milano 2006

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speciale n. 1/2019 Registrazione al Tribunale di Milano in corso Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Filippo Donvito è studioso di diritto comparato ed esperto di storia militare antica e medievale. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 40-45, 48, 50/51, 52/53, 58/59, 68-72, 74, 84/85, 90/91, 96/97, 108/109, 116, 118/119, 120/121 – Doc. red.: pp. 6-7, 8-9, 10-14, 16-23, 26, 28-29, 32-33, 37, 47 (basso), 51, 54, 56, 60/61, 62/63, 63, 64, 89, 92-93, 98, 100-106, 112-114, 128-129 – Getty Images: Eric Beracassat: pp. 24/25; Fine Art: p. 27 – Bridgeman Images: pp. 34-35, 36, 36/37, 38 (basso), 46, 59, 66, 122-124 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 38 (alto), 39, 47 (alto), 75, 76/77, 86-88, 94/95, 115; Archivio Luca Mozzati/Lica Mozzati: p. 107 – DeA Picture Library: pp. 79, 82/83, 125; J.E. Bulloz: p. 78; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 81: A. Tessore: p. 127 – Giorgio Albertini: tavola alle pp. 110/111 – Cippigraphix: cartine alle pp. 8/9, 30/31, 54/55, 62, 73, 99. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: una carovana lungo un percorso che ricalca il tracciato dell’antica Via della Seta.

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