Paolo Tomio
IL PESO DEL
MERCATO ARTE ARTISTI OPERE D’ARTE PREZZI FIDAart
Volume primo
Annate 11.2012 - 3.2016
Copyright icsART Tutti i diritti sono riservati - Curatore e responsabile Paolo Tomio L’Editore rimane a disposizione degli eventuali detentori dei diritti delle immagini (o eventuali scambi tra fotografi) che non è riuscito a definire, nè a rintracciare
Paolo Tomio
IL PESO DEL
MERCATO ARTE ARTISTI OPERE D’ARTE PREZZI FIDAart
Volume primo
Annate 11.2012 - 3.2016
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IL PESO DEL MERCATO - FIDAart Volume Primo
In questo Primo Volume, sono riportati tutti gli articoli riguardanti il rapporto tra gli artisti contemporanei e il mercato dell’arte, pubblicati sulla rivista digitale FIDAart a partire dal luglio 2012 fino al marzo 2016, quando la rivista ha cambiato nome diventando icsART. Gli articoli pubblicati su icsART faranno parte del Volume Secondo. Il tema centrale di questa rassegna di articoli è la descrizione e il tentativo di comprendere il fenomeno delle vendite a livello internazionale, in particolare riferito alle grandi case d’asta, e la logica che intercorre tra le caratteristiche dell’opera e le oscillazioni del suo prezzo sul libero mercato. E’ indubbio che nel corso degli ultimi decenni il mercato dell’arte abbia compiuto un salto di qualità che ne ha modificato radicalmente la struttura economico-commerciale ma, soprattutto, ed è quello che si intendeva approfondire, l’essenza stessa del fare arte. Quando il dipinto di un artista vivente, magari di qualità tecnica modesta, è battuto a prezzi molto superiori a quelli di importanti pittori scomparsi appartenenti alle grandi correnti storiche, dovrebbe essere evidente che le logiche che regolano il cosiddetto “mercato”, hanno poco a che fare con il valore artistico e seguono percorsi più legati a meccanismi speculativi finalizzati al profitto che alla qualità culturale reale. L’artista è sempre stato storicamente oltre che un “creatore” anche un “venditore”, nel senso che, per poter vivere, tutti, chi più chi meno, hanno venduto le proprie opere ai prezzi che amatori, collezionisti o semplici affaristi hanno loro offerto. I meccanismi del mercato hanno sempre funzionato fin dai tempi più antichi e il prezzo delle opere dell’artista cresceva di pari passo con l’aumentare della fama dell’autore (e viceversa). Artista, qualità, opera e prezzo erano indissolubilmente legati tra di loro in un rapporto socialmente riconosciuto. La realtà era connotata da pochi artisti selezionati in base alle loro capacità oggettive, da poche opere di qualità condizionate dal tempo necessario alla loro esecuzione e da prezzi strettamente legati alla richiesta di una minoranza che poteva permettersele. Con l’avvento della borghesia ricca, il bacino è andato ampliandosi e la quantità delle opere da immettere sul mercato dell’arte è andata progressivamente crescendo. Le nuove tecniche, i materiali e i linguaggi moderni, meno vincolati alle forme della tradizione, hanno dato un impulso straordinario allo sviluppo di tutti i tipi di arte rendendola un’attività culturale importante e una realtà commerciale sempre più diffusa. Con la nascita delle gallerie d’arte, dei mercanti d’arte e delle case d’aste, l’arte moderna veniva coinvolgendo sempre più figure professionali interessate al suo sviluppo e, soprattutto, alla sua valorizzazione. Con la rivoluzione dell’arte moderna, prima invisa e poi guardata con sospetto da amatori e collezionisti, assumeva sempre maggiore importanza il ruolo del critico, l’”esperto” il quale, certificava la qualità dell’artista e, di conseguenza, il valore economico delle sue opere. L’artista, all’interno di questi meccanismi era normalmente poco interessato a capirli e seguirli ma, essendo tali da permettergli di trarre un guadagno e una sicurezza economica continuativa o crescente, li accettava perché gli davano modo di lavorare con tranquillità godendo di un ruolo e un riconoscimento culturale e sociale. Di contro, man mano che cresceva il peso delle componenti organizzative e commerciali del mercato dell’arte, l’artista diventava solo uno degli elementi della 5
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struttura e, non sempre il più importante. I nuovi linguaggi dell’arte moderna e contemporanea hanno permesso di superare il concetto storico di “qualità artistica” fondato sulle prerogative peculiari, uniche e non sostituibili dell’artista, a favore di una più ampia inventiva comunicativa legata alla novità dell’opera, al suo essere un “brand” (un marchio) riconoscibile e ricercato. Non dovendo più dimostrare capacità tecniche, estetiche e formali particolari, anzi, spesso rifiutando e contestando queste categorie “accademiche”, gli artisti moderni hanno inseguito tutte le strada della provocazione nei confronti della società che, alla fine, si è rivoltata contro di loro dando luogo a un fenomeno degenerativo alla portata di chiunque. Se l’orinatoio “Fontana” di Duchamp è stato definito l’opera d’arte più importante del ‘900, dopo di allora ogni giovane dotato di un minimo di fantasia si è sentito autorizzato a proporre qualsiasi idea cervellotica, convintissimo di essere un vero artista. Se tutto è arte, allora tutti sono artisti e, quindi, la selezione nelle arti visive non è più di competenza del mondo della cultura storica e disciplinare ma può essere normalmente gestita dal mondo del denaro, vale a dire dal Mercato, il quale dispone indubbiamente di parametri più scientifici perché quantitativi: l’opera più pagata è l’opera con il maggior valore artistico. Concetto semplice e accessibile a tutti. Un po’ come a una gara di macchine o una partita di basket: chi arriva primo, vince. E chi vince è - per definizione - il Migliore. Ma quale è, o dovrebbe essere, il valore di un’opera d’arte ritenuta di qualità dal mercato? Non si sa, e non è facile capirlo perché è il mercato stesso che stabilisce i prezzi in base all’unico sistema oggi accettato, quello della domanda e dell’offerta. La “qualità” è solo uno dei tanti parametri - e nemmeno il più importante - che entrano in gioco nella compravendita di quegli oggetti a contenuto estetico (o antiestetico) che sono definiti opere d’arte. Allora cos’è questo mercato che - oggettivamente - riesce a individuare tra milioni e milioni di opere d’arte offerte, quelle che sono giudicate unanimemente le migliori? In realtà, il cosiddetto libero mercato non esiste perché la merce - l’opera d’arte è una merce, esattamente come qualsiasi altra prodotto messo in vendita - è soggetta a una selezione preventiva da parte del “sistema dell’arte”(galleristi, critici, curatori, fiere) il quale, dopo una scrematura, individua gli artisti suscettibili di essere portati a livelli più alti (musei, case d’aste). I collezionisti, privati e istituzionali, sono il punto d’arrivo di tutto il percorso svolto dall’artista in quanto dotati della necessaria disponibilità economica e perché interessati all’arte come investimento culturale e/o finanziario. L’arte, infatti, è un investimento che promette di rendere in modo assolutamente non proporzionale rispetto alla spesa iniziale: in fondo, la speranza di questi collezionisti amanti delle opere d’arte, è sempre quella di acquisire un pezzo desiderato spendendo il meno possibile per ritrovarsi - in tempi brevi - restituito il capitale rivalutato, senza aver fatto nulla perché ciò accadesse. Le opere di un gruppo limitato e selezionato di artisti sono sono dei brand assoggettati alle leggi del marketing: scambiate, comprate, vendute e rivendute a livello mondiale secondo criteri e prezzi apparentemente irrazionali o, peggio, demenziali, ma che, in quanto stabiliti dalla legge della domanda e dell’offerta, cioè dal mercato, sono quanto di meglio si possa auspicare per l’Arte. Quando si spostano decine o centinaia di milioni di dollari il gioco si fa duro. «E, quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». (Bluto, in “Animal House”). Paolo Tomio Marzo 2012
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INDICE
pag. 12
1
2012 Novembre
Anno 1 - N.11 GERHARD RICHTER
2
2012 Dicembre
Anno 1 - N.12 JASPER JOHNS
3
2013 Gennaio
Anno 2 - N.1
PIERO MANZONI
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2013 Febbraio
Anno 2 - N.2
MARK ROTHKO
18
5
2013 Marzo
Anno 2 - N.3
YVES KLEIN
20
6
2013 Aprile
Anno 2 - N.4
CARL ANDRE
22
7
2013 Maggio
Anno 2 - N.5
KAZIMIR MALEVICH
24
8
2013 Giugno
Anno 2 - N.6
JACKSON POLLOCK
26
9
2013 Luglio
Anno 2 - N.7
ANDREAS GURSKY
28
10
2013 Agosto
Anno 2 - N.8
ELLSWORTH KELLY
30
11
2013 Settembre
Anno 2 - N.9
CHRISTOPHER WOOL
32
12
2013 Ottobre
Anno 2 - N.10 JEFF KOONS
34
13
2013 Novembre
Anno 2 - N.11 BARNETT NEWMAN
36
14
2013 Dicembre
Anno 2 - N.12 CY TWOMBLY
38
15
2014 Gennaio
Anno 3 - N.1
DAN COLEN e CHRISTOPHER WOOL
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16
2014 Febbraio
Anno 3 - N.2
DAMIEN HIRST
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17
2014 Marzo
Anno 3 - N.3
LUCIO FONTANA
44
18
2014 Aprile
Anno 3 - N.4
LUCIAN FREUD
46
19
2014 Maggio
Anno 3 - N.5
MAURIZIO CATTELAN
48
20
2014 Giugno
Anno 3 - N.6
JEAN-MICHEL BASQUIAT
50
21
2014 Luglio
Anno 3 - N.7
GERHARD RICHTER
52
22
2014 Agosto
Anno 3 - N.8
ANDY WARHOL
54
23
2014 Settembre
Anno 3 - N.9
EL ANATSUI
56
24
2014 Ottobre
Anno 3 - N.10 ZENG FANZHI
58
25
2014 Novembre
Anno 3 - N.11 ZHANG XIAOGANG
60
26
2014 Dicembre
Anno 3 - N.12 LIU YE
62
14
27
2015 Gennaio,
Anno 4 - N.1
DOMENICO GNOLI
28
2015 Febbraio
Anno 4 - N.2
NORMAN ROCKWELL
66
29
2015 Marzo
Anno 4 - N.3
ALBERTO BURRI
68
30
2015 Aprile
Anno 4 - N.4
ROY LICHTENSTEIN
70
31
2015 Maggio
Anno 4 - N.5
PIERO MANZONI
72
32
2015 Giugno
Anno 4 - N.6
ED RUSCHA
74
33
2015 Luglio
Anno 4 - N.7
WILLEM de KOONING
76
34
2015 Agosto
Anno 4 - N.8
PABLO PICASSO
78
35
2015 Settembre, Anno 4 - N.9
FRANZ KLINE
80
36
2015 Ottobre,
Anno 4 - N.10 KEITH HARING
82
37
2015 Novembre
Anno 4 - N.11 GUSTAV KLIMT
84
38
2015 Dicembre
Anno 4 - N.12 ALEXANDER CALDER
86
39
2016 Gennaio,
Anno 5 - N.01 ANISH KAPOOR
88
40
2016 Febbraio
Anno 5 - N.02 ALIGHIERO BOETTI
90
41
2016 Marzo
Anno 5 - N.03 EDWARD HOPPER
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pag. 64
1 FIDAart
Novembre 2012, Anno 1 - N.4
MERCATO DELL’ARTE
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GERHARD RICHTER
Record di vendita per un quadro contemporaneo: all'asta di Sotheby’s a Londra un collezionista anonimo ha acquistato il quadro di Gerhard Richter “Abstraktes Bild” del 1994. Il dipinto, stimato dai 9 ai 12 milioni di sterline ha raggiunto il prezzo record fra tutti gli artisti viventi. Il lotto del celebre pittore, un grande dipinto a olio su tela delle dimensioni di cm 225x200, a toni prevalentemente rossi e gialli, è stato venduto per 21 milioni e 321mila sterline. Al cambio, sono stati, quindi, spesi poco più di 26 milioni di euro (vale a dire, 50 miliardi delle vecchie lire). Una cifra abnorme, scandalosa, non per un dipinto di Leonardo da Vinci, ma per una tela astratta di otto anni fa. realizzata da un artista vivente. Generalmente, queste notizie sono commentate con un misto di ammirato stupore, un po’ come i record delle Olimpiadi: la somma stratosferica pagata attesta la qualità incommensurabile del pittore che diventa così anche il Numero Uno. Oppure, vengono addotte considerazioni di ordine (pseudo) oggettivo: è il Mercato che decide il valore degli artisti e, se il Mercato decide di pagare 26 milioni di euro per un quadro, significa che li vale tutti. Il problema della qualità dell’opera è del tutto ininfluente, basta la firma (e l’expertise). Anche perché la maggior parte dei compratori (e dei critici) non sarebbe in grado di riconoscere un Richter da una sua copia. Ora, con tutto il rispetto per Richter o altri artisti battuti a cifre inimmaginabili, è difficile accettare che un dipinto possa costare quanto il museo che lo ospita. Il primo, prodotto del “gesto” creativo dell’artista di genio, il secondo, opera complessa che coinvolge il lavoro di centinaia di progettisti, imprenditori e manovalan-
ze qualificate. In effetti, non esiste nessun’altra attività artistica, intellettuale o scientifica, che sia pagata in modo così demenziale e privo di relazione con l’oggetto acquistato. Caricare di un valore smisurato un unico quadro significa che oramai l’arte non conta nulla e che le regole sono date dalla logica del Mercato e dell’investimento finanziario. E quello che sembra il deferente omaggio alla creatività di un grande artista, si rivela essere solo una speculazione economica basata sulla “proprietà” come status symbol. Il dipinto finirà chiuso nel caveau di una banca, riparato dall’aria, dalla luce e, soprattutto, dalla vista, per essere goduto da pochi eletti come una nuova reliquia laica.
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Dicembre 2012, Anno 1 - N.5
MERCATO DELL’ARTE ?
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JASPER JOHNS
Una delle “Flags” (la bandiera degli States) che Jasper Johns ha realizzato tra il 1960 e il 1966 e che faceva parte della collezione di Michael Crichton, è stata venduta a maggio all’asta di Christie’s. La bandiera, grande 45 per 68 centimetri e stimata tra i 12 e i 16 milioni di dollari, è stata aggiudicata a 25,5 milioni di dollari, 28.640.000 diritti d’asta compresi, pari a 22.310.560 euro (oltre 43 miliardi di lire!). Johns (1930), trasferitosi a New York dal profondo Sud, diventa amico e amante di Robert Rauschenberg (1925). Nel 54-55 realizza Flag, primo dei quadri piatti a collage ed encausto, nel 57 conosce Leo Castelli, influente mercante d’arte di New York che gli organizza la sua prima personale. Quattro quadri sono acquistati dal MoMa così, a soli 28 anni, diventa un «maestro» che la critica definisce (a posteriori) New Dada. La scelta di oggetti e simboli tipici della società di massa ne fa un precursore della Pop Art, da cui si distingue, però, per l’attenzione ai valori plastici e pittorici. Johns non distrugge l’idea di quadro e resta ancorato alla pittura. Utilizza il collage applicando sul fondo della tela fogli di giornale che poi dipinge con l’antica tecnica dell’encausto, tecnica in cui si sciolgono i pigmenti nella cera fusa. I simboli preferiti dal giovane Jasper sembrano derivare direttamente dalla sua esperienza personale: i “Targets” (bersagli), le “Flags”, i numeri stenciled, le lattine di birra, le stesse Mappe degli USA, paiono più materiale iconografico introiettato durante il servizio militare che una scelta consapevole. Il pittore, d’altronde, non è mai stato disposto a discutere di quanto il contenuto teorico delle
sue opere fosse intenzionale. Egli è interessato agli oggetti della vita quotidiana “... che si guardano, ma che non si vedono”, sia per la loro banalità iconografica che per la ripetitività della loro presenza. In ogni modo, la scelta di dipingere la bandiera americana, “un oggetto che la mente conosce già”, si rivela un’idea vincente perché si carica di significati e valori imprevisti e imprevedibili: Flag è la proiezione stessa dell’America e ciò la rende di fatto un simbolo sacro, infatti, oggi viene esibita come una chiara espressione di patriottismo. Le sue bandiere (oltre una quarantina di versioni realizzate tra gli anni 60 e 70), accolte al tempo come blasfeme, sono diventate nel corso degli anni l’oggetto del desiderio di collezionisti disposti a pagare qualsiasi cifra: una stars and stripes di grandi dimensioni è stata acquistata per 110 milioni di $. Castelli poteva vantarsi di aver “creato” Johns e di aver pagato 2mila dollari il suo primo quadro ma, forse neanche lui, avrebbe mai immaginato le cifre demenziali a cui sarebbero arrivate quelle bandiere.
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Gennaio 2013, Anno 2 - N.1
MERCATO DELL’ARTE ?
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PIERO MANZONI
Nel 1961 Piero Manzoni presentò “l’opera” che più avrebbe colpito l’immaginario collettivo e dato la celebrità nel mondo dell’arte. Non l’opera più “artistica” dato che l’oggetto in sè è abbastanza anonimo e tendente allo spiacevole degrado dei materiali, quanto la più estrema e dissacrante del suo già vastissimo repertorio di creazioni e provocazioni. Parliamo, ovviamente, delle sue scatolette di “Merda d’artista” che, ancor oggi a 50 anni di distanza, fa discutere critici, artisti e pubblico. Mentre, più pragmaticamente, galleristi, case d’aste, collezionisti (e musei), hanno fagocitato la Merda e l’hanno esposta sugli scaffali con l’etichetta del prezzo. Prezzo, bisogna sottolinearlo, in continua e costante ascesa. Manzoni, l’artista più scandaloso apparso sulla scena dell’arte italiana (dopo i Futuristi) ma anche europea (dopo i Dadaisti), nella sua breve ma intensissima vita è riuscito a inventare e sperimentare le teorie, le pratiche, le opere e i linguaggi più vari e dirompenti. Tutto questo in soli sette anni, dal 1956 al 1963, data della sua morte per infarto a soli 29 anni. L’inscatolamento delle proprie feci (in realtà, gesso) di questo enfant terrible è solo il punto d’arrivo di un percorso che lo aveva visto esporre a fianco di Fontana, Baj, Klein, Picabia, Bonalumi, Castellani ecc. lasciando una tale mole e ricchezza di idee, invenzioni e sperimentazioni da renderlo uno dei precursori di molta arte concettuale e minimalista..
I comportamenti del vulcanico artista erano sempre intrisi di ironia, narcisismo e propensione alla platealità, vedi la sua foto soddisfatto nel cesso con la scatoletta in mano; in un certo senso, è stato lui che ha reinventato la figura dell’artista comunicatore e creatore di eventi scandalistici massmediatici. Le 90 scatolette contenenti 30 grammi di Merda d’Artista, numerate, firmate, certificate dal notaio e vendute nell’indifferenza iniziale della critica, “a peso d’oro”, oggi hanno raggiunto prezzi stratosferici: una è stata venduta ad un’asta nel 2007 a 124.000 euro (240 milioni di lire) ottenendo l’attestato di capolavoro. A dimostrazione di come la sua contestazione estrema dell’arte “commerciale” con cui esprimeva la rivolta e lo sbefleffo verso il Mercato e la borghesia (da cui proveniva), si sia ribaltata nel suo contrario. Probabilmente, Piero Manzoni aveva sopravvalutato il potere della critica contro la mercificazione dell’arte o, viceversa, sottovalutato il Potere del Mercato. E così, il Mercato, come già aveva fatto con l’orinatoio-Fountain di Mutt-Duchamp del 1917, superato lo shock iniziale, è riuscito a mercificato anche la Merda traendone il consueto, giusto Profitto. Rimane profondamente autentico, invece, il suo credo artistico e poetico: “...non ci si stacca dalla terra correndo o saltando; occorrono le ali; le modificazioni non bastano; la trasformazione deve essere integrale.”
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Febbraio 2013, Anno 2 - N.2
MERCATO DELL’ARTE ?
Orange, Red, Yellow - 1961
No. 1 (Royal Red and Blue) - 1954
Evidentemente, la crisi economica che ha colpito interi continenti non ha inciso ai livelli “alti”, anzi, sembra che la capacità di spesa per l’arte sia aumentata in modo proporzionale alla crescita della povertà. Chissà come mai? Infatti, rispetto al 2011, i primi 10 prezzi più alti battuti all’asta per le opere d’arte Moderna e Contemporanea hanno registrato un aumento del 44%. Il primo posto è occupato dall’opera moderna più costosa mai venduta al mondo: L’Urlo di Edvard Munch (119.9 milioni di dollari), ma il comparto del contemporaneo l’ha fatta da padrone nel 2012. In particolare gli artisti newyorkesi appartenenenti all’Espressionismo Astratto, in particolare Mark Rothko che, nell’elenco delle 24 opere più costose del 2012, occupa rispettivamente il secondo, il terzo e il ventiquattresimo posto. Orange, Red, Yellow, un olio su tela del 1961, di 236x206 cm e stimato dai 35 ai 45 milioni dollari, è stato aggiudicato a maggio da Christie’s New York alla cifra record di $ 86.882.500 (compresa commissione) pari a € 65.513.910. Il secondo posto è occupato da No. 1 (Royal Red and Blue) olio su tela del 1954, 290x 170 cm, stimato 35 - 50 milioni e venduto da Sotheby’s New York a novembre a $ 75.122.500 vale a dire € 56.634.852. Infine il 24esimo, battuto a novembre a Christie’s New York, più piccolo (173 x 97 cm) e, quindi, molto più “economico”, Black Stripe (Orange, Gold and Black), un olio del 57 venduto a 21.362.500 dollari. Gli incredibili, inauditi, insensati prezzi raggiunti da queste opere d’arte contemporanee possono legittimamente porre alcuni dubbi. Fatto salvo che il compratore può pagare un’opera la cifra che più ritiene congrua e, posto che Christie’s è una struttura commerciale interessata al profitto, come si spiegano le abnormi differenze tra stime e prezzi finali? Che, ad esempio, Orange, Red, Yellow sia stato venduto a $ 86,9 milioni, cioè a 52 milioni di dollari in più rispetto alla stima (minima) di 35 milioni? Anche considerando la stima massima di 45 milioni, il differenziale con l’importo finale battuto è di 42 milioni di dollari (31,7 milioni di euro). Poichè è difficile credere che Christie’s (come Sotheby’s) sottostimino il valore di un dipinto che debbono vendere e, soprattutto, non sappiano gestire bene i loro affari, come si spiegano razionalmente i motivi di queste discrepanze abnormi tra i “valori” stimati dalle case e i costi finali esborsati? Sono collegabili a oggettive ragioni di mercato, ove si intenda per mercato anche il gioco della speculazione borsistica, oppure a ragioni di prestigio sociale ed economico? O ad entrambe le ragioni? I “Rothko”, sono dipinti immediatamente riconoscibili, una vera e propria icona e, quindi, la loro esposizione è più motivata dall’autocelebrazione di uno “status symbol” che dall’amore per l’arte in sè. Il possesso di un oggetto “unico” che tutti vogliono, è motivo sufficiente per volerlo possedere. A tutti i costi, nel vero senso della parola.
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MARK ROTHKO Marcus Rothkowitz, figlio di ebrei russi emigrati in America nel 1913 (lui aveva 10 anni), dopo gli studi artistici aveva intrapreso l’attività di pittore operando in un ambito figurativo prima e surrealista, poi, nei primi anni 40. Solo dal 46 in poi comincia a sviluppare un linguaggio astratto personale (i Multiforms) che diventerà la premessa per le tele a campiture di colore orizzontali su fondo monocromo, che lo hanno reso celebre. Pittore colto, dotato di un forte atteggiamento religioso che trasferiva anche alla sua pittura, fu definito (con Newman, Gottlieb, Reihardt) dal critico Rosemberg, rappresentante della sfera teologica dell’Espressionismo Astratto. Quell’indirizzo “contemplativo” (molto diverso da quello “gestuale” della Action painting) si caratterizzava per il rilievo dato alla componente spirituale-meditativa del dipingere e si manifestava attraverso tele di grandi dimensioni e ampi campi monocromatici (Color field painting). Nella lettera-manifesto del 1943 gli artisti dichiaravano “Noi sosteniamo l’espressione semplice del pensiero complesso. Siamo per la forma ampia, perché essa possiede l’impatto dell’inequivocabile. Desideriamo riaffermare la superficie del dipinto. Siamo per le forme piatte, perché distruggono l’illusione e rivelano la verità”. Questa ricerca di una dimensione diversa, contemplativa, nella pittura di Rothko diventa mistico-trascendente fino a trasformarsi in enormi monocromi dai colori sempre più scuri. Nel 1970 Rothko, malato di depressione, Black Stripe (Orange, Gold and Black) si suicida tagliandosi le vene nel suo studio a New York. La vicenda degli espressionisti astratti è stata oggetto, pochi anni fa, di un libro in cui, dall’esame di documenti desecretati, si dimostrava che dietro il loro successo nazionale e, soprattutto, internazionale c’era la mano della CIA. Il fatto è stato poi confermato da un ex agente che ha ammesso l’esistenza di un’operazione segreta (guinzaglio lungo) finalizzata a valorizzare l’arte astratta americana per contrastare la propaganza comunista e promuovere l’idea degli USA, usciti vincitori dalla guerra, quale paese democratico e aperto alla massima libertà di espressione. Per questa ragione la CIA, sotto la copertura di fondazioni, gallerie, critici, riviste e musei, ma all’insaputa degli artisti, individualisti trasgressivi ma apolitici (e forse un po’ troppo “ingenui”), organizzò una lunga serie di mostre in tutto il mondo per lanciare l’Espressionismo Astratto (e non solo), ottenendo diversi risultati: dimostrare la superiorità culturale della Democrazia e del Libero Mercato degli Stati Uniti e sponsorizzare la nascita di un’arte moderna tutta americana, finalmente non più subordinata a quella europea, ponendo, di fatto, le premesse per la creazione del Mercato di oggi. L’ironia di quelle vicende, senza nulla togliere al valore acclarato degli artisti, sta nel fatto che l’operazione che propagandava la Democrazia americana avvenne all’insaputa del Congresso democraticamente eletto e che il mercato tanto libero non fu se, dietro le mostre, i critici, le gallerie e i musei coinvolti, c’era l’immenso potere politico ed economico della CIA. E, comunque, vale la pena di ricordare che la maggior parte degli Espressionisti “americani”, in realtà, erano europei o di origine europea: tedeschi (Gottlieb, Kline, Reinhardt, Hofmann), russi (Rothko, Krasner), greci (Stamos, Baziotes), olandesi (de Kooning), armeni (Gorky) e canadesi (Guston). 19
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Marzo 2013, Anno 2 - N.3
MERCATO DELL’ARTE ?
“Le rose du bleu” - 1960
IKB 191, pittura monocromatica, 1962
Nelle prime ventiquattro opere d’arte moderna e contemporanea battute alle aste nel 2012 ai prezzi più alti del mondo, gli artisti americani sono 14 mentre gli europei sono 10. Di questi ultimi, a parte Munch (che, con L’urlo al primo posto, surclassa tutti) e un Monet (quinto) che rientrano nell’empireo dei grandi classici dell’Ottocento, e Picasso (settimo) che è un classico del ‘900. L’11° posizione è coperta da Joan Mirò, il 12° e 13° posto da Yves Klein. A sorpresa, Gerhard Richter, l’unico pittore europeo vivente, si trova con un suo Abstraktes Bild al 14° posto. E, infine, ben tre posizioni (16, 17 e 18esima) sono occupate da Francis Bacon. Di Gerhard Richter abbiamo già parlato nel numero 4 di FIDAart, ora è interessante approfondire le due opere di Yves Klein che si sono conquistate un primato inimmaginabile fino a pochi anni fa. La prima, “Le rose du bleu” del 1960, in realtà non è eseguita nel celebre IKB, l’International Klein Blue, una tonalità di colore blu oltremare inventato e brevettato nel 1956 dal pittore, ma in una profonda tonalità rosa-magenta. Le rose du bleu è un monocromo polimaterico su tela costituito da pigmento puro e resina sintetica, spugne naturali e ciottoli, delle dimensioni di 200x150x16 cm venduto a $ 36.779.111 (€ 27.727.770, pari a 53 miliardi di lire) da Christie’s Londra. Il quadro che rappresenta l’idea oramai “romantica” di un paesaggio lunare ha raggiunto il nuovo record assoluto per l’artista francese scomparso nel 1962, esattamente cinquant’anni fa. La storia di questo artista ha molte cose in comune con quella di Piero Manzoni: la grande inventiva, la capacità e volontà di stupire e, non ultima, una vita intensa e una morte altrettanto precoce. Ad esempio i monocromi, le performance con il corpo di modelle nude, la vendita di “vuoti” urbani in cambio di oro oppure il narcisismo esasperato: «il pittore deve creare costantemente un solo unico capolavoro, sé stesso». L’incontro di Yves Klein nel 1955 con Pierre Restany è una data importante per entrambi: Restany curerà le prefazioni di tutte le sue mostre e nel 1960 pubblicherà il Primo Manifesto del Nouveau Réalisme analogo europeo dei Neo Dada statunitensi (che si svilupperanno poi nella Pop Art) in cui teorizza, per l’appunto, l’utilizzo ai fini artistici di qualsiasi materiale desunto dalla realtà fisica e dalla vita quotidiana. La seconda opera di Klein, battuta a New York da Christie’s e FC 1 (Fuoco Colore 1) del 1962 per $ 36.5 milioni fa parte del ciclo creativo finale ancora più provocatorio. Questo quadro in pigmenti e resina sintetica su pannello di 141x300 cm eseguito solo un paio di settimane prima della morte prematura, è ampiamente riconosciuto come il suo capolavoro finale. Infatti è stato dichiarato: “FC 1 è per l’Europa ciò che Number One di Pollock è per
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YVES KLEIN l’America”. Fire Color 1 è diventata celebre dopo l’uscita del film prodotto da Klien, La Revolution Bleue, in cui si riprendeva la creazione del dipinto da parte dell’artista, paragonato ad un alchimista che manipola gli elementi primordiali: gas, fuoco e acqua. In questa opera il concetto di “artista eroico” è stato portato al livello più alto poiché rappresenta il compendio di ciò che il pittore chiamava “quadri pericolosi” in quanto rischiava la sua vita e quella dei suoi modelli. Tutto ciò non ha un fondamento reale ma è stata una grande invenzione “comunicativa”, un vero e proprio spettacolo-performance che, grazie anche ad un pizzico di provocazione sessuale, ha caricato l’opera di significati esoterici e mistici assolutamente innovativi. La tecnica inventata da Klein per realizzare questo quadro era complessa perché comportava una successione di interventi frenetici: l’impronta sul pannello dei corpi nudi e bagnati di acqua delle modelle, il trattamento con il “lanciafiamme” delle zone rimaste asciutte, la stampa a contatto dei corpi ricoperti di colori (prima rosa e poi blu) e, infine, il passaggio con colore a spruzzo lungo il perimetro delle sagome. Le immagini finali, che ricordano molto le pitture rupestri delle caverne di Lascaux, sono state definite da Restany “Il classicismo puro dello stile pittorico di Yves Klein”.
Sotto: FC1 (Fire Color 1) - 1962
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Aprile 2013, Anno 2 - N.4
MERCATO DELL’ARTE ? E’stato definito dal Museion “padre fondatore della Minimal Art” e, addirittura, “leggenda vivente”; nel testo di presentazione si dichiara che: “con le sue opere radicali Carl Andre ha rivoluzionato il concetto di scultura e influito fortemente sullo sviluppo dell’arte del XX secolo”. Carl Andre smette di scolpire nel 1959 e, poiché respinge l’idea di dover sgrossare e modellare (scolpire), incollare, saldare ecc., inventa delle sculture composte da forme semplici ottenute solo dall’accostamento di unità geometriche elementari. I materiali vengono utilizzati con le loro finiture industriali senza ulteriori interventi dell’artista: legno, acciaio, rame, alluminio, piombo, pietra, blocchi di cemento sono presentati esattamente così come sono messi in commercio. L’unico “vezzo” che concede l’artista consiste nella struttura compositiva: i pezzi sono semplicemente allineati, appoggiati casualmente, ritmati secondo moduli elementari, sovrapposti ecc.. Le opere non hanno alcun intento narrativo o allusivo, men che meno estetico (anche se è evidente una ricerca di piacevolezza geometrica) ma dichiarano semplicemente se stesse come oggetti concreti. Un’arte come fenomeno fisico che non pretende di essere niente altro. Il visitatore impreparato potrebbe rimanere perplesso nel trovarsi di fronte oggetti comuni privi volutamente, programmaticamente - di qualità. Anonimi e, soprattutto, noiosi. Il Museion, infatti, avverte che “è un’arte che non colpisce e può passare inosservata, pur intrattenendo una relazione fondamentale con l’ambiente in cui si trova” e che le sculture “non sono un oggetto da contemplare, ma un luogo in cui stare, muoversi e fare esperienza, in una relazione di contatto fisico”. Vale a dire, esattamente quello che succede con tutti gli oggetti “normali”, siano essi pavimenti in piastrelle, cordonate stradali, paracarri, pali della luce, battiscopa, pareti intonacate, tappeti nettapiedi ecc.. Il mondo è pieno di oggetti d’uso artificiali che passano inosservati, che “non sono da contemplare” ma con cui abbiamo delle “esperienze e relazioni di contatto fisico”. Probabilmente nessuno aveva mai esposto un parallelepipedo di legno appena uscito dalla segheria definendolo “una scultura”. Carl Andre lo ha fatto spiegando il senso della sua operazione con una frase diventata famosa: “Dalla scultura come forma alla scultura come struttura per approdare alla scultura come luogo”. Il programma, effettivamente, è ambizioso, i risultati ottenuti non a tutti sembrano particolarmente entusiasmanti visto che “passano inosservati”. “Usare i materiali come tagli inferti allo spazio piuttosto che tagliare nello spazio i materiali” è un’altra celebre frase di Andre che dovrebbe riassumere la rivoluzione compiuta rispetto al modo tradizionale di intendere la scultura. Basta con le forme plastiche tridimensionali in pietra, bronzo, legno, acciaio, terracotta (a cui siamo abituati da qualche migliaio di anni) che posseggano una qualche ambizione di interessare e coinvolgere esteticamente, emotivamente, percettivamente; meglio l’accostamento di unità geometriche elementari che ”inferiscano tagli nello spazio”. Anche
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CARL ANDRE se non è ben chiaro perché un pavimento di quadrotti metallici o di mattoni di cemento “taglino lo spazio” e la classica scultura scolpita, no. Andre ha definito il suo lavoro ateo, materialista e comunista: ateo per la mancanza di trascendenza e di qualità spirituali, materialista perché la materia si presenta per sé stessa senza rimandi allusivi ad altro, comunista perché fruibile da qualsiasi essere umano indifferentemente. Se questo è il minimalismo puro dell’artista, Andre si dimostra un vero artista negli affari. Infatti, la cosa incomprensibile è che un’opera composta da 100 lastre di acciaio e piombo di 20x20x0,8 cm, materiale di serie, comune, anonimo e privo di qualsiasi intervento dell’artista, sia stata venduta nel 2011 da Christie’s per 2,4 milioni di dollari. La domanda che sorge spontanea nel fruitore è: ma se la “scultura” è realizzata con dei blocchi di cemento di serie, comuni travi di legno o lastre di acciaio e piombo semplicemente accostati, cosa impedisce a chiunque di realizzarsi, in quattro e quattr’otto, un’opera identica a quelle di Carl Andre? Sicuramente è una domanda che deve essersi posto lo stesso artista il quale si rendeva conto che, dopo aver distrutto il concetto di scultura, rischiava di distruggere anche il concetto di Mercato. A questo problema, apparentemente irrisolvibile, Andre è riuscito a dare una risposta creativa. E’ interessante, a questo proposito, leggere le sua “Politica per l’emissione di certificati”, riportata sul sito dell’artista, in cui sono pedantemente elencate tutte le condizioni e operazioni previste per certificare le sue opere “comuniste”. E in cui riesce ad introdurre anche un pagamento in monete d’oro e l’obbligo di sopralluogo e ispezione per le sue sculture seriali. In questo frangente dimostrandosi un vero artista materialista. Andre prevede un solo certificato originale per ogni opera, la sostituzione dei certificati perduti e la sostituzione dei materiali originali per causa di agenti atmosferici, danni, perdite ecc. Ciascuna delle sculture di Carl deve essere accompagnata da un certificato originale rilasciato una sola volta dall’artista e che deve seguire il lavoro ad ogni cambio di proprietà. Questo certificato è la prova che si tratta di un lavoro creato da Carl Andre e costituisce la sua firma e la sola autenticazione. Sia nel caso di perdita del certificato, che della necessità di sostituzione del materiale, la procedura prevede sempre l’obbligo di sopralluogo da parte di Andre o suo rappresentante per ispezionare i lavori, valutare lo stato dell’opera, approvare i campioni di materiali sostitutivi e, infine, controllare il lavoro “restaurato” con il nuovo materiale. Per queste operazioni è richiesta: “una tassa di due monete da un oncia d’oro canadese Maple Leaf per il rilascio della prima dichiarazione di autenticità, tre monete per la seconda, quattro per la terza e così via. Inoltre, Andre o il suo rappresentante, deve essere rimborsato per ogni e tutte le spese di viaggio sostenute durante il controllo del lavoro”.
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Maggio 2013, Anno 2 - N.5
MERCATO DELL’ARTE ? la mostra l’opera ritenuta più importante dal profeta-rivoluzionario era il “Quadrato nero su sfondo bianco” come si evince sia dalla sua collocazione “baricentrica” nella sala (vedi foto a pag.22) sia da una sua lettera: ”Questo disegno avrà un’importanza enorme per la pittura. Rappresenta un quadrato nero, l’embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente”. Nel 1917 la rivoluzione comunista conquista il potere in Russia e Malevich, che aderisce al bolscevismo, produce una serie di dipinti bianco su bianco tra cui, nel 1918, il “Quadrato bianco su sfondo bianco”, una delle opere più radicali della storia dell’arte. Con questo ciclo di opere monocromatiche porta la pittura al “grado zero” anticipando gran parte dei contenuti delle successive generazioni di artisti. Nel 1930 Malevich viene arrestato e incarcerato dalla polizia politica, e molti suoi modelli, disegni e appunti finiscono distrutti. Quando, dopo vari mesi viene liberato, si dedicherà solo alla pittura figurativa fino alla sua morte nel 1935.
Il 3 novembre 2008 un’opera di K.S. Malevich, “Composizione suprematista” del 1916, ha stabilito il record del mondo per qualsiasi opera d’arte russa e di ogni altro lavoro venduto all’asta nell’anno, raggiungendo a Sotheby a New York City poco più di 60 milioni di dollari e superando il suo precedente record di $ 17 milioni fissato nel 2000. Si tratta di un olio su tela di 88x70 cm realizzato l’anno dopo la prima uscita pubblica del Suprematismo, movimento artistico sviluppato in Russia durante la Prima guerra mondiale, ad opera di Malevich. Nel dicembre 1915, in occasione della “Ultima esposizione futurista di quadri 0,10 (Zero-dieci)”, il pittore espone 36 opere ‘non-oggettive’, composizioni geometriche elementari. In quel-
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KAZIMIR MALEVICH Fotografia fondamentale questa della mostra di Kazimir Malevich a Pietrogrado nel 1915 con Larionov, Chagall, Kandinskji e Tatlin perché, nonostante il bianco e nero, tra i 21 dipinti che appaiono (sui 36 esposti) si riconoscono molte delle opere più celebri del fondatore del Suprematismo (vedi raffronto a destra). Quel giorno - quasi 100 anni fa - e due anni prima della Rivoluzione di febbraio, apparve un’arte nuova, mai vista prima, e furono poste le basi di gran parte dell’arte moderna e contemporanea. Oltre al “Rettangolo nero” e alla “Croce nera” e, in basso a sinistra, il “Quadrato rosso” (in realtà un quadrangolo), sicuramente il più celebre è il “Quadrato nero su sfondo bianco” posto nell’angolo tra le pareti e il soffitto. Interessante anche l’allestimento di Malevich il quale aveva “accumulato” i quadri sulle pareti (inclinati in avanti e privi di cornici) con una
logica apparentemente caotica e casuale che contrastava con la rigida geometrizzazione delle sue opere. La scelta di collocare il Quadrato nero in quella posizione è stata spiegata sia con la volontà del pittore di superare la bidimensionalità del quadro e appropriarsi dello spazio circostante, sia con la maniera tradizionale russa di esporre le icone negli angoli in alto delle case contadine a collegamento tra elemento fisico, terreno e lo spirito. Nelle intenzioni del visionario Malevich, insomma, una vera e propria “arte sacra” che, attraverso le forme geometriche pure, voleva rappresentare il nuovo principio della trascendenza e del mistero. Nell’ultima fotografia di Malevich, il “Quadrato nero” appare appeso e inclinato sopra il suo letto di morte, esattamente come un’icona.
Kazimir Malevich L’Ultima esposizione futurista “0 , 10” all’Art Bureau N.Dobychinoy a Pietrogrado, dic. 1915 - gen. 1916 - Archivio Centrale di Stato A destra: opere esposte a colori
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Giugno 2013, Anno 2 - N.6
MERCATO DELL’ARTE ? generalmente statunitensi. Un recentissimo esempio di questo fenomeno si è avuto con la vendita all’asta di Christie’s a New York avvenuta a maggio, di un dipinto di Jackson Pollock, il N.19 1948. Si tratta di un quadro di cm 78x57 realizzato con la sua tipica tecnica del ‘dripping’, ad olio e smalto su carta applicata alla tela. Stimato dalla casa d’aste 25-35 milioni di dollari è stato venduto a 58.360 mila dollari (€ 45.330.000) con uno scarto che, oscillando dai 23 ai 33 milioni, conferma l’assoluta aleatorietà e infondatezza di queste stime. Il quadro appartiene al periodo più creativo del pittore, il triennio 1947-1950 durante il quale uscirono dal suo studio le sue opere più ricercate. Il N.19 1948 (una mania di Pollock quella di dare per titolo solo un numero progressivo e la data) era stato definito già un anno dopo dal critico Clement Greenberg, suo grande estimatore: ”Il n.19 sembra più che sufficiente per giustificare l’affermazione che Pollock è uno dei maggiori pittori del nostro tempo”. Il prezzo pagato di 58 milioni, più del doppio della stima, dimostra che non esiste più alcuna relazione tra opera, valore e mercato reale. Il compratore non ha voluto solo acquistare il dipinto di uno dei più celebrati artisti americani, ma entrare in possesso di un’icona che gli faccesse acquisire, di riflesso, un’aura culturale e uno status economico-sociale. Pochi, infatti, sono in grado di distinguere un’opera di Pollock dall’altra ma, tutta l’elite che conta, sa riconoscere l’autore e ne comprende immediatamente il “vero valore”.
Se in mercato delle opere d’arte “ordinarie” sta progressivamente perdendo colpi, il mercato di quelle “straordinarie” prosegue nella sua crescita abnorme, assolutamente irrazionale, che ha portato alle stelle i prezzi di pochi artisti-star,
A sinistra alto: N..19, 1948, olio e smalto su carta intelata, cm 78x57 Sotto: Dettaglio angolo superiore con firma
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JACKSON POLLOCK Ancora più eclatante il prezzo raggiunto nel 2006 per un altro ‘dripping painting’, il N.5 1948, venduto a trattativa privata per 140 milioni di dollari (€ 109.004.000) che lo rendono il secondo quadro più costoso mai venduto. Una cifra sproporzionata e senza senso per un’opera contemporanea eseguita mediante un’azione, (Action painting), che pur rendendo il quadro unico e irripetibile, è fondata su una gestualità in gran parte istintiva e casuale (anche se il pittore dichiarava: ‘non c’è posto per il caso’). Pollock, nato nel 1912 a Cody Wyoming, dopo essersi trasferito a New York e aver studiato con il noto pittore “regionalista”, Thomas Benton, con risultati non entusiasmanti, solo a partire dal 45 aveva iniziato ad elaborare il suo stile personale basato sul ‘dripping’ (sgocciolamento) di colori e smalti industriali su tele stese sul pavimento e versati con bastoni, pennelli, sirighe o altro. Il pittore, girando intorno alla tela poteva “entrarvi dentro” e il ‘dripping” diventava ‘azione-creazione’, atto che crea l’opera, la quale è opera e azione contemporaneamente. Nel tempo, questo metodo creativo è stato caricato di significati esoterici e psicanalitici sia per i riferimenti alle pitture con la sabbia dei nativi americani, sia per il suo essere un’emanazione dell’inconscio, di forze interiori, mentali e spirituali che ‘possedevano’ il pittore in un vortice creativo e che si concretizzavano nel dipinto. ‘Come un sismografo’, è stato detto, ‘il dipinto ha registrato le energie e gli stati dell’autore.’ A causa dei problemi con l’alcol che lo avevano perseguitato fin da giovane, muore nel 1956, a soli 44 anni, schiantandosi in macchina. La morte tragica e prematura unita alla figura di artista maledetto, hanno contribuito a creare il suo mito di eroe individualista contro la società americana di massa.
N.5 1948, olio su pannello di fibra su legno, cm 240x120
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Luglio 2013, Anno 2 - N.7
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ANDREAS GURSKY Il fotografo Andreas Gursky, molto noto per le sue immagini ‘analitiche’, decisamente tedesche, realizzate in tutto il mondo, può vantare un altro record mondiale: una sua opera C-print laminata su lastra di plexiglas da 146x181 cm (con passapartout e cornice d’artista, 186x222 cm), intitolata ’Rhein’ 1, 5/6 , 1996, è stata venduta per 1.925mila dollari (1.480.000 €) La stima d’asta di Phillips oscillava tra 1 e 1,5 milioni di dollari. Considerando che si tratta della copia numero 5 di un’edizione di 6, ed ipotizzando un analogo prezzo per le altre cinque foto, l’intero corpus può essere stimato una cifra vicina ai 12 milioni di dollari (€ 9.225.500) Nata a metà dell’800 e ritenuta per lungo tempo una semplice tecnica artigianale, la fotografia è ormai diventata un’arte con dignità pari, se non superiore (come dimostrano questa e altre opere), ai dipinti più quotati. Al punto che, il tema classico del paesaggio che ha dominato tutta la pittura nel corso dei secoli
è oggi riproposto e reinterpretato attraverso il mezzo fotografico. La foto in grande scala di Gursky è divisa in due campi uguali tagliati dalla linea centrale dell’orizzonte: quello neutro del grigio del cielo e quello composto da fasce parallele di spessori diversi giocata sulle gamme dei verdi e dei grigi. Gursky ha notato, “Le mie foto sono sempre più formali e astratte, una struttura visiva sembra dominare i veri eventi indicati nelle mie immagini”, sottolineando: “Ho soggiogato la realtà al mio concetto artistico dell’immagine“. Il fotografo, che oggi lavora con macchine digitali, ammette di intervenire sulle sue immagini per correggerle, sollevando le critiche dei puristi ma non quelle dei collezionisti. Con questo suo adeguamento sia alla tecnica digitale che ai programmi di ‘fotoritocco’, la fotografia artistica ha, dunque, compiuto un ulteriore passo verso la modernizzazione e il superamento del suo ruolo storico.
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Agosto 2013, Anno 2 - N.8
MERCATO DELL’ARTE ? A Phillips de Pury & Company, New York, Contemporary Art , un dipinto di Ellsworth Kelly, “Nero verde” del 1968, un olio su tela di grandi dimensioni (241x173 cm), stimato tra 2,5-3,5 milioni di dollari, è stato venduto nel maggio di quest’anno per quasi 3milioni di dollari. “Ogni opera d’arte è un frammento di un contesto più ampio .... Sono sempre stato interessato a cose che vedo e che non hanno senso fuori dal contesto, se si portano in qualcosa d’altro“ ha dichiarato E. Kelly nel 1991. Rompendo con i suoi contemporanei apartenenti in gran parte all’Espressionismo astratto, Ellsworth Kelly ha raggiunto lo status di icona tra i grandi pittori del XX secolo americano. Come consuetudine tra quasi tutti i pittori
americani contemporanei, i quadri di Kelly sono caratterizzati dalle grandi dimensioni. Le ragioni sono diverse: da una parte la necessità di dilatare masse e colori che, se ridotti, potrebbero sembrare più il logo di una multi-nazionale che un dipinto astratto. Dall’altra, perché le ‘macchie di colore’ ben si inseriscono nei grandi spazi, generalmente bianchi, dei musei moderni o delle ville dei collezionisti dove sono molto apprezzate dagli arredatori. Per quanto riguarda Kelly, bisogna ammettere che, con una coerenza assoluta, quasi maniacale, ha sempre lavorato sulla geometria, esplorandone le potenzialità grazie a minime variazioni dei rapporti dei suoi elementi: superfici e colori. Da questi studi, inizialmente assai simili alle bandiere a bande verticali e che oggi potrebbero essere eseguiti in modo più metodico grazie al computer, è poi passato a forme composte da due o più pannelli di differenti spessori giustapposti che permettono di introdurre un effetto tridimensionale in dipinti rigorosamente piani. Solo più tardi Kelly ha comiciato a staccarsi dall’ortogonalità per affrontare forme curve, triangolari con delle rare incursioni nel mondo delle forme libere e approdare, infine, anche a delle sculture geometriche minimaliste. La pittura di Kelly richiede una risposta emotiva da parte dell’osservatore: si tratta di una tecnica simile al lavoro di Mark Rothko, entrambi gli artisti utilizzano la capacità viscerale del colore puro come innesco per la reazione umana. Secondo la critica, il concetto di illusione ottica (peraltro evidente in quest’opera) contraddice gli obiettivi di Kelly in quanto egli mira a produrre una versione pre-euclidea del mondo, per azzerare tutte le nozioni moderne di geometria e di processo intellettuale che inibiscono la risposta emotiva.
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ELLSWORTH KELLY GEOMETRIE PRE EUCLIDEE Il maggio di quest’anno sono stati festeggiati i 90 anni di Ellsworth Kelly, noto pittore appartenente alla pittura “hard-edge” (dai bordi duri e netti), termine usato per descrivere un filone dell’arte americana contemporanea astratta e geometrica caratterizzato da forme semplici, colori a campiture piatte e a disposizione all-over (sparse) sulla tela. Questo stile geometrico che rimanda alle ricerche di Josef Albers e Piet Mondrian e, ancor prima, a Kazimir Malevich, sono anche il prodotto di due sue caratteristiche particolari che condizioneranno la sua storia personale e artistica. Kelly, ragazzo solitario e balbuziente, era stato avvicinato al bird watching dalla nonna paterna; questa attività e gli studi di ornitologia, che lo appassioneranno per il resto della vita, lo hanno aiutato ad addestrare gli occhi sviluppando il suo apprezzamento per la realtà fisica del mondo e l’interesse per le forme e i colori della natura. Dopo gli studi artistici nel 1943 fu chiamato alle Armi e assegnato al dipartimento artistico dove, grazie anche alle sue competenze ‘ornitologiche’, insegnò alle truppe l’arte del mimetismo e altri stratagemmi visivi per ingannare il nemico nelle azioni di guerra. Ebbene, se si confrontano i suoi quadri degli anni '50 non si può fare a meno di notare l'estrema somiglianza con i sistemi di camuffamento di navi (vedi articolo a pag 23). Il suo sistema di scomposizione e sfalsamento delle forme colorate è, anche, un'anticipazione dell'Optical Art che verrà solo dieci anni dopo. Le considerazioni che si possono trarre sono diverse ma principalmente due: la passione 'inusuale' per il bird watching di un ragazzo di otto o nove anni è stata utilissima per addestrare e approfondire le sue capacità di osservazione e percezione delle forme complesse del mondo naturale. Questa sua peculiarità si è rivelata utile, in seguito, per comprendere e insegnare i meccanismi visivi del mimetismo a fini bellici i quali, evidentemente, si sono riverberati sulla sua attività artistica successiva. Due esperienze molto lontane tra di loro che però hanno contribuito a sviluppare la formazione e la sensibilità anomala di Kelly, artista astratto e minimalista il quale ha dichiarato: "Ho sempre detto che si dovrebbe mettere la mente a riposo e limitarsi a guardare. E non cercare di dare un significato". 31
Meschers, 1951, Olio su tela, 150x150 cm
Study for Cité, 1951, pennellate in venti quadrati, 31x38 cm Rosa e arancio, 1951 della serie Color Line Modulo, gouache su carta, 19x20 cm
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Settembre 2013, Anno 2 - N.9
MERCATO DELL’ARTE ? patico gioco di parole poco comprensibilie. La forma: lo stencil a bastoncino, semplice lineare, geometrico di derivazione industriale; le frasi senza soluzione di continuità, l’impaginazione del foglio, l’uso minimalsta delle lettere e delle parole, il gioco del nero sul bianco, le sbavature e le gocciolature (volute) delle scritte. Insomma, abbiamo elencato tutti gli elementi che fanno intuire un qualche valore esteticoartistico dell’opera. Tutto ciò contribuisce a renderlo “riconoscibile” ma, la prima domanda che nasce spontanea, è un’altra: chi è l’artista (poco sconosciuto) di New York di cui è stato acquistato per una tale cifra un questo dipinto? E’ pur vero che la crisi del 2008 di Wall Street ha svalutato il valore del dollaro, ma pagare 4 milioni per questo “tabellone” non trova alcuna spiegazione plausibile. Da una veloce lettura della relazione della casa d’aste allegata al quadro, da una breve ricerca sul suo sito personale e dalla osservazione dei suoi quadri caratterizzati dagli stili più vari, non si evincono ragioni convincenti. Infine, nel suo non lungo curriculum, si può leggere: 2006, mostra alla Galleria Gagosian di Los Angeles; 2010 mostra alla Gagosian a Roma. Ecco, probabilemnet, svelato il mistero, ecco la parola magica che trasforma il piombo in oro: Gagosian, la galleria più grande e potente del mondo. Christopher Wool sarà anche un bravo artista ma, che si sia arrivati a pagare cifre milionarie per i suoi dipinti, si spiega pIù facilmente grazie a quella figura alle sue spalle “a cui non si può dire di no”. Come al solito, i meccanismi del mercato non hanno più alcuna relazione con la realtà artisatica ma si muovono all’interno di logiche finanziarie troppo distanti dal senso comune e dal concetto di qualità.
CHRISTOPHER WOOL, “And if”, 1992, smalto su alluminio, 135 x 90 cm. Stimato da 3,5 a 4,5 milioni dollari è stato venduto quest’anno da Phillips per 4.000.000 di dollari, pari esattamente a 3 milioni di Euro. Non male per un quadro di venti anni fa, di modestissime dimensioni, la cui tecnica è assolutamente banale: lettere spruzzate a smalto con uno stencil su pannello di alluminio. Il significato del testo che si dovrebbe tradurre: ”Più duro tu guardi, più guardi duro” è un sim-
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CHRISTOPHER WOOL Il progressivo sganciamento dell’arte moderna, e ancor più, dell’arte contemporanea, da tutto quel sistema di “valori” storicamente attribuiti al fare artistico, si è consumato in poco meno di un secolo. Questa frattura si può far risalire alle Avanguardie storiche e, in particolare, al Movimento Dada e al suo maggior esponente Marcel Duchamp, i quali contestando con una logica iconoclasta tutto il Passato, hanno creato le premesse per minare le base stesse dell’arte che sarebbe seguita. Dopo il readymade “Ruota di bicicletta” di Duchamp (vedi a pag. 34), infatti, nulla sarebbe stato più come prima. In realtà, nessuno, neanche gli stessi autori, aveva intuito l’immenso potenziale distruttivo delle provocazioni dadaiste o futuriste che avrebbero dato inizio ad una nuova concezione dell’arte. Non nella gente che, ancor oggi, dopo cento anni, non apprezza gli orinatoi preferendo ancora il quadro a colori classico, ma nell’elitè culturali, istituzionali e finanziarie-commerciali che decidono il prezzo delle loro opere e, di conseguenza, “il valore” degli artisti. L’opera d’arte, in sè, conta sempre meno perché sostituita da altre connotazioni quali l’idea o il concetto, la provocazione o appunto, il prezzo, che poco alla volta, hanno dematerialzzato l’arte rendendola slegata dall’oggetto e dalle tecniche necessarie per produrlo. Ecco, allora, che assistiamo alla progressiva scomparsa dell’opera realizzata dall’artista per arrivare al recupero di materiale esistente, naturale o artificiale, riproposto uguale ma ‘nobilitato’ dall’intervento concettuale. Oppure, all’invenzione senza limiti di opere in quanto l’artista mantiene per sè solo il momento creativo e delega in toto ai suoi assistenti quello esecutivo. In passato il Maestro nel corso degli anni insegnava agli allievi tutti i segreti della sua bottega, mentre oggi il grosso artista è diventato sempre più un produttore di idee, a volte simili a progetti teatrali o a trovate dei ‘creativi’ della pubblicità. Wool si situa in un ambito intermedio tra queste posizioni estreme perché il suo linguaggio opera su più fronti: tra la pop art rivisitata, la poesia visiva, la grafica pubblicitaria, la street art, le provocazioni anni 60, il minimalismo americano ecc.. Il rifiuto del colore a favore dei soli nero e grigio alluminio che rimanda alle scritte industriali (container, imballaggi, veicoli militari ecc.) nega drasticamente qualsiasi collegamento con la pittura e privilegiando la parola. “Simpatici” potrebbe essere l’aggettivo che meglio definisce questi quadri; dispendiosi, l’altro. Esageratamente e, soprattutto, immeritatamente dispendiosi. Però, riconoscibili e, quindi, in possesso di tutte le caratteristiche per trasformarsi in un ‘brand’. 33
Trouble, 1990, smalto su alluminio, 108x72
Fuckem, 1992, smalto su alluminio, 108x72
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Ottobre 2013, Anno 2 - N.10
MERCATO DELL’ARTE ? stallazione da 15 milioni di dollari per le pulizie del soggiorno potrebbe risultare eccessivamente oneroso e, d’altro canto, non è neanche sicuro che le cinque “sculture” vendute da Koons siano funzionanti (probabilmente, nessuno ha mai osato provarle). La seconda caratteristica di questa opera è che si tratta di un’unica scultura composta, compreso il contenitore, da ben sei pezzi. E’, insomma, estremamente vantaggiosa e se uno fosse un po’ smaliziato, potrebbe tentare di rivendersela a pezzi, anche se non è detto che il Mercato risponderebbe in modo soddisfacente. Un’ulteriore caratteristica che salta agli occhi è abbastanza divertente: in realtà, l’unico manufatto creato dall’artista è proprio la vetrinetta la quale ha sicuramente una sua dignità formale, non fosse altro che per l’idea dei tubi al neon inseriti nelle due basi con il risultato di illuminare sia dal basso che dall’alto gli aspirapolverilucidatrici. In un certo senso, se Koons fosse stato un artista minimalista, si sarebbe limitato ad esporre il parallelepipedo di vetro che non avrebbe avuto nulla da invidiare alle opere di Donald Judd o Carl Andre. Che dire ancora dell’opera? Probabilmente ci sarà chi vi vede una critica lucida e caustica delle icone del consumismo degli anni sessanta, oppure la denuncia della subordinazione femminile ai dictat imposti dalla pubblicità sulla pulizia della casa come valore etico assoluto. Forse, l’unica nota positiva è che I’”espositore” era stato stimato da Sotheby’s dai 10 ai 15 milioni di dollari (pari a oltre 11 milioni di euro): ebbene, non è stato acquistato da nessuno. Insomma, se avete 15 milioni di dollari da investire in una bella vetrinetta e cinque aspirapolveri usati, sapete chi è l’artista che ve li può vendere ancora in buono stato.
JEFF KOONS; “New Hoover Celebrity 1V, New Hoover Convertible, New Shelton 5 Gallon Wet/ Dry, New Shelton 10 Gallon Wet/Dry Double Decker”, 1981-1986 - Sotheby’s maggio 2013 Quest’opera del celeberrimo Jeff Koons , noto in Italia per il suo matrimonio con Cicciolina-Ilona Staller, oltre a possedere, quasi sicuramente, il titolo più lungo del mondo di tutti i tempi, garantisce anche una serie di vantaggi: in caso di necessità la vetrinetta può essere aperta e le attrezzature ivi esposte possono essere utilizzate per la funzione per cui sono nate. Chiaro che maneggiare una macchina che fa parte di un’in-
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JEFF KOONS Relativamente giovane (nato nel 1955), eclettico e immaginifico, Jeff Koons è diventato nel giro di un decennio uno degli artisti statunitensi più quotati. Le sue opere, ironiche, divertenti, dissacranti, sicuramente kitch, hanno creato uno stile (kitch, per l’appunto) che ha incontrato i gusti del pubblico americano, colto e non. Le sue sculture realizzate con i materiali industriali più vari, dai colori vivacissimi e da forme allettanti derivate dalla cultura di massa - o meglio “pop”- piacciono a grandi e piccini. La dura critica sociale e politica che esprimeva la Pop Art degli anni 60, in lui viene oggi edulcorata e riproposta in chiave blandamente satirica o peggio, nostalgica, di sostanziale adesione all’“american way of life”. Infatti, nella stessa asta di Sotheby’s dove gli “aspirapolveri” non hanno trovato un compratore, sono stati battuti altri lavori di Koons tra cui l’“Aragosta”, uno dei suoi buffi animaloni ‘gonfiati’ (cm 246x48x94) realizzati però in alluminio rigido policromato. Stimata tra i 6 e gli 8 milioni di dollari, è stata venduta per 6.325.000 $ (4.671.000 di euro) cifra che potrebbe sembrare relativamente modesta (per gli standard di Koons!) mentre, in realtà, questo lavoro eseguito nel 2003, è solo il numero 3 di una edizione di tre copie più una prova d’artista, vale a dire un valore complessivo di 25 milioni. Piatto ancora più ricco per una fotografia del piccolo Jeff che, evidentemente, già allora si dilettava di arte e sapeva mettersi in posa diligentemente per il fotografo. “The new Jeff Koons” del 1980, duratrans (stampa su display retroilluminato) in light box fluorescente, dimensioni 103x78x20 cm, lavoro unico valutato dalla casa d’aste 2,53,5 milioni di dollari, è stato venduto a 9.405.000 $ (pari a 6.943.000 euro). A parte il prezzo decisamente esagerato - il triplo della somma stimata dal venditore! - si può constatare che anche i milionari USA soffrono di buoni sentimenti perché davanti alla foto di un dolce bimbo americano, ben pettinato e con collettino stirato, non sanno resistere e mettono mano al libretto degli assegni. In compenso, nonostante sia una fotografia - per definizione riproducibile all’infinito - la stampa è stata tirata in un unico esemplare e tanto basta a spiegare i quasi nove milioni e mezzo esborsati. 35
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Novembre 2013, Anno 2 - N.11
MERCATO DELL’ARTE ? milioni di dollari (32,52 milioni di euro) stabilendo il record assoluto per il lavoro dell’artista. Il quadro realizzato nel 1953, un quadrato blu di circa tre metri per tre, tagliato a metà da una riga bianca verticale, è considerato una delle più importanti della corrente all’interno dell’Espressionismo astratto del “color field paintings”. “Onement VI” è stata al centro di un’accesa gara al rialzo tra sei compratori e alla fine ad avere a meglio è stato un acquirente italiano che, si dice, sia Miuccia Prada. Il collezionista privato ha pagato la tela di Newman oltre 21 milioni di dollari in più rispetto al precedente record di vendita dell’artista stabilito solo un anno fa da “Onement V”, battuto per 22,4 milioni di dollari nel 2012. “Onement VI” del 1953, è l’ultimo di una serie di sei pezzi, chiamata “Onement” e realizzata da Newman a partire dal 1948. Tutta la serie è caratterizzata dalla caratteristica sottile striscia verticale detta ‘zip’ (cerniera) che corre lungo la metà della tela e che, tra l’altro, contraddistingue la quasi totalità della sua produzione, la cui funzione è quella di dare la scala del lavoro e di fungere da contrasto con il campo del colore. Dopo aver iniziato con dipinti di dimensioni piccole o normali, Newman, sulla falsariga di altri Espressionisti astratti, movimento di cui era membro (nonostante lo stile rigidamente geometrico e anti espressionista), è andato orientandosi verso opere sempre più grandi fino a realizzare nel 1953 “Vir eroicus sublimis” (vedi a destra), una tela di 5 metri e mezzo, con l’intento di produrre il massimo impatto e il coinvolgimento totale dello spettatore.
BARNETT NEWMAN (1905-1970), Onement VI, 1953, olio su tela, 259x305 cm. Stima 30.000.000 - 40.000.000 $, venduto a 43.845.000 Sotheby’s New York. Nel corso dell’asta “Contemporary art evening auction” svoltasi a New York a maggio, il top price della vendita è stata la grande tela dell’artista americano Barnett Newman, dal titolo “Onement VI” che è stata aggiudicata per 43,84
A destra: Vir eroicus sublimis, 1950, olio su tela, 242x541 cm
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BARNETT NEWMAN La storia del pittore americano Barnett Newman, figlio di immigrati ebrei polacchi, nato nel 1905 a New York e morto nel 1970, è anomala nel panorama dei pittori statunitensi del dopoguerra. Dopo gli studi d’arte e una laurea in filosofia, Newman si dedica ad attività varie come pubblicista sindacale, scrittore di recensioni, curatore di mostre, critico, tentando contemporaneamente la via dell’arte con risultati mediocri. Diventa amico di Adolf Gottlieb, conosce Mark Rothko, ed entra in contatto con la galleria Betty Parson con cui collabora organizzando mostre di Rothko, Gottlieb, Jackson Pollock, Clyfford Still, Teodoros Stamos e altri. Dopo le prime modeste esperienze artistiche Barnett comincia a fare arte dal 1944 e nel 46 partecipa alla sua prima esposizione alla Parson, a cui farà seguito, nel 47, quella degli otto artisti della scuderia. Nel 1948 dipinge “Onement I” che egli ritiene un importante passo avanti; scrive anche un saggio “Il sublime è ora” in cui teorizza la nascita di una pittura americana liberata dal peso della cultura europea. Nel 1950 la sua prima personale alla galleria Parson ottiene giudizi critici totalmente negativi. Lo stesso anno è nel gruppo di diciotto artisti
newyorkesi detti “Gli irascibili”, che contestano la mostra al MOMA alla quale non erano stati invitati e che diverranno i futuri Espressionisti astratti. Nel 51, ha luogo la seconda personale alla Parson dove espone “Vir Heroicus Sublimis” ma i critici condannano la mostra, i dipinti non vendono e Newman si ritira dall’attività della galleria. Fino al 55 non espone più e, dato che non vende quasi nulla, è mantenuto solo grazie al lavoro d’insegnante della moglie. Newman non esegue alcun dipinto durante il 56 e il 57. Nel 56 un collezionista, su suggerimento di Pollock, acquista due dipinti, “Adamo” e “La Regina della Notte” per $ 3.500. Nel 58 quattro sue opere sono esposte al MOMA e Newman viene invitato in alcune mostre itineranti; nel 59, il museo di Basilea e poi il MOMA, acquistano un suo quadro dando inizio alla sua futura carriera. Con la nascita della corrente minimalista, la sua pittura riceve un forte impulso fino a diventare un modello per i giovani artisti americani. Oggi, i quadri che nessuno voleva, caratterizzati da un’assoluto azzeramento del linguaggio grazie alle campiture piatte monocromatiche attraversate da sottili linee verticali, sono diventati le nuove icone dell’arte contemporanea.
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Dicembre 2013, Anno 2 - N.12
MERCATO DELL’ARTE ? e Ben Shahn, e lavorato in un gruppo di artisti che annoverava Robert Rauschenberg e Jasper Johns, nel 59 trasferisce stabilimente a Roma. In Italia comincia a lavorare su larga scala e si distanzia dal suo precedente stile espressionista anche se il 70% del suo mercato rimaneva americano, pur avendo anche un discreto successo in Francia. E’intrigante il fatto che Twombly abbia lavorato fino al 53 nell’esercito come crittologo (decifrazione di codici) e come questa esperienza abbia lasciato una impronta sul suo stile pittorico connotato da veri e propri scarabocchi. E’ stato scritto che molte delle sue opere di pittura più note dei tardi anni cinquanta e primi anni sessanta, anche se potrebbe non sembrare molto qualificante “ricordano i graffiti accumulati in anni sui bagni dei gabinetti”. A partire dai tardi anni Sessanta il suo stile raggiunge una sintesi estrema ripetendo dei semplici gesti circolari che ricordano delle ”e” tracciate in corsivo su una lavagna (vedi opera a sinistra con dettaglio). A questo punto abbandona la pittura come rappresentazione, citando la linea o macchiando ogni segno con la sua propria storia, come soggetto a sé. Picasso spiegava: «A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino»,
CY TWOMBLY (1928 - 2011) “Untitled”, 1971, colore da muro e pastello a cera su carta 52x36.5 cm, firmato e datato giugno 71 sul retro Stimato da Sotheby’s 1.200.000 - 1.500.000 $ e venduto nel maggio 2013 a 2.285.000 dollari. Cy Twombly, il cui vero nome era Edwin Parker, considerato uno dei pittori statunitense più importanti (ha ricevuto il Premio Imperiale nel 1996), è scomparso nel 2011 a Roma. Dopo aver studiato arte negli anni cinquanta a New York con Franz Kline, Robert Motherwell
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CY TWOMBLY
Twombly ha lavorato tutta la vita per arrivare questo innocenza mentale primigenia fino a raggiungere la riduzione quasi assoluta del linguaggio. Questo processo di semplificazione esasperata degli anni 70 manca però della poesia e della magia appartenente alla sua produzione successiva e rimanda un’impressione di una gestualità automatica volutamente elementare ma anche eccessivamente banale. Ciononostante il mercato sembra premiare “senza se e senza ma”, qualsiasi sua opera, anche i piccolissimi disegni su carta. Nonostante la lunga attività, il suo riconoscimento internazionale avviene molto tardi, quando nel 2001 Twombly, già settantenne, è premiato alla Biennale di Venezia per l’imponente ciclo “Lepanto” composto da dodici grandi tele (vedi sopra, Lepanto VII). Le sue opere posteriori al 2000 sono quelle che, finora, hanno ricevuto un pieno e meritato successo a dispetto del distacco con cui vennero accolte quelle della prima parte della sua carriera.
Le quotazioni del pittore, però, non sono decollate fino al 2004, anno in cui la mostra “50 years of drawing” ha permesso all’artista di totalizzare prezzi milionari mentre il suo top price è stato aggiudicato nel 2013 ad un’asta di Sotheby’s New York con 15.397.000 $ pagati per “Bolsena” del 1969, colore da muro, matita e pastello su tela di cm 200x240, confermando la preferenza per le opere dei tardi anni ’60. Twombly è anche recentemente salito agli onori della ribalta italiana dopo la sua scomparsa per i problemi sorti tra il figlio e la Fondazione Cy Twombly di New York relativi alla divisione dell’eredità ammontante a 1 miliardo e duecento milioni di dollari e per un’accusa di evasione delle imposte per ottanta milioni di euro incassati dalla vendita di quaranta pezzi. L’enormità delle cifre di cui si parla spiega bene le possibilità di arricchimento offerte ai pittori contemporanei che si motivano anche con la contestuale velocità e facilità di produzione di grandi numeri di pezzi. 39
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Gennaio 2014, Anno 3 - N.1
MERCATO DELL’ARTE?
Buone nuove per gli artisti sperimentalisti, cioè tutti coloro i quali sono alla ricerca di formule nuove per forzare i codici linguistici ed espressivi canonici sperano di sfondare nel mondo dell’arte o, quanto meno, del mercato alto. Dan Colen, di cui si era già scritto nel numero di FIDAart del agosto 2013 ricordando lo strabiliante prezzo di 305mila dollari battuto da Sotheby’s per una sua opera piuttosto particolare perché realizzata semplicemente con delle chewing gum appiccicate alla tela, evidentemente è piaciuto ai collezionisti americani che hanno voluto premiarlo. Un suo quadro del 2008 (vedi sopra), “53RD & 3RD” in chewing gum su tela delle dimensioni di 152x240 cm è stato venduto all’asta per 1.085.000 $. Avete letto bene: un milone di dollari per un’opera eseguita con qualche migliaio di cicche da masticare multicolori pazientemente attaccate e spiaccicate fitte fitte. Qualcuno potrebbe
obiettare che non è molto peggio, o addirittura, è molto meno truculenta delle laide performance realizzate con sangue vero da Herman Nitch, e probabilmente avrebbe ragione. Altri potrebbero pensare che non c’è una grande differenza con i rifiuti ospedalieri esposti da Damien Hirst o con le plastiche colorate recuperate nelle immondizzie da Tony Cragg (in realtà, entrambi grandi creatori di idee e di forme) e, forse, le loro perplessità non sarebbero così infondate. Il fatto è che, mentre il rifiuto urbano possiede una sua “tragicità” - la crisi della civiltà occidentale, il consumismo, l’ecologia ecc.- la chewing gum, è solo una caccola profumata e un po’ schifosetta impregnata di saliva con impressi i calchi dentari dei maleducati che la gettano per strada, e che possiede la spiacevole particolarità di incollarsi irrimediabilmente alla suola delle nostre scarpe.
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DAN COLEN e CHRISTOPHER WOOL Un’altra new entry è il quadro di Christopher Wool, pittore in bianco e nero di cui si è già parlato su un numero di FIDAart sottolineando come un suo “sintetico” dipinto a smalto con gli stencil, “And if” del 1992, su pannello di alluminio di 135x90 cm, avesse raggiunto la non disprezzabile cifra di 4.085.000 dollari. Lo stile di Wool, pur risultando immediatamente riconoscibile - caratteristica molto positiva per un artista - non sembrava possedere caratteristiche tali da motivare l’importo esborsato dal compratore. Come al solito, ci sbagliavamo applicando categorie desuete al mercato dell’arte il quale, evidentemente, segue logiche raffinate quanto incomprensibili (o quasi). Lo smacco è arrivato con l’asta di Christie’s di novembre quando un altro quadro di Wool, “Apocalypse now” del 1988 (vedi a lato), sempre in smalto su alluminio, delle dimensioni 213x183 cm e stimato dai 15 ai 20 milioni, è stato venduto per 26.485.000 dollari, vale a dire 19.366.000 euro. Una tale somma potrebbe sembrare un tantino esagerata per questa simpatica opera anche perché, volendo rimanere nel settore dell’arte, i conti non tornano se solo si fa il confronto con aste di quest’anno in cui quadri di piccole-medie dimensioni di Renoir, Degas, Cézanne e altri grossi nomi sono stati pagati prezzi, questi sì inspiegabili. (vedi sotto) Ora, qualcuno potrebbe pensare che sia una vergogna che delle tabelle con frasi più o meno idiote dipinte con lo stencil da un uno pittore (vivente) siano pagate 17-24-31 volte più dei quadri di Maestri dell’Impressionismo che hanno cambiato la Storia dell’arte moderna. Forse, non tutti i collezionisti ameranno le intimistiche immagini di vita dell’800, ma è difficile immaginarsi affascinati o anche solo assorti davanti ai “dipinti” di Wool (a meno che non si pensi al loro prezzo). La spiegazione dell’apparente incongruenza sta proprio nell’aggettivo “vivente”, cioè un artista in grado di produrre molte altre opere sinché vive e che, opportunamente ‘spinto e valorizzato da qualche sponsor’, sia in grado di far fronte - velocemente - a tutte le nuove richieste di un mercato internazionale. Un po’ come la gallina dalle uova d’oro che deve arricchire l’allevatore, pardon, il gallerista.
P. AUGUSTE RENOIR, “Le repos” 1895, pastello su carta, 44x56 cm Venduto 2013 a 1.565.000 $
EDGAR DEGAS, “Femme se pegnant” 1889 pastello su carta, 49x38 cm Venduto 2013 a 1.085.000 $
PAUL CÉZANNE, “Paysage du midi” 1865, olio su tela, 24x38 cm Venduto 2013 a 845.000 $
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Febbraio 2014, Anno 3 - N.2
MERCATO DELL’ARTE ? della comunicazione, del mercato, dello spettacolo e del merchandising. Amato da molti, odiato da altri, è stato definito furbo imbonitore o cinico inventore di mostruosità ma, dopo un ventennio, rimane l’artista vivente più conosciuto al mondo. Hirst è un 48enne inglese che, dopo un’adolescenza ribelle (è stato arrestato due volte per taccheggio), è riuscito ad indirizzare la sua vena asociale su un’attività creativa. Da giovane ha svolto uno stage presso un obitorio (vedi sotto la sua foto con testa di morto del 1991, da lui messa all’asta per 400-600 $) ed è probabile che quell’esperienza abbia influenzato la sua visione della vita. Figlio dello humor nero anglosassone, erede del pessimismo di Bacon e vittima di una vita sregolata, Hirst è stato a lungo ossessionato da tutto quanto attiene alla morte, alla fisiologia, al corpo, alla malattia, alla medicina, come dimostrano i temi trattati in quasi tutte le sue opere. Certo, molte sue opere non sono per stomaci deboli: ad esempio, tutto il ciclo “Natural history” composto da animali di vari generi, segati, squartati, sezionati ed esposti sotto formalina, non lascia indifferenti. A parte il suo celebre squalo tigre dal titolo “L’impossibilità fisica della morte nella mente di qualcuno che vive”, (vedi in basso a destra) acquistato da Saatchi nel 92 per 50mila sterline e rivenduto nel 2004 per 6,5 milioni di sterline, la casisti-
DAMIEN HIRST, “For the Love of God” (Per l’amor di Dio), 2007. Teschio umano con denti veri, un Memento Mori, ricreato in platino e decorato con 8601 diamanti purissimi: l’opera più costosa del mondo. Messo all’asta nel 2008 è stato acquistato per 100 milioni dollari da un consorzio di cui faceva parte Hirst stess). L’artista contemporaneo più prolifico, provocatore, imprevedibile ed eccessivo di questo ultimo ventennio è sicuramente lui poichè le sue opere hanno sempre scandalizzato e fatto discutere pubblico e critica, sia per i contenuti scabrosi che per i metodi disinvolti. Dopo la scomparsa di Warhol, nessun altro ha saputo muoversi con tale spregiudicatezza e profitto economico tra le maglie dell’arte, della cultura,
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DAMIEN HIRST
ca delle bestie esposte è particolarmente vasta e sconvolgente. La sua prima installazione alla “Young British Artists” del 1990, “A Thousand Years”, era una testa di bue mozzata in putrefazione, avvolta da larve e mosche vive, mentre i quadri “Fly paintings”, sono costituiti da un fitto tappeto di mosche morte. Anche i suoi affascinanti “Caleydoscope paintings”, in fondo, sono composti da migliaia di splendide ali di farfalle o di luminescenti scarafaggi morti. Se lo scopo dell’artista è di descrivere l’angoscia per l’inevitabilità del ciclo nascita-morte (nostra e degli animali): l’obbiettivo, seppur con metodi poco ortodossi, è stato centrato. Un’altra sua caratteristica è la grande capacità di spaziare in tutti i campi dell’arte: dalla pittura alla grafica e alla fotografia, dalla scultura alle installazioni di ogni tipo, con un approccio inno-
vativo e creativo che gli ha permesso di esplorare in modo completamente privo di limiti, temi difficili o soft (vedi sopra), ma sempre con un suo stile molto personale. Hirst è anche l’inventore della “produzione artistica industrializzata” grazie ai suoi assistenti (sembra sia arrivato a 120) che hanno realizzato materialmente quasi tutte le 4800 opere che dichiara di aver creato nella sua vita. Anche questo suo sistema è stato molto criticato perché è assente l’intervento - la mano - dell’artista, il quale si limita ad apporre la sua firma sul lavoro altrui ma, dopo Duchamp e i suoi eredi, la polemica sembra datata e pretestuosa . Quale sarebbe, infatti, la differenza tra l’esporre un orinatoio, le lenzuola sudicie di Rauschemberg, i resti di un pasto di Spoerri o il pescecane di Hirst?
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Marzo 2014, Anno 3 - N.3
MERCATO DELL’ARTE ? apprezza i piccoli dipinti) eseguito ad olio su tela. La stima della casa, compresa tra i 15 e 20 milioni di dollari, già molto superiore agli standard del pittore, è stata addirittura superata raggiungendo i 20.885 mila dollari pari a 15,118 milioni di euro (quasi trenta miliardi delle vecchie lire). Dopo questa asta Lucio Fontana si situa di diritto nella fascia dei top-price composta da pochi nomi internazionali poiché il mercato americano, culturalmente e commercialmente autoreferenziale, tende a privilegiare e premiare con prezzi assolutamente sproporzionati i propri artisti, sia scomparsi che viventi. La sua ricerca linguistica, però, si situa oltre i pittori dell’Espressionismo astratto, in quanto al contrario di Pollock che eseguiva la sua “action painting” rimanendo nella superficie della tela, Fontana che trova nel Futurismo la sua radice, si pone il problema di come sfondare la superficie dello spazio e connetterla con il tempo. Cos’altro è la sua invenzione dei “buchi” e dei “tagli“ se non il tentativo di superare l’ostacolo piano, a due dimensioni, della tela per arricchirla della profondità, la terza dimensione, come se fosse creta o un materiale morbido da poter scavare, bucare o tagliare? Non a caso, questo interesse poteva venire solo ad uno scultore che aveva una visione spaziale della forma oltre che una lunga dimestichezza con una materia plastica come la creta, da lui sapientemente lavorata in ridondanti forme barocche. Fontana apprende la scultura dal padre e poi studia con Adolfo Wildt, scultore simbolista di algide forme marmoree, anche se mantiene il suo amore per il Barocco, uno stile che parrebbe non avere nulla ha che fare con le sue future opere pittoriche. Attraversando le forme barocche degli anni Trenta e quelle astratte degli anni Quaranta approda al massimo equilibrio dei tagli e dei
LUCIO FONTANA (1899-1968), "Concetto spaziale, La fine di Dio", 1963, olio, squarci, buchi e graffiti su tela, 178x123 cm, Christie’s Stima pre asta: 15-20 milioni dollari, prezzo realizzato: 20.885 mila dollari. Una buona notizia per il mondo dell’arte moderna italiana: all’asta di Christie’s svoltasi a New York nel novembre dell’anno scorso, tra le molte opere battute a prezzi record appare, finalmente, ai livelli più alti quella di un artista italiano, o meglio, italo-argentino, Lucio Fontana, maestro riconosciuto dell’Informale, fondatore dello Spazialismo e padre radicale delle avanguardie. Si tratta di uno dei suoi “ovali” di grandi dimensioni (il mercato americano non
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LUCIO FONTANA buchi che fanno di lui l’ultimo artista della classicità. Fontana ha realizzato oltre 5500 opere che, nell’arco di cinquanta anni di attività, è un numero enorme se si pensa che, ad esempio, Vermeer ha eseguito 36 dipinti in tutta la sua vita. Anche in ciò si può constatare come sia andata modificandosi l’arte con il passaggio dal primato della maestria tecnica e artistica (che, però, Fontana possedeva), al primato dell’idea e del concetto come garanzia di modernità. E’ per questa ragione che Fontana conta numerosissimi falsi: un suo “taglio”, infatti, è facilmente riproducibile e, se non fosse per le improbabili scritte che il pittore apponeva di sua mano sul retro delle tele, i falsi sarebbero ancora di più. Però, contrariamente a molti artisti che tendono a ripetere se stessi, egli è rimasto fino alla fine uno sperimentatore dotato di una inventiva inarrestabile che ha indagato in modo assolutamente libero tutte le forme artistiche. Già nel 1948, nella seconda stesura del Manifesto dello Spazialismo, ribadiva l’esigenza di superare l’arte del passato, facendo “uscire il quadro dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro” e anche di “produrre nuove forme d’arte utilizzando i mezzi innovativi messi a disposizione dalla tecnica”. Nel 1949 approfondisce la ricerca spaziale con l’avvio del ciclo dei “Buchi”, opere pittoriche dove all’intervento cromatico vengono aggiunti “vortici” di fori eseguiti con un punteruolo. Nel 1958 - a quasi sessanta anni - nasce il ciclo dei “Tagli” caratterizzati da tagli netti e precisi sulla superficie della tela, inizialmente dipinta con aniline e, successivamente, con idropittura. I tagli si presentano in fitte sequenze tendendo poi a ridursi a pochi o ad essere addirittura unici, con una garza nera che ne chiude sul retro la luce. I “Tagli” di Fontana sono tra le opere
LUCIO FONTANA: “Cavallo”, 1936, ceramica smaltata, 51x52x33 cm
più riconoscibili dell’arte mondiale e ciò è uno dei motivi per cui, dopo essere stati bersaglio di critiche ferocissime, oggi sono ormai assurti al ruolo di icone del moderno. Dall’inizio degli anni Sessanta, Fontana si concentra sulla serie degli “Olii”, opere su tela dove lo spesso strato del colore a olio, materia pittorica plasmabile, è inciso, attraversato da buchi o lacerazioni. Il ciclo delle sue “La Fine di Dio” (1963-1964), invece, comprende opere realizzate tutte su telai ovali della stessa dimensione (178x123 cm) che si distinguono per le costellazioni di buchi, squarci, graffiti che interessano parte o tutta la superficie della tela ricoperta di colore ad olio monocromo. Questa serie di lavori è stata chiamata “La fine di Dio” da Fontana che così le spiega: “Per me significano l’infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla”. 45
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Aprile 2014, Anno 3 - N.4
MERCATO DELL’ARTE ? tannica. Se e quanto abbia pesato questa sua parentela con ifondatore della teoria sulla centralità delle pulsioni sessuali nei comportamenti umani, non si sa, lo si può solo ipotizzare vedendo la centralità del sesso sia nella sua vita irrequieta e che nella sua pittura. Lucian Freud, infatti, sembra non si sia fatto mancare nulla in un ansia onnivora o si può dire, psicotica, se sono veri i gossip fioriti sulla stampa dopo la sua scomparsa, sulle sue 500 avventure “amorose” e presunti 40 figli. Freud a 20 anni ottiene la sua prima personale e già a 32 espone alla Biennale di Venezia. Grande amico di Francis Bacon, suo modello di pittura e di vita bohémien borderline, dopo essersi frequentati quotidianamente per numerosi anni, si distaccano diventando rivali. Agli inizi della sua carriera sono evidenti i riferimenti alla pittura realista della Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività) nei suoi ritratti “analitici“ caratterizzati da occhi esageratamente grandi in volti smarriti, malinconici, spaesati, come se avesse la necessità di cogliervi l’anima. (vedi pag. 29-30). Pittore ad olio tradizionale da cavalletto lavora solo nel suo studio con il modello impiegando mesi per concludere le tele e per questa ragione, nonostante la lunga carriera e le dimensioni spesso ridotte, i quadri eseguiti sono pochi e rari. Nel 1954 l’artista cambia la sua tecnica pittorica: non dipinge più seduto con sottili pennelli di pelo di martora ma passa a pennelli con peli grossi di maiale che meglio si adattano al nuovo stile più pastoso e spontaneo dotato di un’intensa carica espressiva. Progressivamente il pittore sposta il suo interesse dall’analisi della personalità del soggetto all’analisi della sua “carnalità” con un interesse quasi ossessivo verso una sessualità esibita ma
LUCIAN FREUD (1922-2011), "Head on a green sofa", 1960-61, olio su tela, 61,5x61,5 cm, Sotheby’s - Londra, 12 febbraio 2014. Stima base di 2,5-3,5 milioni di GBP; venduto a 2.994.500 sterline, pari a 4.939.800 dollari (3.591.000 Euro). La “testa” raffigurata è di Lady Lambton, amica e amante storica di Freud. Con Lucian Freud è scomparso nel 2011 l’ultimo dei pittori figurativi classicisti del secondo ‘900. Ebreo tedesco, figlio dell’architetto quartogenito del celeberrimo Sigmund, all’avvento del nazismo nel 33, fugge con la famiglia a Londra dove, poco dopo, prenderà la cittadinanza bri-
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LUCIAN FREUD non sensuale, poiché osserva che “senza vestiti gli esseri umani rivelano i loro istinti e desideri di base”. Per questa sua capacità di rappresentare i corpi umani nudi colti in posture che qualcuno potrebbe ritenere oscene con una crudezza che rasentava la crudeltà, quasi fossero nature morte oppure studi scientifici, è stato definito il “pittore della carne”. Particolare anche la sua cura per i tessuti: “Quando dipingo gli abiti, in verità dipingo figure nude coperte di vestiti”. I soggetti dei suoi dipinti sono limitati: donne e uomini, molto spesso nudi, con una presenza costante dei suoi cani. Quando dipinge i corpi dei suoi nudi maschili e femminili, con la loro fisicità imperfetta, la loro “animalità”, egli ricerca l’emblema stesso della natura umana, l’intima essenza del soggetto ritratto. Come un entomologo allestisce un repertorio di corpi, nudi o vestiti, di tutte le forme e tutte le età, ognuno però studiato secondo un impianto compositivo classico che recupera la lezione della ritrattistica dei grandi maestri del passato.
Freud si è esibito anche in ritratti non edulcorati di persone celebri come la bella modella Kate Moss (vedi pag. 28) oppure la regina Elisabetta la quale, con il tipico understatement, ha coraggiosamente accettato di farsi raffigurare da un pittore non proprio “accademico”. Nel suo autoritratto del 1993, eseguito all’età di 71 anni (vedi pag. 31), egli dipinge il corpo completamente nudo di un vecchio in piedi, a parte gli stivali senza lacci, guardando se stesso nello specchio in modo impietoso, o forse, come sua consuetudine, solo lucido e oggettivo: un vero e proprio testamento artistico. “Ora il minimo che posso fare è dipingere me stesso nudo ... hai il modo di provare a dipingere te stesso come un’altra persona. Con gli autoritratti la ‘somiglianza’ diventa una cosa diversa“. L’opera di Lucian Freud fino ad oggi più pagata è quella di una delle sue modelle preferite (vedi sotto) battuta nel 2008, quando era vivente, da Christie’s a New York per 33,640 milioni di dollari (24.420 mila Euro). LUCIAN FREUD: “Benefits Supervisor Sleeping”, 1995, olio su tela, 151,3x219 cm
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Maggio 2014, Anno 3 - N.5
MERCATO DELL’ARTE ? Di lui si sa poco: ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Bologna (un anno), e prima di arrivare al successo ha svolto numerosi lavori tra cui, dice lui, quello di becchino, il che spiegherebbe la sua onnipresente ossessione per la morte. I temi delle sue apparentemente ironiche installazioni, infatti, sono in gran parte incentrati sul concetto della morte come nel caso dei bambini impiccati, dello scoiattolo suicida “Bidibidobidiboo” (vedi pag. 34), del cavallo infilzato dalla scritta INRI, della fila di salme scolpite nel marmo ecc. Oppure, se non sono palesemente morti, sono rappresentati in posture ridicolmente tragiche: cavalli piantati con la testa nella parete, sospesi in aria, scheletri sovrapposti di animali; il suo repertorio di animali imbalsamati rimanda sempre ad una fine senza senso e senza speranza. Un altro tema che ritorna spesso nelle sue opere, ovviamente rivisitato in chiave provocatoria o polemica, è quello della religione cattolica e dei suoi rappresentanti, da lui evidentemente poco amati, come dimostra l’iconoclastica installazione “La nona ora” in cui Papa Woityla è abbattuto da un meteorite che ha sfondato il lucernario (vedi a pag. 32). Forse il cinquantatreenne Cattelan ha subìto nell’infanzia qualche trauma nei suoi rapporti con la Chiesa. Molte altre installazioni possiedono contenuti religiosi, sociali e politici espliciti, ad esempio il manichino di Hitler inginocchiato mentre sta pregando oppure uno dei suoi interventi più dissacranti ma di grande qualità estetica, un vero e proprio monumento classico, “L.O.V.E”, la mano in marmo bianco di Carrara con tre dita troncate e il medio dritto, innalzata nel 2010 davanti alla Borsa di Milano (vedi pag. 21). Mai come in questo caso, un’opera d’arte parla più di mille parole.
MAURIZIO CATTELAN (1960), UNTITLED, 2001, Sotheby’s New York, maggio 2010, cera dipinta, capelli e abbigliamento. Altezza figura: 59 cm (dentro 150 cm). Numero 3 di un’edizione di 3 più una prova d’artista. Stimato 3.000.000 - 4.000.000 $ è stato venduto a 7.922.500 dollari (5.7264 mila €). NB Questa improbabile “scultura-autoritratto” richiede che si debba realizzare un foro di cm 60x40 nel pavimento dove alloggiarla. Maurizio Cattelan è, oggi, l’artista italiano vivente più conosciuto grazie alle sue sapienti strategie comunicative e anche il più pagato a livello internazionale. Le sue opere concettuali molto particolari hanno raggiunto cifre considerevoli e, seppur non caratterizzate da quella facile ripetitività che piace al mercato, ripropongono sempre un suo “stile” del tutto personale inventato e portato avanti fin da 1991, quando presentò “Stadium”, un lunghissimo calcio balilla per 22 giocatori. Da allora, ha sempre ha fatto della provocazione e dello sberleffo la sua cifra, ben cosciente che, nella società delle comunicazioni, l’arte è comunicazione e la comunicazione è un’arte.
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MAURIZIO CATTELAN Una frase dell’artista, d’altronde, chiarisce bene la sua filosofia: “Non ho mai fatto niente di più provocatorio e spietato di ciò che vedo tutti i giorni intorno a me. Io sono solo una spugna. O un altoparlante”. Cattelan è ben conosciuto anche a Trento dove, insignito nel 2004 della laurea ad honorem in sociologia, non si presentò all’Università ma mandò in sua vece un asino imbalsamato dal titolo criticamente autoironico “Un asino tra gli asini”. A parte le tele tagliate con la Z di Zorro con cui rifà il verso al “taglio” di Fontana, non si conoscono altre su opere pittoriche, il che, oltre a confermare i molti dubbi sulle sue capacità artistiche (non so disegnare, dichiara), lo incorona come il vero prototipo dell’artista contemporaneo: un produttore di pure idee la cui esecuzione concreta è delegata ai collaboratori. Nel corso di 25 anni di attività ha utilizzato per le sue sculture scenografiche un variegato “bestiario” composto da un’ampia gamma di
animali piccoli (topi, lepri, piccioni, gatti, cani) e grandi (cavalli, asini, struzzi, vacche), sia tassidermizzati che in materiali sintetici, nonchè di persone varie e bambini meccanizzati simili a degli automi dalle espressioni inquietanti. Stranamente, invece, in un’unica sua opera, “Stephanie” (vedi a pag.35,) una via di mezzo tra una polena e un trofeo di caccia da parete, è riscontrabile una componente sessuale esplicita. Coerentemente con tutta la sua storia, Cattelan ha fatto ritirare il suo Premio Alinovi-Daolio, dai due comici de I soliti idioti travestiti da preti, provocando le ire della giuria la quale non ha apprezzato il comportamento che era la motivazione stessa del premio: «Aver adottato il precetto di base dell’arte concettuale, che invita a inventare le occasioni nella mente, come brillanti, provocanti, sconvolgenti pensieri,...» dimostrando così di non aver capito nulla della sua arte.
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Giugno 2014, Anno 3 - N.6
MERCATO DELL’ARTE ? La vita di Basquiat è stata come una cometa: è apparsa improvvisamente nel cielo e, altrettanto rapidamente si è bruciata quando, dopo vari tentativi di disintossicazione e cure per i suoi disturbi psichici, muore per overdose di eroina a 27 anni. Bambino precoce e dotato ma con difficoltà verso i metodi di apprendimento, parla e scrive in inglese, francese e spagnolo, subisce un grave incidente stradale che lo segnerà nel fisico; dopo il divorzio dei genitori, abbandona gli studi e scappa di casa vivendo alla giornata da solo. Le sue prime esperienze sono come musicista, attore e poi writer (graffitista) nella nascente Street Art raggiungendo una certa notorietà con il nome SAMO. Inizia l’attività artistica vera e propria quando nel 1983 conosce Andy Warhol e riesce ad entrare nella sua Factory, centro della Pop Art, diventando in breve tempo una star di fama internazionale. Accettando e innalzando il figlio di immigrati dai Caraibi - primo e unico artista nero - ai massimi livelli, l’establishment assorbe così i
JEAN-MICHEL BASQUIAT (1960-1988) DUSTHEADS, 1982, acrilico, pastelli a cera, spray, vernice metallizzata, 183x213 cm CHRISTIE’S, 15 Maggio 2013, New York Stima: 25.000.000 - 35.000.000 $ Venduto: 48.843.750 dollari Nel corso dell’asta di Christie’s del 2013, (la più alta nella storia, con vendite per 495 milioni di dollari), Dustheads ha toccato il massimo record per Basquiat: stimata dai 25 ai 35 milioni, è stata battuta a quasi 49 milioni di dollari (35.750.000 Euro) portando questo pittore tra gli artisti più pagati al mondo Nato a Brooklin-New York da padre haitiano e madre portoricana, Jean-Michel Basquiat incarna tutte le caratteristiche del mito americano dell’eroe: giovane ribelle, creativo, bello e sexi, sensibile, famoso ma infelice e, infine, destinato al fallimento o all’autodistruzione. Oggi è un’icona dell’immaginario collettivo come Pollock, James Dean, Jim Morrison, Marylin Monroe, Jimi Hendrix, tutti scomparsi prematuramente e tragicamente.
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JEAN-MICHEL BASQUIAT fermenti politici e culturali di gruppi multietnici antagonistici portandoli nel grande alveo del mercato. Autodidatta, dipinge in modo (volutamente) infantile, primitivo, privo di tecnica, da “artista analfabeta” come si definiva; eppure, sono proprio l’innocenza, l’immediatezza, il tratto elementare e ingenuo, i materiali poveri e di recupero, elementi caratteristici dell’arte Primitiva, dell’Art brut e della Pop art che lo rendono immediatamente riconoscibile. Altra sua invenzione originale è l’uso della scrittura: inserisce nelle tele frasi, numeri, simboli e commenti spesso incomprensibili. Libero dai condizionamenti della cultura, Basquiat elabora un suo personale linguaggio “pop” a metà strada tra il graffito di strada, i cartoons e un primitivismo carico di riferimenti all’arte africana, “dipingendo con la forza di un espressionista tedesco le storie di un giovane nero in un quartiere nero”. Come molti grandi musicisti folk i quali, senza aver studiato e saper leggere la musica, suonano in modo istintivo, intuitivo, ma originale, così nel suo percorso artistico Basquiat ha raccontato la propria vita: la rabbia dei neri d’America, gli eroi afroamericani: Malcolm X, Miles Davis, Cassius Clay, incarnando più di ogni altro lo spirito del tempo nel dare voce alla cultura della strada, alla musica rap, all’Underground, alla vita trasgressiva di New York. Nei suoi dipinti c’è la droga, il sesso, il razzismo, l’emarginazione, la musica, la cultura della strada, l’ingiustizia, i simboli della società di massa: manca solo la gioia o anche solo la serenità. Le figure comico-grottesche di questo ragazzo sono sempre inquietanti e trasmettono un vissuto popolato da mostri e incubi: la morte è sempre presente sotto forma di teschi, scheletri, maschere, zombie e riti voodoo. Una visione
del mondo derivante sia dallo spiritualismo della sua eredità haitiana ma anche, e soprattutto, dalla storia familiare, dalle esperienze personali, dalla perdita dell’amico Haring per AIDS e poi, nel 1987, del suo mentore e maestro Warhol. Nel corso di soli otto anni di attività artistica Basquiat è riuscito a produrre mille dipinti più altri due o tremila lavori su carta. Nel 1988, con la tragica scomparsa, la sua stella si spegneva e anche la sua pittura scompariva dal mercato artistico per un lungo periodo. 51
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Luglio 2014, Anno 3 - N.7
MERCATO DELL’ARTE ? dell’Ovest dove frequenta l’Accademia d’Arte a Düsseldorf fino al 64, anno in cui ha inizio la sua carriera di pittore. Non è facile scrivere in sintesi di Richter perché, nel corso della carriera lunga quasi 60 anni, anche se ha sempre praticato la pittura nel senso classico della parola, ha contemporaneamente sperimentato linguaggi, tecniche e modalità espressive tra loro così diverse che ognuna richiederebbe un capitolo. Le tipologie dei suoi lavori, infatti, comprendono sia dipinti figurativi: paesaggi, nature morte, ritratti, oggetti, persone comuni, città ecc., sia opere astratte, informali o geometriche, e anche qualche esperienza concettuale. Richter ha sempre avuto un punto di riferimento nella fotografia che ha utilizzato fin dagli inizi per realizzare le sue ‘foto-pitture’ definite nella sua prima mostra ‘Realismo capitalista’. Come l’immagine fotografica non crea l’immagine ma si limita a registrarla, così la sua pittura ambisce a diventare una forma di indagine sul mondo, come scrive in alcune note: «La fotografia è l’immagine perfetta. Non cambia; è assoluta e
GERHARD RICHTER (1932) DOMPLATZ, MAILAND (Piazza del Duomo, Milano), 1968, olio su tela, 275x290 cm Sotheby’s, Maggio 2013, New York Stimato 30.000.000 - 40.000.000 $ Venduto a 37.125.000 dollari (27.207.000 €) Le opere di Gerhard Richter, il più celebre artista tedesco vivente, sono stabilmente stimate su valori che vanno dai 20 ai 30 e più milioni di dollari. “Domplatz, Mailand”, una delle sue foto-pitture di città, un grande monocromo grigio a olio eseguito nel 1968, con gli oltre 37 milioni di dollari battuti l’anno scorso a New York, è oggi la sua opera record. Il pittore aveva dichiarato: “La differenza fra i vari grigi mi affascina, il fatto che alcuni siano migliori di altri mi spinge a continuare a realizzare i monocromi grigi”. Nato nel 32 a Dresda e formatosi artisticamente nella DDR nella rigida disciplina del realismo socialista, poco prima della costruzione del muro di Berlino nel 61, scappa nella Germania
Blau, 1988, olio su tela, 300x300 cm
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GERHARD RICHTER autonoma, incondizionata, senza stile. È per me un modello sia per il modo in cui comunica sia per quello che comunica». In molti suoi dipinti, ad esempio nel piccolo olio su tela del 1968 rappresentante una candela accesa nel buio, tema a lungo approfondito, (vedi “Kerze” a pag. 32, battuto per 16.480 mila $) sembra confrontarsi con la grande tradizione ritrattistica, Vermeer in primis. Una particolarità dei suoi quadri è il tipo di finitura dei contorni con una spazzola strofinata sulla pittura ancora umida per ottenere il suo caratteristico effetto sfumato ed evanescente. Verso la fine degli anni ’70 in poi, complice anche l’approfondimento dell’opera di Duchamp, al quale ‘dedica’ nel 1966 “Ema”, ritratto della moglie che scende le scale (vedi pag. 35), Richter comincia a sperimentare anche l’astratto. Interessanti, a questo riguardo, le sue motivazioni: «Sono sempre stato affascinato dall’“astrazione”: è così misteriosa, come una terra inesplorata. Essendo cresciuto nella Germania dell’Est, effettivamente pensavo che fosse solo spazzatura, che i dipinti astratti non avessero senso». L’artista perviene ad una sintesi di tutti i momenti precedenti con gli “Abstraktes bild”, dipinti astratti spesso monumentali (vedi “Blau”, venduto nel 2014 per 28.725mila.$), ottenuti sovrapponendo strati di diversi colori in pasta sulla tela, poi trascinati e impastati in successivi passaggi mediante lunghe lamine, per ottenere superfici fiammate e striate policrome. «Voglio essere neutrale, che è l’antitesi dell’essere ideologici» dichiara, ed è proprio per questa ragione che sceglie di non incasellarsi dentro un unico schema espressivo e che lo porta ad eseguire le Tavole di colori ispirate dai campionari commerciali delle tinte, dove l’ordito del-
le composizioni composto da centinaia di rettangoli colorati casualmente è analiticamente rigoroso e l’uso di smalti industriali conferisce autoreferenzialità al colore stesso che diventa il vero soggetto dei quadri (vedi “1024 Farben” a pag. 34). L’ultimissima produzione richteriana vede addirittura l’artista alle prese con la riformulazione digitale dei suoi quadri astratti precedenti a dimostrazione del suo sperimentare senza limiti sulle infinite possibilità creative offerte dalle tecniche pittoriche. Se in passato è stato visto da qualcuno come artista manierista o eclettico, oggi Gerhard Richter è riconosciuto tra i grandi pittori contemporanei proprio per il suo essere sempre rimasto fedele al principio di lealtà verso la pittura e, anche, per aver sempre privilegiato quell’ideale di bellezza fuori dal tempo e dalle tendenze che viene definito ‘classico’. S. mit kind, 1995, olio su tela, 41x36,5 cm
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Agosto 2014, Anno 3 - N.8
MERCATO DELL’ARTE ?
ANDY WARHOL (1928-1987) SILVER CAR CRASH, 1963, serigrafia, vernice spray color argento su tela, 267x417 cm Sotheby’s, novembre 2013, New York Venduto per 105.445.000 $ (77.465.200 Euro) il dipinto conferma Warhol ai vertici degli artisti più valutati al mondo. A pagare questa cifra record è stata Alice Walton, ereditiera dei negozi Walmart, catena nota per sottopagare i dipen-
denti (paghe 30% inferiori alla media). “Silver car crash” è una monumentale serigrafia la cui metà di sinistra è composta da quindici fotografie in bianco e nero dello stesso incidente stradale, rielaborate e accostate disordinatamente in modo seriale per creare un senso del tragico, mentre la metà di destra è interamente dipinta in color argento. Il ciclo di questi dipinti di “Morte e disastri” in cui l’artista lavora su fotografie tratte dai giornali riguardanti incidenti tragici, tumulti razziali o sedie elettriche, è ritenuta da molti la parte più significativa della sua opera. I genitori di Warhol erano due emigrati cecoslovacchi di fede bizantina-cattolica: il padre, arrivato a Pittsburg nel 1914 (la madre lo seguì nel 21) lavorava in una miniera di carbone e morì quando Andy, nato nel 1928, aveva 13 anni. Da bambino, spesso malato, isolato e costretto a letto, raccoglieva le immagini delle stelle del Andy Warhol, Autoritratto da ‘drag queen’
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ANDY WARHOL gior parte delle opere risultano composte dalle sue famosissime serigrafie basate su immagini raffiguranti i soggetti più vari e imprevedibili. Warhol, infatti, amava fotografare con la sua Polaroid qualsiasi cosa e, soprattutto, le persone famose che frequentava creandosi nel corso degli anni un importante archivio di ritratti di attrici, politici, cantanti, sportivi, belle donne e uomini (tra cui sè stesso) e celebrità varie a cui attingeva per le sue creazioni. Questa sua attitudine eccezionale a cogliere le immagini più potenti del suo tempo lo definisce come il pittore che meglio ha raccontato e interpretato la storia americana del 20° secolo. Celeberrimi i suoi ritratti di Marylin Monroe definita “bella, volgare e straziante”, eseguiti nell’agosto del 1962, poco dopo che l’attrice si era suicidata. Ad oltre cinquant’anni da quei dipinti Warhol è considerato l’artista più rappresentativo del secondo ‘900 perché presente, consciamente o non, nel vissuto e nell’immaginario collettivo e per aver posto le basi di gran parte dell’arte del suo e del nostro tempo. Le sue idee, infatti, continuano a condizionare la cultura visiva e iconica attuale anche attraverso le opere di J.M Basquiat e K. Haring di cui fu mentore, e l’influenza dominante avuta sui maggiori artisti viventi tra cui J. Koons, D. Hirst, T. Murakami e Richard Prince.
cinema alimentando le fantasie che avrebbero popolato la sua futura creatività artistica. Padre e profeta della Pop Art, Warhol è stato un creativo eclettico e inarrestabile che ha inventato un suo stile visivo dalle radici popolari e immediata intelligibilità perché legato al consumismo, alla pubblicità, al glamour, al successo, che tanto piacciono agli americani. Di lui si ricordano, oltre alle tante opere assolutamente innovative, anche lo stile di vita edonistico e trasgressivo che aveva contribuito a renderlo una di quelle celebrity che lui tanto ammirava. Le quotazioni raggiunte dalle sue “stampe“ serigrafiche dimostrano che il mercato ha superato il mito dell’artista abile esecutore, trasformato da Warhol in un ‘direttore creativo’ che inventa e coordina il lavoro altrui nella sua “Factory” (letteralmente, Fabbrica). La sua produzione si compone di circa 10.000 opere realizzate tra il 1961, quando l’artista abbandonò il lavoro di successo da grafico pubblicitario e il 1987, quando morì improvvisamente all’età di 58 anni dopo un’operazione. La magAndy Warhol, Brillo soap pads box, 1964
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Settembre 2014, Anno 3 - N.9
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EL ANATSUI (1944) “PATH AT FARM OKRO”, 2006, alluminio e filo di rame, 244x345 cm. Sotheby’s, maggio 2014 Stimato 700-1milione $, venduto a 1.445mila $ Non è sempre facile entusiasmarsi per l’arte contemporanea la quale, avendo rinunciato alla ricerca del bello, qualunque cosa si intenda con questo termine, e avendo invece privilegiato l’idea, il concetto, la teoria ecc., ha riempito musei e gallerie di giochini, cosette, oggettini, più o meno intelligenti ma che, sicuramente, nulla hanno a che fare con il piacere - emotivo e non intellettuale - che si prova di fronte alla bellezza. E a nulla serve ricordare che l’arte moderna ha superato le vecchie concezioni estetiche inventando sempre nuove frontiere dell’arte.
E’ un po’ come il sesso senza il partner o la musica senza suono: manca la “materia prima” che ha a che fare con l’argomento. Eppure, se l’arte non è “meravigliosa”, cioè non crea meraviglia in chi la guarda spingendolo a fermarsi per osservarla, ammirarla, toccarla, allora è ben poca cosa. Anche se è difficile che dal mondo dell’arte possano uscire idee nuove capaci di andare contro la cultura imperante e, soprattutto, il potere economico. Queste considerazioni trovano una evidente conferma nelle opere “meravigliose” create dall’artista gahanese El Anatsui, le quali possiedono la capacità di lasciare ammaliati quando viste a distanza e stupefatti se guardate da vicino. Appesi alla parete, questi sfolgoranti arazzisculture appaiono come opere di sapienti artigiani che abbiano intessuto con l’oro zecchino drappi regali dalle mille forme e riflessi. Oggetti mobili, quasi vivi, i quali ricordano la ricchezza cromatica e morfologica che la sola natura è in grado di creare. Le opere sono composte da piccoli monili modulari ma tutti diversi uno dall’altro, lucidi e coloratissimi, accostati secondo ritmi imprevedibilmente fantasiosi, che permettono a El Anatsui di costruire superfici geometriche libere sempre inaspettate e cangianti. Osservando da vicino come e con quali speciali materiali siano costruiti questi arazzi scintillanti,si può com-
EL ANATSUI prendere cosa significhi essere un vero artista e saper trovare il bello anche nelle cose più comuni che normalmente buttiamo senza vederle. Le migliaia di scaglie metalliche decorate e colorate che compongono gli arazzi di El Enatsui altro non sono che lamierini di tappi usati di bottiglie, tagliati, piegati, bucati uno a uno e, infine, pazientemente legati tra di loro con fili di rame. L’effetto è sorprendente ed entusiasmante allo stesso tempo perchè cambia completamente l’approccio degli artisti occidentali di esporre i rifiuti con fini “colti” di critica sociale concettuale o denuncia politica, ma sempre con risultati modesti o, addirittura, spiacevoli. El Anatsui, invece, nei rifiuti non ha visto materiale di scarto destinato alla discarica e neanche la grafica industriale che tanto attirava Warhol, figlio del consumismo americano, ma ne ha intuito le valenze estetiche intrinseche: oggetti bellissimi se guardati con l’innocenza del bambino e se riscoperti con uno spirito creativo spontaneo filtrato dalla cultura antica dei popoli non ancora omologati dal mercato. Un atto, il suo, che è denuncia verso una civiltà suicida che spreca e getta incessantemente ciò che produce in un ciclo perverso tra consumo e rifiuto ma, allo stesso tempo, gesto poetico “rivoluzionario”. Il suo senso del colore e della decorazione lasciano sbalorditi per la sensibilità, la fantasia e la vitalità - tutte africane - che esprimono una conoscenza dei materiali “poveri” e la capacità di vederli con occhi completamente nuovi grazie ad una libertà inventiva che dimostra come, gran parte dell’arte contemporanea si sia progressivamente impoverita e devitalizzata. El Anatsui non cambierà il mondo, ma può cambiare la nostra concezione dell’arte riportandola alla sua funzione sociale storica. 57
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Ottobre 2014, Anno 3 - N.10
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ZENG FANZHI (1964), “L’ultima cena”, 2001 olio su tela, 220x395 cm, Sotheby’s ottobre 2013, Hong Kong. Venduto per 180.440.000 dollari di Hong Kong, 23.260.000 $ (18.336.000 Euro). “La Cina è vicina” è il titolo di un film degli anni caldi diretto nel 1967 da Marco Bellocchio in cui si raccontava dell’arrivo dalla Cina del vento rivoluzionario maoista. Oggi, a quasi 50 anni di distanza, in Occidente arriva il danaro con cui i cinesi non intendono distruggere il nostro capitalismo, ma solamente comprarselo. Anche nel campo dell’arte la concorrenza delle aste cinesi ha raggiunto la leadership mondiale assieme agli Stati Uniti, un duopolio che nel 2013 ha controllato il 70% per mercato con un fatturato di oltre 4 miliardi di dollari ciascuno. L’Europa ha fatturato la metà, 2 miliardi, men-
tre l’Italia, con 110 milioni di dollari, rappresenta lo 0,9% del giro d’affari mondiale. Il capitalismo di Stato del paese asiatico ha così scoperto oltre all’arte antica e classica che ha sempre amato, anche quella contemporanea, entrando in un decennio con gli artisti cinesi nel mercato internazionale delle aste. La qualità dei pittori cinesi, pur partendo da una storia politico-culturale rimasta congelata, indirizzata e controllata dal partito unico per cinquant’anni, si sta rapidamente adeguando agli standard dell’arte occidentale poiché i giovani ed anche i meno giovani, hanno imparato a superare il recente passato della Rivoluzione culturale apprendendo rapidamente le regole del mercato globale. Anche troppo in fretta a giudicare da molta produzione moderna non sempre esaltante.
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ZENG FANZHI - LA CINA E’ VICINA 1 Tra gli artisti contemporanei cinesi di media età che hanno raggiunto i massimi livelli, forse uno dei più noti è Zeng Fanzhi, pittore cinquantenne il quale, dopo aver sperimentato diversi linguaggi moderni, in particolare l’espressionismo tedesco, ha trovato una sua via personale e molto riconoscibile. Il suo è uno stile apparentemente caricaturale e un po’ kitsch che, anche se non è facile comprenderne le ragioni, entusiasma i collezionisti asiatici i quali sono disposti a esborsare cifre da capogiro per una sua tela. Il suo quadro del 2001 “L’ultima cena”, venduto l’anno scorso per 23,2 milioni di dollari, ha battuto due primati: il record mondiale d’asta per l’arte contemporanea asiatica e il record per l’opera di un artista cinese vivente. Zeng, dopo essersi diplomato nel 1991 all’Accademia delle Belle Arti Hubei, già nel 2013 espone alla Gagosian Gallery di Hong Kong e, l’anno seguente, alla Gagosian di Londra.
Dopo un primo ciclo arrabbiato e sociale di tipo espressionistico definito “Hospital Series”, ispirato a scene crudeli e brutali a cui aveva assistito in ospedale, a partire dal 1994 il suo stile diventa figurativo e distaccato, quasi apatico. Con le “Mask series”, che è considerato il suo secondo periodo, Zeng cambia drasticamente spostando il suo interesse verso le relazioni personali raccontando, in chiave metaforica, la vita reale della nuova Cina. I dipinti che hanno raggiunto le quotazioni più alte fanno parte, appunto, delle “Maschere” in cui tutti i personaggi raffigurati portano delle maschere caratterizzate da espressioni stereo tipate con le quali Zeng vuole denunciare il senso di solitudine individuale e interpersonale in una società basata su rapporti falsi in quanto guidati dalle convenzioni e dall’interesse. “Mask series”, 1999, 217,5x327,5 cm, Christie’s 2012 Hong Kong, venduto a 2.916.870 $
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Novembre 2014, Anno 3 - N.11
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sto tema che ha contribuito a rendere i dipinti dell’artista immediatamente individuabili. Terzo di quattro figli nati da funzionari del governo, nel 1966 aveva 8 anni quando, a causa della Grande Rivoluzione Culturale i suoi genitori furono mandati a lavorare in campagna, lasciando lui e i suoi tre fratelli alle cure di una zia per diversi anni. Questa esperienza deve averlo toccato profondamente se prima di raggiungere il successo, l’artista ha dovuto combattere la depressione e l’alcolismo e per sei anni ha dipinto quasi esclusivamente sulla morte. Zhang racconta che gli sono voluti dieci anni per trovare il proprio stile e che la svolta è avvenuta dopo l’apertura della Cina nel 1992 durante un viaggio in Germania quando scopre i “Photo bilder”, i dipinti in bianco e nero di Gerhard Richter. Decide di esprimere ciò che egli chiama
ZHANG XIAOGANG (1958), BLOODLINE: BIG FAMILY No.3, 1995, olio su tela, 179x229 cm Sotheby’s Arte asiatica moderna e contemporanea - 5 aprile 2014, Hong Kong. Venduto a 94.200.000 HKD: 12.076.923 $ (9.470.800 Euro). Zhang, 47 anni, è oggi uno degli artisti più famosi della Cina anche se, per anni, le sue opere - come quelle di altri artisti d’avanguardia della sua generazione - non potevano essere esposte perché considerate troppo moderne o politicamente discutibili. Ispirato dalle foto di famiglia durante la Rivoluzione Culturale, il dipinto battuto da Sotheby è tra i più rari perché uno dei primi ritratti di famiglia - olii in bianco e nero con interventi occasionali di colore - che hanno dato inizio nel 1993 alla serie “Bloodline”. Da allora tutta la sua produzione verte su que-
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ZHANG XIAOGANG - LA CINA E’ VICINA parte 2 “l’emozione cinese”: studia vecchie fotografie dei suoi genitori o di antiquariato, utilizza vecchi libri e riviste e cerca “di creare false fotografie” che suggeriscano la turbolenza e le emozioni represse sotto la superficie dei tipici ritratti formali da studio. Il linguaggio è figurativo e ripetitivo: sempre imposte secondo una visione frontale statica, le persone dipinte quasi sempre in bianco e nero, appaiono intrappolate nel tempo e nello spazio e i dipinti assumono la funzione di documentazione della sua storia personale e della Cina maoista. Figure eteree, sostanzialmente inespressive e incolori, ci raccontano di un mondo rigidamente controllato dove le emozioni non sono accettate, forse proibite. I personaggi sono bloccati fisicamente e psicologicamente, ma possiedono tuttavia il fascino discreto di un mondo lontano, “orientale”. Giostrando solo sulla gamma di colori grigi molto tenui e delicati con delle irruzioni di colori improbabili o simulazioni di vecchie macchie, Zhang riesce a trasmettere in modo impietoso la sottile inquietudine che deriva dall’entrare nel vissuto degli altri. Nel corso del tempo, i volti sono diventati sempre più simili, e ora tutte le persone - maschi e femmine - nei suoi Bllodline di famiglia hanno le stesse caratteristiche somatiche. Si tratta di una sola persona, un insieme delle immagini di sua madre e della propria immaginazione. Il ciclo “Bloodline” è diventata una sorta di autobiografia-terapia grazie alla quale il pittore ripercorre analiticamente, e un po’ ossessivamente, tutta la sua vita personale, vera o reinventata. Un diario della memoria che descrive, attraverso i passaggi della storia della sua famiglia, i mutamenti sociali, politici e culturali avvenuti in Cina.
My dream: little general, 2005, olio su tela, 200x160 cm Bloodline: Big family, padre e figlio, 2001 olio su tela, 150x190 cm, Christie’s Hong Kong, 2011, venduto a € 2.258.000
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Dicembre 2014, Anno 3 - N.12
MERCATO DELL’ARTE ?
LIU YE (1964), “Sword”, 2001, olio e acrilico su tela, 180x360 cm, Sotheby’s ott. 2013 Hong Kong, venduto a 5.505.000 $ (€ 4.430.000) (vedi a pagina 32-33) Artista cinese di 50 anni, Liu è nato e cresciuto a Pechino. Il suo quadro “Sword” (Spada) è una
tela dalle dimensioni eccezionali in cui sono raffigurate due bambine uguali e simmetriche armate di spada, , che si fissano dai lati opposti di una sorta di burrone blu da cui fuoriescono le chiome degli alberi sottostanti. Le due bimbeguerriere si guardano con aria di sfida mentre una lacrima scende lungo le loro guancie. Sullo sfondo, composto da una grande campitura color vermiglio che copre gran parte del quadro, si intuisce la vaga ombra di lontane montagne. Non è facile comprendere perché “Sword” piaccia tanto ai collezionisti cinesi e quale sia la simbologia sottostante a questo dipinto piuttosto anomalo nel panorama dell’arte contemporanea. La prima impressione è di trovarsi di fronte a un gigantesco fumetto per bimbi, fatto che legittima qualche perplessità sul prezzo di 5 milioni e mezzo di dollari pagato per queste due bambolette dalla testa tonda. L’artista ha dichiarato: “Sono cresciuto in un LIU YE, Composition of Black, White and Gray, 2006, olio su tela,160x140 cm Sotheby’s nov. 2012, venduto a 1.247.000 $
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LIU YE - LA CINA E’ VICINA parte 3 mondo coperto di rosso, soli rossi, bandiere rosse, fazzoletti rossi; anche il verde dei pini, cipressi e girasoli, era rosso“ e, quindi, sembrerebbe di intuire una sottile quanto inoffensiva critica al passato sistema comunista. Allo sguardo smaliziato di un occidentale i dipinti dei Liu potrebbero sembrare infantili, una elegante grafica di libri per l’infanzia o di un cartone animato e, probabilmente, questa ipotesi non è così azzardata. La maggior parte delle sue opere descrive un malinconico mondo abitato da bambini solitari, immobili e privi di emozioni, da pupazzi e orsacchiotti di pezza o da piccoli marinai rappresentati con il suo tipico stile fiabesco. Nel repertorio storico di Liu esiste anche un filone con ragazzine un po’ più grandi ma sempre infelici, povere, perse nel freddo oppure in solitaria attesa. Un altro tema molto amato da Liu è quello di timide ragazzine in atteggiamenti vagamente ambigui (chiare citazioni del pittore Balthus) oppure di donnine, più o meno discinte e dotate di sottili bacchette o frustini che rimandano a un’immaginario sado-maso mol-
to diffuso in Oriente. Alcuni dipinti che hanno come titolo “La mia insegnante” si riferiscono esplicitamente al repressivo sistema educativo tradizionale cinese e ai suoi riflessi sull’erotismo del piccolo Ye. Il monumentale dittico “Internazional Blue”, lungo 4metri e 20, ispirato al pigmento “Internazional Klein Blue” (IKB) inventato da Yves Klein e impostato su uno sfondo completamente azzurro, è paradigmatico del lavoro di Liu Ye. La tela è divisa in due pannelli: quello di sinistra raffigura Miffy (un coniglietto del fumettista Dick Brown) che sta guardando un quadro giallo, mentre quello di destra mostra una tipica scolaretta cinese la quale, immobile, osserva l’animaletto. Anche in “International Blue” è riproposta l’atmosfera rarefatta e sospesa, vista in precedenza in Sword, all’interno della quale i piccoli personaggi sono soli, bloccati, distanti tra di loro a causa dell’impossibilità di avere una qualsiasi relazione. LIU YE, International Blue, dittico, 2006, olio e acrilico su tela, 210x420 cm, Sotheby’s 2013 Hong Kong, venduto a 1.358.974 $
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Gennaio 2015, Anno 4 - N.1
MERCATO DELL’ARTE ? lismo magico, il mistero indefinibile del Surrealismo di Magritte. Secondo Restany, Domenico Gnoli cercava di ridare un senso all’immagine tradizionale, senza tuttavia “rinunciare alla rivoluzione dello sguardo” introdotta dalla pittura moderna. Gnoli, nasce a Roma in una famiglia borghese di cultura umanistica: la madre, contessa, pittrice e ceramista, il padre storico dell’arte e sovrintendente alle Belle Arti, che lo indirizza verso la pittura classica italiana, a cui “si ribellerà senza mai perdere il senso rinascimentale del gusto e dell’artigianato”. Studia privatamente disegno, incisione e segue un corso da scenografo, professione che eserciterà per diversi anni in Italia, a Parigi e a Londra. Nel 1955 si trasferisce a New York dove rimane fino al 1962 lavorando come grafico e illustratore per grandi riviste (da Fortune a Life) e cercando di emergere con la sua pittura figurativa. E’ solo a partire dal 1964 che l’artista approda a quella pittura figurativa di frammenti di oggetti quotidiani e banali tratti dalla realtà comune che lo hanno reso unico e riconoscibile. Dettagli di oggetti, di vestiario, di capigliature umane, visti da molto vicino e dilatati che Gnoli dipinge con certosina pazienza su grandi tele, decontestualizzandoli, ingigantendoli e trasformandoli in “altro”, in vere e proprie icone metafisiche. E’ difficile immaginare un realismo più astratto di questa sua figurazione. La sua presunta affinità con la Pop Art non ha alcun fondamento poiché egli descrive il suo mondo, italiano, borghese, formale e ordinato, esattamente l’opposto dell’industria dei consumi, della moda, dei media o più in generale della “società di massa” da cui prendono spunto gli artisti pop americani. “L’astratto, e il non figurativo, non mi tentavano. Poi è venuta la Pop art.
DOMENICO GNOLI (1933-1970), CAPELLI NERI, 1969, acrilico e sabbia su tela, 170x150 cm Christie’s, Febbraio 2014, Londra Venduto per 7.026.500 £, pari a 11.663.990 $ (8.499.933 Euro). Le opere di Domenico Gnoli, oggi considerato uno dei più grandi pittori italiani degli anni Cinquanta e Sessanta, stanno godendo della meritata scoperta e valorizzazione da parte di un mercato mondiale dell’arte, spesso assolutamente demenziale. Sebbene sia morto di cancro a 37 anni, egli ha lasciato un significativo repertorio di lavori che dimostrano come debba essere considerato il legittimo discendente di una pittura radicata nella tradizione figurativa italiana ed europea: la sospensione metafisica dechirichiana, la fissità di Morandi, il naturalismo estremo del Rea-
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DOMENICO GNOLI Qui l’oggetto volgarizzato era privo di magia. Io ho preso un’altra strada”. Gnoli è anche spesso definito un rappresentante dell’Iperrealismo, sbagliando perché il suo sguardo non è realistico fotograficamente ma metafisico, vale a dire filosofico e mentale: “Guardo questa sedia vuota. Racchiude un segreto e io intendo rivelarlo”. I suoi temi provengono dalla realtà delle situazioni familiari e della vita quotidiana, ma l’esito di surrealismo inquietante e di enigmatica assenza, sottolineano l’ambiguità e il senso di minaccia che trapelano proprio dalle cose (e dalle persone) che ci stanno più vicine. All’approccio alla realtà di Gnoli non sono estranei anche l’esperienza dell’immaginario visivo e spaziale da scenografo e costumista (“La vita va considerata come un gran guardaroba”), la precisione del grafico e l’analiticità dell’illustratore, tutte coniugate con una sottile componente ironica e, forse, noir. Il suo linguaggio si fonda sulla rappresentazione meticolosamente analitica di particolari di poltrone, sofà, letti, armadi, giacche, bottoni, camice, cravatte, guanti ecc., isolati, ingranditi, tagliati e impaginati in modo personalissimo, al punto di occupare tutto lo spazio del quadro. La composizione dei soggetti è quasi sempre rigorosamente simmetrica e permeata da un’atmosfera di classicità monumentale che suscita no un indefinibile disagio poiché raccontano della vita di persone che non appaiono mai. I dipinti sono sempre eseguiti servendosi di una tecnica a base di colori acrilici mischiati con sabbia che, non lasciando in evidenza il segno delle pennellate, dà alla rappresentazione un effetto di perfezione opaca e sottilmente misteriosa, che trasmette un senso di irrealtà o, meglio, di “sur-realtà”.
DOMENICO GNOLI, Spalla, 1969, acrilico e sabbia su tela, 160x140 cm, Christie’s 2005, Londra venduto a £ 388.800 ($ 686.621) DOMENICO GNOLI, Busto femminile di dorso, 1965, acrilico e sabbia su tela, 100x120 cm, Christie’s 2011, Londra, venduto a £ 2.337.250 ($ 3.683.506)
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Febbraio 2015, Anno 4 - N.2
MERCATO DELL’ARTE ?
NORMAN ROCKWELL (1894-1978) SAYING GRACE, 1951, olio su tela, 109x104 cm (vedi a pag.30). Stimato 15-20 milioni di dollari, è stato venduto nel 2013 a Sotheby’s New York per 46.085.000 $, pari a 33,9 milioni di euro. L’asta lo colloca oggi tra gli artisti con le quotazioni più elevate al mondo. Nato nel 1894 a New York, Norman Rockwell è stato l’illustratore-pittore più popolare e più amato dagli americani; ovviamente, molto meno dalla critica “colta”, la quale non apprezzava la sua pittura figurativa troppo narrativa e sentimentale, definita ”Rockwellesque”. Dotato di una “mano” prodigiosa, Rockwell frequenta varie scuole d’arte e già a 19 anni disegna le sue prime copertine per la rivista dei Boy Scout. Nel 1916, all’età di 22 anni, crea la sua prima copertina per la prestigiosa rivista Saturday Evening Post: un sodalizio che durerà fino al 1963, 47 anni durante i quali dipinge 320 co-
pertine, ognuna eseguita ad olio su tela, in cui raffigura una galleria di “personaggi”, ognuno dei quali con la propria personalità, caratteristiche fisiche e psicologiche. Norman Rockwell è nelle arti visive un po’ quello che è stato il regista Frank Capra nel cinema: rappresenta il mondo non così com’è ma come voleva (e vorremmo) che fosse e, proprio per questo, in fondo, piace a tutti. Non c’è mai violenza, sesso, droga, e neanche la morte Nel 1939, si trasferisce con la famiglia ad Arlington, un villaggio nel Vermont da dove comincia a raccontare la provincia. Rockwell descrive la vita della gente comune in modo “dickensiano” poiché vi ritrova i valori in cui crede: semplicità, spontaneità, comunità e anche quella felicità che, secondo il suo analista Eric Erickson, dipinse ma non riuscì ad avere in vita a causa della depressione di cui soffrì sempre. Personaggio solitario, riservato ed estraneo all’ambiente e alle mode artistiche, è stato sicuramente uno dei migliori e più acuti artisti e illustratori del suo tempo: la sua capacità personale di raccontare in ogni tavola delle storie complesse, sia dal punto di vista pittoricoespressivo, che da quello dei contenuti, allo stesso tempo, dotate di un ottimismo di fondo e un bonario humor, lo rendono unico. A partire dal 1963, lavora per 10 anni per Look Magazine, affrontando con la consueta sensibilità anche questioni sociali quali i diritti civili, la povertà, il razzismo, la segregazione. Una sua tela, simbolo del movimento per i diritti civili, raffigura Ruby Bridges, una bimba afro-americana di sei anni, mentre, difesa dalla folla da quattro agenti, si reca in una scuola pubblica di soli bianchi, a New Orleans il 14 nov 1960. Il muro dietro di lei è imbrattato dall’insulto razzista “nigger“, le lettere ”KKK“ e gli schizzi di un
NORMAN ROCKWELL pomodoro. Nel 2011, il Presidente Barak Obama ha voluto far esporre il dipinto alla Casa Bianca. A destra, la piccola modella, uno dei tanti abitanti del posto che il pittore utilizzava sempre per eseguire le sue illustrazioni perfette: i soggetti di ogni dipinto sono stati, infatti, persone reali fotografate in più di 20mila scatti. Grande ritrattista, Rockwell ha raffigurato la “sua” America per più di 60 anni continuando fino all’ultimo ad essere uno degli artisti più prolifici e apprezzati del Paese. Ogni sua immagine, dalla più retorica a quella leggera, ironica o critica dei costumi della società, nonostante fossero destinate ad essere riprodotte su una pagina, è stata dipinta ad olio: un piccolo capolavoro di sintesi tra intelligenza, perfezione tecnica e capacità artistica. “Saying Grace”, ad esempio, una copertina del «Saturday Evening Post» per il giorno del Ringraziamento (pagata all’epoca 3.500 dollari e donata dall’artista ad un amico), vale mille parole: una “provinciale” con il nipote al ristorante che prega, prima del pasto, sotto lo sguardo stupito dei presenti. L’altro dipinto, “The gossips” (vedi a pag.31), consiste in trenta arguti ritratti di coppie di persone (modelli trovati tra amici e conoscenti dell’artista) mentre spettegolano tra loro. Ogni faccia esprime un carattere! Nonostante il grande successo e la celebrità goduti in vita, il cruccio di Rockwell è stato quello di essere considerato un “illustratore” e non un artista tout court ma oggi, finalmente, anche i critici più severi, sono oramai costretti a riconoscerglielo.
Sopra: modella del dipinto in basso Sotto: “The Problem we all live with”, 1964, olio su tela, 92x148 cm
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Marzo 2015, Anno 4 - N.3
MERCATO DELL’ARTE ? fe“ e i “Catrami“. L'anno seguente realizza "SZ1", il suo primo "Sacco", un collage ricavato con i sacchi stampati degli aiuti inviati dal piano Marshall (vedi pag. 21), in cui compare una bandiera USA che anticiperà i motivi sviluppati negli anni 60 dalla Pop Art. Questo suo atteggiamento rientra nello Zeitgeist, lo spirito del tempo in cui l'Informale nasce come risposta agli orrori della guerra. I “Sacchi“, crude opere in juta, grossolanamente cucite e incollate su tele tinte di rosso o di nero che, al loro apparire suscitano scandalo e proteste, lo renderanno celebre internazionalmente. Queste opere realizzate con una materia poverissima, logorata dall'uso e gettata via che l'artista recupera proprio perché "intrisa di umanità" rappresentano una innovazione artistica rivoluzionaria poichè la vita vera entra fisicamente dentro il quadro per parlare di sé stessa. I lavoro sui "Sacchi" dura un quinquennio; dal 1955 inizia a indagare le possibilità espressive di nuove materie, in particolare del ferro, del legno e, infine, della plastica dimostrandosi un continuo "sperimentatore e inventore" di tecniche innovative. Dal 57 in poi, con la serie delle "Combustioni", introduce la «fiamma ossidrica» tra gli strumenti con cui dipinge e per alcuni decenni, come un alchimista, opererà con il fuoco di cui impara a sfruttarne il potenziale di creatività distruttiva, saldando lastre di ferro dalle tonalità cupe e tenebrose (i "Ferri"), bruciando e incendiando composizioni di legni (i "Legni") per arrivare, infine nel 62 al grande ciclo delle "Plastiche", prima cellophane e poi fogli polimerici rossi, corposi e pesanti, forgiate con la fiamma e modellate manualmente per aprire tragici squarci neri. Burri è stato un artista particolarmente riservato e di poche parole; l'unica dichiarazione
ALBERTO BURRI (1915-1995), ROSSO PLASTICA, 1963, plastica, acrilico, vinavil e combustione su tela, 80x150 cm. Venduto da Sotheby’s, febbr. 2014, Londra a £ 3.666.500 GBP - (4.462.484 €) (vedi immagine a pag. 28). Non sono molti anni che, nelle aste internazionali, le opere di Burri hanno cominciato a collocarsi stabilmente ai livelli di mercato degli altri Maestri del contemporaneo. Questo dovuto riconoscimento è tanto più positivo perché quest'anno cadono sia il centenario della nascita che i venti anni dalla sua scomparsa. Tenente medico dell'esercito, Burri viene fatto prigioniero in Africa e internato per tre anni nel campo di concentramento per Criminali Fascisti "non cooperatori" a Hereford in Texas, dove inizia a dipingere da autodidatta. Sicuramente, tra le ragioni dell'assoluta libertà con cui elaborerà in seguito i suoi linguaggi, oltre alla formazione scientifica da medico, si può includere soprattutto l'assenza di studi artistici accademici. Nel 1946 ritorna in Italia profondamente disilluso, abbandona la pittura figurativa e già nel 1948 espone le prime opere astratte: le “Muf-
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ALBERTO BURRI scritta sulla sua pittura: "Le parole non mi sono d’aiuto quando provo a parlare della mia pittura", esprime bene il rifiuto di interpretazioni e analisi critiche delle sue opere "perché ci sono i miei quadri a parlare per me". Con la ricerca sulle caratteristiche espressive ed estetiche dei materiali Burri vuole superare la dicotomia tra pittura e scultura per dare tridimensionalità alle sue opere in una concezione dello spazio connotata dal caso e dal caos. Si avvia nel 1972, il nuovo ciclo dei "Cretti", opere in bianco o in nero dall’aspetto di terra spaccata dal sole, realizzate con una mistura di caolino, vinavil e pigmento (vedi in basso). Va ricordato anche il grande "Cretto", un enorme intervento di Land Art realizzato sulle rovine di Gibellina, cittadina rasa al suolo dal terremoto del Belice, una bianca "coltre" in cemento che ricrea l’immagine dell’antico borgo. Infine, abbandona le "sperimentazioni" ritornando ai dipinti e inventa nel 1975 i "Cellotex", collage monumentali composti da sagome in acrilico, vinavil su cellotex. Inoltre, inizia la costruzione di gigantesche sculture geometriche
SZ1, 1949, olio e juta su tela, 51x60 cm
di acciaio, simmetriche e colorate. E' impossibile descrivere qui l'immensa produzione di Burri, artista che nel corso di 50 anni di attività, non si è mai accontentato dei traguardi altissimi raggiunti, ma ha sempre proseguito senza tregua, e in silenzio, nella sua ricerca. Cretto, 1975, acrovinilico su cellotex, 70x100 cm venduto Christie’s 2013: 1.441.250 GBP
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Aprile 2015, Anno 4 - N.4
MERCATO DELL’ARTE ? popolare, per rivisitare in un modo più colto e provocatorio i maestri del Movimento Moderno. Chi avrebbe mai immaginato che i “fumetti” avrebbero raggiunto gli attuali “valori” artistici ed economici? Roy Lichtenstein è stato il pittore che ha sdoganato i disegni dei comics, gran parte delle sue opere degli anni 60, infatti, sono tratte da strisce o tavole apparse su giornalini a fumetti poiché, come spiega: «La sola ragione dei miei lavori è dimostrare come in America si manifesta la comunicazione visiva». Nato a New York in una famiglia ebraica, si diploma e, al ritorno dalla guerra nel 1946, si laurea in Belle Arti; a partire dal 57 inizia l’insegnamento in diverse Università dedicandosi a tempo pieno alla pittura e alla scultura. E’ nel 1961, quando si distacca dall’Espressionismo astratto, che inizia a introdurre nelle sue opere immagini di personaggi dei cartoni come Mickey Mouse o Bugs Bunny; la sua mostra personale dell’anno successivo alla galleria di Leo Castelli è un successo: tutti i dipinti sono venduti ancora prima dell’inaugurazione. La fortunata intuizione dell’artista, avvenuta prima della nascita della Pop Art americana, è quella di “estrapolare” un frammento emblematico dalla striscia di un fumetto e di ingrandirlo mantenendo anche la “nuvoletta” contenente le parole e i pensieri dei personaggi o i tipici suoni onomatopeici. L’immagine decontestualizzata ed eseguita in scala monumentale su tela con vivaci colori ad olio e acrilico, pur rimanendo (quasi) identica all’originale “commerciale”, assume un’autonomia figurativa ed espressiva completamente rinnovata dall’artista che decide di riproporla come opera d’arte. L’altra felice invenzione del pittore è di ingrandire assieme al disegno del fumetto anche il sistema di colorazione del retino in quadricro-
ROY LICHTENSTEIN (1923-1997) WOMAN WITH FLOWERED HAT, 1963, Magna su tela, 127x102 cm, venduto da Christie’s New York nel maggio 2013, a $ 56.123.750 (43.230.000 €) Vedi immagine a pag.28. Quest’opera basata su un processo di appropriazione e contestazione quasi duchampiana del ritratto “Dora Maar au Chat” eseguito nel 1941 da Pablo Picasso della sua musa e amante Dora Maar, ha entusiasmato il mondo dell’arte portando Lichtenstein alla fama. In questo dipinto, pur mantenendo i suoi stilemi già consolidati: contorni neri, campiture piatte, figure prive di profondità e la puntinatura Ben-Day, egli abbandona le immagini ritagliate dai comics degli anni precedenti caratterizzate da una freschezza allegra e ironica di un’autentica arte
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ROY LICHTENSTEIN mia usato nella stampa tipografica “Ben-Day”, che trasforma i quattro colori primari (ciano, magenta, giallo e nero) in punti vicini, distanziati o sovrapposti, per creare tutti le altre tinte. Lichtenstein dipinge pazientemente a pennello le centinaia e centinaia di cerchiolini colorati che diventeranno una sua cifra stilistica inconfondibile. Come sempre nell’arte moderna, una buona idea deve possedere oltre all’originalità e alla piacevolezza, anche la capacità di essere facilimente riconoscibile e in questo caso il primato tra i “comics” di Lichtenstein e le “zuppe” Campbell di Andy Warhol non è di facile attribuzione. Al contrario della zuppa in scatola, fast food tipicamente americano, il fumetto appartiene a una cultura visiva di massa appresa fin dall’infanzia e frequentata ad ogni età, latitudine e classe sociale. E’ una forma di “mass media” che ha saputo sviluppare un proprio linguaggio specifico basato su convenzioni autoreferenziali e dotato di caratteristiche formali e semantiche originali, che appartiene ormai all’immaginario collettivo moderno. L’operazione intellettuale di cannibalizzazione di creazioni altrui compiuta dall’artista all’inizio ha sollevato molte critiche: innanzitutto, l’accusa di limitarsi a duplicare un lavoro originale esistente ma anche per il mancato riconoscimento (e risarcimento) dei veri autori-fumettisti, ritenuti da un pregiudizio della cultura d’élite, creativi inconsapevoli. Ciò nonostante, è probabile che i quadri di Lichtenstein, molto accattivanti, decorativi, e tuttora modernissimi dopo più di cinquant’anni, potranno raggiungere in futuro quotazioni ancora maggiori man mano che il romanticismo un po’ kitsch di cui sono (volutamente) intrisi, si stempererà in una nostalgica “Recherche” del tempo perduto.
ROY LICHTENSTEIN, Drowning girl, 1963 olio e Magna su tela, 172x170 cm Secret hearts, 1962, originale di Tony Abruzzo
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Maggio 2015, Anno 4 - N.5
MERCATO DELL’ARTE ? Racconta Agostino Bonalumi che, nel febbraio del 1959, dopo una loro mostra assieme a Enrico Castellani conclusasi senza vendite nè interesse da parte di artisti e collezionisti, Piero sia sbottato: “Questi stronzi di borghesi milanesi vogliono la merda!». Qualche tempo dopo Manzoni mostrava soddisfatto a Bonalumi e Castellani una scatoletta di conserva sulla quale aveva incollato una fascetta con scritto a mano “Merda d’artista”, accolta subito con una grande risata di approvazione entusiastica e incondizionata dai due amici. Le opere che hanno contribuito a portarlo ai massimi livelli del mercato mondiale appartengono tutte al ciclo degli Achrome, monocromi minimalisti bianchi realizzati con moltissimi materiali quali paglia, polistirene, “michette”, ghiaia, feltro e lana per citarne alcuni ma, soprattutto, quelle su tela composte da pieghe sature di caolino che incarnano l’apogeo della sua ricerca concettuale pionieristica. Manzoni nel 1960 scriveva: “L’artista ha raggiunto la libertà integrale; materiale puro diventa energia pura, tutti i problemi di critica artistica sono sormontati, tutto è permesso”. Nella serie in caolino le infinite variazioni formali e spaziali movimentano queste entità monocromatiche realizzate talvolta con un unico pezzo di tela stropicciato, altre con sagome quadrate incollate in modo da creare una griglia regolare; altre ancora, distribuendo le pieghe su tutta la superficie del quadro o concentrandole per definire dei disegni in zone precise. Etimologicamente significanti ‘senza colore’, gli Achrome sono estranei alla tradizione pittorica contemporanea perché intesi dall’artista come tabula rasa dei valori formali ereditati: “E ‘un bianco che non è un paesaggio polare, o un materiale bello o evocativo, o una sensazione, o un
PIERO MANZONI (1933-1963), ACHROME, (1958-59) caolino su tela a pieghe, 110x150 cm (vedi dett. a pag.30), Sotheby’s Londra 2014, stimato 5-7 milioni GBP, venduto a 12.626.500 GBP ($ 20.317.300, € 18.740.680). Con gli oltre venti milioni di dollari battuti per questo Achrome, uno dei soli nove pezzi eseguiti in tali grandi proporzioni delle trecento e più tele imbevute di caolino, la quotazione di Manzoni si porta subito dietro i 20,885 milioni aggiudicati nel 2013 a Lucio Fontana. E’ la rivincita postuma di questo artista in quale, pur essendo scomparso a soli ventinove anni, nel breve e intenso spazio di vita ha prodotto tante e tali provocazioni artistiche da essere conosciuto anche dal grande pubblico. Manzoni, infatti, è diventato popolare più per le sue scatolette di “Merda d’artista”, 90 multipli numerati e firmati (una è stata battuta all’asta nel 2012 a 160mila dollari), che per gli “Achrome,” il ciclo di tele monocromatiche iniziato nel 1957 e proseguito fino alla morte prematura nel 1963, oggi riconosciuto dalla critica e dal mercato come uno dei più innovativi e profondi contributi artistici all’età del dopoguerra.
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PIERO MANZONI simbolo, o qualsiasi altra cosa; si tratta di una superficie bianca che non è altro che una superficie bianca“. Il processo di essiccazione del caolino in cui l’opera raggiunge la sua forma definitiva ha tolto “la mano” dell’artista, ma ha anche dato solidità alle ondulazioni superficiali valorizzandone l’effetto scultoreo che la critica ha avvicinato aI panneggi rinascimentali in marmo statuario. Negli Achrome, come nei Tagli di Fontana o nei Cretti o nelle Combustioni di Burri, si ritrova la stessa volontà di superare il limite e il vincolo della superficie pittorica nell’intento di ricercare una nuova dimensione tridimensionale per raggiungere un’immagine metafisica di purezza assoluta. Manzoni, infatti, scriveva: “Perché non liberare la superficie? Perché non tentare di scoprire il significato illimitato di spazio totale? Di luce pura e assoluta?” In sintonia con i principi fondamentali del gruppo Zero, Manzoni ha svolto anche un ruolo attivo e propositivo all’interno del dibattito
artistico-culturale italiano intrattenendo intensi rapporti anche con analoghe esperienze delle avanguardie europee. Insieme a Castellani ha pubblicato nel settembre 1959 la rivista Azimuth a cui sono seguiti solo due altri numeri; lo stesso anno hanno inaugurato la Galleria Azimut a Milano dove, nel corso dei sei mesi in cui è rimasta aperta, sono state ospitate dodici mostre personali e collettive di artisti come Yves Klein e Lucio Fontana considerati oggi tra le figure di maggior rilievo dell’arte europea del la seconda metà del ‘900. Le innovazioni premonitrici di questo giovanissimo artista hanno anticipato sia l’Arte concettuale che, in parte, l’Arte povera anche se, nel suo caso, è più corretto fare riferimento a un neo Dadaismo, sia per il gioco dissacratorio che per l’uso dei materiali in quanto tali ma, in particolare, per il piacere innegabile per lo sberleffo e l’ironia che sicuramente hanno contraddistinto l’opera di Manzoni. PIERO MANZONI: Achrome, 1957-58, caolino su tela grinzata irregolare,
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Giugno 2015, Anno 4 - N.6
MERCATO DELL’ARTE ? meno di 7milioni di dollari. Anche altre opere come “Baltimore Oriole Securing Frehwater Fish” del 1965 e “Mint (Red)” del 68 (vedi pag. a 29, 30) aggiudicate entrambe nel 2013 per cifre inferiori ai 5 milioni rimangono nella media di questo pittore. Non a caso, “Smash”, è stato messo all’asta da Christie con una stima tra i 15 e i 20 milioni; il fatto che il prezzo finale sia addirittura raddoppiato dimostra come, spesso, i meccanismi del mercato siano economicamente (oltre che esteticamente) imperscutabili. Edward Ruscha, dopo il diploma in arte conseguito nel 1960 a Los Angeles, ha lavorato fino al 69 come impaginatore, prima per un’agenzia pubblicitaria e poi per la rivista Artforum. Interessato alla fotografia, al disegno, al cinema, ai libri d’artista, dopo l’incontro con la Pop Art Ruscha sposta i suoi interessi dalla grafica alla pittura vera e propria o, sarebbe meglio dire, alla grafica dipinta. La sua caratteristica principale, infatti, è quella di utilizzare sui dipinti delle parole o brevi frasi che richiamano esplicitamente i loghi e gli slogan della pubblicità e della grafica commerciale. Il suo “Smash” da 30milioni di dollari potrebbe essere benissimo il logo di un detersivo, mentre “Mint” (vedi a pag. 29) il poster di cioccolatini ripieni di crema alla menta. Al contrario di Warhol che, negli stessi anni, recuperava le icone della cultura popolare e consumistica di massa (la “Big Campbell Soup”) riproponendole poi uguali, Ruscha cominciava a inventare un mondo composto da sue figure e parole che dovevano diventare le nuove icone. Il lavoro di Ruscha si differenzia da quello dei suoi omologhi di New York anche per l’influenza del clima culturale di Los Angeles, dei piatti paesaggi californiani con i boulevard, le autostrade, le architetture, i cartelloni stradali e il cinema di Hollywood.
ED RUSCHA (1937) “SMASH”, 1963, olio su tela, 182x170 cm, stimato 15-20 milioni $ e venduto nel 2014 da Christie’s New York a $ 30.405.000 (€ 24.437.390) (vedi dettaglio a pag.30). Ed Ruscha, artista americano vivente di 78 anni, è un nome sconosciuto al grande pubblico e, probabilmente, anche a molti addetti ai lavori. Pur avendo partecipato nel 1962 insieme a Roy Lichtenstein e Andy Warhol alla mostra considerata una delle prime manifestazioni di “Pop art” in America e presentato nel 1973 la sua prima personale alla galleria di Leo Castelli a New York, Ruscha è rimasto finora ai margini delle grandi quotazioni. Per questa ragione, i 30 milioni di dollari battuti alla fine del 2014 per “Smash”, una tela del 65-6, sono inaspettati. “Burning gas station” (vedi pag.21) di dimensioni più piccole ma certo più interessante, era stata battuto nel 2007 da Christie’s per poco
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ED RUSCHA Se alcune opere del 65-66 come quella dell’evocativa stazione del gas che brucia sono innovative nella composizione prospettica, stimolanti e provocatorie nei riferimenti ad una realtà socio-economica dell’”american life”, non altrettanto sembra di poter dire dell’abusata bandiera degli Stati Uniti: una monumentale “Stars and Stripes” lunga tre metri, rappresentata con una tecnica iperrealistica mentre sventola contro il tramonto infuocato (o sarà anche lì un incendio?) e intitolata “Our Flag”, “La nostra Bandiera”. Ma, poichè la vista rappresentata è in realtà il “posteriore” della bandiera, cioè il rovescio della faccia normalmente offerta, vi si intuisce una sottile critica dell’artista a un certo tipo di iconografia patriottica. Anche se molte delle sue opere minimaliste in cui sono riportate parole simboliche, onomatopeiche o ironiche su sfondi monocromi risultano piuttosto ripetitive e scontate, è prevedibile un’impennata dei prezzi di questo maestro superstite dell’epoca d’oro del Pop americano, oggi premiato dalla critica e dal mercato.
ED RUSCHA, “Sex at Noon Taxes”, 2002 acrilico su tela, 162x193 cm, Phillips New York 2010 venduto a 4.338.500 $ (€ 3.118.000)
ED RUSCHA, “Burning gas station”, 1965-66 olio e grafite su tela, 52x99 cm, Christie’s New York, 2010, venduto a 6.985.000 $ (€ 784.500)
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Luglio 2015, Anno 4 - N.7
MERCATO DELL’ARTE ? si trasferisce a Manhattan dove trascorre i primi decenni della sua vita lavorando illegalmente e sostenendosi con lavori da falegname, vetrinista e pittore di insegne. Dipinge nel tempo libero e inizia a conoscere artisti modernisti tra cui Stuart Davis, il russo John Graham e l’armeno Arshile Gorky, uno degli ultimi grandi pittori surrealisti, di cui diventerà intimo amico. Gorky avrà una notevole influenza sulla sua pittura come mostrano i suoi primi studi di figure di singoli uomini e donne, alcuni con Elaine de Kooning come modella, in cui è evidente la sua ispirazione. A partire dal 1945, con l’opera “Pink Angels”, circa 1945 (vedi a pag. 31) che conclude il suo processo di scomposizione della figura di derivazione cubista, da inizio a un nuovo genere pittorico come composizione di energie trasmesse in modo immediato sulla tela dal gesto. Aderisce all’Unione Artisti nel 1934 e nel 1935, riesce a progettare una serie di murales grazie al Federal Arts Project creato dal New Deal per fornire agevolazioni economiche agli artisti durante la Grande Crisi. L’anno successivo deve lasciare il FAP perché non possiede la cittadinanza americana, ma l’esperienza fatta lo spinge a lavorare a tempo pieno come artista. Con la sua prima personale del 1948 alla Egan Gallery dove espone i quadri bianchi e neri dipinti negli ultimi due anni, si afferma come uno degli esponenti più in vista dell’Espressionismo astratto nascente mentre nella terza personale nel 1953 alla Sydney Janis Gallery , debutta con il ciclo delle Women, dipinti scioccanti iniziati nel 1950 dopo l’incontro con la sua futura moglie, che si conclude con “Woman VI”, spesso accusati di misoginia a causa degli aggressivi e grotteschi ritratti di donne (vedi a pag. 21). Dopo la serie Women, de Kooning persegue
WILLEM de KOONING (Americano, olandese, 1904-1997) UNTITLED VIII, 1977, olio su tela, 178x203 cm (vedi a pag.30). Christie's, New York 2013, stimato 20-30 milioni dollari, venduto a 32.085.000 $ (23.855.000 €) Willem de Kooning, artista olandese-americano considerato uno dei padri fondatori dell’Espressionismo astratto insieme ai pittori Jackson Pollock, Mark Rothko e Franz Klein, il movimento artistico che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha contribuito a trasferire definitivamente il centro dell’arte moderna da Parigi a New York. Nato a Rotterdam nel 1904, dopo due anni i genitori si separano e Willem a 12 anni lascia la scuola e diventa apprendista in uno studio di artisti commerciali. Frequenta fino al 1924 i corsi serali presso l’Accademia di Belle Arti e Tecniche di Rotterdam, dove affina ulteriormente le innate abilità di magistrale disegnatore. Nel 1926 si imbarca per gli Stati Uniti viaggiando come clandestino su un cargo che approda a Newport News, in Virginia; dopo aver vissuto lavorando come imbianchino, l’anno seguente
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WILLEM de KOONING una sua personale astrazione lirica non-oggettiva fino alla sua morte nel 1997 Nel corso degli anni cinquanta la sua individualità e la sua irrequietezza trovano piena espressione in immagini sempre più astratte, violente e articolate nelle quali adotta pennellate più rapide, ampie e incisive. Nel 1962 riesce a diventare cittadino americano e l’anno successivo può comprarsi una casa a East Hampton, Long Island, vicino a Montauk (un nome che ritorna nei titoli di molte sue opere), dove si trasferirà definitivamente per il resto dei suoi giorni. La sua pittura subisce un notevole cambiamento, abbandona le linee frastagliate, aggressive dei suoi anni di New York dando inizio nel 1970 a una linea organica più fluida, che riflette lo splendore naturale del suo nuovo ambiente. Se i grigi e gli azzurri freddi di Woman I hanno raccontato nel 1950-1952 la velocità, la grinta e la volgarità del paesaggio urbano di New York City, i rosa carne, i blu acquamarina e il giallo dorato di “Montauk III” in cui si intuisce una figura umana (vedi a pag. 29), forse suscitano la dolce calma delle spiagge e il mare che de Kooning aveva conosciuto in gioventù in Olanda e un forte senso di luce solare intensa permea la tavolozza e le pennellate sono più languide e liquide. Negli ultimi trent’anni si susseguono opere dedicate a due temi fondamentali della sua prolifica attività: il paesaggio, enormemente semplificato fino ad apparire astratto, e la figura femminile, resa con un’ambiguità di fondo che costituisce la caratteristica più originale della sua arte.
Nel corso della sua lunga carriera l’artista oscilla ciclicamente tra figurazione e astrazione sperimentando periodi espressivi e stilistici così diversi tra loro da rendere non sempre facile la sua riconoscibilità. Pur essendo astratto, infatti, il suo lavoro è spesso figurativo in un modo particolare e l’adesione ad una matrice realista è comunque riscontrabile anche in quelle opere dove l’informale appare assoluto. Nel 1980 iniziano i sintomi della sindrome di Alzheimer e, anche se continuerà a dipingere, la critica discute ancora oggi su come debbano essere valutate le sue opere realizzate appunto tra il 1983 e il ‘87, durante il quale de Kooning ha sofferto della perdita di memoria dovuta alla malattia. Muore a New York nel 1997 a 93 anni.
WILLEM DE KOONING, “Woman” (Blue Eyes), 1953 olio, smalti, carboncino su due fogli di carta su tela 71x51 cm, Christie’s N.Y. venduto a $ 19.163.750
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Agosto 2015, Anno 4 - N.8
MERCATO DELL’ARTE ? Si tratta, difatti, di un dipinto ad olio su tela del 1955, un omaggio a Delacroix e Matisse, facente parte di una serie con lo stesso soggetto che conta centinaia di disegni e 15 quadri, di cui sette notevoli. Il venditore l’aveva acquistato nel 1997 per quasi 32 milioni di dollari, il che significa che in 18 anni ha visto aumentare il suo valore di 147 milioni: decisamente troppi, anche per un Picasso. Si deve dedurre che l’anonimo compratore (una signora cinese) sia rimasto convinto dalla casa d’aste Christie’s la quale si era impegnata a fondo, prima assumendosi con il venditore una forte garanzia bancaria sul prezzo finale, e poi nella presentazione della brochure del quadro, equiparato addirittura a opere come “Guernica” o le “Demoiselles d’Avignon”. Scrivere di Picasso in poche pagine è praticamente impossibile sia perché si tratta di uno dei personaggi più famosi e conosciuti della storia dell’arte moderna, sia perché ha avuto una vita artistica talmente lunga, intensa e prolifica, da rimanere protagonista del mondo artistico fino alla sua morte giunta nel 1973, a 92 anni. Il lavoro di Picasso, infatti, è suddiviso in numerosi “periodi” autonomi: accademico, realista, blu, rosa, africano, cubista (analitico e sintetico), neoclassico, neoespressionista ma, sempre e soprattutto, “Picassiano”. Personaggio vitale, sanguigno e vulcanico, l’andaluso Pablo Ruiz y Picasso, nato a Malaga nel 1881, con le sue figure spezzate e sghembe, è entrato nel mito e nell’immaginario collettivo come lo stereotipo dell’artista moderno: bohemien, immaginifico, anticonformista e anche in-
PABLO PICASSO (1881-1973), LES FEMMES D’ALGER (Versione ‘O’), 1955, olio su tela, 114x146,4 cm, Christie‘s, New York 2015 stimato 140 milioni $, venduto a 179.365.000 dollari (159.833.000 Euro). (vedi immagine a pag. 30) La notizia di questo quadro battuto a quasi 180 milioni di dollari. la più costosa opera d’arte mai venduta all’asta, ha creato grandi entusiasmi e non poche perplessità.
TÊTE (Maquette in ferro, H 105 cm della scultura di 15 mt. Centro Civico di Chicago, 1962-64, Sotheby’s 2015 Venduta a 13.464.00 $ (€ 11.746.000)
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PABLO PICASSO comprensibile ai più. Non immune da egocentrismo e gigioneria (l’arlecchino e il minotauro erano i simboli personali), Picasso ha sempre incoraggiato questa sua immagine pubblica che ha contribuito a renderlo (e a farlo rimanere) l’artista più famoso e il più pagato, del mondo. Dpo gli iniziali periodi in blu e in rosa piuttosto depressi e malinconici, prodotti all’età dai 20 ai 27 anni, in seguito ha progressivamente eseguito opere sempre cariche di potente vitalità. Anche quando ha voluto rappresentare con un linguaggio non figurativo il dramma della guerra nel suo “Guernica”, una monumentale tela in bianco e nero (349×776 cm) realizzata in meno di due mesi nel 1937, subito dopo il terribile bombardamento dell’omonima cittadina basca da parte della Luftwaffe e dell’aviazione fascista italiana. Ancora oggi, i suoi dipinti, immediatamente riconoscibili perché entrati nel patrimonio comune della cultura visiva, rimangono ostici e non sempre di facile lettura. Artista a tutto tondo,
si è cimentato in tutti campi, pittura, scultura, grafica, disegno, ceramica, con una versatilità, facilità creativa e immaginazione unite ad una solida formazione accademica e a un talento eccezionale da pittore fin da bambino. Per definire Picasso uomo e il suo amore per la vita (sposato due volte, quattro figli da tre donne diverse, tante amanti) si potrebbero usare le parole di Neruda “Confesso che ho vissuto”, ma bisognerebbe anche aggiungere: “Ho moltissimo lavorato”, visto che sono 16mila le sue opere presenti nel catalogo Zervos (di cui 5mila al Museo Picasso di Parigi). Se qualcuno poteva pensare che la sua fama potesse affievolirsi con il tempo, l’asta di Christie’s ha ridato nuova linfa economica e artistica a questo Maestro del XX° secolo che sicuramente continuerà ad essere rivisitato e riscoperto ancora negli anni a venire e, magari, riporterà in auge la “pittura-pittura”. NU COUCHÉ ET FEMME SE LAVANT LES PIEDS, 1944, olio su tela, 97x130 cm Sotheby’s New York, 2015, venduto a $ 10.330.000
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Settembre 2015, Anno 4 - N.9
MERCATO DELL’ARTE ? un’infanzia facile: il padre, di origini tedesche e proprietario di un bar, si suicida quando l’artista ha sette anni; la madre, originaria della Cornovaglia, deve iniziare a lavorare e, quando si risposa, manda Franz al Girard College di Philadelphia per adolescenti senza padre (Kline dirà: un orfanotrofio per bambini poveri). Dopo il diploma di scuola superiore riesce ad accedere nel 1931 alla School of Art University di Boston dove completa il corso di quattro anni; si trasferisce a New York per frequentare l’Art Students League e, nel 1936, parte per Londra dove si iscrive alla Scuola d’Arte di Heatherly. Durante questo periodo, sposa Elizabeth Parsons, una ballerina britannica e dopo due anni la coppia ritorna insieme a New York. Qui, Kline che è un bravo pittore realista, vive realizzando dei lavori di pittura murale per negozi e bar del quartiere ed eseguendo paesaggi, ritratti e illustrazioni tradizionali su commissione. Nel 1943 la svolta; conosce il pittore olandese Willem de Kooning che lo introduce nel giro di artisti frequentato da Jackson Pollock e Philip Guston, futuri fondatori dell’Espressionismo astratto. L’influenza del gruppo lo spinge a sperimentare l’astrazione e i suggerimenti datigli dall’amico de Kooning ad adottare nuove tecniche (come l’uso di un proiettore), lo indirizzano verso opere di grandi dimensioni caratterizzate da ampie pennellate gestuali in cui prevale quel nero e il bianco che contraddistingueranno per sempre il suo stile. Quando, nel 1950, inaugura la prima personale alla galleria Charles Egan di New York, la sua pittura radicalmente innovativa riscuote un
FRANZ KLINE (1910-1962), UNTITLED, 1957, olio su tela, 201x280 cm, Christie’s New York 2012, stimato $ 20-30milioni, venduto a $ 40.402.500 (€ 31.713.000) vedi sopra e immagine a pag.28. Franz Kline, uno dei più noti esponenti dell’Espressionismo Astratto, immediatamente riconoscibile per i suoi drammatici ideogrammi neri su fondo bianco, dopo aver attraversato una lunga stagione di oblio sta conoscendo una nuova stagione d’oro con un conseguente aumento del valore di mercato delle sue opere. Nato nel 1910 nella città mineraria del carbone di Wilkes-Barre in Pennsylvania, non ha avuto
FRANZ KLINE, FLANDERS, 1961, Sotheby’s New York 2015, olio su tela, 201x150 cm, venduto a $ 9.210.000 (€ 8.208.000)
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FRANZ KLINE successo immediato tra i critici e collezionisti. I suoi “monogrammi” monumentali, grazie alla vitalità dell’atto creativo e alla forza aggressiva del segno, esprimono perfettamente l’idea del gesto e dell’azione teorizzati dall’Action Painting. A chi gli chiede se la sua pittura subisca l’influsso dell’arte calligrafica orientale, Kline risponde: “Innanzitutto la calligrafia è una forma di scrittura e io non scrivo. Alcuni, talvolta, pensano che io prenda una tela bianca e ci dipinga sopra un segno nero, ma non è così. Oltre al nero dipingo anche il bianco, che è altrettanto importante.” Per quanto possa sembrare strano, infatti, solo pochi quadri di Kline sono eseguiti di getto poiché le sue larghe e tragiche pennellate che sembrano il risultato di un singolo gesto, sono pitturate con piccoli colpi di pennello. Coerentemente con la sua storia di pittore, egli predispone innumerevoli disegni preparatori che gli servono per dipingere la tela definitiva. Anche se molti vedono nella sua produzione chiare allusioni all’architettura urbana e industriale delle metropoli americane, Kline rifiuta questa interpretazione: “Io non dipingo in modo oggettivo, non dipingo un oggetto dato, una figura o
un tavolo, ponti, grattacieli: dipingo un’organizzazione che diventa un quadro”. Quando comincia ad essere conosciuto a livello internazionale, il suo matrimonio è già in crisi perchè la moglie soffre da sempre di depressione ed esaurimenti nervosi e negli ultimi anni trascorre il resto della vita dentro e fuori le cliniche psichiatriche. A partire dal 1955, Kline comincia a reintrodurre il colore nelle sue tele, ricercando così una maggior profondità spaziale e dinamicità nelle composizioni grazie al linguaggio ormai maturo e a una tecnica più fluida. I risultati, pur diventando una pittura meno essenziale e drammatica, sono sempre altrettanto suggestivi, possenti e riconoscibili. Nel 1962, quando è ormai affermato come uno dei principali esponenti dell’Espressionismo astratto, Kline muore per un attacco cardiaco all’età di 52 anni. La sua opera entrerà in una zona di silenzio perchè troppo difficile o, forse, troppo pessimista; sarà recuperata solo verso il 1980 dagli artisti minimalisti che riconoscono in lui un precursore e un maestro. FRANZ KLINE, ORANGE BLACK WALL, 1959 olio su tela, 170x367 cm
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Ottobre 2015, Anno 4 - N.10
MERCATO DELL’ARTE ?
KEITH HARING (1958-1990), Untitled (September 14, 1986), 1986, acrilico e smalto su tela con vernice, 241x488 cm, Sotheby’s New York 2014, stimato dai 2 ai 3milioni di dollari, venduto a $ 4.869.000 (€ 3.549.000). Smilzo “nerd” occhialuto, (tipo Woody Allen), gay dichiarato, Keith Haring muore di Aids nel 1990 a soli 32 anni, al culmine di una carriera tragicamente breve ma intensamente vissuta. Una meteora nel mondo dell’arte americana che, a partire dagli anni 80, ha creato un linguaggio visivo personale inconfondibile caratterizzato da una visione bidimensionale e popolato da sagome stilizzate costitute da contorni netti e continui, segni semplici e pochi colori brillantissimi. Nato in Pennsylvania, dopo aver ottenuto il diploma di scuola superiore, si iscrive alla Scuola d’Arte professionale a Pittsburgh, un istituto per grafica pubblicitaria che, però, abbandona dopo sei mesi. Nel 1978 si trasferisce a New York per iscriversi alla School of Visual Arts dove trova una fiorente comunità artistica alternativa che
si sta sviluppando nelle vie del centro, le metropolitane e gli spazi nei club. E’ subito attratto dalla scena dei writers (“sono diventato ossessionato dal lavoro di Jean-Michel Basquiat”, dirà) una nuova forma d’espressione artistica giovanile, spontanea e ribelle. Comincia a diventare noto grazie ai graffiti realizzati a gessetto sui tabelloni nelle stazioni della metropolitana: inizialmente la sua tag (firma) è un animale simile a un cane, poi inventa un bambino che va a quattro zampe chiamato “The radiant Baby”. Contrariamente ai suoi colleghi di street art, anche se privilegia linguaggi e tecniche non convenzionali, Keith è un artista preparato e colto. Il suo debutto avviene nel 1982 con una mostra personale molto popolare, presso la Tony Shafrazi Gallery; gli anni successivi sono densi di successi crescenti con mostre in tutto il mondo. Artista anomalo rispetto al mondo dell’arte americana ufficiale in cui prevale una ricerca individualista, nei suoi dipinti mostra sempre una grande attenzione ai temi sociali, politici e culturali. Per mezzo delle sue figure infantili e
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KEITH HARING dei disegnini decorativi o divertenti, Haring manifesta liberamente e quotidianamente la sua visione della vita e le proprie idee sul mondo in cui vive, prendendo posizione contro la droga, la violenza, il razzismo, le ingiustizie sociali, il potere ma anche a favore della difesa della natura, della libertà e, sempre, della fantasia. Una caratteristica dell’artista è la grande velocità e facilità di esecuzione nel dipingere opere anche di grandi dimensioni grazie alla tecnica acquisita come writer. Nella scelta dei supporti (teloni di pvc, lamiera, muri, pannelli rigidi) e nel segno irregolare con gocciolature di colore, si riconosce la libertà espressiva legata a un linguaggio stilizzato in cui prevalga una comunicazione di immediata comprensione. Non c’è separazione tra la sua arte e la sua vita da lui testimoniate in ogni quadro: il sesso è presente ossessivamente nel suo lavoro, perché parte della sua esperienza e perché simbolo di quegli anni di contestazione libertaria e liberazione sessuale. Ancor più quando, rendendosi conto che a causa dell’HIV il suo tempo a disposizione sta riducendosi, si impegna in battaglie contro il silenzio sul “cancro dei gay” (vedi il triangolo rosa “Silence=Death, il Silenzio è eguale a Morte) e contro l’omofobia. Nel 1986 è ormai un artista affermato in tutto il mondo capace di opere sempre più complesse e monumentali come “September 14, 1986” (vedi a pag.28). L’opera di Haring è fortemente politica anche perché con lui l’arte torna a uscire dalle gallerie e dai musei quando decide di riprendere la sua attività negli spazi pubblici realizzando grandi murales caratterizzati dall’im-
KEITH HARING, Silence=Death, 1988 acrilico su tela, 274x305x274 cm,
pegno sociale. Scrive: “... l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare”. Quando, nel 1988, gli viene diagnosticato l’Aids, coraggiosamente rivela lui stesso la sua malattia in un’intervista-testamento al settimanale Rolling Stone. Morirà due anni dopo.
KEITH HARING, Untitled, 1988, acrilico su tela, 245x241 cm, Sotheby’ New York 2014, venduto a $ 2741000 (€ 2.144.000)
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Novembre 2015, Anno 4 - N.11
MERCATO DELL’ARTE ? GUSTAV KLIMT (1862-1918), RITRATTO DI GERTRUD LOEW, 1902, olio su tela, 150x45 cm, Sotheby’s Londra 2015, venduto a $ 38.899.000 (34.719.000 euro). Il dipinto ritrae Gertrud, la delicata figlia diciannovenne del dottor Anton Loew, proprietario del Sanatorium Loew, la migliore casa di cura di Vienna, e collezionista di opere dell’artista, tra cui anche la “Giuditta I”. Con l’arrivo al potere dei nazisti nel 1939, i Loew, di origine ebraica, abbandonano la loro casa con tutte le proprietà. Il ritratto di Gertrud, dopo molte peripezie, è acquistato nel ‘41 da Gustav Ucicky, uno dei tanti (quattordici) figli illegittimi di Klimt e poi ereditato dalla moglie Ursula, fondatrice del Gustav Klimt Vienna 1900 - Privatstiftung. Finalmente, quando nel 2014 la proprietà dell’opera è ufficialmente attribuita a Gertha Felsőványi, legittima erede dei Loew, la Fondazione Klimt e la stessa erede decidono di comune accordo di mettere il quadro all’asta da Sotheby’s. La storia di questo dipinto, come molti altri di Klimt, si intreccia con i tragici avvenimenti degli ebrei austriaci fuggiti abbandonando, o “costretti a donare” allo Stato austriaco, le loro opere d’arte. E’ il caso dell’erede della famiglia Bloch-Bauer, Maria Altmann, la nipote sopravvissuta all’Olocausto, la quale dopo la guerra inizia una lunga e complicatissima disputa legale, vinta nel 2006, che porta alla restituzione da parte dell’Österreichische Galerie di cinque dei sei quadri di Klimt esposti nel Belvedere di Vienna (vicenda narrata nel recente film “Woman in gold”). Tra i cinque dipinti restituiti, i ritratti “Adele Bloch-Bauer I” del 1907 (vedi pag.28), una superficie astratta di decorazioni dorate in cui del corpo di Adele Bloch (modella e amante del pittore), appaiono solo le mani e il volto, venduto nel 2006 a trattativa privata per 135.000.000 dollari e “Adele Bloch-Bauer II” (vedi pag. 31), eseguito nel 1912 quando, concluso il “periodo aureo”, il pittore inaugura con lo “stile fiorito”, cromaticamente acceso e gioioso, una nuova stagione, battuto nel 2006 a 78 milioni di dollari. Anche “La chiesa di Cassone” (borgo vicino a Malcesine), eseguito dal pittore nel 1913 en plein air guardando con un binocolo dalla riva opposta del lago di Garda, e “Litzlberg am Attersee”, uno scorcio del lago del Salzkammergut dove l’artista trascorreva le vacanze (vedi pag. 29 e 30), sono due opere appartenute a
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GUSTAV KLIMT Viktor Zuckerkandl e confiscate dai nazisti dopo il 1938, volontariamente restituite all’ultimo erede dal Museum Moderne di Salisburgo. Gustav Klimt è sicuramente il protagonista indiscusso della vita artistica viennese e uno dei maggiori artisti del primo Novecento: lavora alle decorazioni nello stile storicista eclettico di numerosi edifici pubblici ottenendo onori e fama poi, a partire dal 1895, nella sua pittura appaiono temi e modi del simbolismo che introducono una nuova sensibilità. Ma è nel 1898, con l’inaugurazione del padiglione della “Secession”, la nuova associazioni di artisti e architetti “modernisti” guidata da Klimt, che inizia uno dei periodi più interessanti e ricchi di idee per l’evoluzione del gusto europeo. Klimt possiede una tale e indiscussa maestria che ogni sua opera è un capolavoro; il tema centrale della sua pittura è la donna: si circonda di donne, ama le donne (ed è ricambiato) e le raffigura per tutta la vita. I suoi ritratti e i magistrali disegni rappresentano affascinanti dame dell’alta società viennese nelle loro vesti di seta intessute di ricami floreali o sensuali modelle discinte, cariche di un erotismo che coglie il lato più oscuro e morboso della loro personalità. Sono immagini della donna nuova, libera, che segretamente scopre il piacere e che esprime la volontà di emancipazione dai vincoli sociali e morali che il perbenismo della cultura ufficiale le impone. Nella sua intensa e instancabile ricerca della bellezza assoluta della donna attraverso una materia simbolica quale l’oro e le fantastiche decorazioni floreali policrome con cui impreziosiva i suoi pannelli, Klimt è l’ultimo cantore della fin de siècle. Sono gli anni della nascita della psicanalisi di Sigmund Freud e in cui l’Austria è sottoposta a profondi rivolgimenti sociali, politici ed econo-
mici che mettono in crisi il lunghissimo regno di Francesco Giuseppe e che preludono allo scoppio della Grande guerra. Può essere che Klimt non avesse coscienza della natura dei cambiamenti che precedevano l’arrivo dell’apocalisse ma solo che grazie alla sua sensibilità di artista ci fosse in lui la premonizione del crollo di un mondo che sarà poi definito “Austria Felix”. Per anni l’arte di Klimt è stata sottovalutata perché accusata di decorativismo, formalismo, decadentismo da una critica che, in nome del mito di una presunta superiorità delle avanguardie e della modernità, aveva fatto tabula rasa dell’arte del passato. Oggi, dopo cento anni, i dipinti di Klimt continuano ad ammaliare con le loro atmosfere magiche dimostrando che la vera arte non ha tempo. 85
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Dicembre 2015, Anno 4 - N.12
MERCATO DELL’ARTE ? ALEXANDER CALDER (1898-1976), POISSON VOLANT, 1957, ‘mobile’ appeso, lamiera verniciata, asta, filo di ferro, 61x 226x102 cm, venduto da Christie’s New York, 2014 a $ 25.925.000 (€ 18.900.000). Vedi fig.in basso Alexander Calder, una delle figure più influenti della scultura del 20° secolo, nasce nel 1898 in Pennsylvania in una famiglia di artisti in cui, fin da bambino, dimostra una grande creatività. Nel 1919 si laurea in ingegneria meccanica ma già nel 23 decide di dedicarsi completamente all’arte: studia pittura e disegno a New York e nel 26 si trasferisce a Parigi, nel quartiere di Montparnasse, dove rimane per otto anni conoscendo i maggiori artisti internazionali. Sono i tempi in cui realizza figure fatte solo con il filo di ferro, sagome molto dinamiche che ricordano un disegno nello spazio, e costruisce ‘Le Cirque Calder’, un circo in miniatura composto da persone, cose e animali mossi da meccanismi ingegnosi, con cui si esibisce in spettacoli. Nel 1930, dopo lo ‘schock’ (parole sue) ricevuto dall’incontro con Mondrian, la sua improvvisa conversione all’astrazione geometrica: entra nel gruppo ‘Abstraction-Creation’ e l’anno seguente presenta le prime sculture cinetiche astratte. Inizialmente realizza piccoli oggetti motorizzati o da mettere in movimento mediante cinematismi manuali, poi è la scultura stessa che modifi-
ca ‘autonomamente’ la propria forma. Alexander Calder è l’artista che ha rivoluzionato l’idea di scultura convenzionalmente intesa come forma plastica solida, chiusa, finita e appoggiata stabilmente al terreno. Egli ribalta completamente questa concezione liberandola dai vincoli storici del peso, della gravità e della staticità: le sue sculture diventano infinitamente leggere, in continuo movimento nell’aria poiché dotate di un equilibrio precario grazie al quale la loro forma e posizione variano nel tempo e nello spazio. L’amico dadaista Marcel Duchamp le battezza “mobiles”, un gioco di parole francese che significa sia ‘ciò che si muove’ sia ‘movente’. Nascono così, le sagome dalle forme astratte in lamiera colorata che ricordano le immagini surrealiste, bilanciate tra di loro tramite sottili astine di filo di ferro e appese al soffitto con un cavetto intorno al quale poter ruotare così da rendere il tutto sensibile ai minimi spostamenti d’aria. (vedi pag. 21 e 28) L’artistaingegnere interpreta lo spazio come forza vitale ed energia dentro cui si muovono i ‘mobiles’, i quali, regolati da semplici principi fisici di tensione ed equilibrio, riassumono in sé le caratteristiche proprie della modernità: sono mobili, informali, dinamici, leggeri, casuali, variabili nel tempo e vicini all’idea stessa di natura, però, senza alcun intento mimetico. Oltre ai ‘mobiles’
ALEXANDER CALDER
Due ‘mobiles’: “Untitled” (rosso), 1957, venduto da Christie’s 2012 a $ 6.354.000 e “Snow Flurry”, 1950, (bianco) venduto da Christie’s 2012 a $ 10.386.000
cinetici sospesi al soffitto, che realizza personalmente con cesoie, pinze e martello, Calder inventa anche sculture per interni ed esterni, definiti ‘mobiles permanenti’, costituite da basi appoggiate a terra che portano aste di acciaio dotate di movimenti vari (vedi a pag.31). Contestualmente, l’artista prosegue la sua rivoluzione progettando delle sculture astratte fisse e autoportanti, complicati oggetti tridimensionali soprannominati ‘stabiles’ da Arp: una via di mezzo tra macchine fantascientifiche e mostri preistorici, costruite con lamiere di acciaio sagomate, assemblate con bulloni a vista e verniciate in tinte vivaci. Le realizza via via sempre più complesse e monumentali, connotate da pochi appoggi puntiformi a terra e da curve slanciate nel cielo che le rendono del tutto particolari nel panorama dell’’arte pubblica urbana’ (vedi a pag.29 e 30). Gli ‘stabiles’ non possiedono un prospetto principale, un fronte o un retro perché la loro visione cambia continuamente a seconda dei punti di vista rendendone difficile la comprensione. Inoltre, poiché a causa delle grandi dimensioni è possibile penetrare dentro
e sotto la struttura, i grandi ‘stabiles’ sono una innovativa sintesi tra scultura e architettura. Nelle opere di Calder si avverte intuitivamente una vena gioiosa e giocosa che si esprime attraverso la costante ricerca della bellezza compositiva delle forme organiche e dei colori. Infatti, è piuttosto evidente che lo scultore si riferisce ampiamente al mondo della natura per trarre l’ispirazione sia delle sculture mobili che di quelle stabili, nelle quali gli spettatori amano riconoscere le forme biomorfe di vegetali o animali stilizzati. Però, egli è qualcosa di più di uno scultore: è un poeta della levità che si esprime attraverso il movimento in quanto manifestazione della vita; mentre il gioco casuale delle superfici sospese e delle relative ombre proiettate sul muro, associate al suono del contatto tra le strutture metalliche, è quanto di più vicino ad uno stato di meditazione Zen. Giustamente, Alexander Calder è stato definito l’unico artista nella storia ad aver inventato e poi praticato una forma d’arte tutta sua. 87
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Gennaio 2016, Anno 5 - N.1
MERCATO DELL’ARTE ? Le prime stanno ottenendo dei riscontri economici crescenti perché sono estremamente piacevoli, sobriamente eleganti e riconoscibili. La normale produzione dell’artista, infatti, copre un’ampia varietà di sculture che va dai monoliti in pietra o in materiali duri lavorati con tecnologie vecchie e nuove, ai solidi complessi in legno trattati con pigmenti vivacissimi, a forme spaziali estroflesse e introflesse in materiali plastici colorati o trasparenti, o i caratteristici volumi e specchi parabolici in acciaio riflettente che creano (vedi a destra) una percezione deformata e illusoria della realtà in cui sono collocati. Ma è nell’arte pubblica che le sue scultureinstallazioni monumentali suscitano la meravigliato e affascinano il pubblico che si confronta con forme e materiali inusuali, capaci di risvegliare il piacere della scoperta di mondi diversi e imprevedibili. L’opera che ha contribuito a dare la fama a Kapoor è il “Cloud Gate”, (porta delle nuvole) a Chicago (vedi a pag. 28), soprannominato dai cittadini “The Bean” (il Fagiolo), una delle più grandi sculture in acciaio al mondo ormai diventata una meta artistica e turistica obbligata. Ispirato al mercurio liquido, l’involucro esterno è realizzato in lastre di acciaio unite con saldature invisibili e lucidate a specchio in modo che la sua geometria ellittica, totalmente curva, rifletta il cielo e tutto lo skyline circostante. Grazie a questo fenomeno simile a una illusione ottica il Fagiolo, nonostante pesi 110 tonnellate, sembra galleggiare nello spazio e cambiare continuamente la sua percezione a seconda del punto di vista e la distanza dell’osservatore, dell’ora, del tempo e delle stagioni. La forma, apparentemente semplicissima è, in realtà, molto complessa perché connotata simbolicamente come tutte le sculture di Kapoor in
ANISH KAPOOR (1954), UNTITLED, 2003, alabastro, 197x192x58 cm, venduto da Sotheby’s Londra 2008 a $ 3.872.00 (€ 3.459.000). La scultura è un monolito di pietra da 15 tonnellate scavato su entrambe le facce da due semiconcavità uguali e simmetriche, separate tra loro da un diaframma così sottile da essere trasparente alla luce. E’ proprio sul dialogo tra contrari, sull’ambiguità e illusorietà del mondo reale che è fondato l’approccio filosofico di uno dei più innovativi scultori viventi, il sessantenne artista anglo-indiano Anish Kapoor il quale nelle sue opere riesce a far convivere il misticismo panteistico del suo Paese d’origine con l’astrazione e le tecnologie occidentali più avanzate. A causa del suo interesse per la ricerca e sperimentazione di forme artistiche anche completamente diverse tra loro, la sua produzione non è facilmente circoscrivibile entro confini precisi e potrebbe essere semplificata tra ‘piccole opere’ rivolte al mercato e ‘grandi opere’ pubbliche.
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ANISH KAPOOR cui convivono maschile e femminile. La scultura possiede un esterno ma anche un interno, una camera concava che permette ai visitatori di camminare al di sotto di essa, simile a un grande ventre lucidato a specchio e dotato di “omphalos”, un grande ombelico rientrante, oppure, citando Courbet, “L’origine del mondo”. Nonostante la complessità progettuale e gli enormi problemi tecnologici e costruttivi risolti da un’equipe di esperti, il Cloud Gate, che è costato 26 milioni di dollari (la metà della metà di una serigrafia di Warhol), è un’opera d’arte semplicemente perfetta e perfettamente semplice. E’ un “monumento” che rimette in sintonia il pubblico con l’arte contemporanea perché possiede il fascino misterioso di un oggetto metafisico arrivato da un altro pianeta e riassume in sé bellezza delle forme e perfezione del materiale, coniugando l’ambiguità e lo straniamento dello specchio con la meraviglia della scoperta e il piacere gioioso del gioco. Tra le altre numerose opere monumentali di Kapoor particolare successo hanno riscosso i corpi organici creati con materiali plastici sottoposti
TURNING THE WORLD UPSIDE DOWN #4, 1998, acciaio inox, 201x168 cm, Christie’s New York 2011 venduto a $ 2.434.500 (€ 1.690.400)
a trazione o compressione come, ad esempio, il “Leviathan” esposto al Grand Palais di Parigi (vedi a pag. 31) nel 2011: tre giganteschi volumi pressostatici in PVC alti 33 metri, uniti tra di loro e mai visibili nella loro interezza ma percorribili internamente. Il pubblico entrava attraverso una piccola apertura nella scultura come in una sorta di immenso ventre materno racchiuso dalle membrane curvilinee che, attraversate dalla luce naturale esterna, apparivano di colore rosso sangue. I visitatori si ritrovavano sospesi in una dimensione irreale e surreale che permetteva loro di vivere un’esperienza, non solo visiva ma anche sensoriale, totalizzante. Kapoor aveva spiegato all’inaugurazione: “Voglio che lo spettatore viva un momento di choc estetico e fisico”.
UNTITLED, 2004, allumino verniciato, diam 254x60 cm, Sotheby Londra 2008 a $ 2.133.000 (€ 1.071.600)
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Febbraio 2016, Anno 5 - N.2
MERCATO DELL’ARTE ? coniugare le sue complesse invenzioni metodologiche e concettuali anche con una innovativa sensibilità per la componente estetica. Figlio di un notaio (conte e abbiente) e di una violinista, poi diventata ricamatrice, Alighiero Boetti nasce a Torino nel 1940 e muore di tumore a soli 54 anni. Sin dall’adolescenza sviluppa numerosi interessi, dalla matematica alla musica, dalla filosofia all’esoterismo, dalle culture del Medio ed Estremo Oriente a quelle africane. Abbandonati gli studi alla Facoltà di Economia e Commercio, al principio degli anni ’60 realizza da autodidatta i suoi primi dipinti e disegni astratti; dopo un lungo soggiorno a Parigi, tornato a Torino, nel 1967 esordisce con la sua prima mostra personale presso la galleria Stein. Nello stesso anno partecipa all'esposizione "Arte Povera" curata da Germano Celant, il nuovo movimento artistico a cui aderisce presenziando alle più significative esposizioni. Dopo due anni di 'sperimentazione' con materiali "poveri", nel 1969 si allontana dal gruppo per seguire altre strade più legate ai suoi interessi. Poi dirà: «Sono andato da un fornitore di materiali da costruzione. E' stato emozionante vedere le cose meravigliose che erano lì! Vedere tutti quei materiali mi ha riempito di entusiasmo folle, alla fine si è rivelato nauseante!» Nel frattempo viaggia da Est a Ovest soggiornando soprattutto in Afghanistan dove si reca più volte l'anno fino al 1979 quando il paese sarà invaso dall’esercito sovietico. A Kabul nasce il primo arazzo con ricamati il centenario della sua nascita e la data presunta della morte Seguiranno centinaia di arazzi realizzati su suo disegno da abili (ed economiche) artigiane locali, i più famosi sono di formati vari suddivisi in griglie in cui lettere accostate compongono frasi e giochi di parole in varie lingue (vedi a
ALIGHIERO BOETTI (1940-1994), Colonna, 1968 centrini di carta e ferro, 211x36x24 cm, Christie’s Londra 2014, venduto a $ 3.880.000 (euro 3.058.000). Su uno dei centrini di carta l'artista ha scritto: «Uno dei mille e mille fogli che compongono la colonna realizzata a Torino nel sessantotto, fuori e in silenzio dalla furiosa contestazione. Alighiero e Boetti». E' stato uno degli artisti d'avanguardia italiani più interessanti e cosmopoliti, ignorato per un lungo periodo e finalmente riscoperto nelle aste internazionali dove sta registrando una crescita vertiginosa dei suoi prezzi. Certamente perché è riuscito a
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ALIGHIERO BOETTI lato e a pag. 31) e le "Mappe", planisferi del mondo nelle quali ogni nazione è tessuta con i colori della propria bandiera (vedi a pag.29). Negli anni successivi prosegue con la sua ricerca ispirata all'ideale di un'incondizionata libertà d'espressione e contrassegnata dallo sperimentalismo sui temi di ordine e disordine, serialità, ripetitività e sui concetti del doppio e dell'identità giungendo a firmare con il suo nome sdoppiato in "Alighiero e Boetti". Sono i tempi della serie dei "Viaggi postali", dei lavori a biro, dei video, delle scacchiere in legno e lamiera, dei disegni e dei collage, e molti altri ancora. Tutte le sue opere sono sempre precedute da uno studio progettuale che con il tempo diventa metaprogettuale perché l’artista non si preoccupa più dell'oggetto artistico ma di inventare 'sistemi' che poi "sceglieranno" per lui. Anzi, privilegiando sempre più l'aspetto concettuale dell'atto artistico, perviene a un progressivo distacco della fase creativa da quella dell'esecuzione materiale, delegata, in parte o in toto, a suoi collaboratori. Molti arazzi, ad esempio, contengono scritte in lingua farsi liberamente scelte dalle ricamatrici. Proprio quest'ultimo aspetto è oggi particolarmente attuale nel suo aver messo in discussione il ruolo tradizionale dell’artista e lo stesso concetto di paternità dell'opera d'arte. «Prima di tutto preferisco pensare. Questa è la cosa fondamentale. Credo davvero che la manualità sia secondaria». Sicuramente, le opere di Boetti si distinguono da quelle più "basiche" degli altri artisti poveristi e concettuali poiché sono caratterizzate da un raffinato canone classico geometrico-architettonico e nascondono nella loro struttura una componente ludica, ironica o enigmatica, quasi iniziatica, che intriga l'osservatore spinto a comprenderne i sofisticati meccanismi interni.
ALIGHIERO BOETTI, EMME I ELLE ELLE E ... , 1970 vernice a spruzzo su legno, 35x35 cm
ALIGHIERO BOETTI, SCIOGLIERSI COME NEVE AL SOLE, 2010, arazzo su pannello di tela, 23x21,5 cm
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Marzo 2016, Anno 5 - N.3
MERCATO DELL’ARTE ?
EDWARD HOPPER (1882-1967), "East Wind Over Weehawken", 1934, olio su tela, 86x128 cm, Christie’s New York 2013, stimato $ 22-28 milioni e venduto a $ 40.485.000 Vedi a pag.21. L'artista è stato battuto a una cifra elevatissima, quasi il doppio del prezzo base, dipendente sia dalla rarità dei suoi dipinti ad olio, sia dall'importante rivalutazione di un "un maestro la cui poesia è il realismo". Nato a New York da famiglia benestante, Hopper studia per dieci anni illustrazione e pittura
al New York Institute of Art con Robert Henri, un pittore noto, soprattutto, per la sua partecipazione alla Ashcan School, il quale ha una forte influenza e lo spinge verso raffigurazioni realistiche di vita cittadina. Dopo gli studi Hopper fa diversi viaggi a Parigi e in Europa per approfondire la scena artistica ma, a differenza di molti suoi contemporanei, non è coinvolto dalle sperimentazioni astratte delle avanguardie ma è attratto dall'idealismo e dal senso del colore, delle forme e del dettaglio dei pittori realisti. Anche negli Stati Uniti si tiene a distanza da mode e tendenze moderniste, prefendo sviluppare con coerenza un proprio linguaggio personale scarno ed essenziale, a lungo incompreso dalla critica che lo definisce genericamente "realista americano". EDWARD HOPPER, Hotel window, 1955, olio su tela, 102x140 cm, Sotheby's New York 2006 venduto a $ 24.000.000 (€ 18.257.900)
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EDWARD HOPPER Hopper è alto, insicuro, timido e indolente, taciturno e riservato, e i suoi quadri, altrettanto laconici, carichi di vuoto, di silenzio, sono aperti a infinite interpretazioni e spesso descritti come immagini di solitudine, alienazione, malinconia. Oggi appare evidente che l'artista, raffigurando il suo senso di isolamento e di solitudine personale nella città americana tra le due guerre mondiali, abbia descritto quel senso di incomunicabilità, individualismo e alienazione, che sarebbero diventati condizione comune a tutte le società industrializzate occidentali in cui si era perso il senso di comunità. Hopper, a malincuore, deve lavorare per diversi anni come grafico commerciale proseguendo, contemporaneamente, con la pittura e l'incisione e vendendo con modesto successo piccole acqueforti e acquerelli ai turisti. Per il pittore, che è sempre stato attratto dalle vecchie architetture in stile vittoriano con le loro ombre proiettate da torri e torrette, portici, tetti mansardati e decorazioni, la svolta nella carriera avviene nel 1923 con un acquerello, "The Mansard Roof" (Il tetto a mansarda), presentato a una mostra e acquistato dal Brooklyn Museum per 100 dollari. Il dipinto sarà il primo di una serie di scene urbane, prima, e rurali, poi, in cui egli utilizza delle "inquadrature" dello spazio e una illuminazione inusuale quasi cinematografica, per catturare lo stato d'animo dei soggetti rappresentati. L'anno dopo ha luogo, presso la galleria Frank Rehn sulla Fifth Avenue, una mostra personale che riscuote un buon successo commerciale. Nel 1925, a quarantatre anni, esegue "House by the Railroad" (Casa lungo
le rotaie), considerato un classico che segna il raggiungimento della sua maturità artistica e da inizio a quei temi tratti da momenti di normale vita quotidiana che si ritroveranno costantemente nei suoi dipinti: strade vuote, case, camere d'albergo, bar, ristoranti, teatri, treni, spesso abitati da figure isolate in silenzi opprimenti. Scene realistiche ambigue impregnate di atmosfere inquietanti e surreali. Quando inizia a trascorrere le estati sulle coste del New England, con i suoi acquerelli pieni di luce riproduce paesaggi marini e naturali che evocano la bellezza austera della regione e, soprattutto, le pulite geometrie di architetture locali. Come dirà: «Quello che volevo fare era dipingere la luce del sole sul lato di una casa». "Nighthawks" (Nottambuli) è il dipinto realizzato nel 1942 (vedi pag.28-29) considerato una delle opere più iconiche dell'arte e della cultura americana per la sua capacità di raccontare una "misteriosa" scena di vita notturna newyorkese rappresentando l'interno illuminato a luci fluorescenti di un bar interamente vetrato posto sull'angolo di una via e pochi "personaggi" fermi ai loro posti come gli attori di un thriller. Edward Hopper muore nel 1967 e la moglie Josephine, pittrice e da sempre la modella in tutti i suoi dipinti, lo segue dopo dieci mesi.
EDWARD HOPPER, Chair car, 1965, olio su tela, 102x127 cm, Christie's New York 2005, venduto a $ 12.500.000 (€ 9.765.000)
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