Presentazioni artisti - icsART 2016-2018 Volume Secondo

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PAOLO TOMIO

PRESENTAZIONI ARTISTI icsART Volume Secondo Annate 7.2012 - 3.2016


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PAOLO TOMIO

PRESENTAZIONI ARTISTI icsART Volume Secondo Annate 4.2016 - 3.2018


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PRESENTAZIONI ARTISTI - icsART Volume Secondo

In questo Secondo Volume, sono riportati tutte le presentazioni degli artisti trentini scritte dal sottoscritto sulla rivista digitale icsART (ex FIDAart) a partire dall’aprile 2016 fino al marzo 2018. Le presentazioni pubblicate su FIDAart fanno parte del Volume Primo. Le brevi note stese dal sottoscritto per presentare gli artisti intervistati dalla rivista FIDAart e, da icsART a partire dal 2016 ad oggi, non hanno l’ambizione di essere un testo critico poiché sono state scritte da un artista dopo aver posto una serie di domande a dei colleghi che apprezzava, per spiegare sinteticamente al lettore le peculiarità culturali, tecniche, espressive di ognuno. Con alcuni di questi artisti avevo un lungo rapporto di amicizia, altri, invece, ho avuto il piacere di incontrarli in occasione dell’intervista e conoscerli nel corso degli incontri per parlare del loro lavoro, ma con tutti il rapporto è stato sempre stimolante, istruttivo e, umanamente e intellettualmente gratificante. Con la creazione di questa rivista mi ero ripromesso di dare voce agli artisti trentini lasciandoli totalmente liberi di rispondere a domande molto dirette e concrete, come quelle che potrebbero essere poste da una qualsiasi persona che si trovasse di fronte alle loro opere. L’intenzione era quella di riportare l’attenzione sulle reali problematiche di un pittore o uno scultore per liberare il discorso dal filtro di certa critica che si ritiene autorizzata a parlare in nome e per conto dell’unico protagonista che conta: l’autore. Arrogandosi il diritto di interprete “colto” di un’attività complessa che crede di poter di conoscere e capire attraverso gli strumenti di un apparato concettuale solo teorico, spesso il critico finisce per mascherare le idee dell’artista dietro un vocabolario astruso e oscuro con il risultato di allontanare ancora di più il pubblico non esperto. Ciò non significa che l’artista sappia sempre esprimere con chiarezza e lucidità la propria visione dell’arte e del mondo (tutt’altro), o che il critico non sia in grado di capire e valutare, dall’esterno, con obiettività e competenza, ma solamente che questi ruoli ricordano i dibattiti sportivi in televisione dove certi personaggi comodamente seduti in studio, discettano con disinvoltura di sport - che non hanno mai praticato - “spiegando” agli atleti dove sbagliano e come possano o debbano migliorare. Diversi sedicenti esperti che non sanno distinguere un’opera vera da una malamente falsificata (vedi la burla delle sculture e, più recentemente, dei dipinti di Modigliani), millantano profonde conoscenze dell’arte contemporanea grazie a qualche esame di Storia dell’arte. Sentire direttamente “la voce” dei protagonisti, dunque, non garantisce necessariamente una originalità assoluta delle opinioni da loro espresse, ma, sicuramente, permette di cogliere la freschezza e la genuinità che deriva da una testimonianza di vita vera. Paolo Tomio Trento, marzo 2018

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icsART 2016 - anno 5° N. N. N. N. N. N. N. N. N.

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Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

Franco Chiarani Luciano Civettini Silvano Nebl Rolando Tessadri Alessandro Goio Mauro Berlanda Tomaso Marcolla Romano Perusini Anna Caser

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icsART 2017 - anno 6° N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N.

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Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

Claudio Foradori Carla Decarli Renato Sclaunich Franco Albino Bepi Leoni Mauro Larcher Luigina Lorenzi Nerio Fontana Carla Caldonazzi Sergio Decarli Piermario Dorigatti Annamaria Targher

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icsART 2018 - anno 7° N. 1 N. 2 N. 3

Gennaio Febbraio Marzo

Renato Reigl Patrizia Gandini Giorgio Conta

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2016


Aprile 2016, Anno 5 - icsART N.4

Franco Chiarani

Maggio 2016, Anno 5 - icsART N.5

Luciano Civettini

Giugno 2016, Anno 5 - icsART N.6

Silvano Nebl

Luglio 2016, Anno 5 - icsART N.7

Rolando Tessadri

Agosto 2016, Anno 5 - icsART N.8

Alessandro Goio

Settembre 2016, Anno 5 - icsART N.9

Mauro Berlanda

Ottobre 2016, Anno 5 - icsART N.10

Tomaso Marcolla

Novembre 2016, Anno 5 - icsART N.11

Romano Perusini

Dicembre 2016, Anno 5 - icsART N.12

Anna Caser


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Aprile 2016, Anno 5 - icsART N.4

Franco Chiarani

Franco Chiarani è un artista di talento che ha saputo costruirsi un nome nel panorama nazionale grazie ai dipinti molto personali e identificabili per il segno grafico elegante e nervoso con cui tratteggia sapienti masse chiaroscurali o inquietanti figure umane. La gran parte delle sue opere hanno come filo conduttore l'uomo e il suo stare in un mondo che pare privo di senso. L'artista non è interessato tanto alle fisionomie quanto alla rappresentazione dei connotati psicologici di personaggi che recitano nella commedia umana sospesi in una dimensione spazio-temporale inafferrabile. Attraverso ripetuti trattamenti e passaggi, come da un antico palinsesto, dalle sue carte dipinte riaffiorano le "forme cercate" simili a ombre o fantasmi indistinguibili che risalgono alla superficie attraverso atmosfere rarefatte monocromatiche. Come i protagonisti di "Aspettando Godot" rimangono in attesa di una risposta che non verrà mai, così l'umanità dei suoi quadri oppressa dalla solitudine, l'incomunicabilità, la fatica di vivere, si trova impotente di fronte all'ignoto. La cifra poetica di Chiarani si caratterizza per l'ambiguità espressiva di un linguaggio che si muove sul confine tra figurazione e astrazione, tra allusione e illusione, mantenendosi aperto ai molteplici significati e interpretazioni che l'osservatore vi intravede: misteriose ombre indefinibili, stravaganti donne e uomini usciti da lontane memorie, ambigue presenze minacciose. Le sue pitture, però, sono sempre ammorbidite da tinte calde e materiche in cui predominano i colori delle terre e un vellutato effetto acquerellato che stempera la carica drammatica e angosciante tipica di certo espressionismo nordico. A volte, anomala e incongrua, appare nel dipinto una linea rossa, come una luce che indichi la via in un esistenza avvolta dalle nebbie: forse un segno di speranza, oppure un (controllato) moto di ribellione.

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Maggio 2016, Anno 5 - icsART N.5

Luciano Civettini

Ci sono artisti che dipingono per comunicare la propria visione del mondo e, indirettamente, raccontare di sé; altri, come Luciano Civettini, che partono dal proprio vissuto per parlare anche di una realtà più generale. Civettini è un pittore il quale, dopo una lunga esperienza impegnata nella produzione di opere personali e di grande qualità in cui si riconoscono i riferimenti al surrealismo e le influenze dei maestri del moderno, in seguito a una crisi creativa, ha sentito il bisogno di abbandonare i linguaggi già sperimentati per esplorare strade diverse. Da qui il passaggio da un linguaggio astratto, colto e maturo, a un tipo di originale figurazione che fa ricorso a un ampio repertorio di immagini popolari, fantastiche, poetiche e anche kitsch, sedimentate nei suoi (e nei nostri) ricordi infantili. Animali antropomorfizzati, bambine erotiche e indifese, ragazzini volanti alieni, esseri fantastici, icone disneyane, citazioni di artisti famosi, astronauti-terrestri, parole oscure. I paesaggi e le atmosfere dei suoi piccoli dipinti ad olio sono misteriosi, indecifrabili, ambigui, surreali appunto, perché provenienti da una cultura di massa rivisitata attraverso il filtro della sua storia personale. Cosa rappresentino i personaggi e le situazioni dei suoi quadri delicati e teneri, l'artista lo dice chiaramente: «le immagini hanno il sopravvento… una specie di autoanalisi». Come nell''automatismo psichico' del Surrealismo in cui il processo creativo avveniva in assenza di controlli esercitati dalla razionalità in modo che le immagini potessero liberamente salire alla superficie dall'inconscio. Dietro l'apparente ingenuità delle sue tavole favolistiche, però, si nasconde un mondo interiore più complesso e meno rassicurante che l'artista tenta di esorcizzare attraverso il sogno (i sogni son desideri?) e il ritorno alla fantasia pulita e innocente del bambino. Per Luciano «la bellezza è 'malinconia' e l'arte una 'malinconica' ossessione»: l'artista (malinconico), quindi, non può che adottare la memoria e la nostalgia quali strumenti di critica e riscatto dal presente e, forse, dal passato.

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Giugno 2016, Anno 5 - icsART N.6

Silvano Nebl

Osservando con attenzione le sue opere, non si può non apprezzare la freschezza e la modernità dei luminosissimi olii e dei vellutati disegni a pastello con cui Silvano Nebl ha cantato le lodi della sua montagna e della sua terra. In ogni dipinto si intuisce un amore profondo, quasi viscerale, per la natura che lo circondava perché, di questa realtà egli era in grado di cogliere l'aspetto più in sintonia con l'animo umano come in una quiete pacificata. Si capisce bene che Nebl si sentiva un tutt'uno con il mondo naturale e che da lì traeva la sua forza tranquilla. L'artista amava la natura ma era anche in grado di rappresentarla con una tecnica pittorica personale perfettamente coerente con la complessità delle sue forme e dei suoi colori sempre mutevoli e cangianti. Per lui non si trattava solo di un dipinto ad olio o di un pastello su carta ma dell'intima necessità di rappresentare un momento particolare di comunione spirituale con le bellezze della natura sempre protagonista di tutte le sue opere come a dimostrare che solo dentro di essa si trova il senso della vita. Da autodidatta, Nebl aveva ideato un linguaggio in cui figurazione e astrazione riuscivano a convivere per comunicare le sue emozioni: la sua tecnica di scomposizione dei colori era concettualmente simile a quella dei pittori divisionisti ma la sua capacità di entrare nello spirito degli elementi naturali, la luce filtrata dalle foglie multicolori, i riflessi dell'acqua nei laghi di montagna ma anche nelle città di mare, i vasti paesaggi come i luoghi più segreti ed emblematici della sua valle, era assolutamente personale e riconoscibile. Se il fine dell'arte è quello di dare emozioni e piacere per contribuire a migliorare l'uomo, Silvano Nebl è riuscito nel suo impegno.

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Luglio 2016, Anno 5 - icsART N.7

Rolando Tessadri

L'artista rivoluzionario russo Kazimir Malevitch con i suoi dipinti visionari eseguiti nel 1915 - «espressione pura senza rappresentazione» - è il padre riconosciuto di tutti i monocromi che sarebbero seguiti. Nel corso di un secolo, però, questo "genere pittorico" che ha contato e conta numerosissimi estimatori, è andato perdendo i connotati politici originari per caricarsi dei contenuti più vari. Rolando Tessadri è un pittore trentino che da oltre venti anni realizza monocromi caratterizzati da una gamma cromatica molto ampia e da una cifra personale che li rende particolarmente identificabili: una texture definita 'tessitura', cioè una leggera griglia distesa sull'intera superficie della tela. Le sue opere influenzate dal Minimalismo statunitense e dalle teorie della Pittura analitica italiana degli anni '70, sono il risultato di una tecnica raffinata e curatissima che opera all'interno di un ambito ben delimitato da cui sono programmaticamente espulse la figurazione e l'espressione. La struttura razionale che ordina e regola lo spazio indifferenziato e concettualmente illimitato dei suoi monocromi, è la griglia geometrica, organizzazione cartesiana fisica ma anche mentale di un'idea costantemente perseguita. Il processo compositivo di Tessadri si fonda su limitati elementi grammaticali di base: la superficie (forma, dimensione e orientamento), il colore (gamma cromatica ridotta e colori stesi a campiture piatte o sfumate) e la texture (a maglia stretta o larga), declinati secondo una meticolosa e sistematica progettualità combinatoria. Una pittura, appunto, analitica, in cui l'atto creativo avviene sperimentando sulla pura superficie bidimensionale innumerevoli variazioni cromatiche e tonali (a volte appena percepibili), alla ricerca ininterrotta di una perfezione assoluta. Una risposta di Rolando è illuminante per comprendere la sua concezione di un'arte così radicale: «Non è necessario andare oltre o retrocedere, è sufficiente permanere». Vale a dire che, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, nel lavoro dell'artista non è tanto importante la ricerca di un tema nuovo, quanto l'impegno nell'approfondire le implicazioni e le potenzialità di quello prescelto.

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Agosto 2016, Anno 5 - icsART N.8

Alessandro Goio

Alessandro Goio, pur esercitando la professione di architetto, è riuscito a praticare la pittura con costanza e dedizione fin dalla giovane età. Nei suoi primi dipinti astratti che risalgono alla fine degli anni 80 si nota l'influenza di una pittura segnica informale e gestuale che con il tempo si andrà stemperando in un linguaggio più strutturato e personale. A questi suoi due 'impegni' si è affiancata anche l'assidua frequentazione del "gioco" degli scacchi - di fatto l'altra sua 'forma mentis' - la quale, in un'interrelazione laboriosa ma costruttiva, accompagna da sempre il suo approccio all'astrazione in un ambivalente confronto-scontro tra emotività e razionalità, tra controllo e libertà. Questa mi sembra la cifra dell'artista: l'innata attrazione verso un'espressività proveniente dal profondo e un "super io" razionale e critico che non può esimersi dall'analisi a priori e a posteriori del proprio operato. Infatti, Alessandro non si è mai distaccato dalle prime esperienze informali riportate progressivamente, però, dentro una rigorosa struttura (soprattutto mentale) che gli ha permesso di coniugare una grande libertà creativa e cromatica con un ordine scandito da fasce verticali. Vere e proprie cascate di colore addensate e miscelate tra di loro con un effetto dinamico che, in un coraggioso contrasto tra gamme cromatiche complementari inusuali, strutturano e allo stesso tempo contestano la regolarità ripetitiva. Una metamorfosi ininterrotta di un ordine generato da un ritmo, che si trasforma in caos (e viceversa) rimandando alla gestualità primigenia; una sovrapposizione-diluizione di colori che determina effetti inaspettati di particolare eleganza simili ad acquerelli orientali o a fotogrammi solarizzati che catturano il divenire di forme astratte dentro un'organizzazione spaziale. Non a caso, è "la coerenza interna" l'obbiettivo esplicito di Goio.

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Settembre 2016, Anno 5 - icsART N.9

Mauro Berlanda

Mauro Berlanda vive a Locca, a pochi chilometri dallo specchio blu del lago di Ledro, ma nelle sue composizioni appare sempre la montagna, non una reale esistente in qualche luogo, ma una "Montagna immaginata", una figura ideale e mitologica che ritorna ininterrottamente nella sua ispirazione. Questa presenza immanente è la sua grande passione, in quanto testimonianza fisica, visibile e "vivente" della magnificenza intangibile della Natura e, di contro, della finitezza dell'uomo. La maestosità delle cime scomposte in diedri inaccessibili, più simili a delle apparizioni che a realtà concrete, rimane sempre tra le emozioni più forti che colpiscono chi le frequenta perché rappresentano una visione dell'esistenza umana in cui bellezza, pericolo, destino, convivono. Saper dipingere le montagne non è facile senza scadere nell'illustrazione oleografica o nella raffigurazione banalmente realistica: le Montagne di Berlanda, invece, seppur uscite dal suo immaginario, sono delle apparizioni, grandiosi monumenti naturali che emergono luminosi dalle nebbie. L'uomo non appare mai, solo i suoi manufatti lasciati dalla guerra, perché la sua presenza scompare di fronte alla maestosità delle Montagne e perché ininfluente sul loro destino. A volte, invece, Mauro si serve di un'astrazione post cubista in cui la roccia è spezzata e decostruita in solidi geometrici elementari, i colori sono freddi, bianchi azzurri e blu come lame dure e algide. Mauro possiede insieme a una profonda e intima conoscenza del soggetto che dipinge, anche un talento pittorico unico che gli permette di raffigurare le "sue" montagne immaginarie trasmettendo anche all'osservatore le intense emozioni che egli prova; una tecnica invidiabile che gli permette di scegliere punti di vista che non sono quelli dell'alpinista ma dell'uccello che vola nel cielo, di fronte o sopra le pareti verticali. Ecco, forse, la ragione di tanto amore: poter volare in alto verso l'irraggiungibile, verso la vetta come simbolo del mistero ma anche della fatica di vivere.

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Ottobre 2016, Anno 5 - icsART N.10

Tomaso Marcolla

Tomaso Marcolla è un artista polivalente, innanzitutto disegnatore di talento come dimostrano le sue tavole impeccabili tracciate con una normalissima biro e poi pazientemente acquerellate. Gli oggetti raffigurati nei disegni iperrealisti fanno parte di una sua personale "Recherche" nei ricordi familiari: i bicchieri azzurri di casa, il guanto da lavoro del padre, il "bruschin" della madre, lo scarpone da lavoro: tutti oggetti commoventi che popolavano un mondo passato e rimossi dalla memoria collettiva che meritano di essere ricordati per la loro utilità umile ma necessaria. Grazie alla capacità di riportare sulla carta con fine perizia brani del proprio vissuto, l'artista ripercorre la storia personale riscoprendo con nostalgia e affetto il valore culturale ed estetico di questi oggetti poveri e comuni. Marcolla è anche il pittore figurativo capace e sensibile che ha creato un ciclo di opere particolarmente significative in cui sono raffigurate le mani della madre nei vari momenti del giorno. Anche qui si ritrova lo stesso sguardo analitico e descrittivo sulle piccole cose che appartengono alla quotidianità . Lo stile pittorico rientra nel filone realistico ma il tema e il formato dilatato dei quadri creano una sorta di racconto per immagini compiuto e omogeneo che assume il valore di una intima testimonianza familiare. Infine, l'altra passione artistica grazie alla quale Tomaso ha ricevuto i maggiori riconoscimenti, i lavori grafici da lui chiamati "Poster", realizzati con un sapiente uso di tecniche miste in cui concorrono arte digitale, fotografia e disegno manuale. Si tratta di immagini iconiche sui grandi temi sociali create per innumerevoli concorsi internazionali, una ricerca di sintesi comunicativa ed estetica estrema capace di concentrare perfettamente in una unica immagine concetti complessi e variegati e, allo stesso tempo, di esplicitare in modo chiaro anche l'impegno etico e politico dell'artista.

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Novembre 2016, Anno 5 - icsART N.11

Romano Perusini

Storicamente, all’interno dell’arte astratta si sono sviluppate fin da subito due correnti di pensiero, l’astrattismo lirico e l’astrattismo geometrico: il primo poneva l’accento sull’emotività facendo prevalere la funzione espressiva delle forme e del colore, l’altro privilegiava l’approccio razionale controllato attraverso le certezze della geometria. L’opera di Romano Perusini, ex docente di scenografia all’Accademia di Brera, si colloca quasi naturalmente in quest’ultimo filone grazie al ricco repertorio di variazioni compositive che ha elaborato nel corso di tutta la sua attività artistica. Già a partire dagli anni sessanta egli approfondisce lo studio di nuove strutture significanti attraverso la ripetizione-trasformazione di eleganti figure geometriche piane che dialogano in contesti di chiara matrice architettonica, caratterizzate da lievi ombre lineari prodotte dallo spessore del materiale. Questo artifizio “scenografico” gli permette di contestare l’impianto bidimensionale facendo leva sui meccanismi psicologici della visione i quali inducono a interpretare in chiave spaziale e dinamica le pure forme elementari. Attraverso il bianco totale delle sue “costruzioni”, un colore associato all’assoluto, le composizioni astratte si caricano di un’aura di classicismo proponendo ed esaltando i concetti e i valori che stanno a cuore all’artista: analisi razionale, rigore metodologico, ordine e armonia, equilibrio e disordine, in ultima analisi, la ricerca della Bellezza. Romano ha sempre affiancato ai suoi lavori razionalmente esatti anche opere figurative intriganti più attente alle zone buie dell’animo in cui i punti di vista prospettici, i vuoti, le luci, le ombre - fattori fondamentali nella percezione dello spazio - contribuiscono a creare atmosfere ambigue e misteriose che agiscono sull’inconscio dell’osservatore. Ecco quindi le sue grandi tele monocromatiche o dai colori acidi e innaturali, risultato di un uso teatrale della illuminazione, luoghi tridimensionali metafisici che comunicano inquietudine perché irreali, se non addirittura surreali.

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Dicembre 2016, Anno 5 - icsART N.12

Anna Caser

Nel vasto universo dell'arte moderna, un posto centrale è occupato dall'astrazione lirica e dai due suoi maggiori rappresentanti: Vassily Kandinsky e Paul Klee che, non a caso, Anna Caser indica come propri maestri. In particolare l'arte di Klee che si sviluppa in armonia con le leggi organiche della natura, è stata introiettata e reinventata dalla pittrice grazie a una sensibilità più istintiva, mediterranea e femminile, meno vincolata dalla necessità della teoria e lasciata libera di volare. Nelle opere della Caser è sempre presente una tenace fiducia nella possibilità di cogliere le forme nella loro sostanza primigenia grazie a una visione innocente e depurata dai condizionamenti culturali, come chi per la prima volta volge lo sguardo sul mondo alla ricerca di momenti di meraviglia. Analogamente a un brano musicale, i suoi dipinti si sviluppano come composizioni poetiche su temi astratti, in cui spesso si intuiscono anche delicate figurazioni fantastiche, sospesi nello spazio idealmente privo di confini della tela e dilatato grazie all'uso di una gamma sempre diversa di colori e scandito dal ritmo dei segni graffiti sulla superficie, quasi una "struttura formale" nascosta, libera ma sempre, però, filtrata dall'intelletto. Lo stile personale di Anna è riconoscibile per l'accento posto sul carattere onirico e ludico delle sue atmosfere che convivono con il gioco sapiente di forme geometriche e organiche prive di peso che galleggiano in spazi rarefatti di acqua, terra e cielo dalle infinite tonalità. Si intuisce la necessità intima dell'artista di ricercare mondi spirituali inesplorati che possano comunicare serenità all'osservatore grazie alla loro Bellezza: il linguaggio è lieve, gli elementi grafici bidimensionali come la linea, i piani di colore e le figure resi dinamici mediante affascinanti gradazioni cromatiche che si combinano come tessere musive donando alla sua opera un'elegante leggerezza senza tempo.

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2017


Gennaio 2017, Anno 6 - N.1

Claudio Foradori

Febbraio 2017, Anno 6 - N.2

Carla Decarli

Marzo 2017, Anno 6 - N.3

Aprile 2017, Anno 6 - icsART N.4

Renato Sclaunich

Franco Albino

Maggio 2017, Anno 6 - icsART N.5

Bepi Leoni

Giugno 2017, Anno 6 - icsART N.6

Mauro Larcher

Luglio 2017, Anno 6 - icsART N.7

Luigina Lorenzi

Agosto 2017, Anno 6 - icsART N.8

Settembre 2017, Anno 6 - icsART N.9

Ottobre 2017, Anno 6 - icsART N.10

Nerio Fontana

Carla Caldonazzi

Sergio Decarli

Novembre 2017, Anno 6 - icsART N.11

Piermario Dorigatti

Dicembre 2017, Anno 6 - icsART N.12

Annamaria Targher


Gennaio 2017, Anno 6 - icsART N.1

Claudio Foradori

Nell'ampio consesso degli artisti trentini, i lavori di Claudio Foradori si situano in un'area di confine posta tra un'astrazione istintiva, radicale e antidogmatica e una ricerca libera, interessata a sperimentazioni linguistiche più articolate. Nato come autore di una pittura ricca di forme e di citazioni e attento a comunicare una poetica che allude ad una dimensione spaziale e psicologica onirica, Foradori si è progressivamente avvicinato a forme di linguaggio astratto fermamente riduzionista, 'informale' come preferisce definirlo, fondato su campi di colore monocromatici, grandi acrilici delicatamente sfumati per creare un senso di profondità su cui galleggiano poche figure piane, appena accennate, simili a frammenti inorganici dispersi nello spazio. In contemporanea a questi dipinti ha sviluppato una ricerca di opere tridimensionali complesse risultato di una volontà più costruttiva e razionale, in particolare tramite le infinite potenzialità offerte dalla vetrofusione che hanno portato a delle sculture-installazioni formalmente sempre più plurisignificanti aperte a letture diversificate. In un certo senso, sembra che la pittura estremamente minimalista e simbolica non sia più sufficiente a rappresentare i mondi interiori dell'artista e che le sculture dalle forme sinuose e sensuali in cui confluiscono, di volta in volta, materiali raffinati, vetro, marmo, acciaio inox, abbiano la capacità di restituire all'autore la narrazione ricercata. Come nel caso del ciclo dei ghiaccioli vagamente venati di un'ironia Pop sottolineata anche dai titoli, non esenti da interpretazioni alternative (le forme vivono anche di vita propria) perché, come spiega Claudio, possiedono la prerogativa di riportare a galla dall'inconscio i ricordi profondi dell'infanzia. Sia come sia, le sue forme in vetro multicolori moltiplicano all'infinito gli effetti di trasparenza e i riflessi, creando un labirinto cromatico fragile e cangiante in cui è facile perdersi.

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Febbraio 2017, Anno 7 - icsART N.2

Carla Decarli

Se la riconoscibilità è un valore, la pittura icastica di Carla Decarli possiede certamente questa qualità: la rappresentazione con dei tratti essenziali, in modo efficace e spesso asciutto dei soggetti più diversi, connotano il suo stile figurativo personale e immediatamente individuabile. Il linguaggio è grafico, come nei cartoons in cui la profondità è restituita dalle prospettive dilatate, i contorni definiti da una linea nera continua, netta e precisa che drammatizza e sbalza le figure; le ampie campiture piatte di colori decisi, forti e vivaci in cui anche il segno delle pennellate del fondo contribuisce al disegno generale; il sofisticato taglio delle immagini che, come uno scatto fotografico privilegia punti di vista imprevisti e dettagli nascosti. La Natura è la protagonista in tutte le sue opere in ogni forma in cui si manifesta: terra, aria, acqua, quest’ultima, quando mossa, agitata o minacciosa, contiene in sé anche l’astratto ed è uno degli elementi che sembrano affascinare maggiormente l’artista. Carla, infatti, è curiosa e proiettata sull’esterno, tende ad espandersi, a entrare e far entrare (sprofondare) l’osservatore nelle sue creazioni, ha bisogno di impossessarsi dello spazio con le sue forme e i suoi colori per conoscerlo. Ogni tela è un racconto personale su un momento vissuto, il tentativo di cogliere e fermare la bellezza reale e concreta di un “attimo fuggente”. Nelle sue grandi tele, a volte monumentali (anche sette metri e mezzo di lunghezza!), possiede la capacità di far volare l’immaginazione dell’osservatore comunicando in modo diretto le proprie emozioni perché parla di sé come artista e come persona e non del “concetto” astratto di Arte. E, anche per questo, è credibile, convincente e coinvolgente.

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Marzo 2017, Anno 6 - icsART N.3

Renato Sclaunich

La Poesia visiva è un filone di nicchia, ma non marginale, dell'arte concettuale, in cui confluiscono esperienze molto varie in quanto operazione su due linguaggi tra loro autonomi: l'immagine, storicamente appartenente alle arti visive, e la parola, patrimonio della scrittura e del mondo dei significati. La parola, poi, oltre a riferirsi all'infinito universo dei significati, è essa stessa segno e immagine, possiede cioè a sua volta una forma "fisica" che può essere trasformata per assumere nuovo senso e valore estetico. Nata con le avanguardie del primo Novecento, cubisti e futuristi, è oggi coltivata e sviluppata da persone come Renato Sclaunich, il quale nasce poeta e si avvicina e approfondisce in seguito questo particolare aspetto della poesia spesso definito un "ibrido di arte e letteratura". Diversamente da altri suoi colleghi più legati alla scrittura le cui opere possiedono un carattere didascalico, Sclaunich è interessato a entrambe le componenti di questo genere di espressione. Immagine e testo sono complementari e importanti in egual misura nelle sue opere ai fini della comunicazione artistica, vivono in simbiosi e l'una non può vivere senza l'altro. Contenuto segnico e parola interagiscono tra loro, modificandosi a vicenda e caricandosi di nuovi significati imprevedibili che intrigano e coinvolgono l'osservatore perché lo obbligano a percorsi mentali ed estetici ignoti e ignorati. Il "gioco" della poesia visiva di Renato si muove su questi due confini privilegiando di volta in volta le capacità di riflessione del linguaggio oppure la forza iconica delle immagini: essendo la sua un'arte slegata dalle tradizioni e dalla storia di entrambe le discipline, utilizza liberamente l'immenso patrimonio figurativo a sua disposizione e lo mette in relazione a testi suggestivi per innescare nuovi processi interpretativi.

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Aprile 2017, Anno 6 - icsART N.4

Franco Albino

L'arte astratta di Franco Albino è declinata con un tale garbo e delicatezza che permette a chiunque di accostarvisi senza il timore di sentirsi assalito da forme invadenti e incomprensibili o da una sovrabbondanza di colori dissonanti. Al contrario, all'interno delle sue atmosfere rarefatte, lattignose, quasi nebbiose, galleggiano pennellate dai colori sfumati e dotati di una geometria lasca che, dilatandosi nello spazio in un equilibrio di vuoti e di pieni, sembrano alludere a presenze indefinite. Caratteristica evidente dei suoi quadri, infatti, è il colore morbido, tranquillo, soffice, che anche se distribuito sulla tela in rapide campiture vagamente gestuali, possiede una struttura ordinatrice di fondo e comunica la passione dell'artista per il lavoro preciso eseguito con attenzione. Il fondo è quasi sempre chiaro, compreso nella gamma dai bianchi ai grigi, dai celeste trasparenti al giallo pastello: colori caldi e luminosi così com'è la luce gardesana. Le forme sono sospese e indefinite, lievi e cangianti come l'aria: la pittura di Albino è allo stesso tempo dinamica e quieta, sensibile ma regolata da strutture invisibili, analitica ed entusiasta, come il suo autore. Uniche eccezioni i piccoli dischi rotondi trattati a tinte forti, generalmente blu, dai quali egli estrae delle tracce simili a graffiti disegnati d'istinto e di cuore. Altre volte, segni grafici oscuri attraversano le superfici del dipinto, come antichi geroglifici tracciati su muri rovinati, una specie di scrittura automatica che sembra rimandare a racconti interiori nascosti tra le campiture del colore. In ultima analisi, è la leggerezza la cifra intima di Franco, sempre però accompagnata dalla costante tensione verso una chiarezza compositiva cui riportare il caos del mondo.

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Maggio 2017, Anno 6 - icsART N.5

Bepi Leoni

Bepi Leoni è sempre stato a contatto con i colori, sia per lavoro sia per passione artistica eppure, paradossalmente, afferma: «Arrivato ad un certo periodo, il colore mi faceva paura». Uomo schietto e diretto ma anche schivo e laconico, Leoni preferisce lasciare parlare i propri dipinti demandando a loro i concetti e le emozioni che vuole esprimere attraverso un linguaggio figurativo portato fino ai limiti dell'astrazione tramite la totale rinuncia alle forme e la riduzione della tavolozza a poche gamme cromatiche. I colori sono sempre delicati, morbidi, quasi trasparenti: a volte celeste, beige, azzurro, grigio, ma il bianco sporco è il colore che meglio rappresenta una vena malinconica sempre presente. Solo, di tanto in tanto, una pennellata rossa irrompe nella calma quieta della tela. La visione è come distante, la percezione delle cose non è chiara, forse perchè la vita non è chiara: l'uomo vive in un mondo illusorio dove la realtà inganna ed è impossibile rappresentarla. Le figure allucinate, caricature deformate di uomini e donne che popolano i suoi dipinti sono un'umanità sospesa in uno spazio e in un tempo indefiniti. La fissità dello sguardo, le bocche contratte, inquietanti individui persi nella nebbia paiono in attesa di qualcosa o quancuno che non arriverà. Anche le montagne che emergono lontane in un'atmosfera trasparente, sono ombre che si intuiscono: pura apparenza. La superficie delle tele, materica, compatta e stratificata come l'intonaco di un affresco consumato dal tempo, contribuisce a sottolineare la staticità del tutto. La solitudine ritorna sempre in Bepi Leoni il quale esprime un punto di vista inquieto, scettico e relativista sul mondo e un pessimismo sulla condizione umana che richiama alla mente i versi di Quasimodo: «Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di Sole: ed è subito sera».

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Giugno 2017, Anno 6 - icsART N.6

Mauro Larcher

Mauro Larcher ha due grandi passioni che lo coinvolgono in modo totalizzante. Una è la montagna, con tutto ciò che la riguarda: escursioni, arrampicate, corsa, sci, scialpinismo (è maestro di sci); l'altra è la pittura, e anche questa lo impegna a tempo pieno. In realtà, sono le due facce della stessa medaglia: la prima rappresenta il momento esaltante dell'avventura, sportiva e mentale, in un ambiente incontaminato; la seconda, quello spirituale dell’emozione, della fantasia e della creatività che solo il rapporto diretto con la natura riesce a trasmettergli. Ma, quanto è estroversa, solare, controllata, l’esperienza sui suoi monti, così, inaspettatamente, diventa istintivo, intimista, quasi malinconico, il suo linguaggio pittorico. Della natura, infatti, Larcher non rappresenta i colori infiniti, i verdi dei prati e dei boschi, gli azzurri dei laghi, dei torrenti e cieli infiniti e neanche le luci della neve o delle cime dolomitiche, ma cerca l’aspetto più oscuro, nascosto, misterioso e spesso inquietante. La natura non è il luogo della pace e della serenità, è invece un mondo affascinante e inaspettato in cui il suo sguardo attento vede forze che si trasformano in caos senza fine ed esplosioni di pura energia. Mauro, con una vena di romanticismo, è attratto dalle atmosfere ombrose e gotiche che fanno intuire presenze occulte, dai rami nodosi, contorti, sofferti, dai tronchi piegati o abbattuti; i colori sono scuri, il marrone che ritorna sempre, il nero ricavato dal catrame e le pennellate veloci e informali proiettate sulla tela; la foresta è come un organismo vivente e anche i gialli bruciati o le rosse macchie dei cardi ricordano l’attimo fuggente che precede il passaggio del tempo. Mauro ci racconta di una realtà in cui regna la Legge della Natura: il ciclo infinito della vita e della morte e, fuor di metafora, la fatica di raggiungere la felicità.

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Luglio 2017, Anno 6 - icsART N.7

Luigina Lorenzi

Le opere di Luigina Lorenzi possiedono il grande pregio di colpire l'osservatore e attirare immediatamente la sua attenzione: si intuisce che si tratta di un'artista che possiede il dono naturale di saper dipingere e disegnare. Ma questo suo talento si coniuga con le altre due peculiarità che la distinguono dalla vasta platea degli artisti figurativi rendendola completa e, a suo modo, unica: i temi assolutamente particolari che affronta e la tecnica pittorica del tutto personale con cui li realizza. Caratteristica più evidente dei suoi dipinti è la costante presenza del corpo umano nudo, reso in modo mirabile nella sua anatomia, seppur spesso rappresentato in chiave mitologica secondo canoni compositivi classici. Le figure, simili a onde o ad alberi nella tempesta, si piegano, si intrecciano, si divincolano, si contorcono in una estenuante lotta primordiale il cui tema centrale è la comunione totale, fisica, psicologica, simbolica, tra gli elementi naturali e l'uomo riportato alla nudità dello stato originario, archetipo della nascita da Madre Natura: un organismo alla ricerca della propria libertà che deve lottare con fatica e dolore per esistere ed esprimere il proprio Io nel mondo. Eros e Thanatos si intrecciano indissolubilmente perché nella concezione esistenziale e artistica di Luigina non c'è soluzione di continuità tra le due realtà, l'una parte dell'altra. Un approccio il suo, non tanto mentale quanto emozionale, un sentirsi intimamente parte di un processo di metamorfosi che avviene attraverso continui passaggi di stato. La sua visione panica altamente drammatica è supportata da una pittura altrettanto potente che rende scultoree le forme dinamiche che attraversano la tela grazie a una perfetta tecnica chiaroscurale dai caldi colori delle terre. Nudità, sensualità, sessualità sono le tante espressioni della stessa energia vitale che, forse, solo un'artista donna può comunicare in un modo pienamente in sintonia con la natura umana.

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Agosto 2017, Anno 6 - icsART N.8

Nerio Fontana

Ogni artista, a modo suo, possiede una personalità originale che lo rende unico, e Nerio Fontana non fa eccezione sia per la sua intensa passione per la bellezza - in particolare femminile - sia per il suo eclettismo tecnico e la concezione assolutamente netta sul fare arte: «Voglio solo provare delle emozioni e trarre il maggior godimento dal mio lavoro». Ancora oggi, all'età di ottantasei anni, quotidianamente traccia con il carboncino le linee nere alla ricerca di quelle emozioni che sono alla base del suo essere un artista che «privilegio per scelta e istinto la forma al contenuto». Fontana nasce disegnatore figurativo e, anche se si cimenta nella pittura coloristica, il chiaroscuro della matita e del carboncino rimangono le tecniche fondamentali del suo linguaggio. Parlo di "linguaggio" perché mai, come in questo caso, ogni ritratto si snoda lungo la vita dell'artista come un "racconto" dei tanti momenti della vita quotidiana che lo hanno ispirato: «La realtà non cesserà mai di stupirmi con la sua bellezza e le emozioni che mi regala». Artista poliedrico, grafico, pittore, incisore, fotografo, Nerio approfondisce anche la scultura seguendo strade non convenzionali, usando materiali industriali anomali e difficili come il gres oppure applicandola a oggetti d'uso quotidiani. Ma è la fotografia - rigorosamente in bianco e nero - il medium che gli permette di indagare la forma e le ombre del mondo in tutte le sue connotazioni uscendo dal "reale banalmente colorato" e creando immagini di una forza plastica potente, libera da condizionamenti e convenzioni sociali. Nerio Fontana non si preclude nessuna strada, nessun soggetto è per lui indifferente o privo di qualità, sacro e profano sono categorie che l'arte non contempla perché la Bellezza ha un proprio statuto: l'Artista deve solo saperla vedere e "portarla alla luce" facendo ricorso a tutte le risorse espressive messe a sua disposizione da una storia millenaria.

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Settembre 2017, Anno 6 - icsART N.9

Carla Caldonazzi

Contrariamente all'ego esageratamente (e spesso immotivatamente) sviluppato di molti artisti, quella di Carla Caldonazzi è la personalità di una signora gentile e elegante che lavora da sempre per coltivare - senza proclami e autopromozioni - una passione tanto sincera quanto profonda. La pittura e il disegno sono strumenti indispensabili per esprimere le proprie impressioni sulla bellezza che vede in tutto ciò che la circonda. Innanzitutto le "sue" montagne che ama da sempre, meta di pazienti studi en plein air per renderne la maestosità con poche pennellate sapienti e tinte delicatissime. Poi le bellezze naturali: i tronchi, i paesaggi e le baite di montagna, espressione dell'intelligenza umana nella lotta-simbiosi con la natura, rappresentate con rapidi e abili tratti in bianco e nero ma, soprattutto, le rose, un fiore antico simbolo della perfezione, della caducità ma anche della passione e di un animo romantico. I suoi dipinti su carta pazientemente preparata con un fondo alla caseina dalle tinte calde, assumono così un'atmosfera immediatamente morbida, intima e vissuta. Un altro soggetto preferito da Carla è quello più vicino alla sua quotidianità ma non per questo meno interessante per chi, come lei, sappia osservare con sensibilità le forme che la natura riesce a creare anche nelle realtà più comuni: un insieme di mele rosso fiammante o le "umili" verze le quali - reinterpretate dalla poesia dell'artista - diventano un oggetto misterioso, quasi alieno, dal disegno che si trasforma in pura astrazione. La pittura figurativa, sobria e meditata, di Carla Caldonazzi non si propone di rivoluzionare il mondo dell'arte né, tantomeno il mondo tout court, vuole solo testimoniare che l'arte come è sempre stato - dovrebbe nascere dalla voglia di mettersi in gioco per parlare dei propri sentimenti più intimi e privati e, non solo e non tanto, di costruzioni concettuali emotivamente impersonali.

pag. 30


Ottobre 2017, Anno 6 - icsART N.10

Sergio Decarli

La peculiarità che rende Sergio Decarli un artista sui generis è quella di essere allo stesso tempo musicista-percussionista, pittore per lavoro e per passione, e scultore, per scelta e per necessità dato che i suoi strumenti musicali autocostruiti con materiali poveri e di recupero sono delle "sculture sonore" (vedi a pag. 17) con cui si esibisce in intense performance percussive traendo suoni imprevedibili e carichi di citazioni etniche mixati a basi elettroniche preregistrate. Decarli da sempre affianca a queste ricerche sonore anticonvenzionali l'interesse per un tipo di pittura minimalista e concettuale che all'apparenza sembra distaccarsi nettamente dalla sua musica carica di ritmo ed energia. A questo riguardo è interessante la definizione che Decarli da della pittura e della musica «Il perfetto equilibrio tra armonia, melodia e ritmo», da cui si comprende come egli si riconosca all'interno dei canoni del Classicismo e che spiega bene il suo approccio a due linguaggi così diversi. Nei suoi quadri, quanto di più calmo e sereno si possa immaginare, la frenetica gestualità delle sue bacchette si trasforma in un ordine formale, regolare e rigoroso, da cui emerge la sua fascinazione per le lettere, i numeri e le parole come elementi base di uno spartito invisibile su cui si snodano composizioni di sequenze dai significati misteriosi e inquietanti. A questo si aggiunga l'intimo rapporto fisico e tattile che Sergio intrattiene con la materia con cui esegue, con la cura e la precisione dell'artigiano, le superfici vellutate in terre e calce dei suoi quadri e le scritte perfettamente allineate. L'altro suo filone deriva dallo studio delle immagini di vecchi treni, dettagli poco significativi estrapolati da un universo marginale e invisibile ai più, che l'artista riproduce uguali fin nel minimo particolare. I risultati, nonostante la "burocratica povertà" del tema, sono stranianti e intriganti per la loro capacità di risvegliare lontane memorie.

pag. 31


Novembre 2017, Anno 6 - icsART N.11

Piermario Dorigatti

Dalle appassionate risposte di Piermario Dorigatti si ricava l'impressione di un personaggio intimamente convinto dell'impegno culturale, mentale ed esistenziale che l'arte richiede. Si percepisce, infatti, un'adesione totale alla "missione" dell'artista il quale, più che agire, sembra "agito" dalla pittura e, in una sorta di trance, «si inabissa e recupera nel suo cadere alcuni elementi... che riporta alla luce». Questa "catarsi" avviene tramite il "disegno automatico" di matrice surrealista che inizialmente copre la tela di segni liberi e casuali slegati da un controllo razionale; è poi «la pittura a decidere il tutto nel suo farsi»: il colore che si muove in quel "caos primigenio" intuendovi figure umane distorte, motivi grotteschi, forme fantasmatiche impensabili a cui da forma e corpo. Una stimolante visione animistica, questa, in cui il quadro è paragonabile a un essere vitale e il pittore non sa e non può sapere prima cosa apparirà perché è attraverso il processo inconscio che si invera l'opera. Arte come viaggio alla ricerca di sé stesso, quindi, espressione delle pulsioni più intime e profonde che comportano sofferenza e anche dolore: una pratica artistica più simile a una gravosa seduta di "autoanalisi" che a una tranquilla e gratificante esperienza estetica. In Dorigatti, però, l'espressività non si limita al gesto libero e incontrollato perché egli rimane sempre un pittore in cui è viva una coscienza critica del proprio fare profondamente influenzata sia dalla conoscenza della storia dell'arte moderna, sia dalla padronanza delle tecniche artistiche, che ne mitigano e indirizzano l'istintività riportandola nell'alveo della rappresentazione figurativa. Attraverso quel flusso continuo di energia fisica e psichica la pittura fa "emergere" dai suoi dipinti un mondo interiore del tutto personale di forme fantastiche, esseri mostruosi, figure inquietanti in cui, alla fine, la storica dicotomia figurazioneastrazione viene felicemente superata.

pag. 32


Dicembre 2017, Anno 6 - icsART N.12

Annamaria Targher

Dopo anni di sperimentalismo concettuale e monocromatico, si assiste al ritorno da parte dei giovani artisti al piacere, intimo e perverso, della pittura-pittura. E' il caso di Annamaria Targher, la quale, supportata da una ottima preparazione culturale e tecnica, crede con passione e tenacia nella possibilità di esprimersi tramite la pittura. Annamaria ha un'energia straripante, una fantasia in continua ebollizione, un sacro fuoco di fare, dire, scrivere che indirizza verso una produzione molto personale, ricca di idee, soggetti, forme, colori. Un'esuberanza, la sua, che si concretizza in estroversi dipinti ad olio su tela o pazienti e minuziosi collage su carta in cui, con una libertà creativa anticonformista e priva di inibizioni, utilizza linguaggi appartenenti ai repertori espressivi più diversi, figurativi, astratti, surreali, gestuali, pop, per "raccontare" momenti significativi del suo vissuto oppure riportare alla luce esperienze vere o semplicemente fantasticate. Numerosi i cicli pittorici, legati tra loro da una coerenza sotterranea: le amate "Berg", luminescenti montagne sospese tra figurazione e astrazione; il bestiario comprendente gli eccentrici animali domestici: "Muu", improbabili mucche dadaiste, le "Capre" isteriche vestite di stoffe cucite a mano, "Aseni"; poi "Ca-vri-oi", timidi caprioli incontrati nei boschi di casa, e "Orse". E ancora: "Melograni", frutti pop, festosi e sanguinanti; "Macarons", pasticciniUFO dai delicati colori pastello; "Flowers", "Carte da parati", decori dai multicolori fondi in cui galleggiano forme organiche, scritte, ideogrammi, segni, fiori, animali, che ricordano le pareti delle vecchie case tinteggiate con la pittura a rullo o i graffiti di Twombly rivisitati con una sensibilità tutta femminile. Annamaria rivendica la sua "pittura femminile", scabra, sintetica, senza fronzoli: convinzione che ha il merito di promuovere una "maternità" dell'opera, spesso negata in nome della concezione di un'arte "senza genere".

pag. 33


2018


Gennaio 2018, Anno 7 - N.1

Renato Reigl

Febbraio 2018, Anno 7 - N.2

Patrizia Gandini

Marzo 2018, Anno 7 - N.3

Giorgio Conta


Gennaio 2018, Anno 7 - icsART N.1

Renato Reigl

Nel 2010, ero rimasto colpito a una mostra di Renato Reigl, che allora non conoscevo, da un suo quadro, “Ricordo due Glenda” (vedi a pag.14), un autoritratto con un delizioso cagnetto rosso allegramente posato sulla spalla del suo padrone. Mi era piaciuto perché aver raffigurato il suo cane (in realtà, un Basset hound!) denotava una sensibilità e una creatività libere da schemi. Ancora più forte appariva il contrasto con il resto del dipinto, tutto giocato sui toni grigi e neri e la figura dell’autore eseguita in modo primitivo con un impasto rude, materico, che ricordava l’Art brut di Dubuffet. Ho avuto la conferma dell’impressione provata la prima volta vedendo altri suoi lavori, in particolare gli autoritratti in cui il segno incerto e indistinto racconta un mondo visto attraverso una personalità complessa e combattuta, quasi un non voler vedersi con chiarezza oppure, viceversa, di vedersi esattamente così. Anche se Reigl non è digiuno di arte, la sua caratteristica precipua sta proprio nel cercare solo in sé stesso le ragioni, i soggetti e i modi della sua arte senza sottostare a convenzioni. Renato è un pittore che ha lavorato moltissimo nel chiuso del suo studio-avvolto ma, coerentemente con il carattere schivo e laconico, ha fatto poco per farsi conoscere. Eppure, la sua pittura essenziale, diretta, rude, possiede una forza spesso altamente drammatica che mette a nudo una vena poetica sobria e intimista che dialoga con un apparente pessimismo di fondo. I suoi dipinti non sono certo facili, tutt’altro: sono spesso duri, inquietanti perché comunicano una fatica di vivere ma anche una dolcezza triste dovuta a una sensibilità esasperata, forse legata al proprio vissuto. Ma è proprio da questo sforzo nel cercare di esprimere i propri sentimenti che, come avviene nei veri artisti, come una catarsi, si manifesta nella sua pittura il suo vero Io.

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Febbraio 2018, Anno 7 - icsART N.2

Patrizia Gandini

Osservando la produzione artistica di Patrizia Gandini nel corso della sua carriera non si può non rimanere stupiti per la coerenza e la continuità che l’ha accompagnata. Naturalmente, si sono verificati tutti quei cambiamenti che derivano dall’esperienza, dalla maggior consapevolezza e dal controllo dei mezzi tecnici, ma l’energia di fondo che sprigiona da ogni sua opera è rimasta inalterata. La potente forza che la spinge ad approcciarsi alla tela, quasi ad aggredirla, per far scaturire attraverso le sue pennellate lunghe, rapide, dinamiche, caratterizzate dal movimento verso la luce e gli spazi esterni, è espressione di una necessità interiore che deve venire alla luce. Nei colori, grandi protagonisti delle sue tele, compaiono tutti i simboli alchemici: il rosso del fuoco, i neri che sottolineano la materialità della terra, i bianchi dell’aria, gli azzurri e i blu che rimandano alle profondità dell’acqua: un’esplosione di elementi naturali da cui, come fossili, emergono piante e foglie vere. Che Patrizia sia strettamente e intimamente legata a una specie di energia primigenia, lo dicono i titoli dei suoi quadri e anche la sua fascinazione per la ceramica Raku, una tecnica antica che si basa sul rapporto diretto con un elemento come il fuoco, simbolicamente assimilabile al caos primordiale. Un tipo di cottura complicata, rischiosa e incontrollabile perché il caso interviene nella esecuzione dell’opera partecipando alla creazione di figure e cromie imprevedibili. Non c’è soluzione di continuità tra i lavori plastici e quelli pittorici perché, in entrambi, dall’artista prende avvio l’azione che - modificandosi nel suo farsi - assume contenuti e significati inaspettati. Patrizia è un’artista informale che usa il gesto e la materia per esprimere le emozioni provenienti dagli strati profondi dell’inconscio, in cui è sempre presente anche un’attenta ricerca estetica e compositiva che deriva dal talento naturale sorretto da una passione autentica.

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Marzo 2018, Anno 7 - icsART N.3

Giorgio Conta

Nascere figlio di un artista può essere al tempo stesso una fortuna e un peso: il vivere quotidianamente a contatto con una guida autorevole permette di assorbire un’atmosfera artistica in modo naturale; dall’altra, la presenza della figura di un Padre-Maestro può essere condizionante perché necessita di una maggior forza di volontà per staccarsi e volare con le proprie ali. Giorgio Conta, figlio del più noto Livio, artista e decano degli scultori in legno, nonostante questi lo sconsigliasse, ha voluto seguire le orme paterne e ora sta percorrendo la propria strada nel corso della quale sta sviluppando e sperimentando un linguaggio artistico sempre più autonomo e personale. Giorgio ha frequentato la scuola gardenese che, in questi anni ha raggiunto livelli di qualità artistica e tecnica di assoluto rilievo rilanciando l’arte del legno la quale, sia a causa del materiale “naturale” che della ripetizione di stereotipi stilistici, è stata spesso vista come antitetica rispetto a un Moderno che privilegiava l’“artificiale” e l’astratto. Oggi, come dimostrano i lavori di Giorgio, la reinvenzione degli stilemi, delle tecniche, dei soggetti, ha riportato questa disciplina a pieno titolo all’interno del dibattito contemporaneo. Al contrario della pittura che consente l’accesso a una sperimentazione senza confini, la complessità della scultura (in legno, pietra o bronzo) richiede, prima di poter arrivare alla forma immaginata, oltre a un indispensabile talento naturale, anche passione e dedizione che si apprendono solo attraverso un impegno lungo, paziente e faticoso. A quarant’anni, Giorgio Conta, artista perfettamente padrone di tutte le tecniche e sostenuto da un’idea nobile dell’arte, ha raggiunto un grado di libertà creativa ed espressiva che gli consente di dare forma compiuta a un ricco immaginario che poggia, sia sull’intima adesione alle proprie radici, sia su valori universali quali l’amore per la Natura ma, al contempo, sempre aperto verso le altre realtà esterne, ben consapevole che l’arte è il modo per capire e migliorare il mondo.

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FIDAart - Trento icsART


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