Presentazioni artisti - FIDAart 2012-2016 Volume Primo

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PAOLO TOMIO

PRESENTAZIONI ARTISTI FIDAart Volume Primo Annate 7.2012 - 3.2016


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PAOLO TOMIO

PRESENTAZIONI ARTISTI FIDAart Volume Primo Annate 7.2012 - 3.2016


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PRESENTAZIONI ARTISTI - FIDAart Volume Primo

In questo Primo Volume, sono riportati tutte le presentazioni degli artisti trentini scritte dal sottoscritto sulla rivista digitale FIDAart a partire dal luglio 2012 fino al marzo 2016, quando la rivista ha cambiato nome diventando icsART. Le presentazioni pubblicate su icsART faranno parte del Volume Secondo. Le brevi note stese dal sottoscritto per presentare gli artisti intervistati dalla rivista FIDAart e, da icsART a partire dal 2016 ad oggi, non hanno l’ambizione di essere un testo critico poiché sono state scritte da un artista dopo aver posto una serie di domande a dei colleghi che apprezzava, per spiegare sinteticamente al lettore le peculiarità culturali, tecniche, espressive di ognuno. Con alcuni di questi artisti avevo un lungo rapporto di amicizia, altri, invece, ho avuto il piacere di incontrarli in occasione dell’intervista e conoscerli nel corso degli incontri per parlare del loro lavoro, ma con tutti il rapporto è stato sempre stimolante, istruttivo e, umanamente e intellettualmente gratificante. Con la creazione di questa rivista mi ero ripromesso di dare voce agli artisti trentini lasciandoli totalmente liberi di rispondere a domande molto dirette e concrete, come quelle che potrebbero essere poste da una qualsiasi persona che si trovasse di fronte alle loro opere. L’intenzione era quella di riportare l’attenzione sulle reali problematiche di un pittore o uno scultore per liberare il discorso dal filtro di certa critica che si ritiene autorizzata a parlare in nome e per conto dell’unico protagonista che conta: l’autore. Arrogandosi il diritto di interprete “colto” di un’attività complessa che crede di poter di conoscere e capire attraverso gli strumenti di un apparato concettuale solo teorico, spesso il critico finisce per mascherare le idee dell’artista dietro un vocabolario astruso e oscuro con il risultato di allontanare ancora di più il pubblico non esperto. Ciò non significa che l’artista sappia sempre esprimere con chiarezza e lucidità la propria visione dell’arte e del mondo (tutt’altro), o che il critico non sia in grado di capire e valutare, dall’esterno, con obiettività e competenza, ma solamente che questi ruoli ricordano i dibattiti sportivi in televisione dove certi personaggi comodamente seduti in studio, discettano con disinvoltura di sport - che non hanno mai praticato - “spiegando” agli atleti dove sbagliano e come possano o debbano migliorare. Diversi sedicenti esperti che non sanno distinguere un’opera vera da una malamente falsificata (vedi la burla delle sculture e, più recentemente, dei dipinti di Modigliani), millantano profonde conoscenze dell’arte contemporanea grazie a qualche esame di Storia dell’arte. Sentire direttamente “la voce” dei protagonisti, dunque, non garantisce necessariamente una originalità assoluta delle opinioni da loro espresse, ma, sicuramente, permette di cogliere la freschezza e la genuinità che deriva da una testimonianza di vita vera. Paolo Tomio Trento, marzo 2016

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FIDAart 2012 - anno 1° N. N. N. N. N.

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Luglio-Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

Renato Pancheri Pietro Verdini Diego Mazzonelli Paolo Tait Lome Lorenzo Menguzzato

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FIDAart 2013 - anno 2° N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N.

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Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

Mauro Cappelletti Ivo Fruet Matteo Boato Rolando Trenti Annamaria Gelmi Gianni Pellegrini Elena Fozzer Aldo Pancheri Sergio Bernardi Gianluigi Rocca Bruno Degasperi Roberto Codroico

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FIDAart 2014 - anno 3° N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N.

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Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

Roberto Perini Paolo De Carli Mirta De Simoni Lasta Rosanna Cavallini Paola Grott Maurizio Giongo Bruno Lucchi Luigi Penasa Marco Arman Alda Failoni Simone Turra Jacopo Mazzonelli

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FIDAart 2015 - anno 4° N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N. N.

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Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

Giuseppe Debiasi Annalisa Filippi Diego Bridi Gelsomina Bassetti Livio Conta Romano Furlani Paolo Dalponte Giuliano Orsingher Paolo Tomio Luca Coser Flavio Marzadro Angelo Demitri Morandini

48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59

FIDAart 2016 - anno 5° N. 1 N. 2 N. 3

Gennaio Febbraio Marzo

Federico Lanaro Stefano Cagol Pietro Weber

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2012


Luglio-Agosto 2012, Anno 1 - N.1 Settembre 2012, Anno 1 - N.2 Ottobre 2012, Anno 1 - N.3 Novembre 2012, Anno 1 - N.4 Dicembre 2012, Anno 1 - N.5

Renato Pancheri Pietro Verdini Diego Mazzonelli Paolo Tait LOME, Lorenzo Menguzzato


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Luglio-Agosto 2012, Anno 1 - N.1

Renato Pancheri

OMAGGIO A RENATO PANCHERI Tre anni fa, nell’aprile 2009, scompariva a 99 anni Renato Pancheri, pittore e Segretario di FIDA per oltre venti anni. Per un doveroso omaggio all’ex Presidente, ma anche per ricordare un esponente importante del mondo artistico trentino che ha lasciato le sue opere in numerosissime istituzioni, abbiamo ritenuto interessante chiedere un’intervista al figlio Aldo, pittore a sua volta, residente a Milano e socio di FIDA-Trento, che gli è sempre stato vicinissimo e che, sicuramente, è colui che conosce più a fondo la sua vita e la sua attività artistica. A distanza di tre anni, Aldo, che quando è a Trento lavora nello studio del padre, ricorda con l’affetto del figlio ma anche con la grande competenza del professionista, molti particolari che contribuiscono a ricostruire una figura di pittore che ha operato ininterrottamente a Trento per oltre 60 anni e la cui produzione artistica ha sempre mantenuto le sue caratteristiche di forza e freschezza incredibilmente giovanili fino all’ultimo. Crediamo che questa breve intervista, illustrata però da un ricco apparato iconografico, riuscirà a fornire nuovi elementi sull’escursus di Renato Pancheri, personaggio schivo e alieno dalle apparizioni pubbliche. E, sicuramente, questa sua ritrosia “antica” e molto trentina, non gli ha giovato in tempi in cui il sistema del’arte-spettacolo aveva oramai contagiato gallerie e musei.

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Settembre 2012, Anno 1 - N.2

Pietro Verdini

Pietro Verdini è nato nel 1936, eppure, e non è assolutamente piaggeria, la sua vitalità, la sua curiosità e la sua forza fisica, farebbero invidia a un giovane, e queste caratteristiche sono tutt’altro che secondarie nel suo fare arte. In effetti, Pietro è un “personaggio”, un artista a tutto tondo e un pittore che possiede la sua ‘materia’ con una conoscenza e una coscienza invidiabili. Sentire le sue storie e vedere i suoi dipinti, equivale a vivere un’esperienza di altri tempi quando la Storia era tramandata solo attraverso il racconto orale e i grandi dipinti e affreschi costituivano la fonte dell’immaginario di una comunità. “Noi di Gragnola siamo così” è una sua frase ricorrente per spiegare strane regole di vita, comportamenti primitivi e sentimenti anarchici altrimenti incomprensibili. In Verdini, infatti, è sempre presente la memoria, precisissima, ossessiva, di tutto il suo passato: “mi scorre davanti come un film”. E i personaggi, i luoghi, gli ambienti delle sue narrazioni si ritrovano tutti nelle forme simboliche archetipiche dei dipinti bianchi-neri-blu. Grande affabulatore, con poche frasi e dettagli apparentemente secondari, accompagnandosi con voce, mimi e gesti da attore consumato, descrive le sue esperienze di vita rendendole avventure incredibili che stupefanno l’ascoltatore. Ma, quanto Pietro è esuberante, sanguigno, eccessivo e strambo nella vita, tanto è delicato, sobrio, misurato, dolce, malinconico nella sua pittura. “Io sono la mia pittura!” dichiara. E, forse, in quelle ombre nere si legge la coscienza dolente del destino dell’Uomo.

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Ottobre 2012, Anno 1 - N.3

Diego Mazzonelli

Diego Mazzonelli è un personaggio molto conosciuto nell’ambito trentino per le sue molteplici attività in quasi tutti i settori che hanno a che fare con il mondo dell’arte e della cultura in tutte le sue sfaccettature. Artista prima di tutto, con una produzione corposissima e variegata, studioso e insegnante di storia dell’arte, in particolare moderna e contemporanea, scrittore, critico, giornalista e divulgatore interessato alla diffusione della cultura e della sensibilità artistica. E ancora, professore di filosofia, pubblicitario, sindacalista, scultore, grafico, polemista, sperimentatore di linguaggi vicini alla poesia visiva e al cinema d’avanguardia, all’arte concettuale e minimalista e molto altro. Effettivamente, Mazzonelli ha prodotto e dato molto cercando di rimanere sempre ancorato a un pensiero alto e di qualità, cosciente che solo l’impegno, il lavoro costante, continuo e autocritico permette di affinare le proprie capacità e sviluppare le proprie potenzialità. Non c’è azione senza coscienza teorica ma, al contempo, non c’è teoria fondata senza un forte coinvolgimento personale e la voglia di mettersi in gioco e di esperire il mondo della pratica e del fare. Un intellettuale, dunque, ma soprattutto un artista che si propone con opere che riflettono nel loro spazio bidimensionale o tridimensionale l’astrazione del pensiero e il pensiero dell’astrazione.

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Novembre 2012, Anno 1 - N.4

Paolo Tait

Ogni artista possiede caratteristiche sue proprie che lo rendono unico. Chi privilegia il pensiero astratto, chi la forma, chi la poesia, chi la sperimentazione, chi la materia, chi la tecnica, e così via. Alcuni, come Paolo Tait, privilegiano l’arte come modo di vita e il fare arte come unica possibilità di rapportarsi con il mondo. Paolo possiede il dono innato del disegno e questa sua abilità si trasferisce “naturalmente” sulla carta o sulla tela sotto forma di un alfabeto primitivo, un intrico di figure che rimandano a immagini archetipiche e che esprimono, in modo privo di mediazioni, i suoi stati d’animo profondi e il suo bisogno di raccontarsi. Non è facile definire e inquadrare quasi quarantacinque anni di attività artistica perché i suoi periodi artistici sono stati molti ma, per quanto possa sembrare strano, tutti già dotati della stessa coerenza interna. La maggior parte delle sue opere sono immediatamente riconoscibili per la quasi costante presenza di mondi organico-meccanici rappresentati mediante forti e nette tracce nere che percorrono, come un scrittura “automatica”, lo spazio del quadro secondo logiche geometriche e, allo stesso tempo libere. A volte, grandi campiture di colori fungono da sfondo o da tessuto connettivo ma, la “struttura portante”, è quasi sempre assolta dal segno. A volte, il segno diventa “gesto” grazie alle ampie, veloci pennellate, più istintive e liberatorie, che si trasformano in ombre, animali feroci, mostri neri spaventosi che rimandano alle tensioni e alle inquietudini della sua anima. Altre volte, invece, segni impercettibili fluttuano leggeri in uno spazio infinito suggerito con sfumature dai toni delicatissimi. La pittura di Tait è una ricerca interessata non tanto al bello, quanto al vero.

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Dicembre 2012, Anno 1 - N.5

LOME, Lorenzo Menguzzato

Abbiamo chiesto a un artista “quasi giovane” la sua opinione su chi siano i suoi Maestri, cosa significhi operare nel mondo dell’arte, quali aspettative e quali richieste abbia nei confronti della nostra comunità. Lorenzo Menguzzato, a molti non dirà nulla perché il nome “d’arte” con il quale è conosciuto dal grande pubblico è “Lome”. Giovane anagraficamente, ma attivo oramai da oltre 20 anni nel mondo dell’arte trentina. Attivo, o meglio iperattivo, perché caratterizzato sempre da una grande carica energetica e immaginifica che lo porta a spaziare, inventare, teorizzare, discutere con grande convinzione ed esuberanza. Padrone di moltissime tecniche artistiche (acquerello, incisioni, olio, acrilico, ceramica, scultura, vetro, stampa ecc.), non ha problemi a cimentarsi in nuove avventure con uno spirito di iniziativa coraggioso e, per certi versi, poco trentino. Grazie a questa curiosità e attenzione per tutto ciò che è nuovo, alla sua capacità di entrare in relazione con mondi diversi quali la poesia, l’editoria d’arte, la scultura e di affrontare materiali come il vetro, l’acciaio, la ceramica, Lorenzo ha dimostrato di saper percorrere strade innovative, mai prevedibili o conformiste, per il solo gusto di misurarsi e seguire il suo intuito. Oggi, grazie allo “stile” personale caratterizzato da un linguaggio volutamente essenziale e dall’uso di colori primari e pochi altri, stesi con pennellate veloci e senza ripensamenti, ha già raggiunto una maturità consapevole e una sua precisa riconoscibilità.

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2013


Gennaio 2013, Anno 2 - N.2

Mauro Cappelletti

Febbraio 2013, Anno 2 - N.2

Ivo Fruet

Marzo 2013, Anno 2 - N.3

Matteo Boato

Aprile 2013, Anno 2 - N.4

Rolando Trenti

Maggio 2013, Anno 2 - N.5

Annamaria Gelmi

Giugno 2013, Anno 2 - N.6

Gianni Pellegrini

Luglio 2013, Anno 2 - N.7

Agosto 2013, Anno 2 - N.8

Elena Fozzer

Aldo Pancheri

Settembre 2013, Anno 2 - N.9

Sergio Bernardi

Ottobre 2013, Anno 2 - N.10

Gianluigi Rocca

Novembre 2013, Anno 2 - N.11

Dicembre 2013, Anno 2 - N.12

Bruno Degasperi

Roberto Codroico


Gennaio 2013, Anno 2 - N.1

Mauro Cappelletti

Artista affermato per la sua attività oramai quarantennale, Mauro Cappelletti ha attraversato stagioni apparentemente molto diverse, ma in realtà, collegate tra di loro da un “fil rouge” senza soluzione di continuità. Firmatario del manifesto “Astrazione Oggettiva” del 1976, si è fin dall’inizio caratterizzato sia per il grande rigore compositivo sia per l’attenzione alla “pratica pittorica” come esperienza intellettuale e di vita. Ancora oggi, nel suo essere pittore (e incisore) è visibile la coerenza con gli assunti teorici allora sottoscritti e tuttora artisticamente ed eticamente condivisi. Nelle sue opere non c’è spazio per il “gesto” espressionista, emotivo, istantaneo perché ogni dipinto nasce da una “ricerca” che si configura come metodologia lunga e laboriosa, proprio nel senso del “fare”, costantemente alla ricerca della qualità e, se possibile, della perfezione. Uno sperimentatore per indole e per passione intellettuale, attento e sensibile alle più piccole variazioni all’interno di un progetto in cui pittura, concetti, impressioni, sensazioni, poesia e teorie convivono senza contraddizioni. Coerentemente con il percorso fin qui sviluppato, Cappelletti sta ora affrontando il nodo del colore unico grazie alla “terza via” da lui scoperta-inventata, del Monocròmo-pluritòno, cioè l’uso di un solo pigmento (grigio, viola, blu ecc.) variato solo nella sua tonalità attraverso un processo basato su ripetuti passaggi del colore che lascia un largo margine all’imprevisto e alla scoperta consentendo, così, di esplorare percezioni e sensazione “elementari”. E’ ancora pittura perché Mauro è e vuole rimanere un pittore ma nel processo creativo è stato introdotta una componente nuova e, per certi versi, anomala rispetto al passato: il Caso. E ciò potrebbe, forse, prefigurare l’inizio di un nuovo ciclo creativo.

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Marzo 2013, Anno 2 - N.3

Ivo Fruet

Cresciuto artisticamente negli anni Sessanta a Roma a stretto contatto con i fermenti dell’Informale italiano, Ivo Fruet è sempre rimasto fedele alla filosofia che costituiva questa importante corrente del ‘900: la negazione della forma e la fondamentale importanza attribuita al gesto e alla materia. Il gesto diventa atto artistico, unico in grado di trasmettere l’incomunicabile perché capace di superare il filtro della ragione e portare alla luce le emozioni profonde della psiche. Conoscendo Fruet si capisce che questo tipo di espressione artistica che esige passione, determinazione ma, soprattutto, impeto psichico e azione fisica, gli appartiene ancor oggi. Egli, infatti, ha un rapporto fisico strettissimo con la materia che è protagonista delle sue opere in quanto la realizzazione delle sue tele, spesso gigantesche, impegna tutto il corpo che deve percorrere e appropriarsi dello spazio. Il tempo della meditazione e del pensiero è separato dal momento pittorico vero e proprio che deve potersi esprimere senza vincoli e condizionamenti di sorta, preciso, deciso, quasi violento, senza ripensamenti che bloccherebbero il libero flusso dell’energia creativa. La sua capacità di padroneggiare gli strumenti e i materiali più vari gli hanno permesso di affrancarsi dai vincoli della “manualità” dotandolo di una totale libertà slegata da schemi compositivi e che si esprime in segni immediati, veloci, dinamici, immersi in grandi campiture di colori che sgorgano direttamente su ogni tipo di supporto. Le forme non sono mai morbide, accattivanti, delicate; se ogni dipinto racconta l’artista, allora dentro i suoi quadri, come nelle sue sculture, si sente sempre ribollire quella inquietudine esistenziale che spinge alla continua ricerca di qualcosa d’altro.

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Marzo 2013, Anno 2 - N.3

Matteo Boato

I dipinti di Matteo Boato possiedono alcune caratteristiche molto particolari che li rendono tra i più riconoscibili, anche ai non esperti, nel panorama dei pittori trentini. Si tratta di una personale combinazione di colori, intesi come tinte pure, e di colore, nel senso materico, di pasta applicata alla tela. E’ proprio grazie a questa sua tecnica di usare la pittura ad olio che i quadri appaiono connotati dall’uso di colori vivacissimi e brillanti e da uno spessore materico che dà profondità al dipinto attraverso una trama di pennellate decise e corpose o, addirittura, a veri e propri grumi, spremuti direttamente dal tubetto sulla tela, che sporgono dal supporto producendo ombre ed effetti inaspettati. Il tratto è sempre veloce, quasi nervoso, come se, una volta deciso soggetto e forma, non ci fosse più posto per ripensamenti o correzioni, una specie di figurazione-gestuale blandamente naïf in cui istinto, manualità e creatività convivono felicemente. I temi affrontati sono tanti perché Matteo è attratto e affascinato dalla vita, dai paesaggi, dalle persone care, dalle città e dalle cose e, un po’ come i pittori del passato, vuole raccontare con i suoi quadri i momenti e le esperienze che più l’hanno coinvolto o emozionato. Sono immagini morbide e serene, che esprimono una visione positiva, solare e innocente del mondo. Matteo rifiuta - volutamente - astratti intellettualismi che potrebbero dare una patina più d’avanguardia alla sua pittura ed evita di strizzare l’occhio a linguaggi più forti o radicali, preferendo essere sempre sè stesso coerentemente con la sua visione della vita. Il suo, insomma, è l’impegno serio, sereno e, per ora, entusiasta, di chi ha fatto la scelta difficile, ma seducente, di credere e di dedicarsi completamente alla pittura.

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Aprile 2013, Anno 2 - N.4

Rolando Trenti

I dipinti di Rolando Trenti sono decisamente particolari. Innanzitutto, per l’uso dell’acquarello, una tecnica pittorica che instaura un’immediata empatia con l’osservatore grazie alla sua natura liquida, trasparente, delicata, quasi illusionistica, che lascia ampio spazio alle elaborazioni dell’inconscio. In secondo luogo, per il tipo di forme che popolano le sue tele e che rimandano ad un mondo organico, acquatico, onirico che fluttua nello spazio e nel tempo. Tracce leggere, figure ondulate, tentacoli flessuosi che proiettano ombre in una sorta di luminescenza che ricorda i vetri Art Noveau. Ma mentre, storicamente, questa tecnica ha privilegiato i piccoli formati proprio per il suo carattere intimista e descrittivo, Trenti ha scoperto-inventato gli acquarelli di grandi dimensioni che gli hanno dato una immediata riconoscibilità. Proprio a causa delle dimensioni (due, tre metri e oltre), Rolando si è dovuto ideare un sistema di pittura orizzontale perché la tela (altra anomalia rispetto alla più usata carta) è distesa sul pavimento. La necessità peculiare dell’acquarello di operare velocemente sulla superficie bagnata, lo obbliga a lavorare inginocchiato, girando intorno al grande dipinto con pennelli e spazzole proporzionate al supporto, proprio come faceva Pollock. Ogni dipinto deve essere preceduto da lunghi studi proprio perché non sono permesse correzioni e il gesto pittorico deve essere preciso ma fluido affinché il segno risulti quanto più possibile naturale. Trenti è artista sensibile e sobrio interessato ai linguaggi poetici, alle delicate atmosfere evanescenti allusive e non assertive. I suoi colori, soffusi e trasparenti ricercano percezioni ed emozioni profonde e rimandano a visioni oniriche sospese che lasciano la massima libertà all’interpretazione. Dietro queste calligrafie apparentemente informali che percorrono le superfici luminose, c’è sempre un pensiero intellettuale organizzato e una costante ricerca sui temi della memoria, del paesaggio, della natura, della forma e della bellezza che prosegue coerentemente oramai da lunghi anni.

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Maggio 2013, Anno 2 - N.5

Annamaria Gelmi

In Trentino le artiste sono numerose, anche se in netta minoranza rispetto ai colleghi maschi; alcune sono molto brave ma, nel mondo dell’arte, questa è una dote necessaria ma non sufficiente se non è unita ad altre caratteristiche altrettanto importanti quali la determinazione, la curiosità intellettuale, l’aggiornamento costante, la voglia mettersi in gioco. Annamaria Gelmi possiede tutte queste qualità e sa bene che l’arte è un mestiere, una pratica del fare che richiede ricerca e impegno continuo. Ancor di più se, come nel suo caso, le opere che si vogliono realizzare raggiungono dimensioni decisamente ragguardevoli e comportano anche un grosso lavoro psico-fisico oltre che mentale. Nel corso degli anni la sua tecnica pittorica si è andata evolvendo fino a raggiungere un raffinato linguaggio sempre più minimale, quasi orientale, condensato in pochi simboli archetipici; all’interno dell’infinto mondo delle forme, infatti, lei ha sempre avuto una predilezione per le figure geometriche, sia quelle basilari euclidee, sia quelle più articolate e complesse dell’architettura storica o moderna. La sua formazione di insegnante in questo l’ha agevolata permettendole di sviluppare la capacità di controllare opere complesse e approfondire l’interesse per i nuovi e vecchi materiali: acciaio, corten, vetroresina, bronzo, acetato, vetro, ceramica, plexiglass ecc. Quando Annamaria ha intrapreso la strada della scultura, memore degli insegnamenti della Pop Art e dell’amore per l’architettura, ha compreso che le sue sculture-installazioni dovevano entrare in relazione - con pari dignità - con gli spazi in cui si collocavano: ecco allora le grandi installazioni site-specific “progettate” in funzione degli ambiti che andavano ad occupare. Anche nella scultura ha saputo esprimere un proprio linguaggio slegato dagli stereotipi di un’arte provinciale e sensibile alle esperienze più avanzate. E, forse, è proprio da questo suo essere anticonformista, coraggiosa e aperta al confronto, che può arrivare il vero messaggio ai giovani e, soprattutto, alle giovani artiste.

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Giugno 2013, Anno 2 - N.6

Gianni Pellegrini

Dopo Diego Mazzonelli e Mauro Cappelletti, Gianni Pellegrini chiude il ciclo delle interviste ai membri del gruppo “Astrazione Oggettiva” costituito nel 1976 (Senesi e Schmid sono scomparsi due anni dopo) consentendo un confronto tra i lavori realizzati dai tre artisti nel corso dei loro percorsi personali. Sicuramente, Gianni Pellegrini è rimasto coerente con la filosofia di fondo del Manifesto: “...consapevolezza degli elementi che realizzano la pittura stessa: il supporto, il colore, il segno...”, “...necessità di individuare la logica progettuale intesa come momento di conoscenza...”, e, in particolare ”...operare sui presupposti e sui fini di una riflessione oggettiva e metodologica della realtà pittorica, secondo una prassi che si realizza sull’analisi delle procedure operative e dei mezzi espressivi subordinando le “intenzioni soggettive» cioè personali...”. E, soprattutto, pur avendo sperimentato durante il suo percorso artistico linguaggi anche molto diversi, è sempre rimasta inalterata la sua adesione al mondo dell’astrazione, comunque declinata. Oggi, nel tentativo di ottenere un’assoluta semplificazione degli elementi espressivi, sta progressivamente ritornando alle primitive analisi sulle proprietà emozionali e psicologiche del colore. Nelle sue tele (spesso di dimensioni enormi) caratterizzate dall’uso di gamme di colori inusuali e tonalità imprevedibili, la ricerca si è spostata sull’uso di elementi appena definiti: impronte, segni, tracce chiaroscurali impalpabili, ombre, penombre che rendono impegnativa la percezione di differenze minimali. Pellegrini, ormai artista compiuto, maturo e consapevole, dopo aver lungamente lavorato sulla riduzione e sulla rarefazione dei linguaggi, sembra sempre più interessato ad avvicinarsi al loro ‘quasi-azzeramento’ attraverso una pittura minimalista portata ai limiti estremi oltre i quali rimane solo la pura monocromìa.

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Luglio 2013, Anno 2 - N.7

Elena Fozzer

Le peculiarità di tutte le opere di Elena Fozzer sono la forma, il colore e il movimento. Tutto si muove nel suo spazio: curve, triangoli, quadrati, forme libere che, come galassie, ruotano nei mondi fantastici inventati dall’artista. Il movimento, oltre ad essere connaturato alle sue composizioni spaziali eseguite in due o tre dimensioni, spesso è anche un movimento reale che è ottenuto dagli interventi dei visitatori che, grazie a dei magneti, possono liberamente spostare le forme sui grandi pannelli per creare sempre nuove immagini. Le sue opere, coinvolgendo il pubblico in un esperienza ludico-estetica non sono mai ‘finite’, come si conviene ad una realtà in divenire che è soggetta alle continue trasformazioni del tempo. Forme vitali, organiche che si sviluppano secondo processi misteriosi alla ricerca di un ordine superiore e della dimensione di una bellezza globale, cosmica: Elena vuole rappresentare attraverso la sua visione ‘solare’, la Vita. Ogni quadro è una scoperta perché nelle esplosioni di colori, nelle catene luminose che rimandano a vie Lattee misteriose e nelle crescite di strani vegetali o animali, si coglie la volontà di tramettere un’emozione, un lampo di gioia, una forza vitale e una fiducia innata nel destino dell’uomo, non centro ma parte dell’Universo. Tutto si tiene in un Grande Disegno. Anche la geometria, altro non è che uno strumento per studiare, capire e rappresentare questa architettura di relazioni e di rapporti strutturati ma, allo stesso tempo, completamente liberi. Figlia di Eraldo Fozzer, scultore trentino molto noto, Elena ha avuto la possibilità di respirare fin da piccola l’atmosfera, gli stimoli e le idee che permeavano lo studio del babbo e questo vissuto, che lei chiama ‘imprinting’, è impossibile da rimuovere perché il piacere della traduzione delle proprie idee e delle proprie emozioni in forme - cioè il piacere della creazione artistica - è indimenticabile.

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Agosto 2013, Anno 2 - N.8

Aldo Pancheri

Aldo Pancheri è figlio d’arte e nipote d’arte (il papà, Renato e lo zio, Gino Pancheri, sono stati noti pittori) e, perciò, aveva già scritto nel ‘destino’ il suo futuro da artista. La presenza di queste due figure così impegnative ha sempre influenzato il suo rapporto con l’arte anche se non gli ha impedito di lasciare Trento negli anni 70 per trasferirsi a Milano, la metropoli in cui un artista poteva incontrare nomi altrimenti conosciuti solo sui libri. Una scelta non facile e abbastanza anomala per la cultura del tempo che, però, ha contribuito a dargli quell’apertura mentale indispensabile nel mondo dell’arte. Eppure Aldo non è cambiato poi tanto, a dimostrazione che ognuno rimane sè stesso nel profondo mantenendo l’indole e le caratteristiche originarie. Prima di tutto una persona colta ed educatissima, poi un inguaribile ottimista dotato di uno spirito curioso, generoso e aperto verso gli altri a cui si unisce la fiducia nelle capacità dell’artista di migliorare il mondo. Il tragico non è la sua cifra e nemmeno un intellettualismo arido e di maniera perché nei quadri ricerca più emozioni profonde che concetti astrusi, espresse tramite il pennello e le tecniche della pittura rivisitata secondo la lezione moderna. Il suo linguaggio è assai riconoscibile perché gli stilemi sono fondati su una geometria essenziale: uno sfondo a tinta piatta realizzato con colori acrilici, blu, nero, o anche rossi vivaci, su cui Aldo opera con forme geometriche colorate fluttuanti nello spazio della tela secondo un gioco sapiente di pieni e di vuoti. A volte questi spazi contengono dei collages, immagini provenienti da repertori vari oppure da disegni a pastello realizzati con la tecnica del ‘frottage’, inseriti liberamente come citazioni o rimandi ad emozioni o ricordi. Laboriosissimo, Aldo si reca tutti i giorni nel suo studio a Milano (o a Trento) e lavora memore, forse, del padre che dipinse fin quasi al giorno della sua scomparsa a novantanove anni. L’arte, infatti, tra le altre qualità, possiede anche queste proprietà taumaturgiche nei confronti di chi la pratica.

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Settembre 2013, Anno 2 - N.9

Sergio Bernardi

Da dietro la vecchia scrivania nascosta da pile di corrispondenza, fascicoli, libri e riviste continua a dirigere la sua creazione preferita. Sergio Bernardi ha fondato la rivista Uomo Città Territorio (acronimo, UCT) più di 35 anni fa e, da allora, non l’ha più abbandonata né delegata a nessun altro. Questo, però, non è il suo primo amore e forse, neanche il più grande. Sergio, infatti, nasce pittore e, nonostante gli impegni, la sua vera passione è stata e rimane l’arte. Compatibilmente con il tempo cui riesce a dedicarvisi tra un numero e l’altro di UCT o un nuovo libro della sua casa editrice. L’arte, però, rispetto a UCT, ha un fascino tutto suo e cioè di non essere assoggettata a vincoli, né a scadenze o committenti e, soprattutto, a contenuti prefissati. Parlo di arte e non di pittura perché Sergio ha attraversato numerose stagioni che lo hanno visto sperimentare quasi tutti i maggiori linguaggi dell’astrazione con incursioni anche nella scultura e nelle installazioni. Sarà per la sua prossimità ad altre forme d’arte come la musica, la letteratura, il teatro o solo per il fatto di essere un trentino-modenese che ha mantenuto il carattere più estroverso delle sue origini, che le sue opere sono ancora sanguigne, vivacissime, fortemente espressive, composte da gesti veloci e nervosi. E sarà anche per quella sua vena polemica e per l’altro suo grande interesse, l’impegno sociale, che gran parte delle sue opere sono improntate ad un forte carica di denuncia morale e politica. In queste sue convinzioni, Sergio è rimasto un figlio dei suoi tempi visto che, oramai da diversi anni, l’impegno sociale è ‘passato di moda’ nell’arte. Ma, coerentemente con i cicli e ricicli storici, è facile prevedere che anche i giovani artisti d’oggi riscopriranno quei temi che stanno ridisegnando loro un futuro sempre più nero.

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Ottobre 2013, Anno 2 - N.10

Gianluigi Rocca

Gianluigi Rocca è un artista che ha raggiunto la notorietà per diverse ragioni: perché pochi padroneggiano l’arte del disegno come sa fare lui, perché è un ‘personaggio’ con una storia personale del tutto particolare che affascina e, infine, perché la sua arte e la sua vita sono coerentemente intrecciate tra loro senza soluzione di continuità. Chi, come lui, ha vissuto fin da bambino la dura vita del lavoro di montagna, non potrà mai prescindere da queste esperienze formative del proprio carattere, della propria sensibilità e weltanschauung. Infatti, il suo passaggio ad un’attività intellettuale a tempo pieno non ha cancellato la memoria e la nostalgia di quel mondo pastorale governato da leggi che provengono dall’inizio della civiltà. E’ proprio dalla sua storia personale che nasce la necessità di raccontarsi attraverso i piccoli oggetti quotidiani del passato, assolutamente privi di valore ma tuttora impregnati di significati simbolici e sentimentali: la ‘roba’ diventa protagonista delle sue nature morte raccontando di persone e di mondi scomparsi o che stanno scomparendo. Gianluigi Rocca, è un romantico perché, attraverso i suoi disegni perfetti che “ricreano” atmosfere ed emozioni perdute, è alla ricerca di un modello di bellezza senza tempo in cui anche la realtà più cruda sia in grado di dare un senso alla vita dell’uomo. Ecco, quindi, i disegni di oggetti d’uso poverissimi: ciotole, piatti sbeccati, tazze di metallo smaltato, vecchie stoviglie e scarponi scalcagnati, oppure animali, tanti animali, tutti con una personalità, un’anima. Non uno stucchevole ammiccamento al ‘trentinismo’, ma vere e proprie composizioni classiche in cui anche le cose più umili acquistano il valore di simboli perché l’arte ha la capacità di trasmutare il reale nel meraviglioso. Gianni vanta anche un altro grande merito: piace alla gente comune e ciò dimostra che la vera riconoscibilità di un artista è ancora, e nonostante tutto, la qualità.

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Novembre 2013, Anno 2 - N.11

Bruno Degasperi

Sono molti i diplomati dell’Istituto d’arte di Trento che ricordano con piacere gli insegnamenti del loro professore di Disegno dal vero; e anzi, in alcuni, diventati artisti a loro volta, si può ancora riconoscere il particolare stile grafico appreso da Bruno Degasperi. Degasperi, infatti, è prima di tutto disegnatore e, ancor oggi, questo è il linguaggio che predilige e meglio gli permette di esprimere la propria personalità. Non perché nelle sue opere il colore sia secondario o subordinato al segno, ma solo perché l’artista, sia per questa sua attitudine naturale, sia per il successivo lavoro di insegnante e la ricerca scaturita dalla lezione di Paul Klee, ha affinato e portato ad una immediata riconoscibilità la sua tecnica personale di rappresentazione grafica. Uomo del fare e trentino verace, Bruno non ama parlare troppo di sè stesso e preferisce far parlare le proprie opere che, cariche di spunti e di stimoli, necessitano di un approccio visivo e anche tattile approfondito per comprenderne la complessità pittorica e materica; in particolare, in quei personali effetti che simulano illusoriamente una tridimensionalità inesistente. In tutti i lavori, inoltre, sono sempre riscontrabili l’adesione alla realtà e l’interesse per tutte le sue manifestazioni sia organiche che inorganiche. La padronanza del mezzo tecnico, sia del disegno come della pittura, dell’affresco o dell’incisione, gli consentono di operare nell’immediatezza del gesto libero, veloce, ridondante perché privo di ripensamenti, sul colore steso sulla tavola. Centralità del segno, rapidità del tratto e ricchezza esuberante sono la cifra distintiva che connota i dipinti di Degasperi perché caratteristica della sua lunga attività artistica è la capacità di sperimentare indifferentemente, e con eguali risultati, sia il linguaggio figurativo della classicità sia quello astratto della modernità.

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Dicembre 2013, Anno 2 - N.12

Roberto Codroico

La pittura di Roberto Codroico, artista riservato e ancora poco noto al grande pubblico per le ragioni che spiega lui stesso nell’intervista, possiede una leggerezza e una giocosità che sono inaspettate da parte di un “serio” funzionario della Soprintendenza della Provincia che si è sempre occupato di studio, tutela, conservazione e restauro di monumenti. Contemporaneamente a questi interessi professionali scientifici e alle copiose pubblicazioni a carattere storico, Roberto ha sempre coltivato anche un’altra passione privata e più personale: la pittura attraverso cui poteva esprimere l’altra sua faccia più vera e anticonformista. In effetti, pur praticandola da sempre, solo in tempi recenti ha voluto rendere pubblica e stabile questa sua intensa attività di ricerca e sperimentazione artistica. Nel corso degli anni ha saputo distillare un suo linguaggio astratto autonomo del tutto personale e immediatamente riconoscibile per l’innocente gioiosità e la sapiente levità che riesce a trasmettere. I suoi dipinti sono caratterizzati da poche linee che percorrendo la tela secondo logiche libere ma non casuali, concorrono a creare delle strutture polimorfe e organiche, fluttuanti nelle ampie campiture colorate. Le composizioni di Codroico, ottenute attraverso una sorta di “scrittura automatica” che corre rapida e libera sulla carta, non esprimono però un caos informale ma possiedono un ordine e un’armonia interna che riporta sempre l’insieme ad una estetica “elegante” fondata su concetti classici di euritmia, forma, superficie, ritmo, movimento, vuoto e pieno. Il suo alfabeto personale di segni che dialogano sospesi sulla pagina, come un haiku, le coincise poesie giapponesi, lascia spazio ad un disegno ricco di suggestioni, come una traccia che sta all’osservatore decifrare. Vi si ritrova il costante la voglia e il piacere di rivelare e raccontare (e liberare), attraverso la ricchezza dei simboli creati e la vivacità dei colori sempre accattivanti, il proprio mondo interiore.

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2014


Gennaio 2014, Anno 3 - N.1

Roberto Perini

Febbraio 2014, Anno 3 - N.2

Paolo De Carli

Marzo 2014, Anno 3 - N.3

MIrta De Simoni Lasta

Aprile 2014, Anno 3 - N.4

Rosanna Cavallini

Maggio 2014, Anno 3 - N.5

Paola Grott

Giugno 2014, Anno 3 - N.6

Maurizio Giongo

Luglio 2014, Anno 3 - N.7

Bruno Lucchi

Agosto 2014, Anno 3 - N.8

Luigi Penasa

Settembre 2014, Anno 3 - N.9

Ottobre 2014, Anno 3 - N.10

Novembre 2014, Anno 3 - N.11

Dicembre 2014, Anno 3 - N.12

Marco Arman

Alda Failoni

Simone Turra

Jacopo Mazzonelli


Gennaio 2014, Anno 3 - N.1

Roberto Perini

Roberto Perini pratica l’antica arte del disegno, arte oggi in parte sottovalutata perché soppiantata dalle tendenze più astratte che privilegiano un filone concettuale, analitico e emotivamente freddo. L’arte contemporanea, infatti, è non oggettiva, rarefatta, riduzionista e antinaturalistica al contrario di quella di Roberto che è fantasiosa, figurativa, organica, ricca e vitalistica. Nonostante, e forse, grazie a questo suo essere ‘fuori’ dalle correnti alla moda, le sue opere possiedono una forza immaginativa e una vena fantastica - se non fantascientifica - che, unita ad una tecnica grafica sapiente e raffinata, possiedono la capacità di coinvolgere e affascinare. Nei suoi racconti visionari su carta, mai ripetitivi o prevedibili, si intravedono mondi in cui natura e artificio si intrecciano strettamente e profondamente, si intuiscono presenze zoomorfiche, antropomorfiche o sovrannaturali che restituiscono l’idea di un universo complesso in cui tutto si tiene in un divenire continuo e ininterrotto. Persona seria, sobria e riservata - anche troppo vista l’enorme mole di lavoro svolta nel corso di 40 anni e le poche mostre realizzate per farlo conoscere - Roberto è un artista vero a tempo pieno e a tutto tondo perché il suo modo di guardare la realtà che lo circonda, anche la più semplice e vicina, è pretesto e spunto per un infinito repertorio di figure e di esseri animati e inanimati. I suoi corposi taccuini sono veri e propri diari di studio redatti secondo un metodo quasi naturalistico, frutto di anni di osservazioni “en plein air” (come i pittori impressionisti), pazientemente e ordinatamente compilati pagina per pagina con dettagliati schizzi colorati e commentati con note, osservazioni e pensieri simili a poesie. Roberto vi illustra con la massima cura sensazioni, idee e stimoli ricavati nel corso delle sue esplorazioni, materiali che poi recupera e rielabora in studio filtrandolo attraverso un’interiorità profonda che ricerca la poesia dietro il mistero della vita.

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Febbraio 2013, Anno 2 - N.2

Paolo De Carli

Non è facile intervistare Paolo De Carli. Non che sia persona riservato - tutt’altro - solo che per un intimo pudore è assolutamente laconico, restìo a parlare di se stesso e del proprio lavoro, convinto com’è, che le opere d’arte non debbano essere spiegate ma debbano parlare da sole. A questa posizione ideologica e poetica, assolutamente in contrasto con l’attuale società dell’affabulazione, si unisce la tipica ritrosia del trentino che non ama parlare di se stesso o, peggio, mostrare ciò che ha fatto, e questa è una caratteristica che ha penalizzato molti artisti locali i quali, purtroppo, non hanno saputo proporsi (“senza dubbio, pecco di non essere manager di me stesso”, dichiara Paolo), come avrebbero meritato. Eppure, i suoi grandi dipinti e gli straordinari arazzi tessuti dalla moglie francese Katja (ognuno dei quali richiede un anno di lavoro!), sono opere ricche, profonde, complesse sia dal punto di vista formale, sia dei contenuti che l’artista rappresenta secondo una pratica surrealista che si lega all’inconscio con immagini di un simbolismo di non immediata lettura e interpretazione. Pur rientrando nel filone dell’arte figurativa, dietro la realtà immediata e apparente di ogni sua opera si nasconde un mondo di metafore misteriose da cui emerge un racconto articolato e coerente in cui ricordi, sogno, citazioni e fantasia si intrecciano e fondono indissolubilmente. Paolo ribadisce “però io non mi spiego”, convinto che chiunque possa avvicinarsi ai suoi lavori con la mente e l’animo liberi e sgombri da pregiudizi intellettuali, lasciandosi guidare solo dalle proprie impressioni ed emozioni. L’arte visiva, come la musica o la poesia, non può essere tutta spiegata, didascalicamente motivata, poiché lo stesso autore - spesso, e per fortuna - non conosce “il perché“ di certe sue scelte. E, di solito, non sa neanche se piaceranno, ma non se ne cura, perché ciò non ha a che fare con il vero interesse di un artista.

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Marzo 2013, Anno 2 - N.3

MIrta De Simoni Lasta

E’ difficile pensare a Mirta De Simoni come ad una pittrice dell’Espressionismo astratto, non perché la sua pittura non sia vicina a quella corrente ma perché lei è quanto di più lontano si potrebbe immaginare da quei pittori che sono passati alla storia come “Gli irascibili” e dei quali, un buon numero è morto suicida (Mark Rothko, Arshile Gorkj) o alcolizzato (Franz Kline e, per certi versi, anche Jackson Pollock). Invece, Mirta, e già il nome è indicativo, è una persona tranquilla e dolcissima che partecipa intensamente alle attività di associazioni cattoliche di Arte Sacra. Insomma, per chi ragionasse per stereotipi è garantita una piacevole sorpresa: l’arte informale, gestuale, materica, espressionista non è appannaggio solo di spiriti esagerati ma può scaturire direttamente anche da un animo sereno e giudizioso. Oppure, al contrario, sotto un’”apparente” domanda di normalità e buon senso ribolle qualcosa di nascosto, di non detto, che l’arte riesce sublimare e trasformare in forza espressiva e bellezza? Ma tant’è, ciò che conta è il risultato, cioè l’opera, e in questo caso non si può che rimanere stupiti dall’energia del suo linguaggio caratterizzato da colori vivacissimi, generalmente primari, stesi con ampie pennellate o anche con le mani, oppure mescolati a vari materiali solidi per ottenere superfici scabrose come paesaggi primordiali scavati dal tempo. Più che da Rothko, che dichiara di amare, nel suo modo di lavorare sulla tela appoggiata al pavimento, c’è Pollock con la sua pittura corporea in cui l’artista entra nella materia manipolandola e trasportandola sulla superficie seguendo impulsi dell’istinto. Ogni dipinto diventa un’esperienza che coinvolge tutto l’essere ed è difficile, dopo aver assaporato una tale libertà esaltante, ritornare alla normalità della vita di tutti i giorni. Ma si vede che Mirta possiede risorse non comuni non solo sul piano artistico ma anche a livello di autocoscienza.

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Aprile 2013, Anno 2 - N.4

Rosanna Cavallini

Chiedo nell’intervista, se esista un punto di vista femminile nell’arte. L’artista afferma decisamente che l’arte non ha genere, che non esiste alcuna differenza tra un’opera di un pittore e di una pittrice. Eppure, osservando i dipinti di Rosanna Cavallini, non si può non rimanere colpiti dal suo “approccio“ ai problemi e dalla sua sensibilità del tutto particolari nel rappresentarli. Spesso, per ragioni legate al polliticaly correct, si tende a negare le differenze negando con ciò diversità non solo culturali storiche ma anche psicologiche che non possono non incidere nella visione della vita e del mondo. Infatti, l’ironica immagine di copertina: “Pallone gonfiato”, non può che essere il punto di vista di una donna perché, se dipinta da un uomo, perderebbe tutta la sua carica provocatoria. D’altra parte, se si analizzano i lavori storici di Rosanna fino all’incirca agli anni 80, la forza, la vitalità, il coraggio e la capacità di provocazione che esprimono non corrispondono certo all’idea tradizionale di dolcezza che si suole attribuire al cosiddetto “gentil sesso”. Da questa dualità dell’animo che sa essere sensibile e delicato e, contemporaneamente, forte e deciso, quasi crudo nella sua voglia di denunciare le ingiustizie, sta la forza di un’artista, uomo o donna che sia. La capacità di comunicare sia la propria indignazione per il male, sia la speranza per un mondo più bello e, quindi, più giusto, stanno alla base del ruolo di un intellettuale che non si interessi solo al suo “particulare”. Rosanna Cavallini ha utilizzato lo strumento della pittura per osservare il mondo e, soprattutto, sè stessa; per descrivere con una figurazione personale ciò che la indignava e ciò che la portava in una dimensione altra, estetica e surreale, in cui era possibile distaccarsi dalla realtà delle cose. Allora diventa chiara la sua risposta: “Per me l’artista è colui che ha raggiunto il cielo”.

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Maggio 2014, Anno 3 - N.5

Paola Grott

Ciò che colpisce nei dipinti di Paola Grott sono le enormi dimensioni delle sue tele e il senso di movimento che riescono ad esprimere attraverso i mille segni nervosi che corrono sulla superficie: dipinti monumentali resi leggeri e dinamici dall’uso sapiente di forme e colori. Paola ama i colori che usa indifferentemente in tutte le sue gamme: dai primari puri fino alle tonalità più varie che vanno dall’azzurro al verde, al blu, al viola, al giallo, al bianco non bianco fino ai neri e all’oro che emana un fascino simbolico o alchemico particolare. La complessità compositiva è esaltata dalle pennellate che non sono mai piatte, bidimensionali, ma sovrapposte in successivi passaggi in modo da poter vibrare e dare un senso di profondità ed ottenere così una pittura sfumata, evanescente, come vista attraverso un vetro opalino. Complesse figure gestuali vi si agitano, come organismi viventi aggrovigliati in uno spazio, a volte aperto e dilatato, a volte definito e costretto entro rigidi confini. L’artista affronta con metodo i temi che si pone e, fino a quando non li ha esplorati, sviscerati e introiettati, vi lavora infaticabilmente spinta dalla necessità di immergersi totalmente nella materia. Nella sua pittura espressionista in cui si sente la lezione di Rothko filtrata però da una sensibilità più emotiva, si riconoscono brani di natura o memorie fantastiche vagamente antropomorfe, racconti trasferiti sulla tela e composti con ideogrammi di una scrittura inventata (ma che potrebbe anche essere vera), attraverso segni sospesi come in volo o mossi dal vento, in un turbinìo ascendente. Solo nelle opere più recenti Paola ha iniziato a racchiudere in forme curve chiuse il suo “caos controllato”, forse per il bisogno di portare un ordine razionale in un’esperienza informale troppo coinvolgente, o forse solo per aprire un nuovo ciclo nella sua vita artistica (e personale).

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Giugno 2014, Anno 3 - N.6

Maurizio Giongo

Nella rassegna degli artisti astratti trentini non poteva mancare Maurizio Giongo, pittore e scultore che ha svolto gran parte della sua ricerca in un ambito improntato ad un’arte essenziale, evocativa. Dopo gli inizi di matrice informale o espressionista, il suo interesse si è progressivamente spostato dalla sperimentazione libera verso una costante riduzione dei temi trattati privilegiando il colore e anche il gesto, purché sempre controllato all’interno di spazi ben definiti. Il suo è un linguaggio interessato a trasmettere suggestioni sottili che gioca contemporaneamente su più piani: da una parte un mondo carico di riferimenti naturalistici ed organici, morbido, mosso e vibrante, dinamico e delicatamente seducente; dall’altra, figure geometriche pure, bidimensionali, caratterizzate da campiture piatte con colori monocromi, una sorta di monoliti autosufficienti. Il dualismo tra i due linguaggi racconta della crisi dell’uomo moderno oscillante tra la ricerca della libertà naturale e l’ordine della razionalità. Maurizio è interessato ad un “metodo” in cui istinto e rigore avanzino di pari passo con un approccio sensibile e attento alle minime variazioni e dettagli affinché, dal confronto tra queste due anime, possa arrivare all’equilibrio e all’armonia. Anche nelle sue sculture, Maurizio affronta con la stessa coerenza il problema del volume e dello spazio tridimensionale costruendo vere e proprie architetture definite da cornici geometriche, entro le quali si muovono plasticamente forme dinamiche assolutamente simili alle sue pennellate.

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Luglio 2014, Anno 3 - N.7

Bruno Lucchi

Non molti sanno in cosa consista il lavoro di uno scultore come Bruno Lucchi perché, spesso, della sua attività, colgono solo il punto di arrivo che si sostanzia nell’opera conclusa. Eppure, il suo lavoro, per tanti versi simile a quello del pittore nell’ideazione e negli studi iniziali, ad un certo punto se ne differenzia in modo sostanziale per una serie di ragioni connesse alle peculiarità del suo fare arte, innanzitutto, per il passaggio dalla bidimensionalità ‘concettuale’ dell’immagine su carta o tela alla forma tridimensionale, vera, concreta, materica. Contrariamente ad un dipinto che si svolge su un supporto sostanzialmente piano, la scultura è a tutto tondo e, perciò, deve affrontare i problemi specifici che pongono le opere plastiche, come avviene per l’architettura. La scultura di Bruno è basata sul procedimento classico “per mettere”, cioè sull’apporto di materiali plasmabili perché, pur lavorando con numerosissimi altri materiali, egli ama la creta e con essa, attraverso la continua sovrapposizione di strati che gli permettono di raggiungere la sua idea, “costruisce” gran parte delle sue complesse sculture. Si tratta di una tecnica che richiede tempo, calma, pazienza, grande sapienza e maestria artigianale perché si sviluppa nel tempo trasformandosi poco alla volta nella forma immaginata o inseguita; una manualità intensamente faticosa cui si accompagna spesso anche un grande impegno fisico per le grandi dimensioni e il peso dei pezzi Le opere di Lucchi coniugano modernità e classicismo senza soluzione di continuità perché punto di arrivo di un lungo processo di ricerca che si è coagulato in un raffinato linguaggio personale. Si capisce che non tutti gli artisti possono improvvisarsi o, peggio, definirsi scultori: è relativamente facile ideare e disegnare un bozzetto ma, la ‘vera scultura’, sarà creata solo da qualcuno che è capace di padroneggiare la materia e “trasformare il pensiero in forma”.

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Agosto 2014, Anno 3 - N.8

Luigi Penasa

I dipinti di Luigi Penasa presentano alcune caratteristiche singolari e originali che li rendono immediatamente identificabili anche ai meno esperti. Innanzitutto, vi sono sempre raffigurate delle persone, delle figure o dei visi di uomini e donne dalle caratteristiche decisamente non comuni: esseri diversi, soprannaturali, mitologici oppure alieni. “Personaggi” inespressivi connotati da simboli esoterici indecifrabili e sospesi in atmosfere ambiguamente domestiche, immobili o bloccati nel mezzo di un’azione, che dalle tele scrutano l’osservatore. La fissità e la vacuità inquietante degli sguardi, le posture, le espressioni apparentemente tranquille tradiscono un’angoscia latente priva di riferimenti a situazioni reali, riproponendo costantemente una dimensione di straniamento o di attesa. Un altro stilema che si ripete nelle tele di Penasa è la ricchezza decorativa degli sfondi su cui queste improbabili creature galleggiano, fantasmi sospesi nel tempo e nello spazio che tentano di liberarsi da reti e legami che li avviluppano. Si viene così a creare un contrasto netto, uno scarto semantico, tra gli eterei soggetti in primo piano, connotati da tenui e delicati colori pastello, e i ricercati fondali su cui essi si stagliano, caratterizzati da disegni che ricordano vecchie tappezzerie, raffinati tessuti art deco oppure gli stencil a rullo usati in passato nelle case di campagna. Cosa rappresentino questi esseri che popolano i quadri di Penasa e da quali luoghi fisici o mentali emergano, non è facile capire. L’artista dichiara di essere “ossessionato” da questi ritratti di visi, di torsi seminudi ma asessuati, da questi androgini con le teste ornate di corna o lunghe antenne contorte. Ma, forse, è inutile cercare spiegazioni a certe immagini uscite più dal gesto surrealista che muove da un inconscio insondabile che da una scelta consapevole dell’autore.

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Settembre 2014, Anno 3 - N.9

Marco Arman

Esiste un’arte trentina, oppure l’arte non possiede caratteristiche nazionali o locali? E non c’è alcuna differenza di storia, di cultura, di interessi, di sensibilità, tra un artista metropolitano e uno di montagna come Marco Arman, nato e vissuto in Val di Cembra? Una valle non certo ricca e facile per l’asprezza delle forre scavate dai fiumi e ridisegnate nei secoli dai terrazzamenti coltivati a vite, i vasti boschi, i sentieri ripidi e faticosi, tutti elementi che hanno formato il carattere degli abitanti e la loro visione della vita come lavoro quotidiano e fatica. Non è un caso se l’ambiente e la natura sono le fonti primarie e infinite di ispirazione dei dipinti e anche delle personalissime sculture ambientali di Marco perché nei suoi lavori l’artista parla sempre di sè stesso, racconta il suo mondo interiore e anche la sua storia personale, ciò che ama e meglio conosce perché appreso dalla natura della sua valle e dalla vita nella sua comunità. Il suo linguaggio in bilico tra una figurazione indefinita e un’astrazione non ricercata, lascia all’osservatore la libertà di intuire e interpretare le forme organiche rappresentate. La pennellata veloce e, apparentemente, senza ripensamenti, in cui anche le gocciolature entrano a far parte della composizione e i morbidi colori stesi a spatola dai toni caldi e delicati, danno corpo a piccole tele di vago sapore impressionista. Ecco, tutto ciò esce dalla pittura di Marco Arman: la meraviglia di fronte alla bellezza della natura in tutti i suoi aspetti, l’umiltà di fronte alle forme maestose delle montagne, l’amore per il verde vellutato dei muschi e l’ammirazione per le spaccature nervose nelle lastre di porfido rossastro e, forse, proprio questo significa essere artista trentino.

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Ottobre 2014, Anno 3 - N.10

Alda Failoni

Osservando per la prima volta i quadri di Alda Failoni si ha la sconcertante impressione di trovarsi di fronte a delle opere non contemporanee, d’altri tempi; di un passato, però, non facilmente individuabile o definibile. I suoi dipinti sono sicuramente figurativi ma, ad un’analisi più attenta, i soggetti rappresentati appaiono decontestualizzati e reinterpretati in chiave immaginaria: diventano altro, forme ambigue e inquietanti che nascondono significati misteriosi. Guardare i suoi quadri è come visitare una “wunderkammer”, un viaggio tra le meraviglie e i mostri della memoria e del subconscio, dei ‘deja vu’ sospesi nel tempo e nello spazio che intrigano e inquietano. I lavori di Alda potrebbero avere lo stesso titolo dell’opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto” poiché nei suoi dipinti si sente la nostalgia della…. nostalgia, il piacere di ritrovare impressioni ed emozioni perdute attraverso l’esplorazione analitica e la successiva raffigurazione di frammenti di realtà, di piccole cose banali che si caricano di valori simbolici imprevisti, un po’ come il sapore delle ‘madeleine’ di Proust che riportano alla luce ricordi e sensazioni dimenticate. E’ proprio per questa sua scelta di muoversi nelle zone profonde che le gamme cromatiche sono essenziali e ristrette a pochi colori caldi che, mantenendosi prevalentemente tra il bianco-panna e il marrone-nero, sembrano già consumati dal tempo. Le atmosfere che emergono dalle tele sono intimiste ma distanti allo stesso tempo, sospese, rarefatte, grazie anche alla pennellata morbida che rende i contorni delle cose più sfumati e le figure poco definite nella luce naturale degli ambienti. La realtà fisica degli oggetti è solo un pretesto per indagare il mondo metafisico interiore dell’artista la quale non sa prima cosa troverà perché il senso non è nella meta, che non si conosce, ma nel viaggio. Senza mai lasciare il suo studio, Alda può percorrere con lo spirito e la fantasia tutti i mondi che le si aprono davanti e, per lei, dipingere un quadro, diventa così un’avventura totalizzante.

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Novembre 2014, Anno 3 - N.11

Simone Turra

Simone Turra è uno scultore; disegna e dipinge - molto bene - ma, innanzitutto, è uno scultore. Perché, per un artista, prima di diventare una scelta professionale, quella di scolpire o modellare è una necessità, una spinta interna a trasformare e manipolare la materia che, sola, permette di affrontare il faticoso impegno richiesto. Il pittore “simula lo spazio” con i chiaroscuri per creare la percezione della profondità; lo scultore “costruisce lo spazio” attraverso il lavoro sulla materia vera, concreta. Turra scrive: “Amo la materia. Il legno va ascoltato, la roccia esplorata, la terra posseduta.” Egli è artista completo che conosce e pratica tutti i procedimenti, sia quelli basati sull’apporto di materiali plasmabili (creta, gesso e, poi, bronzo), sia quelli sulla sottrazione della materia superflua da un duro blocco (legno, pietra ecc.) in cui la forma finale deve essere “trovata”. Tante le tecniche artistiche padroneggiate nelle molte importanti opere fin qui realizzate con un unico intento: raggiungere la massima libertà espressiva. Dopo un passato di opere astratte e radicalmente concettuali, la sua ricerca si è avvicinata progressivamente ad una figurazione più attenta ai grandi temi della classicità e al recupero della tradizione popolare. Un ritorno alle forme archetipiche della scultura attraverso la riscoperta del corpo: corpi femminili sensuali, simbolo di tutte le emozioni e passioni umane e corpi maschili massicci, pesanti, piantati nella terra come alberi per sottolineare un rapporto inscindibile con la Natura. Diversi, invece, i gruppi scultorei monumentali, rappresentazioni teatrali metafisiche in cui i personaggi rappresentano attraverso la complessa articolazione delle relazioni spaziali e psicologiche, una incomunicabilità di fondo e la sostanziale impossibilità di dare un senso alla realtà.

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Dicembre 2014, Anno 3 - N.12

Jacopo Mazzonelli

E’ noto che tra musica e pittura ci siano delle forti affinità: entrambe lavorano con degli elementi immateriali e astratti come il suono e il colore i quali, combinati secondo formule alchemiche, cioè artistiche, si trasformano in emozioni e, in ultima analisi, in bellezza. L’artista Jacopo Mazzonelli “nasce” musicista, pianista e compositore, e questo lo si comprende quando si guardano le sue installazioni e le sue sculture. Non tanto perché vi sono in quasi tutte le sue opere espliciti riferimenti al mondo della musica e del suono: pianoforti, violini, archetti, ponticelli ecc. oppure a oggetti “sonori”: orologi, diapason, giradischi, televisioni, metronomi ecc., quanto per la sua rigorosa impostazione formale e compositiva. La metodologia di tipo analitico con cui affronta i temi che lo interessano rivela un approccio multidisciplinare in cui confluiscono le sue passioni: la musica, appunto; la sperimentazione artistica; la commistione dei generi e discipline; l’invenzione progettuale; la ricerca filosofica; la tecnologia applicata al suono, al movimento, all’immagine; e soprattutto la passione quasi morbosa per tutti quegli oggetti estetici, vecchi, vissuti, capaci di far scattare un corto circuito creativo nella sua fantasia. Il fulcro di ogni sua opera, infatti, è quasi sempre un’elaborazione concettuale e formale che prende l’avvio da “objects trouvé” (oggetti trovati) decontestualizzati e reinventati secondo la lezione delle avanguardie storiche o dell’arte povera. Jacopo li sceglie con cura e un’attenzione maniacale per tutti i dettagli, affascinato dalla loro storia, dalle loro forme, funzioni e materiali, per poi riassemblarli liberamente e costruire delle sculture o installazioni che raccontino tutt’altre storie, forme e significati. Si tratta di opere minimaliste e apparentemente semplici ma tali da necessitare spesso di una spiegazione per renderle decifrabili e concettualmente affascinanti.

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2015


Gennaio 2015, Anno 4 - N.1

Giuseppe Debiasi

Febbraio 2015, Anno 4 - N.2

Annalisa Filippi

Marzo 2015, Anno 4 - N.3

Diego Bridi

Aprile 2015, Anno 4 - N.4

Gelsomina Bassetti

Maggio 2015, Anno 4 - N.5

Livio Conta

Giugno 2015, Anno 4 - N.6

Romano Furlani

Luglio 2015, Anno 4 - N.7

Agosto 2015, Anno 4 - N.8

Settembre 2015, Anno 4 - N.9

Ottobre 2015, Anno 4 - N.10

Novembre 2015, Anno 4 - N.11

Dicembre 2015, Anno 4 - N.12

Paolo Dalponte

Giuliano Orsingher

Paolo Tomio

Luca Coser

Flavio Marzadro

Angelo Demitri Morandini


Gennaio 2015, Anno 4 - N.1

Giuseppe Debiasi

“Il quadro è metafora dell’esistenza” scrive Giuseppe Debiasi. Forse è per questo che la sua pittura espressionista non lascia mai indifferenti gli osservatori i quali, di fronte ai dipinti in cui prevale la forza vitale immediata, a volte violenta, il gesto istintivo e veloce, il suo mettere a nudo l’anima, non possono non rimanere coinvolti emotivamente. La sua è un’arte informale nella quale l’esaltazione dell’inconscio avviene attraverso l’assenza di controllo razionale da parte del pittore e tramite le possibilità espressive dei colori e la dinamica gestualità libera di espandersi sulla tela. Il segno nasce da un impulso legato alla non premeditazione del gesto pittorico e dei movimenti eseguiti dall’artista nel momento in cui realizza l’opera, la quale si basa soprattutto sull’improvvisazione e sulla velocità d’esecuzione. Fondamentale non è l’opera in sè, quanto l’atto del “processo di creazione” della stessa. Il colore ha una consistenza materica tangibile e corporea, ha massa e spessore e viene steso a strati con le dita e le mani. Anche l’uso di materiali trovati, presi dal mondo esterno, è pratica corrente: “Il quadro non è bidimensionale, e quindi illusione, ma tridimensionale cioè realtà viva, da toccare con mano”. Tutto concorre alla tensione che l’artista vuole esprimere in quel momento sulla tela. La poetica di Debiasi nasce dal rifiuto della forma e da una sfiducia nella razionalità e nei valori di una società conformistica: “La vita non è geometrica, ma liquida e l’arte non è calcolo, ma macchia”. L’arte deve nascere da dentro e non può essere “imparata” come uno stile o una tecnica: è un modo di essere. La sua costante volontà di ricerca unita ad una continua sperimentazione tecnica e materica, hanno trovato espressione in numerosi cicli pittorici, anche molto diversi tra loro, ma sempre caratterizzati da uno stretto rapporto con la storia della sua terra e, in particolare, con la Natura intesa come fonte infinita di vita e di bellezza e, in ultima analisi, di Arte.

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Febbraio 2015, Anno 4 - N.2

Annalisa Filippi

Annalisa Filippi è una giovane che possiede tutte le credenziali da artista: Scuola d’arte, Accademia di Belle Arti, Accademia di Salisburgo, corso di perfezionamento in incisione a Urbino. E, tanto per gradire, laurea triennale in canto lirico. Tanta voglia di fare e tante cose da dire: la padronanza delle tecniche e un linguaggio personale già riconoscibile in cui si intuiscono future potenzialità tutte da esplorare. Il suo segno è libero ed è padrone dello spazio della tela, sia in quelle di grandi dimensioni, sia nei piccoli quadri allineati in lunghe sequenze di metamorfosi delle forme. In questo suo “naturalismo organico”, Annalisa mantiene sempre uno stretto legame con la tradizione alta della pittura, come se il costante riferimento alla figura umana fosse necessario alla sua ispirazione. In questo suo metodologia consolidata, spesso però irrompe un linguaggio informale che decostruisce e contesta una struttura compositiva organizzata introducendo stimolanti e imprevedibili sviluppi di libertà irrazionale. Solo dopo aver trasferito di getto l’idea con il carboncino, l’artista passa al colore che diventa così, complementare e conclusivo: il segno è nervoso, energico seppur abbozzato con linee leggere che alludono a temi o soggetti successivamente definiti e ritagliati nello spazio mediante le ampie e veloci campiture liquide. I dipinti sono popolati da figure umane distinguibili o da organismi vagamente antropomorfi che, galleggiando in atmosfere fantasmatiche, vagamente gotiche e inquietanti, si trasformano in pure forme astratte. L’insieme è sempre caratterizzato dal movimento, da un vortice dinamico che sprigiona una vitalità e una volontà narrativa cui forse non è estranea anche un’armonia musicale interiore.

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Marzo 2015, Anno 4 - N.3

Diego Bridi

Nell'enclave trentina è possibile trovare degli artisti che sono riusciti a crearsi una propria autonomia espressiva e una precisa riconoscibilità, senza dover ricorrere a stilemi altrui o a furbe scorciatoie. Comportamenti, questi, impensabili per uno come Diego Bridi, come ben si comprende dalla sua risposta (autobiografica) alla domanda su chi sia l'artista: "Una persona sensibile, esageratamente sensibile, che osserva molto, di solito parla poco (questa è una dote da non sottovalutare)". Bridi si definisce un "manierista" per le cura maniacale della pennellata e del dettaglio e per il perfezionismo che lo porta ad un lavoro da certosino su ogni tela con una tecnica ad olio quasi "puntinista", alla ricerca dei giusti equilibri tra forme e colori. Ma, Diego potrebbe anche essere definito un "paesaggista-miniaturista" per le dimensioni sempre contenute delle sue tele e, soprattutto, per il suo stile naive giocoso e delicato in cui case "svergole" addossate l'una all'altra e borghi arroccati su colline e montagne, sono incessantemente decostruiti, reiventati e ricomposti. Una sorta di figurativismo intimista di complicati labirinti, coloratissimi e allegri in cui la mente si perde e che, come visti attraverso un gioco di specchi, si frantumano in un astrattismo morbido e luminoso. Diego, da vero pittore, è riuscito a inventarsi un suo mondo fantastico in cui raccontare di sè stesso e dei sentimenti più intimi, senza dover ricorrere alle parole. Inoltre, artista appagato perché non mosso né dal desiderio di compiacere né dalla voglia di adeguarsi alle mode, ma spinto solo dal puro piacere di creare sogni e atmosfere che lo rappresentino e trasmettano quella bellezza più vicina all'uomo, troppo spesso dimenticata dall'arte contemporanea.

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Aprile 2015, Anno 4 - N.4

Gelsomina Bassetti

Se è vero, come è vero, che ogni dipinto è un autoritratto dell’artista, cosa ci raccontano i grandi quadri di Gelsomina Bassetti?. Quando lei dice: «all’inizio io mi metto davanti alla tela bianca “vuota“ disponibile» e «i miei quadri “diventano” da soli», significa che ogni dipinto è vissuto come un’esperienza esistenziale e psicologica oltre che artistica. Non è l’automatismo psichico dell’inconscio teorizzato dai surrealisti ma ogni atto creativo sembra assai vicino ad una seduta psicanalitica. L’arte di Bassetti c’è e si vede, nella raffinata tecnica pittorica, nell’uso di colori materici ma al contempo sobri e delicati, nelle composizioni essenziali di un classicismo senza tempo: ha studiato e vissuto in Germania per quindici anni ma la sua pittura deve molto all’arte italiana. Colpisce, infatti, l’atmosfera rarefatta e metafisica in cui uomini, donne, animali (tanti animali), sono sospesi e immobili in uno spazio senza tempo come in attesa che accada qualcosa. Gelsomina è una persona solare e i suoi dipinti dalle morbide forme e dai colori tenui e caldi sembrano emanare una quiete serena eppure, ad uno sguardo più attento, nella staticità dei personaggi immersi nei loro pensieri che paiono porre domande senza risposta, nei fondi bianchi come antichi affreschi consumati dal tempo, si coglie una sottile inquietudine che racconta di assenze e di vuoto, di solitudini esistenziali e di incomunicabilità. Ma, forse, la sua non è una pittura autobiografica, ma solo storie sapientemente rappresentate attraverso allegorie e simboli, di archetipi che salgono alla coscienza dal profondo del subconscio.

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Maggio 2015, Anno 4 - N.5

Livio Conta

Nel panorama artistico trentino, Livio Conta ricopre un ruolo del tutto particolare. Artista a tutto tondo, è ottimo scultore dallo stile personale e potente con qualsiasi materiale: legno principalmente, ma anche pietra, bronzo, ceramica; è un bravissimo pittore che padroneggia tutte le tecniche, comprese quelle incisorie; possiede perfettamente il disegno con cui riesce a rappresentare con pochi e sintetici tratti studi di persone e bozzetti di sculture; realizza opere in mosaico, in acciaio, in vetro come nelle enormi vetrate della cattedrale di Tirana. Insomma, un artista completo - come quelli di “una volta” - per intendersi, capace di fare tutto da solo ma, allo stesso tempo, sempre attento al nuovo e interessato a ricercare e sperimentare. Personaggio tutto d’un pezzo (come si conviene ad uno scultore) perchè, dopo aver vissuto a Parigi, Milano e molto viaggiato, ha deciso di ritornare alla sua terra d’origine stabilendosi a Monclassico, in Val di Sole, rinunciando così ad un successo più facilmente raggiungibile per privilegiare il rapporto con le proprie radici. Nonostante il suo essere distante dai circuiti artistici e commerciali - o forse proprio per questo - Livio è riuscito a sviluppare e approfondire un suo mondo espressivo personale assolutamente riconoscibile e apprezzato che gli ha permesso di portare le sue opere in tutto il mondo. Non credo di sbagliare dicendo che è l’artista che più ha lavorato fuori del Trentino mantenendo sempre, però, quella sua caratterizzazione che ha colpito anche il Maestro Benedetti Michelangeli, diventato suo grande amico ed estimatore. Nel mercato artistico finanziarizzato d’oggi in cui capacità, competenza, impegno, coerenza, sono qualità marginali e sottomesse alla provocazione, alla moda e alla produzione di continue novità, Livio Conta rimane esempio di una serietà artistica e professionale sempre più rara.

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Giugno 2015, Anno 4 - N.6

Romano Furlani

Potrà sembrare strano, ma molta pittura astratta è più affine alla musica (la più astratta delle arti) che alla pittura figurativa: mentre quest’ultima fa sempre riferimento a dei contenuti e a delle forme esplicite, l’arte astratta è autoreferenziale, parla di sè e del suo linguaggio. In questo senso, il colore e le sue modulazioni sono come suoni che vibrano sulla tela ed entrano in risonanza con l’osservatore suscitando emozioni, empatia e piacere estetico. Non concetti. L’arte astratta non si deve capire ma si deve “sentire” attraverso gli occhi. Romano Furlani è un poeta del colore perchè attraverso i suoi delicati e luminosi acquerelli riesce a comunicare il suo mondo interiore e gli stati d’animo senza dover ricorrere ad altro che non sia il pigmento utilizzato in mille modi e sfumature. La sua è una pittura di astrazione pura, “naturalistica”, ma non in quanto raffiguri una realtà fisica ma perché, affidandosi completamente alla parte emozionale, esprime in modo diretto e non mediato il senso del meraviglioso che si prova di fronte alla bellezza della natura. Le gamme delle sue tinte trasparenti e cangianti, tenui o vivacissime, le fasce fluttuanti, le ampie pennellate liquide sovrapposte, più vicine alla meditazione Zen che non alla pittura informale o gestuale, coinvolgono chi sappia accostarle con l’occhio sgombro da sovrastrutture mentali e sia capace di provare lo stupore di fronte all’essenza delle cose. In fondo, è una pittura “naturalistica” anche perché Romano ha conquistato tutto da solo, cercando, provando e riprovando: ogni sua opera nasce da una faticosa ricerca intima che gli ha permesso di essere “naturale”, leggero, libero dal peso delle convenzioni dell’arte ufficiale.

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Luglio 2015, Anno 4 - N.7

Paolo Dalponte

In un passato non lontano, l’artista che non sapeva disegnare non era un artista. Prima di intraprendere la pittura erano richiesti lunghi esercizi con matita e carboncino. Il disegno era (ed è) lo strumento fondamentale per insegnare a guardare il mondo e a raffigurarlo attraverso uno dei linguaggi più astratti elaborati dalla cultura visiva. Oggi sono molti gli che artisti disegnano poco e male, altri non sanno addirittura disegnare perché impreparati o interessati più ai puri contenuti che non alle forme degli stessi. E’ un grave errore perché si sta perdendo una delle abilità più importanti sviluppate dall’uomo e, in particolare, dall’arte. Per queste ragioni è bello trovare un artista come Paolo Dalponte il quale, pur possedendo un’ottima tecnica pittorica figurativa, quasi “iper-realistica”, ha scelto di privilegiare il disegno, una tecnica espressiva oggi poco valorizzata dal mercato nonostante sia sempre apprezzata dal pubblico. In effetti, le chine acquerellate di Dalponte, più che a dei disegni assomigliano a delle incisioni a bulino che possiedono il fascino delle stampe a colori che illustravano i libri antichi. Osservando con attenzione queste immagini apparentemente realistiche e dalle delicate tonalità, però, si prova uno straniamento crescente man mano che ci si accorge che nulla è quello che sembra e i soggetti disegnati assumono sembianze inaspettate e ambigue trasformandosi in tutt’altro. Attraverso il suo segno analiticamente virtuosistico Paolo osserva la normale realtà che lo circonda con l’occhio innocente e smaliziato dell’artista, reinterpretandola, reinventandola e riproponendola attraverso le sue forme realisticamente fantastiche o verosimilmente impossibili. Convinto che la realtà non esista per chi non si accontenti della percezione immediata, superficiale delle cose, ma che si manifesti solo a chi sia capace di andare oltre l’apparenza e intuire una sur-realtà parallela. Anche i suoi disegni a matita in bianco e nero descrivono nitidamente mondi dove la fantasia, priva di limiti e di vincoli precostituiti, può liberamente ribaltare il senso logico delle cose alla ricerca di altre verità.

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Agosto 2015, Anno 4 - N.8

Giuliano Orsingher

Giuliano Orsingher si definisce un “recuperante”, ovviamente non uno di quelli alla ricerca di residuati bellici nelle zone di guerra, ma un “recuperante artistico”. E’ un termine nuovo, non so se coniato dallo stesso Orsingher, ma che ribalta l’approccio tradizionale alla creazione artistica, storicamente concentrata sull’ideazione “ex novo” dell’opera, spostandolo ad una fase propedeutica secondo cui l’opera esiste già “in nuce” ed è compito dell’artista scoprirla. Chi, come Giuliano, opera nel filone dell’Arte ambientale, vede la Natura come la fonte primaria del proprio fare arte: la bellezza è lì davanti ai nostri occhi, bisogna saperla trovare, liberandosi da condizionamenti culturali, estetici e formali, per “recuperarla”, reinterpretarla e ricollocarla modificata dall’intervento umano, in un contesto diverso che le attribuisca un nuovo senso culturale. Le sue sculture e le installazioni site-specific nascono dunque dall’esigenza di comunicare un pensiero non fuori o contro, ma “grazie alla natura”, in uno scambio biunivoco in cui l’uomo (che è lui stesso natura), può intervenire su di essa con quell’atteggiamento di rispetto, di umiltà e di consonanza che solo gli permette di creare opere le quali, seppur rigorosamente progettate e costruite con i materiali e gli strumenti della modernità, appaiono molto simili a delle offerte votive primitive. Cercare un rapporto privilegiato tra Artificio e Natura, è una prassi estremamente stimolante poiché apre nuovi orizzonti di significati e di bellezza tutti da scoprire, che richiede però un’intima adesione etica, prima che estetica, unita a una costante comunione spirituale e fisica, con il mondo naturale. Chi, come Orsingher, conosce e vive le montagne i cui tempi si misurano in centinaia di milioni di anni, sa che l’uomo può solo tentare di penetrare il mistero del “Grande Disegno” in cui viviamo ed è cosciente che l’artista lascia un “segno” destinato a scomparire, del proprio passaggio.

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Settembre 2015, Anno 4 - N.9

Paolo Tomio

Dopo che l’artista previsto nel numero di settembre, nonostante le reiterate assicurazioni, non mi ha fornito il materiale promesso, non disponendo di alcun sostituto, ho dovuto improvvisare in fretta e furia un’intervista all’unico artista che avevo sottomano: il sottoscritto. Lo so, nasce un conflitto di interessi dalla commistione di ruoli tra intervistato, intervistatore e curatore della rivista ma, visti i conflitti a cui assistiamo quotidianamente in Italia, si tratta di un peccato veniale. Oltretutto, involontario e irrisolvibile. Non nascondo che questa fosse un’intervista che, prima o poi, avevo intenzione di realizzare, e non perché, immodestamente, mi ritenga ai livelli dei grossi professionisti che ho pubblicato su FIDAart in questi anni, ma perché mi interessava chiarire in modo organico un punto di vista artistico abbastanza eccentrico rispetto al panorama esistente. Le ragioni di questo mio non considerarmi vincolato a consuetudini o tradizioni consolidate, nasce dalla molteplicità ed eterogeneità dei miei interessi professionali e culturali (architettura, design, arte, grafica, tecnologia, fotografia, fumetto, cinema, storia, metodologia, teoria, più tutto ciò che l’uomo produce e mi incuriosisce), che mi consentono di misurarmi con la massima libertà con “attività a quoziente estetico” tra loro molto diverse. Il mondo delle forme e delle immagini è talmente immenso che è un vero peccato limitarsi agli argomenti codificati o istituzionalizzati: meglio osservare le mille sfaccettature di una realtà globalizzata in continuo divenire. Io ritengo, infatti, che un artista impegnato a praticare tutta la vita la ripetizione di alcuni stilemi per garantirsi riconoscibilità e riconoscimenti, perda l’unica cosa che lo dovrebbe contraddistinguere dall’uomo “comune”: il privilegio di poter essere creativo.

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Ottobre 2015, Anno 4 - N.10

Luca Coser

Nel corso dell’intervista, Luca Coser si definisce “artista molto mentale”. Questa è una delle chiavi di lettura per tentare di comprendere quelle caratteristiche che rendono il suo linguaggio artistico del tutto particolare. L’altra chiave è l’immediata impressione di omogeneità e coerenza che si percepisce di fronte al corpus delle sue opere: tutto si tiene come in una sorta di complicato diario disegnato in cui si svolge senza soluzione di continuità una narrazione che parla del suo mondo fantasmatico. Un mondo che, come si comprende dalle figure sfumate o solo accennate che affiorano da sfondi incerti oppure dalle scritte esplicite, rimanda ai film dei Maestri della incomunicabilità, da sempre il grande riferimento stilistico e psicologico dell’artista. A questa sensazione di narrazione per scene concorre anche la scelta della sapiente gamma cromatica ristretta a pochi colori freddi, quasi monocromatica, che contribuisce a comunicare un senso di assenza e di vuoto legati a un pessimismo esistenziale ineluttabile. La poetica di Coser è complessa, concettuale, fatta di continui rimandi colti e, anche se lui dichiara: “non “invento nulla” e “racconto di me attraverso immagini rubate”, le sue operazioni con e sulle immagini che dipinge, più che a delle citazioni da cinefilo, appaiono più simili a un’autoanalisi svolta attraverso un procedimento teso a impadronirsi delle vite altrui. La sua è una pittura figurativa di grande qualità in cui le figure si decompongono e rimane la loro sagoma incerta, solo accennata bloccata nel vuoto di un fondo piatto e indeterminato, come in un gioco di ombre cinesi dove anche gli oggetti raccontano della solitudine dell’uomo. Il suo approccio può essere definito un “metalinguaggio”, vale a dire un’azione che il linguaggio artistico svolge sopra un altro linguaggio, quello cinematografico: in questo modo una finzione (l’arte), trae linfa da un’altra finzione (il cinema). E’ l’artificio mentale con cui Luca mette in moto ricordi, pensieri, impressioni che, poi, con tecnica raffinata trasferisce su piccole carte o su tele monumentali. Le immagini vengono estrapolate dalla narrazione filmica, manipolate per cancellare il superfluo, reinterpretate o reinventate per ridurle all’essenza e per arrivare sempre a riscrivere “ossessivamente” una nuova storia personale.

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Novembre 2015, Anno 4 - N.11

Flavio Marzadro

Flavio Marzadro è uno dei (pochi) rappresentanti in Trentino della cosiddetta “arte pubblica”, un termine recente ma molto ampio che comprende le attività più diverse. Nel corso dell’intervista si definisce “artivista”, la fusione tra artista e attivista, chiarendo bene quale sia il suo punto vista: non si ha arte pubblica se non si opera sul pubblico, con il pubblico, per il pubblico. Flavio, proprio per la sua formazione culturale, studi di sociologia, urbanistica, architettura e arte, ha progressivamente elaborato nel corso delle sue esperienze in giro per il mondo una propria visione personale e socialmente impegnata sul ruolo dell’artista e sulla funzione dell’arte. Il suo approccio a quella che si definisce creatività è anzitutto concettuale perché è prioritaria in lui la volontà di “fondare” l’atto artistico su un pensiero forte e un coinvolgimento fisico con il territorio e con il contesto sociale, antropologico e, non ultimo, politico. Per queste ragioni, nelle sue opere e performance, esiste sempre un’analisi a monte, a cui segue l’azione singola o collettiva finalizzata, soprattutto, a un messaggio: “Come artista-sociologo, la mia arte è messaggio”. Particolarmente interessante e piacevole il ciclo dei “decalchi”, impronte di vere pavimentazioni storiche (ottenute avventurosamente nottetempo), originati non tanto dalla bellezza innegabile del supporto, quanto dall’attribuzione alla realtà concreta della lastricatura del significato di “opera d’arte pubblica” creata dalla comunità stessa. L’accento è messo più sull’aggettivo “pubblico” che sul sostantivo “arte”, che si dà per scontata; da qui, l’ottimistica convinzione di Marzadro: “L’artista è oggi chiunque creda di esserlo e si metta a farlo”. Va comunque preso atto che, al di là della bontà delle sue idee socio-politiche, in tutte le opere di Flavio si riconosce sempre quell’attenzione e sensibilità verso la qualità estetica che, nonostante tutto, rimane indispensabile nell’arte.

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Dicembre 2015, Anno 4 - N.12

Angelo Demitri Morandini

Marcel Duchamp, in un’allocuzione del 1960 afferma: ”Tra le responsabilità (dell’artista), una delle più importanti è l’educazione dell’intelletto, anche se, professionalmente, l’intelletto non è la base per la formazione del genio artistico”. Secondo l’artista Joseph Kosuth, essendo l’arte una continuazione della filosofia, i concetti e le idee espresse sono più importanti di un frainteso ed equivoco piacere estetico. Angelo Morandini ha abbandonato i territori sicuri dell’arte “retinica” a lungo praticata, per intraprendere una sperimentazione che privilegi l’intelletto e crei idee, discorsi, riflessioni, in una rappresentazione logico-simbolica che riduce, inevitabilmente, la componente emozionale. E’ intuibile che, per un artista formatosi in discipline filosofiche e informatiche, l’interesse per il pensiero sia diventato il nucleo centrale della sua ricerca accettando il rischio che il risultato percettivo dell’opera stessa passi in secondo piano. Il suo approccio non conformistico si lega direttamente ad una concezione dell’arte come attività eminentemente mentale il cui fine non sia tanto produrre un manufatto artistico, quanto proporre nuovi modi di lettura della realtà e di ciò che (secondo lui), si intenda per arte. I mezzi espressivi utilizzati ai fini di questa comunicazione sono assolutamente liberi e variabili di volta in volta: video, elaborazioni digitali, installazioni, performance, ready made, normali oggetti straniati dal contesto per suggerire significati alternativi. Alcuni suoi lavori, particolarmente ermetici, necessitano di una spiegazione dell’autore e possono apparire poco attrattivi per un pubblico interessato all’opera tradizionalmente intesa anche se Angelo rimane un artista sempre attento a quei valori di tipo estetico (immagini stenografiche), poetico (installazione con matite colorate, pallina da ping pong disegnata in volo), politico ((A)TenTaTo), religioso (la prova di Dio, polvere di sogno), sociale (la scultura Burocracy, le tele sociali), che mancano ai concettuali ortodossi.

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2016


Gennaio 2016, Anno 5 - N.1

Federico Lanaro

Febbraio 2016, Anno 5 - N.2

Stefano Cagol

Marzo 2016, Anno 5 - N.3

Pietro Weber


Gennaio 2016, Anno 5 - N.1

Federico Lanaro

Federico Lanaro è un artista anagraficamente giovane ma già in possesso di quel bagaglio di esperienze che ha permesso alla sua generazione di superare l’astratto per dedicarsi a una figurazione capace di esprimere compiutamente le nuove istanze culturali. Le sue opere sono caratterizzate da un tratto sintetico, più grafico che pittorico, condensato in pochi soggetti caratterizzati da contorni neri che definiscono figure a vivaci campiture piatte oppure eseguite con leggere pennellate in colori ‘fluo’ che contribuiscono a renderle ben riconoscibili. Un linguaggio essenziale, diretto, chiaro: dietro ogni dipinto si intuisce un pensiero analitico che non lascia spazio a gesti superflui, ma, allo stesso tempo, sottilmente ironico poiché gioca su più piani simbolici lasciando all’osservatore il compito di trovare significati palesi o nascosti. Lanaro ha sviluppato un proprio linguaggio fondato sulla creazione di una personale Wunderkammer in cui un bestiario mitologico reinventato, antichi mappamondi svuotati, giradischi vintage di recupero, carte geografiche inesistenti, convivono in reciproche contaminazioni attraverso cui egli parla di temi oggi sempre più attuali, come la guerra, le armi, il conflitto tra uomo e natura. Si tratta, forse, di un ritorno a un ruolo sociale dell’arte, alla denuncia e all’utopia come possibile via di salvamento di un mondo sconvolto e stravolto dalla fine degli equilibri: vedi la bimba sul dorso della iena, l’uomo pacificato con l’antilope, il cervo nel nido (del cuculo) o il teschio “ecologico”? Nei messaggi che le sue opere comunicano (che, però, lui nega esserci), Federico è poeticamente assertivo, la sua cifra personale, infatti, è rappresentata da una texture continua e compatta di verdi boschi che ricoprono tutto: carri armati, pistole, coccodrilli, teschi. Che voglia dirci qualcosa?

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Febbraio 2016, Anno 5 - N.2

Stefano Cagol

«..non ho più dipinto dopo l’Accademia…» Questa risposta spiega bene quale sia l'idea di arte di Stefano Cagol e come, seppur laureato a Brera, consideri la pittura solo una fra le tante opzioni che stanno di fronte a chi voglia esprimersi senza vincolarsi ad un unico linguaggio. Così il suo nomadismo, geografico e culturale, fa parte del suo modo d'essere in quanto motivato a partecipare a tutto ciò che avviene nel mondo. Insomma, un artista del nostro tempo, curioso e aperto a tutte le esperienze quando utili a trasmettere i concetti che ha in testa, impegnato sui grandi temi sociali ed ecologici per portare un suo punto di vista personale, comunicatore («l’arte è comunicare») e sensibile a tutto ciò che è pubblico poiché esperto delle regole di una società massmediatica sempre alla ricerca di nuovi stimoli e provocazioni. L’artista incarnato da Cagol non è tanto un creatore di manufatti, quanto un produttore di idee, di concetti e, conseguentemente, di azioni a valenza artistica finalizzate a stimolare delle risposte emotive e mentali negli spettatori coinvolti, direttamente o indirettamente. Diversamente da molti artisti ripiegati sull'autoreferenzialità della propria disciplina convinti dell'inutilità di relazionarsi con gli altri, Cagol si potrebbe definire un operatore culturale militante proiettato verso l’esterno che ambisce a incidere sulla realtà attraverso la sua pratica artistica. Convinzione che gli fa onore, particolarmente oggi, in tempi di disimpegno etico che sconfinano in una colpevole indifferenza, (se non connivenza). Non tutte le sue opere, però, si muovono sulla linea di un concettualismo simbolico, virtuale, ermetico perché, quando si confronta con opere tridimensionali, Stefano si dimostra artista capace di realizzare sculture e installazioni monumentali caratterizzate da rigorose composizioni dinamiche di sapore architettonico, attente al contesto e raffinate nei materiali.

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Marzo 2016, Anno 5 - N.3

Pietro Weber

Pietro Weber, si definisce così: disegnatore, scultore, scenografo e, soprattutto, ceramista. Stranamente, disegnatore e non pittore, nonostante i suoi quadri coloratissimi realizzati graffiando la cera o rasante di calce per far fuoriuscire stilizzate figure di uomini e animali da un fondo color cuoio antico, siano particolarmente connotati e personali. Gli spazi eseguiti a campiture piatte monocromatiche esprimono il bisogno di azzerare il linguaggio moderno per ritornare alle origini della Storia stessa, alla ricerca dello spirito dell'uomo non ancora contaminato dalla civiltà. La natura è sempre presente sia sotto forma di animali esistenti o mitologici che si stagliano contro paesaggi primordiali, sia nella materia stessa, grezza, minerale, che rimanda alla terra come Grande Madre. All'essenzialità dei dipinti, Weber contrappone l'esuberanza e la ricchezza delle forme delle sue ceramiche, statue totemiche, idoli ieratici, vasi antropomorfici e zoomorfici che recuperano un immaginario proveniente dalla notte dei tempi quando il Mito regnava nel mondo. Sculture che evocano mondi primitivi, esotici, mistici, dove l'Uomo è in rapporto diretto con il Naturale e con il Soprannaturale. Pietro, però, non esercita né l'imitazione né la citazione, bensì una "re-interpretazione" tramite l''assemblage' di antiche sacralità e ritualità tribali con la modernità di 'object trouvé', oggetti industriali recuperati e liberamente inseriti nelle opere. Simboli archetipici si compenetrano, così, con i linguaggi artistici contemporanei, filtrati sempre attraverso un forte senso di simmetria e armonia di pura matrice classica. In Pietro Weber la contaminazione diventa prassi artistica e di vita, una ricerca in cui passato e presente, occidente e oriente, nord e sud dialogano superando ogni confine culturale alla ricerca dell'innocenza perduta di quei popoli che mantengono ancora il legame con la terra e con il passato: popoli antichi e, quindi, modernissimi.

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FIDAart - Trento FIDAart


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