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necropoli si arriva alla grandiosità dei monumenti funebri che furono del popolo egizio, sumero e cretese, ma anche ittita, etrusco, inca ed azteco. Qui, immense piramidi - in forma regolare, di ziqqurat o mastaba - si ergevano ad imperitura memoria del fu re, e con queste altre forme di mausolei e labirinti. Un esempio italiano - nella fattispecie di matrice etrusca - di questo gigantismo magniloquente, che noi solitamente tendiamo ad associare di più all’esotico, lo si ha con ciò che resta delle tombe della Necropoli rupestre di Norchia2, vera e propria “città dei morti” interamente scavata nel tufo, pochi chilometri fuori Roma, tra Vetralla e Monte Romano.

Come si diceva in precedenza riguardo al rapporto con la morte in tempi arcaici, quello del lutto era, rispetto all’odierno, un tempo lungo, un segmento. Questo anche perché la relazione con il defunto continuava oltre il termine della sua vita terrena, o meglio - il che è forse più appropriato - la “comunità dei defunti” ri-entrava ede influiva, spesso e volentieri, nelle decisioni della “comunità dei vivi”:

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Da un lato i morti dovevano essere tenuti lontani da dove si apparecchia la vita quotidiana, disponendo innumerevoli accorgimenti che permettevano o vietavano determinate azioni, dall’altro dovevano essere costantemente evocati. Il credere nella vita oltre la morte, nel suo trapelare nel visibile come dimensione invisibile, non riguardava bizzarre rappresentazioni, bensì organizzava un sistema simbolico su cui si pianificavano le relazioni del gruppo e della comunità.3

05.2 Montagne

- MONTAGNA. […] Ciò viene confermato da Krappe, che afferma: “Spesso il paese dei morti è stato collocato all’interno di una montagna: da qui hanno origine le colline delle fate presenti nelle regioni celtiche e in Islanda; e ciò spiega pure la leggenda, diffusa in Asia e in Europa, del demiurgo o eroe addormentato all’interno di una montagna, da dove un giorno uscirà per

2 Si veda Necropoli rupestre di Norchia, in Sitografia. 3 Tratto da Testoni I., L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 77.

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rinnovare le cose terrestri” 4 -

In ambito greco - preso a paradigma della successiva e vastissima cultura occidentale, allo stesso modo di tutte le culture dei popoli “mediterranei” - l’usanza della sepoltura si è trasformata seguendo il grado di civilizzazione della società.

Se durante la prima Età del bronzo (3400 a.C. - 2000 a.C. ca.) si erigevano monumentali tombe a tholos, ma anche si utilizzavano camere ipogee o ambienti cavernosi di origine naturale dove si scavavano semplici fosse nel terreno, si hanno le prime testimonianze di sepolcri - più propriamente intesi - durante il periodo cosiddetto “protogeometrico” (1200 a.C. - 900 a.C. ca.), durante il quale sembra che venissero collocate delle anfore decorate al di sopra di semplici tumuli funerari. Con il periodo definito come greco-arcaico (600 a.C. - 450 a.C. ca.), avviene una trasformazione particolare:

Mentre forti somme di denaro vengono spese per la decorazione esterna del sepolcro, gli oggetti posti al suo interno, a beneficio dei defunti, diventano sempre più scarsi [...]. Anche quando le tombe architettonicamente più complesse prendono il posto della semplice collinetta sepolcrale, il principio dell’inumazione rimane costante: i defunti, infatti, vengono collocati sotto la struttura, non al suo interno.5

Tali strutture architettoniche diventano complesse e molto vistose, al punto che, per mezzo di un legiferare che si potrebbe definire “di funebre decoro” - cosa su cui sarebbe alquanto interessante riflettere anche al giorno d’oggi6 -, alla fine del VI secolo a.C. in Grecia vennero promulgate delle leggi santuarie, in base alle quali si limitava la quantità di denaro spendibile per il funerale e per la “lapide”.

Una questione forse marginale ma che racchiude il significato di un’usanza che si segue in parte tutt’oggi: il mondo “classico” greco-romano sottolinea la continuità di status tra la polis - città dei vivi - e la necro-polis - città dei morti -; sono inoltre due culture del volto: la lapide tombale, nell’una e nell’altra, presenta molto spesso un ritratto del defunto. È anche questo parte del suo status, si tratta della sua riconoscibilità - fra tutti gli altri uomini, tra tutte le altre lapidi.

4 Tratto da Cirlot J.E., op. cit., p. 307. 5 Tratto da Eliade M. (a cura di), Dizionario dei riti, Jaca Book, Milano, 2020 (1986-1993), p. 526. 6 Si veda Capitolo 07. Sacro laico futuro.

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Nella Grecia classica (450 a.C.-300 a.C. ca.) si protrae la tendenza vista precedentemente per quanto riguarda gli usi dell’inumazione nella Grecia arcaica e precedente, con la differenza sostanziale che viene sempre più accettata la massima glorificazione e quasi divinizzazione della figura del sovrano, per il quale il contenuto - seppur molto fastoso - sepolcro assume ora le proporzioni e la scala del mausoleo:

Il mausoleo, che imita le forme dell’architettura domestica e sacra, prende il nome da Mausolo, sovrano di Caria nel IV secolo a.C. La più spettacolare combinazione dei vari elementi finora segnalati si incontra probabilmente nel monumento funebre di Antioco I di Commagene [17] (I secolo a.C.), costruito a Nimrud-Dagh, nell’attuale Turchia, sulle pendici della catena montuosa del Tauro. L’alto tumulo contenente la camera funebre si elevava al di sopra di tre terrazze sovrapposte ed era completato da alcune statue colossali: queste rappresentavano alcune divinità e lo stesso Antioco, anch’egli divinizzato, ed erano alte in origine tra gli otto e i dieci metri. Le terrazze erano adornate da varie figure della tradizione greca e persiana, tra cui un leone zodiacale che rappresentava l’oroscopo del sovrano.7

I sepolcri sovrani soffrono di gigantismo - e si erigono mausolei.

Tale “grandioso uso” permarrà anche nella successiva cultura romana, dove magniloquenti tombe - in forma ed intenzioni di monumento - vengono erette anche da coloro i quali non fanno parte della élite imperiale, ad esempio dai membri della “borghesia” arricchita - anche se termine impreciso -, come nel caso della cosiddetta Tomba del Fornaio8 [18], a ridosso di Porta Maggiore a Roma (anche conosciuta come Sepolcro di Eurisace, costruita tra il 30 ed il 20 a.C., nel momento di passaggio tra età repubblicana ed augustea). Anche la successiva Biblioteca di Efeso (anche nominata Biblioteca di Celso), eretta in Turchia nel 107 d.C., viene eretta primariamente come monumento funerario in onore del defunto padre di Gaio Giulio Aquila - proconsole d’Asia -, per l’appunto Celso (Tiberio Giulio Celso Polemeano).

In Grecia, anche nelle più parche morti delle persone comuni, però, il rituale d’inumazione godeva di una certa dose di complessità, nei tempi come nei modi: difatti, la salma del defunto veniva primariamente lavata e rivestita, come a prepararsi per l’ultimo, più importante appuntamento della sua vita. “Gli Ateniesi avevano tanto rispetto per la sepoltura che persino un comandante, se avesse dimenticato di seppellire con onore i caduti

7 Tratto da Eliade M. (a cura di), op. cit., p. 526. 8 Si veda Sepolcro di Marco Virgilio Eurisace, in Sitografia.

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in battaglia, veniva punito con la pena capitale”9 .

La veglia funebre perdurava per due giorni e due notti; inoltre, la casa del morto era addobbata di corone d’alloro nel mentre le donne della famiglia lamentavano canti e nenie funebri, fino a quando non sopraggiungeva il momento, ch’è sacro apice, della sepoltura o della cremazione, eseguite prima dell’alba, al termine di una lunga processione durante la quale la salma era portata dall’abitazione - luogo di morte - verso la necropoli - luogo di “nuova vita”10 .

I luoghi delle sepolture nella Grecia antica erano, molto similmente alla storia romana antica - in parte parallela -, di diversissima natura, quasi sempre al di fuori dell’abitato, come suggeriva lo stesso Platone all’interno delle Leggi11:

I luoghi delle sepolture furono di varia natura in epoca antica. Secondo una legge pontificia era vietato costruire un sepolcro in un luogo pubblico. Secondo Platone un uomo non deve essere in nessun modo (néda vivo, né da morto) nocivo alla comunità; perciò prescriveva di seppellire i defunti fuori dalla città, esclusivamente in un campo che fosse quasi sterile. [...] Altri, al contrario, conservarono in casa i cadaveri imbalsamati con gesso e sale. Micerino, re degli Egiziani, tenne la salma della figlia dentro un bue di legno in una sala della sua reggia [...].12

In ambito romano, tali usi funebri permangono molto simili ma si fanno provvedimenti. Le Dodici Tavole13 prescrivevano di non seppellire i corpi dei defunti all’interno della città e di non bruciarli, così come imponevano pene molto gravi a coloro che avessero disonorato la memoria degli antenati sfregiandone una statua o un busto funerario, ad esempio.

Il mondo dei vivi doveva essere separato da quello dei morti. [...] Il codice teodosiano [438 d.C.] ripete lo stesso divieto, perché sia preservata la sanctitas delle case degli abitanti. La parola funus significa insieme il cadavere, i funerali e l'assassinio. Funestus indica la profanazione provocata da un cadavere. Per questa ragione i cimiteri erano situati fuori delle città, sul margine delle strade, come la Via Appia a Roma, gli Alyscamps a Arles. San Giovanni Crisostomo [344/354-407 d.C.] provava la stessa repulsione dei suoi avi pagani quando, in un'omelia, esortava i cristiani ad opporsi a un'usanza nuova e ancora poco diffusa: «Guardati dall'innal-

9 Tratto da Alberti L.B., L’arte di costruire (De re aedificatoria), Libro VIII- L’ornamento degli edifici pubblici profani, Bollati Boringhieri, Torino, 2010 (1452), edizione a cura di Giontella V., p. 304. 10 Si veda il capitolo Canoni funerari arcaici, in Testoni I., op. cit., pp. 76-79. 11 Si veda Platone, Leggi, Libro XII, 958d. 12 Tratto da Alberti L.B., op. cit., p. 305. 13 Le leggi delle Dodici Tavole sono un corpo di leggi compilato intorno al 451-450 a.C., una tra le prime forme di codificazione scritta del Diritto Romano.

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zare una tomba in città. Se si deponesse un cadavere là dove dormi e mangi, che cosa faresti? [...]»14

Racconta anche l’Alberti nel suo De re aedificatoria (1452):

Secondo un antichissimo senatoconsulto si disponeva, a misura cautelativa, di non seppellire nessun morto dentro il perimetro della città, fuorché le vergini vestali e l’imperatore (i quali non sottostavano alle leggi). Plutarco racconta che ai Valeri e ai Fabrizi era possibile come titolo onorifico seppellire i loro morti nel Foro; i loro successori dopo averli portati lì, non appena collocata la fiaccola, li trasportavano subito via mostrando che, pur potendolo fare, non volevano.15

Essi collocavano, di fatto, le salme dei defunti all’esterno della città abitata, in luoghi all’aperto, il più delle volte lungo le strade che portavano all’urbe, e facevano in modo che questi fossero di ottima fattura.

I sepolcri avevano lineamenti raffinatissimi; le colonne erano in grande quantità [...]. I viaggiatori, quando passavano per la via Appia o per qualunque altra via militare, non potevano distrarsi in modo migliore se non osservando i monumenti di cui queste erano straordinariamente ricche [...].16

In altre occasioni, pare che i sepolcri più illustri venissero posizionati in cima a delle colline se non, addirittura, a dei monti, in luoghi ben visibili. O, ancora diversamente, “al tempo dello storico Strabone [60 a.C. - 21-24 d.C.], gli Alessandrini avevano spazi recintati e giardini dedicati alla sepoltura dei corpi”17 .

La salma del defunto diventa gestita, nel senso di un suo rapportarsi alla comunità tutta (come si vedeva, difatti, la morte romana si distingue rispetto a quella greca in quanto diviene questione civica, e non rimane solo privata).

Nell’antica Roma, l’amministrazione funeraria ormai era giunta al proprio equilibrio rituale e organizzativo, tanto che veniva affidata ai collegia funeraticia, i precursori delle onoranze funebri odierne. Il rito prevedeva, come per quelli greci, la partecipazione di musici, di danzatori e di prefiche, ovvero di professioniste del pianto rituale, la cui presenza si è poi estesa in tutta l’area del Mediterraneo, e di cui rimane traccia anche in alcuni dialetti italiani: piagnone (Piemonte), piansune (Lombardia), repute (Molise), attittadoras (Sardegna), chiangiamurti (Puglia), chiagni-

14 Tratto da Ariès P., Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano, 2019 (1975), pp. 26-27. 15 Tratto da Alberti L.B., op. cit., p. 301. 16 Tratto da Alberti L.B., op. cit., pp. 301, 302. 17 Tratto da Alberti L.B., op. cit., p. 305.

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tare (Calabria). [...] Le cure dedicate alla salma non erano solo trattamenti per permettere al defunto di accedere alla perennità, bensì strategie per trasformare i suoi resti in simbolo, attraverso l’ambivalenza del suo esser qualcosa che si può vedere e al tempo stesso si deve nascondere.18

Il sepolcro rappresenta all’epoca, non solo per il singolo ma per la comunità tutta, un motivo di gloria e di ammirazione nei riguardi di coloro che hanno fatto la storia della città - se non dell’Impero - prima di loro.

Diffuse nell’Impero romano, così come nel vicino Oriente Antico, erano anche le tombe a forma di torre, decorate all’esterno con vari simboli della mitologia e ospitanti all’interno una o più camere sepolcrali: il riferimento è sempre il modello primordiale della montagna cosmica, punto di unione tra umano e divino, tra Terra e Cielo, questione presente in differenti declinazioni in tutte le tradizioni e culture - oltre che religioni -, spesso associata a quella dell’Albero del mondo (o asse cosmico), difatti:

Mosè salì sul monte Sinai per incontrarsi con il divino e per ricevere la legge sacra, la norma che avrebbe istituito il legame tra gli Ebrei e il loro Dio. Gli antichi Greci credevano che gli dei abitassero sul monte Olimpo, dalla cui cima sempre avvolta di nubi Zeus scagliava i fulmini e comunicava i suoi voleri ai mortali. Sia i buddhisti che gli induisti venerano il mitico monte Meru, alto più di 135.000 chilometri, che considerano l’asse verticale del cosmo e che collocano a nord dell’Himalaya. Gli scintoisti del Giappone venerano il monte Fuji, che essi giudicano il centro del mondo, il custode della nazione e la sede terrena del dio supremo.19

Non propriamente a torre anche se sviluppata in altezza, ma a forma di piramide, è il monumento funebre a Caio Cestio20 [19], a Roma, costruito negli stessi anni della citata Tomba del Fornaio Eurisace (tra il 18 ed il 12 a.C.), in una “maniera egizia” derivante - con tutta probabilità - dall’appena ottenuta conquista del Regno d’Egitto nel 30 a.C., che da lì in poi è provincia romana21. Proprio gli Egiziani sono, differentemente dalla “prima Roma” repubblicana molto più parca e moderata negli usi, coloro che osavano costruire i loro sepolcri con più riguardi e fasti: tale questione può,

18 Tratto da Testoni I., op. cit., p. 78. 19 Tratto da Eliade M. (a cura di), op. cit., p. 527. 20 Si veda Piramide di Caio Cestio, in Sitografia. 21 Cosa non molto differente capita una seconda (piuttosto nota) volta nella storia: si diffuse un cosiddetto “gusto egizio” - soprattutto per quanto riguarda catafalchi funerari, monumenti e steli cittadine - nella prima metà dell’Ottocento, in particolare in Francia ed Italia, successivamente alla napoleonica Campagna d’Egitto (1798-1801). Per la questione si veda Palazzotto P., Architetture funerarie effimere a Palermo, capitolo in Giuffrè M., Mangone F., Pace S., Selvafolta O. (a cura di), L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città - 1750-1939, Skira, Milano, 2007, pp. 57-65.

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di fatto, aver influenzato l’epoca imperiale romana successivamente, in cui l’Egitto era provincia.

[Negli Antichi] i governanti convenivano che in una cosa per sua natura comune a tutti non ci fosse disparità di fortuna, ma tutti i sepolcri fossero uguali sia per la plebe, sia per i più ricchi22. Così, seguendo un antico costume, si riteneva giusto ricoprire i corpi con la nuda terra, dal momento che essi, avendo avuto origine da quella, era come se ritornassero nel grembo materno23; si stabilì poi che nessun sepolcro fosse più laborioso di quanto potessero fare dieci uomini in tre giorni. Gli Egiziani costruirono i sepolcri con maggior zelo degli altri; predicavano, infatti, che l’umanità sbagliava a edificare sontuose dimore dove avrebbe vissuto per brevissimo tempo, trascurando al loro posto i sepolcri dove avrebbe riposato molto più a lungo. [...] Detesto quei sepolcri portentosi costruiti dagli Egiziani, irrispettosi persino degli dei, visto che nessuno di loro fu sepolto in tombe tanto fastose.24

Connesso all’ambito funebre era l’altare: questo poteva essere di tre tipi, ovvero a) rialzato - sul quale si eseguivano sacrifici per gli dèi del cielo -, b) scavato o a pozzo (dal lat.: mundus, da cui il famoso mundus patet o mundus cereris)25 - destinato a ricevere le offerte per gli dèi sotterranei -, oppure c) a livello del terreno - per le offerte agli dèi della terra -; talvolta poteva capitare che, però, lo stesso tumulo funerario fungesse da altare, luogo sacrificale per le offerte al defunto26, in una forma commista tra il secondo ed il terzo “tipo” di quelli enunciati.

[...] Da questi fatti deriva la congettura che gli Antichi avessero stabilito di collocare nel sepolcro non solo tumuli o colonnine a scopo di copertura e segnalazione, ma anche degli altari per poter celebrare con dignità il rito, che nel tempo resero bellissimi e raffinati in ogni loro componente.27

Il defunto veniva, quindi, trattato sacralmente, a lui venivano offerti doni, per lui avevano luogo sacrifici.

Merita momentanea attenzione, in ultima istanza per quanto riguarda

22 Tal cosa possiamo immaginare non sia effettivamente mai accaduta, ma le intenzioni dell’Alberti sono quelle di farci intuire la sua presa di posizione dalla parte di questi Antichi che, alla luce del discorso in merito all’Egitto, possiamo affermare appartenenti più alla Roma repubblicana che a quella imperiale. 23 Si notino, anche in questo frangente, le affinità con quanto detto in merito alla cosiddetta Grande Madre al Capitolo 03.1 Ritorno al ventre. 24 Tratto da Alberti L.B., op. cit., p. 304. 25 Si veda Capitolo 03.3 Fondazioni. 26 Si veda Eliade M. (a cura di), op. cit., pp. 19, 20. 27 Tratto da Alberti L.B., op. cit., pp. 305, 307-308.

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