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05.8] Il Cinico “oltre i Lumi”

La città “moderna” si va definendo, ed al suo interno - od appena al di fuori delle sue mura - la Grande Ragione ne progetta anche i cimiteri.

05.8 Il Cinico “oltre i Lumi”

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- ORIENTAZIONE. [...] Guardare verso ovest, è prepararsi a morire, perché in Occidente la corsa del Sole termina nelle acque 108 -

All’interno di questa breve narrazione in forma di carrellata, che vorrei facesse intendere le grandi tappe del “discorso” sul luogo urbano del cimitero nella storia, il XVIII secolo - che, come abbiamo visto, si presenta come vera e propria fucina di svolte e variazioni del comune sentire, nel gusto e di innovazione rispetto ai tempi precedenti, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la morte, il macabro ed i luoghi del seppellire - non si può evitare di chiudere, metaforicamente parlando, con un illustre personaggio della storia dell’architettura, alquanto particolare, un homme de lettres del tutto sui generis109 .

Nel 1781 trovano la stampa, per la prima volta, i Principj di Architettura Civile di Francesco Milizia (1725-1798), figura poliedrica e grandemente interessante del panorama della critica artistica ed architettonica di fine Settecento: “La mia patria è Oria, piccola città di Terra d’Otranto nel Regno di Napoli; nacqui nel 1725. [...] Le mie opere, il mio discorso mi han procacciato la riputazione di dotto, ma io conosco di non esserlo; sono un ammasso di eterogeneo”110 , così si presenta il Nostro. E subito specifica, per rendere cristallino l’argomento della trattazione anticipato dal titolo, che

l’Architettura è l’arte di fabbricare, e prende denominazioni differenti secondo le diversità de’ suoi oggetti. Si chiama Architettura Civile, se il suo oggetto si raggira intorno alla costruzione delle fabbriche destinate al comodo, ed i vari usi degli uomini raccolti in civile società. 111

108 Tratto da Cirlot J.E., op. cit., p. 337. 109 A detta di Giulio Carlo Argan, “il più influente teorico italiano dell’architettura della fine del XVIII secolo” (tratto da Scalvini M.L., Voce italiana, echi europei. Francesco Milizia, il monumento e la memoria, in Giuffrè M., Mangone F., Pace S. e Selvafolta O. (a cura di), op. cit., p. 15). 110 Tratto da Milizia F., Principj di Architettura Civile, Serafino Majocchi, Milano, 1847 (1781), pp. 4, 7. 111 Tratto da Milizia F., op. cit., p. 12.

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Con queste ultime due righe (il corsivetto è del sottoscritto), dunque, penso potrebbe essere parafrasato il titolo dell’opera.

Ora, il testo del Milizia preso in esame si presenta da un lato come raffinata summa delle teorie settecentesche - numerosissimi sono i debiti nei confronti di Marc-Antoine Laugier (1713-1769), autore, nei decenni precedenti, del noto Essai sur l’Architecture (1753) e delle Observations sur l’Architecture (1765)112, così come della cultura della Encyclopedie113 (1751-1772) di Denis Diderot (1713-1784) e Jean-Baptiste d’Alembert (1717-1783) -, ma allo stesso tempo come parziale discostamento da queste e, assieme, guida pratica per il costruire, dato che numerosi sono gli exemplum costruiti citati. Se quindi, in un certo qual modo, il Milizia è ben poco originale in quello che dice e la cultura francese settecentesca è la sua base forte di argomentazione, sotto differenti punti di vista invece, soprattutto in alcuni passaggi, egli si discosta con fermezza e ragiona ben oltre il suo secolo, anticipando temi e questioni ancora grandemente attuali114: egli è, a suo modo, un pensatore originale.

Per arrivare al punto della questione, capiamo quindi cos’ha da dirci il Nostro per quanto riguarda il luogo del cimitero e come questi lo pensa, in relazione alla sua architettura ed alla sua funzione urbana. Questi, nella fattispecie, ne parla al paragrafo III del Capitolo XV - Degli edifici per la salute e per altri bisogni pubblici, intitolato, appunto, Cimiteri.

È da un pezzo che la filosofia ha intimato il bando alle sepolture e ai cimiteri115 , non solo fuori delle chiese, ma anco fuori delle città, e lungi dall’abitato per la semplice ragione che i morti non debbono ammorbare i vivi. Se le nostre chiese sono pavimentate di cadaveri, qual maraviglia il trovarci spesso desolati da tante malattie pestilenziali? Le putride esalazioni de’ morti e de’ vivi riuniti e calcati nello stesso luogo sono capaci di avvelenare tutto il globo terracqueo. Queste non sono declamazioni, sono editti di zelanti e illuminati vescovi; ma il pregiudizio si conserva tuttavia universalmente sordo e inerte: in pochissimi luoghi ha ceduto,

112 Si veda Scalvini M.L., op. cit., pp. 11-15. 113 Numerose saranno le tavole disegnate a corredo del testo del Milizia. 114 Tra gli elementi di originalità più interessanti nel pensiero del Milizia vi sono, come esempio emblematico, queste poche righe che riguardano i monumenti da dedicarsi anche alle donne: “Gioverebbe molto che anco le donne avessero diritto ai monumenti. Presso di noi finora elleno non godono che della insulsaggine dei mausolei prodigati indistintamente e inutilmente. Veri monumenti di gloria non si veggono che per quelle sovrane che hanno realmente regnato. Sono poche, ma grandi e al pari degli Antonini, de’ Traiani sono le Elisabette, le Marie Terese, le Caterine. Queste fanno vedere di quali maschie virtù sia capace il bel sesso. [...] Dovremmo lamentarci di noi stessi, che abusandoci del diritto del più forte lo trascuriamo [il “bel sesso”, quello femminile], e lo lasciamo avvilire nel solo artifizio di piacerci. [...] I più bei monumenti risulterebbero per le madri di famiglia” (tratto da Milizia F., op. cit., pp. 360, 361). 115 Cosa che, come abbiamo visto, risulta essere vera, in particolare in ambito italiano e francese, le due tradizioni che il Milizia meglio conosceva.

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e chi sa quando la ragione trionferà. In tutte le cose umane il cammino della ragione, per quanto ella dimostri evidentemente un utile grande e palpabile, è sempre lento.116

Innanzitutto, una cosa salta subito all’occhio: il Milizia esamina il tema dei cimiteri primariamente sotto la lente igienista della raison illuministica, e lo fa in maniera molto simile a quanto aveva affermato Laugier vent’anni prima117. D’altronde, per lui, anche il cimitero fa parte delle “fabbriche destinate al comodo”, ovvero all’utilità cittadina.

A quello appena citato, però, segue un paragrafo dedicato alla ripresa di alcuni esempi progettuali che egli vuole portare come exemplum, che non chiama mai per nome proprio ma, nel descriverli, vi si possono rintracciare numerose caratteristiche di alcune delle architetture cimiteriali di riferimento che abbiamo visto poc’anzi118 . Così prosegue:

Qualche architetto alquanto ragionevole, discacciati i cimiteri fuori delle città, li vorrebbe sopra alture remote, scoperte, esposte a settentrione, e ne progetta il disegno nella maniera seguente. Sia un ampio recinto quadrato, o di qualunque altra figura curva, o mistilinea, circondato internamente da portici con archi scemi [peristilio interno], o co’ piedritti a bugne vermicolate; genere d’ornamento analogo alla corruzione de’ corpi umani. Sopra i muri del recinto nel fondo dei portici fingansi consimili arcate, nello sfondato delle quali contengansi i cenotafi delle famiglie benemerite della patria [loculi], e al di sotto sieno delle logge per le ossa de’ fedeli [ossari]. La copertura di esse sia di ardesia, la cui tinta fosca risalta nel tutto insieme un’aria lugubre da annunciare al primo colpo d’occhio un soggiorno di tenebre119. Nel mezzo dell’atrio [corte centrale] s’inalzi una piramide rustica, entro di cui sia una cappella sepolcrale. Ai quattro angoli dell’atrio scoperto, e in un certo sfondato, sieno tante catacombe colle aperture a tramontana, e co’ muri co-

116 Tratto da Milizia F., op. cit., p. 331. 117 Si veda Scalvini M.L., op. cit., p. 12. 118 Si veda Capitolo 05.7 Circulum ad quadratum. 119 Milizia - pur criticando, allo stesso tempo, gli estimatori di Michelangelo - è particolarmente attratto dalle connotazioni più espressive, simboliche e teatrali dell’architettura. Particolarmente “colorata” la digressione in merito alle carceri: “L’architettura deve sapersi imbruttire; ed eccola di un aspetto terribile e fiero nelle prigioni. [...] La malinconia si mostrerà nelle prigioni civili, e l’orrore si paleserà tutto nelle criminali. Quivi l’architettura più pesante, e più bassa della proporzione toscana può impiegare bugne le più ruvide in una maniera espressamente disordinata, aperture anguste e informi, muraglie alte e doppie, membri fieri che gettino ombre le più forti, ingressi ributtanti, cavernosi, e fino anche decorazioni di sculture e d’iscrizioni spaventose; tutto in somma deve spirare oscurità, ruine minaccianti terrore, e freno ai delitti. [...] E per maggior sicurezza ancora si può tutto questo edifizio cingere di un fosso profondo colle pareti tagliate a piombo” (tratto da Milizia F., op. cit., p. 300).

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ronati di appoggi guarniti di urne sepolcrali e circondati da cipressi120. Al di sopra della volta sotterranea di queste catacombre s’inalzi un subasamento sormontato da una croce aggruppata con attributi mortuari. Il suolo dell’aia sia due o tre piedi al di sotto di quello de’ portici, e questo sia meno elevato di quello delle strade che v’introducono [si eviti il dilavamento delle acque dal recinto cimiteriale, glielo si conceda verso]. Questa inuguaglianza, unitamente coll’esteriore corrispondente all’interno, accresce l’immaginazione di un soggiorno terribile.121

Quindi, laddove Laugier rimane saggista puramente teorico, il Milizia vuole proporre una sorta di modello progettuale di riferimento per coloro i quali avessero costruito: sembra proporre pratiche del tutto coerenti con il dibattito del suo secolo in merito alla questione.

Ebbene, in realtà il Nostro, dopo essersi riallacciato in tutto e per tutto al dibattito settecentesco - prima teorico e quindi anche pratico -, dopo avercelo sommariamente ma sommamente riassunto per quanto riguarda le pratiche cimiteriali, se ne distacca provocatoriamente. E lo fa coerentemente a ciò fatto nel resto del testo: così come non cita mai espressamente gli autori ai quali si appella e fa riferimento, li elude, - Laugier ne è il grande esempio -, si cela anche nel momento in cui deve esprimere opinioni del tutto personali, che magari non sono direttamente concordi con la sensibilità del suo tempo.

Nel farlo, si traveste122 .

Il primo travestimento risulta essere l’anonimato.

Un autore anonimo distrugge i cimiteri anche di questa fatta [quella descritta appena in precedenza, tipicamente settecentesca] e vi sostituisce un niente che spesso vale più della cosa. Egli vuole che tutti i cadaveri indistintamente, e senza altre cerimonie inutili, si trasportino fuori città e si brucino in siti appartati123. Egli si ride di que’ catafalchi che si marmottano di faci, di Parche, di obelischi, di piramidi e di tante altre insulsaggini della enigmatica mitologia, impropria per noi, che abbiamo l’onore di vivere venti secoli dopo la morte de’ favoleggiatori pagani. Ei si ride ancora de’ mausolei, e in loro vece, e in vece di catafalchi e di altre vanità funebri, egli vorrebbe che ad ogni morto si affibiasse un processo più severo che ad un delinquente di Stato, con questo divario, che si esaminassero ugualmente le virtù che i vizi. Ciò sup-

120 Si veda Capitolo 06. (Ef)fusione. Il cimitero come giardino. 121 Tratto da Milizia F., op. cit., p. 331. 122 Motivi questi, assieme con altri non presi in esame, per il quale il suo operato è definito come “l’ultimo spettacolo pirotecnico della prosa settecentesca” (tratto da Scalvini M.L., op. cit., p. 11). 123 La ripresa è qui quasi testuale dall’Alberti: anch’egli affermava che “è molto più comoda la pratica di cremare i corpi!” (tratto da Alberti L.B., op. cit., p. 302).

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pone censori vigilanti in ogni contrada sulla vita privata e sociale de’ cittadini. [...] La bilancia del merito è la beneficenza. A proporzione del merito o del demerito che risulta dal processo, i censori debbono accordare le infamie e gli onori al defunto per istruzione de’ viventi. 124

Ora, proseguendo nell’ordine, il Nostro-anonimo in questo passaggio sottolinea essenzialmente due cose: a) dapprima si pone oltre - e superiormente - al suo tempo e giudica come ancora troppo ricca di “inutili fasti” l’architettura funeraria dell’epoca: il tutto andava, secondo il Milizia125, drasticamente ridotto all’essenziale, ad una più pura e semplice inumazione senza alcun inutile ed immotivato fasto126, ed in questo, rispetto al sentire contemporaneo, precorre i tempi, e non di poco; b) pur precorrendo i tempi, lo fa guardandosi alle spalle, perché la società tratteggiata nelle righe successive è del tutto simile a quella vaneggiata da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), una società - quella ambita dal Francese e ripresa dall’Italiano - che, a leggere bene, è del totale controllo sociale127 (qualcosa che non tarderà effettivamente ad affermarsi nei secoli successivi) e che, ai giorni nostri e sin dal Novecento, è al centro del dibattito non tanto come utopia, bensì come futura distopia128 . Ad ogni modo, seppur per noi abbastanza tirannicamente, il Milizia - travestito da anonimo - è un anticipatore.

Successivamente a questa presa di posizione, si commenta da solo tracciando una breve storia dei monumenti funebri, senza però perdere vigore critico. Afferma quindi che,

124 Tratto da Milizia F., op. cit., p. 332. 125 Della stessa opinione del Milizia e forse influenzatone fu, ad esempio, il granduca Pietro Leopoldo (1747-1792), che in occasione del recupero del cimitero di Arezzo farà in modo che venga “abbandonata la costruzione dei due bracci sostituiti da esedre porticate, destinate a ospitare i sepolcri dei cittadini più illustri, una solennità che risulta fastidiosa al pragmatico granduca che stigmatizza le idee troppo vaste degli aretini e le loro spese grandi per magnificenze inutili” (tratto da Orefice G., op. cit., p. 38). 126 Nella parte in questione, il Milizia si erige a profeta di una nuova morale e di una rinnovata società - e quindi di una nuova architettura -, ed i suoi toni assertivi e, appunto, “profetici” possono ricordare molto da vicino Adolf Loos (1870-1933) quando dice “Il Rinascimento?! Noi siamo più in alto. Noi siamo diventati più esigenti e più nobili [...] noi abbiamo imparato a sentire la bellezza della nuda pietra” (tratto da Loos A., Architettura, capitolo in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1992 (1972), p. 244). 127 “Già in Rousseau si può osservare che la morale della trasparenza totale si rovescia necessariamente in tirannia. Il progetto eroico della trasparenza, che consiste nel voler strappare tutti i veli, nel portare tutto alla luce, nel dissipare ogni tenebra, conduce alla violenza. [...] La società della trasparenza rousseauiana si rivela una società del controllo totale e della sorveglianza” (tratto da Han B.-C., La società della trasparenza, Nottetempo, Milano, 2014 (2012), p. 74). 128 Basti pensare al romanzo 1984, di George Orwell (1949).

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a questa bizzarrìa [quella pensata dall’anonimo] si contorcono sopra tutto gli artisti per la perdita de’ mausolei, portati ormai ad una eccellenza la più onorevole per tutte le belle arti. Da principio [cioè nella Preistoria] i mausolei non furono che mucchietti di pietre sopra qualunque morto sepolto per conservarne colla distinzione la memoria. Quelle pietre informi riceverono col tempo una regolar forma piramidale. Alle piccole piramidi di pietra comune successero quelle bestiali piramidi che da tante dozzine di secoli ancora sussitono in Egitto: moli stupende, superiori a quanto è stato fatto da mano d’uomo; ma che non rappresentano che un ammasso immenso di materiali insensatamente profusi da un eccesso di orgoglio: montagne di marmi per coprire un cadavere. I Greci e Romani, finché furono piccioli, si contentarono di un sarcofago o di qualche altro piccolo tumulo; ma divenuti grandi diedero nelle maggiori sontuosità. Il trasporto d’un amor coniugale, o la vanità di Artemisia, eresse per suo marito Mausolo la più celebre tomba che ha dato il nome a tutte le altre susseguenti. Gl’imperadori palesarono il loro dispotismo coll’estensione e colla massa delle molti destinate a ricever le loro ceneri: il sepolcro di Adriano è bastante per il castello di Roma santa. Svanite queste idee gigantesche si ridussero i mausolei di una semplicità naturale; non rappresentarono per molti secoli che l’effigie de’ morti distesi sopra un largo zoccolo, alle cui facce erano espressi in basso rilievo alcuni tratti della loro vita: espressione della più semplice naturalezza129 . Risorte finalmente le belle arti, ecco i mausolei d’un gusto il più squisito: immagini al naturale, atteggiate e forti, compongono l’opera come se fosse un quadro; l’accordo de’ bronzi, delle dorature, de’ mosaici, de’ marmi di vari colori, le ombre e i riflessi necessari; i pensieri poetici, l’esecuzioni pittoresche: vi sono riunite quasi tutte le belle arti e il successo n’è sorprendente.130

Gli esagerati sproloqui funerari architettonici egizi, greco-classici, tardo-romani e, con tono ironico, anche quelli rinascimentali, sono giudicati inappropriati rispetto alla raffinata naturalezza dei secoli medievali131, i quali usi e costumi nei riguardi dell’inumazione il Nostro gradisce ed avalla (cosa per nulla scontata nel “candido” Settecento).

Il secondo - ed ultimo - travestimento, per mezzo del quale prende furtivamente le distanze dal gusto della sua epoca, è quello del Cinico. Difatti, continua:

129 Ciò detto in queste righe è molto interessante, in quanto si può leggere come una sorta di prima rivalutazione del periodo “medievale”, cosa non assente ma per nulla scontata negli anni Ottanta del Settecento, che sarà invece tipica del successivo sentire “nazional-romantico”. 130 Tratto da Milizia F., op. cit., p. 332. 131 Il commento - e presa di posizione - del Milizia, in questo frangente, richiama gli usi degli antichi Germani descritti da Tacito (De origine et situ Germanorum, 100 d.C. circa): nemmeno costoro intendevano “perdersi” in inutili fasti e pompe funebri; si preoccupavano al più del tipo di legna con il quale cremare il copro del defunto (si veda Daverio P., Passepartout - I cimiteri, in Videografia).

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Qualche Cinico132 però ragiona nella seguente maniera. «Che i nostri mausolei bene ideati e ben eseguiti piacciano, sorprendano e incantino, è fuori di questione. Ma tutto ciò diviene un nulla se non è adempito il fine della loro costruzione. Che cosa è un nostro mausoleo? È un sepolcro per conservare un cadavere, e nel tempo stesso è anco un monumento esprimente in compendio le azioni più gloriose del medesimo defunto, che si ha per illustre. Abbiam voluto combinare insieme due cose di natura diversa, e n’è risultato un tutto della maggiore assurdità. Voler serbare un cadavere, e serbarlo in marmi, in bronzi e in arnesi preziosi è una stoltezza. I cadaveri sono destinati dalla natura a risolversi in minime parti per comporre altri corpi. Ma quelle ossa e quelle ceneri sono di un eroe [il tono si fa ironico]. Dunque si conservino anche i suoi escrementi che non valgono meno. Istruire i viventi e i posteri, spronarli alla virtù e alla felicità coll’esempio di uomini gloriosi, è un oggetto savio e del più grande interesse. Se i mausolei fossero semplici monumenti di virtù, sarebbero istruttivi; se fossero meri sepolcri, sarebbero niente: ma volendo essere gli uni e gli altri, sono quadri belli ed enigmi impropri. Si giri per San Pietro e per quante chiese sono in Roma, tutte ricche di superbi mausolei, o sieno depositi di ogni fatta: non se ne vedrà uno che sia secondo le leggi della convenienza; e forse per quanto si mediti non se ne potrà mai fare. [...] Ma quand’anche questi mausolei fossero significantissimi e convenientissimi, sarà mai ragionevole il collocarli entro le chiese, ove tutto deve esser santo, e niente ha da distrarre dal massimo oggetto cui sono consacrate [ovvero la preghiera]? E che importa ad una città la morte di una damina che non ha fatto niente di rimarchevole, e che non merita un ghiribizzo di mausoleo che imbarazzi una chiesa e deliri con una iscrizione fantastica? Di tante e tante memorie sepolcrali, quante sono degne d’esistere per pubblica utilità? Quanto si espone al pubblico, tutto deve essere pel pubblico bene il più durevole. E perché esprimere la morte, che ben di rado è il punto più glorioso della vita dell’uomo? Il dolore o la vanità, e non la ragione ha prodotto i mausolei. Bisogna aver poca ragione per esprimere il più brutto punto della vita. Piuttosto quello della nascita, che è allegro: o quello della concezione, che è il più dilettevole. La società non sa che fare de’ meri deposti de’ morti. Qui sono le ceneri di Traiano. Che me ne importa! Hanno elleno qualche virtù

132 Ovviamente, non è un caso che il Milizia usi proprio quest’appellativo: il termine cinico deriva infatti - molto probabilmente - dalla parola greca kyon, “cane”, che fu soprannome di Diogene (Diogene di Sinope, detto “il Cane”, 412-323 a.C.), uno dei primi grandi esponenti di questa scuola filosofica, di cui l’edificio del Cinosarge ad Atene ne fu la prima sede storica. Tesi fondamentale di questa corrente di pensiero è la continua ricerca della felicità, unico vero fine dell’uomo, che però deve affrancarsi da ogni cosa mondana che richiama agio e comodità (questioni che molto influenzarono gli stoici e lo stoicismo). I cinici erano famosi - e spesso osteggiati - per la loro eccentricità e disobbedienza alle regole sociali impostegli. Altro importante esponente - stavolta romano - fu Diogene Laerzio (180-240 d.C.), il quale diede alla luce numerose opere rivolte contro la generale corruzione dei costumi del suo tempo. Con i due Diogene, sono passati alla storia anche gli antichi Antistene (444-365 a.C.), Cratete di Tebe (365-285 a.C.), Ipparchia (350-280 a.C.) e Menippo di Gadara (310-255 a.C.). Il Milizia si pone quindi - almeno per quanto riguarda la questione macabra e cimiteriale - in questa scìa di pensiero, per darsi un tono “unico” e provocatorio rispetto al contesto suo contemporaneo. Tale “filone” avrà dalla sua parte grandissimi pensatori successivi: tra i più famosi, Oscar Wilde (1854-1900) e Friedrich Nietzsche (1844-1900).

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