4/2016
Direttore del Museo Riccardo Riganti
Progettazione espositiva Riccardo Riganti Beatrice Resmini
Allestimento Franco Meni Carlo Senna Squadra operai Comune di Treviglio
Fotografie Tino Belloli
Organizzazione Sara Albergoni Daniela Nisoli Anna Rondalli
Gabriele Bellagente
RETROSPETTIVA PER INVENTARSI UN FUTURO
13/29 Maggio 2016
SALA CROCIERA vicolo Bicetti 11, Treviglio
Non-critica su Gabriele Bellagente Ritorniamo molto indietro nel tempo e fermiamoci al V secolo a.c. nella Grecia antica. Potremmo ascoltare dalle labbra di Zeusi, pittore eccelso, questa frase: << Μωμήςεται τισ μαλλον ἢ μιμήςεται >> << Sarà più facile criticare la mia opera che imitarla >> Lungi da me l’azzardato temerario pensiero, pura velleità, di imitare la pittura di Bellagente, se non altro perché dovrei avere i suoi lustri di mestiere sulle spalle. Ma dissento dal Greco sulla facilità di analisi di un più che onesto, fantasioso, ma concreto lavoro che dalla figura (ho visto un ritratto di una tale cromia e intensità d’atmosfera, del periodo scolastico, da, come suol dirsi, restare a bocca spalancata; lontanissimo dall’accademia è opera di consumato maestro) sfocia nell’astratto, nel materico, dopo aver pernottato in ogni albergo e locanda dell’Arte. Ho conosciuto pochi artisti “intellettualistici” come Bellagente. Le sue tele sono prodotto d’intelletto prima che di tecnica. Ci ragiona sopra fino allo spasimo. Nel suo “Diario di pittura” del 2001 Gabriele cita a pagina 8 Paul Klee: “L’arte non deve riprodurre ciò che è visibile, ma rendere visibile”. Per il nativo genovese navigare nella pittura è un correre in un “dramma e (il) movimento in potenza anziché in atto” (sempre dal citato “Diario”). E vi è da leggere il capitolo “Dove andiamo?”. C’è autoanalizzato tutto Bellagente. Ogni discorso e analisi sarebbe spiazzata, anodina, vuota al paragone. Concedetemi di prendere dal personale, è più proficuo di una azzardata critica di fronte a tanto personaggio. Negli anni ‘70/’80 del secolo scorso operava la Commissione per la Civica Biblioteca e Museo. Membro egregio ne era il Professore (per me sempre il Professore, perché anzitutto professa una salda fede nell’Arte), io ero il segretario della Commissione. Quando il Professore prendeva la parola, sudavo freddo. Si superava la mezzanotte come niente fosse. E sempre su ogni argomento iniziava con una disamina dell’Arte; da lì partiva l’omnia, l’intero creato. Confesso che allora non tutto comprendevo, certi excursus mi erano oscuri: lui scialava, dissertava,
ragionava, nessuno interveniva, nessuno osava interrompere; lui proseguiva. Allora si verbalizzava a mano: riassumere l’intervento mi era impresa improba, non ero certo neppure di riportare in forma corretta le parole; ero intimidito, anche dal persistente silenzio degli altri commissari. E non erano persone da poco: il fior di frumento dell’intellighenzia cittadina, tutti professori. Mi è rimasta ancor oggi la soggezione. Si attenuò un poco quando il Professore mi raccontò di come, incendiandoli, faceva volare, per il divertimento dei figli, le cartine che ricoprivano gli agrumi. Lo faceva anche mio padre per me piccolo. Lo scoprii umanissimo, affettuoso e tenero. Chi l’avrebbe detto di tanto intellettuale, che zittiva tutti e parlava per ore senza mai ripetersi. Il secondo spunto personale me lo offre un quadretto a firma di Gabriele Bellagente. Non mi ricordo quando giunse nella casa paterna. Da sempre risaltava e contrastava con una scrivania a schiena d’asino in stile “maggiolino”. Era il manifesto eloquentissimo del contrasto fra l’essenziale, lo spirituale e l’iperdecorativismo, il ridondante. Non so chi, intelligentemente, trovò tale collocazione e se l’intento fu perseguito consapevolmente, sospetto mio padre. Un paesaggio agreste, giocato su cento toni di verde, un casale, un albero. Tutto semplificato nelle forme, nella stesura uniforme e calibrata del colore, niente di più. Ma che pace. Ora si trova in casa di mia sorella Giliola, sempre contrapposto alla medesima scrivania. Ancor’oggi, piazzato davanti al quadro, mi rilasso e respiro veramente l’aria pura della campagna. L’erba, le foglie non sono minimamente accennate, ma la tela emana profumo schietto di verzura. Ve l’assicuro io, che in campagna son nato e ancora vi vivo. Preferisco citare questi due aneddoti per descrivere il Professore, non mi inerpico nella critica. Vi suggerisco il “Diario” di Bellagente. Dirò una parola, una sola, ma proprio una, di critica: sublime. Lui lo sfiora. Trattar d’esso è saper disquisire di teologia prima ancora che di filosofia e d’arte, e se il Professore lo raggiunge io però non sono docente di teologia né di filosofia. Ruberò una seconda frase ad un altro pensatore greco per chiarire il connubio tra Bellagente ed il sublime:
<< Ὕψοσ μεγαλοφροςυνης ἀπήχημα >> << Il sublime è l’eco della grandezza di intelletto >> Del sublime, di autore anonimo greco del I secolo, cap. IX, 2
Ho azzardato una più che sintetica e stringatissima critica e qui mi fermo. Dovrei scrivere troppo. Tanto quanto di opere, di acquarelli e tempere contengono l’atelier ed i depositi di via Butinone. Non comprenderò mai come possa essere oscurata tanta sapienza, che poi è tradotta in lirica pulcritudine: mistero di pittore il creare e poi immagazzinare. Sarà il moderno negozio che l’impone. Ho sempre voluto un mostra bellagentiana. Lui ne ha tenute tante, ma io parlo di una mia. Temo che obbligatoriamente dovranno essere più di una. Un fiume, quei vasti, grandi fiumi russi lunghi che corrono placidi come le parole, i pensieri del Professore, tale è la produzione di Bellagente. Per un’altra esposizione tirerò fuori dagli archivi i verbali delle sedute della Commissione per la Biblioteca. Al termine del verbale è sempre riportata anche l’ora di chiusura della riunione, l’ultimo intervento è comunque il Suo. Tornando in bicicletta di notte al paesello, rimasticavo le parole del Professore e le notti d’estate vedevo sui bordi dei prati le lucciole: avrei voluto raccontare a loro, miti e succubi, quei pensieri. Allora non ne ero capace. Oggi non ci sono più le lucciole nei prati cerretani, spero che il Professore le abbia immortalate “excellente modo”. Dr. Riccardo Riganti Direttore Museo Civico “Ernesto e Teresa Della Torre”
La personale di Bellagente si colloca sul limite inconsistente tra il passato e il futuro. Perché, se ci pensiamo un attimo, passato e futuro sono due facce dello stesso presente. Nell’opera di Bellagente è ancora più evidente questa concatenazione, nel lento ma inesorabile passaggio da una forma all’altra, da un’idea compositiva a un’altra, da una tonalità a centomila tonalità. Una concatenazione che ci fa percorrere questa esposizione opera dopo opera in modo continuativo, con un’attenzione sempre tenuta viva, ed arrivare alla fine, osservare l’ultima opera, vederla così differente dalla prima e chiederci dove, come e quando è avvenuta questa metamorfosi delle forme senza che noi neppure ce ne accorgessimo. D’altra parte il lavoro intellettuale che Bellagente mette in atto dietro ogni composizione fa sì che nella precedente troviamo i semi per la successiva, che ogni passo in avanti venga fatto con il piede d’appoggio ben piantato su un terreno solido, quello dei traguardi raggiunti, quello delle forme scoperte, quello delle tonalità padroneggiate. Allora possiamo spingerci oltre, allora possiamo posare il piede un metro più in là ed esplorare nuovi terreni, con lo stesso approccio analitico e paziente che caratterizza l’opera di Bellagente. D’altra parte lo stesso Bellagente rende sempre presenti le sue opere: alcune tele hanno indicate sul retro diverse date, anche quattro o cinque. Perché lo stesso autore riprende in mano opere già apparentemente concluse e le rende base per nuove meditazioni, in un continuo sovrapporsi di idee, di evoluzioni, di cambiamenti. E meticoloso come è Bellagente, annota ogni passaggio dell’opera datandola sul retro. Un passato che non è mai passato quindi, un futuro che è già qui. Allora ecco che la mostra comincia con un’opera del 1971 che l’artista stesso, presentandocela, ha chiamato “Il mio ultimo paesaggio”. Già le carte in tavola sono mischiate: l’ultima opera come prima della mostra e come opera più datata in realtà. Ebbene sì, cominciamo dalla fine. Dalla fine di un periodo nel quale Gabriele Bellagente ha percorso tutte le vie che il suo sguardo toccava per analizzare e rappresentare la realtà che lo circondava in maniera naturalistica. Questo paesaggio rappresenta il discrimine tra una ricerca formale che approda a una rappresentazione riconoscibile della
realtà e una ricerca formale che, pur prendendo spunto dalla stessa realtà, si tuffa nella cromia astratta e nella ricerca dell’armonia compositiva eterea. Una fine che è quindi nel contempo un inizio di ciò che vediamo nelle opere successive, sempre degli anni ’70 dove improvvisamente sembra che il colore scompaia in favore del grigio. Eppure mai come in queste opere il colore è protagonista. Le diverse tonalità di grigio infatti sono ottenute non semplicemente utilizzando il bianco e il nero, ma mescolando in proporzioni sempre diverse i primari. Un esercizio da antico maestro. Bellagente oltretutto crea i colori partendo dai pigmenti. Potrebbe sembrare un vezzo, dal momento che oggi in commercio esistono splendidi colori in tubetto. Ma non lo è se vediamo l’artista come un alchimista che calibra non solo le polveri, ma anche i leganti, in maniera ponderata, perché sa che dalla relazione unica e non standardizzata tra questi elementi si creano risultati sorprendenti, che rispondono a diverse esigenze di riflessione e di assorbimento della luce. Le cromie si fanno brillanti nei pigmenti legati con colla, l’aggiunta di sabbia le rende granulari e ruvide, gli oli si distinguono per lucidità e i pigmenti legati con acqua creano velature leggere. Il supporto stesso fa parte dell’armonia cromatica: questi “grigi” si poggiano su una tela di juta non trattata, che si insinua tra una campitura e l’altra con il proprio tono bruno e la trama a larghe maglie. Ma accanto ai grigi ecco che compaiono rettangoli gialli e rossi, preludio dell’esplosione tonale a cui assisteremo nelle opere degli anni ’80. In questi anni non solo Bellagente libera i colori, ma libera anche le forme passando da equilibrate composizioni geometriche a opere gestuali dinamiche e centrifughe. Compaiono a cavallo degli anni ’90 i primi intrecci: su una base a campiture larghe e piatte Bellagente ricama pazientemente sottili linee colorate, che si intrecciano e si sovrappongono. Il risultato è una sorprendente tridimensionalità data dalla relazione tra questi minuziosi intrecci e il fondo su cui si sono posati. Gli stessi intrecci suggeriscono una forte dinamicità a queste opere, sulle orme di quell’intuizione futurista qui ripensata e riattualizzata.
La mano di Bellagente si fa sempre più sicura. Dipingere è per lui anche un esercizio di controllo: nelle sue opere è solo la fermezza della mano a veicolare la geometria delle forme, l’artista non utilizza alcuno strumento. E sono esercizi di controllo anche alcune opere realizzate intorno al 1993, quando Bellagente faceva sovrapporre casualmente i colori che si spargevano sulla tela liberamente, ma interveniva guidandone la direzione, bloccando il loro peregrinare nel momento in cui il suo occhio e la sua sensibilità vedevano raggiunta l’armonia di forme e toni. La dialettica tra casualità e controllo è evidente anche nei collage di carte, dove il tutto è ricondotto a un’insieme armonico grazie all’intervento finale di Bellagente, che evidenzia i legami creatisi dall’accostamento di carte diverse rafforzando con la pittura alcuni toni e smorzandone altri. E il lavoro di Bellagente continua: le ultime opere della mostra sono datate 2015, ma non saranno sicuramente le ultime della suo percorso artistico. La geometria è più matura, ormai sicura e i toni si centuplicano. Oltre che sull’accostamento dei colori, Gabriele Bellagente medita anche sulla capacità della luce di filtrare questi toni. Ecco allora che alcune opere sembrano state modificate con l’aggiunta di veli tonali che le rendono quasi monocromatiche. Quasi, perché di sfumature ce ne sono di infinitesimali in realtà. 1996 Quella che vediamo in mostra non è che la punta di un iceberg e chi ha avuto occasione di entrare nel suo studio lo sa. Chi invece conosce solo le opere “pubbliche” di Bellagente non immagina neppure cosa sta dietro questo
lavoro. Perché le opere che vediamo sono il risultato di anni di spunti raccolti viaggiando in treno, di schizzi di paesaggi, di splendidi e vividi ritratti, di idee passate per la testa di Bellagente, carburante per il suo lavoro. Una mole immensa di arte con la A maiuscola, da rimanere incantati ad ammirarla. Un universo di creazioni che però fanno parte di quella sfera intima e personale che Bellagente non mette in mostra e che noi abbiamo voluto suggerire nell’allestimento portando in sala quelle colonne di scatole che abbiamo visto nel suo studio, colonne di opere, appunti di una vita vissuta con lo sguardo di un artista, la mano di un artista e la passione di un artista Professore come è Bellagente. Beatrice Resmini Curatrice Museo Civico “Ernesto e Teresa Della Torre”
1971
1972
1988
1991
1993
1995
1995
1996
1997
1997
1999
1999
2000
2000
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2001
Centro Stampa Comunale 2016