Medusa (Luca Bernardi)

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Luca Bernardi Medusa

tunuĂŠ



Tirreno

Al mare con gli Obsoleti si fanno molte passeggiate. Estraggo la Vigorsol e il culo parlante mi rifila un minchia guardi. Il tuo culo parlante, rispondo sbocciando la gomma fra pollice e medio. Cos’hai detto?, chiede abbassando gli occhiali da sole. Ho detto che guardo il tuo culo parlante, dico richiudendo la tasca, vuoi una Vigorsol alla menta edizione deluxe? Riaggiusta gli occhiali, sorride inclassificabile. Non è, dico, una sineddoche. Incrocia le braccia impedendo lo studio del bikini a frange. Richiedo, esalando un respiro che potrebbe essere il terzultimo, se gradisce una Vigorsol. Ora siamo in tre. Lui sputa. Il ciottolo lo colpisce molto più tardi, dopo che si è chinato verso il mare per sciacquarsi le mani. Un bioccolo di sangue incrina la fronte fra l’attaccatura Neanderthal e le sopracciglia depilate. Sento lo schiaffo della schiena contro il bagnasciuga e corro. Quando cominciano a gridare sto già guadando il rigagnolo, taglio il campeggio volando, il respiro un trapezio sfondato. Vado verso gli scogli. E lorsignorino ha visto un secchiello arancione, non è vero? Su, siamo fra amichetti, non faccia il timidino! 9


Fingerò di non aver sentito. Mancavano le sue intromissioni in queste giornate, potremmo dire, fibrillanti per la mia carriera. Piuttosto dovrebbe unirsi nel celebrare la fine del linguaggio come l’abbiamo sempre inteso. Addio, preistoria degli idiomi. Va bene così? Grazie. Ora mi lasci limare le ultime bozze mentali. Già, ha sentito bene, il primo fascicolo del Dizionario Semiologico Abissale sarà presto disponibile. Il bagno si chiama Verdone, credo, per il colore degli ombrelloni. Tutti ci conoscono anche se stiamo poco simpatici perché non parliamo con nessuno, nuotiamo ognuno per conto suo e a fine mese non siamo neppure abbronzati (negli ultimi anni, a causa delle passeggiate, io sì). Per i proprietari invece siamo clienti perfetti, paghiamo in anticipo, pranziamo sempre al ristorante, non sindachiamo per un lettino in più o se la domenica non si spicciano a portare i calamari. Una volta avevo vari conoscenti con cui fare la posta alle lucertole, organizzare tornei di ping-pong oppure giocare a calcetto sotto il tendone. Da una decina d’anni è entrata in voga l’idea secondo la quale i miei coetanei sarebbero svaniti. Alcuni hanno effettivamente disertato per mete più scoperecce quali Riccione e Formentera, altri sono stati travolti dagli scandali che hanno affondato le imprese dei loro padri, eppure un gruppo di tardoadolescenti e giovani adulti continua a incistare la cosiddetta zona giochi con sguardi fra il rabbioso e l’annoiato alle sedicenni in conciliabolo. Con gli appartenenti a questo zoccolo duro ho smesso di scambiare il saluto. Le sedicenni le lascio stare perché sono inacidite, sbattono il fante sul tavolo con grugni da vecchie serve, spiano dietro orrendi occhiali con la montatura colorata e succhiano ogni novità fra stridori provinciali. L’unico culo parlante del gruppo si chiama Elena e due anni fa, per via delle meduse, si è 10


rifiutata di accompagnarmi alla boa. A tirare le fila di questo branco di vergini, capaci di raggelare per pomeriggi interi l’impudicizia dei bambocci brancicanti intorno al calciobalilla, è un cicisbeo prodigiosamente ottuso nel suo metro e novanta tutto cartilagini, già mio compagno di scorribande zoicide e ora ras dello zoccolo duro. A volte, mentre per stornare l’infarto gioco a ping-pong con qualche dodicenne cercando di non far caso all’indecenza con cui mastica lo stecco di un ghiacciolo, i miei occhi indugiano, ma soltanto per un istante, sul triangolo di stoffa che fasciando rende ancora più magniloquenti le semisfere della Elena e tutto in me si allunga rettile, barracuda, proiettile scagliato nella torta buia delle viscere. Giochiamo, dice lo scemo ogni giorno alla stessa ora. L’handicap gli rende il volto indistinto, ha riflessi lenti ma solidi, giudizio infirmato dall’autocommiserazione. Nonostante i miei sforzi di ammaestrarlo non sa scrivere in corsivo. Ho provato a quisquigliargli nell’orecchio. Non ha capito. La fluidità lo atterrisce. Qualsiasi continuum, dall’ortografia al top-spin, incrinerebbe la conchiglia in cui chioccia il suo ectoplasma. Ho sempre dimostrato una propensione per scherzi della natura e affini. Uno degli archetipi da me impersonati, alle elementari, era il donatore di socialità: passavo settimane a integrare bambini marginali nell’affresco della partita interclasse. Ricordo incontri di lotta orchestrati all’insaputa dei contendenti, una parolina qui e una bugia là, in un minuto la rissa zampillava. Mi piacevano gli scontri impari, in cui un gracile cocco di mamma se la vedeva con un bulletto da riformatorio e magari riusciva a non avere la peggio; termine, quest’ultimo, relativo dato che intervenivo ogniqualvolta si rasentassero tragedie, non per salvaguardare l’incolumità delle pedine o scongiurare interventi disciplinari – ero 11


il primo della classe – quanto per il gusto di mollare anch’io due pedate. Tale vocazione di aizzatore non mi esimeva da saltuarie ricadute nel rimorso e allora per giorni mi accompagnavo a questo o a quel seviziato esibendo sentimentalismi tanto più ferventi quanto effimeri. Giocare a ping-pong con l’idiota è tedioso come una cena in famiglia, tic toc tic toc, il suo cervello da bradipo, tic toc tic toc, scambi lunghi trenta colpi, tic toc tic toc, schiacciare offenderebbe un sole assurgente alla densità astratta di uovo sopravvissuto alla cremazione dell’orizzonte, tic toc tic toc, lasciarlo vincere implicherebbe sbagliare apposta ogni colpo, tic toc tic toc, non resta che palleggiare lente espirazioni. Se mi accascio a contare i battiti sulla plastica sudaticcia lui fa su e giù carezzando i muri, sfilaccia ortensie dai vasi, riflette ad alta voce sul calciomercato di tre anni prima, fissa stralunato la Elena che raccoglie un due di quadri. Ho osservato sul suo volto la battaglia del sorriso e della smorfia: anche lui consta di due tronconi paralleli, gemelli imprigionati in un acquario i quali non si incontrano se non di rado, casualmente. Su, dica qualcosa di interessante! Non ha visto forse il mostriciattolo chinarsi sul secchiello, e tenere il granchietto fra le dita, e… L’acqua è fredda quest’anno. Tanto io ho i tentacoli e il mare seda comunque. Spesso a sera casco assopito nello stesso movimento con cui mi sdraio, pietra gettata in un pozzo, riemergo quando il primo raggio rade la valle e nessuno sa perché abbiano inventato altro dopo le campane. Inspiro il mattino ed espiro presentendo una buona giornata. Infatti mentre ciondolo nel bar semideserto la Elena chiede come va e io tutto bene, tu che classe faresti? Vado in quarta. La quarta è l’anno più bello. Lo spero. 12


Durante il dialogo devo tenere a bada la coazione ad affondare nel culo parlante subdolamente messo in mostra nell’atto di prendere il cellulare. Incredibile la sfrontatezza delle parlanti, una volta in classe ne avevo una che sedeva sempre in terza fila, pare fosse fidanzata con un poeta trentino ma lui non compiva il proprio dovere fino in fondo o almeno questa era l’impressione quando tic toc tic toc la parlante entrava ancheggiando dentro quei suoi tubini dall’apparenza costosa contro cui deflagrava l’apoteosi di un culo salmodiato dagli stivaletti con il tacco. A vederli, lei e l’imbrattacarte rotaliano lingueggianti nelle foto, li si sarebbe detti una coppia normalmente infelice, ma io sapevo di non potermi sbagliare, il modo in cui mordicchiava la stanghetta tartarugata alludeva a una condizione di patente squilibrio dei flussi. Del resto per un poetucolo trentino doveva essere stato un exploit da capogiro soltanto giungere a strusciare la lenza su una simile cornucopia di linguaggio lombare. Alzo gli occhi e la Elena non c’è più. La mia morte prende a palettate un cuginetto. Ciao, ben arrivata. Ciao imbecille, risponde facendo boccacce, ciao cretino. Le sto insegnando a giocare a ping-pong. Sta con me perché si annoia, del resto anch’io senza di lei mi annoio, sebbene abbia sempre ignorato gli umani in miniatura. Dopo tre o quattro scambi alzo una palombella per darle il gusto di schiacciare. È proprio la mia morte, penso soddisfatto, bravissimo sono stato a trovarne una con gli occhi bucaneve. Vedendomi immerso nella puericultura i proprietari della piccola riveriscono il filantropo. Mantengo un contegno lustro: da filantropo a pedofilo il passo è breve. Purtroppo a me piacciono i culi parlanti, non le bambine, mi piacciono le gole dei culi parlanti quando le afferri e tutto diventa gola, indietreggiare e sporgere, schiudersi in giugulare, i capelli dei 13


culi parlanti quando le prendi da dietro in uno specchio e le guardi guardarsi guardarti che guardi guardandoti guardato e poi non guardi più ma cadi mozzato, seme in cornice, culla attorniata dai Senzavolto. Bei tempi quelli, eh? Ora di pranzo!, tuonano le madri in pareo. Uno dei riti, con gli Obsoleti, è mangiare muscoli ripieni. Al tavolo accanto si siede la famiglia della mia morte. Il padre indossa una maglietta di Bastardi Dentro e questo mi piace molto, che il fattore carnale della mia dipartita annunci davanti tvb e dietro Ti Voglio Bastardo. Toh, dice il Putapadre scorrendo l’Atesino (per farselo arrivare ogni estate corrompe il giornalaio), un altro imbecille convinto di vedere gli alieni. Le madri sospirano. Mastico guardando il cielo. Nel vertice formato da due scie vedo un puntino metallico. Viene da chiedersi perché pubblichino questa roba… Mah… Faccio scarpetta, guardo la mia morte infilare una cannuccia nel naso della sorellina e come sono contento! Dopo il caffè, andando verso gli scogli, l’estasi essuda in responsabilità. Sono finiti i tempi dell’autoconversazione. Avrò qualcun altro di cui prendermi cura. Non elida proprio tutto però! Siamo mica in un filmetto per signorine! Mi lasci spiegare! Ogni volta la stessa storia! Ma prego, smerletti pure! Sette mesi prima mangiavo una piadina in un bar di quint’ordine in corso Buenos Aires. Era una zona liquida. Nel frigo a muro le lattine sfrigolavano, il dialogo del barista con un operaio insanguinava il pavimento, i motorini parcheggiati sul marciapiede pulsavano come cimbali contro la mascella e i passanti oltre il vetro ronzavano. Cordelia chiamava e io 14


non rispondevo. Qualcuno bussava dal doppiofondo del mio sguardo. Tentai di abbottonare un polsino prima di fuggire. Da allora non ci sono più cascato, nella trappola ammobiliata dei che ore sono e dell’alba-prima-del-tramonto. Perché quella sera, mentre l’oste mentiva la propria gioventù al vecchio operaio guardando controluce il bicchiere impolverato, nello spiazzo inesistente di quell’attimo in bilico sulla capocchia del tempo, ho visto il vuoto dietro lo straccio delle cose, lo stendardo in cinque sensi e cieli e tavoli e rosso e spigoli e tre meno un quarto e madri e abortire e terra, sissignore, dietro il sudario filamentoso ho sbirciato, fissavo il vino nel bicchiere e tutto era colmo del nulla che lascia sussistere i mondi solo per prendersene gioco nel batticarne delle reincarnazioni, vuoto non dietro, ma di sghimbescio rispetto alla faccia assennata dell’essere, finestre e figli e Ferrarelle sul tavolo e culi parlanti e espirazioni e galassie. Di a da in con su per tra fra, quisquigliò una vocetta a cui associai un faccino biondo, fine, intelligente, calcato su un esoscheletro in miniatura. Mi fece subito un’ottima impressione, sa, sembrava proprio un ragazzo equilibrato… Re della mia infanzia fu uno scarafaggio. Morigerato, senza grilli per la testa, stile di vita improntato all’aurea medietà dei classici. Neppure Scardanelli ha fatto tanto per la mia formazione. Strisciavamo in fila indiana per il bagno, il biondino e lo scarafaggino, carovana di bocche tra le piastrelle. Lui sfiorava con le antenne le uova dei miei pensieri rosa e le schiudeva in larve: il giudizio degli scarafaggi è il supplizio del linguaggio, sa?, e virgolette e scarafaggi, punti e scarafaggi, parentesi e scarafaggi scavicchieranno le budella di chi li sterminò per pigrizia. Credono che chi striscia sia diverso da chi vola, diceva lo scarafaggio. Ma le cose che volano sono come quelle che strisciano, le cose che camminano sono come le cose che nuotano, le cose che stanno sono come 15


le cose che vanno, le cose che cambiano sono come le cose che restano. Tutte le parole che avrete mai detto, diceva, sono procedure del nulla. L’acqua è il sasso che la increspa, tu sei le antenne che ti sentono. Gli dei sono insetti, diceva, hai mai schiacciato un insetto? Uno crede di uccidere, diceva, e invece uccide se stesso. Una mattina me lo ritrovai nel lettuccio di plastica. Dovrebbe essere ancora da qualche parte, dietro un’enciclopedia intonsa o nella botola dei miei giocattoli garrotati, geneticamente modificati, drenati dal baratto alieno. Avevano paura andasse troppo in là, pensavo a cinque anni e sei mesi semiasfissiato sotto il lenzuolo, per ora non è ancora scarafaggio ma non si può nemmeno dire sia figlio, devono aver sussurrato in un dormiveglia meno benzodiazepinico degli altri, mi dicevo, stai a vedere che lo abbiamo partorito figlio per il suo gusto personale di crescere scarafaggio, avranno rimuginato appoggiando la tazza con un dito di Valium a fianco di una fotografia ingiallita, riflettevo, guarda un po’ che figliare era soltanto un modo per rivelare la nostra essenza scarafaggesca. Ed è come se vivisezionassi costantemente la scena: le madri carponi con lo scopettone avanti e indietro attorno allo scarafaggio, avanti e indietro, il mio doppio, anzi io il suo doppio, avanti e indietro, la ciabatta brandita con la sinistra, avanti e indietro, lo scalpiccio delle budella, esploso a rallentatore nella mia testa, carta igienica per pulire lo schifo, avanti e indietro nell’insonnia delle madri che tornando dal lavoro mi comprano uno scarafaggio in caucciù. E fu allora, credo, mentre le tende scheggiavano il soffitto di particole di luce, fu allora che per la prima volta nacque in me il desiderio di scrivere un dizionario, uno di quei parallelepipedi di alberi cotti in cui i dervisci degli steccati, gli inzaccheratori di nubi, le tenutarie del bordello della fonazione credono di inchiavardare il tutto. E in questo dizionario, ansavo mentre 16


gli insetti della luce leccavano le pareti, in questo dizionario del garrito, del bramito, del frinito, del nitrito e del gracchio avrebbero quisquigliato tutti gli esseri traditi dalla natura, cosÏ gridavo nel silenzio del mio lettuccio, e nell’esatto quark temporale in cui la prima copia fosse stata stampata sarebbe risuonata la tromba dei mammiferi accartocciando questo carnevale di volti in uno zipzap di sterco secco. E uno scarafaggio ne avrebbe fatto sfera e uovo. Gli alieni hanno scelto bene. I bambini precoci non piangono mai. Commovente! Ma lo sgorbietto voleva sfracellare ancora un granchio, cosÏ ci ha pensato lei, provi a negarlo!

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Sono nel ramo del commercio con gli alieni. Un aprile di diversi anni prima, entrando in una zona liquida, scorsi un uovo metallico davanti a una montagna. Era immobile, come incollato. Chiusi gli occhi. Li riaprii. C’era ancora. Alzando lo sguardo lo vidi fluttuare verso sinistra. Andai a pisciare dietro un albero e lo battezzai per traveggole o fosfeni. Al ritorno, però, era ancora lì. Provai a sbattere una sessantina di volte le palpebre. L’uovo si era avvicinato a terra. Il sole calante, rifrangendosi sulla carenatura, spandeva riflessi argento. Scartai la penultima gomma del pacchetto. Rialzando lo sguardo avevo l’impressione che l’uovo mi tenesse d’occhio e sorridesse nel sorprendermi ad allentare la tensione con cui le mie cavità oculari guizzavano verso la sua porzione di cielo. Alzai la mano. L’uovo brillò. Dei corvi, uno due tre quattro cinque sei, volarono da un abete a due pini gemelli. Anche se non mi scappava andai di nuovo dietro un mugo, certo che nel voltarmi non avrei scorto più nulla. Invece vidi un essere azzurro alto due metri e mezzo con arti cilindrici e un cranio enorme senza occhi né naso né bocca. Strinsi i denti. Inclinò il testone e lo sfiorò con una delle estremità superiori. Amore, disse una voce metallica. Di nuovo allungò uno degli arti. Vuoi… Vuoi una Vigorsol alla menta edizione deluxe? Avanzò di un altro passo e con un arto sfiorò la gomma che in un raptus di cortesia isterica avevo spinto nel cappuccio del pacchetto. Non appena venne a contatto con il corpo azzurrognolo, la Vigorsol vi restò attaccata come a un magnete. Sparì e ricomparve nel collo, visibile per la trasparenza della carne. Mangiare, disse, e questa volta avvertii una nota di esitazione. 18


Stringendo gli occhi distinguevo l’intaccatura della mia unghia sulla gomma che scendeva dentro l’azzurro diafano fino al centro del corpo. Mangiare, disse la voce, amore. Frugai nell’altra tasca. Vidi la cosa oscillare avanti e indietro, inclinare il capo verso sinistra e scoppiare in suoni cavernosi. Barcollando venne verso di me e con lentezza assordante sollevò l’arto destro fino a sfiorare la forcina che tenevo tra indice e medio. Tornare, disse, scomparendo. Piegai la testa. Al posto dell’uovo c’era la luna. Una stella scintillava. In fondo non era successo niente. Ripreso fiato nuoto tra le meduse (mi piace che la gente non faccia il bagno per paura delle meduse, eccole, come va?, bene voi?, si pulsa…, forse ho trovato l’editore per il dizionario, ah bello poi faccelo leggere, certo, a presto). L’autointervistatore tace, i respiri scivolano invece di inciampare. A capofitto nel vegetale, nella putredine in disgregazione, giù nella fessa del mare, cassetti spinti uno dentro l’altro, ragnatele da cui pendono sintagmi invisibili. Cataclisma che investe la nozione di luogo, sparizione nei flussi. Il mare è una zona liquida. Alle docce la Elena finge di rinfrescarsi, pietosa pantomima, le gocce che luccicano e ammiccano sui colli parlanti. Vuoi giocare a carte? Non sono in grado, dico, il respiro già intaccato. Ti insegniamo noi! Noi chi? Le amichette culi dislessici? I compagnucci analfabeti? Annaspo all’idea di quali orrori possano sprigionarsi da tre lettere. Di ogni parola sempre ho sospettato, diceva il mio mentore Scardanelli, ma su tutte quelle che risucchiano i più nell’uno. Noi amici, noi nemici, noi buoni, noi cattivi, noi neri, noi bianchi, noi maschi, noi femmine, noi scemi, noi 19


svegli, noi padri, noi figli? Noi scarafaggi? Noi studenti, noi parenti, noi serpenti? Noi assassini, noi bambini? Noi tigri eucarioti? Noi eumetazoi, noi bilateri, noi deuterostomi, noi sensi scordati, noi vertebrati, noi gnatostomi, noi tetrapodi, noi uova impazzite di scienziati celesti? Noi terii, noi euterii, noi euarchontoglires, noi fiori incancreniti nel liquido amniotico, noi euarchonta, noi primati, noi aplorrini, noi simiiformes, noi catarrini, noi ominoidi? Noi hominina, noi homo, noi homo sapiens? Noi gesticolanti in parchi pubblici davanti a postere folle? Noi che camminando tra i bucaneve guardiamo per terra? Noi che vediamo una lucertola infrascarsi e il nostro odio sventola occhiuto sopra la spiaggia? Noi Senzavolto sfacciati? Noi? Chi? Io? Tu? Lei? Quando? Lei copre la bocca con il mazzo, sposta lo sguardo da me all’amica spilungona. Stropiccio l’ennesimo due di picche e fingendo di scrocchiarmi vigilo lo scomporsi del cuore a ogni sussulto della parlante che accavallando le gambe lascia piovere il Re Bello. Scopa! Fra i gongolamenti del Cicisbeo vinco la mano successiva. L’amica ossuta propone di andare in acqua per uno schiacciasette e spedisce il Cicisbeo a chiedere in prestito il pallone. Il gioco langue, si è sempre troppo distanti o vicini, una grassona galleggia in ombra, la pertica si lamenta. Faccio dieci bracciate verso il largo. Ad attendermi non c’è nessuno. Perché siete uscite così presto?, chiedo poi alle docce. Aveva freddo, dice Elena indicando l’ossuta. Il primo pomeriggio scema nel ping-pong. La mia morte non c’è. Da anni ormai gioco solo al Verdone, di cui rimango campione al punto che godono a perdere con me come a farsi impallinare da Federer. Anche la predilezione della Elena credo derivi dalla mia maestria, oltre che dall’avere un cugino famoso tra i ragazzini. Chiede se le insegno a schiacciare di rovescio. 20


Vediamo, dico scartavetrando un lungolinea. La pallina finisce oltre il cancello e ho tutto l’agio di guardarla mentre si piega a raccoglierla. Siamo…, geme battendo, tredici a quattro per te, no? Lo scemo si fa largo a sputacchi. Caritatevole la Elena gli lascia il tavolo. Ci vediamo stasera alla notte bianca? Palleggio con l’idiota. Un bambino biondo osserva. Dopo un paio di partite scappo, all’ombrellone chiacchiero con gli Obsoleti, dicono di aver visto passare uno che faceva la mia scuola. Mi disinteresso e mi avvio ansimando verso sud. Non dimentica forse un paio di cosucce?

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