Sergio Nelli Ricrescite
Prefazione di Antonio Moresco
tunuĂŠ
Romanzi collana diretta da
Vanni Santoni
Sergio Nelli Ricrescite
tunuĂŠ
#tuttaunaltrastoria
• Collana «Romanzi» #16 • Sergio Nelli Ricrescite Progetto grafico Tomomot, Venezia Redazione Alessandro Aureli | a.aureli@tunue.com Redazione Diego Fiocco | d.fiocco@tunue.com Ufficio stampa Silvia Bellucci | ufficiostampa@tunue.com Comunicazione Sara Saccone | accountcomunicazione@tunue.com Commerciale Marco Ruffo Bernardini | m.bernardini@tunue.com Amministratore Emanuele Di Giorgi | e.digiorgi@tunue.com Direzione editoriale Massimiliano Clemente | maxcle@tunue.com Prima edizione: ottobre 2018 © 2018 Tunué/Nelli © 2018 Tunué/Moresco per la prefazione isbn: 978-88-6790-322-1 Tunué #tuttaunaltrastoria Via degli Ernici 30 – 04100 Latina – Italia T 0773.66.17.60 | F 0773.18.75.156 info@tunue.com | www.tunue.com Stampato in Slovenia La citazione a pagina 69 è stata tratta da: Jack London, John Barleycorn, trad. it. di Luciano Bianciardi, Guanda, Milano, 1980. Per i riferimenti presenti da pagina 76 e successive è stata considerata la seguente edizione: Venedikt Erofeev, Mosca sulla vodka, trad. it. Pietro Zveteremich, Feltrinelli, Milano, 1977. La citazione a pagina 104 è stata tratta da: Malcolm Lowry, Attraverso il Panama in Ascoltaci Signore, trad it. di Attilio Veraldi, Feltrinelli, Milano, 1985.
Quest’opera, come tutte le altre della collana «Romanzi», è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione–Non commerciale–Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0 IT) http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode
Prefazione
Rileggo dopo molti anni questo piccolo gioiello di genere indefinibile, questo piccolo libro che respira e fa respirare, pubblicato per la prima volta nel 2004 da Bollati Boringhieri e che adesso viene ripubblicato da Tunué, ad apertura di una serie di ristampe annuali che si prefiggono meritoriamente di salvare alcune opere che la macina editoriale e culturale di questi anni, e le logiche puramente mercantili e mediatiche che le governano, destinerebbero altrimenti all’oblio; di andare a ripescare alcune perle sepolte. Un po’ di storia. All’inizio – come spesso succede – ci si è messo il caso. La prima volta che ho letto questo libro, ancora manoscritto, stavo infatti pubblicando da Bollati Boringhieri, casa editrice che aveva un’idea forte della propria funzione. Dopo averlo letto e amato, avevo girato questo manoscritto ad Alfredo Salsano, uomo e editore coraggioso, capace di elezione e passione, esploratore e sperimentatore, che non aveva paura di compiere scelte dettate da intima convinzione e non solo da piccoli calcoli, che non viveva nello stato di doppia verità e falsa coscienza in cui vivono tranquillamente molti degli editori di oggi. Così, per un incontro fortuito tra persone e per le sinergie che si erano immediatamente create, il libro aveva potuto vedere la luce. La prima volta che l’avevo letto mi avevano colpito la sua particolare, sotterranea atmosfera, la sua eccentricità, il suo
passo a volte grave a volte scherzoso, la sua disperata grazia, il suo essere sempre in bilico tra narrazione e pensiero, autobiografia intima e sguardo allargato sul mondo, spunti lirici e riflessivi, illuminazioni e affondi. Ma di che cosa si parla in questo libro? Si parla – sotto forma di un diario steso nell’arco di un anno – di un uomo non più giovane, che porta su di sé i segni di molte ferite sia fisiche che mentali, la cui vita subisce uno spiazzamento per l’irruzione di un figlio bambino. Questa presenza scatena un sentimento di possibile ricominciamento e ricrescita della vita nonostante la depressione e la disillusione dell’adulto. La magia di questo libro sta nella sua atmosfera sotterranea, nel non detto o nel solo accennato, nell’allegria strappata alla malinconia. La presenza del bambino, dei suoi gesti e delle sue spiazzanti osservazioni sul mondo spiazzano infatti anche la quieta disperazione del padre, la presenza oscura e incombente della morte, della malattia e del male. Rileggendo adesso il libro prima di scrivere queste righe, a distanza di molti anni, mi colpiscono ancora le stesse cose. Ma mi arrivano anche, e ancora di più, tutto il sotterraneo tessuto di riflessioni, i passaggi improvvisi e ariosi, i cortocircuiti: i vulcani, il bambino con i vermi, le osservazioni sul mondo naturale, la comunità di recupero per alcolisti, che è anche quello un luogo dove si sperimenta il sogno di un possibile ricominciamento e di una ricrescita… Perciò questo libro è anche una cura. È stato una cura scriverlo ed è una cura leggerlo. Ricrescite è il vero punto di partenza di Sergio Nelli scrittore ed è emblematico non solo della sua concezione ma anche del suo sentimento del mondo, sempre minacciato dalla malattia e dalla sofferenza ma nel quale si possono aprire degli improvvisi spiragli, per irriducibilità personale, per controspinta e addirittura per spirito di contraddizione. Questo modo di porsi di fronte al mondo ricorre anche negli altri libri pubblicati via via vi
dall’autore, tutti attraversati dallo stesso anelito e meritevoli di essere riscoperti. In essi si parte spesso da una pregressa situazione di dolore, di malattia o di dipendenza, quando non sono ambientati in vere e proprie comunità del dolore (ospedali, comunità di riabilitazione per alcolisti e persone soggette ad altre schiavitù e dipendenze), perché – sembra dirci l’autore – sono sempre meglio queste piccole comunità del dolore che il deserto che ci circonda. Però, a un certo punto, succede che in queste situazioni che parrebbero senza via d’uscita, che in queste comunità del dolore si creino le condizioni per degli incontri che possono portare a una ricrescita intima della vita, addirittura all’invenzione dell’amore. Ma poi – mi domando – questo particolare punto di vista, questo sogno che sembra dettato anche dalle condizioni personali dell’autore, non ha invece molto a che vedere con la vita segreta e i desideri degli uomini e delle donne in generale e di questa epoca in particolare? Però adesso, per far sentire direttamente la voce inconfondibile dello scrittore e del libro, riporto qui alcuni brani: Appena svegli, dico a Federico, che ha da poco compiuto quattro anni: «Domani è l’ultimo giorno dell’anno. Si entra nel 2000». «Quando si va da Cosimo?» mi chiede preoccupato, ancora sotto le coperte, ancora assonnato. Cosimo è un suo amico e dovrebbe, secondo lui, regalargli un babbuino. Fumo al buio, di notte. Non so che tempo faccia. Ho a un passo una stella cometa brillantata, sbilenca in vetta all’alberello natalizio. Quando tiro, il tizzone della sigaretta risplende… Credo si possa dire: ormai ce la faremo.
E poi altri tre brani, lunghi e brevi, pescati qua e là dalle prime pagine: vii
Stamattina, mentre mi facevo la barba, Federico mi ha tirato giù il pigiama e mi ha baciato il culo. Non è la prima volta. Lo lascio fare. Gli animali domestici devono aver prodotto nel corso dei secoli, dei millenni, un apprendimento profondo, genetico, che li mette di fronte alla consapevolezza della fine procurata loro dall’uomo. Sanno, lo sanno, che chi li prende per le zampe, li spinge, cerca di afferrarli o li trascina fuori dal loro spazio, quella volta lo fa per ucciderli. E non c’è uno straccio di possibilità di finire diversamente, nemmeno quella che avrebbero di fronte al più feroce e forte dei predatori. Che le bestie morissero uccise mi sembrava naturale come cavare con le dita e con le unghie una rapa bianca dalla terra. Che il maiale urlasse il suo strazio era un segno di festa, la cui sontuosità era accresciuta dal senso di un sacrificio. Mi faceva impressione invece il lamento delle mucche sulla strada per i macelli. Tutte le volte che le ho viste era d’estate e di mattina. Recalcitravano con occhi umidi di pianto, lanciavano lamenti immedicabili che riecheggiavano dalle colline, dalle buche, dal tufo scricchiolante. Era l’ultima resistenza prima che fosse lavato il sangue, mentre un sole senz’ombra frugava i denti cavi delle torri… Il nulla, ha scritto un mio alunno cicciottello in una mezz’ora che abbiamo dedicato alle metafore, il nulla è un panino vuoto.
Mi fermo qui perché un libro magico come questo, a parlarne troppo, a starci troppo addosso, lo si soffoca. Antonio Moresco viii
Ricrescite
30 dicembre 1999
Appena svegli, dico a Federico, che ha da poco compiuto quattro anni: «Domani è l’ultimo giorno dell’anno. Si entra nel 2000». «Quando si va da Cosimo?» mi chiede preoccupato, ancora sotto le coperte, ancora assonnato. Cosimo è un suo amico e dovrebbe, secondo lui, regalargli un babbuino. Fumo al buio, di notte. Non so che tempo faccia. Ho a un passo una stella cometa brillantata, sbilenca in vetta all’alberello natalizio. Quando tiro, il tizzone della sigaretta risplende… Credo si possa dire: ormai ce la faremo.
31 dicembre
Ho comprato a una bancarella una vecchia cartolina di Napoli, con sullo sfondo il Vesuvio. È la prima volta che compro una vecchia cartolina. Così mi avvio alla svolta del millennio con l’immagine di un vulcano e un paio di mutande rosse che non sono nemmeno nuove… Mangeremo cacciagione da Susanna e Giuseppe.
4
Gennaio 2000
Quando stava per nascere Federico, ho acquistato un grande planetario, l’ho fatto incorniciare e l’ho piazzato sopra il letto matrimoniale. Pensavo al «cielo stellato sopra di me». Poi (ce li avevo), ho sistemato su un’altra parete della stanza, degli angeli dipinti da un amico, un pittore messicano che per lunghi periodi vive a Firenze. Di faccia al grande planetario, ho appeso uno zodiaco illustrato con disegni grecizzanti. Ora, da un po’ di tempo, sto meditando che dovrei inserire dei vulcani. Il posto c’è. E una mezza parete con uno specchio grande. In un libro di geografia avevo visto un vulcano bellissimo, nero come lo Stromboli, e con una piccolissima nuvola di fumo che sembrava un ributtino di sperma. Non riesco più a ritrovare né il libro né la fotografia. I vulcani possono collassare su se stessi, implodere. L’edificio roccioso si sgretola a volte a tal punto che resta una fessura fumante, una bocca o un buco di culo che sfiatano e fanno pensare davvero a un animale. Mentre attraversiamo la porta San Frediano. F. Che cosa sono gli angeli? Io Messaggeri di Dio e anche creature della nostra immaginazione. Cose di fantasia. 5
F. Come gli orchi e i draghi. Io Sì, bravo. F. E il tyrannosaurus rex? Io No, quello è esistito, ma ora non c’è più. I dinosauri si sono estinti. F. Ci sono gli scheletri. Io Gli scheletri e le impronte. F. Sono tutti morti.
[Il coma e gli angeli] Gli angeli li ho incontrati una volta, da ragazzino, mentre ero in coma per una meningite cerebro-spinale. Mi artigliavano la schiena con delle roncole. La malattia la contrassi all’inizio del 1967, un paio di mesi dopo la famosa alluvione che colpì Firenze e il Valdarno. Una mezza nottata di martellante pazzesco mal di testa, la febbre altissima e persi conoscenza. Fui portato all’ospedale perché un infermiere di nome Ardito convinse i miei genitori a chiamare il medico, di notte, e perché il medico, che era peraltro amico di mio padre, diagnosticò immediatamente la meningite. Di mattina presto, parzialmente paralizzato e con un corpo che aveva preso per l’infezione del sangue un colore blu-violaceo, mi portò via un’ambulanza, nonostante la mia casa fosse a quindici passi dalla piazza dell’ospedale: una piazza che era stata dei giochi. Nei giornali rosa-neri si parla spesso del coma come di un’esperienza straordinaria nella quale è dato a qualcuno di entrare in contatto con un oltremondo. Io nel coma mi vergognavo del mio semi-sviluppo, del fatto che un pene ancora infantile fosse coronato da peli lucidi che si potevano contare sulle dita. Molti dei miei sforzi corporei e onirici consistettero nel non farmi togliere il pigiama e nel contrastare e raffigurarmi 6
il blocco che mi attanagliava il collo e l’uncino che mi aveva artigliato il braccio. Vidi anche degli angeli, ma erano cattivi. Mi gettarono negli occhi una polvere gelida e armati di coltelli e di roncole mi immobilizzarono e cominciarono a lavorarmi la schiena. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, come un maiale al macello, e alcuni degenti mi dissero dopo che quelle urla erano state agghiaccianti. Nella realtà, nella realtà prima, medici e infermieri mi stavano prelevando del liquido dal midollo spinale e per non soffrire, come capitò la seconda volta, occorre restare assolutamente immobili. Gridavo dunque contro quel dolore che mi rosicchiava la schiena e che a infliggermi era ora un animale: una verde corazza preistorica, occhi prominenti sulla testa triangolare e gli aguzzi denti delle fauci di un coccodrillo penetrati giù fin nel midollo della mia lisca. Lo sforzo per liberarmi da quelle prese mi aveva talmente indebolito che ripiombai in un sonno profondo che spazzò via i coltelli le roncole il coccodrillo e gli angeli. Quando un cappellano rompiscatole mi somministrò l’estrema unzione non c’ero. Ebbi un momento di ritorno chissà quanto dopo, e riconobbi una suora giovane e bella, e una stanza con una luce fioca, giallastra. Anche i suoni arrivavano con le immagini come dentro una fasciatura. Capii distintamente che ero malato, in una stanza d’ospedale. «Girati» mi comandò dolcemente la suora. «Se ti giri, ti massaggio». Mi girai fiducioso su un fianco, voluttuosamente. Il braccio artigliato era libero. Una mano fresca mi carezzò le spalle, scese sulla schiena; poi, un ago si conficcò fulmineo in una natica e una stilettata di dolore mi attraversò tutta una gamba. «Tu» dissi in un fiotto d’ira, «tu sei una suora, sorella e menti!». Bestemmiai Dio e la Madonna mentre mi immobilizzavano di nuovo il braccio. E di nuovo rientrai in un sonno profondo. 7
Eccolo l’oltremondo, l’aldilà! Vedevo e rivedevo in un dettato frammentato, interrotto, un chiodo conficcato nella crepa di un portone, una mano ingigantita in modo abnorme, un viale di platani, i libri scolastici che, legati, tenevamo in grembo… Quando riaffiorai un’altra volta, c’era la voce di una infermiera che mi chiamava per nome. Fui spogliato ancora una volta. Era dunque inutile resistere? L’infermiera mi parlava col tono di chi racconta una fiaba. Anche altre voci si infilarono nella veglia; una che mi sembrò di mio padre contribuì a rilassarmi. Prima di essere risucchiato nel fondo, come dentro un’attorcigliata conchiglia, ebbi la conferma che a tenermi fermo il braccio della flebo fossero mio zio e mia zia. Al risveglio vero e proprio, infine, sapevo tutto. Mi ritornò in mente la Vespa 50 rossa e l’amico che mi accompagnava a casa mentre battevo i denti per la febbre alta. Prima, nel buio della fumosa sala cinematografica, una motocicletta si impennava, procedeva su una ruota sola, balzava sul tetto di un auto in movimento, saltava fossati, sfuggiva a un elicottero e a una gragnuola di pallottole che piovevano da ogni dove… Ritornò anche nitida, la sensazione del mal di testa patito e le parole del medico di famiglia che al capezzale diceva: «Vedete, ha il collo rigido e cerca sempre la stessa posizione. E gli occhi, gli occhi si stanno rovesciando». Sapevo d’esser stato malato e d’esser guarito. Chiamai mia madre che era lì sulla porta e con una grande gioia addosso, con una felicità totale, le dissi che avevo voglia di un caffellatte. Al giardinetto, tutto il pathos bilioso che si era addensato al chiuso, dopo un litigio, si è svuotato come una gonfia vescica da un’urina fumante. «Volete che vi racconti la casa che mangia tutti i libri o la finestra con un occhio solo?»… «Allora, allora, volete il pisello 8
che si tagliò in pezzi o la mosca in pigiama?»… «Volete il telefono che sbaglia tutti i numeri o il quadro che beve alla bottiglia?»… «Volete lo sciroppo che non vuole mai entrare nella bocca degli altri o la scarpa innamorata?»… Mio figlio, più che un raccontatore di storie è un creatore di titoli.
[A proposito di povertà] Con Nuccio ceniamo spesso insieme quando alterna Firenze a Parigi. Andiamo in buoni ristoranti o in trattoria. Se c’è da pagare cifre alte generalmente offre lui perché io sono diventato povero. A una cena, ho tirato fuori il bancomat e volevo pagare io per una volta, ma la carta risultava disabilitata. Un paio di giorni dopo, sono andato in banca infuriato. Una bella signora mi ha informato imbarazzata, come se fossi stato un ladro, che il mio conto era sotto di due milioni e mezzo all’incirca. Le ho spiegato che a scuola mi pagano con molto ritardo: a volte anche due, tre e perfino quattro mesi. Mi dice che nel frattempo ho pagato su questi scoperti un tasso d’interesse del quattordici per cento. Negli ultimi mesi del 1999, più di seicentomila lire. Allora le dico che voglio chiudere il conto e cambiare banca. Nessuno mi ha avvertito della disabilitazione della carta, nessuno mi ha mai avvertito di questi tassi da usura. Più parlo, più mi infervoro. Tiro fuori un assegno di tre milioni che mi sono fatto prestare. Mi chiede se intendo pagare le competenze bancarie e io dico: si vedrà. Allora mi invita ad andare dal direttore che mi riceve subito. Sono ancora più infuriato. Gli ripeto le stesse cose, ma la sua faccia da saponetta e il suo atteggiamento untuoso debellano chissà perché tutta la mia rabbia. Faccia un fido, mi dice. Porti i cedolini dello stipendio e noi le facciamo un fido di due o tre mi9
lioni. Così potrò andare sotto pagando interessi dimezzati. Ha delle proprietà? Rispondo di sì. Nel giro di pochi secondi ho riacquistato una differente posizione sociale. Ormai sono nelle sue mani, anche se protesto sempre più debolmente. Porterò la documentazione. Prima di andarmene, passo dallo sportello e copro il buco. F. Gli orchi non esistono e nemmeno i draghi. I dinosauri c’erano. Ora non ci sono più. Io Sì. Il coccodrillo è una specie di dinosauro che sopravvive. F. E i fantasmi sono morti che hanno qualcosa in sospeso. (La frase viene pari pari dal film per bambini Casper, che Federico avrà già visto un centinaio di volte).
[Nonni fantasma] Mia nonna A., negli ultimi anni della sua vita, tra lo sferruzzare, il pulire e il cucinare, leggeva giornali femminili che le passava una sua cugina. Qualche volta, prendeva un’agendina (che teneva nel cesto dei gomitoli e dei ferri) e vi trascriveva degli aggettivi incontrati nella lettura; aggettivi dai quali si sentiva descritta, rappresentata ecc. Mio nonno, che controllava ossessivamente ogni movimento, ogni ombra della loro buia stanza, le avrà chiesto sicuramente: «Ma che fai?», e avrà scosso probabilmente la testa alla sua risposta, forse infastidito o spiazzato o vagamente ammirato. Naturalmente tra gli aggettivi c’era tutto e il contrario di tutto… Rileggendo quello che precede, mi rendo conto che la stessa immagine, focalizzata questa volta su mio nonno, avevo cer10
cato di renderla per iscritto già quindici anni fa, quando erano ancora vivi. Così (con qualche ritocco): Sentiva l’aria venirgli su e cercava di ruttare allungandosi sul collo, proprio nel momento in cui il respiro si faceva più corto, affannato, spezzato, come se i polmoni non si riempissero che a metà. La moglie lavorava a maglia, raccolta, con le mani sotto il fascio di luce di una lampadina direzionato da una visiera di opalina verde. Ai suoi piedi, dal cestino di vimini laccato rosa, fra ferri e gomitoli sporgeva un’agenda sulla quale ogni tanto lei appuntava qualche parola. Questo gesto, ripetuto ormai innumerevoli volte, aveva guadagnato anche agli occhi di lui una specie di autorevolezza, un alone di ricerca, come una forza che nasce dalla debolezza; un’ostinazione che non poteva più indispettirlo. Era entrato insomma definitivamente nel suo mondo anche se i contenuti lo lasciavano bamboleggiante. Che fossero aggettivi dai quali lei si sentiva descritta, catturati magari dai periodici femminili che le arrivavano di rimessa, oppure informazioni per le parole crociate o i nomi dei protagonisti del giallo che stava leggendo, nomi e titoli strani di strani libri che lei sorbiva (e l’aveva già fatto con la tv quand’era “permessa”) come un astratto benessere. Si era rimesso a sedere accomodandosi il plaid sulle gambe, aveva tastato i braccioli della poltrona in una posa ormai usuale, come un re decisamente decrepito; aveva mosso un po’ i piedi, i diti, dentro le babbucce di feltro con la serratura lampo al centro… Stamattina, mentre mi facevo la barba, Federico mi ha tirato giù il pigiama e mi ha baciato il culo. Non è la prima volta. Lo lascio fare. In questo anno scolastico 1999-2000, sono stato costretto, durante le convocazioni del Provveditore, a prendere sette ore settimanali alla scuola media, oltre alle solite ore di filosofia disponibili alle superiori. C’erano vari “spezzoni”, come si 11
dice, tutti fuori Firenze e io ho scelto l’Impruneta. Così, passo sette ore alla settimana con i ragazzi di una prima: un’esperienza che non facevo da quindici anni, cioè da prima che cominciassi a fare a tempo pieno e con continuità questo mestiere, sempre da precario involontario e da involontario itinerante. Alla Primo Levi, così si chiama la scuola, insegno solo l’italiano. Ma molto del mio tempo nelle attese a volte lunghe in sala professori lo passo a sfogliare le decine e decine di libri di testo di geografia. Qui arrivano tonnellate e tonnellate di carta e un insegnante di lettere, tra i manuali e le proposte di narrativa, si porta a casa ogni anno una piccola biblioteca che, immagino, dovrà poi smaltire. A una straordinaria maestra di una scuola elementare del comune di Impruneta, si deve l’esistenza del più bel diario scolastico che sia uscito in Italia: I diari di San Gersolè (1949). Io ne possiedo una copia nella versione originale, ed è stata una delle letture più importanti che abbia fatto da bambino. Anche con la mia classe abbiamo deciso di mettere insieme una specie di diario, almanacco o giornalino, e, dopo lunghe discussioni, si è deciso di chiamarlo scaramanticamente Virus, vista l’intemperanza attuale di questi agenti infettivi e altri intendimenti che non sto qui a menzionare. Giornata di sole: marmo, comignoli che fumano, montagne, giardinetti ventosi, sassi, acqua increspata, anziani guardinghi. Come insegnante sono un’anomalia in tutti i sensi possibili, l’ultimo dei quali, anche in ordine d’importanza, consiste nel fatto che lavoro in due provveditorati: quello di Firenze (sette ore alla media inferiore) e quello di Prato (nove ore nel quinto anno, cosiddetto “integrativo”, di un istituto magistrale sulla via di diventare ex). Il che è cosa fuori dalle regole, fuori dai regolamenti scolastici. 12
Parlando sopra del coma, ho scritto: «un cappellano rompiscatole». Si trattava di un giovanotto figlio di contadini che aveva un certo disprezzo per gli atteggiamenti da signorini; il che sarebbe stato anche un tratto vitale. Ma era ottusamente clericale e anticomunista e per sovrappiù borioso. E se la sua aria arcigna puntava a strangolare l’aura delle idee, delle idealità nemiche, non stava nemmeno in questo il suo peggio. Il suo peggio si insinuava nella brutale disinvoltura dei messaggi, fuori da ogni catechesi; nello spargere confusione, oscurità, ignoranza, soprattutto sul sesso. Ricordo invece con affetto quello che noi chiamavamo il cappellano lungo, un fil di ferro sensibile e sorridente che gli lasciò il posto e che oggi sarà senz’altro spretato.
13