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FASHION PILLS IL CASO MARGIELA

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FUN FACT

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IL CASO MARGIELA

Margiela è uno stilista belga, fondatore del brand Maison Martin Margiela (1988). Che bel suono ha, Maison Martin Margiela, è anche bello da scrivere. I nomi sono importanti, sono la forma con cui ci presentiamo e, nell’ipotesi in cui fondassimo un’etichetta di moda, quella che rappresenta ciò che vogliamo esprimere con i nostri abiti. La maggior parte, se ci facciamo caso, riporta il nome o solo il cognome del fondatore (Prada, Chanel, Saint Lauren, Vivienne Westwood, Tom Ford) oppure qualcosa che abbia già dentro un signi cante trasposto nelle caratteristiche del brand: Circus Hotel, Pinko, Guess, Mango, Intimissimi e via discorrendo. Spesso, ma non sempre, la scelta del nome determina anche il posizionamento del target, infatti saremo tutti d’accordo che nel lusso si predilige l’uso di nome e cognome del leader, mentre per le seconde linee e grandi catene la scelta ricade su nomi onomatopeici, sigle, concetti. Maison Martin Margiela.È belga, quindi parla il francese, guarda un po’ la lingua che, cliché vuole, appartiene alla comunicazione di moda, una moda alta, elegante, lussuosa. Così Martin decide che il suo laboratorio di abiti sarà una casa, un luogo di accoglienza, dove un insieme di persone lavorano insieme. E questo è il seme da cui possiamo poi far sorgere altre ri essioni. È il primo atto con cui sigla la sua rivoluzione stilistica, da subito in contrapposizione con i colossi del lusso. Margiela non entrerà mai in competizione con nessun altro brand poiché già agli esordi della sua presentazione nel mondo della moda, alla stretta di mano iniziale con i suoi competitors, risponde in un’altra lingua. La sua. Sapete chi mi ricorda Martin? Mina. Il genio non è solo rompere gli schemi, dare nuove interpretazioni, lavorare con eccellenza. Credo che il genio stia anche nell’intelligenza di ammettere quando è il momento di piantarla. Quando arriva sera e si scende dal palco, quando ci si trasforma in cometa e si lascia una scia di sbigottimento collettivo. Altro che stelle. Così vi anticipo che il signor Martin si è già ritirato e non sappiamo dove sia ma personalmente spero che non tornerà. Anche se M.M. quel palco non l’ha mai calcato e, al contrario, si è sempre ri utato di salirci, evitando addirittura la classica uscita del dietro le quinte alla chiusura dei propri show. Incurante delle critiche, per lungo tempo ha preteso che le modelle ritornassero ad essere manichini senza occhi, labbra, espressioni. Coperte in viso, mascherate, nascoste da parrucche e bende, totalmente rimesse al servizio dell’abito ed al ruolo per cui in effetti venivano originariamente assunte: s lare. Dimenticatevi Linda, Claudia, Naomi, dimenticatevi di lui, questi sono i vestiti ed è quanto. La sua è una moda fatta di assenza. Decisamente, la sua è una moda di essenza. Nel 1989 la sua terza s lata viene ambientata in un playground pubblico nella periferia di Parigi dove risedevano diverse comunità etniche. Martin e la sua partner in affair ripagano l’ospitalità dei residenti portando i bambini a spasso per Parigi e commissionano ai residenti gli inviti per l’evento. Non c’è pavimentazione, passerella, backdrop, luci effettate, non ci sono nemmeno le sedie; chi prima arriva meglio alloggia. Si annullano le gerarchie del fashion system dando vita ad una s lata anarchica in cui bambini di tutti i colori zigzagano sulla passerella insieme alle modelle che inciampano e vagano tra la folla seduta. Sembra tutto molto punk, ma, nonostante lo stile grunge degli abiti, il risultato non potrebbe essere più minimale. Martin è un polemico, eppure la genialità delle sue invettive sta proprio nell’evitare di parlare, strillare, fare gesti inconsulti contro le telecamere. Il suo lavoro è dirompente e scioccante nonostante la sua narrativa resti pacata, discreta, quasi disinteressata. Recupera gli spazi e gli oggetti, dando una nuova chance al vecchio; compra edi ci abbandonati, preserva le crepe, rimbianca i muri, stende teli di cotone sui mobili, replica modelli vintage tali e quali, recupera carte, plastiche, materiali edili e li cuce assieme sconvolgendo il lusso e reinterpretandolo. È facile pensare a Duchamp, non è vero? Nel suo laboratorio (bianco), i collaboratori in camice (bianco), giustappongono un’etichetta (bianca) negli abiti, cucita grezzamente con un lo spesso (bianco) alle quattro estremità, così che possa essere facilmente removibile, per preservare l’anonimità del marchio. Sopra le label interne sono stampati i numeri da 1 a 23, e a quello cerchiato in nero corrisponde la linea di riferimento. A questo punto mi domando se ci sia stato un solo cliente che abbia davvero staccato quell’etichetta, quella rma anonima che lo rende così identitario. In seguito avrà poi premura di segnalare il numero di ore che ci vogliono per creare un capo haute couture, il che è davvero un buon modo per far apprezzare all’acquirente un oggetto di cui non ha proprio bisogno. Vien da sé che adesso avvii una breve polemica sull’originalità dei marchi contemporanei i quali sono percepiti come innovativi e avanguardistici ma che hanno radici ben piantate nel seme di Martin, senza fare nomi mi riferisco a OFF-WHITE o Vetements, ma non la provocherò, non ne abbiate pena. Tanto è irriverente la sua moda, tanto più egli è inconoscibile. Le poche cose che ci ha detto M.M. avendo sempre lo zelo di parlare usando il “we” (we did, we worked…), ce le ha comunicate via fax, e sul

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nire dei ’90 replica a Vogue in maniera molto criptica, quando la rivista lo include nel gruppo di “renegadeturned- establishment designers” e gli chiede di de nire il movimento avanguardista: “A pigeonhole into which the point of view of some is placed when it is considered dif cult to assimilate into the lives of many.”

Una casella in cui si colloca il punto di vista di alcuni quando lo si ritiene dif cile da assimilare nella vita di molti ‘Mumble, mumble’, Martin Margiela. Non credo che le parole e le collezioni dello stilista siano facili da capire, né da digerire; sono sicura che chi nel tempo si sia impegnato a costituire il proprio senso estetico, magari sfogliando migliaia di Vogue e Harper Bazar, rimanga confuso dai suoi azzardi, proprio come capita di sentirsi di fronte all’arte contemporanea. Ok, c’è un concetto forte, lo sento, ma è bello? Mi piace? Evitiamo le ipocrisie ed ammettiamo che de nire bello un corpetto ricavato da una busta di plastica è dif cile. Martin, come l’arte contemporanea, non vuole che godiamo della beltà, vuole che entriamo dentro un discorso e lo disossiamo. Non è un esercizio di stile ma un compito di ingegneria, un tema sul recupero, uno sfogo contro gli stilemi della bellezza canonica. E funziona. Funziona perché le persone, anche quelle che non hanno un’elevata coscienza di sé, avvertono quando qualcuno comunica la sua essenza. Funziona perché essere se stessi ripaga sempre, specialmente quando si ha qualcosa da dire. Altrimenti cari, è meglio non dire niente. In breve tempo la moda della Maison è diventata un culto. Un altro dato importante che ci rivela quanto M.M sia un eclettico geniale, sta nell’apprendere che Hermes l’abbia chiamato come direttore creativo dal 1997-2003. Hermes, quello della Birkin, dei cavalli e del lusso più lusso che esista. Hermes, quello che evoca foulard e sobrietà, il brand che ancora oggi non fa sconti a nessuno e non entra nei contemporanei mall di lusso per preservare la sua immagine di brand elitario e irraggiungibile. Ebbene, Martin penetra nel DNA della casa, fa il suo senza sconvolgere i codici stilistici del marchio e contemporaneamente porta avanti la Maison Margiela, lanciando altre linee, profumi e gioielli. E poi che è successo? Martin se ne va. Gli succede Jhon Galliano, una personalità agli antipodi. Martin Margiela è la personi cazione dell’ossimoro “silenzio assordante”. Non mostrandosi mai, eludendo la folla e gli applausi e denigrando la moda brillante (dai diamanti non nasce niente) è stato il designer senza volto, l’uomo invisibile della moda. E questa sua scelta consapevole lo ha portato ad essere lo stilista più interessante di sempre, e a lasciare un segno (bianco) indelebile. La sua identità celata ha creato in noi tutti il paradosso di riconoscerlo bene tra i tanti, lui che non voleva essere visto. Senza voce, a voce bassa, ha ricercato l’essenza della sua poetica, riuscendo a parlare di chi era lui, senza fraintendimenti o confronti, proprio perché il confronto non l’ha cercato mai. Allora vi chiedo, cosa fate voi per comunicare voi stessi? Cercate la vostra voce con la vostra voce, o vi limitate ad imitare quella più in voga, magari effettandola un po’, per darle un sound un po’ più trap?

Virginia Parisi

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