Inserto mensile di informazione e comunicazione del mondo giovanile a “Luce e Vita” n.36 del 28 ottobre 2012 Piazza Giovene 4 -70056 Molfetta www.lucevitagiovani.it lev.giovani@gmail.com
88 Noi Crediamo
Carlo Maria Martini
Cinquant’anni dopo
di annarita marrano.................2
di vincenzo bini........................3
di antonello tamborra..............4
Uscire dal regno di OP
Il camposcuola estivo...
o finta All’Ilva non arriva Batman
di carmela zaaa........................5
di manlio minervini...................6
di fedele marrano........... .........8
TI PIACE LUCE E VITA GIOVANI? nico tempesta
Mi piace Luce e Vita giovani. Riprende con l’ordinario dei nostri percorsi e puntuale ci ricorda che leggere è allenarsi a pensare. Tante volte ci è capitato di leggere e di naufragare solo in un mare di parole che non conducono poi ai fatti. Mi piace Luce e Vita giovani perché ci aiuta a passare dall’angolo delle nostre stanze alla geografia della nostra diocesi fino a toccare le Alpi Aurine dell’Alto Adige e il mare di Lampedusa e così ci alleniamo a vedere il mondo in modo differente. Mi piace perché ci aiuta a cogliere nel frammento qualcosa del tutto, a ridare dignità e ampiezza di visione a prospettive troppo spesso tentate di ripiegarsi su un angusto cortile. Del resto, la lettura, se affascinante, mi mette in compagnia di un altro mondo e forse, di un altro me stesso. Aveva ragione Jorge Luis Borges: ““Fra i diversi strumenti dell’uomo, il più stupefacente è, senza dubbio, leggere. Gli altri sono estensioni del suo corpo. Il microscopio, il telescopio, sono estensioni della sua vista; il telefono è estensione della voce; poi ci sono l’aratro e la spada, estensioni del suo braccio. Ma leggere è un’altra cosa: il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione.”
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NOI CREDIAMO annarita marrano La prima volta che ho lasciato la mia famiglia, i miei amici, la mia Terra, avevo le lacrime agli occhi ed un forte magone allo stomaco. C’è un famoso detto popolare che dice “conosci ciò che lasci ma non conosci ciò che troverai. Sono passati già due anni da quando ho preso il primo treno per il lontano Nord. In questi due anni ho tante volte sentito il rumore delle rotaie sui binari, tante volte ho ammirato i paesaggi della mia Italia e tante volte ho incontrato occhi nuovi. Il mio continuo muovermi da una città all’altra mi ha permesso di conoscere nuove storie, nuovi volti, alcuni dei quali hanno lasciato un segno indelebile dentro di me. Nasce dal ricordo piacevole di questi volti l’idea di racchiudere in una sorta di “diario di viaggio “ i loro occhi, le loro esperienze, i loro insegnamenti. Voglio iniziare con un incontro recente, avvenuto il secondo giorno che ero a Trento. Ero in centro a passeggiare con una ragazza conosciuta nel dormitorio e lì ci incontriamo con Laura, una ragazza siciliana “atipica”, come la definirebbero i trentini. Minuta, riservata, elegante. Una ragazza che ascolta in silenzio e appena le rivolgi la parola ti sorride con gli occhi e parla liberamente. Una di quelle persone con cui hai il piacere di sederti a prendere un caffè e chiacchierare
ogni volta che la incontri. Sta per iscriversi al corso di Laurea Magistrale in Storia, un indirizzo un po’ insolito di questi tempi. Lo dice con gli occhi vivaci, di chi è emozionata perché sta per sta per realizzare un sogno. Prima di lasciarci mi dice: “aggiungimi su facebook!” e poi si avvia a piedi verso casa sua mentre noi aspettiamo l’autobus. Nel ritorno la mia amica mi racconta di aver conosciuto Laura in ostello i primi giorni che era a Trento. Mi racconta che Laura da sola e con pochi spiccioli in tasca ha preso un aereo dalla Sicilia ed è venuta nel freddo Trentino. Il suo sogno è fare l’archivista: appena arrivata si è messa a cercare lavoro. Di giorno era in giro a lasciar curriculum e la sera tornava distrutta. Prendeva la sua unica barretta di cioccolato e ne mangiava due pezzetti. Poi si metteva a letto e si guardava un film. Il racconto della sua storia mi fa pensare alle parole che spesso i giovani della mia età ascoltano dai propri genitori e dagli adulti in general:. “I giovani di adesso non conoscono
il sacrificio. Sono superficiali, non hanno ambizioni!”. Guardo la mia generazione e vedo ragazzi con tanti sogni di colori diversi che spesso non mettono le ali perché non c’è chi soffia nel verso giusto. Vedo ambizioni tagliate fuori quando ti dicono “cerchiamo qualcuno con più esperienza!”. Vedo merito sbeffeggiato quando ti dicono che credono nella mobilità e dopo uno stage sottopagato ti mandano a casa. Vedo tante porte chiuse in faccia ed una società dimentica della sua linfa vitale. Vedo ragazzi come Laura che non hanno paura del futuro, dell’incertezza, di rischiare. Io credo che ogni generazione abbia i suoi momenti difficili, le sue conquiste, i suoi sogni. Le critiche sono costruttive, ma i pregiudizi sono opprimenti e deleteri. Adesso Laura ha un lavoro, grazie al quale potrà pagarsi gli studi a Trento. Il lieto fine di questa storia mi fa pensare alle parole di una celeberrima canzone di Francesco Guccini: “Io penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo e a una speranza appena nata, ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi, perchè noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge, in ciò che noi crediamo Dio è risorto!”
CARLO MARIA MARTINI
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STORIA DI UNA MORTE (APPARENTEMENTE) INCOERENTE vincenzo bini Ci ha lasciato mentre agosto volgeva al termine, ma la sua morte era nell’aria, come quella del nostro Santo Padre Giovanni Paolo II nell’aprile di sette anni fa. Vittime dello stesso male… ma quella del cardinale accende gli animi, fa discutere, fa gridare all’incoerenza di una Chiesa che non molla di un centimetro sull’eutanasia, ma (e questo lo ricordiamo sempre in pochi) anche sull’accanimento terapeutico. La colpa è forse di quell’ultima (difficile) intervista postuma, rilasciata da Martini a Padre Georg Sporschill e Federica Radice l’8 agosto. Un’intervista in cui (ancora una volta) critica la Chiesa, apostrofandola “indietro di duecento anni”, che evoca la missione popolare del Vescovo Romero, che auspica la conversione di religiosi e laici… ma questa è un’altra storia. Il punto (che vogliamo approfondire) invece è: sospendere le terapie (come nel suo caso) è o no eutanasia? I tanti contrasti, che in passato hanno contraddistinto il rapporto del Cardinal Martini con il Vaticano, non erano comunque privi di punti di contatto (ci mancherebbe!); e proprio in tema di eutanasia, il monsignore torinese ebbe a dire: “Neppure io vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo. Tuttavia è importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. E questi ultimi non possono mai essere approvati.” Incoerente? “Non abbiamo staccato nessuna spina, e i paragoni con i casi Englaro e Welby sono improponibili. L’evoluzione della morte del cardinale Carlo Maria Martini è stata più normale di quanto si lasci credere […] Non ho accompagnato il cardinale alla buona morte e la scelta di Martini sono in tanti a farla, senza clamore”. Questa è l’arringa del Dott. Pezzoli, il neurochirurgo che lo ha curato negli ultimi anni. Ci viene in soccorso anche il Cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita e tra i massimi esperti di bioetica della Chiesa, che spiega: “L’accanimento terapeutico è rifiutato dalla Chiesa e da tutti i cattolici. Non solo è sconsigliato ma direi anzi che è proibito, come è proibita l’eutanasia. Così come non si può togliere la vita, allo stesso modo non la si può prolungare artificialmente […] Un credente accetta serenamente la morte perché sa che la vita non finisce lì. Certo non sta a noi anticipare il momento, non è lecito compiere alcun atto soppressivo. Ma
quando la morte sta arrivando, quando la cura non ha più significato e si aggiunge solo dolore e tormento, allora bisogna rispettare il malato e la sua condizione con serenità”. Morale: la morte del Cardinal Martini è stata solo apparentemente incoerente. Si sa che la border line su temi di stampo bioetico è molto sottile, direi addirittura labile. Per questa (e per altre cose di questa vicenda che mi hanno convinto meno) vale comunque la pena continuare ad interrogarsi, proprio come ha fatto lo stesso Martini per tutta la sua vita.
Per questo affido il suo ricordo al Cardinale Ravasi che di lui ha detto: “Lo sguardo di Martini era certamente tendenzialmente uno sguardo verso l’oltre, che cercava di individuare i percorsi futuri. In questo senso, si può dire veramente che la sua funzione fosse “profetica”, e profeta di per sé è colui che è ben piantato nella Storia e ne intuisce i movimenti, le tensioni.”
Carlo Maria MARTINI. É stato un cardinale e arcivescovo cattolico italiano. Biblista ed esegeta, è stato arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002. Oltre ad essere stato un raffinato uomo di cultura teologica fu anche uomo del dialogo tra le religioni, a cominciare dall’ebraismo, i cui fedeli amava definire “fratelli maggiori”. Fu soprannominato “cardinale del dialogo”. Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo... Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa.
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CINQUANT’ANNI DOPO
antonello tamborra
L’11 ottobre 1962 Papa Giovanni XXIII, dopo tre anni di lavori preparatori, apriva ufficialmente il Concilio Ecumenico Vaticano II, segno tangibile di un rinnovo della e nella Chiesa cattolica. Forse per noi, giovani del terzo millennio, chiamati da Papa Giovanni Paolo II ad essere sentinelle del nuovo millennio, tale evento può dir poco o addirittura nulla, per questo è necessario dare eco, anche per noi della redazione, alla ricorrenza del cinquantesimo anniversario del predetto Concilio. Ma cosa è il Concilio Vaticano II? Si, “è”. Non “è stato”. Utilizzo il presente perché questo evento ha un suo inizio in quella memorabile data, tuttavia i suoi obiettivi e i suoi scopi non hanno un limite di tempo, ma sono programmi da incarnare. Pertanto
LUCEeVITA GIOVANI
leggi e commenta su www.lucevitagiovani.it L’inserto è curato da : Nico Tempesta; Silvia Ayroldi, Mauro Capurso, Gaetano Ciccolella, Gian Paolo de Pinto, Giuseppe Mancini, Annarita Marrano, Fedele Marrano, Francesca Messere, Manlio Minervini, Maria Teresa Mirante, Maurizia Mongelli, Maria Nicola Stragapede, Antonio Tamborra, Giusy Tatulli, Carmela Zaza. Grafica: Gian Paolo de Pinto. Webmaster: Valentina de Leonardis. Collaboratrice allestimento: Milena Soriano
il concilio è tutt’oggi il coraggio della Chiesa di voler cambiare, rispondendo con idee rivoluzionarie ai tempi che cambiano. Le idee espresse dai Padri conciliari, infatti, attraverso i documenti e le costituzioni, sono la partenza per comprendere oggi chi siamo e cosa siamo nella realtà ecclesiale sia come singoli fedeli sia come comunità. Il Concilio Vaticano II, possiamo dire, ha “rifatto il trucco” alla Chiesa, le ha fatto indossare abiti nuovi, calzari da festa, senza tuttavia intaccare il “bel corpo” della Chiesa stessa, rinnovandola, pertanto, solo nell’aspetto, ma non nella sostanza. Sovente tra giovani si sente dire che la Chiesa è per vecchi, per bigotti, “non è alla moda”, invece il Concilio Vaticano II ha dato proprio uno schiaffo a quella visione di vecchio e a quell’odore di stantio che ormai aleggiava nelle Chiesa. È stata fatta una scelta. Il popolo cristiano non è stato più al servigio del clero, ma è divenuto elemento del Popolo di Dio, che cammina nella Chiesa insieme ai chierici ed ai religiosi. Il cambiamento porta i laici ad essere fari nella Chiesa, dove ciascuno deve contribuire alla missione salvifica e alla costruzione del regno di Dio nei rispettivi ruoli e funzioni. La Chiesa sceglieva di scendere dal piedistallo “medievale”, ormai logoro, dell’istituzione che spaventava ed impartiva solo comandi, anatemi, precetti e dogmi. L’intuizione di Papa Giovanni XXIII, sicuramente ispirata e pregata, aveva l’obiettivo di accogliere i laici, e i giovani soprattutto, in un cammino che portava
a Cristo attraverso la riscoperta della fede, non rinchiusa ed elaborata nei libri di teologia, ma operante nella pastorale quotidiana. I primi cambiamenti si ebbero nella liturgia, ove si abolì la obsoleta lingua latina, nelle celebrazioni eucaristiche si introdusse la riforma liturgica ove, per esempio, si ammettevano strumenti musicali diversi dall’organo o il sacerdote celebrava di fronte all’assemblea, gesto questo che simboleggiava proprio l’apertura verso popolo. Ma più di tutto si doveva rinnovare la Chiesa a partire dal cuore di ciascuno, ricristianizzare il popolo, ormai preda della morsa della secolarizzazione. Oggi più che mai, in un mondo in crisi, dove la crisi non è solo nell’economica, ma anche nella famiglia, nella politica, nella scuola, nella affettività, abbiamo l’opportunità di “ri-conciliarci”. Abbiamo l’esigenza di riscoprire il senso di questo grande evento, anche con l’aiuto dei nostri pastori, perché del Concilio riviva e lo si incarni nei nostri tempi, nelle nostre realtà, rendendo così il messaggio evangelico vivo in ciascun cristiano e divenendo così luce per chi non crede e supporto per chi si è allontanato dalla fede. Giovanni XXIII con tenacia voleva portare al mondo questo messaggio. Egli con la tenerezza della carità e con la tenacia della missione, invitava i fedeli, come fa oggi lo stesso Benedetto XVI, a puntare senza timore, nella roulette della storia, sulla speranza e sulla fede in Dio Padre!
5 ALDO MORO UN POLITICO BEATO mauro capurso
Quando pensiamo ad un beato o ad un santo “moderno”, la prima immagine che ci viene in mente è quella di grandi uomini ed altrettanto grandi donne che con il loro operato hanno saputo dare una svolta alla loro vita ed a quella di quanti hanno incontrato sulla propria strada, tanto da essere “venerati” postmorte con l’auspicio di essere in qualche modo da loro protetti ed ispirati. Se oggi dovessimo poi pensare ad un uomo politico, a tutto penseremmo fuorché ad un personaggio da venerare o che possa anche lontanamente essere paragonato ad un santo. La politica sta vivendo un momento tragico. Ha abbandonato la sua funzione di mediatore sociale ed è vista un po’ da tutti come qualcosa di
losco, dal quale tenersi il più lontano possibile. C’è stato però un uomo che fa’ ormai parte della storia, un politico, per il quale c’è qualcuno che ha pensato che possa avere tutte le “carte in regola” per poter essere beatificato e, perché no, magari in futuro proclamato santo. Stiamo parlando di Aldo Moro, lo statista ucciso dalle BR il 9 maggio 1978 dopo 55 giorni di prigionia. Che fosse stata una persona speciale lo sapevamo già e che fosse un fervido cristiano pure. Secondo il postulatore della sua causa presso la Diocesi di Roma, Moro avrebbe tutti i “requisiti”. in primis, l’essere dotato di una fede cristiana e cattolica forte ed inconfutabile, e non vi è ombra di dubbio che Moro sia stato
un esempio di vita cristiana secolare. Il suo assassinio inoltre viene considerato un martirio, essendo stato fatto per mano di killer armati da una ideologia vetero-comunista in guerra contro il cristianesimo. Oltre ad essere stato, secondo alcuni, il co-autore dell’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, quello che più conta ai fini della beatificazione è però la presenza di un miracolo. Verrà infatti considerato tale la vicenda di Monsignor Colasuonno, che, rinchiuso in una stanza durante un assalto da parte di alcuni guerriglieri in Mozambico mentre lui era Nunzio Apostolico, avendo a disposizione una foto di Moro, ha iniziato ad invocare “il suo santo”. La vicenda di questo grande uomo politico deve suscitare in noi una profonda ammirazione sia per il contributo che Moro ha dato alla nostra nazione, sia per l’esempio che ci ha lasciato. Essere uomini, cittadini, politici non deve essere una semplice etichetta. Il nostro impegno quali giovani cristiani deve essere rivolto al mondo, a coloro che ci circondano e non circoscritto al rapporto che abbiamo con la nostra fede. Da Moro dobbiamo prendere la capacità di essere cristiani nella vita comune, tra la gente, e questo vale soprattutto per coloro che scelgono di mettersi al servizio della società come i politici. È di questo che abbiamo bisogno!
SI PUÓ USCIRE DAL REGNO DI OP carmela zaza Paola è una giovane mamma coraggiosa dei nostri tempi. Meridionale, trasferita a Roma, con un lavoro precario di giornalista, riesce ogni tanto a prendersi delle belle soddisfazioni. Ma quando ha un lavoro che le piace, un marito che la ama e un figlio appena nato che le riempie le giornate di sogni e gioia, ecco che la malattia irrompe nella sua vita con tutto il suo mistero di dolore. Ma è un dolore tanto forte che non si vuole accettare, che non si sa spiegare, perché la malattia èilcancroechinesoffreèilsuobambinodisolodue mesi. Scoperto per caso, questo tumore diventa il protagonista dei giorni di Paola, di suo figlio, di suo marito e di tutta la sua famiglia. Catapultati in ospedale, nel reparto di oncologia pediatrica, cominciano a lottare contro questo male vivendo conpauraetimore,maanchesperanza,tantigiorni e tante notti di chemioterapia, di isolamento, di tac, di analisi, di day hospital. Tra una pappa e l’altra, tra una flebo e l’altra e quando nonostante la stanchezza non si riesce a dormire, Paola scrive un blog su questi
momenti, sulle sue giornate, sulla scoperta di quel mondo dove si combatte ogni giorno, provandole tutte per non arrendersi. I racconti di quel blog sono diventati un libro bellissimo:”Il regno di Op” che l’autricemamma Paola Natalicchio ha dato alle stampe e ha presentato anche a Molfetta, il suo paese, nello scorso mese di giugno. Era passato più di un anno dalla scoperta del tumore di suo figlio e lei poteva raccontare finalmente, che suo figlio era ancora vivo e che le cure mediche e gli interventi subiti avevano avuto successo. Ma nel suo libro, Paola racconta anche le vicende che l’hanno vista diventare mamma degli altri bambini e ragazzi che hanno frequentato quella zona di guerra per la vita, sorella degli altri genitori e figlia degli altri nonni che, come lei, non sapevano spiegare il perché di tutto quello che stavano vivendo. Il dolore, la disperazione, l’impotenza, raccontati con forza e verità che ti fanno staccare gli occhi dalle pagine solo un momento, quando le lacrime per la morte
di un bambino/soldato non ti fanno più distinguere i caratteri stampati. Un dolore che spesso, dalle nostre parti, viene nascosto, occultato e, nei migliori dei casi, sussurrato, come se fosse una colpa, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. Invecesoloparlandodelcancrosipuòdiminuire la paura, si possono condividere informazioni, si scopre che non si è soli e che dal “regno di Op si può uscire vincitori”, come dice Paola nel suo libro. Solo parlandone, affrontando il cancro a viso aperto ma con umiltà e coraggio, solo con l’aiuto di tutti si può sconfiggere qualche volta in più questo drago che col suo fuoco distrugge quello che tocca o almeno, ci si può sentire meno soli nella battaglia o nella sconfitta, quando le cose vanno male. “Il regno di Op”, di Paola Natalicchio (edizioni La Meridiana), è un libro da leggere, da consigliare, da raccontare, per arrabbiarsi, per riflettere, per commuoversi, per dare forza, per incoraggiare, per ricordare che ogni giorno c’è chi lotta e non vuole essere lasciato solo.
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IL VOLONTARIATO NON È (SOLO) UNO SPORT ESTIVO manlio minervini
Partiamo dalla fine della storia. Anche quest’anno si è svolto a fine agosto a Vitulano (BN) il camposcuola della Caritas diocesana, cui hanno partecipato bambini e ragazzi dei centri cittadini di Giovinazzo, Ruvo e Terlizzi. Tutti coloro che hanno vissuto almeno una volta l’esperienza di un camposcuola estivo conoscono benissimo le emozioni che si provano in quei pochi giorni. Vivere a stretto contatto tutti il giorno (e anche la notte) con i bambini e gli altri volontari crea un’atmosfera straordinaria e irripetibile che rende la struttura in cui si svolge il camposcuola quasi un’isola felice estraniata dal mondo che lo circonda e dai pensieri che ognuno ha nella propria vita quotidiana. Vedere sul volto di un bambino il sorriso dopo un gioco o un’attività ti ripaga di tutti gli sforzi fatti per arrivare allo svolgimento di quel gioco o di quell’attività, tra mille impegni e difficoltà. Ascoltare le confidenze di un ragazzo, che durante l’anno non farebbe mai, porta a riflettere sulla potenza e sull’influenza che ha un’esperienza del genere su tutti i partecipanti. Osservare un altro volontario che, nonostante la stanchezza e i ritmi sostenuti di quei giorni, trova la forza e l’entusiasmo per andare sempre avanti, trasmette per induzione una carica positiva che nessuna parola potrebbe mai dare. Tutte queste emozioni sono amplificate se si pensa che ad un campo Caritas prendono
CRAYON gaetano ciccolella
parte solitamente bambini e ragazzi che hanno alle loro spalle situazioni non proprio facili, siano queste di tipo familiare, economico o sociale. Il camposcuola estivo è, però, solo la fine di un percorso, un percorso che dura un anno, con l’opera di volontariato a sostegno dei minori, che si svolge quotidianamente nei centri cittadini. Quei bambini e ragazzi, che poi in estate ritroveremo al campo, hanno bisogno di una mano ogni pomeriggio per svolgere i compiti e, magari, anche di riconoscere una faccia amica con cui parlare un po’ o, perché no, scherzare. Ecco, questo è l’inizio della nostra storia. Sta
cominciando un nuovo anno scolastico, i bambini stanno tornando nei centri cittadini con tutto il loro entusiasmo e la loro vivacità, ma anche con le loro difficoltà e i loro problemi, che non sempre coincidono con quelli di matematica. Purtroppo, i volontari sono sempre meno nei centri Caritas e molti bambini che potrebbero usufruire di questo servizio devono, nostro malgrado, trovare altre soluzioni, non sempre ottimali. Vi invito, pertanto, a passare dai centri cittadini, anche solo per informarvi, ricordandovi che i bambini non hanno bisogno di avere di fronte grandi figure professionali, ma “solo” grandi uomini.
STORIE DI CAMPOVOLO maria teresa mirante
Campovolo è l’immenso spazio verde dell’ex aeroporto di Reggio Emilia. Lo scorso 22 Settembre ha ospitato Italia loves Emilia, il concerto a favore delle popolazioni colpite dal sisma dello scorso Maggio. Sul palco tredici nomi della musica italiana, quella musica commerciale, diventata il collante perfetto di un grande momento aggregativo per centocinquantamila giovani provenienti da tutta Italia. Se penso a Campovolo, penso soprattutto a quelle nove ore di attesa vissute a partire dall’apertura dei cancelli dell’aria concerto, in compagnia di persone che non avevo mai visto, lì per uno stesso obiettivo: dire che si deve ripartire e non c’è modo migliore per farlo che divertirsi. Tante le storie, in quelle nove ore di attesa. Storie di ragazzi che non hanno più un istituto ma che all’idea di andare a scuola si aggrappano perché scuola è sinonimo di normalità. Giovani che fanno lezione ogni mattina in tenda, senza banchi né lavagne, tra le mani solo qualche libro, proprio mentre in altre regioni d’Italia docenti impacciati sono alle prese con I pad e sedicenti rivoluzioni tecnologiche dalla dubbia utilità. Storie di famiglie che hanno visto crollare una casa che non era ancora del tutto di loro proprietà, storie di chi ha visto crollare i propri ricordi di gioventù insieme al
cornicione di un vecchio campanile. E tu non puoi fare altro che sentirti fortunato, perché la terra non ha deciso di tremare sotto i tuoi piedi, mentre osservi ammirato la dignità e l’ottimismo di chi ti risponde che comunque si va avanti! Passano le ore, pochi minuti alle venti, il concerto sta per iniziare, un gruppo di ragazzi ai piedi del palco intona l’inno nazionale, quell’inno che siamo abituati a cantare solo per i mondiali di calcio. Ci si riscopre tutti Italiani, vicini, perché i terremoti non hanno colore né credo politico. Inizia il concerto e in quelle quattro ore si canta e balla, qualcuno si è commosso ascoltando la propria canzone, ognuno con la sua storia, con un ricordo particolare per qualcosa che non c’è più e
VIVO PER LEI (LA MUSICA) maurizia mongelli “M” come Molfetta, “M” come musica, “M” come mondo che tante giovani promesse hanno espresso attraverso la loro musica in occasione del ‘Molfetta music festival’ tenutosi il 6 ottobre all’anfiteatro di Ponente. Mettersi in gioco dinanzi ad una giuria tecnica e qualificata è stata una prova che i ragazzi hanno affrontato e superato con grinta, passione e coraggio, tutte qualità che noi adolescenti misuriamo quotidianamente con il parametro dell’autocritica e della forza di volontà e che ci permettono di
scontarci con un mondo che a volte fa paura. Ma il coraggio di mostrarsi per ciò che si è grazie alla potenza delle note, all’originalità di pensiero, alla innocente sfacciataggine di un ragazzo che sale sul palco a piedi nudi, che si colora i capelli di rosso o verde o che si veste andando contro ogni futile moda del momento, sono stati una dimostrazione di quanto noi ragazzi, se lo desideriamo, possiamo colorare ogni momento di rosso vivo. La tecnica dei musicisti, i loro sguardi innamorati delle note e gli occhi lucidi
7 per quello che c’è ancora e da cui ripartire. È il brano di Pierangelo Bertoli a chiudere lo spettacolo con tutti gli ospiti sul palco a cantare che bisogna affrontare la vita a muso duro “con un piede nel passato e
lo sguardo dritto e aperto nel futuro”. Si conclude un grande riturale collettivo che ci ha riempiti di significato, rafforzando il senso di appartenenza a un paese spesso con le flebo attaccate ma che resta pur sempre la nostra meravigliosa casa.
di emozione hanno insegnato a tutti, adulti e bambini, appassionati di musica o semplicemente della vita, che se nei sogni si crede, possono avverarsi. Ogni gruppo, presentando i propri inediti, ha messo a nudo l’anima di ogni singolo componente e l’ha ricoperta di colori, parole, note che l’hanno resa unica e, proprio per questo, speciale. Proprio grazie a questa splendida unicità che ci caratterizza possiamo combattere questo mondo che spaventa, saltare questi ostacoli che sembrano sempre troppo fuori dalla nostra portata, e rimettere in sesto queste gambe troppo lente per tenere il passo, faticoso e pericoloso, di questa società sempre in crescita per poi ripartire, magari, per una nuova corsa. Allora perché non fare della musica la propria musa ispiratrice nelle giornate più nere e difficili? Perché non utilizzarla per esprimere se stessi e dar voce a quella parte più intima di noi stessi? La musica, come qualsiasi altra passione, è l’appiglio che ci salva da ogni tormenta. La voglia di farsi sentire grazie alla musica, ha vinto ancora!
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ALL’ ILVA NON ARRIVA BATMAN fedele marrano Io all´Ilva ci sono stato, più di una volta. Ho avuto la possibilità di vedere il tubificio, il treno nastri, l´area ossigeno, la cokeria, sono stato anche su un altoforno. Ricordo che la prima volta é stato come entrare in una sorta di Gotham City. Un´estensione pari a 2,5 volte la città di Taranto, il più grande polo siderurgico d´Europa. Tutto é esageratamente grande, imponente, rumoroso. E´come un gigante che respira, sembra quasi di entrare in un polmone di un fumatore accanito, che però conserva le sue energie e funzioni. E´tutto vero quello che si legge sui giornali o che si vede nei dossier, nei documentari. L´aria ha un odore particolare e il cielo ha un colore grigio, anche quando non ci sono nuvole. E´vero che senti le polveri nel naso, quelle polveri nere che gli abitanti del rione “Tamburi” chiamano “il minerale”. E´tutto vero. Il caso Ilva ha qualcosa di drammatico, un non so che di terribile che descrive forse meglio di altre metafore, quella che é la condizione dell´uomo in questo
nostro tempo, in questa nostra società. Un popolo intero combatte per poter tornare a lavorare, disposto anche a trascurare il rischio che ciò comporta per la propria salute. Prima ancora di parlare di soluzioni politiche e tecniche, credo sia il caso di parlare di quello che é diventato l´uomo. Sono cresciuto leggendo i filosofi della scienza che ci ripetevano fino allo stremo che l´uomo é il fine, la tecnologia é il mezzo. In un caso simile non saprei dire se l´uomo é il fine, o semplicemente il tutto porta l´uomo alla fine. Vivere per lavorare, lavorare per vivere, lavorare con il rischio di ammalarsi, ammalarsi perché non si lavora. E´comprensibile il volere delle famiglie dei lavoratori, cosi come lo é la posizione di chi ha deciso di porre uno stop deciso, per trovare una soluzione. Il caso Ilva é l´emblema di quanto siamo disposti ad abbassare la linea della nostra dignità, del rispetto che abbiamo per noi stessi. Siamo pronti ad accettare tutto, pur di portare a casa i soldi che poi la moda, la pubblicità, i “poteri forti” ci dicono
come dobbiamo spendere. E´come essere derubati due volte, del denaro, della nostra salute, del nostro essere. Nelle favole migliori arriva il supereroe, il Batman di turno che sconfigge il potere oscuro e riporta la serenità nelle genti. Nelle nostre città non arrivano i supereroi, anche perché i costumi si indossano per le feste di regione, i Batman sono sovrappeso e più interessati a spartirsi la torta dei soldi pubblici. E´ di questi giorni la notizia dell´approvazione del decreto per il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio di Taranto. Un decreto che porterà non pochi danari in quell´area. In un paese in cui spesso l´immobilismo politico la fa da padrone, credo che si possa essere soddisfatti. Ci sarebbe voluto un decreto per “il riposizionamento dell´uomo”, ma si sa queste cose succedono solo nelle favole, quelle con i veri supereroi.