I L M A G A Z I N E D I VA L S A N A SET | OTT 2019
SOMMARIO
EDITORIALE DI MARTINA ISEPPON
SELEZIONE DI SAPORI: Il magazine di Valsana Team editoriale: Giulia Bassetto, Giulia Basso, Alessandro De Conto, Matteo De Santi, Elisa Magro, Danilo Gasparini, Martina Iseppon, Anna Maria Pellegrino Direttore: Giulia Basso In copertina: Simone Sargentoni de Il Fiorino con le figlie Sofia e Valentina Foto di Beatrice Mancini Editore: Valsana srl Via E. Maiorana 3/A - Santa Lucia di Piave TV Registrazione Tribunale di Treviso n. 2422 del 28/04/2017
Si avvicina l’autunno, il periodo più fertile dell’anno per il nostro settore e anche quello più impegnativo. Lo affrontiamo nella nuova sede di Godega di Sant’Urbano, dopo un primo semestre che ci ha fatto sudare, tra cambiamenti organizzativi e trasloco. Lo affrontiamo con energia, e ripartiamo a mille già in questo numero con diverse novità e proposte. Innanzitutto vi presentiamo un nuovo produttore, entrato di recente a far parte della nostra squadra: il Salumificio Meoni di Montale, un paese nella valle dell’Ombrone ai piedi degli Appennini in provincia di Pistoia, guidato da Elena Meoni, custode della centenaria tradizione norcina della famiglia. Restiamo in Toscana, a Roccalbegna, in provincia di Grosseto, per raccontarvi la visita alla Grotta del Fiorini, e due nuovi formaggi stagionati nella cantine naturali di Angela e Simone: il Pecorino Grotta del Fiorini e il Cacio di Caterina, il “cacio delle donne”. Abbiamo poi un grande ritorno, quello del
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Mandarone di Enzo Recco, premiato da Gambero Rosso come migliore provolone italiano. E alcune novità dal Salento, per completare la gamma dei prodotti de I Contadini. Ma è un numero ricco anche di contenuti: dalla storia del Baccalà di Danilo Gasparini al viaggio del mais di Vittorio Castellani, dal Sud America alla Valle d’Aosta, passando per un approfondimento sui formaggi dell’Alta Savoia e una riflessione sulle virtù degli alpeggi. Non mancano le ricette e suggerimenti in cucina, dalle allegre proteine dei legumi di Anna Maria Pellegrino, agli abbinamenti con il Quartirolo di Matteo De Santi, ai suggerimenti su come fare un tagliere di formaggi di Giulia Bassetto. Buona lettura,
Martina Iseppon
SOMMARIO SETTEMBRE | OTTOBRE 2019
VIAGGIO IN TOSCANA | LA GROTTA DEL FIORINI | SALUMIFICIO MEONI
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NOVITÀ | UN PROVOLONE DA PODIO | NOVITÀ SALENTINE
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SOSTENIBILITA’ E AMBIENTE | LE VIRTÙ DELL’ALPEGGIO
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GEOGRAFIA DEL GUSTO | L’ALTA SAVOIA 14 INTERVISTA AL PRODUTTORE | SALUMIFICIO MEGGIO
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COME SI FA? | UN TAGLIERE, PER FAVORE!
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CIBO DAL MONDO | IL LUNGO VIAGGIO DEL MAIS 23 OSIAMO L’ABBINAMENTO | QUARTIROLO DOP, IL QUARTO PASCOLO
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BOCCONI DI STORIA | SEI UNO STOCCAFISSO!
28
NOVITÀ DA VALSANA | CHEESE 2019 | VALSANA 3.0
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LA CUCINA DI QB | LE ALLEGRE PROTEINE DEI LEGUMI
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LA GROTTA DEL FIORINI
VIAGGIO IN TOSCANA
Un viaggio a Roccalbegna, un antico borgo medievale alle pendici del monte Amiata, per incontrare Simone e Angela del Caseificio Il Fiorino e visitare la cantina naturale dove stagionano i loro formaggi top di gamma
Martina Iseppon è laureata in Economia e Commercio a Venezia ed è Responsabile Marketing in Valsana dal 2003
“Chiudi la porta della grotta che entrano i moschini e si mangiano il cacio!” mi rimprovera Valentina, la figlia più piccola di Angela Fiorini e Simone Sargentoni. E’ lei assieme a Sofia, la sorella maggiore, a farci da guida nella visita alla grotta della famiglia Fiorini. Piccine, ma con un bel piglio, l’orgoglio di raccogliere l’eredità della famiglia Fiorini e la consapevolezza del valore dei formaggi che ci stanno mostrando. Dopo aver dormito a Grosseto ci lasciamo la città alle spalle e (in)seguiamo Simone tra le colline toscane, cercando di stare al passo della sua guida sportiva. Raggiungiamo Roccalbegna, uno storico borgo medievale, alle pendici del Monte Amiata, incastonato tra aspri speroni carsici, come il celebre Sasso, che fa da sfondo all’antica Rocca.
RISERVA DEL FONDATORE Pecorino di grandi dimensioni, prodotto con latte pastorizzato della Maremma, stagionato 4 mesi in cella e 6-8 mesi in grotta. Il gusto è dolce e persistente, con note vegetali e di frutta secca cod 31340 | peso 20 kg circa Ordine minimo 1/8 di forma
La Grotta del Fiorini si trova ancora oggi all’ingresso di questo antico borgo. “Casa e bottega”, come si usava un tempo. La palazzina, dove abita la mamma di Angela, nasconde infatti sul retro “il caveau” di famiglia: ricavata negli anfratti rocciosi a cui è addossato l’edificio, ecco l’ingresso della grotta dove vengono stagionati i formaggi. La grotta è stata ristrutturata e ampliata di recente, sfruttando i locali del vecchio stabilimento. Il caseificio si trova invece poco più avanti, dopo il centro storico di Roccalbegna, in località Paiolaio, in un moderno stabilimento di tremila metri quadri. Visitiamo innanzitutto il caseificio. Scendiamo dall’auto e respiriamo la pace delle colline, lo sguardo che si perde tra pascoli, prati, boschi e ulivi, mentre le cicale ci ricordano che è piena estate.
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Per entrare nel caseificio passiamo dal negozio, che è allo stesso tempo un punto vendita dove si possono acquistare i formaggi di famiglia, oltre a tante altre specialità della Maremma, ma anche uno spazio che racconta la storia dei Fiorini, attraverso le numerose foto e i premi incorniciati con cui sono tappezzate le pareti. “La famiglia Fiorini ha origini toscoromagnole” - racconta Simone. “Francesco Fiorini, battezzato a Roccalbegna nel 1812, fu probabilmente il primo della famiglia ad acquistare proprietà agricole in Maremma e a dedicarsi all’allevamento di ovini. Nel 1925 un suo discendente, Ferrero Fiorini, sposò Caterina Pandolfi di Roccalbegna, incrementò gli affari e aprì una bottega in paese. Ebbe due figli, tra cui Duilio, papà di Angela, che fondò nel 1957 l’attuale caseificio Il Fiorino: una vecchia caldaia, conservata come un cimelio d’antiquariato, mostra lo storico punzone con la data di fondazione dell’azienda”. L’attuale caseificio è stato realizzato nel 1989 ed è gestito da Angela e Simone: un’azienda che ha saputo crescere gradualmente negli anni e che oggi dà lavoro a circa 30 persone. Angela e Simone sono riusciti a far conoscere e far apprezzare a livello internazionale i prodotti caseari dei Fiorini di Roccalbegna, conservando allo stesso tempo genuinità e artigianalità dei prodotti. Ne sono una testimonianza i numerosi premi internazionali vinti dai loro formaggi. Per citare solo gli ultimi: 7 medaglie al World Cheese Awards a Bergen in Norvegia, nel novembre del 2018, di cui due Super Gold (il riconoscimento più prestigioso) e un premio come migliore azienda Italiana in concorso.
Come spesso accade, uno dei principali punti di forza dei formaggi dei Fiorini è la materia prima: il latte proviene esclusivamente dalla Maremma, da allevamenti locali selezionati. Una cinquantina di produttori, quasi tutti situati in provincia di Grosseto, con una media di 250-400 pecore in lattazione. Roccalbegna, Saturnia, Semproniano, Scansano, Arcidosso, Cinigiano, Campagnatico e Grosseto; luoghi vocati alla tradizione agricola già in epoca etrusca, e dove fortunatamente ancora oggi, grazie a questo, è stato mantenuto pressoché intatto il paesaggio collinare. Il latte viene raccolto tutti i giorni con mezzi di proprietà e portato in caseificio dove inizia la lavorazione. Dopo un’analisi interna, viene definito il tipo di formaggio da realizzare in base alle caratteristiche del latte. Il caseificio lavora in media 120-130 quintali di latte al giorno, la produzione più importante avviene tra marzo e luglio, nel rispetto della stagionalità del ciclo di lattazione delle pecore.
La salatura viene fatta a a secco, con sale di Volterra, rigorosamente a mano, come ogni altra operazione: lavaggio, spazzolatura, giratura. I formaggi passano i primi 15-20 giorni di vita in una prima cella di maturazione, dove vengono girati settimanalmente, per favorire l’uscita dell’umidità e la regolare formazione della crosta. Passano quindi in una seconda cella, dove vengono lavati e messi a stagionare su tavole di legno. Infine, una volta raggiunta la stagionatura desiderata, vengono spazzolati e trasferiti nelle casse di plastica in una terza cella di maturazione, dove restano fino alla spedizione. Fanno eccezione tre formaggi: Riserva del Fondatore, Cacio di Caterina e Grotta del Fiorini, che dopo 3-4 mesi di maturazione in cella vengono trasferiti in grotta per l’affinamento. Fiore all’occhiello de Il Fiorino, sono tutti “numerati”. Del pecorino Riserva del Fondatore, ad esempio, nel 2018 sono state prodotte 5.400 forme, 4.300 finora nel 2019. VALSANA | 05
Angela Fiorini è figlia di Duilio, fondatore de Il Fiorino. Assieme al marito, Simone Sargentoni, è riuscita a far conoscere in tutto il mondo il cacio dei Fiorini di Roccalbegna, ottenendo moltissimi riconoscimenti a livello internazionale.
VIAGGIO IN TOSCANA
NOVITÀ
PECORINO GROTTA DEL FIORINI Pecorino stagionato 3-4 mesi in cella e successivamente affinato per 4-5 mesi in grotta. Ha un gusto dolce, con note vegetali e di cantina. Al palato presenta una buona solubilità e una buona persistenza cod 31349 | peso 1,8 kg
Formaggio creato da Angela e Simone e dedicato a Duilio Fiorini, il pecorino Riserva del Fondatore è un riconoscimento al papà di Angela per aver lasciato loro la gestione di questa prestigiosa realtà. Formaggio per antonomasia del caseificio, uno dei prodotti più premiati e apprezzati dell’azienda, viene prodotto con latte ovino pastorizzato e affinato in grotta almeno cinque mesi. La visita alla grotta ci offre però l’opportunità di assaggiare altri due formaggi stagionati nelle cantine naturali della famiglia. Il primo che assaggiamo è il Pecorino Grotta del Fiorini, un cacio della tradizione contadina toscana, ma con una personalità spiccata che solo un lungo affinamento in grotta a temperatura e aereazione naturale possono donare. La crosta presenta delle muffe bianco-grigie dovute alla stagionatura, la pasta è compatto ma solubile, con un’occhiatura minuscola ben distribuita. Il VALSANA | 06
sapore è dolce, con note vegetali e di cantina, lungo e persistente. Ma il formaggio che più mi incuriosisce è “il cacio delle donne”: il Cacio di Caterina, omaggio a Caterina Pandolfi, moglie di Ferrero e madre del fondatore de “Il Fiorino”, ma omaggio anche alla tradizione toscana e alla sua antica arte casearia al femminile. In Toscana infatti erano le donne a fare il formaggio davanti al focolare “a vegliatura”, con il latte appena munto e ancora fragrante. E proprio il Cacio di Caterina è il formaggio che prendono in mano Sofia e Valentina quando chiediamo loro di fare una foto nella grotta. La prossima generazione di donne de Il Fiorino, sotto la guida silenziosa ma attenta di mamma Angela. Parla poco Angela, lascia che sia Simone a farci da guida, ma nei gesti e nelle parole si percepisce un legame vivo e intenso con la famiglia, il caseificio, il territorio: tanti fili di un’unica tessitura.
E’ bello scoprire, nella chiacchierata con Angela, che Il Fiorino è stato premiato da Legambiente come una delle 100 esperienze virtuose del Paese per la capacità di innovazione e sviluppo sostenibile, grazie all’impianto fotovoltaico, il depuratore e altri interventi orientati all’autoproduzione secondo il modello dell’economia circolare. “La nostra passione è fare formaggi” - ci dice Angela. “Ogni giorno lavoriamo mettendoci il cuore, la professionalità e un bagaglio di esperienza che arriva da molto lontano. Far crescere Il Fiorino significa anche migliorare il territorio nel quale lavoriamo e viviamo. Non si tratta soltanto di ottimizzare dei costi o di una generica sensibilità verso i temi ambientali. Siamo convinti che per fare prodotti di eccellenza occorra vivere in un territorio di eccellenza. E noi, nel nostro piccolo e per quanto possibile, continueremo a farlo”.
Ne è testimonianza anche la scelta di restare a Roccalbegna, sia con la famiglia che con il caseificio, nonostante la possibilità di trasferirsi in città: un comune di 970 abitanti nella classe di Sofia ci sono solo due bambini una scelta affettiva per certi versi, coraggiosa per altri, che contribuisce a mantenere vivo uno dei tanti piccoli borghi del nostro Paese che si stanno spopolando. Concludiamo la visita nel garage di casa Fiorini: non potevamo partire senza vedere la nuova moto di Simone, regalo che gli ha fatto Angela per il suo cinquantesimo compleanno. “Così ogni tanto si lascia le bimbe ai nonni e io e Angela andiamo a farci un giro sulle colline” - mi fa l’occhiolino Simone. Che dire? Da una bella famiglia, in un bel posto, non possono che nascere dei bei formaggi. Reportage fotografico di Beatrice Mancini
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NOVITÀ
CACIO DI CATERINA Il cacio delle donne, omaggio alla tradizione toscana dove un tempo erano le donne a fare il formaggio. Stagionato 3-4 mesi in cella e 5-6 mesi in grotta, è dolce, con note fruttate e vegetali, di mandorla cod 31347 | peso 5 kg circa Ordine minimo 1/2 forma
SALUMIFICIO MEONI
VIAGGIO IN TOSCANA
Salame toscano, Coppa di testa, Arista e Prosciutto Toscano D.O.P A produrli è il Salumificio Meoni, norcini da oltre un secolo. Vi raccontiamo una giornata a Montale e una piacevole chiacchierata con Elena Meoni...
Giorgia Barbaresco è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari a Udine ed è Responsabile Qualità in Valsana dal 2007
NOVITÀ
PROSCIUTTO TOSCANO DOP Coscia di dimensione importanti e stagionatura minima di 18 mesi cod 79190 | peso 9,5 Kg circa cod 79191 | peso 9 Kg circa disossato
Siamo a Montale, un paese nella valle dell’Ombrone ai piedi degli Appennini in provincia di Pistoia. Ed è proprio in centro a Montale che si trova il Salumificio Meoni, accanto alla tipica piazza alberata con l’immancabile gruppetto di signori anziani seduti sulle sedie di legno fuori dai bar, che si raccontano i fatti delle ultime ore distratti solo dal passaggio di questa auto di forestieri. Ad accoglierci c’è Elena Meoni, è a lei che spetta il duro compito di difendere la storia della sua famiglia, norcini da oltre un secolo. E’ una storia che abbiamo sentito altre volte, fatta di sacrifici e fatiche per poter tramandare tradizione e conoscenza che devono fare i conti con rigide norme igieniche obbligando il produttore a investimenti importanti per adeguare le strutture, ma il sorriso di Elena mentre ci mostra i suoi prodotti in vendita nella sua macelleria racconta quanto sia soddisfatta e orgogliosa della sua scelta. Siamo in Toscana, dove l’accoglienza passa anche e soprattutto attraverso il cibo, quindi a darci il benvenuto, oltre a tutta la squadra e una magnifica cartolina di Fausto Coppi con tanto di dedica “A Elio Meoni per le sue bistecche extra” appesa al muro, troviamo un fantastico piatto di salumi tutti prodotti in azienda. Prosciutto Toscano, Coppa di Testa, Sbriciolona, Salame Toscano, Capocollo, Pancetta cotta, Arista, un piacere per gli occhi e per il palato, inizia così l’incontro!
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Dai primi assaggi capiamo che ogni fetta porta con sé un pezzo di storia della famiglia Meoni. Elena inizia il suo racconto parlandoci di quando il bisnonno, norcino della zona, andava direttamente nelle case di chi allevava maiali per la macellazione e la preparazione di salumi, attività piuttosto diffusa all’epoca tramandata anche al figlio Elio, nonno di Elena, che a sua volta insegnò ai figli Roberto e Dante. La macellazione, la preparazione di salumi e la vendita di carni fresche locali diventò fin dagli anni ‘50 l’attività della famiglia proprio in centro a Montale. E’ piuttosto strano trovare salumifici nei centri urbani e ancor più un macello, infatti negli ultimi trent’anni la famiglia ha dovuto prendere decisioni faticose, a volte obbligate, per poter mantenere la produzione esattamente dove ha avuto origine. Negli anni ‘90 dovettero rinunciare a travi in legno, pareti in mattone e finestre negli ambienti di stagionatura, e pensare che il nonno aveva scelto quel posto proprio per la vicinanza con il torrente Settola, microclima ideale per la stagionatura del prosciutto. Nel 2009 venne chiuso il macello, scelta difficile da accettare perché la selezione della carne è un requisito essenziale per poter ottenere salumi buoni. “Certo non possiamo più valutare l’animale da vivo, ma per noi è fondamentale scegliere la carne” dice Elena, quindi il passaggio naturale è stato quello di acquistare le mezzene solo di allevatori locali o comunque
toscani che conoscono per poter garantire la carne migliore. L’attenzione alle materie prime tuttavia non riguarda solo la cura nella selezione delle carni, ma anche delle spezie; Elena infatti su questo aspetto è rigorosa, vuole solo quelle che ritiene le migliori, le stesse che usava il nonno, quelle della nota Drogheria Giuseppe Ciappi, pepe in grani macinato al momento, poco prima dell’utilizzo ed infine il rosmarino, esclusivamente fresco e coltivato da loro. Visitando il salumificio si nota che la struttura è datata, ma è tutto ordinato, pulito e profumato, aspetti ai quali la deformazione professionale mi ha reso sensibile; ci sono anche dei pezzi storici come la caldaia a vapore del 1978 ancora perfettamente funzionante e utilizzata per la cottura dei pezzi destinati alla preparazione della coppa di testa e per la cottura di pancetta e arista.
NOVITÀ
Le piastrelle verde acqua alle pareti e rosso mattone sul pavimento, la scala interna e il corridoio che conduce alle celle di stagionatura in graniglia, tutto parla degli anni in cui il salumificio è stato costruito, ma le destinazioni d’uso sono variate nel tempo. Lasciamo questo edificio emozionati, un misto di nostalgia e desiderio di raccontare quanto abbiamo visto perché tutto questo non venga perduto, sogniamo nel nostro piccolo di contribuire a preservare quest’arte che si “impara facendo”.
NOVITÀ
NOVITÀ
SALAME TOSCANO
COPPA DI TESTA
ARISTA COTTA
Comoda questa piccola versione di Salame Toscano, impasto di grana media, molto solubile
Cotta ancora oggi in una caldaia a vapore d’altri tempi, profumatissima!
Lonza suina cotta nella sugna e leggermente conciata con erbe e spezie
cod 79193 | peso 500 g circa
cod 79194 | peso 5 kg circa
cod 79192 | peso 400 g circa
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SALUMIFICIO MEGGIO
INTERVISTA AL PRODUTTORE
Ezio Meggio, norcino nel Dna, ci racconta le conquiste e le difficoltà di un lavoro che adora
Giulia Basso è giornalista collaboratrice de Il Piccolo di Trieste e direttore responsabile del nostro magazine, Selezione di Sapori, dal 2017
Siamo nel piccolo borgo di Grigno, nella Valsugana orientale. Sulla via che dal paese porta alla località di Selva, immerso nel verde, con boschi e cascate alle spalle, sorge il laboratorio di Roberto Meggio, storico produttore di salumi trentini che opera da oltre 50 anni nel settore della macelleria. Risale infatti al 1962 l’inizio della sua attività commerciale, con l’apertura di una piccola bottega nel centro di Grigno che tuttora è una tappa imprescindibile per gli amanti dei salumi e delle carni di qualità. Oggi l’attività avviata da Roberto, che a sua volta apprese l’arte della
norcineria dal nonno, è gestita dai suoi figli, Ezio e Nicoletta, che proseguono con dedizione il lavoro di famiglia. L’azienda propone un’ampia gamma di salumi tipici, prodotta utilizzando tutte le parti del maiale nel rispetto della tradizione contadina del territorio, con ingredienti genuini e ricette tramandate da generazioni. “Siamo una piccola realtà che, a differenza della grande distribuzione, si confronta quotidianamente con la gente: tutti i piccoli cambiamenti apportati in questi anni nella lavorazione dei nostri prodotti e nella selezione delle materie prime sono il risultato di un ascolto attento delle esigenze della clientela, che inevitabilmente sono cambiate nel tempo”, sottolinea Ezio Meggio, che in quest’intervista ci racconta le conquiste e le difficoltà di un lavoro che adora.
La norcineria è nel Dna della vostra famiglia. Chi ha dato il via a questa tradizione? Ad avviarla è stato il nonno di mio padre, che girava per i paesi del circondario offrendosi per macellare i maiali delle diverse famiglie e lavorarne le carni. Mio padre l’ha seguito nel suo lavoro fin da ragazzino, per poi continuare a fare esperienza in una grossa macelleria di Levico. Quindi, con l’aiuto del suo datore di lavoro che gli era molto affezionato, a 23 anni ha acquistato la macelleria di Grigno, visto che gli eredi non volevano proseguire l’attività paterna. Così è iniziata la sua avventura di macellaio salumiere. All’epoca il macello era a due passi dalla bottega, nel centro di Grigno, e il laboratorio sotto casa: quando gli animali venivano scaricati per essere condotti al macello passavano tra le abitazioni e per i più giovani era uno spettacolo da non perdere. Quand’è che l’attività è stata spostata nella sede attuale, all’esterno del paese? Tra gli anni ’70 e ’80, quando io ero ancora un ragazzino, ci sono stati molti cambiamenti. Prima per questioni igieniche il macello è stato spostato all’esterno del paese, quindi abbiamo dovuto chiuderlo perché le nuove norme antinquinamento delle acque non ci consentivano più di tenerlo aperto: a quel tempo per Grigno non passava la fognatura e si scaricava direttamente nel fiume, perciò nonostante avessimo vasche di decantazione e un depuratore ci sconsigliarono di proseguire questa attività. Nel frattempo espandemmo il laboratorio e ci attrezzammo acquistando delle celle che rendevano possibile il controllo della temperatura e dell’umidità: prima mio padre s’arrangiava affittando tutte le cantine del paese per stagionare e conservare i salumi. Infine, negli anni
’80 ci trasferimmo nell’attuale laboratorio e poiché non avevamo più la possibilità di macellare gli animali in loco ci affidammo ad alcuni macelli trevigiani, vicentini, padovani e poi anche della zona di Reggio Emilia e di Parma. Ci accorgemmo che oltre a essere più conveniente anche la qualità delle carni era migliore e ci permetteva una maggiore scelta. Qual è stato il vostro primo prodotto e come siete arrivati all’ampia gamma che oggi vi contraddistingue? Il primo in assoluto è stata la Luganega, che produciamo ancora oggi seguendo la ricetta del nonno di mio padre, così come il cotechino. Ma visto che avevamo i maiali interi, provammo a cimentarci anche col resto: speck, pancetta affumicata, soppressa. I prodotti di lunga stagionatura consentono una maggiore flessibilità e oggi, grazie alle moderne celle, possiamo lavorare tutto l’anno. Un tempo invece il lavoro era stagionale: sul fresco non c’erano problemi, ma per gli insaccati come il salame o la soppressa la lavorazione poteva essere soltanto autunnale, perché dipendevamo dalla temperatura esterna. Quali sono le caratteristiche del territorio di produzione? Il nostro laboratorio si trova a circa 350 metri sul livello del mare, in mezzo alla natura, tra boschi e cascate. Anche se abbiamo delle celle che consentono di impostare temperatura e umidità l’aria che si respira all’esterno e la sua temperatura contano. Da settembre ad aprile gli sbalzi termici, anche tra giorno e notte, sono minimi: ciò ci consente di lavorare molto bene. VALSANA | 11
“Preparo i salumi come se fossero per me e per la mia famiglia. Non utilizziamo nessun tipo di colorante, starter o farina ” Ezio Meggio
INTERVISTA AL PRODUTTORE
Come selezionate le vostre materie prime? La qualità delle carni è ovviamente il punto di partenza fondamentale: in base al tipo di produzione selezioniamo il macello più adatto e quando troviamo una carne particolarmente buona premiamo, letteralmente, i nostri fornitori. Anche per le spezie cerchiamo di trovare i migliori fornitori sul mercato e di farcele arrivare in piccole confezioni, da consumare rapidamente in modo che il profumo e l’aroma si mantengano inalterati. Fate uso di conservanti o coloranti nei vostri salumi? Non utilizziamo nessun tipo di colorante, starter o farina. Ma i conservanti, a piccole dosi, preferisco usarli: la catena del freddo una volta usciti dal nostro laboratorio, nei negozi e nelle abitazioni private, non è sem-
pre impeccabile: ci possono essere dei punti critici. La chimica ci aiuta a far partire la fermentazione, che è l’essenza della stagionatura, nel modo migliore: così si elimina l’eventuale acidità che si può creare se la fermentazione è tardiva e si mantiene il colore della fetta o della carne. Ma la quantità di nitriti e nitrati che utilizziamo è ridotta all’osso, tanto che a fine stagionatura non ne rimane quasi traccia. Qual è la vostra filosofia produttiva? Preparo i salumi come se fossero per me e per la mia famiglia. Seguo i miei gusti, ma ascolto sempre anche i pareri dei clienti: i cambiamenti che ho apportato ai prodotti in questi ultimi anni sono sempre stati dettati dalle esigenze della gente. E’ un lavoro molto lungo, perché ci vogliono mesi di prove per arrivare al risultato desiderato, che poi va verificato sul campo.
scelti per voi...
SALAME CON AGLIO
SALAME SENZ’AGLIO
SOPRESSA MEGGIO
SPECK FESA
Di grana media e impasto piuttosto omogeneo. Dolce e solubile, l’aglio è più presente al naso ed è in equilibrio con il sapore della carne
Di grana media e impasto piuttosto omogeneo. Dolce e solubile, spicca il sapore della carne e la speziatura non è mai eccessiva
Prodotta con carne di suini nazionali, è dolce ed equilibrata, il sapore della carne non viene sovrastato dalle spezie
Leggermente sapid ra realizzata con le presente ma equilib scono anche note d
cod 80120 | peso 500 g circa
cod 80121 | peso 500 g circa
cod 80122 | peso 1,5 kg circa
cod 80123 | peso 2
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I gusti delle persone si evolvono continuamente e noi cerchiamo di assecondarli: per esempio rispetto a una volta oggi la macinatura è più sottile e le carni che utilizziamo più magre, perché la gente preferisce salumi meno grassi. E anche la quantità di sale che impieghiamo è diminuita molto negli anni, almeno del 10%. Lo stesso vale per gli aromi, che sono sempre gli stessi ma in quantità ridotte rispetto a un tempo. Abbiamo apportato delle modifiche anche nella stagionatura, perché i clienti preferiscono un salame, una luganega o una soppressa più morbidi. Quante persone lavorano oggi per la vostra azienda? In negozio e in salumificio, oltre a me e a mia sorella, lavorano una decina di collaboratori. Per la vendita ci affidiamo ancora al passaparola e al contatto diretto, oltre che a un’azienda consolidata come Valsana, che possiede una rete capillare di clienti molto attenta alla qualità dei prodotti.
do, l’affumicatuegno di faggio è brata si percepidi ginepro kg circa
Tra i vostri prodotti spicca uno squisito Speck Fesa, dal caratteristico sapore leggermente affumicato. Qual è il segreto di una buona affumicatura? Utilizziamo il fumo di legno di faggio per affumicare, che sprigiona un aroma delicato e leggermente dolce, perfetto per il nostro Speck. E il Pastin? Cos’è e come si utilizza? Il Pastin è una specialità tipica del bellunese: non c’è sagra dove non si trovi, servito nel classico panino. Si può gustare spalmandolo a crudo sul pane o cucinandolo alla griglia. Per prepararlo usiamo lo stesso impasto della Luganega fresca, ma lo lavoriamo tutto a freddo, con un risultato diverso a livello di gusto. Lo proponiamo “in tubo”, insaccato in budello, oppure confezionato in fette già tagliate.
LUGANEGA
PANCETTA AFFUMICATA
PASTIN
Il fiore all’occhiello della produzione dei fratelli Meggio. La grana è media e la forma leggermente curva. Dolce, con aroma di spezie
Leggermente speziata con un profumo di cannella pronunciato; in bocca è dolce, con e una sensazione di affumicato appena accennata
Tipico impasto di carne di suino aromatizzata da cuocere alla piastra. La speziatura è delicata e non copre il sapore della carne, ma la esalta
cod 80124 | peso 250 g circa
cod 80125 | peso 1,5 kg circa
cod 80126 | peso 200 g circa cod 80127 | peso 3 kg circa
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UN PROVOLONE DA PODIO Un formaggio emozionale, complesso, e di grande personalità. Così il Gambero Rosso descrive il Mandarone di Enzo Recco, premiandolo con il primo posto sul podio dei migliori provoloni Italiani
NOVITÀ
Lo producono in provincia di Cremona, ma per ben diciotto mesi viene stagionato a Formia, in provincia di Latina dall’affinatore Enzo Recco. Questa sua migrazione verso sud, lontano dal suo territorio d’origine, non gli concede la possibilità di usufruire della denominazione Provolone Valpadana DOP. Sta di fatto però che come il suo non ne abbiamo proprio assaggiati altri. Stagionare in un ambiente totalmente diverso da quello di origine può apparire scoraggiante per un formaggio. Non in questo caso, perchè i provoloni ritornano proprio nel luogo culla delle paste filate e perchè colui che se ne prende cura è un intenditore appassionato di formaggi, un papà dei provoloni, che li adotta e con maestria li fa crescere. Enzo Recco, da sempre si reca a Cremona per trovare provoloni di grandi dimensioni, che trasferisce poi a Formia dove, come dice lui, “ci sono il giusto clima, la giusta umidità, la giusta temperatura e... il giusto mestiere”, che è il suo, di appassionato affinatore e maestro stagionatore di formaggi. Produce il suo Mandarone solo nei mesi invernali, utilizzando latte vaccino intero e caglio di capretto. La stagionatura viene effettuata al buio, a temperatura ed umidità rigidamente controllate. Il risultato è un formaggio che presenta una crosta liscia e un sottocrosta abbastanza evidente. La pasta è di colore paglierino intenso, tendente al rosato nel prodotto più stagionato. I profumi richiamano il latte, l’animale e la stalla, il pascolo, il fieno e i fiori, la frutta fermentata, la cantina. Il gusto è intenso e pieno, molto sapido e giustamente piccante. Disponibile in due versioni: lo stagionato 16/18 mesi, e lo stagionato 24/26 mesi...da podio!
MANDARONE RECCO
NOVITÀ
cod 31321 | stagionato 16/18 mesi | 30 kg circa cod 31320 | stagionato 24/26 mesi | 30 Kg circa Ordine minimo 1/8 di forma
NOVITÀ SALENTINE Dal campo al vasetto nuovi sapori pugliesi: cipolla rossa delicata e croccante cotta in vaso, melanzana alla crudaiola, due varietà di olive verdi da mensa, Bella di Cerignola e Termite di Bitetto
NOVITÀ
NOVITÀ
PINK - CIPOLLA AGRODOLCE
MELANZANE ALLA CRUDAIOLA
Dolce, delicata e croccante, lavorata dal fresco e cotta in vaso, conserva tutte le proprietà organolettiche della cipolla rossa
Sapore deciso e stuzzicante, ottime come antipasto ma anche per condire panini, tramezzini e le tipiche friselle
cod 94510 | vaso da 520 g cod 94511 | vaso da 1,6 kg
cod 94516 | vaso da 230 g cod 94517 | vaso da 1,6 kg
NOVITÀ
NOVITÀ
OLIVE BELLA DI CERIGNOLA
OLIVE TERMITE DI BITETTO
Tipiche olive pugliesi verdi ‘Bella di Cerignola’ dal sapore dolce e leggermente erbaceo
Varietà autoctona pugliese di grande calibro saporita e polposa, ideale da aperitivo
cod 94512 | vaso da 550 g cod 94513 | vaso da 1,6 kg
cod 94514 | vaso da 550 g cod 94515 | vaso da 1,6 kg VALSANA | 15
UN TAGLIERE, PER FAVORE! Come fare la selezione? Quando servirlo? Come presentarlo? Eccovi una piccola guida su come comporre un tagliere di formaggi Giulia Bassetto è laureata in Commercio Estero, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari a Venezia e si occupa di Marketing in Valsana
La nostra selezione per un tagliere di formaggi da degustare come dessert a fine estate:
COME SI FA?
GRILLO DI COLMAJOR PICCOLO Per noi che adoriamo i formaggi, ogni momento potrebbe rivelarsi perfetto per predisporre un piatto o un piccolo tagliere e abbandonarci, occhi chiusi, al piacere. Probabilmente esagero (o forse no?) ma la verità è che un tagliere di formaggi è una soluzione che si presta a molte occasioni: perfetto come aperitivo o antipasto, sempre più spesso diventa una portata vera e propria oppure un modo per terminare il pasto prima di passare al dessert, ma in realtà potrebbe anche prenderne il posto. Ecco che questa capacità di essere all’altezza delle varie situazioni, rende il formaggio in purezza un elemento unico e davvero versatile. Ma se il formaggio si adatta alle più diverse situazioni di consumo, noi dobbiamo essere gli abili fautori di selezioni che sappiano accompagnare i commensali in un percorso del gusto, che renda giustizia all’intero pasto. Quindi, che siate voi a proporre un tagliere nel vostro locale oppure che siano i vostri clienti a chiedervi dei consigli su quali formaggi acquistare per creare una selezione da urlo, ci sono alcuni accorgimenti che possono certamente tornare utili. 1 | IN QUALE MOMENTO? Come abbiamo anticipato, il momento di consumo suggerisce una prima direzione da prendere. È molto semplice, basta immedesimarsi nel cliente: se vi viene richiesto un tagliere come antipasto, l’obiettivo della portata sarà quello di stuzzicare l’appetito, senza generare sazietà, perciò le porzioni saranno contenute, non più di 4 pezzi di circa 15 g l’uno. Nella portata principale il tagliere assume invece un ruolo diverso, le quantità sono decisamente superiori e ci orientiamo sulle 6/8 porzioni da circa 30 g l’una. Nella selezione possiamo fare delle scelte di gusto articolate e abbondare con le proposte di abbinamento così da sviluppare un vero e proprio percorso gastronomico. Nel pre dessert il formaggio ha il ruolo di chiudere le portate salate più sostanziose e preparare il palato ai sapori dolci: torniamo quindi a poche porzioni di circa 15 g l’una. VALSANA | 16
Formaggio molle a latte crudo, a crosta fiorita cod 30568 | peso 500 g circa
PECORINO BALZE VOLTERRANE DOP Pecorino prodotto con latte crudo bio e caglio vegetale cod 30995 | peso 1,3 kg circa
BUFALA AL GLERA Formaggio a latte bufalino affinato con vinacce e vino cod 30659 | peso 6 kg circa Ordine minimo 1/4
GRUYÈRE AOP ALPAGE Selezione d’alpeggio prodotto nella Vallée de Joux cod 40726 | peso 30 kg circa Ordine minimo 1/32
VERDE DI MONTEGALDA BIO Erborinato veneto a latte misto caprino e ovino bio cod 21260 | peso 600 g circa
Se invece vogliamo sostituire il dessert, inteso nella sua accezione più classica, il nostro tagliere di formaggi avrà il ruolo di chiudere il pasto... Quindi largo anche ai gusti più intensi per chiudere in bellezza, tarandoci in termini di porzioni e di peso sulle quantità dell’antipasto. Ci siamo dimenticati qualcosa? Ah sì, il nostro amato aperitivo che negli ultimi anni dilungandosi fino alle 21 è diventato un vero e proprio pasto. E allora anche qui il tagliere di formaggi può diventare il protagonista e ci possiamo sbizzarrire nella selezione e con gli abbinamenti. 2 | LA SCELTA DEI FORMAGGI Il tema è ampissimo e il punto 1 ci dà già qualche suggerimento: se durante l’happy hour e nella portata principale possiamo permetterci scelte più ardite, durante l’antipasto è meglio non esagerare con i gusti troppo forti ma stuzzicare l’appetito con dei formaggi tendenzialmente a pasta morbida. L’esagerazione non premia nemmeno nel pre dessert, dove formaggi troppo grassi potrebbero rendere stucchevole la portata dolce successiva. Nel dessert invece, possiamo permetterci di stupire, così da chiudere il pasto con il “botto”. Un buon consiglio potrebbe essere quello di definire una linea di selezione per i formaggi, che può avere un carattere geografico con una proposta locale o al contrario che spazi oltre i confini nazionali o regionali; una scelta definita in base a particolari caratteristiche come il latte crudo, gli alpeggi, il caglio vegetale; una verticale dello stesso formaggio in diverse stagionature o una stessa tipologia interpretata in modi diversi. Avere un fil rouge da seguire per la selezione vi aiuterà a individuare con maggiore facilità i formaggi. Tenete d’occhio anche le stagionalità, sia per la disponibilità dei prodotti che per l’adeguatezza della proposta. Ad esempio, il ciclo di lattazione delle capre prevede la disponibilità del latte da febbraio a ottobre, quindi in inverno sarà più difficile trovare formaggi di capra freschi. Un altro esempio: una selezione di formaggi a crosta lavata molto intensi, se proposta in piena estate, potrebbe non soddisfare troppo il cliente! In ogni caso ricordate che l’importante è l’armonia della proposta nel suo complesso. 3 | LA PRESENTAZIONE Il tagliere di formaggi rappresenta un viaggio nel mondo caseario, perciò vi consigliamo di fornire ai vostri clienti tutte le informazioni necessarie per godere appieno dell’esperienza, a voce o con dei cartellini, delle scritte o altre soluzioni grafiche, informando almeno su tipologia, provenienza e stagionatura dei formaggi. Inoltre, date indicazione della sequenza di assaggio consigliata: si parte con i formaggi più delicati e si conclude con quelli dai sentori più persistenti. Infine, rendete il tagliere esteticamente gradevole per convincere subito anche l’occhio, che è il primo senso a venire sollecitato. Scegliete un supporto in linea con lo stile del servizio, non è importante il materiale di cui è fatto, l’importante è che sia adatto per gli alimenti e che metta in risalto e valorizzi i formaggi scelti. Se lo prevedete, organizzate la selezione sul tagliere anche con degli abbinamenti, così da rendere davvero completa l’esperienza offerta.
Cos’è? Per far sapere ai clienti cosa stanno per assaggiare: usate cartellini, scritte o altre soluzioni originali. Potete fare lo stesso anche per il carrello dei formaggi!
COME SI FA?
4 | GLI ABBINAMENTI Gli abbinamenti sono da curare con attenzione perché se ben scelti consentono di esaltare le caratteristiche dei formaggi e rendere l’assaggio davvero appagante. Quando parliamo di un tagliere di formaggi spesso il pensiero va diretto a miele, confetture e mostarde, ma possiamo proporre in abbinamento anche verdure, frutta fresca e frutta secca, magari posizionando ogni abbinamento suggerito vicino al relativo formaggio. E perché no, possiamo arricchire il tagliere anche con una bella selezione di salumi. Volete essere davvero originali? La nuova frontiera sono le bevande: noi abbiamo esplorato gli abbinamenti con vini, tè, birre, cocktail e liquori... Se siete preparati in materia, pensateci, la proposta sarebbe accattivante! In ogni caso, qualunque scelta facciate, l’importante è seguire le regole generali di abbinamento: gli elementi si devono valorizzare a vicenda, senza che uno sovrasti l’altro, scegliendo abbinamenti per concordanza o per contrasto. 5 | IL SERVIZIO E’ importantissimo servire i formaggi a temperatura ambiente, altrimenti non potranno sprigionare tutte le loro migliori caratteristiche. Se sono conservati sotto vuoto, inoltre, apriteli un po’ prima così che si ossigenino. Attenzione anche alle tempistiche: è da preferire un taglio espresso del formaggio, ma se scegliete di preparare le porzioni con un po’ di anticipo assicuratevi che il formaggio non si secchi e non si ossidi provvedendo a coprire il tagliere con una pellicola. Per quanto riguarda il taglio delle singole porzioni ci sono alcune regole da seguire: i formaggi hanno caratteristiche diverse al cuore della forma o vicino alla crosta, perciò le porzioni dovranno tutte prevedere la stessa proporzione di pasta e crosta. Detto questo i tipi di taglio e gli strumenti variano a seconda del formaggio: per i formaggi a pasta molto molle usate un coltello dalla lama molto sottile, oppure una spatola o un cucchiaio. I caprini freschi o simili, dalla pasta leggermente consistente, tagliateli a spicchi con la lira o con un coltello a lama molto sottile. Per forme rotonde a pasta più consistente, fino a semi dura e dura, ricavate dei triangoli oppure delle listarelle tagliando lo spicchio nel senso della larghezza, ricordandovi di rimuovere la crosta. Lo stesso vale per gli erborinati dalla buona consistenza, con l’unica differenza di usare un coltello a lama sottile; gli erborinati molto morbidi, invece, serviteli al cucchiaio. Formaggi rotondi a crosta fiorita tipo brie, tagliateli con l’ausilio di un coltello a lama sottile a piccoli spicchi che comprendano sia la parte centrale che quella esterna. Per le forme quadrate tipo taleggio consigliamo di partire dal quarto di forma e tagliare delle fette in senso verticale oppure dei triangoli. Infine, i formaggi a molto stagionati tipo Parmigiano Reggiano DOP andranno serviti a scaglie!
E la crosta? Vi consigliamo di lasciarla, così da mantenere l’identità del formaggio. Nei casi in cui questa presenti delle muffe, basterà raschiarla e ripulirla.
IL LUNGO VIAGGIO DEL MAIS Da dove arriva il mais? Come si prepara in giro per il mondo? Dall’altipiano andino fino alle nostre montagne, scopriamolo accompagnati da Vittorio Castellani
Il mais che oggi tutti usiamo sotto forma di farina per la preparazione della polenta o di dolci è il frutto di una pianta originaria dell’America latina, giunta in Europa grazie a Cristoforo Colombo. Vi racconto le sue origini e alcune ricette che ho scoperto nei miei viaggi in Messico e Perù... e in Valle d’Aosta! LE ORIGINI DEL MAIS Il mais sta all’America, come il riso all’Asia, il grano al Mediterraneo e il miglio all’Africa. Molte civiltà che basavano la propria alimentazione su un ingrediente, in questo caso su un cereale, spesso lo veneravano sotto forma di divinità. Visitando i musei archeologici di Città del Messico o di Lima ci s’imbatte in illustrazioni o sculture che raffigurano Cintéotl, Mama Sara o Chicomecóatl, solo per citare alcuni tra i più importanti Dei del Mais venerati dalle civiltà precolombiane di Maya, Incas e Aztechi. Per tutti questi popoli antichi la spiga di mais, insieme a pochi altri ingredienti come i pomodori, i fagioli e le patate, rappresentava la base dell’alimentazione e per questo era considerata sacra, al punto che diversi racconti mitologici farebbero discendere il genere umano proprio dalla sua pianta! Per alcuni si trattava di una divinità femminile, legata alla fecondità e alla riproduzione, per altri era maschile, per la forma fallica del suo frutto. La sua rilevanza era così importante che, a seconda del colore dei chicchi, la divinità poteva declinarsi in versioni e con poteri diversi. Nel calendario azteco ad esempio si tratta sempre di una figura femminile. Iztaccenteotl è la dea del mais bianco, Tlatlauhquicenteotl di quello rosso, Xoxouhquicenteotl di quello azzurro.
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CIBO DAL MONDO
Vittorio Castellani giornalista “gastronomade” www.ilgastronomade.com
CURIOSITÀ E RICETTE DAL MONDO Con il mais si preparano ancora oggi in questi Paesi ricette ancestrali, usando tecniche e utensili millenari. Per poter essere trasformato nelle classiche tortillas il mais doveva subire il processo di nixtamalization, che prevedeva la cottura dei chicchi in una soluzione alcalina a base di cenere di legna o acqua di calce spenta.
CIBO DAL MONDO
Si preparano i tamales, fagottini di pasticcio di mais, l’antenato della polenta concia, avvolti in foglie di mais o banano, bevande di atole o chicha, spesso fermentate come la birra, decine di gallette cotte su una specie di testo o comal: tacos, tortillas, tostadas, sopes, chalupas, alcune di queste, come le tortillas, verranno adottate dai Conquistadores spagnoli, che le realizzeranno però con la farina di grano. Se oggi consideriamo la polenta come un piatto tipico italiano, fortemente identitario di alcune nostre regioni, così come lo rappresenta la mamaliga per i rumeni e i moldavi, non dobbiamo dimenticare che si tratta di un prodotto di origine esotica. Gli spagnoli hanno avuto il merito d’introdurlo in Occidente dal Nuevo Mundo ma non ne hanno saputo fare tesoro. Curiosamente la cucina spagnola, con la sola eccezione di qualche piatto asturiano, introdotto in epoche più recenti dalle comunità migranti al rientro dall’America latina, non prevede l’utilizzo di questo ingrediente, che all’epoca di Colombo veniva percepito come un mangime animale, non adatto all’alimentazione umana. Nel suo viaggio verso Occidente il mais ha dovuto reinventarsi, nel senso che nulla dell’immensa cultura gastronomica precolombiana del mais è giunto fino a noi. Un tempo infatti viaggiavano gli ingredienti, ma venivano separati dalla cultura dei popoli nativi che li utilizzavano da sempre. Agli Indios non veniva riconosciuta alcuna competenza in quanto “selvaggi”. Nonostante ciò, nel giro di un secolo il mais e le patate sono diventati due degli alimenti che hanno sfamato le classi meno abbienti di contadini e montanari, che si sono inventati nuove ricette. In un recente viaggio in Valle d’Aosta ho avuto modo di assaggiarne due, che, da sole potrebbero farci ricredere sul concetto di “cucina povera”. La prima è una ricetta d’antan, resuscitata da un antico ricettario valdostano per merito di Lo Grand Baou [@ lograndbaou], una trattoria d’alpeggio sperduta tra i monti e prevede la cottura di una classica polenta, un mix al 50% di farina grezza e un 50% di fioretto, che viene poi stesa in una teglia di ghisa a strati alternati con dosi generose di fontina, completata in superficie con uno strato di cipolla bianca saltata in julienne nel burro e fatta dorare in forno a legna. Sublime! La seconda è una creazione dello chef Stefano Zonca, che ha lasciato l’enoteca Pichiorri e le sue 3 stelle Michelin, per proporre al rifugio G.F. Benevolo Rhemes-Notre-Dame, sopra i 2.000 metri, la sua cucina di montagna, tra queste una polenta concia con un caprino di latte crudo stagionato in crosta e miele di fiori di pascolo. Insuperabile!
TOSTADAS CON CEVICHE INGREDIENTI PER LE TOSTADAS: 120 gr di farina di mais Marano Borgoluce, 80 gr di farina di grano tenero 00, 7 gr di sale circa, 80 ml d’acqua circa, 2 cucchiai di olio evo. PER IL CEVICHE: 250 g di filetto di dentice, code di gambero o filetto di persico, 4 limes, 1/2 cipolla rossa di Tropea, coriandolo in foglie, peperoncino piccante (facoltativo), lattuga, ghiaccio, pepe bianco, sale Versate la farina di mais e la farina bianca in una ciotola. Mescolate le due farine. Aggiungete il sale e mescolate. Versate l’acqua e un cucchiaio di olio evo. Mescolate e impastate finché non otterrete un impasto liscio e compatto, che lascerete riposare avvolto in una pellicola per almeno 15 min. Dividete l’impasto in palline. Aiutandovi con due fogli di pellicola o di carta forno, stendete con un mattarello o nell’apposito pressa tortillas le palline, in modo da ottenere dei dischi del diametro di 15 cm, dello spessore di circa 5 millimetri. Ungete il fondo di una padella antiaderente con l’olio evo e fate dorare prima da un lato e poi dall’altro. Spolverate a parte di sale fine i filetti di pesce crudo perfettamente puliti e privati di ogni spina. Lavateli sotto l’acqua fredda e asciugateli con cura, pressandoli delicatamente con la carta assorbente. Tagliate i filetti a cubetti di 1 cm di lato e sistemateli in una ciotola, insieme al ghiaccio. Spremete i limes, filtrate il succo e versatelo sopra il pesce. Pulite l’aglio, privatelo del cuore, tagliatelo in quarti e unitelo al pesce. Mescolate e lasciate riposare per 15 minuti, insaporite con sale fine e qualche rondella di peperoncino a piacere. Distribuite il vostro ceviche a cucchiaiate sopra le tostadas, decorate con foglioline di coriandolo e completate con una macinata di pepe bianco
BORGOLUCE - SUSEGANA (TV) Borgoluce è un’azienda che ha fatto di ecosostenibilità e biodiversità la sua missione: 1.220 ettari di pascoli, boschi, allevamenti, campi coltivati, vigneti, frutteti, canali, mulini e caseifici. Un ambiente intatto, di proprietà della famiglia Collalto dal XII secolo
TOSTADAS CON ENSALADA DE POLLO Y AGUACATE NOVITÀ
FARINA DI MAIS MARANO BORGOLUCE Il mais Marano è una varietà dalla limitata produttività selezionata agli inizi del Novecento. Fu per molti anni la varietà più utilizzata per cucinare la polenta gialla, finchè non fu soppiantata da nuovi ibridi più produttivi. Richiede una cottura lunga, di almeno un’ora, meglio se nel paiolo di rame e sul fuoco a legna, girata spesso come si faceva una volta; ottima anche il giorno dopo, abbrustolita sulla piastra della cucina a legna. Profumata e saporita, si adatta particolarmente ai piatti che richiamano i sapori del bosco: funghi e cacciagione cod 93706 | peso 1 Kg
INGREDIENTI PER LE TOSTADAS: 120 gr di farina di mais Merano Borgoluce, 80 gr di farina di grano tenero 00, 7 gr di sale circa, 80 ml d’acqua circa, 2 cucchiai di olio evo. PER LA ENSALADA: 1 petto di pollo lesso o arrostito, 1 grosso avocado maturo, 6-8 pomodorini Pachino, 1 cipolla rossa di Tropea, 1-2 cucchiai di coriandolo fresco, 2 limes spremuti, 4 cucchiai d’olio extravergine d’oliva, 1 cucchiaino di miele, una macinata di pepe nero, sale Versate la farina di mais e la farina bianca in una ciotola. Mescolate le due farine. Aggiungete il sale e mescolate. Versate quindi nella ciotola l’acqua e un cucchiaio di olio evo. Mescolate bene e impastate energicamente, finché non otterrete un impasto liscio e compatto, che lascerete riposare avvolto in una pellicola per almeno 15 minuti. Dividete l’impasto in palline. Aiutandovi con due fogli di pellicola o di carta forno, stendete con un mattarello o nell’apposito pressa tortillas le palline, in modo da ottenere dei dischi del diametro di 15 centimetri circa, dello spessore di circa 5 millimetri. Ungete il fondo di una padella antiaderente con l’olio extravergine d’oliva e fate dorare prima da un lato e poi dall’altro. Sfilettate a parte il petto di pollo, sbucciate e tagliate l’avocado a cubetti, tritate la cipolla in brunoise e preparate una vinaigrette miscelando insieme il succo di lime, il sale con il miele e l’olio extravergine d’oliva. Mescolate tutti gli ingredienti dell’insalata di pollo in una ciotola e condite con la vinaigrette. Stendete sulle tostadas l’insalata di pollo e servite in tavola.
SOSTENIBILITÀ E AMBIENTE
LE VIRTÙ DELL’ALPEGGIO Pace. E’ questa la sensazione che ritrovo ogni volta che mi capita di visitare un alpeggio, per un’intervista o per una gita fuori porta. Il verde sfacciato dell’erba, il silenzio scandito dallo scampanellio degli animali al pascolo, il profumo dei fiori (e non solo). Pace, riconciliazione con la natura.
Sempre più spesso mi capita di incontrare persone che scelgono di lasciare tutto per vivere in alpeggio E ogni volta mi capita di chiedermi perchè, come è possibile rinunciare alle comodità a cui siamo abituati per “ritirarsi” a vivere in malga: una vita di sacrifici, fatta di giornate che iniziano prima del sorgere del sole, di lavoro duro all’aperto indipendentemente dalle previsioni meteo, di abitazioni spartane. Indimenticabile la visita ai “calecc”, dove nasce lo Storico Ribelle: quattro mura dove viene montata una tenda, man mano che uomini e animali si spostano sui pascoli più alti, con l’avanzare dell’estate. Forse è proprio questo ritorno alla natura, a una condizione ancestrale, a sentirsi parte del tutto che spinge uomini e donne a lasciare la vita che conosciamo per vivere in montagna.
Alla presentazione del Giornale di Agricoltura & Gastronomia della Biblioteca Internazionale La Vigna di Vicenza, un paio d’anni fa, sono rimasta senza parole dalla storia di Marta Zampieri, ex ingegnere idraulico di Motta di Livenza, papà dirigente d’azienda, mamma insegnante di lettere, nessun legame con la montagna se non le vacanze da bambina con la nonna a Fiera di Primiero. Eppure decide di cambiare vita e oggi gestisce l’agriturismo Pian de Levina, a 1.200 metri, dove alleva capre da lana, produce formaggi, cucina.
ASIAGO PRESSATO DOP PRODOTTO DELLA MONTAGNA
Asiago Pressato prodotto da Malga Verde, dolce con note di latte e panna cod 30810 | peso 13 kg circa Ordine minimo 1/4 di forma VALSANA | 22
Martina Iseppon Responsabile Marketing in Valsana dal 2003
Lo stesso spirito imprenditoriale che ritrovo in Milady Cortese, a Malga Verde, sull’Altopiano di Asiago. Anche lei lascia un lavoro da impiegata per tornare in alpeggio ad aiutare il papà: “Dopo cinque anni mi ero stancata, il lavoro era ripetitivo, mi mancava il contatto con le persone e con la natura”. E come Pian di Levina, anche Malga Verde è un’attività multifunzionale, che coniuga l’allevamento con la produzione dei formaggi e l’accoglienza. Così come Malga Mariech, un’altra realtà con una bella storia da raccontare, quella di Fabio Curto: una laurea in Medicina Veterinaria che si innesta sull’esperienza di papà Italo. Perchè, ci dice Fabio, “l’innovazione di ieri è la tradizione di oggi”. Assieme gestiscono l’allevamento di Brune nell’azienda agricola a Vidor (con una delle stalle più all’avanguardia in Europa, completamente robotizzata) e in Malga Mariech d’estate, il caseificio, l’agriturismo.
Non solo sogni ma visione, non solo impegno, ma capacità imprenditoriale “Kill Heidi” è il libro suggerito da Marta Zampieri: “In montagna le caprette non ti fanno ciao, devi essere creativo e affrontare i problemi in modo veloce”.
Dopo anni di sostanziale disinteresse, anche il legislatore ha finalmente preso coscienza del valore sociale e ambientale del sistema degli alpeggi e del ruolo dei malgari come custodi del territorio, di “saperi” e tradizioni locali. Finalmente si iniziano a distinguere piani di sviluppo rurale per la pianura e per la montagna, realtà completamente diverse. Nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, D.g.r. 4 febbraio 2019 n. XI/1209 si legge:
La Regione riconosce la funzione ambientale e socioeconomica delle malghe, “che costituiscono un bene di interesse collettivo, il cui corretto utilizzo concorre a garantire la conservazione della biodiversità, dei paesaggi e dell’assetto idrogeologico territoriale della montagna”. Il presidio degli alpeggi consente infatti di arginare la progressiva trasformazione paesaggistica, che porta alla graduale scomparsa dei pascoli, a causa dell’espansione del bosco. E favorisce la reintroduzione di razze locali, in particolare la Bruna o altre razze a rischio di estinzione, custodi di biodiversità genetica, più adatte ai pascoli montani. Nelle “Linee guida per la gestione delle malghe e l’esercizio dell’attività di alpeggio” allegate si identificano alcune direzioni di sviluppo, che rispondono alla necessità di coniugare la conservazione delle risorse naturali con la continuità e lo sviluppo delle attività tradizionali, in modo tale da poter generare un reddito adeguato. La multifunzionalità in primis, affiancando alla produzione casearia tradizionale anche l’attività di accoglienza, facendo rete con una pluralità di attori pubblici
e privati. Ma anche la conservazione del patrimonio naturalistico e paesaggistico, strettamente legata alla capacità di sviluppare attrattività turistica. E’ confortante ritrovare finalmente in un documento legislativo alcuni valori in cui crediamo da sempre. Da sempre cerchiamo di valorizzare e promuovere i formaggi di alpeggio, in primis per le qualità organolettiche distintive e la capacità di raccontare il territorio da cui provengono, soprattutto se a latte crudo. Negli anni abbiamo scoperto che il latte di alpeggio ha un valore nutrizionale più elevato: una ricerca condotta dal Gruppo Formaggi Trentini qualche anno fa ha evidenziato che il latte di alpeggio contiene una maggiore quantità di lipidi, una migliore qualità dei lipidi presenti (Cla, Ala, Acidi grassi insaturi), un maggior contenuto in sostanze antiossidanti (vitamine liposolubili, vitamina E, polifenoli e carotenoidi) e un maggior contenuto di composti in grado di conferire aromi (terpeni, carotenoidi, costituenti volatili aromatici degli acidi grassi). Ora aggiungiamo un altro tassello, una motivazione in più.
Scegliere un formaggio di alpeggio è anche un modo per aiutare l’ambiente
MONTE CESEN Prodotto con latte crudo da vacche di razza Bruna solo d’estate, in alpeggio nella malga Mariech sul monte Cesen cod 30284 | peso 3 kg circa VALSANA | 23
E’ uno dei risultati della ricerca “Buoni per il pianeta, buoni per la nostra salute”, realizzata da Slow Food con il supporto scientifico di Indaco2, spin-off dell’Università di Siena. Sono state misurate le emissioni di anidride carbonica equivalente, espressa in kg (CO2 eq) di 6 filiere di produzione di Presìdi Slow Food, confrontandole con equivalenti sistemi industrializzati. Alimentazione al pascolo, autoproduzione di fieno, fertilizzazione naturale, lavorazione artigianale: sono tutti fattori che concorrono alla riduzione dell’impatto ambientale delle piccole produzioni, che rilasciano in media il 30% in meno di anidride carbonica, con punte fino a meno 80%. Va inoltre considerato che gli allevamenti estensivi, che prevedono ampie superfici coperte da terreni ricchi di vegetazione, assorbono carbonio in misura uguale o superiore a quello emesso in atmosfera durante i processi produttivi. Un esempio? L’anidride carbonica emessa per produrre una forma da 2 kg di Macagn (Presìdio Slow Food) risulta essere pari a 3 kg contro i 17,68 kg di CO2 eq di un formaggio industriale. Il risparmio annuo stimato è pari a 1.035 tonnellate di CO2 eq, corrispondente alle emissioni di un’auto che percorre 154.100 km! Chapau quindi a questi ragazzi che hanno saputo reinventare la tradizione, non ripetere inconsapevolmente gesti millenari ma sfruttare nuove competenze e tecnologie per far rivivere la montagna. A beneficio del nostro palato, del paesaggio e dell’ambiente.
SE DICI MONTAGNA, DICI FORMAGGIO!
GEOGRAFIA DEL GUSTO
Dai pascoli montani e dai pendii scoscesi dell’Alta Savoia, tre formaggi affinati da J.F. Paccard: Reblochon, Beaufort e Raclette
E’ quasi superfluo dire che si tratta di una regione prevalentemente montagnosa e dedicata al pascolo per il 65% del suo terreno, ma questo ci è utile a tenere in considerazione in anticipo quali sono i fattori tipici dei formaggi di cui leggeremo oggi: latte crudo da animali allevati al pascolo, forte caratterizzazione di sapori, radicamento e tutela di razze specifiche.
5 formaggi Dop (Beaufort, Abondance, Tomme des Bauges, Reblochon e Chevrotin) e 2 formaggi Igp (Tomme de Savoie e Emmental de Savoie), senza contare i molti altri presenti. Ci soffermeremo in questo articolo sui prodotti di J.F. Paccard, affinatore che ben valorizza i formaggi della regione e con il quale lavoriamo già da qualche anno. Cominciamo con il suo cavallo di battaglia, il Reblochon di cui è obbligatorio raccontare l’aneddoto storico legato al nome. Reblocher in francese significa “mungere una seconda volta”, infatti al tempo le tasse si pagavano in base alla quantità di latte munto e allora il contadino evitava di mungere tutto il latte subito e attendeva il passaggio dell’ esattore. La seconda mungitura dava poi un latte molto più grasso e adatto alla caseificazione, presto fatto il Reblochon, formaggio di frodo! Stagiona in locali molto umidi su assi di abete, la sua stagionatura varia dalle 2 alle 6 settimane e con essa cresce l’intensità del sapore che si fa via via più potente, caratteristiche le note di nocciola, legno umido, sottobosco e stalla. Paccard raccoglie le produzioni di tanti piccoli produttori “fermier” che si distinguono per una sigla che si trova sul fondo della formina.
I prati sono piuttosto estesi, raggiungono altitudini importanti e sono frutto di intensi disboscamenti avvenuti dal decimo al tredicesimo secolo, voluti dai nobili e religiosi per aumentare i campi coltivabili e aumentare le rendite. Si sono così sviluppate razze bovine particolarmente adatte a camminare su pendii scoscesi e a sopportare gli sbalzi di temperatura, parliamo di vacche Montbeliarde, Tarine e Abondance. Contemporaneamente la vocazione lattifera della regione ha spinto la crescita della varietà casearia e oggi si annotano
Ma il Reblochon non basta per descrivere in pieno la Savoia casearia, dobbiamo infatti includere il Beaufort Aoc D’Alpage tra le perle d’Oltralpe. Figlio dei pascoli di montagna stagionali e della vicinanza con le valle del Gruyere, questo grande formaggio (le forme arrivano anche a 40kg) viene prodotto solo con latte crudo di Abondance e Tarine. Esistono diversi livelli di qualità, dalla produzione di valle invernale o estiva fino all’eccellenza del prodotto d’altura fatto con latte di un’unica malga, detta Chalet d’Alpage. Lo scalzo della forma è concavo e questo è dovuto
Alessandro De Conto, laureato in Ingegneria ma appassionato di formaggi, in Valsana si occupa di selezione ed è Responsabile dell’Export
Questa volta vi racconto di un territorio che ho avuto la fortuna di ammirare dal vivo circa 10 anni fa e anche se il tempo rende meno definiti i contorni dei ricordi tengo ancora nel cuore la meraviglia che scaturì da quei prati, quelle montagne, quei paesaggi e ovviamente...quei formaggi! Dov’ero? In Alta Savoia, un piccolo dipartimento all’interno della regione di Rhone-Alpes, contenuto tra Lione, Ginevra e Torino a ridosso delle Alpi.
L’Alta Savoia è una regione prevalentemente montuosa e dedicata al pascolo per il 65% del suo terreno
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all’obbligo di utilizzare fascere di legno che a inizio Novecento facilitavano il trasporto del formaggio a dorso di mulo. La stagionatura minima è pari a 5 mesi, ma con lo Chalet d’Alpage si raggiungono anche i 18 mesi. Difficile descrivere il sapore in poche parole; l’ingresso a palato riserva sensazioni dolci, di burro cotto ed erba fresca, le note di corpo invece fanno perno su sentori di frutta secca, mentre nel finale ecco la brioche, la caramella mou e... la voglia di riassaggiarlo ancora! Una vera esperienza sensoriale. Disponibile anche il Beaufort d’alpage de Plan Pichu che a differenza del precedente è prodotto con il latte raccolto da tre mandrie diverse sul Plan Pichu, sempre un gran formaggio in ogni caso.
Concludiamo poi con la Raclette, imprescinbile quando si parla di montagna, caminetti accesi e patate bollite. Anche se è doveroso dire che tradizionalmente veniva consumata soprattutto in estate, quando i pastori erano in alpeggio e la forma veniva tagliata a metà ed esposta al fuoco del camino. Il nome poi deriva dal gesto di raschiare (racler) la superficie fusa di formaggio su un piatto di patate. Paccard affina la versione a latte crudo per un minimo di 90 giorni. Non sarà ancora tempo di raclette, ma intanto cominciate a pensarci!
Rhone-Alpes
Haute Savoie
BEAUFORT AOC ALPAGE DE PLAN PICHU
REBLOCHON DE SAVOIE AOC FERMIER PACCARD
cod 46745 | peso 40 Kg circa Ordine minimo 1/32 di forma
cod 46666 | peso 500 g circa
BEAUFORT AOC CHALET D’ALPAGE
RACLETTE DE SAVOIE LAIT CRU
cod 46748 | peso 37 Kg circa Ordine minimo 1/32 di forma
cod 46719 | peso 6 Kg circa Ordine minimo 1/2 forma VALSANA | 25
BOCCONI DI STORIA
SEI UNO STOCCAFISSO!
Danilo Gasparini è docente di Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione all’Università di Padova e al Master in Cultura del cibo e del vino di Ca’ Foscari ed è ospite e consulente fisso per Geo&Geo su Rai 3
Il termine stoccafisso ha origini controverse. Potrebbe derivare dal norvegese stokkfisk o dall’olandese antico stocvisch, che significano entrambi “pesce a bastone”, oppure dall’inglese stockfish “pesce da stoccaggio”. Mentre il termine baccalà ha altre origini. Leggendo quanto scrisse Olao Magno, citato da Alfredo Pelle che al baccalà ha dedicato brillanti studi: “Nelle acque dell’Islanda vi è un pesce detto merlusia che nella lingua gotica è chiamato torsh e con la voce dei Batavi (un’isola alla foce del Reno fra il Mare del Nord e la Mosa) cabbellau. Sono portati a Roma da li Spagnoli e Portoghesi e da li Spagnoli e Italiani son detti marlucz.” Per quanto possa apparire poco verosimile il merluzzo è, senz’altro, fra i prodotti decisivi della storia economica e politica dell’Europa e non solo. Questo pesce, noto nelle tavole di quattro continenti, è stato infatti, per oltre un millennio, uno degli elementi più importanti del commercio internazionale. Interi paesi devono a esso il loro sviluppo inclusi alcuni dissidi e controversie reciproche che hanno determinato guerre e successivi trattati di pace; intere nazioni hanno prosperato grazie a questa attività di pesca, tanto da considerarlo più importante dell’oro. I baschi lo pescavano nel Nord Atlantico e lo commercializzavano nel Mediterraneo già dall’anno Mille e le norme della Chiesa tardomedievale, ispirate al regime alimentare monacale con il mangiare di magro, ne diffusero il consumo, facilitando la ricchezza di Bilbao. IL PESCE
Gadus morhua. Il nome scientifico ai più non dice nulla, ma se invece scriviamo stoccafisso ecco allora che tutto appare più chiaro. Gadus morhua è infatti il nome latino del merluzzo, che da gennaio in poi abbandona le fredde acque del mare di Barents per scendere nelle più “tiepide” acque delle Isole Lofoten,
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ove si riprodurrà fino ad aprile. Lo Skrei (o Norwegian Arctic cod) ovvero il merluzzo sessualmente maturo, dopo la cattura, nel periodo che va da gennaio ad aprile, viene lavorato e trasformato in stoccafisso (da stokk fisk, ove stokk è la denominazione in norvegese dei pali su cui i merluzzi vengono appesi ad essiccare per circa 3 mesi). Il periodo di cattura e trasformazione è fondamentale. Gli esemplari messi a essiccare entro febbraio sono considerati i migliori dal punto di vista organolettico, mentre quelli essiccati dopo e comunque non oltre il 23 giugno sono considerati quasi di seconda scelta. Oltre il 23 di giugno la lavorazione cessa del tutto, poiché le temperature risultano incompatibili con un prodotto di qualità.
Il consumo è raccomandato dai dietologi per le proteine nobili (aminoacidi essenziali per la crescita di cellule e tessuti) e i grassi speciali Un etto di merluzzo ne fornisce 17g, di baccalà 22g e di stoccafisso 63g. Il pregio nutrizionale più importante, però, si trova negli “Omega 3”, gli acidi grassi polinsaturi essenziali. L’Italia è il maggiore importatore al mondo di stoccafisso: delle 6000 tonnellate circa prodotte ogni anno in Norvegia, ne importiamo circa il 50%. E circa il 90% delle importazioni italiane di stoccafisso viene dalla Norvegia. Lo stoccafisso delle Lofoten, quello più ricercato dai Veneti, si divide in 20 classi di qualità, suddivise a loro volta in prima e seconda classe. Ricordiamo, tra i migliori, il Ragno, il Westre Magro, il Westre Demi Magro, il Bremese e l’Olandese.
LA SALATURA: IL BACCALÀ Sventrati, decapitati e privati di due terzi della loro spina dorsale, i merluzzi vengono salati. L’assorbimento del sale marino impedisce lo sviluppo di batteri della putrefazione e nello stesso tempo permette l’insediamento di altri batteri che determinano la “conservazione” e l’afrore che gli è caratteristico. Questa prima operazione è compiuta a bordo; a terra segue l’impilamento del merluzzo per fare uscire la salamoia e l’acqua. Spazzolato poi del sale in eccesso, è messo ad asciugare in zone climatiche favorevoli, oppure in tunnel di corrente d’aria secca e calda. Si ha così il baccalà. L’ESSICCAZIONE: LO STOCCAFISSO Ricordate: a seccarlo non è il sole, anche perché in Norvegia ce n’è poco. Lo secca il freddo. Ciò avviene dove la temperatura è costantemente sotto lo zero, in aria completamente priva di umidità, che provvede a disidratare completamente il merluzzo. Il vento è compagno prezioso di questa operazione. Si ha così lo stoccafisso. In Veneto, però, la parola stoccafisso non è usata: noi chiamiamo bacalà quello che tutto il mondo chiama stoccafisso. Virgilio Scapin parla di “eufonia”: “a so’ anda’, me ga basa’, bacala’...” MA COME ARRIVA IL BACCALÀ A VENEZIA? Qui il racconto è un misto di verità storiche e di leggenda. Pietro Querini, patrizio veneziano, mercante, armatore veneziano, salpa da Candia (l’odierna Creta) il 25 aprile del 1431 con una cocca che stazza 466 tonnellate. Seguirà, come ogni anno la rotta delle Fiandre, carico di pepe, zenzero, cotone, malvasia, allume di rocca, cera, per poi tornare con stoffe, lana e stagno per l’Arsenale. Il convoglio incrocia, al largo della Manica, una tempesta: abbandonano la nave il 17 dicembre con due scialuppe, avvistano terra il 4 gennaio 1432 e vengono salvati dai pescatori dell’isola di Røst dell’Arcipelago delle isole Lofoten, quasi all’estremo Nord della Norvegia, “in culo mundi” come scriverà nella sua relazione Ramusio. Ma la cosa che lo incuriosisce è un’altra: gli abitanti “prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l’una, ch’è in maggior anzi incoparabil quantità, sono chimati stocfisi, l’altra sono passare, ma di mirabile grandezza… I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventare sfilati come nervi, poi compongono butirro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare”. Dopo aver caricato 60 stoccafissi, raggiunto Bergen e tornato in Inghilterra arriva a Venezia nell’ottobre del 1433. L’anno seguente,
convinto che prima o poi lo stoccafisso avrebbe sfondato anche sulle terre controllate da Venezia, Querini tornò dai suoi amici di Røst per scambiare vino e spezie con stoccafisso. A questo punto, la storia diventa leggenda. Giunto alle Lofoten, il suo spirito avventuroso lo spinse ancora più a settentrione, per conoscere quel mare sconosciuto. Sparì tra i ghiacci eterni, come un eroe delle saghe nordiche. Diversa, per tornare a noi, fu la diffusione del pesce dopo le direttive del Concilio di Trento che, sulla base della dieta monacale, imponevano giorni di magro e giorni di grasso. Il pesce diventa simbolo della dieta monastica e quaresimale, si carica di valori penitenziali, si eleva a simbolo di una “leggerezza” gastronomica. Chiaramente le classi agiate continuavano a mangiare trote, temoli, carpe o lucci, barbi o gamberi di fiume e le popolazioni sulle rive del mare il pescato, ma il popolo dell’entroterra trovò in quest’alimento, il baccalà, divenuto penitenziale, risoluzione alle imposizioni religiose. Considerato cibo dei poveri, il baccalà a Vicenza diventa nel tempo una pietanza dei ricchi perché la cottura “alla vicentina” trasforma “il volgarissimo, legnoso, arido e poco gustoso stoccafisso in un cibo delicatissimo, morbido, profumato e ricco d’infiniti sapori”. “Ma per ottenere sì miracolosa trasformazione – scriverà un anonimo gastronomo vicentino degli anni trenta occorrono molti e costosi condimenti […] così che il “il cibo dei poveri” finisce per diventare accessibile soltanto a chi possa pagarlo degnamente”. Così è andata la storia fino alla fondazione della Confraternita del bacalà nata a Sandrigo nel 1987, voluta dall’Avv. Benetazzo circa 30 anni or sono. Senza considerare la profonda attività di sviluppo della conoscenza del prodotto che diverse Confraternite, in campo nazionale, fanno con serate, conferenze, manifestazioni, sagre, festival.
BACCALÀ MANTECATO
BACCALÀ DELICATO
Preparato con Stoccafisso Ragno di prima scelta senza farine, addensanti e latte, pronto all’uso
Preparato con una ricetta simile alla vicentina, con olio e cipolla, delizioso con la polenta bianca
cod 93691 | peso 130 g circa cod 93690 | peso 1 Kg circa
cod 93696 | peso 130 g circa cod 93695 | peso 2 Kg circa
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QUARTIROLO DOP IL QUARTO PASCOLO
OSIAMO L’ABBINAMENTO
Arriva per ultimo, a segnare la fine di una stagione e il ritorno a valle dagli alpeggi. Il quarto pascolo estivo ha fatto la storia dando vita a un ottimo formaggio.Vi raccontiamo perché...
Matteo De Santi è Laureato in Economia Aziendale a Pisa, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari ed è Export Manager in Valsana
Partiamo col definire “quarto pascolo”: durante il periodo estivo della produzione dei formaggi, che va da aprile/maggio fino a settembre/ottobre, si distinguono 4 tipi diversi di tagli d’erba, quindi, tipi di alimentazione per gli animali. Il primo e parte del secondo si caratterizzano per la presenza di erba fresca, più digeribile, energetica, che conferisce un alto valore di proteine nel latte. Nella restante parte del secondo e nel terzo pascolo invece è presente un’erba matura con più fibra e cellulosa, aumentando quindi la presenza di grasso nel latte. Adesso arriviamo al quarto e ultimo taglio d’erba, definendolo fortunato, perché arriva in un momento ormai autunnale, ma che si porta dietro tutta l’evoluzione di un’estate, con gli ultimi fiori e fili d’erba, dove le vacche stanche si cibano in transumanza e ritornano verso la valle. Naturalmente oggi la produzione del quartirolo non è più limitata a un unico pascolo, ma la storia ci ha lasciato la sua tecnica di lavorazione. Da disciplinare il quartirolo è un formaggio che può essere prodotto a latte crudo oppure pastorizzato, con l’aggiunta di fermenti oppure con latte-innesto cioè con un latte lasciato precedentemente a maturare per sviluppare carica batterica. Il latte viene quindi pastorizzato per disciplinare e una volta aggiunto il caglio e formata la cagliata essa viene rotta in due passaggi fino a ridurla alla grandezza di una nocciola. Dopo aver messo la cagliata negli stampi squadrati, fatto perdere il siero alle forme, si passa alla fase detta di “stufatura”.
Questa avviene in locali a temperatura e umidità controllata e dura 24 ore, durante le quali le forme vengono rivoltate 4/5 volte. Da qui nasce il Quartirolo Lombardo e inizia la sua stagionatura assistita dai lavaggi periodici in crosta: 5 giorni per il “fresco” e minimo 30 per la denominazione “stagionato”. La differenza tra le due stagionature è incredibile: dove il fresco si presenta in maniera evidente come la Feta greca, lo stagionato si evolve con un impatto non soltanto visivo e di consistenza, ma soprattutto di sapore, molto più complesso, ricco di note erbacee e di tostato.
QUARTIROLO TESTO LOMBARDO STAGIONATO DOP Dolce, delicato e fragrante, leggermente acidulo a seconda della stagionatura 20966 | peso 1,8 Kg circa
Il produttore La Valsassina, racchiusa tra il lago di Lecco e la caratteristica Grigna, offre particolari caratteristiche microclimatiche ideali per la lavorazione di formaggi. Ed è proprio qui che la famiglia Carozzi lavora da più di 50 anni. Fondata nel 1960 da Aldo Carozzi, l’azienda è arrivata oggi alla terza generazione, ed è attualmente gestita da Roberto e Donata assieme ai loro tre figli, Vera, Aldo e Marco. Carozzi coniuga con passione le preziose abilità dei casari con la più moderna tecnologia
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san iog gi.i t
NEL BICCHIERE Il tempo della sangria è ormai quasi alle spalle, ma niente paura: dove manca qualcosa si crea sempre una nuova possibilità. Dalla Fromagerie l’Amuse in Olanda, la nostra amica ed esperta di Tè Betty Koster vi propone questo insolito abbinamento al quartirolo: “Niente Oolong, è piuttosto amaro! Ma un tè nero come il Darjeeling è favoloso. Esso esalta le note terrose del formaggio. La leggera salinità scompare. Una calda sensazione familiare ti accompagnerà con questa combinazione lasciandoti con una bocca pulita e una leggera sensazione di tannino. Eccitante!”
NEL PIATTO
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Il quartirolo in Lombardia viene utilizzato in molte ricette di primi piatti, come componente del sugo oppure ripieno della pasta. Per questo abbinamento ho voluto accostare il nostro formaggio a un frutto di stagione: l’uva. La mia proposta è un farrotto con uva, quartirolo e granella di pistacchio. I profumi sprigionati in mantecatura a seguito dell’aggiunta del quartirolo sono di frutta secca e burro. Queste note diventano molto interessanti abbinate alla dolcezza e leggera astringenza dell’uva e alla sapidità dei pistacchi
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DAL CAMPO Apprezzatissimo all’epoca dell’impero romano per la sua capacità di favorire la digestione, il fico è l’abbinamento diretto dal campo. Comunemente ritenuto frutto, è in realtà una infiorescenza ricoperta da un involucro che al suo interno racchiude tanti piccoli fiori. I veri frutti del fico sono quelli che noi reputiamo semi. Con il suo sapore dolce e caldo accompagnerà benissimo le note erbacee e tostate del quartirolo
UN CONSIGLIO IN PIÙ Il quartirolo va compreso, aiutato a crescere, perché anche se da giovane può dare tante soddisfazioni in un’insalata, vi consiglio di aspettare che maturi, che viva le sue esperienze di fermentazione come la cremificazione sotto crosta e gessatura della pasta al centro. Lasciatelo quindi tranquillo e fatelo arrivare ad almeno 60/75 giorni di stagionatura, vi assicuro che il risultato vi stupirà
NOTIZIE DA VALSANA
CHEESE 2019 NATURALE È POSSIBILE Giunge alla XII edizione il grande evento internazionale organizzato ad anni alterni da Slow Food e dedicato ai formaggi Le vie e le piazze di Bra si riempiono di nuovo del profumo dei formaggi di tutto mondo: torna Cheese, l’evento caseario biennale organizzato da Slow Food. In questa nuova edizione il tema centrale dell’evento è “Naturale è possibile”: dopo il latte crudo, infatti, la tappa inevitabile nel percorso della caseificazione che segua i canoni del buono, pulito e giusto non poteva non portare ad approfondire il ruolo dei fermenti all’interno del processo di trasformazione del latte. L’obiettivo rinnovato di Slow Food sarà quello di sensibilizzare ed educare, per far capire che produrre dei formaggi senza aggiungere starter o utilizzando solo fermenti naturali e autoprodotti, è possibile. Mai come in quest’edizione siamo allineati con il tema dell’evento, infatti chi ci è venuto a trovare a Taste a Firenze forse si ricorderà della nostra selezione di formaggi senza fermenti selezionati aggiunti e il tentativo di lanciare qualche spunto di riflessione sul tema del forte legame dei formaggi con il territorio di origine. Senza dubbio ci aspetta quindi un’edizione interessante, dove come sempre il ruolo di
protagonista è di pastori, casari, affinatori e ovviamente i Presidi Slow Food italiani e internazionali. Oltre al formaggio, quest’anno Cheese apre le porte anche a una selezione di salumi naturali e ripropone le aree di degustazione e ristorazione con food truck, birrifici artigianali, gelatai e pizzaioli... e come sempre un grande numero di attività e incontri di approfondimento. Noi non vediamo l’ora di partire alla volta di Bra per incontrare i visitatori e raccontare la nostra visione sui formaggi naturali, ritrovare vecchi amici produttori e, chissà, magari scoprire anche qualche nuova chicca imperdibile! Da segnare in agenda Quando: 20 - 23 settembre 2019 Dove:
tra le vie della cittadina di Bra (CN)
Orari:
10.00 - 20.30 mercato produttori 10:00 - 00.00 food truck e chioschi
L’ingresso al pubblico è libero
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VALSANA 3.0 Domenica 28 luglio abbiamo inaugurato la nuova sede di Godega. Ci ha davvero emozionato vedere tanti produttori, anche lontani, e tanti clienti partecipare alla nostra festa...
“Natale... Che dire... L’emozione che traspare dalla tua voce durante il tuo profondo discorso è bellissima! Mi hai fatto commuovere un po’ di volte. Sei la dimostrazione del detto: “ama il tuo lavoro e non lavorerai neanche un giorno della tua vita” (...) Sono contenta di aver avuto modo di conoscervi, e ogni giorno attraverso i vostri prodotti e il mio lavoro continuare in parte a trasmettere i vostri valori. Un abbraccio” E’ solo uno dei messaggi che abbiamo ricevuto da tanti amici, clienti e produttori nei giorni successivi all’inaugurazione. E’ stata una giornata intensa, piena di emozioni, che ci ha riempito il cuore e ripagato di tanti sacrifici. Grazie davvero a tutti di aver voluto condividere questo momento “storico” per la nostra azienda: l’inaugurazione della nostra terza sede, dopo Crevada e Santa Lucia, e in 35 anni di lavoro.
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Grazie ai nostri produttori, che hanno fatto tanti chilometri, anche sotto la pioggia, per essere con noi in questo giorno speciale. Grazie per i cornetti portafortuna, per i fiori e le piante, per i mille brindisi, per i biglietti di auguri e le parole di stima. Ma soprattutto grazie di esserci stati. Grazie ai nostri clienti, a quelli di vecchia data, con cui negli anni abbiamo condiviso un bel pezzo di strada, e a quelli nuovi, con cui ci auguriamo di farne altrettanta. Ci ha fatto davvero piacere avere l’opportunità di incontrarvi nella nuova sede. E un grazie in particolare ai nostri ragazzi che hanno voluto portare le loro famiglie a visitare l’azienda, raccogliendo l’augurio del Presidente. “L’augurio che mi sento di fare a questa azienda è che ognuno continui a sentirsi parte di Valsana, a portarsela nel cuore, perché l’unico modo per fare bene il proprio lavoro è farlo con passione”.
LE ALLEGRE PROTEINE DEI LEGUMI
LA CUCINA DI QB
Fagioli che hanno viaggiato nel trevigiano, nelle cucine del sud e infine nel bellunese, dove hanno incontrato le mele per creare una dolcezza unica Se i legumi non esistessero bisognerebbe inventarli. Cominciamo con il riconoscerli - Fagioli, ceci, fave, lenticchie e piselli sono quelli che, bene o male, ci hanno cresciuti. La soia è una scoperta #green più recente. Cicerchia e lupini sono una ri-scoperta #cool e le arachidi, che ci ostiniamo a consumare salate assieme a patatine e chips assortite, sono una sorta di mistero della natura visto che il DNA ci svela un legume ma anche un seme (come le nocciole ed il sesamo, per intenderci, anche a livello calorico). Qualche dritta per la cottura ~ Per prima cosa procuratevi un po’ di alga Kombu, oramai la si trova anche nella GDO, ed è un aiuto indispensabile per rendere più digeribile e meno, ehm, “ventosa” l’assimilazione dei legumi. Inseritene un pezzettino in cottura che eliminerete prima di terminare la preparazione del vostro piatto. Semplicissimo. L’ammollo perfetto in poche mosse - I legumi secchi raddoppiano il loro volume rispetto al peso iniziale, tenete conto che ci vorranno dalle 8 alle 24 ore di riposo in acqua fredda, povera di sale e nella proporzione di 3:1. Non serve il bicarbonato per ammorbidirli e ricordatevi di eliminare sempre quelli che galleggiano in superficie. Si salvano da questa pratica importante solo le lenticchie decorticate. E la cottura? - Prima di cuocerli, partendo sempre dall’acqua fredda, ricordatevi di sciacquare i legumi dall’ammollo con abbondante acqua calda e di salarli solo alla fine della cottura: non rischierete di ottenere buccia e polpa meno morbidi. E se nonostante l’utilizzo dell’alga Kombu volete eliminare ogni rischio di flatulenza ricordatevi che il passaverdura eliminerà tutte le bucce, la causa del disturbo intestinale, cosa che non accadrà se gli preferirete il più veloce mixer a immersione. I tempi di cottura variano, come per l’ammollo, a seconda del legume: 3-4 ore per ceci e cicerchie, 2 ore per la soia, 2 ore per i fagioli, per i piselli interi un’ora mentre per le lenticchie decorticate basterà mezz’ora. Le più recenti indagini sottolineano che per crescere sani e forti è importante variare il più possibile il menù e fare tanto esercizio fisico, ma ci ricordano anche che i bimbi italiani, cresciuti nella patria della #dietamediterranea, sono quelli più in sovrappeso o addirittura obesi: è come se avessimo dimenticato le buone pratiche dei nostri nonni, quelli che diventano centenari frantumando ogni record mondiale. Con gli ingredienti semplici, o addirittura poveri, che avevano a disposizione sapevano nutrirsi con intelligenza e tanta allegria, come lo dimostrano le ricette che ho pensato per il numero di FAGIOLO BALA settembre, dove i fagioli Bala Rossa, un’antica varietà ROSSA coltivata dalla Cooperativa Agricola La Favorita in Val Belluna, sono protagonisti assoluti. Fagiolo feltrino della famiglia E se avete voglia di leggere una bella storia di cibo e dei Borlotti, molto digeribile, tradizione segnatevi il libro di Elisabetta Tiveron, “Il Re del ottimo in creme, zuppe e Fagiolo” (Kellermann Editore), arricchito con le splendide minestre illustrazioni della Scuola Internazionale dell’Illustrazione cod 93721 | peso 500 g circa per l’Infanzia di Sarmede VALSANA | 32
Anna Maria è cuoca e foodblogger. La sua ricerca è volta alla qualità e identità della materia prima, che presuppone lo studio della storia degli ingredienti, nella consapevolezza che il cibo è parte fondamentale dell’identità di un popolo
Fagioli e trippe: che accoppiata!
ZUPPA TREVIGIANA DI FAGIOLI E TRIPPE Un articolo di Giampiero Rorato, risalente a fine anni ‘80, racconta che le trippe, pur essendo un piatto povero o, meglio, per i poveri, vengono valorizzate in moltissime ricette: in brodo, agli aromi, con il pomodoro, alla parmigiana, alla polacca, stufate, alla tolosana, in “vinagrette”, con lo zafferano, all’andalusa, alla catalana, alla milanese, con i crauti, con le cipolle, alla lionese, impanate, al vino bianco, alla libanese e, naturalmente, alla trevigiana, area che nel Veneto ha saputo farne un vero piatto da gran signori.
1 litro di brodo di carne o vegetale 1 spicchio d’aglio 1 rametto di rosmarino 3 cipolle 2 carote 1 pezzettino di alga Kombu 400 g di fagioli Bala Rossa 1 piedino di maiale (se gradito) 3 cucchiai di passata di pomodoro la crosta pulita di un pezzetto di parmigiano olio evo sale e pepe nero
TEMPO: 40’ + AMMOLLO + 50’ COTTURA INGREDIENTI PER 4-6 PERSONE
Mettete i fagioli in ammollo in acqua fredda per 6/8 ore prima. Mondate una carota e una cipolla, tritate insieme aglio, rosmarino e lardo e trasferite il battuto in una casseruola dal fondo
400 g di trippe di manzo o vitello 40 g di lardo
pesante, scaldate per qualche minuto, aggiungete le trippe, regolate di sale, coprite con il brodo di carne mescolato alla passata di pomodoro e lasciate cucinare per 45’ a fuoco dolce. In un’altra casseruola unite i fagioli, l’alga, le verdure, il piedino di maiale (se gradito), la crosta di Parmigiano e due litri d’acqua. Cucinate a fuoco dolce fino a quando i legumi non saranno morbidi, ci vorranno circa 45’. Togliete il piedino e la scorza di Parmigiano, passate i fagioli al passaverdura, mettendone da parte interi 1/3. Nella casseruola della trippa trasferite la vellutata e i fagioli interi, regolate di sale e servite con una macinata di pepe nero.
PASTA E FAGIOLI CON LE COZZE Un piatto che nasce dalla saggezza dei contadini e che, unendo sapientemente l’energia dei carboidrati e le proteine vegetali, ci ha restituito un piatto completo. L’aggiunta delle cozze trasforma un piatto “povero” in una proposta gastronomica ricca di sapidità e gusto che si ispira al mare. Con due varianti concesse dalla scelta della pasta: le trofie, più mediterranee, e un formato maggiormente legato alla tradizione
LA CUCINA DI QB
TEMPO: 30’ + AMMOLLO + 50’ COTTURA INGREDIENTI PER 4-6 PERSONE
La pasta e fagioli arricchita di cozze diventa una proposta gourmet
400 g di fagioli “Bala Rossa 1 carota 1 cipolla 1 pezzettino di alga Kombu 150 g di trofie fresche oppure 150 g di ditalini rigati 1 spicchio di aglio 1 kg di cozze olio evo Pepe nero Mettere in ammollo i fagioli in acqua fredda per 6/8 ore. Scolate dall’ammollo e sciacquateli bene. Trasferiteli in una casseruola (anche una pentola a pressione) con la carota e la cipolla mondate, il pezzettino di alga e cuoceteli circa 40’ (o 20’ in caso di pentola a pressione). Eliminate il bisso dalle cozze e spazzolatele sotto l’acqua corrente fresca. Versate nella casseruola un filo di olio evo, lo spicchio d’aglio in camicia e fatelo dorare, aggiungete le cozze, coprite con il coperchio e continuate la cottura a fuoco vivace fino a quando non saranno tutte aperte. Ci vorranno 5’. Raccoglietele con la schiumarola, eliminate l’aglio e mettete da parte il liquido di cottura, filtrandolo. Portate a ebollizione dell’acqua salata e cuocete al dente la pasta scelta. Scolate e mettete da parte. Nel frattempo sgusciate le cozze e tenetene qualcuna per decorare il piatto. In un wok unite il liquido di cottura delle cozze, la pasta, i fagioli scolati e dopo 2’ le cozze. Cuocete per altri 2’, profumate con il pepe e servite immediatamente con un filo di olio evo e le cozze non sgusciate.
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CRUMBLE DI FAGIOLI, MELE E CANNELLA La ricetta del vero crumble di mele inglese che dopo un giretto nella Val Belluna incontra due mele, si innamora del fagiolo Bala Rossa, ruba un po’ di cannella e diventa un dessert inebriante. Provare per credere. TEMPO: 40’ + AMMOLLO + 1 ORA COTTURA INGREDIENTI PER 8 PERSONE
Ingredienti per la frolla e per il crumble: 180 g farina 00 80 g farina di farro 140 g burro morbido 60 g zucchero semolato 60 g zucchero integrale di barbabietola o di canna 45 g uova intere 1 limone bio, la scorza un pizzico di sale Ingredienti per la farcia: 500 g di fagioli Bala Rossa 2 mele Renette o Golden tagliate a cubetti 50 g di nocciole tritate 100 g di zucchero a velo di canna 3-4 biscotti secchi (tipo Digestive) 1 cucchiaino di cannella 30 g burro zucchero a velo per il servizio
I nostri fagioli finiscono anche nel dolce!
Procedimento per la frolla - Setacciate le farine e impastatene metà con zucchero, burro a pezzetti, scorza del limone e uova. Lavorate l’impasto per 2’, unite il sale, il resto della farina e continuate fino ad avere un impasto omogeneo. Formate un panetto e lasciate riposare in frigo per tutta la notte. Mettere i fagioli in ammollo in acqua fredda per 6/8 ore. Il mattino dopo sciacquateli bene e lessateli nella pentola a pressione per circa 25’. Passateli al passaverdura.
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Procedimento per la farcia - In una padella sciogliete il burro, aggiungete la purea di fagioli, spolverate con lo zucchero a velo. Cuocete con coperchio a fiamma dolce per circa 15’ fino a far caramellare la polpa. Mettere da parte e fate raffreddare. Portare il forno statico a 175°. Mescolate la purea di fagioli con le mele, le nocciole e la cannella. Prelevate poco più di un quarto di impasto e trasferitelo in freezer avvolto nella pellicola: servirà per il crumble di copertura. Stendete su una spianatoia infarinata il resto della pasta dello spessore di 5 mm, foderate uno stampo da 22-24 cm, imburrato ed infarinato. Con i rebbi di una forchetta bucherellate il guscio di frolla, spolveratelo con i biscotti secchi sbriciolati. Distribuite la farcia in uno strato uniforme e con una grattugia a fori grossi, sbriciolate la pasta tenuta in freezer, distribuendo il crumble omogeneamente. Infornate per circa 35’ o fino a che la superficie prenderà un bel colore dorato. Sfornate, lasciate raffreddare completamente. Servite spolverando di zucchero a velo, con un ciuffo di panna o una pallina di gelato allo yogurt.
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