Selezione di Sapori | 2018 03

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I L M A G A Z I N E D I VA L S A N A | 0 3 . 2 0 1 8


SOMMARIO

EDITORIALE di martina iseppon

SELEZIONE DI SAPORI: Il magazine di Valsana Team editoriale: Alessandro De Conto, Anna Maria Pellegrino, Giorgia Barbaresco, Giulia Bassetto, Giulia Basso, Danilo Gasparini, Martina Iseppon, Matteo De Santi

Anche questa volta abbiamo un sacco di novità da raccontarvi e le pagine non ci bastano mai. Partiamo con il tour in Puglia di tutta la nostra rete vendita: bellissima la passeggiata tra i campi di carciofi de I Contadini così come la serata dedicata a Pucce, Friselle e Pizzica, incantati dalla magia del Salento; fantastica l’accoglienza della famiglia Santoro, nel cuore della Valle d’Itria, tra ulivi, trulli e muretti a secco dove abbiamo visto la lavorazione del Capocollo di Martina Franca. Divertente la sperimentazione con birre e formaggi organizzata con i nostri amici del Barone Rosso: l’incontro di due passioni, la loro per le birre e la nostra per i formaggi, ha fatto scoccare la scintilla. Molto formativo anche il corso dedicato ai formaggi in cucina: le fondute che siamo riusciti a preparare non erano niente male... Oltre agli appuntamenti fissi, in questo numero abbiamo quindi diversi reportage: un modo per raccontarvi quanto ci piace il nostro lavoro, con le mille opportunità di incontro e scoperta che ci riserva ogni giorno...

Direttore: Giulia Basso In copertina: Angela e Micaela Santoro, foto di Beatrice Mancini Editore: Valsana srl Via E. Maiorana 3/A - Santa Lucia di Piave TV

Martina Iseppon

Registrazione Tribunale di Treviso n. 2422 del 28/04/2017

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SOMMARIO MAggio | giugno 2018

viAGGIO IN puglia | il salento de i contadini

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viAGGIO IN puglia | la valle d’itria di santoro 08 intervista al produttore | macelleria agricola savigni insoliti ABBINAMENTI | birra e formaggio

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GEOGRAFIA DEL GUSTO | MOZZARELLA & DINTORNI

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STORIA DI UNA MIGRAZIONE | PASTORI, PECORINI E BALZE

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L’ABC DEI FORMAGGI | FORMAGGI E CONSERVANTI

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NOVITà | NOVITà DALLA VALSASSINA 23 FORMAGGI & COMPAGNI | La boca no xe straca se no sa da vaca 24 APPUNTAMENTI | WEEK END IN FILANDA

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FORMAGGI IN CUCINA | FONDE O FILA ?

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LA CUCINA DI QB | LA GRAMMATICA DEI SAPORI

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il salento de i contadini

viaggio in puglia

Dal campo al vasetto: insieme a Edoardo Trentin abbiamo visitato lo stabilimento e i campi de I Contadini e osservato la filiera completa del carciofo

Nei giorni scorsi siamo stati in Salento con la nostra rete commerciale a visitare l’azienda de I Contadini, a Ugento. Un viaggio formativo in cui abbiamo avuto modo di conoscere personalmente tutte le fasi della produzione dei prodotti dell’azienda, in particolare abbiamo approfondito la filiera del carciofo. Sì, parliamo di filiera perché i carciofi, così come tutti gli altri ortaggi de I Contadini vengono prodotti in azienda, dalla messa a dimora delle piantine nel campo, fino al confezionamento nei vasetti e all’imballaggio del prodotto finito.

Edoardo Trentin ci ha accolti nella sua azienda e con una breve passeggiata attraverso il cappereto, con le piante di Cappero di Racale che iniziavano a germogliare e le piantine di pomodoro che sarebbero state piantate nei giorni successivi, abbiamo raggiunto i campi di carciofo Brindisino, varietà autoctona della zona. Edoardo ci spiega che una pianta di carciofo cresce nello stesso campo per tre anni, di cui solo gli ultimi due a pieno regime produttivo. Terminato questo tempo il campo viene dedicato a un altro tipo di coltura idonea alla posizione dell’appezzamento, oppure lasciato addirittura incolto (sovescio).

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Rispetto: per la terra coltivata e per le persone che la lavorano Un utilizzo dei campi a rotazione così da permettere alla terra di rigenerarsi e continuare a essere fertile anche negli anni successivi: una tecnica antica, che si rifà ai principi della produzione integrata, a basso impatto ambientale. Edoardo ci ricorda un vecchio ma saggio modo di dire: “se rispetti la terra, la terra ti rispetterà”, per sottolineare il profondo rispetto che lui e la sua squadra hanno per la loro terra e per le persone che la lavorano, presupposto fondamentale per ottenere dei prodotti di qualità. Dopo la fase di raccolta manuale in campo, che avviene da gennaio a maggio o finchè le temperature lo consentono, i carciofi vengono selezionati tramite una macchina calibratrice che li suddivide per dimensione. Da qui ha inizio la fase di lavorazione nello stabilimento, seguita da Emanuele, fratello di Edoardo, che avviene in tempi davvero brevi dalla raccolta. Le donne - in produzione da I Contadini lavorano solo donne - con assoluta precisione mondano i carciofi con un coltellino, eliminandone la parte coriacea e le foglie più esterne. Tutto lo scarto viene poi riutilizzato in campo, in una logica di produzione integrata e riduzione dello spreco. Segue la fase della cottura degli ortaggi in una soluzione di acqua,

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sale integrale di Trapani, aceto di mele e limone. Quindi è la volta dell’invasettamento, realizzato rigorosamente a mano, così da permettere alle donne di svolgere un ulteriore controllo sul prodotto, assicurando di invasettare solo i carciofi migliori. Abbiamo avuto la possibilità di assaggiarli al naturale, prima di essere invasati: una vera delizia! Infine, i vasetti vengono riempiti di olio extravergine d’oliva e olio di semi di girasole, sigillati ed etichettati, quindi pronti per essere spediti. Questo è il regno di Gianna, sorella di Edoardo, che si assicura che tutti i vasetti vengano confezionati e imballati in modo adeguato per il trasporto. La nostra visita si è conclusa con un pranzo in azienda, dove abbiamo degustato i carciofini di cui abbiamo osservato tutto il processo produttivo e qualche altra tipicità pugliese, come i taralli e la pasta con le cime di rapa. Ma se la visita giunge al termine, non si può dire certo lo stesso per l’accoglienza che ci è stata riservata: dopo una passeggiata sul lungomare abbiamo avuto modo di assaggiare alcune nuove proposte e di divertirci con Edoardo, Luciano, Alice e tutto il gruppo de I Contadini in una serata dedicata all’allegria, alla condivisione e... alla pizzica, a cui non abbiamo proprio saputo resistere!

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viaggio in pUGLIA

(1) Cime di rapa e acciughe

(2) Carpaccio di finocchio, arancia e curcuma

(3) Peperoni alla crudaiola, in patè e peperoni piccanti

Il progetto Food Service L’occasione di questo viaggio in Salento ci ha permesso di conoscere il nuovo e interessante progetto Food Service de I Contadini, dedicato a tutti i professionisti del settore. Partendo dai propri prodotti e unendoli alla tradizione salentina è nata l’idea di creare delle ispirazioni di preparazioni e impiattamenti, realizzate grazie all’aiuto dello chef Tonino Piccolo. Ogni prodotto viene declinato in diverse proposte originali, facilmente adattabili alla realtà della ristorazione, da quella più veloce del bar a quella più slow del ristorante. Il “menù” de I Contadini si sviluppa così in quattro direzioni: La Frisa: era il pane dei pescatori, emblema della cucina povera del Salento: veniva bagnato direttamente nell’acqua di mare e condito con pomodoro fresco spremuto. E’ un impasto a base di acqua farina e lievito, a doppia cottura, usato come base da farcire.

La Puccia: simbolo della gastronomia salentina, è cibo da strada ma anche alimento di grande tradizione familiare, come le pucce che si preparano per la festa dell’Immacolata, l’8 dicembre. E’ un pane a lievitazione naturale, cotto a pietra, tagliato, farcito e infornato per renderlo succulento e croccante. L’Antipastino: una proposta semplice, veloce e gustosa, ideale per stuzzicare l’appetito o in accompagnamento a un aperitivo. La Cucina: piatti veri e propri, più elaborati rispetto ai precedenti e che richiedono tempi di preparazione più lunghi e un maggiore utilizzo di attrezzature. Abbiamo assaggiato molte proposte interessanti, realizzate anche con alcuni nuovi prodotti che cogliamo l’occasione di presentarvi in questo nuovo numero del nostro magazine.


(4) Patè di olive, puntarelle e misticanza

(5) Ciliegini essiccati, patè di carciofi e capocollo

(6) Carciofi crudaiola e in patè, frittata alla menta

PUNTARELLE ALLA CRUDAIOLA

PEPERONI ALLA CRUDAIOLA

CARPACCIO DI FINOCCHIO

POMODORI SECCHI “READY TO EAT”

Le puntarelle sono il cuore della Cicoria Catalogna, un’insalata tipica del Salento. I germogli vengono sfogliati a mano e messi in una concia a maturare per qualche giorno, quindi conservati in olio di girasole, olio evo, aceto di mele e succo di limone. Le abbiamo assaggiate su una frisella con patè di olive e misticanza (3)

Peperoni dolci rossi coltivati in campo aperto a partire da maggio e raccolti a mano tra agosto e settembre. Dopo una concia di qualche giorno vengono invasettati a mano con foglie di menta, aglio e olio evo. Deliziosi su una frisa (4) con patè di peperoni e rucola, accompagnati da peperoni salentini piccanti e olive leccine

Pianta dalle note proprietà digestive, il finocchio è raccolta a mano a febbraio, privato delle coste dure e affettato in un fine carpaccio. Dopo la concia viene invasettato a mano crudo per conservarne le caratteristiche organolettiche e nutritive. Croccante, fresco e profumato, perfetto con filetti di arancia al vivo e curcuma (2)

Pomodoro secco raccolto ed essiccato naturalmente al sole. Già lavato, dissalato e pronto all’uso, è perfetto in moltissime ricette veloci, come uno spaghetto aglio olio e pomodori secchi, una fresca e croccante insalata, o semplicemente come aperitivo, anche per arricchire il cestino del pane

cod 93991 | vasetto da 520 g cod 93992 | vaso da 1,6 kg

cod 93995 | vasetto da 230 g cod 93996 | vaso da 1,6 kg

cod 93993 | vasetto da 230 g cod 93994 | vaso da 1,6 kg

cod 93997 | sacchetto da 250 g

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santoro e la valle d’itria

viaggio in puglia

Vi raccontiamo la nostra visita al Salumificio Santoro per conoscere le caratteristiche fondamentali della produzione del Capocollo di Martina Franca

Lasciato il mare del Salento abbiamo raggiunto i trulli della Valle d’Itria per ritrovare i nostri amici del Salumificio Santoro. Siamo a Cisternino, in una piccola contrada tra le colline pugliesi tempestate di ulivi e dai tipici tetti appuntiti.

dell’azienda, per conoscere da vicino gli aspetti caratteristici della produzione del Capocollo di Martina Franca. Giuseppe si mette subito al lavoro per farci capire l’importanza delle diverse fasi della lavorazione.

Ci danno il benvenuto Giuseppe e Piero, i due pilastri dell’azienda, e ricordando qualche aneddoto sul primo incontro di diversi anni fa con Gino Magro, entriamo nello stabilimento. Qui Angela e Micaela, figlie di Giuseppe, e Nico, il figlio di Piero ci accolgono con il solito calore pugliese a cui ci siamo presto abituati durante questo viaggio.

La carne, proveniente dal taglio del collo di suini locali, viene salata a secco con sale marino delle saline pugliesi di Margherita di Savoia e pepe nero, e poi lasciata riposare. Durante le due settimane di riposo la carne viene rigirata quattro volte, per permettere alla salatura di penetrare alla perfezione.

Indossati copri scarpe, camice e cuffietta iniziamo la visita nelle sale di lavorazione

Successivamente viene lasciata marinare per alcune ore in immersione nel vin cotto, il mosto cotto di Verdeca, un vitigno bianco

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Nulla di meccanico, solo le mani sapienti di Giuseppe e Piero

autoctono della Valle d’Itria, poi delicatamente speziata e insaccata. Nulla di automatico, solo le mani sapienti di Giuseppe, Piero e dei ragazzi che lavorano con loro. Non avendo un insaccamento meccanico Giuseppe ci fa vedere come la carne debba essere massaggiata manualmente per dare la giusta forma al salume. Il capocollo viene quindi insaccato in budello naturale, anch’esso precedentemente immerso nel vin cotto, e legato a mano per essere appeso. Impariamo che il vero Capocollo di Martina Franca può essere legato solo a un’estremità, perciò per assicurare che le carni mantengano la loro compattezza e per far sì che le parti grasse e magre non si dividano, viene “vestito” prima con una calza e poi con una rete. Infine un ultimo massaggio permette di far uscire le bolle d’aria formatesi con la lavorazione e di dare ulteriore forma al pezzo. I capocolli vengono quindi affumicati per due giorni con legno di Fragno, una quercia diffusa nella zona. Giuseppe e Piero ci hanno permesso di affacciarci alla cella, e anche se in quel momento non era in funzione, il profumo intenso e inebriante del fumo ci ha subito travolti.

Una volta asciutti i capocolli vengono stagionati per almeno 90 giorni nelle cantine ad aerazione naturale, dove i venti dal mare Adriatico e dallo Ionio completano il lavoro. A fine stagionatura il Capocollo di Martina Franca svela tutti i suoi aromi caratteristici di tostato, spezie e nocciole, con un delicato sentore di fumo e una leggera nota vinosa. I padroni di casa sapevano che la visione e il profumo di tutti quei capocolli appesi in stagionatura ci avrebbe fatto venire l’acquolina, così alla fine della visita abbiamo pranzato tutti assieme con il Capocollo di Martina Franca e gli indimenticabili fritti della mamma di Giuseppe e di sua moglie Piera. Un’ultima cosa che abbiamo assaggiato e vi suggeriamo di provare: i fiori di zucchina fritti, ripieni con Capocollo e ricotta sono una vera bontà!

Giulia Bassetto è laureata in Commercio Estero, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari a Venezia ed è Marketing Manager in Valsana

capocollo di martina franca Capocollo prodotto in Valle d’Itria con metodi tradizionali e carni locali. Il sapore è dolce, poco sapido, con note di tostato, spezie e leggere note di cantina cod 82560 | peso 2 kg circa cod 82561 | peso 900 g circa a metà s.v.


macelleria agricola savigni

intervista al produttore

Famiglia, passione, impegno, filiera corta, benessere animale, rispetto dell’ambiente: sono questi i valori che guidano i Savigni, artigiani della carne, ma prima ancora allevatori: “perchè la carne è una questione di cuore”

Giulia Basso è giornalista collaboratrice de Il Piccolo di Trieste e direttore responsabile del nostro magazine, Selezione di Sapori, dal 2017

Nel ricevere la cittadinanza onoraria di Pavana, frazione di Sambuca Pistoiese, nel cuore dell’Appennino tosco-emiliano, il loro compaesano Francesco Guccini ha sottolineato: “Sono il primo pavanese ad avere l’onore di prendere la cittadinanza sambucana. Io però son conosciuto in Italia, ma mi fermo lì. C’è un pavanese che sta riempiendo del suo nome e del nome di Pavana l’Europa intera. Quindi io se fossi di Sambuca la cittadinanza la darei a Savigni, perché sta esportando maiali in tutta Europa”. L’azienda agricola Savigni, nel cuore dell’Appennino toscoemiliano, è l’esempio di una scommessa che si è tramutata in un’esperienza di successo nel giro di qualche decennio. La ricetta vincente? L’impegno e la caparbietà di una famiglia che ha saputo anticipare i tempi, puntando sull’alta qualità e sul biologico fin dall’inizio della propria avventura. Partiti da una macelleria, i Savigni, papà Fausto, mamma Paola e i figli Nicolò e Mileto, hanno deciso di creare sullo stesso territorio la propria azienda agricola, affiancandole nel tempo anche un salumificio, dando così vita a una filiera chiusa e cortissima: la migliore garanzia di qualità possibile. Con Nicolò Savigni abbiamo ripercorso le principali tappe di questo percorso faticoso ma anche estremamente stimolante, che ha consentito ai Savigni di diventare un vero e proprio simbolo dell’eccellenza italiana nel mondo. 1) Siete partiti da una macelleria nel piccolo borgo di Pavana, nell’Appennino tosco-emiliano, per arrivare all’azienda agricola a filiera chiusa con salumificio. Quando e come è avvenuto il passaggio? I nostri genitori sono partiti nel 1985 da un negozio, una macelleria sulla strada Porrettana, a Pavana, tra i monti dell’Appennino tosco-emiliano, al confine tra le due regioni. Erano gli anni ’80 e a quell’epoca erano in tanti ad abbandonare l’agricoltura per andare a lavorare in fabbrica. Quando si

sono resi conto che era sempre più difficile ottenere animali di qualità per le nostre carni i miei genitori hanno deciso di realizzare in loco una propria azienda agricola, per avere una filiera controllata internamente dall’inizio alla fine. L’idea è divenuta realtà con l’aiuto di mio fratello nel 1999: siamo partiti con l’allevamento di bovini e di suini di razza Cinta senese, il nostro cavallo di battaglia. Nel 2004 abbiamo deciso per un ulteriore passo in avanti e abbiamo costruito un salumificio, uno stabilimento a bollo CE per occuparci in casa di tutti gli aspetti della lavorazione delle carni. Io mi sono preoccupato di ottenere tutte le autorizzazioni e certificazioni necessarie. E nel 2008 siamo diventati una delle più piccole aziende italiane autorizzate all’export in Giappone, un passaggio complesso che richiedeva ulteriori garanzie rispetto al bollo CE. 2) Perché gli inizi sono stati una scommessa? Per una questione di tempo e di luogo: ci avevano sconsigliato in tanti di avviare un allevamento e un’azienda agricola biologica a Pavana, in piena montagna e in un posto isolato, al di fuori dei tradizionali percorsi turistici. Invece è stata una scelta intelligente e azzeccata: abbiamo precorso i tempi, perché poi tutta l’agricoltura italiana si è spostata sul biologico, garanzia di qualità e di redditività più elevata. 3) Dove allevate i vostri maiali e in che modo? Abbiamo iniziato ad allevare animali solo a Sambuca Pistoiese, nell’azienda agricola da dove siamo partiti, che può contare su 16 ettari di terreno biologico. Oggi non sono più sufficienti per il fabbisogno aziendale, perché ci siamo ingranditi, quindi utilizziamo la nostra azienda agricola per la riproduzione: facciamo accoppiare gli animali, poi quando nascono li trasferiamo in altre tre aziende del territorio. Questo perché a differenza degli allevamenti intensivi noi alleviamo gli animali allo stato semi brado e siamo chiamati a rispettare il cosiddetto “coefficiente capo ettaro”, che garantisce un allevamento rispettoso della qualità di vita degli animali.

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la famiglia savigni Paola, Mileto, Fausto e Nicolò: sono loro a gestire la macelleria di famiglia a Pavana Pistoiese (PT), un paesino sull’Appennino toscoemiliano a 400 metri di altezza, dove allevano anche i propri animali

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intervista al produttore

Abbiamo intervistato Nicolò Savigni, terza generazione di una famiglia di norcini

4) Quanti animali allevate oggi e come avviene la loro crescita?

7) Come avviene la lavorazione delle carni?

Circa un migliaio di suini, tra Cinta senese e Sambucano (incrocio di cinta e suino rosa realizzato dai Savigni) e 250 bovini. Quando i suini hanno circa 60 giorni li dirottiamo in una delle tre aziende che lavorano per noi in esclusiva: una si trova presso il Dynamo Camp, tenuta di oltre mille ettari nell’appennino tosco-emiliano inserita in un’oasi affiliata WWF; la seconda è la Cooperativa Agricola Perterra, di Pescia, in Toscana; la terza è invece in Emilia, l’azienda agricola La Rocchetta di Castel d’Aiano. Quando i maiali raggiungono i 160-180 chili vengono portati al macello, l’unico aspetto di cui non ci occupiamo personalmente, quindi arrivano nel nostro stabilimento per essere trasformati in carni e salumi.

Gli animali vengono portati al macello il lunedì e il martedì mattina arrivano nel nostro laboratorio, dove le carni vengono selezionate e lavorate per la realizzazione dei prodotti freschi, degli stagionati, dei cotti. Per i nostri salumi non utilizziamo aromi, ma spezie. E per la salatura usiamo il sale di Cervia, la salina naturale più vicina a noi. Tutti i passaggi sono realizzati in modo artigianale, ma avvalendoci delle più moderne tecnologie: così accoppiamo innovazione e artigianalità. A Pavana siamo in una posizione di confine, perciò abbiamo combinato tradizioni diverse. Ci siamo distinti come prodotto toscano non salato e per noi è importante, perché non vogliamo usare molto sale e pepe: puntiamo a far conoscere e apprezzare la qualità delle nostre carni.

5) Quanto conta mantenere un ritmo simile a quello naturale nell’allevamento della Cinta?

8) Quanti dipendenti avete oggi e com’è avvenuta la vostra straordinaria espansione?

A differenza degli allevamenti industriali, in cui i suini hanno un ciclo di vita di 4-6 mesi, il disciplinare della Cinta ne impone almeno 12. Per i nostri animali il ciclo è di circa 14 mesi. Il ritmo lo si apprezza dalla formazione del grasso, che è fondamentale per determinare la qualità e il gusto delle carni. Grazie a un ritmo lento otteniamo salumi di Cinta con grasso sano, composto da acidi grassi insaturi al 63%: questa qualità è particolarmente apprezzata dai nostri clienti, specie dai giapponesi, e ci differenzia dalla maggior parte degli allevamenti toscani di Cinta, che spesso si trovano in pianura.

Oggi nell’azienda agricola ci lavora tutta la mia famiglia e altri 16 dipendenti. Farci conoscere non è stato facile, perché Sambuca è una località isolata e poco turistica. Ci siamo riusciti partecipando a molti eventi e fiere di settore in Italia e all’estero. Il resto l’ha fatto il passaparola. Oltre alla vendita diretta oggi abbiamo una linea di botteghe a nostro marchio, che non gestiamo direttamente: presto ne apriremo anche a Milano e Torino.

6) Cosa mangiano i vostri suini?

9) Guccini ha detto che la cittadinanza onoraria di Pavana avrebbero dovuto darla ai Savigni, perché siete conosciuti in tutt’Europa. Dove esportate?

L’alimentazione è uno degli elementi fondamentali per la qualità delle carni: i nostri suini mangiano sano, perché sono allevati allo stato semi brado in terreni certificati bio: l’unica integrazione che facciamo d’inverno, trovandoci in ambiente montano, è con mangime biologico.

Guccini è un nostro amico e cliente da sempre: ci vuole bene e perciò esagera, perché lui in realtà è molto più famoso di noi. Con i nostri prodotti siamo presenti nel Nord Europa, dalla Francia alla Germania fino al Belgio, e da molti anni in Giappone.

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Salumi di Cinta Senese bio

spalla cotta di cinta senese dop

salame di cinta senese bio

Finocchiona IGP di Cinta Senese Bio

Spalla cotta e disossata ottenuta da suini di razza Cinta Senese allevati della famiglia Savigni. La fetta si presenta di colore rosato, con una buona porzione di grasso bianco. La spalla è completamente disossata e cotta in vescica, ideale anche per la gestione del taglio con affettatrice. Al palato è dolce, non troppo sapida. Dopo l’assaggio permane un piacevole aroma di carne e spezie

Un salame dolce prodotto con carne di Cinta Senese DOP. La forma ricorda quella del salame Felino, la fetta si presenta di colore rosso vivo e di grana media, con lardelli piuttosto visibili. La parte magra è compatta mentre la parte grassa è estremamente fondente; insieme risultano dolci e il prodotto morbido, con un importante contributo dei granelli di pepe. Ottimo con il pane di patate

Finocchiona di Cinta Senese DOP stagionata 90 giorni circa. La fetta si presenta di colore rosso vivo, con grana media e lardelli piccoli; i pezzetti di semi di finocchietto selvatico sono ben visibili. La parte grassa è piuttosto fondente e contribuisce alla dolcezza del salume, che nel complesso al palato è morbido. L’aroma derivante dal finocchietto selvatico è ben distinguibile durante l’assaggio

codice 79128 | peso 9-10 kg

codice 79124 | peso 1 kg circa

codice 79125 | peso 1 kg circa

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birra e formaggi

insoliti abbinamenti

Dopo avervi proposto degli abbinamenti inusuali, come tè e gin-tonic, abbiamo scelto una via più rassicurante per questo terzo numero: è arrivato il momento della birra!

Alessandro De Conto, laureato in Ingegneria ma appassionato di formaggi, in Valsana si occupa di selezione ed è Responsabile dell’Export

Se l’esperienza di abbinamento tra formaggio e birra è abbastanza recente nel nostro paese, trova invece nella storia esempi consolidati di coesistenza. Basti pensare alle abbazie trappiste belghe, che da centinaia di anni producono (alcune ancora ora) birre e formaggi, evidentemente per rispondere alla domanda del mercato del tempo. Abbiamo quindi voluto mettere “il naso nel bicchiere” e verificare personalmente se fossero efficaci le indicazioni di abbinamento che ci venivano offerte dalla letteratura, dai blog e dalle degustazioni degli altri. Qualsiasi abbinamento segue sì dei canoni di massima (concordanza o contrasto), tuttavia sappiamo anche che segue, e molto, le regole della soggettività, del sentire personale, della componente emotiva. E quindi ciò che viene suggerito non sempre è confermato dal nostro palato, come è capitato a noi. L’idea iniziale era quella di porre l’attenzione su tipologie di birre prettamente estive come la Blanche, la Ipa e una bionda Belga a bassa gradazione alcolica e di conseguenza, seguendo principi teorici, ci siamo immaginati una rosa di formaggi che potessero ben combinarsi con le categorie di birre sopracitate. Tuttavia al banco di prova, avvalendoci anche dell’aiuto dei ragazzi del Barone Rosso di Conegliano (TV), ci siamo lasciati convincere dal nostro palato e abbiamo ben accolto anche tipi di birre diversi come una Dark Ale o una Lambic. Il primo abbinamento che ci ha convinto è quello tra una Blanche e il Narangi: un matrimonio

perfetto! Le note agrumate del formaggio e della birra andavano a braccetto insieme. Tra una Ipa, una Triple e una Double si sono susseguite diverse prove. Divertente notare come si evolvesse e maturasse l’abbinamento tra lo stesso formaggio e la stessa birra mano a mano che il primo prendeva la giusta temperatura e la seconda evolveva nel bicchiere. Talvolta il nostro lavoro si rivela davvero stressante! Il secondo abbinamento è per palati più “spessi”, pronti ad affrontare acidità non comuni. I protagonisti sono una Lambic e il Chevre Noir d’Argental. Questo tipo di birra, quasi ancestrale, prevede una fermentazione spontanea, attivata dai microrganismi presenti nell’aria. Altro abbinamento molto interessante l’abbiamo riscontrato tra Lambic alle ciliegie e Salva Cremasco, un‘altra gioia per le papille! L’ultimo abbinamento è all’insegna delle note tostate. Dark Ale-Ossau Iraty suona come il nome di un gruppo heavy metal e invece racconta soltanto i nomi dei prodotti protagonisti di un accoppiata che riscalda, quasi da meditazione. Un birra scura, alcolica e intensa che ha bisogno delle sensazioni grasse e rotonde di un formaggio d’alpeggio come Gruyere o Beaufort o di un pecorino a pasta cotta. Noi abbiamo scelto il secondo, in particolare l’Ossau Iraty Fermier AOC. Vista la premessa iniziale viene facile dire che quelli proposti non sono abbinamenti assoluti, possiamo solo suggerirvi di provarli in prima persona. Permetteteci soltanto di consigliarvi di abbinare prodotti con intensità simili: difficilmente un formaggio molto intenso potrebbe accompagnarsi a una Blanche fresca e delicata. Non ci resta che augurarvi di divertirvi come abbiamo fatto noi!

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Il racconto di come abbiamo sviluppato gli abbinamenti, sperimentando e divertendoci

Blanche

Lambic

Brown Ale

La Blanche presenta fresche note citriche, di scorza d’agrume e leggerissime note speziate di coriandolo e pepe bianco.

La Lambic sprigiona sensazioni acide e selvatiche già al naso; al palato l’effervescenza è quasi nulla e il sapore rimanda ai ricordi del sidro, della frutta matura, o ancora di sensazioni animali.

La Brown Ale, o Dark Ale, è una birra scura, con corpo denso e schiuma rigogliosa, caratterizzata da note di cioccolato, caffè, a volte liquirizia, dal fondo tostato e leggermente amaro e dall’importante gradazione alcolica.

Il caprino avvolto dalla cenere vegetale sostiene bene l’affiancamento: la parte più grassa e fondente del sottocrosta e la buona acidità e pastosità del centro ben si compensano con l’acidità della birra. Le leggere sensazioni animali del formaggio trovano naturale approdo nelle note selvatiche di questa birra.

L’Ossau Iraty fermier con le sue note di nocciola, frutta tostata, burro cotto e la sua pasta liscia ma per nulla asciutta, si combina alla perfezione. La gradazione alcolica della birra aiuta a ripulire il palato, ma il gioco più bello avviene nell’alternarsi dei sapori, dove ciascun componente aromatico rafforza e arricchische l’altro, che bellezza!

narangi canestrato all’arancia

chevre noire d’argental

ossau - iraty fermier aoc

Canestrato siciliano a latte misto vaccino e ovino, aromatizzato con scorze d’arancia

Formaggio caprino, prodotto con latte crudo e con carbone vegetale

Formaggio AOC del Bearn e dei Paesi Baschi, prodotto con latte di pecore autoctone

cod 30964 | peso 2,5 kg circa

cod 44208 | peso 850 g circa

cod 46770 | peso 5 kg circa

La buccia d’arancia presente nel Narangi, formaggio canestrato di Salvatore Passalacqua, si aggancia splendidamente alle note agrumate della birra e l’effervescenza di quest’ultima ripulisce il palato dalla leggera sapidità del formaggio. La stessa scintilla non è scoccata invece nella combinazione con un caprino fresco: la birra prende il sopravvento totale e il formaggio sparisce.

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mozzarella & dintorni

geografia del gusto

Un viaggio nel tempo fino all’invasione dei saraceni nel IX secolo d.C. per scoprire come è arrivata in Italia la lavorazione della pasta filata, e come è nata, 200 anni dopo, “l’italianissima” mozzarella

Alessandro De Conto, laureato in Ingegneria ma appassionato di formaggi, in Valsana si occupa di selezione ed è Responsabile dell’Export

IX secolo d.C, golfo di Gaeta. All’orizzonte spuntano le navi saracene, l’esercito arabo vuole conquistare il centro della penisola italiana dopo aver invaso la Sicilia. Vi starete chiedendo cosa mai c’entri questo accadimento storico con il tema che stiamo per affrontare. C’entra eccome. E’ versione accreditata che in occasione di questo evento siano arrivati i primi bufali in Italia, ma non solo... Possiamo presumere con buona certezza che anche la tecnica di filatura della pasta sia arrivata allo stesso modo e nello stesso periodo. Ma arrivati da dove? Dalla Mesopotamia, l’attuale Iraq, culla dell’arte casearia. Solo 200 anni dopo si cominciò in Campania a produrre le prime Mozzarelle di Bufala, presso il convento di San Lorenzo in Capua, dove si racconta che i monaci offrissero ai pellegrini un rancio composto da un formaggio chiamato “mozza”, nome legato al gesto di mozzatura della pasta. Le guerre, le invasioni e i domini hanno lasciato sicuramente devastazione e morte, tuttavia sono state tramite di nuovi ingredienti, ricette e tecniche che hanno viaggiato con gli eserciti invasori e poi si sono integrate nei secoli con usi e costumi dei territori conquistati. E così, prima di cominciare il nostro tour, prendiamo coscienza del fatto che sì, le origini della mozzarella sono italiane, ma la tecnica della pasta filata è nata altrove, molto lontano da qui. Lì dove probabilmente capitò di voler rivitalizzare con acqua calda una cagliata “dimenticata”, ottenendo così una massa filante.

Ci viene così naturale partire dalla Mozzarella di Bufala Campana Dop, prodotta in gran parte della Campania, basso Lazio e territorio foggiano. I produttori che abbiamo selezionato negli anni, Caseificio Anteo (marchio Lady Bu) e Caseificio Rivabianca, rappresentano due scuole diverse, la scuola frusinate nel primo caso e la salernitana nel secondo. Dal colorito più opaco la prima con una consistenza più cedevole, dai toni più porcellanati e consistenza più croccante la seconda. Lascio a voi le considerazioni sulle differenze di carattere organolettico. Da una mozzarella campana ci dobbiamo in ogni caso aspettare un sapore intenso, con leggera acidità accompagnata a note di sottobosco, muschio e a volte di selvatico. Al taglio rilascia il caratteristico latticello e ben evidenzia la trama della pasta filata. Spostandoci verso il versante adriatico troviamo in Molise la Fiordilatte, nome dato nei secoli per differenziare la mozzarella vaccina da quella bufalina. Il sapore è più dolce e poco sapido, le note lattiche predominano e la texture della pasta lascia appena intravedere i segni della filatura. La lavorazione della fiordilatte è nata nel territorio di Agerola e si è poi diffusa in tutta Italia. Oggi il termine “fiordilatte” identifica nell’accezione comune, pur in assenza di un disciplinare, una mozzarella a latte vaccino prodotta in modo artigianale, ad esempio senza acido citrico. Purtroppo negli ultimi anni l’identità artigianale della fiordilatte si è di molto diluita, mano a mano che la domanda del mercato cresceva, tanto è vero che oggi risulta molto difficile tracciare una differenza netta tra fiordilatte e mozzarella. Parlando di freschissimi non possiamo non fermarci ad Andria, patria della Burrata. E’ un prodotto di recente invenzione - si pensi infatti che non ha ancora raggiunto il secolo di storia - la cui origine è legata a Lorenzo Bianchino, casaro e pastore. Si racconta che, a causa di una forte nevicata, non potendo trasferire il latte in città dalla sua masseria e dovendo necessariamente trasformarlo (soprattutto utilizzare la panna o crema che naturalmente

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affiorava), Bianchini provò a realizzare un prodotto fresco ispirandosi al concetto di produzione delle mantèche, involucri di pasta filata stagionata in cui è conservato il burro. Rifacendosi alla cultura contadina che non ammetteva sprechi, pensò di riutilizzare i residui della lavorazione della pasta filata, mescolandoli con della panna e avvolgendo il tutto in un involucro fatto anch’esso di pasta filata: ed ecco nata la Burrata, un sacchetto di sfoglia di mozzarella farcito con sfilacci di mozzarella e panna. Il sapore è dolce, burroso, molto poco sapido, la consistenza è cremosa e suadente, le possibilità di abbinamento in cucina sono davvero infinite.

Per concludere saliamo al nord, dove solo negli ultimi 10 anni si sono sviluppati allevamenti bufalini e dove l’azienda Borgoluce sta producendo una mozzarella di latte di bufala davvero interessante. Non si deve però incappare nella tentazione di confrontarla con la sorella campana; territorio, tradizione e clima offrono infatti (dovreste ormai saperlo) risultati differenti. La veneta è dolce, con sapidità appena accennata, sentori di muschio e animale ridotti al minimo e una nota di cocco a tratti percepibile. Avete ancora qualche dubbio sulla Mozzarella da scegliere per la vostra Caprese?

mozzarella di latte di bufala borgoluce cod 21060 | peso 250 g

fiordilatte latteria del molise

mozzarella di bufala campana dop ladybù

cod 24800 | peso 250 g

cod 25170 | peso 250 g

mozzarella di bufala campana dop rivabianca cod 25046 | peso 250 g x 8 | su prenotazione

burrata del caseificio olanda cod 24901 | peso 250 g

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storia di una migrazione

pastori, pecorini e balze A Volterra ha le radici un monumento della provincia pisana, il Pecorino delle Balze Volterrane

Matteo De Santi è Laureato in Economia Aziendale a Pisa, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari ed è Export Manager in Valsana

Approfondiamo, con l’aiuto dei nostri amici della Fattoria Lischeto, la storia di questo territorio e di come questa famiglia sia riuscita a dar vita a Pecorini unici.

Se pensate che la tradizione dei pastori di pecore in Toscana sia antica, siete lontani dalla verità, questo perché solo grazie a 340 famiglie di origine sarda in questo territorio si è arrivati a produrre formaggi noti a livello mondiale. La migrazione delle famiglie dalla Sardegna avvenne intorno agli anni ’60 e con loro non portarono solo le greggi ma anche un’abilità nella lavorazione del latte di pecora che di gran lunga superava quella dei pastori toscani.

tricotta divina bio

pecorino delle balze volterrane dop bio

pecorino v bio

Ricotta ovina passata al forno, dolce e delicata

Pecorino a latte crudo, delicato e floreale; stagionato 3 mesi

Pecorino semista crudo, leggermen

cod 30989 | peso 1 kg circa

cod 30995 | peso 1,3 kg circa

cod 30991 | peso

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Formaggi toscani, a latte crudo, bio e con caglio vegetale Il motivo principale della traversata tirrenica fu la mancanza di pascoli in terra sarda e, in secondo luogo, anche la possibilità di acquistare i vasti terreni allora inutilizzati dai mezzadri toscani. Si crearono quindi diversi ceppi di insediamento, principalmente nella Val d’Orcia, Pisa e Firenze, i quali diedero vita a loro volta a formaggi con identità diverse. Giovanni Cannas si stabilì con la sua famiglia a Volterra, fra le balze, uno spettacolare fenomeno di erosione su una superficie di 240 ettari, fra cipressi e colline, adesso adornate di opere d’arte. Le balze, in quanto a vegetazione, sono un territorio molto interessante, perché qui è favorita la crescita spontanea di erbe aromatiche e fiori.

Nello specifico, il pascolo delle pecore di razza sarda della Fattoria Lischeto è a base di graminacee, di cardo selvatico, sulla e timo. Tale alimentazione regala al latte un sapore ricco di note erbacee e vegetali. In questi casi la natura dà dei segnali da cogliere, come la grande presenza naturale di carciofo selvatico nella zona: il suo utilizzo come caglio ha permesso di preservare quelle note vegetali iniziali senza aggiungere le note animali che un diverso caglio avrebbe conferito. I pecorini del Lischeto hanno anche la particolarità di essere biologici, rendendo il formaggio davvero unico! Vi ripresentiamo la nostra selezione dei loro formaggi, nati fra balze e opere d’arte del nostro Giovanni.

velathri

pecorino maschio volterrano bio

pecorino pecora nera bio

agionato a latte nte sapido

Pecorino stagionato circa 8 mesi, delicato e leggermente piccante

Pecorino a latte crudo, fondente al palato; stagionato 10 mesi

cod 30994 | peso 2,5 kg circa

cod 30997 | peso 1,3 kg circa

1,3 kg circa

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l’abc del formaggio

formaggi e CONSERVANTI I conservanti vengono utilizzati per evitare l’insorgere di difetti nei formaggi, come gonfiori e muffe. Ma con una corretta alimentazione degli animali si possono evitare

Giorgia Barbaresco è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari a Udine ed è Responsabile Qualità in Valsana dal 2007

Leggendo il titolo di questo articolo potremmo chiederci: “Se la caseificazione è un metodo per conservare il latte per quale motivo devono essere aggiunti conservanti al formaggio?” Gli alimenti freschi per loro natura sono soggetti ad alterazioni chimiche e fisiche, se non vengono adeguatamente conservati. L’uomo ha sempre cercato di contrastare questo deterioramento con processi come la cottura, la salagione, l’essicamento, l’affumicatura e altri metodi di conservazione. Grazie allo studio di molti scienziati fra i quali Pasteur, a partire dal XIX secolo sono stati fatti molti passi in avanti nell’industria alimentare, aspetto necessario in un periodo in cui aumentavano le distanze fra “luogo di produzione” e “luogo di consumo” degli alimenti.

Contaminazione del latte e pastorizzazione L’alterazione degli alimenti è causata da fattori biologici e fisici, spesso in relazione fra loro. Le cause biologiche sono legate ai microorganismi e agli enzimi presenti nell’alimento stesso, quelle chimico-fisiche invece sono scatenate dal contatto con l’ossigeno, la luce, il calore, l’umidità... Nel settore caseario le fonti di contaminazione sono molte, il latte può arrivare in caseificio già contaminato, potrebbe contaminarsi alla stalla, nel mezzo di trasporto, nel caseificio stesso: per questo curare la pulizia in tutte le fasi è essenziale. Oltre alla pulizia è fondamentale il controllo della temperatura: il latte, soprattutto quando viene raccolto il giorno successivo alla mungitura, deve essere immediatamente raffreddato in modo da bloccare lo sviluppo dei microrganismi presenti. Maggiore è la distanza fra la stalla e il caseificio maggiore sarà il tempo di “conservazione” del latte e quindi il rischio di contaminazione.

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Fig.1: Insilati e ciclo di proliferazione dei clostridi

le spore di clostridi vengono ingeriti dalle bovine

le spore proliferano nei foraggi conservati in assenza di aria

insilati il letame usato come fertilizzante riporta le spore nel terreno

Caseifici che raccolgono grandi quantità di latte devono ovviamente fare i conti con lunghi tempi di trasporto e latte proveniente da stalle diverse ognuna con la propria alimentazione e differenti condizioni igieniche. A queste condizioni per poter ottenere un prodotto sicuro è necessario sanificarlo con la pastorizzazione, a volte però potrebbe non bastare.

Alimentare le vacche con gli insilati (foraggi fermentati conservati in assenza di aria) rappresenta la principale causa della presenza di clostridi nel latte: mentre con l’alimentazione tradizionale (a base di erba o fieno) si trovano meno di 200 spore di clostridi per litro, con quella a base di insilati se ne possono trovare più di 2000.

Alimentazione delle bovine e formazione di microrganismi dannosi (clostridi)

Gli insilati vengono comunque utilizzati perchè consentono l’abbattimento dei costi della “razione”. L’unifeed ovvero “piatto unico” permette di somministrare in una sola volta tutti i componenti della dieta mescolati tra loro, con un notevole risparmio di tempo. Vengono utilizzati grandi carri miscelatori che prelevano l’insilato dai silos, aggiungono i foraggi e li mescolano a mangimi ed altre materie prime anche liquide. Il contro è che con questo sistema la polvere e la terra che contaminano i foraggi finiscono nella miscela e la presenza di acqua, amidi e zuccheri favorisce lo sviluppo dei clostridi. Le vacche ingeriscono così le spore che si ritrovano nelle feci e nel liquame che, sparsi come concime organico, riportano le spore al terreno, i clostridi proliferano e il ciclo ricomincia. Scarse condizioni igieniche alla stalla portano inevitabilmente ad avere quantità elevate di microrganismi e spore.

La pastorizzazione abbatte buona parte dei microrganismi “dannosi”, ad esempio Salmonella, Listeria, Escherichia Coli, ma quando le condizioni ambientali sono sfavorevoli alcuni microrganismi come quelli appartenenti al genere Clostridium producono spore (una specie di capsule prottettive) che sopravvivono per anni. Queste spore resistono all’apparato digerente delle bovine, alla pastorizzazione e ai comuni disinfettanti e quando le condizioni tornano ad essere favorevoli esse germinano e i microrganismi iniziano a riprodursi in assenza di ossigeno. Questi microrganismi si nutrono di zuccheri (lattosio) o aminoacidi a seconda della specie e producono gas, generando gonfiori anomali che nel primo caso (quelli generati da microrganismi che si nutrono di zuccheri) si chiamano “precoci”, mentre nel secondo caso (quelli generati da microrganismi che si nutrono di aminoacidi) sono “tardivi” e possono presentarsi anche dopo 12 mesi di stagionatura. Ai difetti legati all’aspetto si aggiungono quelli organolettici (odori e sapori sgradevoli). Come abbiamo già detto l’alimentazione delle bovine gioca un ruolo fondamentale nella composizione del latte, lo stesso vale per le caratteristiche microbiologiche.

L’eventuale presenza delle spore nel latte può essere ridotta, per le tecnologie che lo prevedono, tramite l’affioramento della panna, ma se le spore sono presenti in numero molto elevato non è sufficiente. Durante la caseificazione l’utilizzo di un buon sieroinnesto, una corretta cottura e asciugatura della cagliata (operazioni che portano ad una rapida ed ottimale acidificazione) possono in parte impedire lo sviluppo delle spore, ma a volte è necessario ricorrere all’utilizzo di un additivo, il lisozima.

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Fig.2: Principali tipologie di conservanti utilizzati nella caseificazione

e1105 - lisozima

aggiunto al latte per evitare gonfiori tardivi

e235 - natamicina

utilizzato in crosta per evitare la formazione di muffe

e200 e202 e203- sorbati

aggiunti al latte o alla crosta per evitare la formazione di muffe

l’abc del formaggio

E1105 - Lisozima Il Lisozima, descritto per la prima volta nel 1922 da Alexander Fleming, è una sostanza di natura proteica presente nelle secrezioni biologiche (saliva, lacrime, muco nasale, latte ecc.) e nelle uova di gallina (l’albume ne contiene grandi quantità) che ha una forte azione battericida, non a caso viene abbondantemente secreto nelle regioni corporee maggiormente esposte al contatto con patogeni (es. cavo orale). Attacca alcuni tipi di batteri, come Clostridium tyrobutyricum (responsabile del gonfiore tardivo), distruggendone la parete cellulare. Nell’industria alimentare il Lisozima viene identificato con la sigla E1105, generalmente ottenuto dall’albume d’uovo e rientra nella categoria dei conservanti. Il Lisozima quindi quando viene aggiunto al latte destinato alla produzione di formaggi stagionati per impedire lo sviluppo dei Clostridi ed evitare possibili “gonfiori tardivi”. Deve sempre essere dichiarato in etichetta, sia perchè è aggiunto come additivo, sia perchè essendo ottenuto dalle uova potrebbe dare luogo a fenomeni allergici.

Fig.3: Pregi o difetti?

Oltre al Lisozima vengono utilizzati altri conservanti, come la Natamicina (E235) e l’Acido Sorbico (E200), che vengono aggiunti ai formaggi per la conservazione della superficie. E235 - Natamicina (o Pimaricina) La Natamicina (o Pimaricina E235) è un antibiotico antimicotico utilizzato per il trattamento superficiale di formaggio a pasta extra dura, dura e semidura per contrastare la formazione della muffa. Non si dovrebbe riscontrare a partire da 5 mm sotto la superficie del formaggio, motivo per cui spesso c’è l’indicazione “crosta non edibile”. Non di rado però la crosta è più sottile, quindi se questo conservante è stato utilizzato (dichiarazione in etichetta) è opportuno asportare anche un po’ di sottocrosta prima di consumare il prodotto. La natamicina può essere applicata per immersione dell’alimento nella soluzione disinfettante oppure a mezzo spray. E200 E202 E203 - Sorbati I Sorbati (E200, E202, E203) vengono impiegati principalmente come conservanti antimicrobici. In soluzione acquosa acida si dissolvono facilmente: si convertono in acido sorbico, che ha un’attività spiccata nei confronti di muffe e lieviti. Proprio per questo i sorbati vengono utilizzati per impedire lo sviluppo delle muffe sulla superficie di formaggi duri e molli e nei latticini (es. ricotta). Ovviamente gli alimenti che vengono messi sul mercato devono essere sicuri per la salute, a volte però accettare che un prodotto possa essere imperfetto dal punto di vista estetico ci da la possibilità di diminuire la quantità di additivi che introduciamo con la nostra dieta. Alimentazione delle bovine, igiene, filiera corta: sono i fattori che determinano la possibilità di evitare l’uso di conservanti nei formaggi. Un motivo in più per dare fiducia ai piccoli produttori che lavorano, magari a crudo, il latte dei propri animali.

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Robiolina e Tomina di Capra: i due nuovi arrivati nell’assortimento dei formaggi di Carozzi Siamo felici di continuare a consolidare una collaborazione a cui teniamo molto e che abbiamo iniziato ormai già da qualche anno: parliamo dei formaggi della famiglia Carozzi. In questo numero vi presentiamo due nuovi prodotti che abbiamo deciso di inserire nel nostro assortimento, così da ampliare l’offerta dei formaggi della Valsassina.

abbiamo saputo resistere, immaginandola perfetta sia per la vendita al dettaglio che per l’utilizzo in ristorazione, vista l’elevata duttilità.

Sicuramente ispirati dalle prime giornate primaverili, quando abbiamo assaggiato la Robiolina non

Invece, per quanto riguarda la Tomina di Capra, abbiamo scelto di dare spazio a un formaggio a crosta lavata dalle dimensioni più piccole, ma che mantenesse le caratteristiche distintive del latte di capra e della lunga esperienza di Carozzi nella produzione di formaggi a crosta lavata.

robiolina carozzi

tomina di capra

Formaggio fresco da tavola, realizzato con latte vaccino intero pastorizzato. Presenta la caratteristica forma a cubetto, con una pasta bianca, cremosa e omogenea. Il sapore è dolce e delicato, leggermente acidulo e con note di panna. Perfetto da spalmare o per mantecare un risotto

Formaggio a latte caprino, stagionato circa 30 giorni. La crosta rosata è dovuta al lavaggio con acqua e sale, mentre la pasta è compatta ma morbida. Al palato risulta dolce e delicato, con piacevoli sfumature aromatiche. Ideale come formaggio da tavola

codice 21004 | peso 100 g circa

codice 21003 | peso 800 g circa

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novità

novità dalla valsassina


Fonte: lauramalinverni.wordpress.com

formaggi & compagni

“La boca no xe straca se no sa da vaca” (3) Sdoganato dalla Chiesa come cibo di magro, il formaggio fa la sua comparsa nei trattati medici, che stabiliscono quale e quando può essere mangiato. Da cibo contadino alla mensa dei principi, nobilitato nei ricettari da spezie e abbinamenti Danilo Gasparini è docente di Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione all’Università di Padova e al Master in Cultura del cibo e del vino di Ca’ Foscari ed è ospite e consulente fisso per Geo&Geo su Rai 3

Allora, ci eravamo lasciati tra monasteri e chiese: fuor di metafora, abbiamo visto quanto importante sia stata la Chiesa nel promuovere l’uso del formaggio e del burro, come condimento di magro. Ma del burro ce ne occuperemo a tempo debito. Se il formaggio era salito agli onori degli altari, diciamo così, la cultura medica del tempo, che sul cibo aveva l’ultima parola, non poteva far finta di niente. E si comincerà a discutere… a partire dal latte. Quale il migliore? Nessun dubbio: quello materno. Ma riguardo al latte animale nell’antichità e nel Medioevo quello per eccellenza era il latte di pecora o di capra. Per

una ragione molto semplice: la vacca era ritenuta animale da lavoro. A questo proposito Isidoro di Siviglia, VII secolo, poneva una chiara distinzione fra due categorie di animali: “Quelli che servono ad alleviare la fatica dell’uomo, come i bovini, gli equini, e quelli che servono a nutrirlo, come gli ovini e i suini”. Ma il latte di pecora e di capra era ritenuto migliore sia sul piano del sapore sia sul piano delle virtù nutritive. A seguire le prime semplici norme di carattere igienico. Ildegarda di Bingen, dottore della Chiesa (1098-1179), raccomandava: “Il latte è più sano d’inverno che d’estate a motivo del calore […] è utile, specie d’inverno, addizionarlo con radici e ortiche […] I malati non devono eccedere ed è meglio che prima lo facciano bollire”. Pantaleone da Confienza, autore della prima grande guida dei formaggi, la Summa lacticiniorum (1477) chiarisce: “Il latte è consigliabile esclusivamente alle persone che godono di perfetta salute, e con molte precauzioni: dovrà essere di bestia

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Fig.1: Sintesi delle principali tappe nella storia del formaggio

paleolitico

500.000 a.C

consumo casuale di latte acido da parte di cacciatori-raccoglitori

10.000 a.C.

addomesticazione degli animali, di cereali e legumi

7.500 a.C.

sviluppo della persistenza al lattosio nell’Europa centrale

4.000 a.C.

controllo della fermentazione e del processo di coagulazione

civiltà greco-romana

500 a.C. - 500 d.C.

Europa divisa in due: una mediterranea legata a pane, vino e olio, e una nordica legata al latte, alla pastorizia, alla caccia

alto medioevo

700-900 d.C.

incontro tra la civiltà del latte e del vino

basso medioevo

1.000-1492 d.C.

nobilitazione del formaggio grazie al modello alimentare monastico e alla Chiesa

rinascimento

XV-XVI secolo

il formaggio nei trattati medici, nelle prime guide e nei ricettari

neolitico

da cibo contadino alla mensa dei principi, nobilitato da spezie e abbinamenti ricercati

sana, di buona qualità e appena munto; lo si berrà in ogni caso digiuno, ad almeno tre ore di distanza dai pasti, astenendosi poi da l’esercizio immediato di attività fisiche impegnative”. Guai poi a mescolare nello stomaco latte e vino! E di conseguenza, se questa era la graduatoria, di necessità si stilava una sorta di hit-parade dei formaggi. Scriveva l’umanista Bartolomeo Sacchi detto Il Platina, autore a fine ‘400 del primo grande ricettario umanista, De honest voluptate, “Si reputa ottimo quello di capra perché aiuta lo stomaco, elimina le occlusioni del fegato, lubrifica l’intestino; si per secondo viene quello di pecora, per terzo quello di mucca”. Non sempre poi concordavano. Michele Savonarola, medico padovano al servizio presso la casa d’Este a Ferrara, sentenziava a inizi ‘500: “I migliori: il caso ovino è men rio del vachino, dico megliore, de megliore odore e certo al gusto più delectevole […] Il caso vachino è più nutritivo, il perché è più butiroso e el buthiero molto nutrica. Il caso facto de pecora parte duo e del vachino parte una è al gusto più delectevole assai e anco dicono i gulosi essere più sano”. E conclude: “ Che’l caprino de tutti è pezore…perché subito si seccha e fasse poroso molto e molto se terestrifica e fasse

molto frangibile, di cativo odore e sapore…”. È un passo importante e denso di informazioni, di valutazioni sensoriali, rinvia a mancate o scarse tecniche di conservazione e affinamento. C’è poi quell’accenno al formaggio misto vaccapecora (verrà chiamato misturino) che sarà il vero formaggio di molte aree alpine e prealpine della Padania felix, fino a fine ‘800. E già sulle piazze dei mercati cittadini aveva fatto la sua comparsa il Morlaco Salà Navegà, proveniente dalla Dalmazia via Venezia. Il medico lavorava ai fianchi la gola del principe, tentando di dare qualche appiglio o giustificazione medica al fatto che la gola aristocratica non poteva non cedere alle delizie casearie, propinque a Ferrara: proprio a Piacenza si fabbricava quel Piasentin, molto simile al Parmigiano, che rappresenterà per secoli il top, degno degli awards cheese di marcominniana pensata. Insomma, quasi da esperto ONAF, Savonarola concludeva che: “E sapia tua Signoria che meglior è quello che non extende comme visco e anco che tosto non se rompe e che è dulce e suave al gusto. Vole haver questa conditione, sia tendente al citrino, non habia ochij ma pianzente sia…”. Che si riferisse al Gorgonzola? Ci inganna quel citrino, colore simile al giallo limone. Bah… serve investigatio!

Fig.2: Formaggi citati nelle prime guide: Parmigiano (Piasentin), Gorgonzola e un formaggio a latte misto vaccino-ovino (Misturin), come il Canestrato

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Fonte: ilpalazzodisichelgaita.wordpress.com

formaggi & compagni

Il Rinascimento: le prime guide, i trattati medici e i ricettari A questo punto bisognava stabilire quale formaggio mangiare, a che età e soprattutto in che momento. Ildegarda, a noi nota, sosteneva che chi ha una costituzione robusta e sana può tranquillamente mangiare il formaggio duro e stagionato. Chi invece è pingue, insomma grassoccio, con una carne “umida e flaccida” (certo la monaca usava un lessico senza peli) conviene la casatea. Per digerire formaggi stagionati ci vogliono stomaci gagliardi perché, annotava il Platina, il formaggio stagionato “è pesante da digerire, nutre mediocremente, non fa bene allo stomaco e all’intestino, genera bile, fa venire la gotta, dolore ai reni, renella e calcoli”. Mentre il fresco “nutre molto in maniera efficace, calma l’infiammazione dello stomaco, giova ai malati di tisi”. Si lavorava per empiria, la scienza medica aveva una lunga tradizione, da Ippocrate a Galeno per arrivare alla Scuola Salernitana. Alessandro Petronio, autore de Del viver de gli uomini, e di conservare la sanità, edito a Roma nel 1592, non aveva dubbi: “Ogni sorte di cascio […] muove catarri e tossi in quelli che passano la vita senza esercizio: perché non potendosi cuocere [digerire] né liquefare, se non con difficoltà si stringe in se stesso e s’indurisce e si ritiene più longo tempo nello stomaco”. Per l’uomo che vuole mangiare il formaggio cotto o arrostito, conviene che lo spolveri di cumino, mentre chi ha dolore ai polmoni è consigliabile un cacio molto stagionato e piccante. Quindi una sola raccomandazione: Caseus est sanus quem dat avara manus, ossia solo il formaggio mangiato in piccole dosi non fa male alla salute. Ma come spesso accade un conto è la teoria, un altro conto è la pratica! Il medico del duca di Savoia, Ludovico Bertaudo, nel 1618 concludeva:

“se ben il formaggio porti qualche nocumento, nientedimeno il suo continuo uso fa che non noce tanto”, della serie se questo passa il territorio o questo passa il convento… ci si abitua e il formaggio diventa il companatico. Esistevano dei correttivi, per più ragioni, di gusto e di prestigio. Il Savonarola non ha dubbi “che’l continuo uso del formaio è cativo e inaludabile e da medici vituperato, spetialiter in quantità, e in quelli che non sono a zò usati…”. Ma si può derogare e, conclude, si può mangiare il formaggio “sopra altri cibi comme lasagne et cetera e in poca quantità e dopo pasto secundo usanza latina” e questo “non è vituperato, anci è commendato. Conforta la bocca”. Due cose: l’uso di grattugiare il formaggio sopra le lasagne da una parte, e dall’altra la soluzione di un’altra grande questione, quando mangiare il formaggio, a che punto del pasto: tutti concordi… alla fine. Domenico Romoli autore de La singolar dottrina, Venezia 1560, scrive: “che del cascio, quantunque buono, non si debba mangiare molto, come fan quei che non mangiano in una cena altro che pane e cascio… che quel poco che se ne ha da mangiare sia dopo l’aver mangiati gli altri cibi perché corrobora e sigilla la bocca dello stomaco…”. Ci siamo! E nel nostro universo culturale, che a volte si sostanzia nei modi di dire, acquista allora senso il mantra che ci accompagna ad ogni fine pasto: La boca no xe straca se no’ sa da vaca! I medici del passato non avevano dubbi: il grande umanista, Platina, lo dice chiaramente: il formaggio mangiato a fine pasto “sigilla la bocca dello stomaco e toglie la nausea provocata dai cibi grassi”. Dubbi?

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Foto di testi antichi per gentile concessione della Biblioteca Internazionale “La Vigna” di Vicenza

Un ultimo passaggio: comunque sia, va bene portare in mensa del principe il formaggio ma lo vogliamo un po’ nobilitare, impreziosire? Certo, o con una spruzzatina di spezie in certi modi di preparalo o con l’abbinamento. E quindi “Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”. Il perché lo diremo la prossima volta. Intanto vi proponiamo la ricetta del formaggio cotto e del crostone di Maestro Martino da Como, il maggiore cuoco italiano del Quattrocento. Leggetela attentamente e osservate cosa aggiunge alla fine. Il formaggio oramai è stato sdoganato: ha trovato posto nella scienza gastronomica… a patto che… Intanto buon appetito!

Il primo ricettario ad avere un autore certo è il Libro de Arte Coquinaria, che Martino de’ Rossi, detto maestro Martino da Como, compila nella seconda metà del XV secolo

PLATINA (i.e. Sacchi, Bartolomeo), De honesta voluptate et valetudine, Venezia, L. de Aquila – S. Umbro, 1475

Bartolomeo SCAPPI, Opera, Venezia, M. Tramezzino, 1570

Formaggio cotto e…. crostone secondo Maestro Martino da Como Piglia del caso grasso, et che non sia troppo vecchio né troppo 
salato, et tagliarai in fettolini o bocchoni quadri, o como ti piace; et
habi de le padellette fatte a tale mistero (tegamini adatti a ciò); en sol fondo metterai un
pocho di butiro, overo di strutto fresco, ponendole a scaldare sopra
le brascie, et dentro gli mettirai li ditti pezzoli di caso; et como
ti piace che sia facto tenero gli darai una volta, et mettendogli 
sopra del zuccharo et de la canella; et mandaralo subito in tavola, che
si vol magnare dopo pasto et caldo caldo. Item poterai conciare in
altro modo lo ditto caso brustolando, prima arrostendo al foco de le
fette de lo pane tanto che da ogni lato s’incomincino a rostire, 
mettendo le dicte fette per ordine in una padella da torte; et sopra a
quelle ponerai altramente fecte di caso un pocho più sottili che
quelle de lo pane; et sopra la padella mettirai lo suo coperchio fatto
caldo tanto che ‘l ditto caso s’incominci a strugere, o a squagliare. 
Et facto questo gli buttarai di sopra del zuccharo con un poca di
canella, et zenzevero.


appuntamenti

week end in filanda Valsana sarà anche quest’anno main partner di Gourmandia. Vi aspettiamo in filanda assieme a una trentina di nostri produttori per farvi assaggiare alcune novità Sabato 12, domenica 13 e lunedì 14 maggio vi aspettiamo a Gourmandia, un evento ideato da Davide Paolini che porta in Veneto una selezione di salumi, formaggi, dolci, vini, birre, prodotti ittici e lievitati da tutta Italia e un ricco programma di show cooking. Domenica 13 maggio alle ore 16 in particolare vi aspettiamo al cooking show organizzato assieme ad Anna Maria Pellegrino: “Il formaggio in punta di dita”, un menù in punta di dita dove il formaggio diventa protagonista in cucina. Dall’antipasto al dessert, tre ricette con i colori e i sapori della primavera, sviluppate in versione finger food.

Quando:

12 / 13 / 14 maggio 2018

Dove:

Fiera di Santa Lucia - Via Mareno 1 Santa Lucia di Piave (Treviso)

Orario:

sab 12-20; dom 10-20; lun 10-17

Ingresso:

adulti € 10; bambini (6-12 anni) € 5 gratuito per bambini minori di 6 anni

Ogni operatore avrà a disposizione un ingresso omaggio per due persone. Richiedi subito l’accredito al tuo agente di riferimento.

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Una trentina di produttori e una ricca selezione di novità Appena entrati in filanda vi aspettiamo innanzitutto al nostro stand, per ritirare - se avete piacere - l’adesivo “cliente Valsana” da apporre al badge ed essere così riconosciuti dai nostri produttori. Anche quest’anno Gourmandia sarà infatti una bella occasione per degustare tantissimi prodotti della nostra selezione: le mozzarelle della Latteria del Molise, i formaggi di bufala di Borgoluce, gli yogurt della Latteria di Chiuro, i formaggi della Latteria di Tarzo, quelli della Latteria Perenzin, i freschissimi delle sorelle Castellan e gli affinati della Latteria di Moro Sergio: questo solo per quanto riguarda i formaggi. Tra i salumi vi segnaliamo: Alessandro Meggiolaro con i suoi arrosti; Artigianquality con il salame rosa e le mortadelle; Santoro con il Capocollo di Martina Franca; Salumi e Salami con il violino di pecora; Lovison con i salumi friulani e Corrà in rappresentanza del Trentino; Poggio San Giorgio con il Prosciutto di Norcia; Crocedelizia con il Culatello; Casa Cason con una selezione di salumi senza conservanti. Sempre della nostra scuderia saranno presenti: Acquapazza Gourmet con la Colatura di Alici; Friultrota con moltissime nuove proposte; Tharros Pesca di Pino Spanu con la Bottarga

e alcuni affumicati; Fratepietro con le Olive di Cerignola; BG Villa Bisini Gambetti con l’aceto balsamico e le confetture; Cascina Oschiena con il riso; Luccini con le mostarde La Cicogna; Petit Lorien con le spezie; Del Santo con gli asparagi, le creme di verdura e molto altro. Al nostro stand ospiteremo, un giorno ciascuno, alcuni produttori che non avrebbero potuto essere presenti per tutta la durata dell’evento, ma a cui non volevamo rinunciare: Casa Graziano con il Prosciutto di Parma, Giorgio Amedeo di La Meiro con il Castelmagno di Alpeggio, Fabio Curto con i formaggi di Ponte Vecchio. Ospite fisso invece per tutti tre i giorni, sempre al nostro stand, il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Venezia, di cui Valsana è sponsor da un paio di edizioni. Un vivaio di ragazzi appassionati, da cui arrivano due delle nostre nuove leve: Giulia e Matteo. Un percorso di studi fondato su un approccio multidisciplinare alla gastronomia, dalla storia alla comunicazione, dall’incontro con i produttori alla scoperta del territorio: lo stesso approccio fatto di curiosità e rispetto che cerchiamo di avere anche noi quando ci avviciniamo a un prodotto. #lovegastronomy

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formaggi in cucina

fonde o fila? Abbiamo organizzato assieme ad Anna Maria Pellegrino, nostra musa tra i fornelli, due appuntamenti con la rete vendita dedicati ai formaggi in cucina

Martina Iseppon è laureata in Economia e Commercio a Venezia ed è Responsabile Marketing in Valsana dal 2003

Molto spesso ci vengono fatte delle domande su quali sono i formaggi più adatti per le diverse preparazioni: “Quale formaggio posso usare per un ripieno? Per un’insalata? Per una fonduta? Per mantecare un risotto? In una frittata?” Da qui l’idea di organizzare un mini corso dedicato alla nostra rete vendita, con la guida di Anna Maria Pellegrino, per provare a cucinare con diverse tipologie di formaggi e capire quali utilizzi possono avere in cucina. Abbiamo suddiviso il corso in due appuntamenti: uno primaverile dedicato a creme e insalate e uno autunnale dedicato a ripieni e gratin. Eccovi dunque un reportage del nostro primo incontro.

Divisi in coppie, abbiamo sperimentato due ricette, una fonduta e un’insalata. Per la fonduta ogni coppia doveva scegliere quale formaggio utilizzare per realizzare il proprio piatto, a partire da una rosa di 5 prodotti: Reggiano, Bagoss, Tumarrano, Gran Cao e Castelmagno. Molto gettonati il Gran Cao, per dare una nota di dolcezza e il Bagoss per ottenere una nota di colore e maggior sapidità. Qualche appassionato ha sperimentato con il Castelmagno, con ottimi risultati! Anche per l’insalata potevamo scegliere tra diversi ingredienti: Pecorino Fresco di Pienza, Primo Sale al peperoncino, Feta e Quartirolo. Quest’ultimo è piaciuto molto ed è stato scelto da diversi gruppi, anche se qualcuno ha preferito dare una nota piccante all’insalata di riso con il primo sale di Passalacqua. Che dire? Come al solito ci siamo divertiti e tutto sommato i piatti non erano niente male... Bravi ragazzi e brava Anna Maria!

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Le Ricette Uovo poche’ alla Moroni, fonduta al formaggio e spinaci su crostone di pane

Insalata di riso rosso con pecorino fresco, fave, mango e citronette di pompelmo

Ingredienti (per 2): 2 uova grandi; 100 g spinaci freschi o 160 g spinacini; 2 spicchi d’aglio; 2 fette di pane toscano; olio evo; sale iodato; pepe macinato al momento. Ingredienti per la fonduta: 100 g di Bagoss, Pecorino Gran Cao, Parmigiano o Castelmagno; 100 ml di panna o latte intero, o 40 ml panna e 40 ml latte.

Ingredienti (per 4): 125g di riso rosso; 100g di fave; 50g di cavoletti di Bruxelles; 50g di taccole; 100g di Pecorino Fresco, Primo Sale al Peperoncino, Quartirolo o Feta; 1/2 cucchiaio di mirtilli; 1/2 cucchiaio di nocciole; 1/2 pompelmo; 1/4 mango; sale di Maldon; pepe nero macinato al momento; olio evo delicato; qualche nocciola per il servizio.

Tagliare un foglio di pellicola lungo 40 cm, spennellare con un filo d’olio e foderare una tazza. Rompere l’uovo e versare il contenuto nella tazza, chiudere come un fagottino, cercando di far uscire l’aria e sigillare. Portare a bollore l’acqua in un pentolino e lasciare cuocere l’uovo nella pellicola per 4 minuti. Trasferire in una ciotola con acqua fredda e ghiaccio, tagliare la pellicola e mettere da parte. In una padella far dorare una fetta di pane spennellata di olio evo. Nella stessa padella far profumare l’olio con uno spicchio d’aglio, unire gli spinaci e farli appassire. In una casseruola sciogliere dolcemente il formaggio grattugiato con la panna e il latte a temperatura ambiente fino a ottenere una crema liscia. Impiattare appoggiando gli spinaci sul pane, quindi l’uovo e nappare con la fonduta. Profumare con pepe macinato al momento.

Lavare e mondare la verdura e cuocerla al vapore per 5’: deve risultare croccante e dal colore vivo. Mettere da parte. Lessare il riso, scolare, raffreddare, condire con un filo d’olio e conservare a parte. Sbucciare a vivo il pompelmo, mettere da parte il succo ricavato e preparare una citronette emulsionandolo con un po’ di olio extra vergine di oliva, sale e una macinata di pepe nero. Con uno scovolino ottenere dalla polpa del mango tante piccole palline. Cubettare il formaggio freddo con un coltello freddo. Dividere il riso in 4 ciotole, completare i piatti con gli ingredienti restanti e terminare con la granella di nocciole.

bagòss di bagolino

gran cao

pecorino fresco pienza

primo sale al peperoncino

cod 31090M15 | 18 kg

cod 31545 | peso 15 kg

cod 31510 | peso 1,3 kg

cod 30967 | peso 5 kg


la grammatica dei sapori

NOTIZIE la cucina DA di VALSANA qb

Educarsi al gusto significa anche approfondire culture gastronomiche diverse. In questo numero vogliamo provarci con la Bottarga, protagonista di tre ricette trasformiste

Anna Maria è cuoca e foodblogger. La sua ricerca è volta alla qualità e identità della materia prima, che presuppone lo studio della storia degli ingredienti, nella consapevolezza che il cibo è parte fondamentale dell’identità di un popolo

“Agnello e albicocche sono una di quelle combinazioni coesistenti da sempre in un rapporto che non è di semplice complementarietà ma sembra partecipe di un più alto ordine di ineluttabilità: un gusto nella mente di Dio. Simili accostamenti possiedono la qualità di una scoperta logica: bacon e uova, riso e salsa di soia, Sauternes e foie gras, tartufi bianchi e tagliolini, fragole e panna, agnello e aglio, Armagnac e prugne, zuppa di pesce e rouille, pollo e funghi: sull’attento esploratore dei sensi, la prima esperienza di uno di questi avrà un impatto paragonabile alla scoperta di un nuovo pianeta da parte di un astronomo”

John Lanchester, Gola Ogni momento della nostra vita segue il ritmo delle regole, consapevoli che l’anarchia, per quanto affascinante e anche nobilitata da racconti bohémien, alla fine stanca. Siamo esseri abitudinari e abbiamo bisogno di un certo ritmo nella quotidianità. Vale lo stesso per le nostre papille gustative che fin dal primo pasto, il seno materno, hanno bisogno di essere “educate” anche se, ed è la meraviglia della contaminazione, a ogni latitudine vigono abitudini e regole diverse. Prendiamo la carne del maiale, per esempio, consueta in tutto il mondo, che amiamo accompagnare con verze o con patate, ma anche con mele e, perché

no, con verdure fermentate. Ma c’è chi, da goloso buongustaio dall’altra parte del mondo, ama servire una coscia ben cotta con ananas glassati. Vade retro? Beh, direi di no, visto che la stagione estiva, alle nostre latitudini, suggerisce frequentemente di portare in tavola il prosciutto con il melone. Educarsi al gusto significa anche approfondire culture gastronomiche diverse, che spesso distano pochi chilometri da casa ma che non affrontiamo un po’ per pigrizia e un po’ per mancanza di curiosità. Come nel caso della bottarga, che diventa protagonista del menù di maggio di Selezione di Sapori. Cos’è la bottarga? In sintesi è un alimento a base di ovario di pesce - la “sacca” dove sono contenute le uova - in particolare di tonno o di muggine. Si tratta quindi di uova salate, compresse ed essiccate: un concentrato di aromi e sapidità che diventa il caviale del Mediterraneo e che riesce a valorizzare al meglio molti piatti, essendo esso stesso ingrediente prezioso. Ecco allora le nostre proposte trasformiste: la bottarga dona la giusta sapidità e contemporaneamente riveste di gusto l’antipasto, si contamina con l’intensità del limone e con la severità della fava di cacao nel primo piatto e infine trasforma un pesce cotto velocemente al vapore in una portata di grande effetto. Pochi ingredienti di ottima qualità che in un’ora di tempo vi consentiranno di realizzare una cena ricca di profumi e di gusto. Un invito, infine, a riscoprire la grammatica dei sapori e le regole del gusto che ci suggeriscono di “contaminare” gli aromi di bosco con quelli speziati, i sentori agrumati con quelli marini ed i tostati con i caseari, più o meno intesi.

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pino spanu Tharros Pesca di Pino Spanu nasce a Cabras nel 2004: un laboratorio specializzato nella produzione artigianale di bottarga e pesce affumicato

Il Prodotto

bottarga di muggine Bottarga in baffa oppure giĂ grattugiata prodotta con uova di muggini pescati nei pressi delle coste della Mauritania, salate ed essiccate secondo la tradizione di Cabras. Ha un gusto sapido e di forte personalitĂ ; piĂš intenso rispetto alla Bottarga di Cabras. Da affettare sui classici spaghetti o da abbinare a una pizza con i carciofi. Fantastica anche in insalata con del cuore di sedano o dei carciofi tagliati a julienne, conditi con olio evo, un pizzico di sale e pepe nero. codice 94015 | baffe da 80/110 g circa codice 94016 | baffe da 150/180 g circa codice 94019 | grattugiata in vasetto da 40 g codice 94020 | grattugiata in busta da 100 g

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NOTIZIE la cucina DA di VALSANA qb

Le Ricette SCIALATELLI AL LIMONE CON BOTTARGA E FAVA DI CACAO Gli scialatelli sono un formato di pasta che racconta la Campania, Amalfi e il mare. Ruvidi al tatto, qui profumati grazie alle zeste di limone, si fanno abbracciare dalla sapidità della bottarga e dallo spunto amaro della fava di cacao

Ingredienti: 100 g semola di grano duro più un po’ per la spianatoia; 100 g farina 00; 2 uova bio; 1 limone bio, succo e zeste; 1 cucchiaino di bottarga in polvere per commensale più un cucchiaio per il servizio; 1 cucchiaino di fava di cacao per commensale; 1 spicchio d’aglio in camicia e schiacciato; 2/3 noci di burro; sale

Setacciate le due farine e formate una fontana dentro una ciotola, unite le zeste, le uova appena sbattute e iniziate ad impastare, aggiungendo un po’ di succo del limone, lavorando prima all’interno della ciotola e poi sulla spianatoia fino a ottenere un impasto sodo e liscio. Lasciatelo riposare nella ciotola coperto da pellicola per almeno 30 minuti. Stendete la pasta con il matterello o con la soffiatrice ottenendo una sfoglia rettangolare un po’ spessa, arrotolate i due lati esterni al centro e con il coltello tagliate di netto tagliatelle di circa 0,5 millimetri, srotolatele e lasciatele asciugare per 30 minuti sopra la spianatoia spolverata di semola. Portate a ebollizione dell’abbondante acqua salata, lessate gli scialatelli per 7-8 minuti (dipende dallo spessore), nel frattempo strofinate l’aglio sulle pareti di un saltapasta, sciogliete lentamente VALSANA | 34

il burro e terminate la cottura della pasta appena scolata, unite la bottarga e servite decorando il piatto con le zeste di limone e la fava di cacao spezzettata.

ROCHE DI ROBIOLA AL ROSMARINO CON BOTTARGA E PISTACCHI Sembrano dei “bonbòn”, gli zuccherini francesi tanto amati da Maria Antonietta, e invece sono dei bocconcini sapidi e profumati. La robiola si profuma delicatamente grazie al rosmarino fresco e la camicia di bottarga e pistacchio dona la giusta sapidità e personalità.

Ingredienti: 200 g di robiola; 3 cucchiai di bottarga in polvere; 2 cucchiai di farina di pistacchi; 2 rametti di rosmarino fresco, anche con i fiori se presenti; pepe bianco macinato al momento


Tritate molto finemente un cucchiaio di aghi di rosmarino, mescolatelo con un cucchiaio di bottarga e spatolate la robiola aggiungendo il trito aromatico e un po’ di pepe bianco macinato al momento. Dividete il composto in 12 parti, formate delle palline con l’aiuto di un porzionatore piccolo da gelato, uno scovolino o un cucchiaio dando una forma rotonda e passate i roche metà nella bottarga rimasta e metà nella farina di pistacchio (pistacchi tritati finemente con il mixer). Far riposare in frigo fino al momento del servizio. Disponeteli nelle singole ciotoline e serviteli, se desiderate con una fresca misticanza e qualche sfoglia di pane.

CODA DI ROSPO IN GUAZZETTO DI BOTTARGA Pesce al vapore? Che tristezza! Provate ad aggiungere sapore e colore, abbassando drasticamente i tempi di cottura e la prova costume diventerà un obiettivo gustoso da raggiungere.

Ingredienti: 800 g di coda di rospo già pulita; 10 pomodori datterini; 2 cucchiai di bottarga in polvere; 2 falde di pomodoro essicato sott’olio; 1 cucchiaio di olive taggiasche; 1 cucchiaio di capperini sotto sale; 1 cipolla di Tropea; 1 bouquet garnì (maggiorana, rosmarino, basilico, timo, ecc); 1 arancia bio, le zeste ed il succo; olio evo; 1 pizzico di peperoncino; eventuale sale in fiocchi dopo l’assaggio Pulite e tagliate a tranci regolari il pesce. Tagliate in quarti il pomodoro, a rondelle le olive, a julienne le falde, a spicchi sottili la cipolla. VALSANA | 35

Ottenete dall’arancia le zeste e il succo. Sciacquate i capperini e confezionate con gli aromi un bouquet garnì. Portate a ebollizione dell’acqua in una casseruola, unite il bouquet, appoggiate un cestino per la cottura a vapore (anche uno scolapasta), disponete la coda di rospo e cuocete per max 5 minuti. Nel frattempo in una padella scaldate un cucchiaio d’olio, unite le verdure, il peperoncino, sfumate con il succo d’arancia e cuocete per max 5 minuti. Fuori dal fuoco unite un cucchiaio di bottarga e regolate di sale, ma non credo servirà. Dividete il pesce in quattro fondine, coprite con il guazzetto e servite decorando con le zeste di arancia e il fior di cappero.


Valsana S.r.l. ∙ Via Ettore Maiorana, 3/A ∙ 31025 Santa Lucia di Piave (TV) ∙ Italy Tel. (+39) 0438 1883125 ∙ Fax (+39) 0438 64976 ∙ valsana@valsana.it ∙ www.valsana.it


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