Selezione di Sapori | 2018 05

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I L M A G A Z I N E D I VA L S A N A | 0 5 . 2 0 1 8


SOMMARIO

EDITORIALE di martina iseppon

SELEZIONE DI SAPORI: Il magazine di Valsana Team editoriale: Giorgia Barbaresco, Giulia Bassetto, Giulia Basso, Alessandro De Conto, Matteo De Santi, Danilo Gasparini, Martina Iseppon, Elisabetta Meda, Anna Maria Pellegrino, Johnny Tomè Direttore: Giulia Basso In copertina: famiglia Cortese di Malga Verde Foto di Beatrice Mancini Editore: Valsana srl Via E. Maiorana 3/A - Santa Lucia di Piave TV

Estate, la stagione degli alpeggi. Scarpe da trekking e zaino in spalla, partiamo per incontrare alcuni dei nostri produttori che portano avanti, con fatica e passione, il rito millenario della transumanza. Prima tappa in Trentino, al Caseificio degli Altipiani e del Vezzena, dove ci si apre il cuore parlando con Marisa, la Presidente, che ci conferma tantissime scelte in cui crediamo: l’importanza dell’alimentazione delle bovine, il latte rigorosamente crudo e senza fermenti, il rispetto delle persone, degli animali, dell’ambiente. Seconda tappa: Malga Verde, con la bellissima storia, fatta di sogni, entusiasmo, e tanto impegno di Milady e i suoi fratelli, che hanno lasciato un lavoro d’ufficio per ritornare alla natura e occuparsi della loro malga, assieme al papà. Terza tappa: lezione in quota, organizzata dal nostro Alessandro assieme a Fabio di Malga Mariech, per vedere la lavorazione dello Stravacco e toccare con mano che cosa significa davvero lavorare in malga. Decidiamo infine a malincuore di tornare in città, nel centro storico di Treviso precisamente, ma solo per farci viziare dai cocktail di Samuele Ambrosi al Cloackroom - Cocktail Lab.

Registrazione Tribunale di Treviso n. 2422 del 28/04/2017

Martina Iseppon

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SOMMARIO settembre | ottobre 2018

viAGGIO IN trentino | caseificio degli altipiani e del vezzena

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intervista al produttore | malga verde

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FORMAZIONE INTERNA | STRAVACCO: LEZIONE IN QUOTA

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GEOGRAFIA DEL GUSTO | ODE A(L) CARPACCIO

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L’ABC DEI FORMAGGI | IL FORMAGGIO HA LA MUFFA! 16 FORMAGGI & COMPAGNI | Dal trionfo del burro alle latterie sociali 20 NOVITà | IL PRESSATO DI TRISSINO 23 NOVITà | YOGURT DI MUCCA O DI CAPRA? NOVITà | UNa fetta DI “BOLOGNA”

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insoliti ABBINAMENTI | COCKTAIL E FORMAGGI

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LA CUCINA DI QB | 50 SFUMATURE DI TIRAMISù 28

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caseificio degli altipiani e del vezzena

viaggio in trentino

Una giornata bellissima sulla Piana del Vezzena, nonostante il cielo un po’ grigio, dove troviamo conferma di tante convinzioni: dal fieno pulito all’alpeggio, dal latte crudo al latteinnesto Anche il Caseificio degli Altipiani e del Vezzena, casello TN 4210, ha una storia lunga 150 anni: è stato fondato nel 1864.

Martina Iseppon è laureata in Economia e Commercio a Venezia ed è Responsabile Marketing in Valsana dal 2003

“Girl power” potrebbe essere il titolo di questa trasferta in Trentino tutta al femminile: qualità (Giorgia), acquisti (Elisabetta), marketing (la sottoscritta) e l’immancabile fotografa (Beatrice), tutte in viaggio, destinazione Passo del Vezzena, per incontrare una “guerriera”, Marisa Corradi, presidente del caseificio dal 2009. Con l’inconfondibile talento femminile per l’orientamento “scegliamo” - seguendo il navigatore senza aver minimamente guardato prima la mappa - la strada più tortuosa per arrivare a destinazione: ci ritroviamo su una salita strettissima, a strapiombo sul lago di Caldonazzo, con gallerie scavate a vivo nella roccia. Sono terrorizzata, ridiamo per scaricare la tensione. Il panorama però è mozzafiato. Grazie a questa nostra prodezza (o incoscienza) ci conquistiamo da subito la fiducia della presidente e di tutte le persone del caseificio: l’antica salita del Menador - ci racconta Giorgio Gosetti, responsabile commerciale - detta anche strada del Kayserjägerweg, è un’antica strada austriaca adibita a uso militare durante la guerra del 1915-1918. Tante persone del luogo la evitano, ci dice, perchè è pericolosa - noi giusto per la cronaca, sempre per sbaglio, l’abbiamo fatta anche al ritorno. Iniziamo la visita del caseificio assieme a Giorgio: Folgaria, Lavarone, Luserna, si trovano sull’Alpe Cimbra, popolata intorno al 1500 da una popolazione di contadini bavaresi emigrati, che tuttora costituiscono una minoranza etnica per i 3/4 di lingua tedesca, i Cimbri appunto.

Oggi lavora 40-50 quintali latte al giorno e ha 10 dipendenti tra cui, da due anni, anche un ragazzo del Mali e uno della Nigeria. Due migranti, che quando sono arrivati non sapevano una parola di italiano. Sono stati assunti come apprendisti e sono stati inseriti in un progetto della biblioteca comunale per imparare l’italiano. Oggi giocano con la squadra di calcio del paese e a Lavarone hanno trovato un lavoro e una casa. Il latte viene raccolto da 13 conferenti, che allevano in media 30-50 capi, prevalentemente di razza Bruna Italiana o Pezzata Rossa. Qualcuno ha ancora qualche Rendena o qualche Pezzata Nera: uno le “Nere” ce le ha nel cuore, ci dice Marisa, che ci ha raggiunto nel frattempo, lei stessa proviene da una famiglia di allevatori. E proprio l’allevamento, l’alimentazione delle “ragazze” come le chiama lei, è il vero punto di partenza per ottenere un buon formaggio. D’estate mangiano in prevalenza erba, d’inverno solo fieno di primo e secondo taglio raccolto in zona, con la sola integrazione di cereali no OGM (in pratica la stessa alimentazione prevista dal disciplinare del Parmigiano Reggiano DOP). Per incentivare l’attenzione all’alimentazione, l’igiene e la cura degli animali, il latte viene pagato agli allevatori in base alla qualità, definita in termini di quantità di grasso e k-caseina (una volta era la quantità complessiva di proteina), assenza di cellule somatiche e carica batterica bassa. “L’obiettivo è il benessere e la longevità degli animali: le nostre vacche restano in produzione per 12-13 anni e a “fine vita” vanno al macello”. Ce lo dice con gli occhi lucidi, non è solo un obiettivo economico, il legame con la terra e gli animali si percepisce nettamente.

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Marisa corradi, “la” presidente Marisa ha lavorato diversi anni in uno studio commercialistico, poi ha lasciato tutto per tornare nell’azienda agricola di famiglia. Ma aver imparato a fare i conti le è tornato molto utile in questi anni da Presidente. Pugno di ferro e cuore d’oro, fa parte dell’Associazione “Donne in campo”, riconosciuta a livello internazionale: una rete di donne imprenditrici che operano nell’agricoltura, che ha tra i suoi valori l’amore per la terra, il rispetto per l’ambiente, la salubrità dei prodotti, la responsabilità sociale verso le categorie più deboli. VALSANA | 05


viaggio in trentino

Entriamo nel cuore del caseificio, il regno di Ivan, il casaro. L’esperienza di Ivan è intrecciata a quella di Marisa: entrano più o meno assieme in caseificio, Marisa nel 2009, Ivan nel 2010. Assieme affrontano i lavori di ristrutturazione, recuperando un po’ alla volta prima i locali di produzione, poi la stagionatura e infine il negozio. Una storia con alti e bassi, come tutte le storie - Ivan qualche anno fa se n’era andato, ma poi è tornato - ma fatta soprattutto di rispetto e di stima reciproca, si vede.

Quindi, con la “lira”, si rompe il coagulo a chicco di mais, si cuoce lentamente a 45-48°C e si lascia depositare la massa sul fondo. La cagliata viene estratta in un unico blocco (in una caldaia da 1200 litri di latte si ottengono circa 120 kg di cagliata), che viene poi tagliato in porzioni utili per ottenere una forma. I blocchi, posti nelle fascere, sono sottoposti a pressatura. Le forme vengono quindi salate in salamoia e infine stagionate su assi di abete, dove, una volta al mese, sono pulite e trattate con olio di lino.

Riusciamo ad assistere a una parte della lavorazione del Vezzena.

Entriamo nella cella di stagionatura, dove le forme vengono curate per i primi mesi prima di essere trasferite in un magazzino di stagionatura a Ponte Maso, fino al raggiungimento dei 12 mesi. Nel caveau della Presidente però abbiamo scoperto in seguito - ci sono alcune forme di Vezzena Stravecchio, che raggiungono anche i 4 anni di stagionatura.

Il latte viene raccolto negli alpeggi intorno al caseificio: Passo Vezzena, Folgaria, Luserna e portato in caseificio. Il latte della sera, parzialmente scremato, si unisce alla munta del mattino. “Una volta il burro valeva tre volte il formaggio, per questo il latte veniva scremato - aggiunge Giorgio. - Lavoriamo esclusivamente a latte crudo, senza fermenti. L’unica scelta possibile per salvaguardare l’identità di questo formaggio e il legame con il territorio e il nostro caseificio”. Il latte viene riscaldato lentamente, aggiungendo il latteinnesto e poi, a 33-35°C, il caglio: la coagulazione avviene in 20-25 minuti.

Lasciamo il caseificio per visitare l’azienda agricola “Soto al Croz”, di proprietà della famiglia di Marisa. Bellissime le balle di fieno che si incontrano per strada, trasformate in animali e personaggi che ci accompagnano fino alla stalla. Pazzesco il profumo del fienile, dove il fieno, essiccato a balloni, viene stoccato per

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l’inverno con un’umidità controllata, che non deve superare il 10%, a garanzia di qualità e tutela della salute delle vacche. Molto bella anche la stalla, le mucche hanno perfino una spazzola dove possono andare a massaggiarsi. Ma soprattutto l’odore poco invadente ci conferma che non vengono utilizzati insilati. “Alla base di tutto c’è la produzione di fieno, che deve essere pulito e senza clostridi. Non bisogna poi dimenticare che el lat l’è fiol de na vaca: basta un temporale o un tipo di fieno che non le piace perché una vacca faccia meno latte, le “ragazze” sono sensibili. Da noi i contadini preferiscono allevare, non comprare le vacche - ci dice Marisa con orgoglio - e per rimanere Soto Al Croz bisogna nascere femmina...” Non avevamo dubbi!!! Pranziamo sulla Piana del Vezzena, uno spettacolo. Lasciamo la macchina nel piazzale, dove a controllarla c’è Lucy, una mucca che si diletta a passeggiare nel parcheggio. Ultimo appuntamento, la visita all’Alpeggio Millegrobbe Di Sopra, a Lavarone: 160 ettari di pascolo a 1.400 metri di altitudine. Ci accompagna Gino, l’allevatore, che fino a 10 anni fa faceva anche il casaro e produceva il formaggio direttamente in malga. Oggi tutto il latte viene conferito al Caseificio degli Altipiani e del Vezzena. “Abbiamo circa 100 capi in lattazione in alpeggio, prevalentemente di razza Pezzata Nera. Troppo lavoro per una persona sola, soprattutto quando gli anni avanzano...”. Le vacche vivono sempre all’aperto, in un territorio vastissimo, senza recinzioni, rientrano in stalla da sole, solo per la mungitura. E chi arriva tardi, salta il turno. Rientriamo in ufficio ripensando alla citazione di W. Blake: “Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono”...

vezzena di lavarone di malga - estate 2016 Prodotto da secoli negli alpeggi, con latte vaccino crudo parzialmente scremato, senza fermenti, stagionato almeno 12 mesi. Presenta una crosta sottile e dura di colore giallo paglierino tendente al bruno. La pasta è compatta e consistente, con occhiatura sparsa. La M di Malga impressa sulle forme identifica la produzione estiva, ottenuta con latte di alpeggio, Presìdio Slow Food. Il sapore è pieno e leggermente piccante, ricco di profumi di erbe e fiori di pascolo. E’ un ottimo formaggio da tavola, con la stagionatura si presta anche ad essere grattugiato. Oltre al classico abbinamento con la polenta, è ottimo con il miele. cod 31114M16 | peso 7 kg ordine minimo 1/4

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malga verde

INTERVISTA AL PRODUTTORE

Tre ragazzi che hanno lasciato un lavoro d’ufficio per ritornare alla natura e occuparsi della loro malga, assieme al papà: una bella storia da raccontare, fatta di sogni, entusiasmo, e tanto impegno

Finita l’estate ad Asiago e nei paesi limitrofi si celebra l’antico rito contadino della transumanza: dopo la stagione calda in alpeggio le mandrie di vacche vengono ricondotte nelle stalle più a valle, pronte per affrontare il più freddo inverno. A festeggiare annualmente questa tradizione c’è anche la famiglia Cortese, che dal 2003 gestisce Malga Verde, una delle più recenti dell’altopiano dei sette comuni. Sita a un’altitudine di 1100 metri sul livello del mare e ristrutturata completamente all’inizio del 2000, oggi Malga Verde, celebre per la sua produzione

di Asiago DOP e di altri formaggi d’alpeggio, è un’azienda giovane: alla gestione di papà Maurizio, fondatore dell’attività insieme al fratello Cristiano, si sono affiancati i suoi tre figli, Milady, Michele e Davide, che hanno lasciato i rispettivi lavori d’ufficio per affrontare questa nuova sfida all’insegna della tradizione. Abbiamo intervistato Milady Cortese, che oggi si occupa del punto vendita aziendale in malga, per farci raccontare tutti i segreti di un’attività di successo.

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Abbiamo intervistato Milady che, con i fratelli e il papà, gestisce Malga Verde

Giulia Basso è giornalista collaboratrice de Il Piccolo di Trieste e direttore responsabile del nostro magazine, Selezione di Sapori, dal 2017

Come è nata Malga Verde? Dopo che il Comune di Conco l’ha ristrutturata, mio padre Maurizio e zio Cristiano nel 2003 l’hanno presa in gestione, facendosi aiutare dai familiari. Dal 2006, aderendo al consorzio di tutela, siamo partiti con la produzione di Asiago DOP. Nel frattempo noi figli abbiamo iniziato a lavorare in ufficio, io sono ragioniera e i miei due fratelli periti informatici. Ma nel 2011 i due fondatori hanno diviso le proprie strade, perciò dall’anno successivo sono subentrata io, che ho lasciato lo studio di commercialisti dov’ero impiegata e mi sono messa in società con mio padre. Per due stagioni ho lavorato all’interno del caseificio, aiutando l’anziano casaro, poi sono passata alla gestione del punto vendita aziendale in malga e ad affiancare il casaro è subentrato mio fratello più piccolo, Michele, che nel frattempo aveva deciso anche lui di mollare il lavoro d’ufficio per venire a lavorare con noi. Poco tempo dopo anche mio fratello Davide ha fatto la stessa scelta. Oggi in quanti siete in azienda e come vi suddividete i compiti? Michele lavora in caseificio insieme ad altri due giovani ragazzi che ci aiutano nei mesi estivi, io gestisco il punto vendita con l’aiuto di una ragazza nei fine settimana, e Davide è il tuttofare del gruppo e si occupa della parte marketing e social, che è sempre più importante. Mio padre continua a seguire, insieme a due ragazzi, l’allevamento, che è da

sempre la sua passione, e mia madre dà una mano dove serve. Questo ovviamente nella stagione estiva, che dura quattro mesi e mezzo, da giugno a metà ottobre, mentre nel periodo invernale, da novembre a marzo, produciamo insaccati casalinghi nella nostra sede più a valle. Come mai la scelta di lasciare un lavoro d’ufficio per occuparvi di una malga? Nel mio caso è stato perché dopo cinque anni il lavoro da impiegata mi aveva stancato, le attività erano ripetitive e mi mancava il contatto con la gente e con la natura. Avevo bisogno di nuovi stimoli. Qui mi occupo di moltissime cose e non m’annoio di certo. Siete giovani, quali difficoltà vi trovate ad affrontare? Qualche discussione c’è e fa parte del gioco, ma abbiamo sempre le spalle coperte grazie all’esperienza di mio padre: tutto quello che abbiamo ottenuto finora lo dobbiamo a lui, che ha lavorato sempre duramente. Questo è un impiego che non prevede giorni di ferie, perché gli animali hanno bisogno di cure continue. Ci vuole una grande passione per mandarlo avanti. A che ora inizia la vostra giornata e quanto dura? Per mio padre e per Michele la giornata inizia alle cinque del mattino. Poi in stalla si lavora fino alle 12 e dalle 16 alle 20, mentre in caseificio fino alle 13, con due lavorazioni, una alle cinque e una alle nove. Quindi si va a pranzo e si torna per girare le forme, dalle 15.30 alle 17. Al punto vendita invece l’orario va dalle 8.30 alle 19.30. Qual è il vostro sogno nel cassetto? Fino a due anni fa era quello di aprire un agriturismo, attività che finalmente abbiamo avviato a fine luglio.

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intervista al produttore

Era da tempo che i clienti ci chiedevano di fermarsi nella nostra malga per degustare in loco i prodotti: ora gliene diamo la possibilità. Quanti i capi di bestiame che allevate e il territorio a disposizione per il pascolo? Abbiamo una settantina di animali in lattazione e in totale, con vitelli e manze, alleviamo 130 capi: un numero importante per una stalla di montagna. Siamo arrivati alla nostra massima espansione, perché qui i pascoli non sono estesi come in pianura e i pendii abbastanza ripidi. Tra la malga e la sede fissa più a valle, a 650 metri, abbiamo 55 ettari di pascolo e una cinquantina di ettari di prato che usiamo per ricavare il fieno per l’inverno. Il marchio a fuoco “Prodotto della Montagna” viene dato solo alle strutture che producono, trasformano e stagionano i propri formaggi sopra i 600 metri d’altitudine. Che razza di vacche allevate e come? Abbiamo circa la metà di vacche di razza Bruna e la metà di razza Frisona. La Bruna è più adatta alla caseificazione, fa meno latte ma di maggiore qualità e resa, con una percentuale superiore di proteine. La Frisona invece spicca per quantità di latte prodotto. Il mix è ideale per la nostra produzione, che è stagionale e dura solo quattro mesi. Quali sono le caratteristiche distintive dei vostri prodotti? Il latte d’alpeggio è molto più ricco a livello nutrizionale, per la maggiore presenza di Omega 3, e organolettico, per le sue note legate al pascolo. Per i nostri formaggi d’allevo con stagionatura superiore ai 45 giorni, come il Mezzano, il Vecchio e lo Stravecchio e il Malga Verde, usiamo latte crudo. Per i prodotti più freschi invece, come le Caciotte e l’Asiago Pressato DOP Prodotto della Montagna, utilizziamo latte termizzato: abbiamo acquistato un pastorizzatore, che ci consente di ottenere un prodotto più sicuro e un po’ più dolce.

Dove avviene la stagionatura dei formaggi? In malga abbiamo un magazzino di stagionatura e nella sede aziendale due cantine, una per la stagionatura degli insaccati e una per quella dei formaggi. Le strutture consentono di mantenere l’aria, che viene convogliata dall’esterno, a temperatura e umidità controllata. Malga Verde è l’unica dell’altopiano di Asiago ad aver ottenuto il bollino CE. Come ci siete riusciti? Abbiamo fatto richiesta del riconoscimento CE perché Malga Verde, grazie alla recente ristrutturazione, rispondeva a tutti i requisiti igienico sanitari e strutturali previsti dal regolamento dell’Unione europea. Con il riconoscimento CE vi sono regole diverse rispetto alle altre malghe: ci sono richieste almeno il doppio delle analisi, ma con il vantaggio che possiamo commercializzare ovunque. Com’è cambiato rispetto a un tempo il processo di lavorazione dei vostri formaggi, quali innovazioni avete apportato? Abbiamo dato vita a nuovi prodotti per stare al passo con quello che ci chiedono i nostri clienti. La caciotta la proponiamo per esempio aromatizzata con rosmarino, pepe, peperoncino, cumino. E abbiamo acquistato una macchina polifunzionale per la produzione di yogurt, che sta andando molto bene. Il vostro Asiago Stravecchio DOP “Prodotto della montagna” è un Presidio Slow Food. Che significa? Il Presidio viene attribuito a quelle tipologie di prodotti in via d’estinzione, che vanno tutelati per la loro rarità: una volta erano molti i produttori di Asiago d’allevo, oggi sono sempre meno. Il Presidio connota dunque un prodotto di qualità, ma difficile da reperire: è un modo per preservarlo. Nel caso dell’Asiago Stravecchio DOP la complessità sta anche nella lunga stagionatura, di almeno un anno e mezzo.

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I Prodotti

asiago pressato dop prodotto della montagna

formaggio malga verde

Asiago pressato prodotto a circa 1100 m slm e che per questo può fregiarsi del marchio “Prodotto della montagna”. E’ stagionato 30 giorni e ha un gusto dolce, con note di latte e panna

Formaggio di malga stagionato 30 giorni, dolce e leggermente acidulo, con profumi di pascolo e note di frutta fermentata, burro cotto e leggeri sentori animali

cod 30810 | peso 13 kg

cod 30811 | peso 5,5 kg

fior di latte

caciotta malga verde

Formaggio morbido prodotto in alpeggi, stagionato 20 giorni. Ha un sapore dolce, con note di burro e panna, un aroma persistente ma mai invadente cod 30812 | peso 2,5 kgcirca

Caciotta morbida, prodotta in alpeggio nel periodo estivo. Al naso si avvertono piacevoli sensazioni lattiche; è dolce, con note di burro cotto e pane cod 30813 | peso 600 g circa

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formazione interna

stravacco: LEZIONE IN QUOTA Prima uscita in esterna degli incontri di formazione di Alessandro dedicati allo staff della nostra azienda, commerciale e rete vendita, che ci permettono di capire più in profondità le scelte di Valsana

Matteo De Santi è Laureato in Economia Aziendale a Pisa, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari ed è Export Manager in Valsana

Questa volta arriviamo in alto, in montagna, a 1504 metri, dove un tempo nel periodo estivo la natura ci spingeva e dove oggi la famiglia Curto decide di tornare. Sono quasi le 8 e siamo sull’alpeggio di Malga Mariech dell’azienda agricola Ponte Vecchio. La sveglia questa mattina è stata abbastanza clemente, considerando che la malga si trova sul monte Cesen appena sopra Valdobbiadene, insomma facile da raggiungere. In malga si sa, il lavoro inizia presto e Fabio chiaramente era già lì che ci stava aspettando. Dopo qualche saluto comprende che non siamo ancora ben svegli e ci offre subito un caffè. Ok ora ci siamo, iniziamo la lezione col motivo per cui siamo venuti: vedere la produzione dello Stravacco! Alessandro punta sullo Stravacco, espressione di una tecnica che coniuga tradizione e innovazione, che racconta l’identità della famiglia Curto. Sugli alpeggi del Monte Grappa, non molto distante dal Cesen, si è sempre prodotto il Morlacco, un formaggio fresco, molto magro e salato. “In malga ci chiedevano il Morlacco - racconta Fabia - anche se non è tradizione

di queste montagne. Quindi abbiamo deciso di farlo a modo nostro, creandone una versione stravagante”. Da qui il nome, Stravacco, Stravagante Morlacco. Oggi, in particolare, vediamo la produzione d’alpeggio. Dopo le classiche precauzioni sanitarie entriamo in sala lavorazione: un profumo di latte e burro cotto ci toglie la parola per qualche minuto. Siamo entrati proprio nel momento in cui il latte aveva raggiunto la temperatura di 40°C, quella di una lavorazione a latte crudo, quindi pronto per l’aggiunta del caglio. Nell’attesa della cagliata Fabio ci parla un po’ della loro azienda e delle scelte che li hanno spinti a salire in montagna nel periodo estivo fino a 1504 mslm. Nel 2004 stabiliscono un accordo trentennale con la regione Veneto che permette loro l’utilizzo di terreni sul Monte Cesen a Pianezze. Dopo vari lavori di ristrutturazione e ammodernamento, oggi qui allevano 120-130 vacche, il 95% delle quali di razza Bruna, per la produzione dei formaggi e gestiscono anche un agriturismo dove offrono la possibilità di gustare i prodotti della loro azienda agricola. La cagliata è pronta e Fabio ci ricorda qualche dettaglio importante sullo Stravacco: è un formaggio a latte crudo e a pasta cruda, il latte utilizzato è intero, viene riscaldato a non più di 40 gradi e vengono aggiunti dei fermenti selezionati. A questo punto la cagliata viene tagliata alla dimensione di una noce e disposta in cestini a stampo

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Inconsueto e delicato formaggio d’alpeggio, a latte crudo e a pasta cruda

“canestrato”. In seguito, dopo una prima sgrondatura dal siero, i due cestini vengono uniti sovrapponendo l’uno all’altro. Devo ammetterlo, prima di unire le due forme abbiamo assaggiato un po’ di cagliata calda… è stato più forte di noi. La seconda sgrondatura ci concede del tempo per visitare le sale di stagionatura appena a fianco della sala di lavorazione. Solito, bellissimo, spettacolo: scaffali pieni di forme dove le muffe in crosta saltano subito all’occhio alternandosi di intensità da una fila ad un’altra. Questo è l’umido che ci piace!

stravacco morlacco stravagante Formaggio morbido prodotto con latte crudo ottenuto da vacche di razza Bruna. Durante i mesi estivi viene prodotto in alpeggio in Malga Mariech, sul Monte Cesen, a 1500 metri di altitudine e viene contraddistinto da quello della produzione invernale di valle dal bollino verde “fatto in quota”. Il nome sta indicare un Morlacco che si rifà alle tecniche tradizionali delle zone del Monte Grappa, dove il Morlacco ha origine, ma con una salatura meno invadente. Al palato, infatti, ha una sapidità delicata, con spiccate note lattiche e leggere note floreali e animali. Ottimo da solo, oppure in cucina per mantecare un risotto o farcire la polenta cod 30288 | peso 2 kg circa

Adesso usciamo per un momento dalle sale per dirigerci verso le stalle poco distanti. Qui parliamo un po’ delle vacche e della loro alimentazione: le vacche Brune sono note per la maggiore qualità del loro latte (più grasso e con una maggiore quantità di caseina) a discapito della quantità, che è inferiore rispetto ad altre razze. Nello specifico il latte di alpeggio è ancora più grasso e ricco di vitamine, quindi dal sapore ancora più intenso. A giugno il pascolo concede una quantità maggiore di erba invece a luglio è più secco, quindi è necessario integrare l’alimentazione. Da questo si intuisce un’altra particolarità del formaggio d’alpeggio, ovvero che ogni giorno è diverso, ogni giorno può avere diversi profumi, il massimo dell’artigianalità. Non potevamo che concludere la nostra visita con una degustazione, dopo averne visti tanti finalmente assaggiamo tutti i formaggi di alpeggio disponibili. Questo non lo posso descrivere, dovete andare voi a trovare Fabio e la sua famiglia su in montagna, ma vi posso dire che il burro di malga sul pane caldo c’ha dato il colpo di grazia. Ringraziamo Fabio e Alessandro per averci concesso questa esperienza, siamo già pronti per la prossima lezione!

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geografia del gusto

Fonte: wikipedia.org

ode a(l) carpaccio Da famoso piatto nato nel 1950, omaggio all’omonimo pittore veneziano, il carpaccio identifica oggi una tipologia di prodotto ma anche una tecnica di taglio

Alessandro De Conto, laureato in Ingegneria ma appassionato di formaggi, in Valsana si occupa di selezione ed è Responsabile dell’Export

“Il medico mi ha detto di non mangiare carni cotte, mi prepari lei qualcosa..” “Con piacere Contessa” e dopo qualche minuto... “Ecco a lei, le abbiamo preparato delle sottili fette di controfiletto di manzo crudo condite con la nostra salsa!” Con estrema libertà ricostruiamo così il veloce dialogo avvenuto tra la Contessa Amalia Mocenigo e il ristoratore Giuseppe Cipriani, durante il servizio del pranzo all’Harry’s Bar di Venezia. Dialogo che ha dato il via a uno dei più diffusi piatti della cucina italiana. Dialogo che ha alla base i principi della ricezione ristorativa: accoglienza, ascolto e ricerca del benessere del cliente. Nessuno dei due immaginava certo di aver dato origine a uno dei capitoli ora più conosciuti della cucina italiana: il Carpaccio.

Solo qualche settimana dopo quello stesso piatto riscosse così tanto successo che venne l’esigenza di chiamarlo in qualche modo. In quell’anno, il 1950, vi era a Venezia una mostra del pittore veneziano Vittore Carpaccio, famoso per il colore rosso vivo presente nelle sue opere; a Giuseppe Cipriani venne in mente questo colore guardando il piatto e così lo chiamò Carpaccio. Ecco in breve la genesi di questo fortunatissimo nome. Il boom economico era agli albori e uno dei segni inequivocabili di benessere era la ritrovata presenza della carne sulle tavole delle famiglie italiane, così questo piatto diventa quasi il simbolo di una rinascita, di un nuovo status, di una ripresa economica. Presa coscienza del fatto storico ci apprestiamo ora a percorrere le strade delle regioni italiane per visitare alcune produzioni di Carpaccio, o meglio di prodotti adatti alla sua preparazione.

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Un giro d’Italia tra diversi carpacci, dalla carne fresca ai salumi In effetti l’evoluzione del linguaggio e dei costumi ha fatto si che il termine Carpaccio non diventasse solo un piatto, ma anche una categoria di prodotto o ancora una tecnica di taglio molto sottile. Nel nostro giro d’Italia toccheremo così alcuni prodotti molto diversi tra loro, sia di carne fresca, sia marinati o salati a secco, di fatto veri e propri salumi. Non possiamo che partire quindi dalla patria della carne cruda, il Piemonte, dove le caratteristiche della carne di Fassona si prestano particolarmente all’utilizzo a crudo tanto da innestare nella tradizione culinaria del posto due piatti come la Battuta a coltello e la Carne all’Albese. Quest’ultima prevede di affettare sottilmente il girello crudo (versione popolare) oppure controfiletto o filetto (versione aristocratica) e condire il tutto con olio evo, limone (eresia per alcuni) e abbondante tartufo d’Alba. Il legame con il Carpaccio è davvero stretto, tanto che lo stesso Oberto ci propone da tempo un taglio di fesa che chiama proprio Carpaccio di carne fresca Piemontese. La seconda tappa ci porta in Valtellina: eccoci al Carpaccio di Bresaola di Paganoni. Siamo già quindi nel mondo del salume vero e proprio, soluzione nata per poter aver un prodotto a lunga conservazione che mettesse al riparo dal deperimento la carne fresca e permettesse di viaggiare con una riserva alimentare. Ottenuto da fese lavorate dal fresco, questo taglio si presenta con una bella fetta di color rosso vivo, scarsamente marezzata. Il sapore è dolce e persistente, con leggere note speziate e ferrose. Rimanendo in territorio montano ci spostiamo a Smarano, in Val di Non, dove da anni Pio Corrà ci propone una Carne Salada di Razza Smaranina, ottenuta dopo una marinatura in salamoia della durata di almeno 15 giorni. Questo prodotto ha quindi un’umidità importante, la fetta si presenta molto morbida e di colore granata, tende ad assumere una colorazione più bruna a contatto con l’aria. Il sapore è intenso, ricco di profumi quali l’aglio e il ginepro. In un ideale trasferimento verso est raggiungiamo in Friuli Venezia Giulia Jolanda de Colò, creatrice del Carpaccio Marinato, prodotto di concezione abbastanza recente che affonda le sue radici nelle solide tecniche di conservazione attraverso marinatura in salamoia. La carne presenta una fibra morbida, ma compatta, il sapore è decisamente speziato, con note di alloro e coriandolo abbastanza pronunciate.

Lasciamo le regioni settentrionali per raggiungere in Toscana la ditta Bernardini, che ha voluto negli anni esplorare le potenzialità di carni non europee come quelle di Black Angus. In particolare vi vogliamo raccontare la loro Fesa Marinata, salata a secco e marinata per circa tre settimane con una miscela di oltre 20 spezie. La fetta presenta una marezzatura di grasso evidente, tipica del Black Angus. Al palato è robusta e persistente, il sapore della carne è ben bilanciato dalla ricca speziatura. Da provare anche la versione affumicata, deliziosa. Mi piacerebbe ora portarvi al sud, per rendere il nostro tour più bilanciato, ma le condizioni climatiche avverse alla conservazione della carne e la scarsa presenza di razze bovine da carne ha fatto si che storicamente non si sviluppasse l’abitudine a consumare carni crude (ma piuttosto pesce) o prodotti di salumeria che ne facessero le veci. Il territorio e il contesto produttivo favoriscono o al contrario impediscono determinate evoluzioni gastronomiche... in Sicilia diventa forse più facile trovare un Carpaccio di Tonno.

Carpaccio di bresaola cod 82004 | peso 2 kg circa

Carne Salada Trentina di Smaranina cod 82331 | peso 2,5 kg circa

Carpaccio Marinato cod 84440 | peso 2,5 kg circa

Carpaccio di fassona Piemontese cod 84674 | peso 3,5 kg circa

Fesa Marinata di Black Angus cod 82093 | 2 kg circa


l’abc del formaggio

IL FORMAGGIO HA LA MUFFA! Le muffe sono sempre guardate con sospetto. Tuttavia esistono diverse muffe “buone” che svolgono un ruolo importantissimo nello sviluppo della struttura, dell’aroma e del gusto di tanti formaggi

Giorgia Barbaresco è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari a Udine ed è Responsabile Qualità in Valsana dal 2007

L’abitudine ad acquistare formaggi preconfezionati direttamente presi dal frigorifero allontana il consumatore dal mondo delle muffe e delle croste dei formaggi. Il prodotto all’interno della confezione deve essere perfetto e incontaminato, soprattutto se si tratta di formaggi freschi e a pasta molle. Tuttavia i formaggi, quantomeno i formaggi “secondo noi”, hanno bisogno del lavoro di enzimi, batteri e muffe per sviluppare la complessità aromatica che andiamo cercando. Abbiamo parlato di enzimi e di fermenti lattici. Ora tocca alle muffe. Muffe, lieviti e funghi Muffe e lieviti appartengono al regno dei funghi. Le muffe sono organismi strettamente aerobi (hanno bisogno di ossigeno per svilupparsi) tra i più diffusi nel mondo vivente; ne sono state classificate oltre 400.000 specie, caratterizzate da una grande capacità di crescere e svilupparsi nelle condizioni ambientali e sui substrati più disparati.

Si distinguono dai batteri non solo perché hanno dimensioni maggiori, ma anche perché hanno corpi vegetativi e riproduttivi. Sono costituite da una sorta di germoglio tubolare che si chiama “ifa” che si sviluppa allungandosi e infiltrandosi nel substrato dal quale trae nutrimento. Le ife vegetative hanno spesso dimensioni ridotte, le ife riproduttive invece sono macroscopiche e sviluppano le spore per la riproduzione appunto. La produzione di spore è enorme, anche milioni di unità per ogni singola ifa e non esiste un ambiente naturale nel quale non siano presenti spore di muffe. Muffe: buone o cattive? Fin dall’antichità muffe e lieviti, soprattutto quest’ultimi, hanno avuto un ruolo fondamentale nelle produzioni alimentari; pane, vino e birra infatti non sarebbero mai stati prodotti senza la presenza dei lieviti, e prodotti tipici come Gorgonzola, Roquefort e salami non esisterebbero se non ci fossero le muffe. Nel 1928 grazie al Penicillium Notatum Chrysogenum, sono stati prodotti i primi antibiotici che hanno salvato diverse vite da malattie come la polmonite, la difterite e la gonorrea. Nonostante gli esempi riportati descrivano l’utilità delle muffe non possiamo sottovalutare la presenza di microrganismi fungini che possono essere anche

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Fig.1: Muffe, lieviti o funghi ?

muffe funghi pluricellulari

è un agglomerato di miceli che, a seconda delle spore coinvolte, dell’ambiente e della presenza di pigmenti, può manifestarsi con aspetti e colori diversi (nero, verde, bianco, azzurro, rosso)

lieviti funghi unicellulari

sono state catalogate più di mille specie di lieviti; alcune sono usate per lievitare il pane e far fermentare le bevande alcoliche; la maggior parte appartiene al gruppo degli ascomiceti.

funghi

molto pericolosi per la salute, in quanto produttori di micotossine, sostanze tossiche che possono inquinare gli alimenti rendendoli molto pericolosi per l’organismo. I maggiori produttori di micotossine appartengono ai generi: • Aspergillus, da cui si producono vari tipi di micotossine chiamate aflatossine (potenzialmente presenti in cereali, frutta secca e latte); • Penicillium, da cui si sviluppano le ocratossine (potenzialmente presenti nei cereali) e le patuline (che potrebbero essere presenti nei succhi di frutta); • Fusarium, da cui derivano le fumonisine (potenzialmente presenti nel mais). Le micotossine possono svilupparsi sulle piante, sia durante la coltivazione sia successivamente nella conservazione, ma possiamo trovarle anche nei prodotti di origine animale (es. il latte), dove giungono indirettamente attraverso l’animale stesso che si è nutrito di vegetali “contaminati”. Le muffe alterano gli alimenti e sono molto visibili: questo aspetto ci permette di “proteggerci” perché istintivamente non consumiamo alimenti coperti di muffa, tuttavia se accidentalmente mangiassimo un alimento ammuffito non avremmo conseguenze immediate, il problema si presenterebbe invece se l’ingestione fosse una costante nella nostra alimentazione. A ogni modo i produttori sono obbligati a controllare gli alimenti prodotti (ad esempio la presenza di eventuali micotossine) prima della loro immissione sul mercato, a garanzia e a tutela della salute dei consumatori. Le muffe e i formaggi Le muffe crescono usualmente sulla superficie dei formaggi, preferibilmente a media/lunga stagionatura, ma anche sui freschi e molli causando in questo caso un deterioramento del prodotto. Ci sono formaggi che devono il loro sapore caratteristico proprio alla muffa, che possiamo trovare nella pasta (formaggi erborinati) o sulla crosta (formaggi a crosta fiorita), oppure ai lieviti (formaggi a crosta lavata).

Formaggi erborinati Il termine erborinato deriva dal milanese “erborin” (prezzemolo) e descrive un formaggio che presenta nella pasta screziature di colore verde-grigio o blu, dovute alla presenza di muffe che si sono sviluppate durante la maturazione. In origine la formazione dell’erborinatura era del tutto naturale. Per fare in modo che la muffa si sviluppasse i formaggi venivano lasciati in ambienti umidi come le grotte, dove le muffe erano sicuramente presenti in discrete quantità e durante la stagionatura le forme venivano bucate in modo che la muffa penetrasse attraverso i fori. Ovviamente non c’era possibilità di “controllo” e lo sviluppo delle muffe avveniva un po’ a caso, variando sia in termini qualitativi sia quantitativi. Oggi questa tecnica non viene quasi più utilizzata se non per alcuni prodotti di nicchia. Per lo più le muffe “selezionate” (es. Penicillium roquefortii, Penicillium glaucum) vengono aggiunte al latte e durante la maturazione, il formaggio viene forato con degli aghi, in modo da creare il passaggio dell’ossigeno all’interno della forma (condizione indispensabile per lo sviluppo delle muffe). In questo modo l’erborinatura che si ottiene è piuttosto omogenea e in base alle muffe scelte si determinano il colore e l’aroma che si otterranno al termine della stagionatura. Il Penicillium Roquefortii appartiene alla famiglia delle Trichocomaceae e produce enzimi proteolitici che agiscono sulla caseina influenzando l’aroma; è in grado di produrre anche grandi quantità di amminoacidi liberi (odore di ammoniaca). I lipidi, idrolizzati principalmente per effetto delle lipasi, liberano acidi grassi che, a loro volta, fungono da substrato per altre trasformazioni enzimatiche. Vengono così liberati composti volatili come eptanone (tipico odore di Gorgonzola), nonanone (note erbacee), 1-octen-3-olo (aroma fungineo), 3-metil-tio-propanolo (aroma patate lesse). Il Penicillium Glaucum appartiene anch’esso alla famiglia delle Trichocomaceae. Utilizzando questa muffa però si ottengono formaggi più delicati, e con venature verdi, rispetto a quelle blu prodotte da Penicillium Roquefortii.

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Due cuori e un Blu

l’abc del formaggio

La leggenda vuole che due fra i formaggi erborinati più famosi al mondo siano nati a causa dell’amore… Roquefort - Secondo la leggenda, un pastore romantico, seguendo le orme della sua pastorella, dimenticò del pane e del formaggio di pecora in una delle caverne del Combalou. Al suo ritorno, qualche tempo dopo, scoprì il formaggio ricoperto di muffa. Lo assaggiò e lo trovò delizioso. Il formaggio Roquefort naque così. Guardiano di questo savoir-faire, l’uomo ha mantenuto questa tradizione nelle profondità delle caverne e lo stesso miracolo si verifica di volta in volta. Il Roquefort viene menzionato per la prima volta nel 1070. Alla fine del Medioevo, la sua reputazione si estende alle regioni del Mediterraneo (Tolosa, Marsiglia, Montpellier). Nel XV secolo, sotto Carlo VI, l’affinamento del formaggio diventa il monopolio del popolo di Roquefort e le grotte ottengono uno status protetto. A sua volta, Carlo VII concede al popolo di Roquefort un altro privilegio: nel 1666, il Parlamento di Tolosa vota un decreto che autorizza la sanzione dei produttori di formaggio falso Roquefort. Nel XIX secolo, molti rapporti di ambasciatori e consoli affermano che il Roquefort contribuisce - più o meno allo stesso modo dello Champagne - alla notorietà della Francia negli Stati Uniti. Il formaggio Roquefort diventa famoso a livello internazionale nel XX secolo. È il primo formaggio a ricevere, nel 1925, il titolo Appellation d’Origine - “denominazione d’origine”.

Per produrre il Roquefort, la Fromageries Papillon, utilizza ancora come inoculo il pane ammuffito. Si tratta di pane di segale che viene prodotto ogni anno a settembre dal panettiere di Papillon, che ne produce circa 300 pagnotte che verranno utilizzate durante l’anno. Il Penicillium Roqueforti si sviluppa nelle pagnotte che vengono depositate nelle cantine naturali per 40 giorni; al termine di questo periodo le pagnotte vengono aperte per “raccogliere” la muffa che si è formata all’interno e che verrà usata in seguito come inoculo. Gorgonzola - Un giovane casaro lasciò il suo posto di lavoro per andare a trovare la sua innamorata. Il giorno seguente di primo mattino, per non farsi scoprire, pensò bene di mescolare la cagliata della sera con quella del mattino. Ottenne un formaggio che rimaneva tenero anche se lasciato a stagionare. In preda alla disperazione cercò di risolvere il problema forando le forme per favorire l’asciugatura, ma i buchi si riempirono di muffe. Tuttavia queste muffe resero il formaggio piuttosto gradevole. Era nato il Gorgonzola. Va detto che nella zona di Gorgonzola si radunavano le mandrie di ritorno dai pascoli di montagna e questo rendeva disponibile una grande quantità di latte. Se ne faceva uno stracchino. Stracchino perché fatto con il latte delle vacche “stracche” - cioè stanche - che scendevano dalle montagne nella valle Padana, in autunno. Da qui il nome stracchino Gorgonzola. Si narra che nel IX secolo, Carlo Magno gustò un formaggio dal sapore intenso e dalle caratteristiche venature verdi. Nei Promessi Sposi, a Renzo in fuga nelle campagne milanesi, viene offerto dello ‘stracchino’ in una locanda nei pressi di Gorgonzola.

formaggi erborinati...

a crosta fiorita

Roquefort AOC Papillon Premium

Camembert AOC La Petite Normande

codice 46728 | peso 1,3 kg circa

codice 44056 | peso 250 g VALSANA | 18


Un’altra caratteristica dei formaggi erborinati è l’intensa azione, operata dalle muffe, di “demolizione” del lattosio; l’acido lattico prodotto dai fermenti lattici viene a sua volta utilizzato dalle muffe. Grazie alle muffe, con la stagionatura, la pasta diviene compatta e burrosa, la crosta diventa ruvida, irregolare con una colorazione che varia dal grigio al giallo rossastro a seconda delle condizioni ambientali e il sapore va dal dolce con note di burro al piccante. Formaggi a crosta fiorita Le muffe utilizzate per la produzione di questi formaggi detti anche “muffettati bianchi” si sviluppano appunto sulla crosta anziché nella pasta. I più noti sono sicuramente il Camembert e il Brie, caratterizzati dallo sviluppo superficiale di un feltro commestibile molto fitto di Penicillium Camemberti, appartenente alla famiglia delle Aspergillaceae, che producono colonie fioccose e lanose costituite da abbondanti ife intrecciate che crescono sulla superficie dei formaggi. La maturazione di questi formaggi, generalmente a pasta molle, viene definita “centripeta” (dall’esterno verso l’interno); trattandosi di muffe con forte potere proteolitico si avranno sottocrosta cremosi. Per questo il rapporto superficie/volume deve essere a favore della prima; sono quindi formaggi generalmente bassi e piatti. L’evoluzione di questi formaggi durante la maturazione porta alla disgregazione della caseina con formazione di molti radicali amminici e ammoniaca. I composti che contribuiscono principalmente all’aroma di questi formaggi sono l’acido isovalerico (“odore di piedi”), il diacetile (aroma di burro), metionale (patata bollita), acido butirrico (odore di sudore), 1-octen-3-one (odore di fungo), metanetiolo (odore di cavolfiore).

Formaggi a crosta lavata Il termine “crosta lavata” definisce una categoria di formaggi che durante la maturazione sono stati ripetutamente e regolarmente strofinati con una soluzione composta principalmente di acqua e sale. In questo modo la crosta viene mantenuta umida e diviene un substrato ideale per lo sviluppo della microflora, che gioca un ruolo fondamentale nella maturazione, “centripeta” anche in questo caso, con zone di maturazione distinte (sottocrosta più morbido) e caratteri organolettici particolari. La crosta di questi formaggi è per lo più sottile e di colore rosato o aranciato, dovuto allo sviluppo di lieviti e muffe come Geotrichum e Mucor che disacidificando la crosta la rendono un habitat ideale per la crescita di Micrococcus e Staphylococcus (di specie non patogene) che crescono anche in presenza di sale e che sono ricchi di ceppi pigmentati di rosso aranciato. Il sapore di questi formaggi è influenzato direttamente dalla presenza di lieviti che oltre a produrre alcune sostanze aromatizzanti facilitano la crescita dei micrococchi. Taleggio, Puzzone di Moena, Fontina, Reblochon, Raclette (solo per citarne alcuni) sono sicuramente accomunati da note di cantina, di lievito, di brodo, note agliacee, a volte di “spugna bagnata” e note animali più o meno accentuate, ma comunque intense e bilanciate da una pasta dolce e fondente. Come abbiamo visto, batteri, enzimi, muffe e lieviti, pur appartenendo a un mondo per lo più invisibile a occhio nudo, hanno sempre giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’umanità, entrando in tutti quei processi di trasformazione degli alimenti, a volte degradandoli e a volte rendendoli “conservabili” e addirittura “speciali” per il nostro palato. Mi piace immaginare ogni alimento come un piccolo ecosistema, vivo e in equilibrio, con microrganismi che si sviluppano in sinergia fra loro.

a crosta lavata Fig.2 Penicillium Roqueforti e Penicillium Camemberti al microscopio

taleggio dop carena codice 30939 | peso 2 kg circa VALSANA | 19


Tornato in auge di recente, il burro - in particolare quello di Primiero era già un prodotto gourmet nella Venezia del ‘700. Eletto dagli chef francesi come condimento ideale, era impiegato in ben 31 salse

Formaggi (libbre)

Danilo Gasparini è docente di Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione all’Università di Padova e al Master in Cultura del cibo e del vino di Ca’ Foscari ed è ospite e consulente fisso per Geo&Geo su Rai 3

Dolci

Piacentin et Lodesan

Ci eravamo lasciati con un’Italia casearia definita geograficamente, praticamente spaccata in due: un’Italia padana, concentrata nella bassa lombarda, che si era specializzata nella produzione di formaggi di vacca, e un’Italia appenninica e insulare dove la pecora la faceva da padrone. Non escludiamo da questa geografia le innumerevoli realtà legate alla produzione di formaggi d’alpeggio, in genere formaggi cosiddetti “misturini”, cioè fatti con latte di vacca e in parte di pecora… anche qui da noi, in Altipiano d’Asiago. E a soddisfare la domanda di boschieri delle vallate alpine venete e trentine e di minatori della Val Imperina da Venezia partivano quintali di formaggi salati, il Morlacco in primis, che facevano parte del salario di questa manovalanza. In una nota datata luglio 1730 questi erano gli arrivi a Venezia:

Anno 1728

Anno 1729

253.280

265.506

Pegorin, Bressan, Bergamasco, Veronese e Vacca

87.790

100.634

Claudese , Pugliese, Manfredonia et Inghilterra

45.120

10.660

Formaggiele

72.760

51.323

Asini et sotto asini Salati

formaggi & compagni

Dal trionfo del burro… alle latterie sociali (5)

72.760

51.323

Moriotto

697.302

315.693

Morlacco

209.583

153.550

51.849

69.497

Cicilian Candiotto Totale

--------

1.010

1.490.444

1.019.196

Le misure sono espresse in libbre grosse (una libbra era pari a 0,477 g circa). Moltiplicate e vedete che mediamente affluivano a Venezia tra gli 70.000 e i 80.000 quintali. Tanta roba da Candia, dalla Morea, dalla Morlacchia… ma anche tanto Piasentin e Lodigiano… insomma parmigiano.

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Dalla “guerra del burro” alla “rivoluzione (francese) dei fornelli” Ma il Settecento è ricordato anche, soprattutto nelle nostre aree, per la “guerra del burro”. Della sua fortuna legata alla dieta monacale e all’obbligo del digiuno abbiamo già scritto. In piena età moderna Martin Lutero, padre della Riforma Protestante, nei suoi discorsi “Alla nobiltà della nazione tedesca” (1520), farà dell’obbligo di pagare le licenze per condire col burro – butterbrieffen - durante la Quaresima, uno dei suoi cavalli di battaglia contro la Chiesa romana…e sarà butter für alle! Si diceva della questione del burro per Venezia. Solo le malghe del Primiero ne producevano circa 80.000 libbre (40.000 q.) e dal feltrino ne giungevano circa 25 mila kg. Si certificava che “Il butirro feltrino ossia di Primier che per la sua qualità e singolarità che di conservarsi persino un anno intiero è ricercatissimo di particolare dai veneziani, godendo la preferenza di tutti gli altri che colà vendono trasportati, facendo di conseguenza un prezzo più alto”. Il mercato di Montebelluna era il luogo destinato per la commercializzazione. Arrivato a Venezia il burro veniva preso in consegna dalla confraternita “dei butirranti” che ne regolava in modo monopolistico la distribuzione e la vendita. A fine Settecento una norma che vietava ai sudditi del Tirolo di esportare burro- Primiero era sotto l’Impero- metterà in allarme i governanti veneziani che di quel burro del Primiero avevano assoluto bisogno. Ne nascerà una spinosa questione diplomatica. La passione e la fortuna per il burro si rifanno anche a quella importante “rivoluzione dei fornelli” che nel corso del ‘700, a opera soprattutto dei cuochi francesi, abbandona l’abuso delle spezie ed elegge il burro come condimento ideale per preparare fondi e salse e per salvaguardare nelle preparazioni il sapore di ciascun ingrediente. La sua conquista è rappresentata nei grandi ricettari dell’epoca: La Cuisinière bourgeoise ne prevede l’impiego in ben 31 salse. Ma il Settecento, che non era cominciato bene causa l’esplodere di alcune epizoozie, il secolo dei lumi, è anche il periodo dell’Illuminismo, dell’Encyclopédie che dedica all’arte del casaro e della caseificazione delle voci specifiche e delle tavole. Per l’Ottocento vale la pena di segnalare l’undicesimo volume del Nuovo dizionario universale e ragionato di agricoltura, economia rurale... dell’agronomo coneglianese Francesco Gera: al formaggio dedica ben 157 pagine. Amara la sua constatazione: “Poco assai si è occupata l’Italia intorno alla fabbricazione di altre specie di formaggi”. A parte questo giudizio la voce del suo dizionario dedicata al formaggio è un vero e proprio trattato di arte casearia, con la discussione di una ricchissima e aggiornata bibliografia in merito, anche italiana: ci piace segnalare, uscito a stampa a Venezia nel 1803, il Calendario del cascinajo curato dal toscano Marco Lastri. Non solo: accenna alle prime forme di latterie sociali nate in Svizzera: les associations rurales

….connues sous le nom de Fruitières o Fruiteries, simili peraltro, sottolinea il Gera, ad alcune società distribuite nella bassa lombarda, dove la dimensione e la pezzatura del formaggio di Lodi richiede una quantità di latte che presuppone mandrie di decine di capi. Propone anche dei modelli di statuto-contratto… siamo nel 1840. Quando passa a descrivere tutti i formaggi d’Europa, dopo aver discusso di Francia, Svizzera, Inghilterra, Olanda, si sofferma sulle specialità italiane. Spiega come vengono fatti i mascarponi, si sofferma a lungo sul “formaggio di Lodi volgarmente di grana” e per gli ultramontani parmigiano, passa poi a pecorini della Toscana, della Val di Pesa e della Val d’Elsa, al pecorino di creta del Senese, ai marzolini del Chianti, al caciocavallo di Gravina, ai caci della Calabria, della Basilicata, di Napoli, della Puglia, degli Abruzzi… Ma l’Ottocento è anche il secolo delle grandi inchieste. Due in particolare, quella di Filippo Re, uscita tra il 1808 e il 1813 e quella di Stefano Jacini, pubblicata nel 1882. Il corrispondente per Belluno scrive per Filippo Re: “Calcolato che il numero delle vacche da latte sieno n. 12.000, e che una vacca dia in totalità in un anno libbre 40 di butirro, in un anno la quantità sarà di libbre 480.000 - 2.400 q. - di cui la terza parte passa in commercio colli dipartimenti vicini e due terzi sono consumati nel distretto. Non si ritrae formaggio che superi il commercio interno; perciò non vi è commercio esterno, ma solo trafico interno”. Ecco la conferma: il vero business era il burro e, con latte deprivato della parte grassa, non si potevano ottenere che formaggi scadenti. Per la pianura, per i territori di Noale e Mestre, annota nelle sue risposte Agostino Fapanni, che non ci sono vacche da latte ma solo buoi da lavoro e l’unico formaggio che si ricava è quello pecorino dalle pecore che a decine di migliaia scendevano dal feltrino e dal Primiero per le transumanze invernali, pecorino che poi finiva a Venezia. Molto più dettagliata l’Inchiesta Jacini. Alcuni dati. Per il veronese questi i formaggi prodotti: il “pecorino” (impropriamente detto così), fresco e vecchio, il primo consumato appena fatto: due tre mesi, il secondo, detto formaggio di montagna, confezionato cioè dal latte dal quale è stato estratto il burro. In realtà come attestato da più fonti, raramente si produceva solo formaggio di vacca, ma il cosiddetto “misturino”, soprattutto in uso nei confini con Trento e Vicenza, confezionato con latte di vacca e di pecora: 40 vacche per 200 pecore, in formaggelle. Il puro di pecora veniva confezionato in forme di 12 cm di diametro e 1 kg di peso. Era uso anche il consumo di stracchino, preparato durante il viaggio di monticazione e smonticazione, scadente, consumato dai produttori, importato dalla vicina Lombardia . Abbondante la cajà o puina, la ricotta. Più articolata la situazione nel vicentino: “Il nostro formaggio dicesi impropriamente pecorino” scrivono i

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formaggi & compagni

Il “sistema di Bressanvido” e le prime latterie sociali dell’ottocento delegati, estivo, fatto durante la monticazione, grasso e magro e quello invernizzo, durante i mesi invernali: è sempre magro. Desta curiosità quello che viene chiamato “Il sistema di Bressanvido”: un casaro riceve il latte da piccoli conferitori, 120 kg di latte per 18 vacche, calcolata una media di 7 kg per capo. Il latte viene pesato e registrato, il conferitore fornisce legna e sale e lascia al casaro il siero e paga 5 centesimi per ogni kg di formaggio. Ogni socio può ritirare, quando crede, formaggio, burro e ricotte per usi domestici: il resto è venduto dal casaro che ripartisce il ricavato fra i soci a misura dei rispettivi diritti. “Questa provvida forma di consociazione – sottolineano - non è tanto generalizzata ne’ nostri paesi come dovrebbe e potrebbe esserlo, ma pur tuttavia in qualche sito essa esiste e senza pompa di regolamenti, di statuti e di altre formalità, arriva perfettamente ai due scopi essenziali di giovare all’interesse dei privati e di procurare un vantaggio per l’economia pubblica…”. Una sorta di proto latteria sociale. Se saliamo dalla pianura agli altipiani di Asiago la situazione è complessa: si tratta dell’industria più importante. Sono presenti 107 cascine di montagna – malghe- che accolgono 9.929 vacche. Poi una prima e rara citazione: “Nel canale di Brenta si costuma in tal tempo di fabbricare un formaggio assai salato, che colà si chiama morlacco, e viene consumato sul luogo”. Ma nelle aree di antica tradizione, la bassa pianura lombarda, l’industria casearia è all’avanguardia: il bestiame da latte è quasi tutto svizzero, proveniente dai Cantoni di Schwitz, di Lucerna, di Zug, di Uri, di Unterwalden, di Appenzell: le vacche svizzere, nate in climi salubri, da genitori robusti, nutrite con erbe aromatiche, governate con diligenza sono più prolifiche, di maggior durata e più docili. Una mucca delle Prealpi lombarde non produce più di 25 ettolitri di latte all’anno, mentre una svizzera gliene produce 32. Questa terra scrivono “Sa ottenere un burro squisito e due pregevolissime specialità di formaggi: il grana, conosciuto in tutta Europa sotto la denominazione impropria di parmigiano, magro e di pasta dura, sicché consente anche la fabbricazione del burro; formaggio da condimento … e lo stracchino , così detto di Gorgonzola, di qualità grassa e di breve maturazione…ai quali si possono aggiungere gli stracchini grassi invernali che vogliono essere subito consumati”. A Crema si fabbricano tre qualità di “stracchini”: il Gorgonzola: latte intero durante l’autunno e l’inverno; il Quartirolo: da settembre a novembre quando le vacche sono ancora nei prati, in forme quadrangolari, si conserva quattro-sei mesi unto con olio di semi; le Crescenze: pasta assai più tenera , latte intero, maggiore quantità di caglio... si usa anche lo zafferano. Ma anche Robbiole, piccoli stracchini di forma cilindrica a uso locale, di un etto di peso e i Mascherponi che si ottengono facendo bollire della crema, aggiungendovi a un certo

punto aceto, perché si coaguli: “Si dispone quindi la pasta ottenuta a guisa di strato sopra un pannolino assai raro. Si mette quindi detta pasta in piccole forme cilindriche…consumati freschissimi… sono considerati latticini di lusso”. In quest’area “Vere e proprie latterie sociali non esistono nel circondario…”, anche se viene sollevato il problema della formazione dei casari e dei progressi dell’industria chimica, che avrà in Louis Pasteur l’artefice della messa a punto di un sistema di sterilizzazione applicato anche al latte. Era la pianura lombarda - Lodi e Piacenza - il cuore della tradizione casearia: stracchino, gorgonzola, taleggio, quartirolo, piasentin... il resto del mondo contadino, in Veneto in particolare, consumava tutto il latte o per la produzione di burro, Venezia, abbiamo visto, ne consumava una quantità spropositata, o il latte veniva usato per allevare i vitelli. Ergo: formaggi di pessima qualità. Eloquente a questo proposito quanto scrive Antonio Zava per i distretti di Valdobbiadene e Vittorio: “Il caseificio è un’industria in questo territorio troppo trascurata e da meritare quindi poca considerazione. Il latte che si ottiene dalle vacche viene per la maggior parte utilizzato nell’ allattamento dei vitelli, predominando qui l’allevamento di questi animali; il resto, che è pur sempre una quantità non indifferente, in parte si consuma allo stato naturale, ed in parte si adopera a fare il formaggio, il burro e la ricotta, confezione che viene praticata assai rozzamente. Quasi dappertutto - si lamenta - si adoperano per la caseificazione quei metodi e quegli istrumenti che venivano usati secoli addietro; gli è perciò che noi abbiamo sempre butirri imperfetti e formaggi cattivi. Il motivo: poiché è soprattutto il burro che viene smerciato, anche a prezzi remunerativi, allora viene levato al latte tutta la parte grassa […] di modo che da esso non si ottengono poi che formaggi magri e quasi insipidi (volgarmente detti Sgnech) i quali naturalmente non godono ò commercio alcuna considerazione […] Solo durante l’epoca della monticazione, anche per l’eccellenza dei pascoli, si fabbricano butirri, formaggi e ricotte che spesso riescono eccellenti». Conclude con un auspicio: «Ne viene quindi che qui sarebbe d’incontestabile utilità l’introduzione delle latterie sociali che pur troppo ci mancano affatto». Detto fatto e proprio a Cison verrà fondata, nel 1882, la prima latteria sociale della provincia di Treviso seguita l’anno dopo da quella di Soligo. Ripartiremo da qui, per capire anche il ruolo, non solo sociale, che hanno avuto le latterie sociali e turnarie, per il progresso e lo sviluppo dell’industria casearia. All’alba del nuovo secolo l’industria, grazie ai progressi della chimica e dell’agricoltura, sta per avviare i processi di quella che sarà la nuova industria agro-alimentare… e il latte è pronto.

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Dalla Latteria di Trissino, sulle Prealpi Vicentine, un nuovo formaggio a latte vaccino intero dall’occhiatura importante

La Latteria di Trissino si trova tra le colline di Valdagno e Arzignano, sulle Prealpi Vicentine. Fondata nel 1901, oggi riunisce 41 aziende agricole dell’area, alcune delle quali si trovano a oltre 400 metri di altitudine. Il latte dei soci viene raccolto ogni giorno e lavorato in caseificio in modo ancora artigianale: il taglio della cagliata avviene rigorosamente a mano, così come a mano avviene la salatura. Il formaggio viene trasferito negli stampi e pressato per circa tre ore. Inizia quindi la stagionatura, durante la quale le forme vengono girate a mano ogni giorno e seguite passo passo fino ad arrivare alla giusta maturazione, solitamente per 30/40 giorni. DIAMETRO 330 mm

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Formaggio a latte vaccino intero pastorizzato, a pasta semicotta, dall’occhiatura pronunciata. Al naso presenta leggere note propioniche, in bocca è dolce e fondente, con note lattiche e di frutta matura

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codice 30867 | peso 14 kg ordine minimo 1/8

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il pressato di trissino


novità

di mucca o di capra Novità dalla Valtellina: un nuovo gusto per lo yogurt vaccino intero e finalmente lo yogurt di capra aromatizzato

Dalla Latteria Sociale di Chiuro, nelle montagne della Valtellina, due nuovi gusti si aggiungono alla selezione degli yogurt. Lo yogurt intero al miele, realizzato con il latte proveniente dalle stalle della latteria, dove vengono allevate vacche di razze autoctone, adatte anche ai pascoli montani e che permettono di ottenere uno yogurt naturalmente denso e cremoso. L’aromatizzazione al miele, visibile sul fondo del vasetto, regala una piacevole e delicata dolcezza.

La seconda novità è lo yogurt di capra ai mirtilli, prodotto con 100% latte di capra intero della Valtellina. Anche in questo caso la naturale densità e cremosità della texture rendono inconfondibile lo yogurt di capra di Chiuro, in questa versione aromatizzata ai mirtilli. L’aspetto è un po’ diverso dal suo cugino a latte vaccino, perché lo yogurt e la confettura extra vengono miscelati prima dell’invasettamento. Da annotare: le sensazioni ircine sono completamente assenti!

Yogurt intero al Miele

yogurt di capra ai mirtilli

Dolce e solo leggermente acidulo, con caratteristiche note lattiche e un piacevole aroma di miele

Dolce e solo leggermente acidulo, con caratteristiche note lattiche, non ha note ircine

codice 21520ML | peso 150 g

codice 21522MI | peso 150 g

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Dal laboratorio Artigianquality è arrivata una nuova mortadella, che segue i crismi della ricetta classica e della tradizione bolognese

“Bologna”, questo è il nome amichevole e confidenziale con cui i cittadini bolognesi definiscono il celebre salume della loro tradizione gastronomica: la mortadella. Abbiamo selezionato una nuova mortadella dal laboratorio bolognese di Artigianquality, una versione classica che rispecchia la più autentica ricetta bolognese e che va a completare la gamma di mortadelle e salumi della famiglia Scapin che già abbiamo imparato a conoscere nel corso dell’ultimo anno: la Mortadella Mora Mora, la Mortadella Sette Chiese e il Salame Rosa. Quella che vi presentiamo oggi è una mortadella prodotta esclusivamente con carni di suini di provenienza italiana, selezionate con cura e lavorate con attenzione, caratteristica che distingue tutti i prodotti di Artigianquality. Le cotture molto lunghe, nelle stufe a bassa temperatura, sono realizzate nel pieno rispetto della materia prima e dei suoi tempi di cottura, assicurando così una consistenza omogenea sia durante il taglio che al palato, e un sapore delicato e ben bilanciato tra la speziatura tipica della mortadella e il naturale aroma della carne.

mortadella artigianquality Mortadella classica in vescica naturale, dal gusto dolce e delicato, con una speziatura equilibrata. Perfetta a cubetti o a fette spesse; irrinunciabile su una fetta di pane caldo! codice 78763 | peso 13 kg a metà

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novità

UNa fetta DI “BOLOGNA”


cocktail e formaggi

insoliti abbinamenti

Scambio e unione di sapori tra il mondo del formaggio e quello dei cocktail presso il Cocktail Lab nel centro storico di Treviso

Giulia Bassetto è laureata in Commercio Estero, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari a Venezia e si occupa di Marketing in Valsana

Tutto è iniziato con una telefonata in cui chiedevamo a Samuele Ambrosi la disponibilità per una sessione di degustazione in cui trovare degli abbinamenti tra formaggi e cocktail... ma non gin tonic, argomento già affrontato qualche numero fa. La sua risposta è stata immediata: “il gin tonic non è un cocktail”. Perfetto, ci siamo, lui è il nostro uomo e capiamo subito che ama il suo lavoro come noi il nostro, quando non perdiamo occasione di ricordare che la ricotta non è un formaggio!

diventata più consapevole e il locale è oggi un vero punto riferimento per gli amanti del buon bere. Ma chi c’è dietro al bancone di Cloakroom? Samuele Ambrosi, grande appassionato e grande professionista del settore, figlio di ristoratori, come dice lui ha asciugato bicchieri fin da giovanissimo. La sua passione per le miscelazioni l’ha portato a fare esperienze molto importanti all’estero, a partecipare a europei e mondiali di mixology e ora alle consulenze. Assieme a lui uno staff di professionisti preparatissimi, tra cui Mattia che assieme a Samuele ci ha accompagnato in questa esperienza.

L’appuntamento è la mattina successiva a Treviso, proprio dietro la centralissima Piazza dei Signori, al Cloakroom - Cocktail Lab. Il locale non è grande, nessun posto a sedere e un cartello all’entrata lascia intendere che lì non viene servito Aperol Spritz, proprio a Treviso, la città del Prosecco e dello Spritz! Non resistiamo e ci facciamo raccontare la storia del locale.

Il mondo dei cocktails è affascinante e molto vicino a quello della ristorazione: così come uno chef combina ingredienti diversi per creare un piatto, un barman mixa diversi ingredienti per ottenere un cocktail. Quindi, tornando a noi, per identificare quali bevande abbinare a un formaggio è fondamentale prima capirlo e conoscerlo. Così è iniziata la nostra esperienza sensoriale, con alcuni assaggi in purezza per definire i profili aromatici dei formaggi e capire con Samuele e Mattia quali caratteristiche esaltare o contrastare... e poi la prova finale della combinazione con il cocktail.

Samuele ci spiega che ha aperto Cloakroom nel 2013, una sorta di provocazione per un locale che non fosse il solito bar e che proponesse dei cocktails di alta qualità, pur cercando un approccio adatto a un salotto come quello trevigiano. Nel frattempo la città è cresciuta,

E’ stato incredibile scoprire come alcuni abbinamenti che a parole sembravano un azzardo si siano rivelati davvero azzeccati e al contrario le coppie che sulla carta sembravano perfette abbiano dovuto fare i conti con una realtà diversa.


New York Sour

Mai Tai

Old Bitter Company

Questo è uno degli abbinamenti che ci hanno stupito di più: Beaufort AOC Chalet d’Alpage e Mai Tai. Incredibile come due prodotti legati a mondi tanto lontani, la cultura francese da un lato e uno stile polinesiano dall’altro, si siano abbinati in modo così naturale.

Dopo il Mai Tai, un’altra provocazione che si è rivelata un successo: Old Bitter e Stilton Blu Cropwell Bishop. L’Old Bitter Company è un cocktail da aperitivo realizzato con liquore all’albicocca, Barolo Chinato, China e Chartreuse, un liquore francese alle erbe.

Le sensazioni tostate, di burro e la lunga persistenza del Beaufort sono riuscite a reggere la carica alcolica importante del Mai Tai, realizzato con 3 diversi rum, orzata, triple sec, limone e lime. In realtà il cocktail era stato pensato per il Montebore, che però non ha retto alla carica alcolica. Sicuramente vincente invece l’abbinamento con un Comté o un Bitto di lunga stagionatura.

E’ stato davvero interessante e azzardato affiancare un formaggio di carattere come lo Stilton e un cocktail da aperitivo, ma la combinazione si è rivelata subito intrigante: le note di muffa legate all’erborinatura si agganciavano perfettamente alla nota amara del liquore alle erbe. Sicuramente da provare anche con un Gorgonzola DOP Piccante.

brie de meaux aoc courtenay

beaufort aoc chalet d’alpage

stilton blu cropwell bishop

codice 46690 | peso 1,5 kg circa

codice 46748 | peso 37 kg circa

codice 46820 | peso 7,5 kg

Le sensazioni di fungo e terra del Brie de Meaux AOC Courtenay si sposano perfettamente con il New York Sour, un cocktail fresco nato negli Stati Uniti alla fine dell’800 e realizzato con whiskey di segale, limone, zucchero e vino rosso. In questo caso è stato utilizzato un Pinot Nero di medio corpo che si è sposato molto bene con il Brie e che sarebbe perfetto anche con altri formaggi a crosta fiorita, a maturazione avanzata. Durante l’assaggio il formaggio e l’aroma del vino si lasciavano spazio a vicenda in bocca, in un vero intreccio di sapori. La nota fresca e acida del limone, alla fine, ripuliva il palato e lo preparava per l’assaggio successivo.

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50 sfumature di tiramisù

NOTIZIE la cucina DA di VALSANA qb

Un dessert dal successo senza precedenti e da 5 milioni di risultati di ricerca su Google. Noi lo decliniamo in tre versioni, tutte con il mascarpone del Caseificio Mambelli

Anna Maria è cuoca e foodblogger. La sua ricerca è volta alla qualità e identità della materia prima, che presuppone lo studio della storia degli ingredienti, nella consapevolezza che il cibo è parte fondamentale dell’identità di un popolo

Sedetevi al computer e provate a digitare “tiramisù” e in meno di un secondo avrete 5.280.000 risultati. La Gioconda ne fa qualche migliaio in più, è vero, ma è sul mercato da svariato tempo. Un successo senza precedenti per un dessert proveniente dal Veneto, che nel giro di trent’anni è diventato un brand, come la Ferrari o la Nutella. Perchè se è vero che i suoi natali sono condivisi con il Friuli Venezia Giulia è anche vero che è la versione trevigiana che ha varcato gli italici confini e ha conquistato il mondo, con la forza delle uova montate con lo zucchero, lo “sbatudìn” che ogni nonna premurosa preparava ai nipoti in primavera, il ricostituente più amorevole del mondo. Partiamo dall’inizio, ovvero da quando il dolce veniva comunque preparato in casa, ma non era stato ancora battezzato e per compiere un’indagine che si rispetti il web non ci è di molto aiuto, visto che la ricerca ci offrirebbe milioni di ricette diverse, alcune delle quali anche al limite della denuncia per maltrattamenti, come quella preparata con il tofu. E’ indispensabile una libreria e io mi sono affidata alla mia, reparto Veneto vintage. Ranieri da Mosto, elegante patrizio e fine gastronomo veneziano, nel suo “Il Veneto in cucina” (Giunti Editore, 1978) non ne fa menzione, pur elencando dolci oramai scomparsi dalla memoria dei più. Nei “Saggi di Cucina Veneta ed accostamenti ai Vini”, pubblicato

nella primavera del 1979, che racconta dieci anni di manifestazioni didattiche enogastronomiche in terra trevigiana di Angelo Serafin, Isi Bennini e Luigi Veronelli, non se ne trova traccia nei menù dei ristoranti coinvolti, del calibro dell’Amelia, di Celeste e di Gigetto. Il decennio successivo si apre finalmente con due certezze vergate dalla penna di due colonne dell’enogastronomia come Giovanni Capnist e Giuseppe Maffioli. Il primo nel 1983 dà alle stampe “I dolci del Veneto” (Franco Muzzio Editore), con la prefazione dello stesso Maffioli, che riporta il “Tirame sù”, definita “recente ricetta veneta” dove tra gli ingredienti, oltre al mascarpone e al caffè, compare anche un po’ di panna fresca, appena cinquanta grammi. Ma è scorrendo l’indice delle ricette del libro “La cucina trevigiana” (Franco Muzzio Editore), scritto da Giuseppe Maffioli nel 1983, che il dolce più conosciuto al mondo fa bella mostra di sé, con una sezione di approfondimento dove si intuisce che la Zuppa Inglese è la madre di tutti i Tiramisù. Maffioli presenta la ricetta de “Il tiramesù”, indicandola come quello “legittimo delle Beccherie”, il ristorante ubicato dietro Piazza dei Signori nella cui cucina Lolli “Loy” Linguanotto, giovane pasticcere che aveva lavorato in Germania per un certo tempo, lo preparò per la prima volta. La ricetta è ancora uguale dopo oltre trent’anni: due strati di savoiardi, 30 per strato, imbibiti di caffè e ricoperti da una crema al mascarpone preparata con 12 tuorli d’uovo, 500 g di zucchero e 1 kg di mascarpone. Una spolverata di cacao amaro e voilà, pronto per uscire in sala. La forma tonda, infatti, “tradisce” la sua natura di torta e il servizio con il piatto in acciaio quella di dessert da ristorazione. Da quella comanda la strada è stata tutta in discesa, varcando monti e oceani, letteralmente, e diventando un’icona golosa, il dolce moderno più conosciuto al mondo: preparato da Sofia Loren negli studi della CBS con David Letterman e sognato da Bridget Jones per curare le delusioni d’amore.

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Fonte: caffèportofino.it

Si racconta che anche papa Joseph Ratzinger ne sia particolarmente goloso, ma nella versione con le fragole. Le versioni, appunto. Ma quante ne esistono al mondo? Moltissime, e Clara e Gigi Padovani, nel loro “Tiramisù” (Giunti Editore, 2016), ne raccontano moltissime, compreso uno preparato con il couscous e uno che prevede la pastinaca abbinata al mascarpone. Ma è la ricetta “Tiramisu al Philadelphia” scritta da Wilma De Angelis nel suo “Le mille meglio”, edito nel 1988 da Wark Over, che sdogana definitivamente il dolce e ce lo consegna nella versione desperate housewives e nella forma rettangolare.

Il Prodotto

Ma quali sono gli ingredienti che obbligatoriamente devono essere presenti? Nel 2011, durante il XVIII Simposio dell’Accademia Maestri Pasticceri, venne assegnato il compito di preparare un dolce che poi sarebbe stato valutato e questo dolce doveva essere: “Torta tiramisù che contenga obbligatoriamente mascarpone e savoiardi o pan di Spagna e caffè, ovvero una crema leggera, soffice e godibile al mascarpone, dolce auto-sostenibile o con contenitore commestibile, con o senza addensanti ma che sia obbligatoriamente e veramente innovativa. È ammessa l’aggiunta di cioccolato. Può essere servita tagliata anche alla chitarra.” Tre quindi gli ingredienti imprenscindibili: caffè, savoiardi e naturalmente il mascarpone, formaggio cremoso lombardo che non viene realizzato con l’aggiunta di caglio ma prodotto tramite la coagulazione acido-termica della panna, che ne causa la consistenza cremosa. Le ricette di oggi rispettano la tradizione e propongono qualcosa di nuovo: nella versione con la pâte a bombe, ovvero la pastorizzazione (obbligatoria!) dei tuorli, nella versione take away, ovvero gelato da passeggio e nell’elegante Triffle anglosassone. Buona appetito e soprattutto buon Tiramisù (con l’accento sulla u, mi raccomando).

mascarpone mambelli Mascarpone fresco del Caseificio Mambelli, prodotto con la tecnica tradizionale che prevede il riposo per una notte nelle tele e il confezionamento il giorno successivo; questa lavorazione consente di preservare tutte le caratteristiche della panna fresca. Si presenta con un colore bianco avorio e con una consistenza è cremosa, soffice e vaporosa. All’assaggio svela una dolcezza avvolgente, con note di latte, panna e burro di centrifuga codice 21505 | peso 250 g codice 21506 | peso 500 g

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NOTIZIE la cucina DA di VALSANA qb

Le Ricette TIRAMISù CLASSICO CON UOVA PASTORIZZATE La pastorizzazione casalinga delle uova, o pate a bombe, è una tecnica alla portata di tutti: basta avere un termometro da pasticceria, che si trova facilmente in commercio, così da evitare le contaminazioni causate dalla Salmonella, sempre in agguato. L’alternativa è acquistare tuorli già pastorizzati.

Ingredienti: 500 di mascarpone Mambelli, 100 ml di tuorlo a temperatura ambiente (circa 6 tuorli medi, bio), 200 g di zucchero

semolato, 250 g di savoiardi, 250 ml di caffè 100% Arabica preparato con il pressofiltro, 100 ml di acqua, cacao amaro in polvere In una casseruola portate a bollore l’acqua con lo zucchero fino a raggiungere la temperatura di 121°C (se non avete il termometro, lo sciroppo non deve caramellare ovvero deve raggiungere il primo bollore). Nella planetaria (o una ciotola con il frustino elettrico) montate i tuorli versando lo sciroppo a filo e continuate a montare fino a quando il composto diventerà chiaro e spumoso e toccando la base della ciotola questa risulterà fredda. Ci vorranno circa 6’-8’. Ammorbidite il mascarpone con una spatola e unitelo delicatamente alla crema con movimenti dall’alto verso il basso. Trasferite in un sac-à-poche e fate riposare in frigo 30’. Nel frattempo preparate il caffè e trasferitelo in una ciotola. Avvolgete un anello da pasticceria di circa 24-26 cm con pellicola, così da rendere più facile toglierlo VALSANA | 30

successivamente, e appoggiatelo sopra un piccolo vassoio. Immergete velocemente i savoiardi nel caffè utilizzando un paio di guanti in lattice (il caffè colora le dita!), disponeteli alla base dell’anello, per due strati e terminate coprendo con la crema a ciuffi, utilizzando una punta a stella. Spolverate la superficie con abbondante cacao amaro in polvere e conservate in frigo fino al momento del servizio.

I HAVE A CREaM GELATO DI MASCARPONE E POLVERE DI CAFFE L’estate del 2018 sarà ricordata come insolita e calda e abbiamo bisogno di cibi freschi, come un buon gelato preparato in casa con mascarpone e polvere di caffè. Del resto non si può vivere da malati per morire sani.


Ingredienti: 250 g di mascarpone Mambelli, 350 ml di latte intero fresco, 100g di zucchero di canna extrafine, 40g di destrosio, 40g di latte scremato in polvere, 3g di farina di semi di carruba o di altro addensante, 2 cucchiai di polvere di caffè In una ciotola miscelate gli zuccheri, il latte in polvere, la farina di carruba e la polvere di caffè. In un pentolino, a fuoco lento, portate il latte e la panna a 50°C, togliete dal fuoco, mescolate con una frusta gli ingredienti secchi, portate nuovamente sul fuoco a 85°C e continuate la cottura per 5’. Lontano dal fuoco aggiungete il mascarpone spatolato e ammorbidito, mescolate bene e abbassate velocemente la temperatura in abbattitore oppure immergendo il pentolino in una ciotola con acqua e ghiaccio. Coprite il contenitore con la pellicola e conservate in frigorifero per una notte o 12 ore, così da rendere il composto più maturo in modo da non creare troppi cristalli di ghiaccio durante la mantecatura.

Trasferite tutto nella gelatiera e mantecate secondo le indicazioni. Per la preparazione del gelato al solo mascarpone togliete la polvere di caffè e aggiungete i semini di mezza bacca di vaniglia. Per il servizio: con il porzionatore, coni gelato o piccole coppe oppure trasferendo il gelato mantecato in piccoli stampi in silicone, da far riposare per circa 2 ore in congelatore.

MINITRIFfLE CON MASCARPONE, MARASCHE E CIOCCOLATO FONDENTE Lo so, il Triffle è un dolce natalizio ma preparandolo, e gustandolo, in anticipo non vi farete trovare impreparati. Nella ricetta indicata lo stampo più adatto è una coppa grande e trasparente, ma se avete disposizione tante piccole coppe da champagne vintage farete un figurone. E, attenzione, crea dipendenza! VALSANA | 31

Ingredienti: 300 g pan di spagna o savoiardi cubettati, 500 g di mascarpone Mambelli 300 g di panna fresca, 120 g di zucchero a velo. 50 g di cioccolato fondente 62% Gardini, 100 ml di vino passito, marasche in sciroppo; zucchero a velo Cubettate il pan di spagna, trasferitelo in una ciotola e spruzzatelo con un po’ di vino passito. Tritate 50 g di cioccolato fondente. Montate la panna rendendola soda. Nella planetaria o con un frullino montate il mascarpone con lo zucchero a velo e un paio di cucchiai di vino passito. Con una spatola unite la panna montata e trasferite tutto in un sac-à-poche. Componete il dessert: distribuite metà del pan di spagna, coprite con la crema e ripetete le operazioni per un secondo strato. Fate riposare in frigo il Triffle fino al momento del servizio, che avverrà decorando la superficie con il cioccolato grattugiato e le marasche sgocciolate. E’ possibile spolverare con cacao amaro in polvere.


Valsana S.r.l. ∙ Via Ettore Maiorana, 3/A ∙ 31025 Santa Lucia di Piave (TV) ∙ Italy Tel. (+39) 0438 1883125 ∙ Fax (+39) 0438 64976 ∙ valsana@valsana.it ∙ www.valsana.it


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