Selezione di Sapori | 2018 06

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I L M A G A Z I N E D I VA L S A N A | 0 6 . 2 0 1 8


SOMMARIO

EDITORIALE di martina iseppon

SELEZIONE DI SAPORI: Il magazine di Valsana Team editoriale: Giorgia Barbaresco, Giulia Bassetto, Giulia Basso, Alessandro De Conto, Matteo De Santi, Danilo Gasparini, Martina Iseppon, Elisabetta Meda, Anna Maria Pellegrino, Johnny Tomè

Novembre è il mese in cui, nelle nostre campagne contadine, si macellava il maiale. Ne parliamo con Paolo di Casa Cason, ma anche con Giovanni Ciliberti di Sapori Mediterranei. Dal Veneto alla Basilicata, due produttori che hanno in comune una scelta importante: quella di produrre salumi senza conservanti, nel rispetto della tradizione. Il maiale è protagonista anche dell’articolo di Alessandro, un tour virtuale tra diverse tipologie di lardo, da Colonnata fino ai Nebrodi. Dopo aver atteso con impazienza che arrivasse alla giusta stagionatura, vi presentiamo l’ultimo nato in casa Gennari, il Parmigiano Reggiano DOP biologico. Paolo Gennari è uno dei protagonisti dell’Italian Cheese Awards, assieme a Giorgio Amedeo ed Emanuela Perenzin. Emanuela si è portata a casa una medaglia SuperGold anche al World Cheese Awards, assieme ad Angela e Simone de Il Fiorino. E così, quasi senza rendercene conto, siamo arrivati all’ultimo numero di quest’anno. Ecco quindi le proposte per Capodanno di Anna Maria Pellegrino, a cui abbiamo chiesto di giocare con i Chutney. E, per chi come noi, spende più in cibo che in abbigliamento, chiudiamo con una sezione dedicata ai peccati di gola da concederci durante queste feste…

Direttore: Giulia Basso In copertina: Paolo di Casa Cason Foto di Beatrice Mancini Editore: Valsana srl Via E. Maiorana 3/A - Santa Lucia di Piave TV Registrazione Tribunale di Treviso n. 2422 del 28/04/2017

Martina Iseppon

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SOMMARIO novembre | dicembre 2018

visita a casa cason | rispetto per la tradizione

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VIAGGIO IN VALTELLINA | LATTERIA DI CHIURO

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intervista al produttore | SAPORI MEDITERRANEI

NOVITà | è ARRIVATO IL BIO

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GEOGRAFIA DEL GUSTO | FATE LARDO!

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L’ABC DEI FORMAGGI | L’AFFINAMENTO

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FORMAGGI & COMPAGNI | Dallo Sbrinz, all’Imbriago, al Morlac

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NOTIZIE GOLOSE | CHEESE AWARDS

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insoliti ABBINAMENTI | WHISKY E FORMAGGI

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LA CUCINA DI QB | CAPODANNO CON I CHUTNEY

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SELEZIONE PER LE FESTE | IL LUSSO IN TAVOLA

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rispetto per la tradizione

visita a casa cason

La tradizione contadina di “fare su el porseo” andava dal 30 novembre, Sant’Andrea, al 17 gennaio, Sant’Antonio. Il maiale veniva allevato “in casa” e in casa veniva macellato. Una tradizione che ritroviamo da Casa Cason nel rispetto degli ingredienti, dei tempi, della stagionatura...

Martina Iseppon è laureata in Economia e Commercio a Venezia ed è Responsabile Marketing in Valsana dal 2003

Lunedì mattina di un grigio giorno di pioggia decisamente autunnale. Rileggo gli appunti dell’intervista a Paolo di Casa Cason e provo a riordinare i pensieri. Cerco alcune informazioni sulla tradizione contadina veneta della macellazione del maiale e di colpo mi ritrovo bambina, nel borgo di Vergoman, a Miane, il mio paese di origine nell’alto trevigiano, ad assistere inorridita e affascinata al tempo stesso, al rito della macellazione. Il tavolo di lavaro, il tritacarne, i pentoloni in cui venivano bollite le ossa. Perchè del maiale non si butta niente, si sa. Gli uomini che disossavano, tritavano, insaccavano, le donne che preparavano la cena per tutti, noi bambini che giocavamo in cortile. Era un rito, una festa, che coinvolgeva tutta la borgata. Il patrono di Vergoman non per niente è Sant’Antonio Abate, che si festeggia il 17 gennaio, noto anche come Sant’Antonio “del porcello”, per i ritratti che lo raffigurano con un maiale ai suoi piedi. Le immagini che mi porto dalla visita a Casa Cason sono l’opposto dei miei ricordi di bambina: un laboratorio immacolato, dove tutto è ordinatissimo - si capisce subito che sull’igiene Paolo non transige. Il laboratorio si trova in un vecchio casale contadino a San Pietro in Gù (PD), un paese disperso tra la campagna del padovano e del vicentino. A fianco del laboratorio, il capannone dove vengono allevati i maiali. Eppure arrivando non si direbbe, non c’è traccia dell’odore che di solito rende riconoscibili gli allevamenti di suini già a distanza. “Usiamo il perfosfato per ridurre l’inquinamento olfattivo dell’allevamento - ci spiega Paolo - un fertilizzante che si lega con l’ammoniaca, rendendo al tempo stesso le deiezioni più facilmente assimilabili dal terreno”.

“La nostra famiglia alleva maiali dal 1957. In origine tutti gli animali venivano destinati al macello. Mio nonno Giacomo però ogni tanto ne ammazzava qualcuno e lo lavorava in casa secondo tradizione. Giusto per il consumo familiare e per fare qualche regalo ad amici e parenti. Regali che venivano molto apprezzati: da qui l’idea di cimentarci anche con la produzione di salumi e non solo l’allevamento. Oggi alleviamo oltre 500 maiali, di cui circa 300 vengono anche trasformati da noi, mentre gli altri sono venduti al macello. Nell’allevamento seguiamo il disciplinare del prosciutto di Parma e San Daniele, rispettando anche la normativa regionale per il benessere animale. Il nostro non è un allevamento intensivo, i maiali hanno spazi adeguati e sono alimentati con una miscela, in percentuali variabili a seconda dell’età, di mais (prodotto in azienda), soia, crusca e un po’ d’orzo e sali minerali per integrare l’alimentazione. Li acquistiamo a tre mesi di vita, dopo lo svezzamento, e li portiamo fino a 12 mesi circa“. Controllare l’alimentazione e la crescita è molto importante: la filiera cortissima, la qualità della materia prima, assieme all’igiene nella lavorazione, sono i fattori che permettono di lavorare le carni senza additivi, garantendo al tempo stesso la sicurezza alimentare. Paolo segue ancora oggi la ricetta di nonno Giacomo: solo sale e pepe, niente conservanti, budello naturale, asciugatura e stagionatura tradizionale. “Quando raggiungono i 220 kg, a circa un anno di età, i maiali vengono portati a un piccolo macello locale, che ci restituisce le mezzene intere, le disossiamo noi. Nella produzione dei nostri salumi utilizziamo tutti i tagli, anche quelli più pregiati come la coscia. I maiali vengono macellati la mattina alle 7 e alle 9 sono già nel nostro laboratorio”. La lavorazione “a caldo” permette di rendere più omogeneo l’impasto e ottenere una fetta più compatta al taglio. Salami e sopresse sono insaccati in budello naturale, aggiungendo solo un po’ di spago per i salami

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filiera cortissima, niente conservanti e una rete per le sopresse. L’asciugatura, che dura 5-6 giorni, avviene in una cella dove un macchinario imita il funzionamento delle stufe di una volta: aria secca e calda di giorno, freddo e umido di notte. La stagionatura ricrea invece l’ambiente della cantina: pareti fredde, temperatura omogenea e riciclo d’aria per evitare la formazione di muffe. La durata della stagionatura varia in funzione della dimensione, che non è mai standard usando appunto un budello naturale: in media comunque si va dai 60 giorni per il salame ai 5 mesi per la sopressa. Un rispetto per la tradizione quasi maniacale, quello di Paolo, che si ritrova nel gusto di questi salumi, che ricordano davvero quelli di una volta. E che, come quelli di una volta, vanno anche gestiti e conservati: lontano da fonti di luce e calore per evitare che si secchino, accettando la naturale ossidazione della prima fetta al contatto con l’aria. Capire il valore dei salumi senza conservanti passa anche dalla disponibilità ad accettare alcuni “inconvenienti”, come l’ossidazione e un colore più scuro, rinunciando a un po’ di comodità e ai rossi accesi a cui l’industria alimentare ci ha abituato.

salame Salame in budello naturale stagionato 2 mesi; il gusto è delicato, grasso e magro sono ben bilanciati cod 82610 senza aglio | cod 82611 con aglio cod 82612 alla santoreggia | peso 600 g circa

sopressa Sopressa stagionata almeno 5 mesi, dalla consistenza compatta e dal gusto dolce e un po’ speziato cod 82613 | peso 1,5 kg circa


viaggio in valtellina

latteria di chiuro Latte di qualità, continua voglia di migliorarsi e profondo legame con il territorio: l’entusiasmante crescita della Latteria di Chiuro che mantiene salde le proprio radici

Giulia Bassetto è laureata in Commercio Estero, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari a Venezia e si occupa di Marketing in Valsana

E’ passato qualche anno da quando abbiamo iniziato la nostra collaborazione con la Latteria di Chiuro e in questo periodo abbiamo assistito con entusiasmo alle innovazioni che la latteria ha fatto e alla crescita che ne è derivata. Proprio per questo, a inizio estate abbiamo deciso di tornare in Valtellina per fare visita ai nostri amici di Chiuro. Un detto recita che “si sa dove andare, solo se si sa da dove si viene”; parafrasando possiamo dire quindi che è importante ricordare il proprio passato per individuare la giusta direzione da intraprendere per il futuro, e la storia di questa visita parte proprio da qui.

Il latte: la latteria raccoglie quotidianamente il latte dalle aziende agricole di 20 soci produttori che si trovano nel raggio di 20 km. Tutti gli allevatori prestano grande attenzione al benessere degli animali, prediligendo stalle a stabulazione libera, alimentando le vacche con foraggi e cereali provenienti per almeno il 50% dalla provincia di Sondrio e lasciandoli liberi di pascolare nella bella stagione. La zona montana privilegiata della Valtellina, le tecniche di allevamento uniformate seguendo il disciplinare del Valtellina Casera DOP e la razza principalmente Bruna Alpina delle mandrie, permettono di ottenere un latte di ottima qualità, sia dal punto di vista organolettico sia in termini di grasso e proteine.

La Latteria di Chiuro è nata circa 60 anni fa con l’obiettivo primario di trasformare il latte dei soci in formaggi, principalmente il Valtellina Casera DOP, ed è diventata, dopo qualche anno, la prima cooperativa lattiero casearia in Valtellina a dedicarsi anche alla produzione di latte alimentare.

Gli investimenti: nel 2012 è stato dato inizio alla produzione di yogurt realizzato con il latte raccolto dai soci, che rappresenta oggi una parte molto rilevante della produzione. Grazie a questo incremento della produzione, la latteria ha avuto la necessità di spazi più ampi, realizzando così nel 2015 un nuovo stabilimento dedicato esclusivamente alla stagionatura dei formaggi, alla logistica e agli uffici. Anche lo spaccio è stato spostato e rinnovato, predisponendo oltre allo spazio per la vendita anche uno spazio per la ristorazione veloce realizzata sempre con i prodotti della Latteria.

Fin dagli inizi la latteria si è distinta per le tecnologie all’avanguardia adottate, affiancate però da metodi di allevamento tradizionali, a garanzia del benessere degli animali e della bontà dei prodotti: latte di qualità e investimenti sono gli aspetti che hanno permesso alla latteria di crescere.

Ma gli investimenti non sono solo strutturali o tecnologici: la latteria ha deciso infatti di puntare anche sulle persone e sul territorio. Nel giro di pochi anni il personale è più che raddoppiato ed è oggi costituito per una buona parte da giovani valtellinesi che vengono formati per lavorare lì.

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Dal territorio, per il territorio: la rete di sinergie con le realtà locali

Infine è stata costruita un’importante rete di sinergie con realtà del territorio che collaborano con la latteria e che seguono una direzione comune, ossia lo sviluppo e la crescita locale. Tra queste la Cooperativa Sociale “Il Sentiero”, che fornisce le confetture usate per l’aromatizzazione degli yogurt e la Società Agricola Cooperativa Melavì, che produce la Mela di Valtellina IGP. Una crescita dal territorio, per il territorio, che non prescinde dal cuore produttivo della latteria e dal motivo

per cui è nata, la caseificazione, a cui viene ancora destinato il 50% del latte raccolto dai soci. Di tutta la produzione casearia i formaggi più significativi sono proprio quelli che fungono da bandiera della Valtellina: il Valtellina Casera DOP, prodotto fin dai primissimi anni di vita della latteria, e il Bitto DOP, prodotto da alcuni alpeggi di fiducia e portato a completare il suo percorso di maturazione negli ambienti di stagionatura della latteria.

bitto dop

valtellina casera dop

Formaggio a latte vaccino crudo e con l’eventuale aggiunta di latte caprino. Questo formaggio non viene prodotto direttamente dalla Latteria di Chiuro, ma dagli alpeggi locali a partire dalla seconda metà di giugno; la latteria si occupa poi di tutte le fasi della stagionatura che nella nostra selezione raggiunge un minimo di 10 mesi. Il sapore è dolce e delicato, con note fruttate di ananas e pesca.

Formaggio prodotto dalla Latteria di Chiuro e stagionato almeno 70 giorni. Dolce, aromatico, con retrogusto di funghi e frutta secca. Le sue origini risalgono al 1500, grazie alla pratica degli allevatori di riunire il latte per la lavorazione nelle latterie turnarie. E’ uno dei principali ingredienti di alcuni piatti tipici valtellinesi come i pizzoccheri o gli sciatt.

cod 31051 | peso 11 kg circa

cod 31142 | peso 8 kg circa disponibile anche stagionato 6 mesi | cod 31143

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sapori mediterranei

Tra i colli e i monti della Basilicata, nei pressi di Cirigliano, microscopico borgo medievale a 656 metri sul livello del mare, si trova una piccola azienda, Sapori Mediterranei, che continua a produrre artigianalmente i salumi di tradizione millenaria nati in questi luoghi. Una tradizione che affonda le radici al tempo degli antichi Romani: secondo scritti di Cicerone e Varrone, il più celebre degli insaccati, la “Lucanica” o salsiccia, fu inventato proprio qui, in Lucania. “I soldati romani appresero dalle schiave lucane l’arte di insaccare i

salumi e Apicio, gastronomo di Cesare, ne perfezionò la ricetta”, racconta Giovanni Ciliberti, titolare dell’azienda. Come nel caso dei soldati romani anche Giovanni ha imparato i trucchi della norcineria da una donna, sua madre Giovannina, che gli ha trasmesso le antiche ricette tradizionali, tra cui spicca quella del Pezzente della Montagna Materana, prodotto tipico di questa zona che i Ciliberti hanno saputo recuperare e valorizzare, come ci racconta Giovanni in questa intervista.

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Fonte: basilicataturistica.it

INTERVISTA AL PRODUTTORE

Prima per passione e poi per lavoro: nella famiglia Ciliberti i salumi tipici lucani venivano preparati in casa per gli amici, poi Giovanni ne ha fatto un lavoro mantenendo vive le antiche ricette tradizionali


Abbiamo intervistato Giovanni, norcino e titolare di Sapori Mediterranei

Giulia Basso è giornalista collaboratrice de Il Piccolo di Trieste e direttore responsabile del nostro magazine, Selezione di Sapori, dal 2017

Com’è nata l’azienda Sapori Mediterranei? Dagli insegnamenti di mia madre Giovannina, che nel periodo invernale preparava dei salumi per gli amici. Io al tempo lavoravo nel settore della ristorazione, ma sentivo il fascino di questa tradizione e l’aiutavo con piacere. Negli anni l’attività è cresciuta e nel 1999 ho deciso di renderla il mio principale lavoro, fondando un’azienda. Quali sono le caratteristiche del territorio dove avete sede? E’ un territorio che gode di un particolare microclima montano, con un’altitudine variabile dai 650 metri sul livello del mare ai 1200 del punto più alto della provincia di Matera. Il borgo di Cirigliano, che conserva ancora intatte le sue origini medievali ed è noto per il suo castello feudale con una torre dalla caratteristica forma ovale, è circondato da grandi foreste di querce e castagni e da sorgenti. Oggi quanti dipendenti avete e come avviene la suddivisione dei compiti? Siamo un’azienda piccola, oltre a me ci sono altri tre ragazzi che lavorano qui stabilmente e ciascuno di noi si occupa un po’ di tutte le fasi della lavorazione e della stagionatura dei salumi. Il periodo di lavoro più intenso inizia adesso, con l’inverno: due volte a settimana ci arriva la carne, che rifiliamo, maciniamo e mescoliamo, preparando la concia con gli altri ingredienti. Poi mettiamo il tutto a riposare in cella

fino al giorno successivo, quando ci occupiamo della fase d’insacco. Come selezionate le vostre carni? Abbiamo un’azienda che ci rifornisce da molti anni e con cui si è costruito un rapporto di fiducia. Loro sanno che voglio una materia prima di qualità, perché non uso additivi e conservanti. Per produrre i miei salumi mi servono suini pesanti, di non meno di 150 chili e con un’età di almeno undici mesi. I maiali vengono fatti crescere liberi, alimentati naturalmente con mais, crusca, orzo, farinaccio, favetta, pisello proteico, in diverse percentuali in base alla stagione. In questo periodo inoltre gli animali si nutrono anche di ghiande e castagne, ricche di antiossidanti naturali e facili da rintracciare nei boschi del nostro territorio. E le altre materie prime? Per la salsiccia piccante utilizziamo sale, peperoncino macinato e finocchietto selvatico di montagna, che raccogliamo in loco nel periodo della vendemmia e secchiamo all’ombra, come vuole la tradizione, per evitare che perda il suo particolare profumo e aroma. Nel Pezzente della Montagna Materana oltre al sale e al finocchietto aggiungiamo del peperone secco macinato dolce di Senise e un po’ del nostro aglio rosso. Il tutto viene insaccato in un budello rigorosamente naturale. Che caratteristiche hanno i vostri salumi? Sono interamente prodotti in modo artigianale, con ingredienti naturali e senz’uso di conservanti: nitriti e nitrati sono assolutamente banditi. Non usiamo zuccheri, né lattosio, né acido ascorbico. I nostri salumi sono privi di glutine e completamente edibili, incluso il budello.

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intervista al produttore

Avete scelto di rinunciare ai conservanti e agli additivi, quali i vantaggi per i consumatori? I vantaggi sono sotto gli occhi di tutti, perché è provato scientificamente che i nitriti e i nitrati in associazione con le proteine della carne sviluppano nitrosammine, che sono cancerogene: non a caso le norme europee ne regolamentano l’uso, che non può superare i 15 grammi a quintale. Che accortezze in più vanno usate nella produzione dei vostri salumi? Naturalmente se si evita la chimica serve maggiore attenzione nella produzione e nella stagionatura: le carni devono essere di alta qualità e durante le fasi di lavorazione è importantissima l’igiene della materia prima, del personale e delle attrezzature utilizzate per prevenire contaminazioni microbiche esterne. Per evitare lo sviluppo di batteri in fase di maturazione dei salumi inoltre dobbiamo ridurre l’acqua contenuta al loro interno con una buona stagionatura: nei nostri prodotti assistiamo a un calo del peso del 50%, tutt’altra cosa rispetto ai salumi industriali, il cui peso diminuisce del 25% perché contengono più acqua. Quindi li mettiamo sottovuoto, per preservarli dal contatto con l’aria. Per conservarli l’ideale è riporli in un luogo fresco e asciutto. Tra i vostri prodotti c’è il Pezzente della Montagna Materana, un salume di antica tradizione. Ce ne racconta la storia e i legami col territorio? Il Pezzente deve il suo nome al fatto che in passato era uno dei prodotti base della tradizione povera contadina. Pezzente sta appunto per povero, perché originariamente per produrlo i mezzadri usavano i tagli meno nobili del maiale, quelli che non finivano negli insaccati preparati per i loro padroni. Da questi tagli si ottiene un prodotto prelibato, un po’ più grasso rispetto alla salsiccia, che veniva usato dai “pezzenti” come sostituto della carne, per fare il ragù o per insaporire altri piatti, tradizione che si mantiene tuttora visto il gusto di questo insaccato.

Quali sono le fasi di lavorazione del Pezzente? La lavorazione si divide in quattro fasi: all’inizio si tritano a grana grossa e si mescolano parti grasse e parti magre, quindi avviene l’impastatura, durante la quale si aggiungono sale e spezie. L’amalgama tra carne e concia, che deve concludersi ottenendo un impasto perfettamente omogeneo, è la fase più delicata, chiamata localmente arricciatura. L’impasto ottenuto viene poi insaccato in un budello naturale di suino, legato e messo ad asciugare in appositi locali per quattro giorni. Si conclude con il periodo di stagionatura, che dura circa un mese. Quali gli abbinamenti consigliati e le ricette della tradizione che utilizzano questo insaccato? Oltre al consumo classico, a fette con del pane casereccio, il Pezzente si sposa bene per un utilizzo in cucina, perché essendo più grasso rispetto agli altri salumi con la cottura non si secca. Si usa per farci il ragù per la pasta, oppure nel periodo invernale per insaporire verdure come cavolo nero, bietola, verza. E’ ottimo anche con le uova, come sostituto del bacon. E la vostra salsiccia stagionata piccante, altro prodotto della tradizione lucana, che storia ha alle spalle? L’altro nome della Basilicata è Lucania, e Lucanica, uno dei nomi della salsiccia, deriva proprio da questo antico appellativo. Molte regioni si contendono le origini di questo insaccato, ma stando a Cicerone e Marco Terenzio Varrone la Lucanica, carne tritata e insaccata in un budello, fu introdotta a Roma dai soldati romani, che ne appresero la preparazione proprio dai Lucani. La tecnica di preparazione è rimasta immutata nei secoli in una terra, l’area della montagna lucana, da sempre vocata all’allevamento del maiale, depositaria di uno straordinario patrimonio gastronomico della salumeria meridionale.

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I Prodotti “Si chiama Pezzente perchè veniva prodotto con i tagli meno nobili del maiale”

“Il termine Lucanica, sinonimo di salsiccia, deriva da Lucania, l’altro nome della Basilicata”

Pezzente della Montagna Materana

salsiccia stagionata piccante

Salume tipico lucano prodotto con i tagli meno nobili del suino, lavorati a grana grossa e amalgamati con sale, peperone dolce macinato, semi di finocchietto selvatico di montagna e aglio. Si presenta compatto e consistente, con una grana media; il colore è rosso rubino con lardelli bianchi.

Tipica salsiccia piccante lucana, che ricorda quella fatta in casa, prodotta con carni scelte magre e selezionate di puro suino, tagliate a grana grossa e mescolate con una concia di spezie.

Il profumo è caratterizzato da un sentore di spezie, tutte ben distinguibili; al palato è morbido, dal gusto dolce, ben equilibrato e con note di finocchietto. cod 82575 | peso 250 g circa

La carne ha un colore intenso per la presenza del peperoncino, con una consistenza soda e compatta; il sapore è leggermente speziato, decisamente piccante e con delicato aroma di finocchietto.

cod 82576 | peso 250 g circa

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novità

e’ arrivato il bio! Aria di novità in casa Gennari: è nato il nuovo Parmigiano Reggiano prodotto con latte biologico e stagionato 20 mesi

Giulia Bassetto è laureata in Commercio Estero, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari a Venezia e si occupa di Marketing in Valsana

Quando abbiamo parlato con Paolo Gennari per comprendere il progetto del biologico e per assaggiare il nuovo Parmigiano da inserire nella nostra selezione, abbiamo chiesto il perché di una scelta tanto nobile sul piano etico quanto impegnativa sul piano pratico. Paolo ci ha raccontato che la scelta del bio è stata presa in considerazione quando uno degli allevatori che fornisce latte al caseificio ha deciso di intraprendere la via dell’allevamento biologico. Visto il legame di fiducia che il caseificio aveva instaurato con questo conferente e l’ottima qualità del latte sempre fornito, ha iniziato a farsi strada l’idea di produrre un Parmigiano Reggiano biologico. Una decisione che oltre ad appoggiare la scelta dell’allevatore sposa un trend di consumo sempre più attento e consapevole, ma che soprattutto, come ci dice Paolo, completa l’ampia gamma di Parmigiano Reggiano prodotto dal caseificio e che già comprende il Vacche Brune, il Vacche Rosse (al momento solo commercializzato anche se da poco stata avviata anche la produzione in caseificio) e le lunghe stagionature fino a 72 e 100 mesi. La produzione di Parmigiano Reggiano Dop Bio è una scelta importante e impegnativa che coinvolge tutte

le fasi della filiera, iniziando dall’allevamento che si basa su alcuni principi fondamentali, come il rispetto del ritmo di crescita degli animali senza forzare a rese maggiori, la garanzia per le mandrie di pascolare o accedere liberamente alle aree esterne alle stalle, l’utilizzo di un’alimentazione a base di foraggi e cereali di origine biologica o comunque che non abbiano subito trattamenti con sostanze chimiche e senza OGM; in breve, una gestione dell’attività di allevamento orientata al benessere degli animali. Tutte queste buone pratiche vengono monitorate da organi specifici che proseguono la loro attività di controllo anche negli stabilimenti di produzione e confezionamento di prodotti biologici. Per questo il Caseificio Gennari, al fine di ottenere il via libera alla produzione di formaggio bio, iniziata a fine 2016, ha dovuto predisporre cisterne, vasche e condutture separate, dedicate esclusivamente alla trasformazione di latte biologico. Con queste attrezzature il caseificio produce ogni giorno dalle 8 alle 10 forme di Parmigiano Reggiano DOP Bio da latte biologico di vacche di razza Frisona e 3 forme con latte biologico da vacche di razza Bruna. Dal punto di vista della composizione, il latte biologico contiene meno caseina e meno grasso, come dice Paolo è un latte “meno spinto” e che si traduce in una resa di circa il 10% in meno in fase di caseificazione, garantendo però un’elevata qualità, aspetto fondamentale per gli standard di Gennari.

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Parmigiano Reggiano Bio: il completamento della gamma di Gennari

Piramide del Parmigiano +100 +72 +60 +48 OLTRE 36 Vacche Rosse Vacche Brune Frisona

parmigiano reggiano dop biologico

+36 mesi

BIO

Biologico

RAZZE PARMIGIANO REGGIANO DOP

Parmigiano Reggiano stagionato 20 mesi prodotto con latte biologico di vacche di razza Frisona allevate biologicamente nella piccola frazione di Ozzola, nel comune di Fornovo di Taro. Si presenta come il classico Parmigiano Reggiano DOP, dalla crosta di colore paglierino e con pasta dura e granulosa, anch’essa di colore paglierino. Alla prova assaggio si rivela leggermente più profumato rispetto alla versione classica, mentre il gusto ricorda le caratteristiche note di latte fresco, burro e yogurt, tipiche delle produzioni del Caseificio Gennari. cod 33133 | 1/8 | peso 5 kg circa disponibile anche la forma intera su prenotazione

L’universo del Parmigiano Reggiano DOP è molto ampio e al suo interno si possono distinguere diverse produzioni che rappresentano livelli qualitativi differenti. La distinzione principale è data dalla razza delle vacche che producono il latte, a partire dalla più diffusa, la Frisona Italiana, conosciuta per l’elevata produttività, la Vacca Bruna, più rustica ma che regala un latte di ottima qualità e infine la Vacca Rossa Reggiana, razza autoctona il cui latte possiede le caratteristiche ottimali per la caseificazione. Altra distinzione è quella tra convenzionale e biologico, quest’ultimo infatti richiede l’adesione a pratiche di allevamento sostenibili e a controlli molto stringenti in tutte le fasi della produzione. Infine l’ultima distinzione si rifà alle lunghe stagionature fino ai 100 mesi, storica caratteristica di pregio che identifica solo i migliori Parmigiani.

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geografia del gusto

fate lardo!

IGP, DOP, Presìdio Slow Food: vi raccontiamo le origini del lardo, semplice condimento nella cucina contadina veneta e cibo dei cavatori di marmo in Toscana

Alessandro De Conto, laureato in Ingegneria ma appassionato di formaggi, in Valsana si occupa di selezione ed è Responsabile dell’Export

Ero a cena in un ristorante trevigiano e per ingannare l’attesa mi è stato offerto un burro nostrano montato con una miscela marocchina di spezie (Ras el Hanout) da accompagnare ovviamente al pane. Questo mix ben proporzionato di ingredienti di origini diverse ha solleticato in me un’idea, ovvero che in molti casi per valorizzare o per comprendere ciò che ci è vicino dobbiamo guardare o conoscere ciò che sta più lontano, ciò che sta “fuori di qui”. Vi starete senz’altro chiedendo dove voglio arrivare, visto che dovrei parlare di lardo. Tuttavia non si può scrivere di lardo, se prima non si guarda al maiale e al modo in cui l’utilizzo della sua carne è arrivato a far parte della cultura gastronomica italiana. E la grande svolta è avvenuta sedici secoli fa, quando la cultura decadente dell’Impero romano, la cui cucina era basata su pane, olio e vino, si è scontrataincontrata con la cultura barbara del Nord Europa, la cui alimentazione poggiava su carne, latte, burro e lardo. Questi ultimi cibi permettevano un apporto calorico adatto ad affrontare un clima più rigido rispetto a quello Mediterraneo e se oggi visitassimo paesi quali l’Ucraina, la Russia, la Polonia, la Scandinavia e così via troveremmo ancora il lardo (o lo strutto) in molte ricette, o addirittura consumato tal quale.

Guardiamo ora al nostro Paese oggi e scopriamo, attraverso la distribuzione geografica dei prodotti, che il lardo rimane primariamente un cibo “del nord”, ma anche un cibo di montagna, e ciò fa sì che si trovi del lardo anche sui Nebrodi siciliani. Bene, abbiamo abbastanza elementi per iniziare il nostro tour e per farlo ci spostiamo in Val d’Aosta, in montagna appunto, dove Bertolin produce il Lard d’ Arnad Dop. Sin dal 1500 in questa regione si commercializzava questo prodotto. La sua peculiarità è legata alla stagionatura, che avviene nei caratteristici “doils”, contenitori in legno di castagno, rovere o larice che ospitano per almeno 90 giorni il lardo con una miscela di acqua, sale erbe e spezie quali: aglio, rosmarino, salvia, ginepro, alloro, pepe e noce moscata. Il sapore è dolce e speziato, con note prevalenti di rosmarino. Attraversiamo tutto il Nord per raggiungere il Veneto dove tocchiamo velocemente il comune Lardo Salato da cucina, fondamento importante della cucina locale e non solo. Utilizzato come insaporitore di carni arroste, soffritti, ripieni o addirittura verdure come il radicchio di campo, si ottiene dalla parte più posteriore e sottile dello strato dorsale di grasso, e la sua stagionatura è brevissima.

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Diverse identità del lardo tra razza, concia, storia, savoir-faire... Molto diverso certo da ciò che incontriamo a Colonnata. Il luogo del lardo per antonomasia, conosciuto davvero in tutto il mondo. Dici Lardo e pensi a Colonnata. Lì nel Carrarese è stato da sempre il cibo dei cavatori di marmo fin dal tempo dei Romani. Si dice che Michelangelo Buonarroti ne fosse un estimatore tanto da abbuffarsene quando andava a ricercare i migliori pezzi di marmo per le sue celebri opere. Il Lardo di Colonnata IGP viene stagionato per almeno 6 mesi nelle conche di marmo stesso. Le spezie utilizzate nella concia sono una eredità degli scalpellini greci, che i Romani invitarono a Colonnata per insegnare a tagliare il marmo e che con quelle spezie condivano il loro cibo e tenevano un legame con la loro patria. È una ricca miscela di sale marino naturale, pepe nero macinato, rosmarino fresco, aglio sbucciato e spezzettato grossolanamente, a cui si aggiungono cannella, noce moscata, chiodi di garofano e anice stellato. Il profumo è fragrante, l’odore delle spezie si alterna a quello del grasso e il binomio crea una splendida sinergia anche nel palato. Scegliete voi tra il lardo di Marino Giannarelli e quello del Poggio di Renata Ricci, li ritengo entrambi straordinari! Rimaniamo in Toscana, questa volta nel Pistoiese, per assaggiare il Lardo di Patanegra di Bernardini. Il nome stesso ci porta a pensare a un grasso diverso, proveniente da un maiale Iberico e quindi

particolarmente ricco di grassi insaturi. Ci dobbiamo aspettare una stagionatura minima di 6 mesi in conche di marmo, una sottile parte di magro e una baffa tendenzialmente alta. Il sapore è dolcissimo e non riporta particolari note speziate, in bocca si scioglie rapidamente, così come ci si aspetta da un lardo di razza Iberica. E proprio la razza mi offre l’assist per introdurvi all’ultima tappa che, come spesso è accaduto in questa rubrica, è la Sicilia. Siamo a Mirto (ME), dove Agostino Sebastiano Ninone produce salumi di razza Nero dei Nebrodi. Questo maiale ha moltissime similitudini genetiche rispetto allo spagnolo, tuttavia ci sono alcuni distinguo importanti, il più evidente tra tutti è la dimensione. Il Lardo di Suino Nero dei Nebrodi che ne deriva è piuttosto piccolo, non particolarmente alto. Stagiona comunque per un periodo minimo di 6 mesi con bacche di pepe nero e rosa. Il colore è bianco lucente, il sapore delicatissimo, dolce, con lievi note sapide e aromatiche legate al pepe. Essendo come detto il lardo una preparazione di montagna, sia per la conservabilità, sia per l’apporto calorico, quella dei Monti Nebrodi rimane l’unica produzione siciliana conosciuta. Ora non mi resta che suggerirvi di accendere i fornelli, tostare un po’ di pane e adagiarvi sopra una fettina di lardo. Quale? Ovviamente il vostro preferito!

valle d’aosta lard d’arnad dop

lardo salato crudo da cucina

cod 82505 | peso 3 kg circa

cod 80440 | porzioni da 250 g

lardo di colonnata igp il poggio

lardo di colonnata igp giannarelli

cod 82460 | peso 2,5 kg circa

cod 82438 | peso 3,5 kg circa

lardo di pata negra stagionato in conca cod 82451 | peso 2 kg circa

lardo di suino nero dei nebrodi cod 80220 | peso 1 kg circa

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l’affinamento

l’abc del formaggio

Un’arte che richiede una profonda conoscenza del formaggio, ma anche una scienza che sa governare molteplici fenomeni chimici, biochimici e microbiologici in specifiche condizioni ambientali

Giorgia Barbaresco è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari a Udine ed è Responsabile Qualità in Valsana dal 2007

In Italia la figura dell’affinatore non è radicata come in Francia, ma negli ultimi tempi il numero degli affinatori è sicuramente aumentato e i risultati ottenuti sono a volte piuttosto incoraggianti. Con il termine “affinamento” si intende il portare un formaggio, dopo la fase di produzione, a una qualità superiore e a un gusto esclusivo attraverso la stagionatura, risultato che non si otterrebbe allo stesso modo con la stagionatura standard. L’affinamento è un’arte che richiede una profonda conoscenza del formaggio, con tutte le sue caratteristiche, controllando la formazione di sapori e aromi e prevedendone il comportamento in determinate condizioni ambientali. Per essere affinatore oltre a preparazione tecnica, doti personali, curiosità, passione e creatività, sono sicuramente essenziali l’esperienza e la pazienza. L’affinamento, per essere definito tale, non è il risultato del caso ma il frutto di un preciso progetto. L’affinatore seleziona la materia prima e a volte richiede che vengano apportate particolari modifiche alla produzione del formaggio da affinare, affiché possieda specifiche caratteristiche, funzionali a raggiungere l’obiettivo prefissato.

Una volta terminato il procedimento che porta alla realizzazione della forma il formaggio può essere destinato: • al consumo, come accade per tutti i freschi, come ad esempio le mozzarelle; • alla maturazione o alla stagionatura: il formaggio viene trasferito in ambienti con temperatura e umidità controllate per un periodo variabile; comunemente, se la durata è breve, si parla di maturazione (come per stracchini, casatelle, Robiola di Roccaverano ecc.) se invece è lunga si parla di stagionatura (come per Parmigiano Reggiano, Asiago d’Allevo, Castelmagno ecc.), anche se scientificamente questo processo viene definito esclusivamente maturazione; • all’affinamento. Come accennato poc’anzi l’affinamento è una sorta di personalizzazione del formaggio che ha come obiettivo quello di ottenere un prodotto con un suo “carattere”, aspetto che può andare a buon fine solo se si interviene quando il ciclo produttivo è a un punto in cui è ancora possibile modificare l’evoluzione del prodotto stesso. Per questo infatti l’affinatore generalmente seleziona VALSANA | 16

i suoi formaggi ancora giovanissimi, badando bene che le forme non abbiano difetti di alcun tipo. In modo non esclusivo, ma più spesso combinato, l’affinamento può essere distinto in: • affinamento derivante da fattori ambientali; • affinamento derivante da fattori chimico-fisici. Nel primo caso (fattori ambientali) grande rilevanza hanno le condizioni esterne, come possono essere ad esempio grotte particolarmente umide, nelle quali si sviluppano specifiche muffe, oppure ambienti ricchi di microflore particolari, che trovano poi nel formaggio un ottimo substrato per lo sviluppo, andando a innescare processi di proteolisi (degradazione delle proteine) o addirittura lo sviluppo di erborinatura all’interno della pasta. Nel secondo caso (fattori chimicofisici) viene sfruttato l’effetto che hanno alcune sostanze quando sono messe a contatto con il prodotto da affinare. Avviene un processo di osmosi, uno scambio, grazie al quale il formaggio assorbe i sentori che derivano dalla sostanza che gli viene messa accanto oppure direttamente a contatto (es. vinaccia, birra, malto, fieno, pepe, ecc)


Fig.1: Fattori ambientali e chimico-fisici che influiscono nell’affinamento

contatto

ambiente

affinamento

fermentazione a contatto

osmosi contenitori chiusi

Appartiene alla seconda tipologia anche il processo di affinamento che sfrutta la fermentazione unita al contatto. Si ottiene inserendo in contenitori, come ad esempio orci di terracotta, il formaggio alternato a fieno o foglie. Quando si innesca la fermentazione si ha un innalzamento della temperatura e il formaggio rilascia una parte di siero e di grasso e contemporaneamente assorbe i profumi dei vegetali che lo avvolgono. Un’altra tecnica di affinamento prevede di porre i formaggi in un contenitore chiuso ermeticamente, in questo modo avviene lo sviluppo solo di una certa microflora (microrganismi anaerobi ovvero che crescono solo in assenza di ossigeno) e viene accelerata la proteolisi. Il formaggio rimane per un discreto periodo (qualche mese) in un ambiente privo di ossigeno, quasi saturo di umidità e a una temperatura che si innalza, almeno nella fase iniziale di fermentazione. Questi aspetti modificano profondamente le caratteristiche sensoriali rendendo il formaggio più morbido, piccante e ricco di complessità aromatica. Un esempio è il Formaggio di Fossa o il Conciato Romano.

Aggiungendo alcuni o molti di questi elementi alla stagionatura del formaggio si sottolinea ancora una volta come i singoli parametri (temperatura, umidità, microflora, ingredienti extra, assenza di ossigeno ecc.) non possano essere considerati singoli agenti,

ma costituiscano una sorta di “ecosistema” insieme al formaggio con tutto quello che contiene, che è vivo e in continua evoluzione, e si muove in sinergia. Riprendendo alcuni contenuti dei precedenti articoli vediamo come la maturazione modifica la struttura e gli aspetti organolettici del formaggio. Come abbiamo già detto la maturazione e ancor di più l’affinamento sono il risultato di complessi fenomeni chimici, biochimici e microbiologici influenzati significativamente dalle condizioni ambientali. Durante la maturazione si formano composti aromatici che sono il frutto di tre processi metabolici: la degradazione del lattosio (glicolisi), delle proteine (proteolisi) e dei grassi (lipolisi). Lo scopo quindi che si vuole raggiungere con l’affinamento è quello di ottenere una certa consistenza, sapori e aromi particolari agendo dall’esterno su questi processi.

Fig.2: Principali processi metabolici dell’affinamento

formaggio grassi

zuccheri

proteine

proteolisi

lipolisi

glicolisi

glicerolo acidi grassi aldeidi chetoni esteri ...

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fermentazione

diacetile acido lattico acito acetico acido propionico ...

aminoacidi peptidi alcool composti solforici ...


l’abc del formaggio

La glicolisi La fermentazione del lattosio avviene a opera dei batteri lattici presenti nel latte e degli starter aggiunti durante il processo di produzione dei formaggi. Produce principalmente acido lattico e a seconda dei microrganismi coinvolti possono essere prodotti etanolo, acido acetico ecc. Alcuni batteri lattici sono in grado di fermentare anche il citrato residuo sviluppando diacetile, l’acetoino e il butandiolo, che conferiscono aromi di burro, crema e nocciola. La proteolisi E’ forse il più complesso e il più importante degli eventi che avvengono nel formaggio durante l’affinamento e che maggiormente influenza gli aspetti organolettici del prodotto finito. In particolare influenza: • la formazione degli aromi attraverso la produzione di peptidi e aminoacidi liberi; • la liberazione di aminoacidi che diventano substrato per altre reazioni secondarie, con formazione di componenti aromatici come la fenilalanina, tirosina, triptofano; • la formazione della texture del formaggio come conseguenza della degradazione delle proteine; • il cambiamento della matrice del formaggio facilitando il rilascio di componenti aromatici durante la masticazione.

Fig.4: Proteolisi

proteine

polipeptidi

peptidi

aminoacidi

composti volatili (Alcool, Aldeidi, Composti solforici)

Sono gli enzimi i responsabili di questi processi e possono essere classificati in: • enzimi proteolitici che attaccano le proteine • lipasi che producono acidi grassi liberi, di- e mono-gliceridi a partire dai trigliceridi (grassi) • Enzimi che agiscono sugli acidi grassi Nel formaggio l’attività di questi enzimi - che provengono dal latte, dal caglio, dai microrganismi dell’ambiente, dalle muffe e dai batteri lattici - dipende da fattori come l’acidità, la temperatura, il contenuto di sale e l’umidità. In particolare con l’aumento della temperatura e dell’umidità si ha un’accelerazione della proteolisi, pertanto affinare il formaggio in ambienti molto umidi dove vi è magari un innalzamento della temperatura grazie alle fermentazioni (come sono le fosse o alcuni affinamenti in vinaccia), permette di ottenere formaggi più profumati, con una consistenza più morbida e una pasta più solubile. La lipolisi E’ il processo che produce principalmente acidi grassi liberi a partire dai trigliceridi, e anch’essi contribuiscono alla formazione di aromi.

fermentazione in contenitori chiusi

Pecorino di Pienza in Foglie di Noce

Cacio di Fossa

La Figata - Pecorino in Foglie di Fico

codice 31513 | peso 1,3 kg circa

codice 25111 | peso 2 kg

codice 31374 | peso 2,5 kg

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Gli acidi grassi liberi si suddividono in due categorie in base al numero di atomi di carbonio che li costituiscono: • a lunga catena: con più di dodici atomi di carbonio; • a medio-corta catena: che hanno da 4 a 12 atomi di carbonio. I primi non danno un particolare contributo all’aroma perché hanno un’alta soglia di percezione, i secondi invece hanno una soglia di percezione più bassa e conferiscono alcune caratteristiche note aromatiche. I formaggi a latte vaccino presentano una frazione lipidica (grasso) ricca di acidi grassi a lunga catena. Dal punto di vista organolettico questo fa sì che aromi piccanti e pungenti si sviluppino solo dopo stagionature prolungate o maturazioni accelerate. Possiamo dire che i formaggi vaccini hanno aromi più “rotondi” ed equilibrati. I formaggi pecorini hanno un profilo sensoriale più ampio dei vaccini, perché hanno maggiore presenza di acidi grassi a medio/corta catena, la complessità aromatica legata alla stagionatura avviene in tempi più rapidi e presentano una dolcezza di fondo che è la caratteristica dei pecorini. Anche nei formaggi caprini sono predominanti gli acidi grassi a medio/corta catena che trasmettono sensazioni intense, anche di animale.

Fig.3: Lipolisi

glicerolo acido grasso

acido grasso

acido grasso

trigliceridi

lipolisi

L’acido esanoico o caproico (6 atomi di carbonio) conferisce una nota pungente, tipica dei formaggi erborinati, l’acido butanoico o butirrico (4 atomi di carbonio) può contribuire con note di rancido, l’acido ottanoico o caprilico (8 atomi di carbonio) conferisce una nota aromatica di sapone, cera, di stantio e rancido ma anche di fruttato. Gli aromi che derivano dagli acidi grassi liberi dipendono molto dalla loro concentrazione e dalla soglia di percezione e, quindi, possono contribuire positivamente oppure conferire al formaggio dei difetti.

glicerolo acido grasso

acido grasso

acido grasso

acidi grassi liberi

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A questo punto è chiaro quindi come il mondo della stagionatura e dell’affinamento siano molto complessi. L’affinatore deve tenere in considerazione la materia prima e l’ambiente che accoglie il formaggio, e deve prendersene cura con attenzione e pazienza... perché i difetti sono sempre in agguato.

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acido grasso

Carbonio

fermentazione a contatto

oro rosso erborinato al raboso

L’Ottavio Kinara alla birra scura

Formaggio ubriaco al Prosecco DOC

codice 30799 | peso 2,5 kg circa

codice 21490 | peso 1,2 kg

codice 30822 | peso 6,5 kg

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formaggi & compagni

Dallo Sbrinz all’Imbriago, al Morlac (6) A metà ‘800 nascono le prime latterie sociali, luoghi di raccolta e trasformazione del latte e veri centri di formazione per casari. Nel dopoguerra la convenzione di Stresa dà inizio all’uso delle denominazioni d’origine: nasce la nuova industria casearia Danilo Gasparini è docente di Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione all’Università di Padova e al Master in Cultura del cibo e del vino di Ca’ Foscari ed è ospite e consulente fisso per Geo&Geo su Rai 3

Ci eravamo lasciati a fine ‘800, con i risultati dell’Inchiesta Jacini che testimoniava una realtà casearia padana varia, con zone di eccellenza - Lodi, Crema, Cremona - e aree di arretratezza, il Veneto anche, dove erano nate le numerose latterie sociali. Brevemente i contesti. Nella seconda metà dell’800, soprattutto all’indomani dell’Unità d’Italia, la società contadina italiana è attraversata da una profonda crisi che ha tante ragioni: il peso demografico, la concorrenza dei mercati internazionali, la presenza e il diffondersi della pellagra soprattutto in Veneto e Lombardia, l’arrivo di alcune patologie che colpiscono le viti, la fillossera, il baco da seta, la pebrina, sommate ad annate piovose, soprattutto negli anni ‘80. E’ anche la stagione delle prime grandi ondate migratorie verso Brasile e Argentina.

A parziale sollievo di questa drammatica situazione si sviluppa un energico movimento cooperativistico, con un forte impegno anche da parte del mondo cattolico. E’ allora che nascono le banche di credito cooperativo, le casse rurali, le cooperative di acquisto e di consumo, le cooperative di lavoratori, le cucine e i forni economici, le società di mutuo soccorso. Le latterie sociali si inseriscono in questo movimento. Il movimento era già noto in Svizzera e in Germania. In Trentino, a Cappella di Lavarone, nasce nel 1852 la prima latteria sociale, in Piemonte nel 1868 a Baveno e via a seguire, in modo quasi contagioso. Nel 1872 a Canale D’Agordo don Antonio Della Lucia fonda la prima latteria sociale del Veneto. Seguirà quella di Cison di Valmarino nel 1882, quella di Soligo nel 1883. A seguire poi Cusignana, Arcade, più tutta una serie di caseifici artigianali. Vi è un passaggio che va segnalato: dalle primitive latterie turnarie si passa alle più organizzate latterie comuni fino a quelle legalmente costituite sotto forma di cooperativa. E i benefici della solidale istituzione si fanno subito sentire. Scriverà nel 1890 il direttore della Latteria di Cison A. Zava: “La popolazione agricola della zona ove

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Fig.1: Quali differenze? lAtteria turnaria

il latte conferito dai soci in una singola giornata veniva trasformato per conto di un solo socio (a turno) il quale decideva se ritirare i formaggi e commercializzarli in proprio o venderli tramite lo spaccio della latteria

latteria sociale

il latte da destinare alla trasformazione veniva fornito dai soci, i quali ricevevano un compenso in denaro proporzionale al latte conferito o al prodotto lasciato per la commercializzazione

centrale del latte

luoghi di raccolta del latte, acquistato da grandi allevamenti, dove il trattamento (pastorizzazione) e la commercializzazione erano attività svolte dalla centrale

la Latteria estende i suoi benefici (Lago, Tovena, Mura, Gai, Rolle, Valmareno e Follina) dapprima diffidente dell’istituzione e ricalcitrante alle novità, ora si è convinta della necessità dell’istituzione stessa e dei suoi immensi vantaggi. Il latte per mezzo della latteria diventa la fonte principale e quasi sola delle loro entrate; la Latteria è il loro salvadanaio al quale ricorrono pel pagamento delle Imposte, per l’acquisto della polenta e di tutto quanto loro occorre per vivere. In questi anni di malattie nelle viti e di grandini devastatrici, guai se mancasse loro la Latteria!”. Sembra si inneschi una sorta di circolo virtuoso. Scriverà Enore Tosi, friulano, direttore della Latteria Scuola di Piano d’Arta e autore di un fortunato manuale di caseificio (1° ed. 1905): “Di quali miracoli è capace la potenza della cooperazione nel caseificio ce lo dimostrano, tra le altre, la più grande Latteria del Veneto, quella di Soligo, e la più grande della Lombardia, quella di Soresina.” Sarà un’onda lunga: nel 1957 erano ancora attive nel Nord-Est 2.152 latterie sociali, diffuse soprattutto nelle aree prealpine-montane. Al centro della questione c’era anche l’annoso problema della formazione. Le latterie sociali funzioneranno anche come presidi didattici per casari. La scienza, Louis Pasteur darà una mano, si sostituisce all’empirismo, alle pratiche consolidate… E da qui verrà piano piano costruita una sorta di tradizione. Ma sarà un processo lungo. A mo’ d’esempio, che formaggi si fabbricavano nella premiata Latteria di Cison? Si cercavano di imitare i già noti, tanto che si elencano con il prefisso “Uso”. Quindi Uso Sbrinz, Veronese, Svedese per i magri, Stracchino quadro per i grassi. Ma non si disdegnava, a volte per solo scopo didattico per gli apprendisti casari, fabbricare Emmenthal, Gruyère, Stracchino di Gorgonzola e Cacio Cavallo. E con queste tipologie si partecipava ai primi concorsi e vincevano le prime medaglie d’oro… altro che Cheese Awards, era oro vero!

A sostegno di questa rinnovata industria anche l’editoria comincia a pubblicare i primi manuali del casaro. Uno dei più noti sarà quello del Tosi, come si diceva: la prima edizione è del 1905 di 511 pagine, la seconda del 1909 e la terza del 1918 conterà oltre 800 pagine. Nel mentre si fondavano le grandi aziende lombarde: Galbani, Invernizzi, Cademartori, Locatelli. In Svizzera Henri (nato Heinrich) Nestlé inizia a produrre latte in polvere e l’aumentato consumo di latte in città avvia la fondazione delle grandi Centrali del Latte. La Grande Guerra lascerà il segno: molto del bestiame, specie in Veneto, verrà requisito. Nel vicentino si arriva al 76% del patrimonio stesso. Il recupero avverrà attraverso la specializzazione delle razze. Alcune razze locali, ad esempio la Burlina, sarà destinata a sparire sostituita dalla più redditizia Pezzata nera-Olandese, come la chiamavano allora. Resisteranno la Bruno Alpina e la Grigia della Val d’Adige. Il Vicentino, il distretto di Asiago, con 267 malghe e con il caseificio didattico di Thiene si porrà all’avanguardia della ripresa. Ancora 616 le latterie di cui 361 sociali, 60 mila quintali di formaggio e 12 mila di burro. Nella Guida gastronomica d’Italia uscita nel 1931, Vicenza e Belluno detengono il primato “gastronomico”. Ad Asiago si produce un “Formaggio pecorino stravecchio e un formaggio grasso di montagna”, di latte di vacca, noto col nome di Asiago, la cui produzione si è estesa anche alla Lombardia. A Belluno “Le malghe montane danno burro e formaggi prelibati: il burro delle latterie agordine, rinomatissimo, è largamente esportato in tutta Italia e anche all’estero: altrettanto è da dirsi per il burro di Feltre”. Finita la guerra è con la Convenzione di Stresa, ormai dimenticata, che l’Europa casearia cerca di trovare un accordo. Era il primo giugno del 1951: sei paesi – Austria, Belgio, Francia, Italia, Olanda e Svizzera - firmano la Convenzione internazionale sull’uso delle designazioni d’origine e delle denominazioni dei formaggi.

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formaggi & compagni

Dalla Convezione di Stresa ai riconoscimenti europei, fino a Slow Food Per l’Italia, con il DPR 5 agosto 1955, n. 667, si emanava un regolamento di applicazione e, con il DPR 30 ottobre 1955, n. 1269, si riconoscevano gli standard di produzione dei primi sei formaggi a denominazione di origine: Fontina, Gorgonzola, Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Pecorino Romano, Pecorino Siciliano e dei primi otto con denominazione tipica: Asiago, Caciocavallo (diveniva poi Caciocavallo Silano), Fiore Sardo, Montasio, Pressato, Provolone, Ragusano e Taleggio. Toccherà la stessa sorte per il Roquefort, il Camembert, il Gruyère, il Brie, l’ Emmenthal, il Pinzgauer Bierkäse, lo Sbrinz e tanti altri. Il tutto regolamentato dai rispettivi disciplinari. È la nascita della nuova e moderna industria casearia che incrocia marchi nazionali e prestigiosi che fanno il mercato con eccellenze regionali e locali, con formaggi artigianali quasi sartoriali. Si susseguono i riconoscimenti europei di origine, Slow Food aggiunge i suoi, poi ci sono i Deco. Per dirla con Leporello, servitore del Don Giovanni di Mozart - “Madamina, il catalogo è questo”: il Bitto della Valtellina, il Casolet, lo Silter della Valcamonica, il Monte Veronese, il Quartirolo Lombardo, il Bagòss di Bagolino, il Bettelmat della Valdossola, il Branzi dell’Alta

Val Brembana, il Bruss delle Langhe, il Formaio Imbriago trevigiano, la Burrata delle Murge, il Cacioricotta Lucano, il Casieddu di Moliterno, il Caso di Elva, il Formaggio di fossa di Sogliano e Talamello, la Scamorza molisana, il Graukäse della Valle Aurina, il Mascarpone di Battipaglia Paglierina, i Pecorini di Filiano, il Piacintinu di Enna, il Provula di Floresta, il Casu de cabreddu, il Pirittas… Poi come frutto del bicentenario della Rivoluzione francese e del crollo del Muro di Berlino e di tanto altro viene fondata l’ONAF. Ci mancava! Infine, per dirla con Alberto Grandi (Denominazione di origine inventata, Milano 2018) questa riscoperta dei formaggi locali (arriviamo tra DOP, De.C.O. Denominazione Comunale di Origine, IGP, Presidi Slow Food, PAT… quasi a mille specialità) è strettamente legata alla razionalizzazione del settore imposta dalla Ue anche con le quote latte. Una delle risposte, a parte quella del non rispettarle, è stata quella di esaltare all’eccesso alcuni prodotti di nicchia, con piccoli numeri e volumi, ma con prezzi alti. In qualche modo la filiera si tiene. E soprattutto la boca più che mai non sarà straca.

Fig.2: Sintesi delle principali tappe nella storia del formaggio

paleolitico

500.000 a.C

consumo casuale di latte acido da parte di cacciatori-raccoglitori

10.000 a.C.

addomesticazione degli animali, di cereali e legumi

7.500 a.C.

sviluppo della persistenza al lattosio nell’Europa centrale

4.000 a.C.

controllo della fermentazione e del processo di coagulazione

civiltà greco-romana

500 a.C. - 500 d.C.

Europa divisa in due: una mediterranea legata a pane, vino e olio, e una nordica legata al latte, alla pastorizia, alla caccia

alto medioevo

700-900 d.C.

incontro tra la civiltà del latte e del vino

basso medioevo

1.000-1492 d.C.

nobilitazione del formaggio grazie al modello alimentare monastico e alla Chiesa

rinascimento

XV-XVI secolo

il formaggio nei trattati medici, nelle prime guide e nei ricettari

neolitico

da cibo contadino alla mensa dei principi, nobilitato da spezie e abbinamenti ricercati ILLUMINISMO

eta’ contemporanea

XVIII secolo

il burro conquista le tavole e le cucine europee

inizio ‘800

dal “Sistema di Bressanvido” al movimento cooperativistico delle latterie: nasce la prima latteria sociale in Trentino (1852)

inizio ‘900

vengono fondate le prime grandi aziende del settore (Galbani, Invernizzi, Nestlè) e istituite le Centrali del Latte

1951

Convenzione europea di Stresa sull’uso delle designazioni d’origine e delle denominazioni dei formaggi

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Il 13 ottobre, al centro congressi di FICO, a Bologna, si è tenuta la IV edizione dell’Italian Cheese Awards, organizzata da Guru del Gusto e da Alberto Marcomini: un premio prestigioso, riservato ai migliori formaggi prodotti con 100% latte italiano. Tra i giurati: Piero Sardo, Presidente della Fondazione Slow Food per la biodiversità e Oscar Farinetti, patron di Eataly. 1° classificato cat. affinato

Capra al Traminer codice 30655 | peso 7 kg circa

Da un numero iniziale di 1500 concorrenti si è arrivati a una rosa di 31, suddivisi in 10 categorie: Freschissimo, Fresco, Pasta molle, Pasta filata, Pasta filata stagionata, Semistagionato, Stagionato, Stagionato oltre 24 mesi, Erborinato e Aromatizzato. Bravissimi Emanuela Perenzin, Giorgio Amedeo e Paolo Gennari, primi classificati in tre diverse categorie! 1° classificato cat. stagionato oltre 24 mesi

Parmigiano Reggiano DOP vacche brune - 36 mesi codice 33121 | ottavi da 5 kg circa

notizie golose

cheese awards 2018 Il 3 novembre a Bergen in Norvegia si è svolto il World Cheese Awards. 78 i formaggi che si sono aggiudicati il massimo riconoscimento, cioè la medaglia Super gold. Di questi, 13 gli italiani, tra cui il Bufala al Glera di Perenzin e il pecorino Riserva del Fondatore del Caseificio Il Fiorino. Complimenti a Simone e Angela del Fiorino e doppi a Emanuela Perenzin!! 1° classificato cat. stagionato

Castelmagno di Alpeggio DOP codice 31029M17 | peso 5 kg

Tra i primi classificati ai Cheese Awards ci sono dei formaggi che conosciamo bene riserva del fondatore

bufala al glera

codice 31340 | peso 18 kg circa

codice 30659 | peso 7 kg circa VALSANA | 23


whisky e formaggi

insoliti abbinamenti

Un viaggio ideale in Scozia, con i profumi dei whisky abbinati ai formaggi: anche questa volta l’esperimento è stato un successo!

Giulia Bassetto è laureata in Commercio Estero, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari a Venezia e si occupa di Marketing in Valsana

Gli alberi iniziano a spogliarsi, il cielo è grigio e ha già iniziato a piovere. Stiamo per andare a degustare whisky e formaggi all’Inverness Pub di Mareno di Piave (TV). La giornata sembra proprio conciliare il consumo di una bevanda che evoca giornate invernali, un camino e la brughiera scozzese. Mentre aspettiamo che arrivi l’ora del nostro appuntamento, finiamo di documentarci così da essere preparati quando ci troveremo davanti a Tonino, il proprietario del pub. Partiamo dall’ABC: cos’è il whisky? Un distillato di cereali, tra i quali i più impiegati sono orzo, mais, segale e frumento. Le sue origini, contese tra Scozia e Irlanda, si perdono nella notte dei tempi, tant’è che era conosciuto come uisge beatha in lingua gaelica, successivamente semplificato in usky e infine whisky. Un universo davvero ampio, che in quest’occasione decidiamo di approfondire partendo esclusivamente dalle produzioni scozzesi, suddivise in sei regioni di distillazione che regalano dei whisky tra loro molto diversi: Lowlands, Campbeltown, Highlands, Islay, Speyside, Islands. Qui il whisky è per lo più prodotto con malto d’orzo: i chicchi d’orzo maturo vengono fatti germinare e successivamente essiccati tramite l’utilizzo di aria calda proveniente dalla combustione di torba, che dona il tipico aroma di affumicato. I chicchi essiccati vengono ridotti in una farina a cui viene aggiunta acqua a circa 65-70 °C. Il mosto, dopo essere stato raffreddato, viene addizionato di lieviti selezionati e fatto fermentare così da essere pronto per subire una doppia distillazione nei tipici alambicchi di rame, pot still. Infine l’invecchiamento di almeno 3 anni in botti di rovere o quercia spesso già usate per il riposo di Sherry, Porto o Burbon, e l’imbottigliamento, preceduto da una diluizione con acqua per abbassare il grado alcolico. Il classico whisky di malto scozzese è chiamato Single Malt quando ottenuto da solo orzo maltato e da una sola distilleria. Vatted o Pure

Malt è invece il whisky ottenuto dalla miscelazione di whisky di malto d’orzo di varie distillerie. Gli scozzesi producono anche alcuni whisky a partire da altri cereali, distillati però in grandi impianti continui o a colonna chiamati coffey still, più grandi, veloci ed economici. Per quanto riguarda gli altri cereali, si ottengono il Single Grain (whisky di una sola distilleria ottenuto con cereali maltati) o il più famoso e diffuso Blanded Scotch Whisky (miscela di uno o più Grain Whisky e uno o più Malt Whisky). Poi si aggiungono le definizioni dei produttori come Standard, Premium, De Luxe ma che non hanno vere motivazioni legali. All’Inverness Pub, Tonino ci spiega che le differenze sopra elencate sono solo la punta dell’iceberg: potremmo scrivere pagine su distinzioni, denominazioni, edizioni speciali, vecchia scuola, imbottigliatori, blend degli anni sessanta... ma ahimè lo spazio è poco, perciò passiamo alla degustazione. Dopo aver versato il whisky nel tipico bicchiere Glencairn è preferibile lasciarlo prendere aria per un paio di minuti, poi procedere con l’analisi olfattiva e il primo sorso, piccolissimo, da tenere tra la lingua e il palato. Il secondo assaggio avviene mettendo poche gocce di acqua nel bicchiere così da rinfrescare il palato dal grado alcolico (alle volte si raggiungono gradazioni davvero alte) e favorire lo sprigionarsi dei profumi. Il consiglio è di assaggiare il whisky più volte, perché gli aromi evolvono nel bicchiere e, come dice Tonino, “il primo sorso non è mai come l’ultimo”! Noi non ce lo facciamo ripetere e siamo pronti ad assaggiare anche i formaggi. Le regole sono sempre le stesse, contrasto o concordanza: inizia il divertimento!

Risotto mantecato con Asiago e whisky Ingredienti: 400 g riso Arborio, 1 cipolla, 40 g burro, 1,5 l brodo di pollo, 100 g Asiago d’Allevo mezzano Prodotto della Montagna Lavarone, 80 g Prosciutto Cotto Antonio tagliato a fiammifero, 50 ml di whisky Lagavullin invecchiato 16 anni, prezzemolo, generosa spruzzata di pepe, sale q.b.

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Fonte: barmanitalia.it

Dalwhinnie

Glen Scotia

Whisky dagli Highlands invecchiato 15 anni con gradazione 43% Vol., prodotto nella distilleria più alta della Scozia che si pregia di usare un’acqua purissima. Un whisky rotondo e pulito, che ricerca morbidezza, da abbinare a formaggi francesi dolci e maturi, come il Comté. Noi lo abbiamo abbinato a uno svizzero, un Gruyere AOC 12 mesi. Il whisky richiamava le note del formaggio e nell’assaggio sprigionava aromi di vaniglia e tabacco. In una parola: elegante.

Un Single Malt whisky dalla regione di Campbeltown, invecchiato ben 18 anni e con una gradazione di 50% Vol. Un whisky proveniente da una singola botte e imbottigliato da The Old Malt Cask. Le note ricche e speziate di questo meraviglioso whisky sostengono perfettamente la complessità e le note affumicate del Fiore Sardo DOP stagionato. Sicuramente funzionano anche una Mozzarella di Bufala affumicata o un Provolone Piccante Mandarino stagionato.

Gruyere AOC stagionato 12 mesi

FIORE SARDO DOP BIO STAGIONATO

codice 40706 | peso 32 kg circa

codice 31434 | peso 3 kg circa

Ben Nevis

Ledaig

Torniamo negli Highlands con un whisky di 10 anni e 46% Vol., potente e convincente, con note fruttate, una leggera punta di affumicato e di cioccolato fondente. Il Nero Fumè, erborinato affinato con foglie di tè affumicate si accompagna perfettamente: il whisky smorza la parte erbacea del formaggio e ne nobilita l’assaggio. Un whisky con queste sfumature aromatiche si incontra alla perfezione con prodotti affumicati, anche uno speck, però tagliato a fiammifero!

Dalle Islands un whisky imbottigliato da Wilson&Morgan, invecchiato 12 anni e affinato in botti di Sherry Oloroso. La gradazione di 57% Vol. necessita di poche gocce d’acqua fin da subito. Il whisky è secco e sapido, quasi marino, con una torbatura intensa ammorbidita dalle note dello Sherry. Trova subito compensazione con la parte grassa del Formadi Frant che, seppur piccante, finalmente trova un suo alleato. Questa tipologia di whisky si sposa perfettamente con formaggi grassi, come il Brillat Savarin.

NERO FUME’

FORMADI FRANT

codice 30794 | 1/4 | peso 2 kg circa

codice 30760 | peso 1 kg circa


NOTIZIE la cucina DA di VALSANA qb

capodanno con i chutney Fine d’anno no-stress e i riti che portano bene (anche a chi non è superstizioso) da seguire anche in cucina con tre nuove ricette

Anna Maria è cuoca e foodblogger. La sua ricerca è volta alla qualità e identità della materia prima, che presuppone lo studio della storia degli ingredienti, nella consapevolezza che il cibo è parte fondamentale dell’identità di un popolo

Com’è trascorso veloce quest’anno! Sembrava ieri che stavamo spignattando le ricette detox ed ora siamo nuovamente alle prese con i cotillon e il trenino del cenone di San Silvestro. Come possiamo quindi propiziare l’arrivo del nuovo anno? Carta e penna per non farci trovare impreparati: mutande rosse (dai che un paio da qualche parte nei cassetti ci dovrebbe essere), il vischio donato ai Celti dagli dei (ecco, magari non di plastica), le lenticchie già messe a bagno che non devono assolutamente mancare nel menù, i fuochi d’artificio senza rumore (così ai nostri amici pelosi non viene il coccolone), il calendario vecchio e quello nuovo (come non l’avete ancora preso?!), frutta secca e frutta in grani. Scritto tutto? Bene, segnatevi anche un po’ di flessioni che le azioni propiziatorie da compiere in un minuto saranno davvero molte! Come prima cosa ci si veste di rosso. Perché? Ai tempi di Ottaviano Augusto era usanza delle donne e degli uomini, durante il Capodanno, indossare qualcosa di rosso, colore che rappresentava il potere, il cuore, la salute e la fertilità. Secondo i cinesi, invece, indossare una cintura rossa permette di contenere dentro di sé il proprio Ch’i positivo. Dalla cintura alle mutande il passo è breve: l’importante è concentrare l’energia.

Così belli carichi possiamo bruciare il vecchio calendario ai rintocchi della mezzanotte e appendere subito quello nuovo, gettare dalla finestra ciò di cui ci vogliamo disfare e, per finire, è fondamentale fare l’amore. Si sa, ciò che si fa a Capodanno si fa tutto l’anno. E in giro per il mondo cosa si combina? Beh, in Spagna c’è l’uso di mangiare alla mezzanotte dodici chicchi d’uva, uno per ogni rintocco dei dodici scoccati dai grandi orologi comunali. In Russia, dopo il dodicesimo rintocco, si apre la porta per far entrare l’anno nuovo. In Ecuador e in Perù si esibiscono fuori dalla propria abitazione dei manichini di cartapesta, e a mezzanotte li si brucia nelle strade. In Giappone, prima della mezzanotte, le famiglie si recano nei templi per bere sakè e ascoltare 108 colpi di gong che annunciano l’arrivo di un nuovo anno. L’ascolto di questi suoni purifica in quanto si ritiene che il numero dei peccati commessi in un anno da una persona sia appunto 108. Cosa dite? I vostri peccati sono più numerosi? Beh, si potrebbe provare a bere più sakè. Infine, far molta attenzione a cosa si farà il 1° gennaio e anche qui ogni paese ha la sua usanza: nel Bergamasco non si debbono prestare oggetti di alcun tipo. In Abruzzo sono le donne a dare inizio a quante più faccende possibili. In altre regioni, invece, il primo dell’anno deve trascorrere in riposo assoluto, altrimenti ci si affannerà per tutto l’anno. Infine, in Piemonte, porterà fortuna incontrare un carro di fieno o un cavallo bianco. Incontri decisamente insoliti. Le ricette dell’ultimo numero del 2018 sono veloci e gustose così da rispettare tutte le tradizioni, propiziare la buona fortuna e avere il tempo necessario per farvi fare le coccole.

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Le Ricette “ARIA FRITTA” PANNERONE IN PANATURA SPEZIATA CON CHUTNEY DI PERA Proposte per l’anno nuovo? Fatti certi e non aria fritta, naturalmente. Ma a noi che piace friggere qualunque cosa abbiamo vestito il pannerone con i colori e i profumi di spezie e aromi e, come recita un famoso adagio, abbiamo scelto le pere, nel chutney appena senapato, per il giusto accompagnamento.

Ingredienti: 400 g di Pannerone di Lodi, 100 g di farina antigrumi 00, 200 g di pane grattugiato, 1-2 cucchiai di curry madras, 1-2 cucchiai di erbe di Provenza essiccate, 2 uova a temperatura ambiente, olio di semi di vinacciolo per la frittura, Chutney di pera, sedano e senape, pepe nero Tellicherry, fiori eduli. Tagliate il Pannerone a cubetti 2x2, passateli nella farina, nell’uovo e infine nel pane grattugiato ben miscelato con le miscele di spezie e aromi. Ripetete le ultime due fasi. Nel frattempo portate a 190° l’olio di vinacciolo e friggete i cubetti uno max due alla volta per pochi secondi, fate sgocciolare su carta assorbente e mettete da parte nel forno caldo ad 80°. Servite immediatamente con il chutney ed una macinata di pepe nero.

formaggio a festa

pannerone di lodi

curry madras

erbe di provenza

chutney pere, sedano e senape

codice 30938 | 1/8 | 1,5 kg circa

codice 94821 | peso 110 g

codice 94820 | peso 60 g

codice 93836 | peso 150 g

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“THINK PINK” SCONES ALLA BARBABIETOLA CON GRAVLAX ESPrESSO E CHUTNEY DI MANGO E se pensassimo un po’ “rosa”, così da propiziare positivamente il nuovo anno? Durante le feste il salmone diventa un gustoso protagonista che, assieme agli scones con barbabietola ed all’incredibile bontà del chutney di mango e peperone, vi doneranno tutta la dolcezza di cui abbiamo bisogno.

NOTIZIE la cucina DA di VALSANA qb

Ingredienti: 220 g farina 00 o di tipo 1, 5 g di polvere, polpa o estratto di barbabietola, 4 g cremor tartaro, 2 g bicarbonato di sodio, 120 g di latte intero temperatura ambiente, 50 g di burro, 10 g di zucchero, 200 g di salmone selvaggio Sockeye, 1 limone bio succo e zeste, aneto fresco, anice stellato, burro salato, sale, pepe bianco Muntok, chutney al mango, peperone e basilico Preriscaldate il forno a 220°C, tagliate il burro a cubetti, coprite con carta forno una teglia. Setacciate in una ciotola farina, polvere di barbabietola, bicarbonato di sodio e cremor tartaro, aggiungete lo zucchero e un pizzico di sale. Unite il burro e lavorate con la punta delle dita fino a ottenere un impasto granuloso, aggiungete il latte, amalgamando velocemente fino a ottenere un impasto sodo. Stendete con un matterello fino 3 cm di altezza; con un coppapasta di ø 4-5 cm tagliate dei panetti che trasferirete sulla teglia. Infornate per 1416’, fino alla doratura della superficie. Nel frattempo aprite il salmone e lasciatelo a temperatura ambiente. Ottenete con la microplane la scorza dal limone e in una ciotolina mescolatela con un filo di olio evo, qualche cucchiaino di succo di limone, l’aneto tritato e una profumata di anice stellato. Mescolate e spalmate sulla superficie. Tagliate a metà gli scones ancora caldi: sulla base spalmate il burro salato e nell’altra un po’ di chutney, appoggiate 1/2 fette di salmone e decorate con l’aneto. Servite con il chutney e con qualche fetta di limone, se gradita.

immancabile salmone

salmone selvaggio sockeye

burro salato

chutney mango, peperoni e basilico

anice stellato e pepe muntok

codice 94063 | peso 100 g intero su prenotazione 94056

codice 45311 | peso 250 g

codice 93835 | peso 150 g

codice 94825 | peso 50 g codice 94819 | peso 35 g

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“BUON ANNO”, COTECHINO, SPINACI E HUMMUS DI LENTICCHIE La tradizione non dovrebbe mai venire meno, soprattutto nella tavola delle feste, per cui ecco la coppia perfetta, formata da lenticchie e cotechino, in cui fanno capolino spinaci al vapore appena profumati dalla paprika e una salsa, l’hummus, preparata con una parte delle lenticchie cotte.

Ingredienti: 500 g di lenticchie, 1 spicchio d’aglio pestato finemente nel mortaio, 30 g di tahina (pasta di sesamo), 30 ml di olio evo delicato, 1 limone bio il succo, 1/2 cucchiaio di cumino, 1 pizzico di peperoncino, 1 cotechino Meggiolaro 500 g, 100 g di spinacino (foglie piccole, che si possono mangiare anche crude), una noce di burro, sale, pepe macinato al momento, paprika in polvere, chutney alle prugne, radicchio e Teroldego. Sciacquate le lenticchie, trasferitele in una casseruola, coprite con brodo vegetale o acqua e cuocete a fuoco dolce e coperto per circa 25’. Devono restare croccanti. Scolate, trattenendo l’acqua di cottura rimasta, e trasferitene la metà in un mixer con tutti gli altri ingredienti, lavorandoli fino a ottenere una crema liscia e vellutata, aggiungendo, se necessario, un po’ di acqua di cottura. Regolate di sale e peperoncino, trasferite in una ciotola e mettete da parte. Immergete in acqua bollente la busta con il cotechino precotto e alla ripresa della cottura contate 20’. Fate riposare 10’, scolate il cotechino dal fondo di cottura, asciugatelo con carta assorbente e tagliatelo a fettine. In una padella antiaderente sciogliete una noce di burro, fate appassire gli spinacini, regolate di sale e pepe e mettere da parte. Per impiattare disponete una cucchiaiata di spinaci e profumate con la paprika, a fianco appoggiate 2/3 fette di cotechino e distribuite sul piatto le lenticchie. Servite con sfoglie di pane carasau, l’hummus di lenticchie e un cucchiaio di Chutney alle prugne, radicchio e Teroldego.

cotechino, lenticchie e...

cotechino meggiolaro

lenticchie di castelluccio igp

chutney prugne, radicchio e teroldego

cod 80856 | peso 500 g circa

cod 93043 | scatola 500 g ca cod 93042 | in juta 500 g ca

codice 93833 | peso 150 g

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selezione per le feste

il lusso in tavola

Una selezione di delizie che, tra Natale e Capodanno, ci concediamo il lusso di portare in tavola. Dedicata a chi, come noi, spende più in cibo che in abbigliamento...

parmigiano reggiano dop | stagionato 100 mesi

Il top di gamma del Parmigiano Gennari stagionato oltre 100 mesi codice 33115 | disponibile in 1/8 da 4,5 kg

bagòss di bagolino | estate 2016

Un grande formaggio prodotto in malga a Bagolino, Presidio Slow Food codice 31090M16 | forma da 18 kg | ordine minimo 1/16

storico ribelle | estate 2015

Un grande formaggio prodotto secondo tradizione in alpeggio nei Calècc codice 31047M15 | forma da 11 kg | ordine minimo 1/16

Roquefort AOC Papillon Premium

Particolare selezione di Roquefort stagionato in cantina per 90 giorni codice 46728 | 1,3 kg circa

Comte’ AOC Fort St Antoine 30 mesi

Comté stagionato almeno 30 mesi nelle gallerie del forte St. Antoine codice 46749 | forma da 40 kg | ordine minimo 1/16

Beaufort AOC Chalet d’Alpage

Un grande formaggio prodotto in Alta Savoia in alpeggio codice 46748 | forma da 37 kg | ordine minimo 1/32

BRIE DE MEAUX TRUFFE

Il classico Brie de Meaux farcito a metà con mascarpone e tartufo codice 44047 | 1,4 kg circa

Affettato di Tartufo estivo

Lamelle di tartufo nero ideali per guarnire i piatti | 93092 | vaso da 30 g

Miele di Acacia e Tartufo

Miele di Acacia aromatizzato con tartufo | cod 93388 | vaso da 120 g VALSANA | 30


Una selezione di peccati di gola da concedersi a Natale... Prosciutto di Suino Nero dei Nebrodi

Prosciutto di suino Nero dei Nebrodi allevato allo stato semibrado codice 80224 | c/osso | peso 7,5 kg circa

Prosciutto Stagionato di Cinta Senese Biologico

Crudo di Cinta Senese da maiali allevati da Savigni allo stato semibrado codice 79120 | c/osso | peso 9 kg circa

Jamon mangalica con osso

Crudo prodotto con cosce di suino Mangalica, stagionato almeno 24 mesi codice 79214 | c/osso | peso 9 kg circa

Foie Gras d’Anatra intero di Sud-Ovest IGP

Fegato grasso intero IGP da anatre allevate in Dordogna | 84050 | 180 g

Foie Gras d’Oca intero del Perigord

Fegato grasso intero da oche allevate nel Perigord | cod 84069 | 90 g

Lobo di Foie Gras d’Anatra Sud-Ovest

Fegato grasso intero IGP da anatre allevate in Dordogna | 84055 | 320 g

acciughe cantabriche “mariposa”

Filetti di dimensioni importanti aperti e uniti per la coda | 93697 | 100 g

salmone selvaggio red king

La specie più grande dell’Alaska dal sapore inconfondibile | 94055 | 3,5 kg

bottarga di tonno rosso

Uova di tonno rosso del Mediterraneo, salate ed essiccate | 94021 | 200 g

olio evo bio la majatica

Prodotto in Basilicata dal Frantoio Valluzzi, Presìdio Slow Food codice 93573 | 250 ml

balsamico bianco biologico

Un condimento raffinato e delicato che esalta e arricchisce le pietanze codice 93422 | bottiglia da 250 ml

aceto balsamico tradizionale di modena dop

Il prezioso Tradizionale per un regalo sempre gradito 12 anni - cod 93401 | 25 anni - cod 93400 | bottiglia da 100 ml

pepe timut

Pepe Timut proveniente direttamente dal Nepal | 94831 | vaso da 15 g

sale maldon

Sale a fiocchi prodotto nella città di Maldon, nell’Essex | SAL 118 | 250 g

anice stellato

Frutti di anice dalla caratteristica forma a stella | 94825 | vaso da 50 g VALSANA | 31


Valsana S.r.l. ∙ Via Ettore Maiorana, 3/A ∙ 31025 Santa Lucia di Piave (TV) ∙ Italy Tel. (+39) 0438 1883125 ∙ Fax (+39) 0438 64976 ∙ valsana@valsana.it ∙ www.valsana.it


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