Selezione di Sapori | 2019 01

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I L M A G A Z I N E D I VA L S A N A gen | f e b 2 0 1 9


SOMMARIO

EDITORIALE di martina iseppon

SELEZIONE DI SAPORI: Il magazine di Valsana Team editoriale: Giulia Bassetto, Giulia Basso, Alessandro De Conto, Matteo De Santi, Elisa Magro, Danilo Gasparini, Martina Iseppon, Anna Maria Pellegrino Direttore: Giulia Basso In copertina: Sivana Cugusi Foto di Beatrice Mancini Editore: Valsana srl Via E. Maiorana 3/A - Santa Lucia di Piave TV Registrazione Tribunale di Treviso n. 2422 del 28/04/2017

Il 2019 sarà un anno denso di cambiamenti e nuovi inizi, non ultimo il passaggio alla nuova sede che contiamo di fare entro l’estate. Un vento di novità che abbiamo cercato di portare anche nel nostro magazine. A partire da due rubriche affidate a due nostri giovani talenti, che hanno raccolto la sfida con entusiasmo e (a nostro avviso) con risultati niente male: “Come si fa?” una guida pratica volta a recuperare un saper fare che si sta perdendo, gestita da Giulia Bassetto e “Osiamo l’abbinamento”, un gioco di accostamenti affidato a Matteo De Santi. Nuova anche la rubrica “Sostenibilità e Ambiente”, che vuole dare uno spazio ad aziende orientate alla sostenibilità ambientale e sociale, iniziando dal progetto Latte Fieno di Tre Cime Mondolatte. Rinnovata la sezione “Geografia del Gusto” a cura di Alessandro De Conto, che quest’anno ci porterà a conoscere alcune regioni francesi.

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Nel segno della continuità invece “Intervista al Produttore”, qui dedicata ad Antonio Grossetti, e “Racconti di Viaggio”, che questo mese ci porta in Toscana, da Silvana Cugusi. Continua la collaborazione con Danilo Gasparini con “Bocconi di Storia”, in cui ci racconterà di volta in volta l’origine di un prodotto, e quella con Anna Maria Pellegrino, dedicata quest’anno alla “Cucina del Senza”, con una selezione di ricette orientate alla semplicità e alla salute. Dalla storia al terroir, dal produttore all’utilizzo: l’obiettivo resta quello di raccontarvi le mille sfaccettature dei prodotti che selezioniamo, con la passione che ci muove in questo bellissimo lavoro.

Martina Iseppon


SOMMARIO gennaio | febbraio 2019

viaggio in toscana | una visita emozionante da cugusi 04 intervista al produttore | salumi grossetti

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NOVITà | pecorino toscano dop

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NOVITà | la ricotta allunga la vita!

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COME SI FA? | IL TAGLIO AL COLTELLO

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SOSTENIBILITA’ E AMBIENTE | TRE CIME MONDOLATTE

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GEOGRAFIA DEL GUSTO | La Franche-Comté e i suoi tesori BOCCONI DI STORIA | DI CHE MORTADELLA SEI?

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OSIAMO L’ABBINAMENTO | ESPERIMENTI CON IL RASCARD LA CUCINA DI QB | SEMPLICITà #SENZASTRESS

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una visita emozionante al caseificio cugusi

viaggio in toscana

Dal Gennargentu alle colline di Montepulciano: quella della famiglia Cugusi è la storia della migrazione dei pastori sardi, letta tante volte sui libri. Ma raccontata da Silvana Cugusi ha tutto un altro sapore...

Martina Iseppon è laureata in Economia e Commercio a Venezia ed è Responsabile Marketing in Valsana dal 2003

novità

pecorino di pienza riserva piccola Pecorino stagionato oltre un anno, trattato in crosta con olio di oliva. Ha un gusto dolce, elegante, con note floreali e di burro cotto cod 31520 | peso 5,6 kg

Chiamo Silvana Cugusi per fissare l’appuntamento per l’intervista e capisco subito che sarà un’impresa riuscire a incrociare le agende: in questo periodo il caseificio lavora solo due giorni a settimana, il martedì e il venerdì. Le pecore hanno ripreso da poco la lattazione, erano in asciutta da settembre, e il latte disponibile viene lavorato due volte a settimana, circa 50 quintali per volta. Tra i vari impegni e le scadenze per la consegna in tipografia della rivista riusciamo a trovare una sola giornata che, in qualche modo, vada bene a tutti. Recupero Beatrice, la nostra fotografa di fiducia, alle 23 a Verona, dove ha tenuto un corso di fotografia, e partiamo subito verso la Toscana. Arriviamo alle 2 di notte ad Arezzo, ci riposiamo qualche ora e ripartiamo in direzione Pienza, anzi Montepulciano, per poter assistere alla lavorazione del pecorino. Arriviamo un po’ trafelate, senza poterci fermare a fotografare con calma il paesaggio meraviglioso delle colline tra Pienza e Montepulciano, dove si trova il caseificio. Riusciamo comunque a rubare qualche scatto al volo dalla macchina. Ci accoglie Hubble, il labrador di Silvana e ci sentiamo subito a casa, privilegiate nonostante le poche ore di sonno: la vista dal caseificio è incantevole, duecentoventi ettari di ulivi, vigneti e pascoli. Lo sguardo si perde tra le colline e i poderi di famiglia, il profilo medievale di Montepulciano sullo sfondo. Rimandiamo il caffè, ci cambiamo ed entriamo subito in produzione, la lavorazione è già nel vivo. Una sala con 5 piccole caldaie disposte sui due lati e uno spazio centrale per la VALSANA | 04

lavorazione, dove tre ragazze - Simona, Dela e Manuela - stanno versando la cagliata negli stampi del pecorino (semistagionato), sotto l’occhio attento di Paolo, il casaro, cognato di Silvana. La cagliata viene fatta sgrondare, quindi girata negli stampi, lasciando intuire quella che sarà la forma inconfondibile del pecorino di Pienza; le forme vengono portate in una cella dove riposano per qualche ora, mentre inizia la lavorazione della caldaia successiva. Manuela prepara gli stampi e le griglie per la prossima lavorazione, Dela e Simona sono ancora impegnate a pressare manualmente le uniche due forme di Pecorino Gran Riserva della giornata. Principe di casa, medaglia d’oro al World Cheese Award, il Gran Riserva viene lavorato e pressato manualmente, quindi stagionato 18 mesi su tavole d’abete nella cantina di stagionatura che si trova sotto al caseificio e trattato ogni 20 giorni in crosta con olio di oliva. Come tutti gli altri formaggi di Cugusi viene prodotto esclusivamente con latte di pecora della zona: “Non ho mai lavorato del latte che non sia della Val d’Orcia, - mi dice Silvana - lavoriamo solo il latte del nostro gregge, che oggi conta circa 800 pecore, e di quattro pastori con cui collaboriamo da oltre 40 anni”. Mentre Beatrice fotografa la lavorazione sbircio nella saletta attigua: una finestra con uno scorcio bellissimo sulle colline, appannata dai vapori che salgono dalla caldaia dove viene riscaldato il siero per la produzione della ricotta. Mi ricorda il pentolone della strega, ma in realtà ci lavora una fata: Anna, figlia di Silvana, 23 anni, un diploma alla scuola alberghiera, un corso all’Accademia


internazionale di Arte Casearia e poi la decisione di entrare nell’azienda di famiglia, seguendo il consiglio del nonno. La dolcezza dello sguardo si accompagna alla delicatezza dei gesti con cui sembra quasi accarezzare i fiocchi di ricotta mentre li raccoglie. Non posso fare a meno di notare che sono tutte donne in lavorazione, a parte Paolo, e chiedo a Silvana se sia un caso o una scelta: “Un po’ l’uno un po’ l’altro - mi risponde - ma in produzione le donne hanno un’attenzione ai dettagli che per noi è molto importante.” In tutto a Pienza ci sono una decina di caseifici. Ciò che rende unico il Caseificio Cugusi è l’attenzione al prodotto in ogni fase: a partire dal pascolo, dove non vengono usati concimi chimici nè diserbanti, al latte che deve essere sempre perfettamente pulito, fino a ogni passaggio nella lavorazione e nella stagionatura.

Silvana è una bella donna, lo sguardo serio che mette un po’ di soggezione all’inizio. Ma è un’impressione che si dissolve subito appena inizia a raccontarci con gli occhi lucidi la storia della sua famiglia. Sono gli anni ‘60, i Cugusi vivono a Fonni (Nu), in Sardegna, un paese sulle pendici settentrionali del Gennargentu, a mille metri di altitudine. E’ una famiglia fortemente radicata nella comunità del paese: il papà di Silvana, Raffaele Cugusi, coltiva 27 ettari di terreno, sia di proprietà che in affitto, e ha diversi animali, sia mucche che pecore; la mamma, Maria, gestisce la latteria, centro del tessuto sociale del paese. Abitano in una casa comoda, con acqua e corrente elettrica. Ma Raffaele è un’anima inquieta. Frequenta un corso serale di agraria, per sperimentare nuove sementi, dove uno dei docenti gli racconta della particolare situazione in cui versa la Toscana, con l’abbandono delle VALSANA | 05

“Lavoriamo unicamente il latte del nostro gregge, che oggi conta circa 800 pecore, e di quattro pastori con cui collaboriamo da oltre 40 anni: solo latte della Val D’Orcia, Patrimonio Mondiale dell’UNESCO dal 2004“ Silvana Cugusi


viaggio in toscana

campagne, tanta terra disponibile a prezzi bassi, diversi incentivi per l’avvio di attività agricole. Raffaele parte da solo, gira per oltre un mese tra Arezzo, Siena e Firenze a vedere terreni e poderi e quando torna a casa la decisione è già presa.

pecorino di pienza fresco Morbido pecorino dal gusto dolce e delicato, con note di latte, burro e sensazioni floreali. Da provare fuso sui carciofi cod 31510 | peso 1,3 kg

Contro l’opinione di tutti, considerato un pazzo dai compaesani, Raffaele non demorde. Maria non condivide la scelta, ma al momento di partire si toglie il fazzoletto e l’abito tradizionale sardo e si taglia i capelli, pronta a iniziare una nuova vita. La famiglia Cugusi si imbarca a marzo del 1962, con nove figli (di cui uno in grembo) e 300 pecore. Quando arrivano a Chiusi, Maria dice al marito che non lo perdonerà mai per questa scelta azzardata. Raggiungono La Boccia, un podere abbandonato, isolato da tutto e da tutti, senza acqua e senza elettricità, fa freddo VALSANA | 06

e c’è fango ovunque. Silvana ha 9 mesi, il fratello più grande 16 anni. “Mamma piangeva tutti i giorni”, ricordano i fratelli di Silvana. Raffaele non si scoraggia, “quando si lavora i problemi vanno via”. Sistema piano piano il podere, impara dai pastori toscani la tecnica casearia del luogo, innestando le sue conoscenze in un mercato nuovo che ha delle caratteristiche diverse e richiede un prodotto più delicato rispetto ai formaggi sardi. Impara a fare il pecorino con la presura, un caglio con carciofi selvatici che richiede dei tempi di coagulazione più lunghi rispetto al caglio di agnello tradizionalmente usato in Sardegna. Ogni giorno Raffaele si carica in macchina i figli e i formaggi e porta gli uni a scuola, gli altri al mercato. Tutti i nove fratelli sono coinvolti nell’attività di famiglia: sveglia all’alba per mungere o badare al gregge e poi a scuola. Giannetto, il più grande dei nove fratelli, frequenta la scuola per casari di Lodi


e inizia ad occuparsi della produzione. Pian piano i pecorini di Cugusi si fanno conoscere e le persone vengono in azienda ad acquistarli. Dopo un anno anche Maria si convince che è stata la scelta giusta. Diversi anni dopo, con l’entrata in azienda di Silvana e Giovanna il caseificio prende l’aspetto di oggi. L’integrazione è completa: in Toscana sono infatti le donne a occuparsi degli animali e cagliare il latte. Oggi sono una ventina le varietà di pecorini prodotti, stagionati con la crusca, la vinaccia, la cenere, speziati al pepe, al peperoncino, allo zafferano, al tartufo. Quasi tutti venduti allo spaccio o ai negozi dei dintorni. Provo a convincere Silvana a lasciarci inserire nel nostro assortimento il Gran Riserva, o almeno il Riserva Piccola, promettendo di rispettare i loro limiti di produzione, senza chiedere troppo.

Il bello di questa azienda è proprio la “testardaggine” con cui difende la sua identità, il rifiuto di usare del latte che venga “da fuori”, la volontà di salvaguardare una lavorazione artigianale per davvero, non solo a parole, e una dimensione familiare. Tutti i fratelli di Silvana a parte due (uno veterinario e l’altro dentista) lavorano ancora oggi nell’azienda agricola: chi con l’allevamento, chi con l’agriturismo. “I nostri genitori ci hanno insegnato a essere una famiglia unita” racconta Silvana visibilmente emozionata. Ripartiamo in fretta, dobbiamo essere di nuovo a Verona per le 16. E’ stata una trasferta breve ma intensa, rientriamo con tante emozioni nel cuore e la voglia di tornare. Reportage fotografico di Beatrice Mancini

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pecorino di pienza rosso Pecorino dal gusto dolce, con note di burro, stagionato circa 40 giorni e trattato in crosta secondo tradizione con salsa di pomodoro cod 31511 | peso 1,3 kg


Salumi grossetti

INTERVISTA AL PRODUTTORE

La storia della famiglia Grossetti affonda le sue radici nell’Ottocento: una tradizione norcina derivante dal talento delle persone, dalla materia prima e dal microclima

Giulia Basso è giornalista collaboratrice de Il Piccolo di Trieste e direttore responsabile del nostro magazine, Selezione di Sapori, dal 2017

“Il nostro attuale salumificio è nato in memoria di mio padre, che ha tribolato tanto per arrivare a costruirlo e non ha fatto in tempo a vederlo realizzato. Ai suoi tempi questo era un lavoro durissimo, che richiedeva grandissima passione e tenacia. Me lo ricordo in pieno inverno, con temperature sotto lo zero, a fare su e giù per le cantine con le nostre coppe e a salarle a mano: ho impresse nella memoria la sua faccia e le sue dita gonfie come un cotechino per il freddo”. Il titolare dell’azienda Salumi Grossetti, Antonio, proviene da una famiglia che fin da metà Ottocento

ha portato avanti l’arte della norcineria nella Val Tidone, la più occidentale delle valli piacentine, una terra a vocazione agricola dal microclima ideale per la produzione di salumi, in cui il ritmo di lavoro è sempre stato scandito dall’alternarsi delle stagioni. La presenza in loco di caseifici che, producendo Grana Padano, fornivano il siero di latte, ottimo per l’alimentazione suina, ha favorito lo sviluppo di allevamenti sul territorio, che per la sua posizione geografica sulle rotte commerciali verso il porto di Genova ha facilitato anche l’approvvigionamento di ingredienti fondamentali per la produzione di salumi, come il sale. In quest’intervista ripercorriamo con il suo titolare la storia degli ultimi 70 anni di vita dell’azienda Salumi Grossetti, che porta avanti ancora oggi le tradizioni di un tempo.

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La vostra è una lunghissima tradizione familiare. Possiamo ripercorrerne i passi principali? Già il mio bisnonno a metà Ottocento aveva iniziato con una piccola produzione di prodotti di salumeria a Pianello Val Tidone. E negli anni quello del salumiere è stato un lavoro di tutta la famiglia: in paese avevamo tre botteghe, gestite da mio zio, mio padre e il fratello di mia madre. Al tempo tutti avevano un nonno che macellava in campagna. Fino agli anni Sessanta si lavorava solo d’inverno, da novembre a febbraio, finché mio padre, pensando più in grande, decise di mettere in piedi un vero e proprio salumificio moderno. Partimmo assieme, mollando le botteghe e concentrandoci sulla produzione, all’inizio molto ridotta e poi a mano a mano più ampia. Purtroppo però mio padre ci ha lasciati prima di vedere realizzato il suo sogno. Com’è strutturato oggi il vostro salumificio e in quanti ci lavorate? Oggi siamo in dodici persone, tra cui mio figlio e due nipoti: io sono il più anziano del gruppo. Il salumificio è stato modernizzato per rispondere a tutte le attuali norme igienico sanitarie e la produzione adesso va avanti per tutto l’anno, con stagionature diverse per venire incontro alle esigenze della clientela. Siete parte e lei è presidente del Consorzio Salumi Dop Piacentini, l’unico in Europa ad aver ottenuto la Dop per tre prodotti: coppa piacentina, pancetta piacentina e salame piacentino. Qual è il valore aggiunto apportato dal Consorzio? Sono uno dei fondatori del Consorzio e ci sono molto legato. Grazie a quest’unione siamo riusciti a farci conoscere dalle istituzioni: oggi ci chiamano a rappresentare le eccellenze italiane nel mondo e questo è un risultato importante per un consorzio piccolo come il nostro.

Coppa, pancetta e salame piacentino sono produzioni storiche. Quali le caratteristiche originarie che si mantengono anche nell’attuale produzione? La produzione è rimasta legatissima alla tradizione, fin dalla selezione delle carni. Ci siamo dati un disciplinare severo: utilizziamo soltanto maiali nati in Lombardia e in Emilia e li scegliamo piuttosto pesanti, perché ci garantiscono un’alta qualità delle carni. Lavoriamo per ottenere un prodotto tipicamente dolce e profumato, la salatura avviene a mano, come la legatura, e la stagionatura è ancora molto lenta, perché per noi la lentezza è un importante valore aggiunto. Cos’è invece cambiato rispetto a un tempo nella lavorazione? Oggi si lavora per tutto l’anno e con il prezioso ausilio di macchinari: siamo passati dai bracieri alle stanze di stagionatura, che consentono di impostare direttamente temperatura e umidità dell’aria. Potendo controllare tutto il processo abbiamo molti meno scarti rispetto a un tempo, quando bastava un inverno troppo caldo per danneggiare un’intera produzione. Da qualche anno, inoltre, per venire incontro alle richieste dei consumatori, stiamo cercando di ridurre sempre più la quantità di sale contenuta nei nostri prodotti. Qual è l’apporto del territorio che si riflette nel gusto unico dei vostri salumi? Quando la giornata è buona teniamo spenti i macchinari e spalanchiamo le finestre, perché è proprio il microclima di questa zona, l’aria semiumida che si respira tra questi colli e la stagionatura lenta, a rendere unici i nostri prodotti.

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“Utilizziamo solo maiali nati in Lombardia e in Emilia e li scegliamo piuttosto pesanti, perché ci garantiscono un’alta qualità delle carni” Antonio Grossetti


intervista al produttore

Come influiscono nel gusto dei vostri salumi le muffe naturali che si sviluppano durante la stagionatura e perché sono così importanti? Il gusto distintivo dei nostri salumi nasce da un mix d’ingredienti: il talento delle persone che li lavorano, la materia prima e il microclima, che ci aiuta creando delle muffe naturali uniche. Quest’ultime sono fondamentali, perché l’acaro della muffa che si sviluppa in stagionatura conferisce ai nostri prodotti un sapore unico. E i grassi? Non assorbendo sale i grassi contribuiscono alla dolcezza dei nostri prodotti e ne mantengono la morbidezza nelle stagionature più lunghe. Per limitarli consiglio sempre di rinunciare a una fetta in più di salume piuttosto che al loro apporto in termini di equilibrio del gusto.

Quali abbinamenti consiglierebbe con i vostri tre prodotti Dop? L’ideale è sempre il consumo classico da aperitivo e apripasto: i nostri salumi accompagnati da un vino leggero, con qualche bollicina, preparano la bocca per qualsiasi altra pietanza. Campagnola, piacentina, coppata, tesa, pepata scotennata. Come scegliere la più adatta tra le vostre diverse pancette? Le diverse pancette sono legate alla nostra storia, perché fin dall’inizio nella nostra zona se ne producevano di molti tipi differenti. Le regine della nostra produzione sono l’arrotolata e la campagnola, prodotti mediamente più stagionati. Le altre sono ottime pancette legate a un mercato moderno, quindi un po’ più magre e meno stagionate.

salame piacentino dop

coppa piacentina dop

pancetta tesa al pepe

Salame DOP molto magro, dolce e delicato, con stagionatura minima di 45 giorni

Coppa DOP stagionata almeno 6 mesi, dal sapore dolce e delicato, leggermente sapido

Pancetta di suino nazionale ottima da usare in cucina. Dolce e leggermente sapida

codice 78242 | peso 600 g circa

codice 78240 | peso 1,7 kg circa

codice 78235 | peso 1,8 kg circa

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Quali sono i prodotti più apprezzati? In questi anni abbiamo aumentato notevolmente le vendite della nostra coppa, che è la regina dei nostri salumi a cui è dedicato anche il premio “Coppa d’oro”, che si svolge annualmente a Piacenza. Ma il prodotto che ultimamente ci ha sorpreso di più è stata la pancetta, che ha registrato una crescita esponenziale delle vendite.

In evidenza pancetta piacentina dop Pancetta dolcissima, con un caratteristico sapore di burro e con una speziatura delicata

Quali sono attualmente i vostri mercati di riferimento? La nostra vendita è legata soprattutto ai ristoranti e alle salumerie di tutto il Nord Italia, ma spediamo anche qualche pezzo all’estero, in Germania e in Francia.

codice 78245-- | 1/2 da 2,5 kg circa disponibile anche intera

pancetta nei legni

pancetta pepata scotennata

pancetta campagnola

Dolce e delicata, non troppo sapida, grazie alla salatura a secco. Ottima tagliata sottile

Pancetta arrotolata al pepe, dolce e delicata, ottima a ccrudo o anche cotta nella fritatta

Dolce, con un caratteristico sapore di burro. Deliziosa sul pane fresco appena riscaldato

codice 78255 | peso 4 kg circa

codice 78236 | peso 4 kg circa

codice 78249 | 1/2 da 6 kg circa disponibile anche intera

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pecorino toscano dop Vi presentiamo il pecorino toscano DOP del Caseificio Il Fiorino: prodotto con latte di Maremma, stagionato almeno 120 giorni Quando si pensa al pecorino vengono in mente di solito tre grandi aree in Italia: Lazio, Sardegna e Toscana.

novità

Ma se si parla di “cacio” siamo senz’ombra di dubbio in Toscana o un po’ più a sud. Strettamente legato al territorio, il pecorino toscano DOP è oggi prodotto oltre che in tutta la regione Toscana, in parte della provincia di Terni, in Umbria, e parte della provincia di Viterbo, nel Lazio.

Elisa Magro, laureata in Scienze della Comunicazione, dopo un’esperienza nell’ecommerce ora si occupa di Marketing online in Valsana

Si distinguono due tipologie di pecorino toscano DOP: fresco e stagionato, entrambi regolamentati dal Consorzio che dal 1985 si occupa di controllo qualità, disciplinare e promozione del prodotto in Italia e all’estero. Il disciplinare Come tutti i prodotti DOP, anche il pecorino toscano è soggetto a un rigido disciplinare. Il disciplinare regola, tra le altre cose, la zona di origine del latte, che corrisponde alla zona di produzione e di stagionatura, e la tipologia di formaggio che può essere chiamato pecorino toscano. Il Pecorino Toscano DOP, per essere certificato, deve essere marchiato sullo scalzo con il marchio di origine comprensivo del numero identificativo del caseificio produttore e il contrassegno che garantisce la rispondenza al disciplinare.

Il toscano DOP del Caseificio Il Fiorino 120 giorni. E’ questo il tempo minimo di maturazione del pecorino toscano DOP stagionato, prodotto con solo latte intero di pecore allevate negli ampi pascoli della Maremma grossettana. La qualità del latte beneficia del benessere dell’animale, che può pascolare all’aperto nutrendosi di erba, ricca di tocoferoli e caroteni, che conferiscono al latte una maggior presenza di Vitamina A e E. La pasta è semidura, di colore giallo paglierino, l’odore è delicato, di frutta secca e fieno, e il sapore, a differenza di altri pecorini, è più armonico ed equilibrato, definito “splendido ed elegante” nella guida Gambero Rosso dell’ottobre 1989, in grado di cambiare sensibilmente con l’aumento della stagionatura. E’ uno dei formaggi più premiati dell’azienda: Cheese of the year 2007, vincitore del Trofeo San Lucio 2007 come miglior formaggio d’Italia, medaglia d’oro a San Sebastian nel 2016 e medaglia di bronzo al World Cheese Awards di Londra nel 2017. Disponibilità del prodotto E’ disponibile durante tutto l’arco dell’anno perchè la sua produzione è continua, anche se chiaramente esistono dei periodi in cui le pecore producono più latte e quindi aumenta, come in primavera, quando i caseifici sono nel pieno della loro attività.

Suggerimenti d’utilizzo

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Ottimo in purezza, con frutta fresca o con un miele non troppo forte, consigliamo tiglio. I vini da accompagnare sono rossi invecchiati, come il Morellino di Scansano, il Chianti Classico e il Brunello di Montalcino. Delizioso anche grattugiato, per impreziosire piatti come la Ribollita, o consumato a scaglie. Miele di Tiglio Apicoltura Cazzola cod 93384 | vasetto da 135 g

Pecorino toscano DOP cod 31348 | peso 1,8 kg circa

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la ricotta allunga la vita! Nuovo look per la Ricotta di Bufala di Borgoluce. Dalla fuscella al confezionamento in carta, con il vantaggio di allungare la shelflife. “Nessuno nasce perfetto, è per questo che le matite hanno la gomma”, diceva qualcuno. Selezioniamo un prodotto perchè ci piace, per soddisfare un’esigenza del mercato, perchè scommettiamo su progetti in cui crediamo. Ma nella prima fase di distribuzione, non è sempre detto che il prodotto sia perfetto così come viene pensato e venga da subito riconosciuto dai clienti.

novità

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Così è stato per la ricotta di latte di bufala di Borgoluce, la cui shelflife è stata finora piuttosto breve, di poco più di una settimana, un tallone d’Achille che l’ha resa fino a oggi un prodotto “vulnerabile”, per motivi ovvi di gestione. Abbiamo chiesto a Borgoluce, azienda con cui abbiamo stretto da tempo un rapporto di fiducia e collaborazione, di ovviare a questo ostacolo, per dare modo al prodotto di sviluppare le sue potenzialità.

ricotta di latte di bufala borgoluce cod 21065 | 3 pezzi da 280 g cod 21059 | formato da 1 Kg

Oggi la Ricotta di latte di bufala Borgoluce ha quasi raddoppiato la shelflife grazie al cambio di incarto, dalla classica fuscella alla carta alimentare

Suggerimenti d’utilizzo

E’ prodotta esclusivamente con il siero ottenuto dopo la lavorazione della mozzarella. E’ una ricotta che merita, per qualità e versatilità in cucina, di essere conosciuta e apprezzata. Il sapore è dolce e delicato, poco sapida con intense note lattiche dovute all’utilizzo di sieroinnesto prodotto in azienda, che la rende particolarmente caratterizzata. Disponibile in confezione da tre pezzi da 280 grammi ciascuno oppure nel nuovo formato da banco da 1 Kg.

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Dalla piacevole cena a casa di Omar di Borgoluce, ci siamo portati a casa l’idea dell’antipasto che ci ha preparato con la Ricotta di latte di bufala. Una torta di ricotta, farcita con pesto e pomodorini confit e ricoperta di gomasio. Ha usato la ricotta da 1 kg tagliata a strati. Da provare anche monoporzione al bicchiere, e perché no, in versione dolce magari con strati di pere e cioccolato e granella di nocciole! Pesto di Prà cod 93425 | vasetto da 90 g cod 93426 | vaso da 1 Kg Pomodorini Confit cod 93897 | da 230 g cod. 93896 | da 1,6 kg


il taglio al coltello Una guida pratica e un tutorial fotografico: i 5 passaggi per tagliare un prosciutto crudo con osso davanti al cliente

NOTIZIEsiDA come fa?VALSANA

Giulia Bassetto è laureata in Commercio Estero, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari a Venezia e si occupa di Marketing in Valsana

iberica, la quale suggerisce tante piccole porzioni che consentono di degustare distintamente le diverse parti del prosciutto e permettono all’operatore di lavorare al meglio su tutto il pezzo. Dopo aver fatto pratica, la scelta sta a voi!

Come si fa? Una domanda che ci è stata rivolta molte volte da chi cercava informazioni per la gestione corretta dei prodotti con lo scopo di assicurare al cliente un servizio di qualità e un’esperienza unica. Proprio da questa domanda, dalla semplicità disarmante che è spesso indirettamente proporzionale alla complessità della risposta, nasce l’idea di una rubrica “pratica” che ci accompagnerà nel percorso editoriale di quest’anno.

gambetto

CULATTA

Abbiamo pensato di iniziare dal taglio a mano del prosciutto crudo e, grazie all’aiuto di Casa Graziano, abbiamo redatto una piccola guida, che speriamo possa esservi di aiuto. Si sa, quando si ha un ottimo prosciutto crudo con osso e ben stagionato, il taglio al coltello oltre che essere affascinante da vedere, regala delle sensazioni all’assaggio uniche, sia in termini di consistenza che di sapore. Innumerevoli sono i momenti in cui si può presentare la necessità di effettuare un taglio a mano, per lo più si tratta di occasioni in cui il prosciutto viene degustato al momento, subito dopo il taglio, come in un evento, una giornata di promozione o in un’attività ristorativa.

“Un crudo e’ adatto per il taglio a mano intorno ai 24 mesi di stagionatura”

Prima di iniziare il nostro vademecum, però, una premessa è doverosa: non esiste una tecnica di taglio unica, universalmente valida. Le variabili da considerare sono molte, dal tipo di morsa alla stagionatura del prosciutto, dalla praticità della posizione di taglio fino alle dimensioni della fetta. Quest’ultimo aspetto, in particolare, merita un discorso più ampio: esistono due scuole di taglio, quella all’italiana, che prescrive fette sottili e lunghe, se non addirittura intere, alle volte scomode da gestire, e la scuola

FIOCCO

ANCHETTA

prosciutto di parma dop 30 e lode Speciale selezione di Casa Graziano, prodotta con cosce di suini nazionali allevati secondo disciplinare di produzione, e sale. La selezione 30 e lode deve il suo pregio alla lunga stagionatura nell’antica cantina di famiglia dove solo i migliori prosciutti raggiungono almeno i 26 mesi di stagionatura. La fetta si presenta di colore rosso mattone chiaro, con un giusto equilibrio fra grasso e magro, delicatamente marezzata. Il sapore è dolce e delicato, molto profumato e con note di tostato. cod 79158 | peso 11 kg circa

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Pregi o difetti? 1 | GLI STRUMENTI Per affettare un prosciutto a mano servono: un tagliere; una morsa per tenere bloccato il prosciutto (cod 98061); una coltellina a lama lunga, sottile e flessibile (cod 98095), liscia o alveolata, per ottenere delle fette omogenee; un coltello a lama corta e robusta per la pulizia del prosciutto; per chi ha già buona esperienza nel taglio a mano è possibile utilizzare delle coltelline di lunghezze diverse per andare a lavorare agevolmente anche le parti più vicine all’osso, riducendo lo scarto al minimo.

Il grasso di colore giallo o le macchioline di sangue sono delle imperfezioni che possono essere facilmente rimosse. I granelli di tirosina, invece non sono un difetto ma identificano i prodotti più stagionati!

2 | IL LATO CORRETTO Consigliamo di far partire la degustazione della culatta, la fascia più distante dall’osso; rappresenta la parte più pregiata del prosciutto e ne esprime al meglio tutti i sapori. 3 | PULIZIA E POSIZIONAMENTO Prima di posizionare il prosciutto sulla morsa, rimuovere l’anchetta, un piccolo osso piatto posizionato vicino all’osso centrale: applicare un’incisione lungo il perimetro, quindi sollevare e recidere l’attaccatura. Successivamente rimuovere la cotenna e la sugna. In questa fase è importante non eccedere con la pulizia: la cotenna funge da protezione per il prosciutto quindi basterà rimuoverla solo nella parte che si andrà ad affettare, così anche per la sugna la quale si elimina facilmente raschiandola via. Infine, ci raccomandiamo di non rimuovere troppo grasso per garantire il bilanciamento del sapore e di fermare la pulizia non appena il grasso rivelerà una colorazione rosata o bianca. 4 | IL TAGLIO Per rendere più pratiche le operazioni, è possibile praticare un’incisione verticale vicino al gambetto così che con il taglio si formi un angolo retto. Tagliare quindi le fette di prosciutto con la coltellina, tenendola di piatto ed esercitando un leggero movimento a “sega” che interessi tutta la larghezza del prosciutto, facendo attenzione a non esporre le mani alla traiettoria della coltellina. La fetta deve essere sottile, con il proprio strato di grasso, così che il cliente possa assaporarla al meglio. Tagliare dal lato della culatta fino a raggiugere l’osso, quindi girare il prosciutto e riprendere dalla parte del fiocco. 5 | LA CONSERVAZIONE Se avete la necessità di conservare il prodotto per un riutilizzo successivo, è consigliabile coprire solo la parte esposta con della pellicola trasparente e riporre il prosciutto in una zona refrigerata; alla successiva occasione di taglio basterà eliminare la prima fetta. Se il riutilizzo, invece, avrà luogo dopo più di qualche settimana è meglio disossare e mettere sottovuoto l’intero pezzo.

Del maiale non si butta niente! Le carni più vicine all’osso possono essere rimosse con il coltello dalla lama robusta per poi riutilizzarle in cucina. L’osso, tagliato in pezzi, è ottimo per la cottura di gustosi brodi.


sostenibilità e ambiente

tre cime: latte fieno e gestione sostenibile Ci piaceva l’idea di dedicare una rubrica del nostro magazine alla responsabilità sociale d’impresa, un tema di cui finalmente si sta iniziando a parlare seriamente e che sta contagiando tante realtà, grandi e piccole.

Una di queste aziende è Tre Cime Mondolatte, che a fine anno ha condiviso con noi un report interessante.

L’obiettivo è quello di dare valore a un’economia orientata non solo al profitto ma al bene-essere: delle persone che lavorano in azienda, della comunità e del territorio in cui l’azienda si colloca, degli animali e in generale della società. Riportare l’etica in primo piano, con l’idea di lasciare alle generazioni future un ambiente e una società “sani”.

Una ricerca promossa dalla Federazione Latterie Alto Adige - di cui Tre Cime Mondolatte fa parte - in collaborazione con l’Università di Bolzano, sulla gestione sostenibile del settore lattiero caseario altoatesino

Tra i nostri produttori ci sono molti casi di eccellenza, moltissime storie da raccontare che da anni hanno sposato questo approccio. Non per seguire la moda manageriale del momento, ma perchè credono davvero nel rispetto del benessere animale e sociale e nell’equilibrio tra economia ed ecologia.

La ricerca ha coinvolto 5.000 agricoltori di montagna, soci e fornitori delle latterie altoatesine organizzate in cooperative. L’attività lattiero-casearia è la zootecnia

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Scarica il report della ricerca in pdf dal sito della Federazione Latterie Alto Adige www.altoadigelatte.com

di eccellenza delle zone montane, in un paesaggio caratterizzato da più di 350 vette oltre i 3000 metri. Gli alpeggi e i prati che caratterizzano il territorio sono il frutto del lavoro di generazioni di produttori di latte. Un lavoro da tutelare, perchè preservare i borghi rurali significa assicurare la cura costante del paesaggio coltivato, la perpetuazione delle tradizioni, degli usi e dei costumi, e garantire un futuro a questi luoghi. Prati e pascoli sono risorse preziose da difendere: la biodiversità viene promossa attraverso la gestione dei prati magri, caratterizzati da 30-80 specie vegetali (tra cui Salvia pratensins, Bromus erectus, Briza media) e dei pascoli alpini ricchi di specie diverse (30-50 specie vegetali tra cui Trisetum flavescens, Leucanthemum volgare, Arnica montana). Le zone foraggere vengono fertilizzate ricorrendo quasi esclusivamente a concimi naturali prodotti negli stessi masi di


novità

montagna, rinunciando all’uso di fertilizzanti minerali ed erbicidi e riducendo il numero di capi per ettaro, secondo i vincoli previsti dai contratti agroambientali nell’ambito del piano di sviluppo rurale della provincia di Bolzano.

Su un suolo sano crescono piante sane che fungono da alimento per vacche sane, e animali sani assicurano la produzione di un latte sano

Da qualche anno Tre Cime Mondolatte ha aderito al

Progetto “Latte Fieno”, specialità tradizionale garantita (STG) dal 2016.

fenum | latte fieno Morbida caciottina a latte intero dalla consistenza morbida, piacevolmente dolce, cremosa e solubile al palato cod 31156 | peso 500 g

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Il 30% delle aziende si occupa anche di silvicoltura e gestione forestale, contribuendo alla conservazione della superficie boschiva. Un terzo delle aziende produce energia verde, con impianti di biogas, fotovoltaico e impianti di cogenerazione. Responsabilità ambientale significa infatti anche preservare le risorse - suolo, acqua, energia - evitandone uno sfruttamento eccessivo.

ortus | latte fieno

Un altro trend da segnalare è la crescita del biologico: il 5% delle aziende agricole segue i criteri della produzione biologica e questa tendenza è in aumento.

Formaggio morbido da taglio a latte vaccino speziato con pomodoro e aglio orsino, delizioso fuso cod 31157 | peso 2 kg

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Il disciplinare richiede che il latte venga prodotto da animali nutriti prevalentemente con erba fresca in estate e fieno in inverno, secondo il ritmo delle stagioni (almeno il 75% della razione annua di mangime secco). Sembra scontato, ma in realtà non lo è affatto. La dieta dei bovini, a partire dal dopoguerra, ha subito una radicale trasformazione e in tanti allevamenti i bovini vengono nutriti con mangimi industriali, miscele di mais e soia (spesso OGM) e insilati (foraggi fermentati). Il latte da fieno recupera la forma più tradizionale della produzione lattiera: da secoli d’estate i contadini mandano il bestiame in alpeggio; l’erba viene falciata, seccata e il fieno ottenuto viene portato nel maso per l’inverno. Con la lavorazione dei prati viene salvaguardato il paesaggio e promossa la biodiversità. Inoltre, la grande varietà di erbe che le vacche mangiano conferiscono al latte un’inconfondibile ricchezza di aromi. D’inverno le vacche sono alimentate prevalentemente con fieno, integrato con piccole quantità di crusca, di cereali e piante proteiche, rinunciando a insilati e mangimi OGM.


La Franche-Comté e i suoi tesori

geografia del gusto

Sei puntate sulla cultura casearia della Francia, iniziando da una regione che condivide molti usi e costumi con la Svizzera

Alessandro De Conto, laureato in Ingegneria ma appassionato di formaggi, in Valsana si occupa di selezione ed è Responsabile dell’Export

Ricordo con il sorriso quando al secondo anno di studi universitari cominciavo ad avere i primi dubbi sul fatto che l’ingegneria facesse al caso mio e sognavo un’iscrizione alla facoltà di geografia. Ritrovarmi ora a curare una rubrica geografico-casearia mi fa sorridere ancora di più. Tuttavia l’obiettivo di questi articoli non sarà certo raccontarvi le mie peripezie universitarie che per altro sono un po’ datate, bensì provare a farvi viaggiare. Sì, avete capito bene, proprio viaggiare. Proverò a portarvi quindi Oltralpe, in Francia. Questo Paese condivide insieme all’Italia gran parte della cultura casearia europea e meglio del nostro paese ha saputo dare dignità e valore ai ruoli dell’allevatore, del casaro, dello stagionatore e del venditore (fromager). Per questo penso che valga la pena conoscerlo o quanto meno approfondire la sua produzione casearia, toccando di articolo in articolo sei regioni o aree diverse. Il movimento gastronomico apre sempre più le porte a ingredienti internazionali e non possiamo avere la presunzione di pensare che abbiamo “in casa” tutto ciò che ci serve. Senza contare che ci precluderemmo la possibilità di assaggiare sapori straordinari.

Proprio alle pendici del Jura si produce da oltre mille anni il Comté e molto più recentemente il Morbier e il Mont d’Or. Prima dicevo che la regione in questione condivide molti usi e costumi con la Svizzera, la cultura casearia non è esclusa. Il Comté è figlio del Gruyere infatti (un tempo veniva chiamato Gruyere di Comté) ma, ancora prima, di un sistema monastico che a partire dal 600 d.C cominciò a presidiare le montagne rendendole “pascolabili” e quindi produttive. Il clima della zona, tra i più rigidi d’ Europa, e quindi il bisogno dell’uomo di avere riserve di cibo sostanziose e capaci di conservarsi per tutta la stagione invernale, hanno fatto il resto. Il formaggio ha preso quindi una dimensione importante, dal peso di circa 25/30 kg, un’umidità di pasta ridotta fino al punto da potergli consentire di stagionare a lungo e una materia grassa tale da offrire un apporto calorico soddisfacente. Oggi è il formaggio più venduto in Francia, a pasta cotta e pressata e rigorosamente a latte vaccino crudo da razze Simmenthal e Montbeliarde; è frutto di una filiera produttiva che mette insieme allevatori, produttori (fruitière, che fanno fruttare cioè il latte dei conferenti) e stagionatori (affineur). Per produrre una forma servono circa 450 litri e 4 mesi di stagionatura minima, la produzione è concentrata soprattutto nei mesi primaverili ed estivi, ma vista la domanda il prodotto viene fatto tutto l’anno. Tuttavia alcuni affinatori hanno saputo sapientemente “sfruttare” la stagionalità del prodotto e hanno cominciato a selezionare delle “riserve”, individuando le produzioni migliori dell’anno, così come ha fatto Marcel Petite. Ed è anche per questo che i tre Comtè in assortimento portano la sua firma. Uno più semplice, il Rouge, e due sicuramente più complessi, stagionati all’interno del Fort St.Antoine, baluardo difensivo di fine ottocento che ha tra i suoi tunnel un microclima fantastico per la stagionatura di formaggi.

Un viaggio nella regione che ha dato i natali al formaggio più venduto di Francia

Cominciamo dall’area della Franche-Comté, parte occidentale della regione Bourgogne-Franche Comté, che si appoggia a est su tutto il versante svizzero occidentale e con il paese elvetico condivide anche molti capisaldi culturali. Dal punto di vista geo-morfologico potremmo dire brevemente che si tratta di una zona montuosa di media altitudine. Le catene montuose principali (Massicio del Jura e Massiccio dei Vosgi) sono separate da pendii collinari e profonde vallate.

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Il primo è il Comtè Rouge, con i suoi 7/8 mesi di stagionatura rappresenta una valida alternativa per fondute, farcitura panini o preparazioni dove serva un formaggio da abbinare a frutta di buona acidità, pomodori secchi o addirittura zenzero essiccato oppure ananas. Questa multivalenza è data dalla fine complessità aromatica del Comtè, pensate che per descrivere il suo sapore sono stati utilizzati oltre 80 termini. I due esemplari più raffinati sono senz’altro il Comtè Fort St.Antoine 16-24 mesi (Symphonie) e il Comtè St.Antoine stagionato oltre 30 mesi (Plenitude). Solo le forme migliori arrivano al forte e secondo selezioni rigorose vengono indirizzate a livelli diversi di maturazione. Nella versione più giovane ritroviamo tutto ciò che attendiamo: sentori di burro cotto, pascolo e ancora caramella

mou, nocciola, noce e persino ananas. Un formaggio di alta classe. Ben più raro il Plenitude, riusciamo ad averne 5/6 forme all’anno, la pasta è più asciutta e presenta ben evidenti cristalli di tirosina. Il sapore è molto più sapido e vegetale (carciofo e porro), con sentori di castagna, nocciola e vaniglia. Raffinatissimo e adatto a qualsiasi piatto. Passiamo ora velocemente al Morbier, formaggio nato dalla necessità di lavorare le parti di cagliata di fondo caldaia, che non bastavano per riempire un altro stampo per il Comtè. Questo è il motivo per cui la cagliata di una lavorazione, spesso scarsa, veniva ricoperta e protetta da un sottile strato di cenere in attesa della cagliata del giorno dopo che veniva sopraggiunta. La texture è untuosa e burrosa, l’occhiatura rada a occhio di pernice. Ora la cenere è stata rimpiazzata dal carbone vegetale e la produzione viene fatta nello stesso giorno. Il sapore ricorda

il burro cotto e riporta sentori floreali e di frutta tostata. Da provare come formaggio da Raclette, tuttavia ottimo come formaggio da tagliere. Dulcis in fundo troviamo il Mont d’Or, altro formaggio che divide i suoi natali con la Svizzera: tutt’oggi troviamo sul mercato due versioni, entrambe DOP, quella francese ( latte crudo) e quella svizzera (latte termizzato). Rimane un formaggio di montagna che ha tre particolarità: la fascia di abete che lo cinge e lo contiene, la sua modalità di utilizzo che prevede un passaggio in forno a 180°C per 25 minuti prima di degustarlo e infine la sua stagionalità produttiva. Viene fatto storicamente solo nei mesi autunnali e invernali, e il suo periodo di vendita è regolamentato, lo trovate su prenotazione solo dalla fine di settembre a fine aprile, non fatevi quindi venir voglia di Mont d’Or quest’estate!

Franche-Comtè

comtè aoc Cyclamen Rouge cod 46738 | peso 40 kg ca disponibile anche 1/16

comtè aoc fort st antoine

Morbier cod 46742 | peso 6 kg circa disponibile anche 1/4

MONT d’or cod 44470 | peso 360g circa

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46747 | stag. 16/24 mesi 46749 | stagionato 30 mesi 32 kg | anche 1/16


Bocconi di storia

di che mortadella sei? La mortadella: un insaccato di lusso diventato “pop”

Danilo Gasparini è docente di Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione all’Università di Padova e al Master in Cultura del cibo e del vino di Ca’ Foscari ed è ospite e consulente fisso per Geo&Geo su Rai 3

Potremmo partire con un aforisma: “Se il Prosciutto è il re dei salumi, la Mortadella ne è la Regina”. Ma si sta presto a dire mortadella. Mozart avrebbe cantato: “Madamina il catalogo è questo”: mortadella di Bologna, mortadella di Prato, mortadella umbra, mortadella della Val d’Ossola, mortadella delle Apuane, mortadella nostrale di Cardoso, mortadella di Camaiore (sbriciolona), mortadella Trequandina, mortadella di Amatrice, mortadella di Accumuli, mortadella di Campotosto, mortadella romana, mortadella viterbese. Ma ne esistono anche altre, a carne cruda, con il fegato: la Mortadella de fidigh o fidighina (Lombardia), Mortadella di fegato al vin brulé (basso milanese e Varese), Fideghin o Fideghina (Piemonte) mortadella d’Orta… ma anche la mortandela della Val di Non. Nel nostro comune e quotidiano immaginario culinario quando parliamo di Mortadella non abbiamo dubbi: pensiamo a Bologna… la grassa. E non ci può non tornare alla mente il film di Mario Monicelli, La mortadella, con Sophia Loren e Gigi Proietti, o la conturbante immagine di Valeria Marini seduta sopra una mortadella gigante nel trailer del contestato film Bambola di Bigas Luna.

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Come si suol dire: è una porca storia. Per capire il motivo dell’attribuzione del nome di mortadella a questa serie di salumi, si deve sapere che nel passato, con il termine “mortadella”, si intendeva un insaccato fatto con un impasto ottenuto lavorando la carne a taglio grossolano.

“Si dice infatti che risalga all’antica Roma, dove si narra fosse in uso tritare la carne del maiale per poi pestarla nel mortaio, attrezzo da cui deriva appunto la parola” Sul nome tanti discorsi! Sembra abbia lontane origini, si dice infatti che risalga all’antica Roma dove si narra fosse in uso tritare la carne del maiale per poi pestarla nel “mortaio”, attrezzo da cui deriva appunto la parola, aggiungendo infine bacche di mirto per garantire la conservazione della carne, che pare venisse gustata cruda. Veniva chiamata per questo anche Myrtatum o Muratrum. Ma fu il Medioevo il periodo storico che vide il progressivo affermarsi dell’insaccato in generale e della mortadella in particolare, dunque un genere di cibi che consentivano una prolungata loro conservazione.


Nei ricettari del 1300 e 1400 troviamo vari tipi di mortadelle fatte con carne di maiale cruda. Della mortadella cruda scrive per primo Maestro Martino de Rossi, detto da Como, e dopo di lui Cristoforo da Messisbugo (1549) e Francesco Leonardi (1790), il quale intitola una sua ricetta “Mortadella delle Spianate”. Dal Seicento si preferì cuocerla con l’aggiunta di grani di pepe.

Fig. 1 Bando sopra la fabbricazione delle mortadelle, 1661

Bologna divenne la città d’elezione di questo insaccato. I salaroli bolognesi elaborarono una loro particolare ricetta, concedendo anche ai lardaroli di poterne fabbricare in città, una volta seguite le rigide norme che prevedevano l’impiego di “carne elettissima”. Appositi cardinalizi (Bologna faceva parte dello Stato Pontificio… un ossimoro!) Bandi sopra la fabbricazione delle mortadelle ne regolavano la produzione: il primo è del 1661, dopo che l’agronomo bolognese Vincenzo Tanara ne aveva fissato la produzione. E se gli altri salumi soggiacevano a un prezzo calmierato, le mortadelle avevano libertà di prezzo e nel banco di vendita dovevano essere separate dagli altri salumi e contrassegnate con “un sigillo di Cera di Spagna dell’arte de’ Salaroli”. Nasce e resterà per molto tempo un insaccato di lusso, nobile, per diventare nel corso del Novecento un insaccato… diciamo pop. Chi porta sulle spalle come me an cin di stagioni si ricorda benissimo come la mortadella arrivò nelle nostre mense contadine negli anni ’60 come qualcosa di esotico rispetto al più familiare salame. Era festa! Ci saranno anche scandali a essa legati e a volte la parola mortadella è usata ancor oggi in termini spregiativi nei confronti delle persone! Non vita facile: anche salutisti e nutrizionisti cercheranno di demonizzarla. A Cento, nel 2007, si celebrerà un gustoso processo con una sentenza… scontata: la nostra “parentesi rosa sulla parola porco” verrà assolta. La nascita del disciplinare Nel frattempo, nel 1998, La Mortadella Bologna era stata riconosciuta come prodotto IGP e, da allora, viene prodotta secondo un rigido disciplinare che identifica un’area di produzione abbastanza vasta che comprende l’Emilia-Romagna, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, la Toscana, le Marche, il Lazio e la Provincia di Trento.

mortadella artigianquality

Abbinamenti Gustiamola nel più semplice dei modi, con un panino croccante, abbiniamola poi, anche nel rispetto delle tradizioni regionali, con un Lambrusco - ma bene si abbinano anche una Barbera vivace o una Bonarda - o come si praticava anni fa tra i delicati discepoli di Slow Food, con uno spumante metodo classico o uno Champagne. E così la nobilitiamo per quello che è stata per secoli: un aristocratico insaccato.

Mortadella prodotta esclusivamente con carni di suini di provenienza nazionale, secondo la ricetta classica di Bologna. La fetta è di un bel colore rosato e presenta una macinatura omogena. Dolce e delicata, con una speziatura ben bilanciata cod 78763 | peso 7 kg circa VALSANA | 21


esperimenti con il rascard

OSIAMO L’ABBINAMENTO

In ogni numero un protagonista diverso con quattro tipologie di abbinamento: partiamo con il Rascard! Anno nuovo, formaggio nuovo, abbinamento nuovo. Anche se il Rascard è un formaggio giovane, non di stagionatura ma di scoperta, si sta già ritagliando il proprio spazio nel mondo delle croste lavate. L’autore in questo caso è Nicoletta, che non è un produttore bensì un affinatore in Valle d’Aosta. Questo ruolo in Francia è ben definito e consolidato, mentre in Italia stiamo sviluppando e diffondendo questa consapevolezza dell’importanza dell’impronta di chi stagiona.

Matteo De Santi è Laureato in Economia Aziendale a Pisa, ha frequentato il Master in Cultura del Cibo e del Vino di Ca’ Foscari ed è Export Manager in Valsana

a una fontina. I fermenti selezionati invece apportano la nota erbacea/acidula tipica, infine il lavaggio in crosta ci regala l’aroma di cantina e di lievito. In realtà il nome Rascard fa riferimento alle costruzioni tipiche delle zone della Val d’Ayas e della Valle del Lys, che principalmente venivano usate per la conservazione dei cereali e pensate per evitare formazione di umidità o attacco di roditori.

Le mani di chi affina il formaggio sono uno dei fattori critici sul risultato; sì certo la qualità del latte è fondamentale come lo è anche il processo di lavorazione, ma provate a pensare soltanto come da una stessa forma si possano ottenere dei sapori e consistenze diverse a seconda della sua gestione durante “l’invecchiamento” e quindi fermentazione. Nello specifico questo è uno di quei casi in cui l’esigenza di smussare i profili gustativi “selvatici” di un latte ha portato Nicoletta alla scoperta di questo formaggio. L’aspetto può ricordare una fontina, ma il gusto è molto più simile al Montagnard e queste sono le caratteristiche principali: latte crudo, pasta pressata non cotta, crosta lavata, no conservanti o additivi. In particolare il Rascard viene prodotto con latte appena munto da vacche alimentate a pascolo di montagna, che conferisce dolcezza e note di burro cotto ed è quindi più delicato rispetto

rascard Formaggio a latte crudo e crosta lavata, dal sapore dolce, burroso e fondente codice 31218 | peso 8,5 kg circa disponibile anche 1/2 e 1/4

Il produttore Nicoletta è un’azienda che si occupa dal 1988 della stagionatura di formaggi tipici della Valle d’Aosta. Una famiglia di affinatori che ricerca sul territorio valdostano i migliori formaggi e li porta a maturazione. Non ci sono codici precisi, il lavoro va a sensazione, in base alla sensibilità e all’esperienza dell’affinatore. E’ questa la bravura di Paolo, ora affiancato dal figlio Giacomo, un ragazzo innamorato del suo lavoro, a cui brillano gli occhi quando parla dei suoi formaggi.

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NEL BICCHIERE Ok il Rascard è dolce e piuttosto floreale, ma non siate troppo morbidi con l’abbinamento, è comunque un formaggio deciso, con una sua personalità. Quindi io vi consiglierei di abbinarci una bevanda con note “calde” come una birra scura, con un buon corpo e retrogusti floreali invernali come aghi di pino, resina o castagne. Se fossi un vino invece e volessi godere della compagnia di questo formaggio probabilmente non vorrei dargliela vinta in una gara di forza, quindi sarei un bel rosso, magari con note di barrique, magari del sud, magari dell’Etna. Nel piatto Grazie alla sua pasta elastica diventa malleabile nell’utilizzo, ma suggerisco di sfruttare la sua capacità di fondere facilmente, per esempio considerandolo in un mix per la fonduta, oppure amabilissimo con la polenta, ma anche adatto a ripieno per arrosti. Io l’ho provato con gli gnocchi allentandolo con un po’ di latte, aggiungendo chiodini e infine fuori fuoco qualche ciuffo spezzettato di radicchio di Treviso… laido quanto basta. Dal Campo Con l’intenzione di creare un confronto diretto, semplice, ma efficace, ho pensato di puntare per questa sezione ad un solo elemento di abbinamento, in questo caso un frutto. Ne ho scelto uno della valle d’Aosta, la pera Martin sec, giocando un po’ con il contrasto tra consistenza e sapori: elastico e floreale con nota erbacea il Rascard, croccante e dolce con nota acidula la pera. Un consiglio in più Premetto che per me il pane, è fondamentale, non può mai mancare in tavola e non riesco a non parlarne fino a diventare quasi noioso. Mi piace pensare che ci sia un abbinamento di pane per ogni tipo di formaggio/salume dovuto a diverse consistenze e profumi. Basta pensare come in Toscana il pane sia senza sale proprio perché di sale non ne manca nei salumi o nei pecorini. Dante nella Divina Commedia quando gli annunciarono il futuro esilio descrisse l’angoscia che avrebbe provato con questa frase: “Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, ...” Nel dettaglio il toscano detto sciapo è un pane di grano tenero tipo “0” che si contraddistingue non solo per l’assenza di sale, ma anche per la leggera acidità della pasta. Beh io per il Rascard non ho resistito a tagliarlo a fette sottili, adagiarle su una fetta di pane toscano caldo con un po’ di pepe macinato fresco sopra … perché il pane Toscano? Perché si completano come una giornata stressante e un bicchiere di vino.


SEMPLICITA’ #senzastress

NOTIZIE la cucina DA di VALSANA qb

La ricerca della semplicità in un menù che vede protagonista un filetto di merluzzo elaborato con soluzioni alternative Cucinare è una delle attività più rilassanti che conosco eppure spesso alla parola “cucina” si associa l’esclamazione “non ho tempo!”, come se una cena o un pranzo in famiglia fossero uno degli eventi che affrontava François Vatel, cuoco e pasticcere alla corte di Luigi XIV. Ci assale una sorta di ansia da prestazione, con una mistery box e un pressure test al posto del fornelli. Relax! Ecco la parola d’ordine per l’inizio del 2019, più divertente del mantra #detox (che ci riempie di sensi di colpa) e anche dell’hashtag #serenità, in quanto il bello di un pranzo o di una cena in famiglia è proprio la famiglia, comunque sia composta, e la compagnia delle persone che amiamo e che, spesso, ci sopportano. Si diceva mancanza di tempo e di serenità, valori ed emozioni che possiamo ottenere in abbondanza grazie a una spesa più attenta e a un minimo di programmazione, quello che nelle cucine professionali viene definita “linea”. Qualche esempio? Il giorno che abbiamo deciso di preparare una teglia di lasagne raddoppiamo le dosi, così da tenerne in congelatore una scorta sempre pronta (da non far invecchiare come una bottiglia di Amarone, mi raccomando: tre mesi di parcheggio nel freezer sono più che sufficienti). Dal fruttivendolo acquistiamo qualche etto di broccolo o di cavolo in più così da avere a disposizione le cimette pulite, che saranno pronte con pochi minuti di cottura a vapore, mentre la parte più coriacea, ugualmente edibile e ricchissima di fibre e sali minerali, con 15’ di pentola a pressione ed un buon frullatore ad immersione, ci donerà una vellutata da arricchire con qualche crostino di pane appena saltato nell’olio extravergine. Una parentesi a parte merita il pesce, che spesso imbarazza, in quanto squamare o sfilettare sono azioni non alla portata di tutti, e restano così lontani dalle nostre tavole valori nutritivi indispensabili. In commercio fortunatamente esistono prodotti di assoluta qualità, non solo già puliti ma anche già cotti, meglio se al vapore, che ci riconcilieranno con la nostra ansia.

filetto di merluzzo Filetto di merluzzo cotto al vapore, dal sapore delicato, molto versatile in cucina

Il menù di questo numero, per un 2019 che vedrà la cucina dei #senza protagonista assoluta, è quindi un omaggio all’equilibrio e al gusto, ma senza eccessi e senza stress, prendendo spunto da una delle massime preferite dal popolo dei naviganti, quasi una metafora della vita: “Tutto quello che è semplice funziona”.

cod 94086 | peso 130 g circa VALSANA | 24

Anna Maria è cuoca e foodblogger. La sua ricerca è volta alla qualità e identità della materia prima, che presuppone lo studio della storia degli ingredienti, nella consapevolezza che il cibo è parte fondamentale dell’identità di un popolo


Il pecorino grattugiato sostituisce il sale!

FISH & CHIPS Trump, Obama, Bush, Clinton, Bush padre, Reagan, Carter, Ford, NIxon, Kennedy, Eisenhower, Truman: tredici Presidenti (USA) ed un’unica Queen. Che il segreto di Elisabetta stia tutto nell’inglesissimo street-food da servire con un newspaper fresco di stampa? La nostra proposta è salubre e veloce, con la sapidità regalata dal formaggio, che si accompagna a una salsina leggera leggera. TEMPO: 45’ più il riposo e 25’ cottura Ingredienti PER 4 PERSONE

400 g di filetto di merluzzo 100 ml di latte bollente 2 patate gialle 2 cucchiai di pecorino grattugiato 1 tuorlo

1 panino, la mollica 1 cipolla 1 limone bio, le zeste 1 cucchiaio di prezzemolo tritato tabasco, qualche goccia sale pepe nero macinato al momento olio evo delicato o olio di semi di vinacciolo per friggere pane grattugiato, se serve Per la salsa: yogurt greco, senape, qualche goccia di tabasco, miele di acacia, un pizzico di sale e un cucchiaino di aneto: mescolate gli ingredienti a gusto e servite in ciotoline. Affettate finemente la cipolla e fatela appassire con un cucchiaio d’olio evo e uno di acqua. Lavate bene le patate, spazzolandole, affettatele finemente con la mandolina ed immergetele in una ciotola di acqua fredda. VALSANA | 25 VALSANA | 25

Tagliate a tocchetti la mollica del pane e lasciatela un minuto nel latte bollente, strizzatela e trasferitela nel frullatore con i filetti di merluzzo. In una ciotola unite il pesce frullato, la cipolla cotta, il formaggio, il prezzemolo tritato, il tuorlo, le zeste, qualche goccia di tabasco, regolate di sale (ma il formaggio dovrebbe essere sufficiente), mescolate bene, aggiungete un cucchiaio di pane grattugiato se necessario e fate riposare in frigorifero per 15’. Formate delle piccole polpette, aiutandovi con un porzionatore da gelato, che friggerete nell’olio già caldo a 170°. Tenete al caldo in forno e nel frattempo friggete le chips, asciugando l’olio in eccesso su carta assorbente. Servite fish e chips con la salsa.


Cous-cous integrale con radicchio, merluzzo e feta Come la chiamate voi la schiscetta? Ma si, un piatto completo da preparare in anticipo e portare in ufficio oppure a scuola? Comunque lo chiamiate l’importante è che sia buono, sano e leggero. E visto che siete stati bravi nella preparazione vi potrete regalare anche un buon frutto. E buon appetito!

la cucina qb NOTIZIE DA di VALSANA

tEMPO 50 MINUTI Ingredienti PER 4 PERSONE

400 g di filetto di merluzzo 200 g di couscous 1 cucchiaio di mandorle a lamelle 1 spicchio d’aglio in camicia 1 cucchiaio di basilico tritato 1 cipolla di tropea 2 cucchiai di feta brodo vegetale (sedano, carota, cipolla, 1 foglia di alloro, 2 chiodi di garofano) 1/2 bicchiere di vino bianco secco olio evo sale pepe nero macinato al momento

Un piatto buono, sano e leggero, ma soprattutto completo!

Mondate le verdure, steccate la cipolla con la foglia di alloro e i chiodi di garofano e preparate un brodo vegetale, anche con la pentola a pressione. Tagliate il basilico con la forbice. Mondate il radicchio e tagliatelo a julienne. Affettate la cipolla rossa. In una padella antiaderente tostate le mandorle e mettetele da parte. Nella stessa padella profumate due cucchiai di olio evo con lo spicchio d’aglio in camicia, eliminatelo, unite la cipolla e dopo qualche minuto il radicchio. Continuate la cottura a fuoco vivace per pochi minuti. Regolate di sale e di pepe. Nel frattempo, in un’altra casseruola, scaldate due cucchiai di olio evo, trasferite i filetti di pesce, sfumate con il vino bianco e fatelo evaporare a fuoco vivace scuotendo la padella. Profumate con il pepe. Fate rinvenire il couscous nel brodo bollente, secondo le indicazioni del produttore, sgranatelo con un cucchiaio d’olio e mescolatelo al basilico. Unite il radicchio ed infine, spezzettandolo grossolanamente, il merluzzo e terminate spolverando con la feta e le mandorle.

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FILETTO DI MERLUZZO CON PANATURA ESPRESSA E VERDURE A VAPORE Un secondo piatto veloce e a tutta salute: le verdure, rese croccanti dalla breve cottura al vapore, manterranno alti i loro valori di vitamina C ed accompagneranno i filetti di merluzzo golosamente impanati ma non fritti. Tante fibre, poche calorie, mucho gusto. TEMPO 25 MINUTI Ingredienti PER 4 PERSONe

2 filetti di merluzzo al naturale, circa 250 g 50 g di erbette aromatiche a gusto (aneto, menta, timo, rosmarino, menta) 4 fette di pane a cassetta o mollica di pane bianco (tipo pane al latte o all’olio, mantovanine, ecc) 6 scalogni 300 g di cavoletti di Bruxelles 20 g di burro salato 1 cucchiaio di olio evo 1/2 cucchiaino di curcuma sale pepe nero macinato al momento Mondare le verdure: tagliate a metà i cavoletti ed a spicchi gli scalogni. Trasferite i primi in un vassoio forato e cucinateli a vapore a 100° per circa 5’, aggiungete i secondi e continuate la cottura per altri 5’. Mettete da parte e condite con un filo di olio evo ed un cucchiaino di erbette tritate, se gradite. Nel frattempo avrete tostato sotto il grill il pane, frullatelo con le erbette e la curcuma così da ottenere una panure aromatica. Spadellatela per 3’ minuti con il burro a fuoco vivace. Dividete i filetti a metà, che potrete servire a temperatura ambiente oppure passandoli nel forno a vapore per 2’, copriteli con la panatura aromatica e serviteli con le verdure già condite.

La panatura è un’alternativa light alla frittura!

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