R A S S E G N A I N T E R N A Z I O N A L E D I S C U LT U R A E P I T T U R A I N S I C I L I A
II RASSEGNA INTERNAZIONALE DI SCULTURA E PITTURA IN SICILIA www.ilmitocontemporaneo.it
Evento promosso dall’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana PO FESR Sicilia 2007 - 2013 - Linea di intervento 3.3.1.1
ENTE PROMOTORE ASSESSORATO TURISMO, SPORT E SPETTACOLO REGIONE SICILIANA Daniele Tranchida Assessore Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana Marco Salerno Dirigente Generale Dipartimento Regionale al Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana Salvatore Presti Direttore Artistico “Il Circuito del Mito” Filippo Nasca Dirigente Servizio Turistico Palermo Regione Siciliana MA Service s.r.l. Ente Attuatore Massimiliano Simoni Art Director Il Mito Contemporaneo
Evento promosso dall’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana PO FESR Sicilia 2007 – 2013 - Linea di intervento 3.3.1.1
Regione Siciliana Assessorato del Turismo dello Sport e dello Spettacolo
Si ringraziano Sebastiano Missineo Assessore Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana Gesualdo Campo Dirigente Generale Dipartimento Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana Sergio Aguglia Dirigente Servizio Parco Archeologico di Segesta e delle aree archeologiche di Calatafimi Segesta e dei Comuni limitrofi Maria Costanza Lentini Dirigente Servizio Parco Archeologico di Naxos e delle aree archeologiche di Giardini Naxos, Taormina, Francavilla e dei Comuni limitrofi Umberto Spigo Dirigente Servizio Parco archeologico delle Isole Eolie e delle aree archeologiche di Milazzo, Patti e dei Comuni limitrofi Michele Benfari Dirigente Servizio Museo Archeologico Regionale Eoliano “Luigi Bernabo’ Brea” Mauro Passalacqua Sindaco di Taormina Antonella Garipoli Assessore alla Cultura Comune di Taormina Girolamo Fazio Sindaco di Trapani Ester Bonafede Sovrintendente FOSS - Teatro Politeama Garibaldi Salvatore Castiglione Presidente Airgest (Aeroporto di Trapani)
Unione Europea
in collaborazione con:
In collaborazione con: Trapani - Segesta
Palermo
Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana Dipartimento dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana
Servizio Parco archeologico di Segesta e delle aree archeologiche di Catatafimi Segesta e dei Comuni limitrofi
Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell'Identità siciliana Dipartimento dei Beni Culturali e dell'Identità siciliana
Parco Archeologico delle Isole Eolie, di Milazzo Patti e dei Comuni limitrofi
Comune di Lipari
Lipari
Taormina
TAORMINA ex Chiesa di San Francesco di Paola Centro storico Parco archeologico di Naxos e delle aree archeologiche di Giardini Naxos Taormina, Francavilla e dei Comuni limitrofi 10 maggio - 8 luglio 2012
Taormina Via del Teatro Greco, 40 98039 Taormina info +39 0942 23220 - +39 0942 24291
ENTE ATTUATORE M.A. SERVICE s.r.l. Alessandro Marchetti Amministratore Unico Massimiliano Simoni Art Director Giulio Battaglini Project Leader Enrico Mattei Art Curator Andrea Berti Press Office Manager Francesca Caselli Secretary Valentina Bigicchi Producer
M.A. Service s.r.l. - Via Sarzanese, 303 55041 Capezzano Pianore - Camaiore (Lu) www.maservice.it info@maservice.it
Coordinamento generale e organizzazione Claudia Viola Assistente alla produzione Dalila Ardito
In collaborazione con: Eredi Gio’ Pomodoro (Antonietta Ferraris e Bruto Pomodoro) Archivio Gio’ Pomodoro - Milano
Assicurazione INA Assitalia ART&Collezioni Agenzia Generale di Viareggio Logistica e Allestimenti M.A. Service S.r.l. Trasporti Autrotrasporti Seardo di Giovannetti Adriano & C. S.n.c. Posizionamento e sicurezza opere Giorgio Angeli Si ringraziano per la gentile collaborazione la Stamperia d’Arte Edi Grafica R2B2, il Laboratorio marmo e granito Studio Giorgio Angeli; Onofrio Lasciato - Capo Segreteria Particolare; Bruno De Vita - Vicario del Capo di Gabinetto dell’Assessore al Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana; Eleonora Cacopardo - Assessore alla Cultura e al Turismo - Comune di Castelmona.
Grafica e cura editoriale Nicola Micieli Testi critici Luciano Caramel Enrico Mattei Gio’ Pomodoro Massimiliano Simoni Coordinamento cataloghi Enrico Mattei Fotografie © M.A. Service S.r.l. by Matteo Simoni Impaginazione e Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera
Il Mito Contemporaneo
GIO’ POMODORO
II R A S S E G N A I N T E R N A Z I O N A L E D I S C U LT U R A E P I T T U R A I N S I C I L I A II I N T E R N AT I O N A L E X H I B I T I O N O F S C U L P T U R E A N D PA I N T I N G I N S I C I LY
Art Director Massimiliano Simoni
................................................................................................................................................................................................................................................................................................. LIPARI TAORMINA TRAPANI/SEGESTA PALERMO
Gio’ Pomodoro Taormina
WWW.I LM ITOC O NTEMPO R ANE O.IT
Vivi, Scopri, Ama la Sicilia con Il Mito Contemporaneo....
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Prof. Daniele Tranchida Assessore Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana
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La Sicilia è uno scrigno di bellezze naturali, storiche e architettoniche. Un luogo magico, accogliente, crocevia, per secoli, di culture e di religioni. Il Circuito del Mito ideato da Franco Zeffirelli e diretto, nelle ultime edizioni, dal regista Salvatore Presti, nasce proprio per rilanciare questa identità dell’isola restituendole nuovo protagonismo culturale. Da qui l’attenzione anche all’arte contemporanea al centro di questa Rassegna Internazionale di Pittura e Scultura, una novità introdotta da questo assessorato e che, in questa seconda edizione, annovera quattro grandi artisti: Gio’ Pomodoro, Jiménez Deredia, Gian Marco Montesano e Pino Pinelli. Un calendario dentro il grande calendario de Il Circuito del Mito che si rivolge ad appassionati d’arte e di viaggi e che può essere utilizzato come “cartina”, “itinerario turistico” da seguire nella scoperta dell’isola, spaziando così da antichi centri storici a chiese medievali; dalla caledoscopica Palermo alla antica e vivace Trapani, da Lipari nello splendido arcipelago delle Eolie, a Taormina, meta obbligata nell’Ottocento del Grand Tour della giovane aristocrazia europea. Con un’opportunità rara: ammirare sotto una prospettiva nuova monumenti e aree archeologiche. Insieme: opere dell’antichità e del nostro tempo. Il teatro antico di Taormina diventa così spazio espositivo per le forme poliedriche di Gio’ Pomodoro, considerato uno dei maggiori scultori astratti del XX secolo e convinto assertore dell’importanza sociale dell’arte, mentre la strada che porta al tempio di Segesta, è la galleria en plein air delle opere realizzate dallo scultore costaricano Jiménez Deredia che, per l’occasione, ha ultimato Armonia, scultura in marmo di Carrara che rappresenta una donna distesa con una sfera tra le braccia, simbolo del cosmo e della vita. In linea con la prima edizione de Il Mito Contemporaneo, sono stati scelti artisti di fama internazionale e location di grande suggestione. A Palermo, i saloni dell’ottocentesco teatro Politeama ospitano il maestro Gian Marco Montesano con la sua pittura figurativa asciutta e le tele di varie dimensioni che raccontano il nostro passato prossimo: il Novecento e le “storie della Storia” che lo hanno caratterizzato, a cominciare dal senso di smarrimento di fronte alla distruzione della guerra. Infine, nell’area archeologica di Lipari in mostra c’è il lavoro di 40 anni di Pino Pinelli, pittore e scultore di origine catanese, affermato in tutta Europa, tra i principali interpreti della pittura analitica, tra gli allievi e seguaci di Fontana. Quattro artisti diversi tra loro ma accomunati dall’originalità che li contraddistingue. E che, ne siamo certi, saranno in grado di riaccendere, così come è stato per i grandi nomi della prima edizione de Il Mito Contemporaneo, i riflettori della stampa di settore e gli occhi di tanti visitatori. Sulla Sicilia, sulla sua ricchezza di beni culturali e ambientali. Ma soprattutto: sulla sua ambizione e capacità di tornare ad essere protagonista di questo tempo. In una parola, di essere essa stessa, Contemporanea.
Salvatore Presti Direttore Artistico Il Circuito del Mito
Terra delle domande fondanti sulla vita e sulla morte, la Sicilia è luogo filosofico per eccellenza, sospeso tra tragico e idilliaco, fra immaginazione e raziocinio. In cui, per dirla con una definizione di Salvatore Quasimodo, c’è una “permanenza della poesia”. Questa rassegna offre ad artisti italiani e stranieri, ispirazione e nuova linfa creativa e ai turisti un’occasione unica: l’emozione di scoprire, toccare con mano, questa “permanenza” attraverso un percorso originale che accosta il patrimonio storico e architettonico del passato all’arte contemporanea. È una formula già collaudata in diversi Paesi europei e sperimentata in Sicilia nella scorsa edizione de Il Circuito del Mito. Con successo. La prima Rassegna internazionale di Pittura e Scultura ha suscitato l’attenzione di oltre 5 milioni di utenti, tra visitatori reali, buyer, addetti ai lavori, giornalisti di settore. Insomma, con Il Mito Contemporaneo e con l’intero cartellone de Il Circuito del Mito, si è voluto dare spazio a una Sicilia che cambia, attenta alla velocità dei mutamenti, consapevole dei suoi limiti rispetto alla complessità del reale ma percettiva delle sue enormi potenzialità. Rispetto ai moduli interpretativi correnti, assai più aderente all’essenza di quest’isola è la definizione braudeliana della Sicilia come “continente in miniatura”, microcosmo che accoglie in forme miniaturizzate, ma nette, l’eredità di una storia lunghissima e complessa e in cui trovano spazio e ispirazione, artisti diversi e lontani tra loro – per cultura, formazione, modalità espressiva e appartenenza geografica – proprio come i protagonisti di questa rassegna: Gian Marco Montesano, Jiménez Deredia, Gio’ Pomodoro, Pino Pinelli. Interpretare questa complessità e soprattutto rintracciare quella “permanenza della poesia” attraverso la letteratura, la musica, il teatro, il cinema, la danza e l’arte in tutte le sue forme, per la comprensione della galassia - Sicilia, sono gli obiettivi che Il Circuito del Mito si propone. E che questa rassegna centra pienamente contribuendo a rafforzare il turismo culturale sull’isola.
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Dott. Arch. Antonella Garipoli Assessore alla Cultura Comune di Taormina
L’esperienza che ha visto la Città ospitare la prestigiosa scultura del Maestro Yasuda, esperienza per me esaltante ed elemento di crescita culturale, continua sempre all’interno del progetto Il Mito Contemporaneo. II Rassegna Internazionale di Scultura e Pittura in Sicilia, promossa dall’Assessorato Regionale Turismo, Sport e Spettacolo, le cui varie fasi si svolgono contemporaneamente in location diverse ma parimenti affascinanti. Questa odierna vede Palermo, Lipari, Trapani e Taormina ospitare grandi artisti, qui in particolare l’antologica del Maestro Gio’ Pomodoro, artista di fama mondiale che Taormina aveva già avuto l’onore di ospitare negli anni ’80 per realizzare il manifesto di Tao-Arte, e di cui io, come architetto, avevo potuto apprezzare negli anni di studio, le sue evoluzioni ed applicazioni nel campo dell’architettura: è stato, insomma, uno dei miei punti di riferimento culturale. Da lui, come da pochi altri tra cui Carlo Scarpa, mi sono nutrita dell’entusiasmo per la capacità dei materiali di svelare una realtà invisibile, più profonda; grande sperimentatore, fedele alla visione umanista del “fare scultura”, ci conferma che la scultura non ha un fine utilitaristico: l’utilitarismo e la omologazione impoveriscono il mondo e l’unica disciplina che può contrastarli è proprio la scultura. La scultura ha un compito importante per il futuro e mi riempie di orgoglio che la mia Città risponda positivamente a queste sperimentazioni, come la “mostra in piazza”, en plain air e noi politici abbiamo l’obbligo di individuare queste sperimentazioni e realizzare nel territorio. Ho certezza di memoria durevole di un momento di altissima cultura quale la mostra di Gio’ Pomodoro a Taormina, che si inserisce benissimo in questo luogo e in una catena di eventi di grande rilievo di cui costituisce uno dei punti più alti. Sono pertanto grata a quanti ci hanno aiutato a fare di questa occasione un momento di cultura e insieme di spettacolo che è, al di là di tutto, un momento di conoscenza dell’artista e del mondo quale risulta dalla sua riflessione. Si tratta di un percorso che dà un’immagine nuova e non consumata di opere di per sé note e riconosciute, che permettono di collocare l’evento, tra i momenti più alti della scultura contemporanea. Crediamo nel turismo culturale e ormai siamo partiti: saremo capaci di realizzare i nostri sogni…
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Taormina Sull’origine di Taormina (Tauromenion, Tauromenium) molte sono le notizie, ma incerte per documentazione e poco attendibili. Diodoro Siculo nel quattordicesimo libro attesta che i Siculi abitavano la rocca di Taormina, vivendo di agricoltura e di allevamento di bestiame, già prima dello sbarco dei Greci di Calcide Eubea nella baia di Taormina (753 a.C.), dove alle foci del fiume Alcantara, fondarono Naxos (odierna Giardini Naxos), la prima colonia greca di Sicilia. Dionisio di Siracusa, di origine dorica, e alleato di Sparta nella guerra contro Atene, tollerò per un po’ la presenza degli Jonici di Calcide Eubea a Naxos, alleati di Atene, ma poi mosse contro di essi che andarono a occupare la parte a valle del Monte Tauro in cui vivevano i Siculi insieme ad altri Jonici che si erano precedentemente lì insediati da Naxos. Ma negli anni della novantaseiesima Olimpiade (396 a.C.) i Nassioti in massa, minacciati da Dionisio, tiranno di Siracusa, si trasferirono a Tauromenion, spinti da Imilcone, condottiero dei Cartaginesi, alleato degli Jonici contro i Dorici, perché il colle era da considerarsi fortificato per natura. Volendo il tiranno di Siracusa riprendersi con violenza il territorio dei Tauromenitani, essi risposero che apparteneva loro di diritto, poiché i propri antenati greci ne avevano già preso possesso prima di loro stessi, scacciando gli abitatori locali. Afferma Vito Amico che la suddetta versione sulle origini di Taormina fornita da Diodoro è contraddetta nel sedicesimo libro, quando sostiene che Andromaco, dopo l’eccidio di Naxos del 403 a.C., radunati i superstiti li convince ad attestarsi nel 358 a.C. sulle pendici del vicino colle «dalla forma di toro», e di conseguenza il nascente abitato prese il nome di Tauromenion, toponimo composto da Toro e dalla forma greca menein, che significa rimanere. Mentre le notizie fornite da Cluverio concordano con la seconda versione di Diodoro, Strabone narra che Taormina abbia avuto origine dai Zanclei e dai Nassi. Ciò chiarirebbe in qualche modo l’affermazione di Plinio il quale sostiene che Taormina in origine si chiamava Naxos. Testimone Diodoro Siculo, Taormina, governata saggiamente da Andromaco, progredisce, risplendendo in opulenza e in potenza. Nel 345 a.C. Timoleone da Corinto sbarca e raggiunge Tauromenium, per chiedere l’appoggio militare al fine di sostenere la libertà dei Siracusani. Più tardi troviamo Taormina sotto il dominio del tiranno siracusano Agatocle, che ordina l’eccidio di molti uomini illustri della città e manda in esilio lo stesso Timeo, figlio di Andromaco. Anni dopo soggiace a Tindarione e quindi a Gerone, anch’essi tiranni siracusani. Taormina rimane sotto Siracusa fino a quando Roma, nel 212 a.C., non dichiara tutta la Sicilia provincia romana. I suoi abitanti sono considerati alleati dei Romani e Cicerone, nella seconda orazione contro Verre, accenna che la Città è una delle 17
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tre Civitates Foederatae e la nomina “Civis Notabilis” erroneamente tramandato, poi, come “Urbs Notabilis”. In conseguenza di ciò non tocca ai suoi abitanti pagare decime o armare navi e marinai in caso di necessità. Nel corso della Guerra Servile (134-132 a.C.) Tauromenium è occupata dagli schiavi insorti, che la scelgono come caposaldo sicuro. Stretti d’assedio da Pompilio, resistono a lungo sopportando anche la fame e cedendo soltanto quando uno dei loro capi, Serapione, tradendo i compagni, lascia prendere la roccaforte. Nel 36 a.C. nel corso della guerra fra Sesto Pompeo e Ottaviano, le truppe di quest’ultimo sbarcano a Naxos per riprendere la città a Sesto Pompeo, che l’ha in precedenza occupata. Per ripopolare Tauromenium, dopo i danni della guerra subita, ma anche per presidiarla Ottaviano, divenuto Augusto, nel 21 a.C. invia una colonia di Romani, a lui fedeli, e nel contempo ne espelle gli abitanti a lui contrari. Strabone parla di Tauromenion come di una piccola città, inferiore a Messina e a Catania. Plinio e Tolomeo ne ricordano le condizioni di colonia romana. Il Teatro Antico non è soltanto un pezzo del patrimonio archeologico di Taormina, ma è anche un luogo di incomparabile bellezza panoramica. L’occhio spazia dalla baia di Naxos alle coste calabre, all’Etna, a Castelmola. È greco o romano? Su questo interrogativo si sono cimentati esperti e critici. La risposta più probabile è che sia stato costruito in epoca greca e ristrutturato e ampliato in epoca romana. Una prova che il teatro sia di origine greca è data dalla presenza, sotto la scena, di blocchi di pietra di Taormina (simili al marmo), che costituiscono il classico esempio del modo di costruire dei Greci. Si pensa che i Romani per ricostruirlo abbiano impiegato decine d’anni. Le misure attuali sono di 50 metri di larghezza, 120 di lunghezza, 20 d’altezza. Per dimensione è il secondo della Sicilia, dopo quello di Siracusa. Si divide in tre parti: la scena, l’orchestra e la cavea. La parte più importante è la scena, che parzialmente conserva la forma originale. Il muro scenico ha la lunghezza di mt. 30 per 40. Due stanzoni laterali chiudevano la scena e la platea, impedendo il passaggio al pubblico. Il tetto di essi era costituito da due grandi terrazze, ancora esistenti. La cavea è incavata nella roccia ed ha un diametro di 109 metri. È costituita dalla gradinata, che, partendo dal basso, sale fino alla sommità. I primi posti della cavea erano riservati alle autorità, mentre la parte alta era riservata alle donne. La plebe sostava sulle terrazze, che non avevano comunicazione con l’interno del teatro. Un ampio velario riparava gli spettatori dal sole e dalla pioggia. La cavea era divisa in cinque corridoi anulari e verticalmente da otto scalette, formate da trenta gradini ciascuna. Le scalette partivano dalla cavea e arrivavano 20
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in alto al muro terminale, dove, in corrispondenza, si aprivano otto porticine, attraverso le quali si accedeva al corridoio coperto. Nel muro terminale le nicchie, ancora ben visibili, contenevano statue in esposizione. L’orchestra, posta al centro, divide la scena dalla cavea. Ha un diametro di 35 metri. Per il rifacimento e ampliamento del Teatro i Romani usarono mattoni d’argilla e calce. Fu anche costruito un sistema di canali per far defluire le acque piovane. È da annotare che era decorato con colonne di marmo bianco e granito grigio. Purtroppo, quasi tutte le colonne sono state perdute. Il Teatro antico è una delle principali attrazioni di Taormina. Perfettamente funzionante ed agibile, dopo aver ospitato per anni il premio David di Donatello, la manifestazione cinematografica più importante d’Italia, è sede oggi di Taormina Arte, festival internazionale che dura tutto il periodo estivo con la rassegna del cinema, del teatro, del balletto e della musica sinfonica. Il Teatro greco/romano di Taormina è sempre stato fin dai tempi antichi il simbolo di questa città. Fu costruito nel terzo secolo dai Greci provenienti da Naxos, città che si trova sotto Taormina e che è gran parte del panorama che si può ammirare dal teatro. Il Teatro antico si è riuscito a mantenere anche grazie alla cura e all’importanza che gli fu data successivamente dai Romani, che non si limitarono a curare solo il teatro ma anche il resto della città. La chiesa di San Francesco di Paola La chiesa di San Francesco di Paola è stata in passato sede del convento dei Frati Minimi di San Francesco di Paola o Paolini, che ne presero possesso nel 1617. Una lapide, murata nel pianerottolo della scala dei limitrofi locali dell’ex-ospedale San Vincenzo, dimostra comunque che il complesso era sorto in epoca ancora più antica. Nella lapide si legge: “Ad Ascanio Marziani, che nel 1609 a sue spese fondò l’Ospedale San Vincenzo, Taormina riconoscente”. Marziani fu un Giurato, un amministratore cioè di Taormina nel 1600, ed a lui è intitolata una stradina-scalinata sita sul Corso Umberto. La chiesa fu in origine Cattedrale della città ed era intitolata a Maria Santissima Assunta. Le molte vicende a cui è stata sottoposta l’antica Cattedrale ne hanno ad un certo punto deformato lo stile. Alla fondazione del convento, I Frati apportarono adattamenti e trasformazioni all’antico edificio della chiesa, successivamente espropriato in base alla legge sulla soppressione degli Ordini religiosi del 1866. In tempi più recenti, la chiesa è poi sopravvissuta al bombardamento aereo del 1943. Tra il 1944 ed il 1947 è stata sottoposta a lavori di restauro coordinati dall’architetto Armando Dillon e riaperta in occasione della mostra Giuseppe Sinopoli, attimi, sguardi, oggi sede di esposizioni d’arte. 22
Il sito archeologico La prima colonia greca di Sicilia durò poco più di trecento anni. A causa di questa situazione, più unica che rara, gli scavi archeologici hanno consentito di conoscere con precisione l’urbanistica delle città arcaiche greche. Il sito archeologico della antica Naxos insiste sulla penisola di Schisò su una superficie di circa 37 ettari. L’insenatura esistente fra Capo Taormina e Capo Schisò forma la baia di Naxos. Questa insenatura costituiva un riparo naturale per le piccole e fragili navi di allora. L’area archeologica comprende il “temenos” sud-occidentale, tratti delle mura e dell’abitato. Il “temenos”, assai esteso, è il primo santuario noto delle colonie calcidesi di Sicilia. Il muro di recinzione, costituito da una struttura poligonale, a volte con blocchi di dimensioni ciclopiche, presenta due aperture principali, veri e propri propilei, entrambi coperti con tegole e terrecotte architettoniche; quello settentrionale, più piccolo, ha porta e controporta. Tutto il “temenos”, sorto nel VI secolo a.C. a cingere un’area sacra più antica e poi inserito nella cinta difensiva urbana, venne così a costituire una sorta di acropoli della città, e il propileo nord assunse la funzione d’ingresso monumentale dell’abitato, mentre il propileo sud finì col diventare una vera e propria porta urbica. All’interno sono noti due templi; all’estremità nord-est dell’area è il tempio più importante, identificato con buoni argomenti con l’Aphrosidium noto da Appiano, che presenta due fasi, una solo parzialmente nota del VII secolo a.C. e un’altra dell’iniziale V secolo, rappresentata da un “oikos” di 38×16 mt., ricostruito forse in occasione della grande ristrutturazione urbanistica regolare, di cui fedelmente ripete l’orientamento (diverso da quello del precedente tempio). All’estremità opposta dell’area si trovava un alto sacello arcaico (non visibile), mentre l’esistenza di altri edifici minori (templi o “thesauroi”, non si sa) è suggerita da terrecotte architettoniche con antefisse a testa silenica. Nella medesima area, a sud-ovest del tempio maggiore, è un altare quadrangolare con tre gradini sul lato ovest, realizzato in testa poligonale, mentre numerose stele o piccoli altari con residui di sacrifici guarnivano il santuario, oggetto d’intenso culto tra il VII e il VI secolo, come dimostrano i numerosi materiali votivi rinvenuti, terrecotte, statuette, ceramiche locali e armi. Lungo il muro del temenos sono stati raccolti abbondanti resti delle terrecotte architettoniche dei templi, che hanno permesso di ricostruire la decorazione degli edifici, la più significativa delle quali è quella pertinente al tempio maggiore, con un insolito antemio plastico a palmette e fiori di loto. Sempre nell’area sacra sono due fornaci, una circolare per vasi, una rettangolare per tegole, appartenenti al santuario e funzionanti per le necessità cultuali e per la manutenzione degli edifici.
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Massimiliano Simoni
IL MITO CONTEMPORANEO. II RASSEGNA DI PITTURA E SCULTURA IN SICILIA
Art Director
Sei un Mito… sui luoghi antichi e sulle contaminazioni artistiche contemporanee. Spunti per una introduzione critica Prosegue l’ideale cavalcata del Contemporaneo attraverso i luoghi più suggestivi del Mito, in una terra, la Sicilia che in ogni angolo evoca l’Antico.
Massimiliano Simoni nella foto di Bob Krieger
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I nostri Maestri sono i testimoni del genio umano che con sapienza plasma la materia, la nutre di colore e le dà forma. La sfida non li spaventa, anzi vi si gettano con giovanile entusiasmo. Ripercorrono luoghi della loro infanzia, del loro vissuto, della loro fantasia e ci fanno vivere un’esperienza sospesa tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Per chi, come me, cura ogni aspetto di un evento, la gioia non è l’evento stesso, ma il vedere come Artisti di chiara fama si emozionino davanti ai luoghi magici proposti, e da lì traggano nuova linfa per produrre sempre qualcosa di nuovo e irripetibile. Non si tratta di collocare alcune statue in un luogo, un po’ lì e un po’ là, di attaccare quadri at random: è necessario entrare nella spiritualità del luogo, sentirlo, toccarlo. Quando per la prima volta mi sono recato a Segesta con Jiménez Deredia, l’amico Jorge, e con lui ho respirato un’aria pulita e sentito la spiritualità del luogo, ecco, lì è nata la Mostra. Vedere il Tempio, la vallata incantata sottostante, ammirare la forza delle colonne e delle strutture sovrastanti, che, sfidando il tempo, hanno resistito immobili alla storia, e poi scendere e risalire fino al Teatro, e dall’alto guardare il mare e il paesaggio sottostante, di una bellezza unica, è entrare nella notte dei tempi delle Arti. Capire, al di là di ogni laica considerazione, la Genesi dell’Umanità. Capire l’Arte è capire chi con essa si cimenta, o si è cimentato quotidianamente. Aver avuto la fortuna di conoscere una grande figura del nostro Novecento come Gio’ Pomodoro, e averla anche conosciuta attraverso un caro amico di grande sensibilità, che purtroppo oggi non c’è più come lui, non è esperienza che ti lascia indifferente. Il suo laboratorio di Querceta, oggi come allora, non è muto testimone di una vita spesa per l’Arte, ma luogo anch’esso spirituale che racconta una grande esperienza sospesa tra spazio e storia. Solo la diretta conoscenza del Maestro, e il grande rapporto con il figlio Bruto, mi ha permesso di capire come i luoghi taorminesi avrebbero esaltato e manifestato il suo estro, i suoi archetipi scultorei così profondamente attratti dal mondo greco. L’attenta lettura liceale di Miti e Misteri di Karoly Kerènyi, mi fa essere così vicino al suo mito di Hermes, il dio dei ladri. C’era una volta la “pittura militare”, e nei paesi anglosassoni c’è sempre. Là la Gloria, la Patria, gli Eroi si scrivono con la maiuscola, gli sconfitti si rispettano e onorano perché più grande è la Vittoria consacrata nel Mito. In Italia c’è Gian Marco Montesano, sicuramente personaggio d’altri tempi che ostinatamente e incurante di chi lo critica non in senso artistico, ma ideologico, prosegue il suo viaggio
nella nostra storia più recente, racconta tabù della Seconda Guerra Mondiale, e lo fa in una città duramente provata e offesa dai bombardamenti, ferita nella sua lunga tradizione di cultura e offesa nei suoi monumenti. La sua non è mai presa di parte, ma constatazione: in fondo le dittature sono tutte uguali. Il Teatro Politeama Garibaldi non è mero, muto contenitore delle grandi tele e installazioni montesaniane, ma soggetto attivo, parte di un unicum, di un progetto che per Montesano non si chiuderà mai perché troppe sono le storie da raccontare, e ancora di più i falsi miti da dissacrare. Quella struttura, il teatro appunto, c’era quando finiva l’Europa, arsa e devastata, ma il suo Mito, il suo trascorso di millenni gli ha dato la forza di rialzarsi, e come la fenice risorgere dalle proprie ceneri. Cosa c’entra Pino Pinelli a Lipari? Cosa c’entra il Mito Contemporaneo con le sue opere? Tre sono le cose che quando sono sbarcato per la prima volta a Lipari mi hanno colpito: i luoghi, la natura e l’isola stessa nel suo complesso. Tre sono gli elementi fondanti del lavoro di Pinelli: lo spazio (il Castello e la Chiesa di Santa Caterina), il colore (la rocca, le piante, il mare) e la pittura (Lipari). Come ben dice Marco Meneguzzo «Non si tratta di elementi alla pari, ma al contrario essi sono gerarchicamente collocati secondo priorità che l’artista non hai mai mutato: prima lo spazio, poi – “a cascata” – il colore e la pittura. Il primo – lo spazio – è l’elemento originario, il secondo – il colore – è l’elemento necessario all’emersione del primo, il terzo – la pittura – è lo strumento scelto dall’artista come il più efficace al proprio scopo e contemporaneamente costituisce la contestualizzazione storica degli altri due». La sua “pittura disseminata”, i suoi frammenti di geometria e colore si armonizzano con i profumi e i colori mediterranei. Pittura concettuale sì, ma così lontana dall’algidità dei pittori concettuali e minimalisti americani. La sua arte è carica di una cultura millenaria che con forza ci rivela le sue origini siciliane immerse nel Mito della Magna Grecia.
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Massimiliano Simoni
L’ERMA GRECA, DOLCE OSSESSIONE
Art Director
Un solo rammarico, che Gio’ non abbia potuto vedere oggi la sua mostra a Taormina e Giardini Naxos, nella sua amata Sicilia. Credo, con l’aiuto dell’amico Bruto e suo amato figlio, di essere riuscito a raccontarlo attraverso la sua arte, e sono sicuro avrei trovato il suo assenso. Lui, così rigoroso, così attento alla geometria, all’architettura dei suoi progetti e delle sue opere, così terribilmente attratto dall’erma greca, questa volta, vedendo la bellezza sconvolgente dei luoghi e degli spazi, la carica emotiva della storia, avrebbe detto: “questa è la mia rappresentazione del Mito!” Tutta la sua opera ruota attorno a queste categorie, spazio e storia; raccontandoci di Hermes, il dio dei ladri, ci fa rivivere i classici, il mito greco. Illuminante, a tal proposito, un suo scritto, pubblicato nel catalogo della mostra Koinos Hermes presso la galleria Sthendal: «(...) Non ho inteso illustrare l’inno omerico ad Hermes con forme plastiche, di cui non c’è alcun bisogno, tanto ricco ne è per conto suo. Tanto meno mi sono lasciato tentare da una rivisitazione dell’antico, evocandone i fantasmi sulle rive di una datata mediterranea nostalgia. Avrei rischiato un’indigestione, perché, come le ciliege, una rivisitazione tira l’altra e procurato tedio al riguardante amante di cose d’arte. E sarei oltretutto andato fuori tema, trattandosi di Hermes (...) Forse il pilastro dell’erma non mi dava tregua e in qualche modo ho tentato di liberarmene provando a mettermelo davanti agli occhi, costruito come so fare. Ma l’inno dice di Hermes: (...) rare volte soccorre, infinite volte inganna, nella notte oscura, le stirpi degli uomini mortali». Dal percorso della mostra che ci porta dalla rocca di Taormina al golfo di Giardini Naxos, emerge con forza l’architettura del paesaggio e ci ricorda come fosse raffinato paesaggista e allo stesso tempo, attraverso le grandi opere in resina plastica (Grandi Contatti Tenaglia del 1970 e Quadrato della Ragione del 1965) come fosse stato sperimentatore e precursore dei tempi (tra i primi a usare i policarbonati). Chiudo gli occhi e lo rivedo nella sua casa studio di Querceta, piegato sul tavolo da lavoro che m’illustra un suo amato progetto, destinato a restare lettera morta per l’ignavia e l’ignoranza di chi non ne comprese la forza, una piccola piazza, di un piccolo prestigioso comune, e la forza della sua idea. Misure, appunti, osservazioni, riflessioni, speranze. Le sue opere non erano mai frutto del caso, ma frutto di lungo studio e valutazione degli impatti. L’opera non si fa e poi si colloca in luogo a caso. Il rispetto di ciò che è stato e l’incipit di un domani a misura d’uomo. Ecco perché la sua scultura è così attuale, contemporanea, proiettata verso un’ideale città futura che ha profonda memoria storica. Gio’ non esercita “violenza”, non stupra i luoghi: li ascolta, li vive, li interpreta. I suoi archetipi scultorei plasmano la materia e lo fanno con un’antica sapienza, che poi è quella dell’uomo. Questo è il senso della “memoria o scienza collettiva” che egli richiama in tanti suoi scritti e ci rivela in tante sue realizzazioni. Oggi, Pomodoro, a dieci anni dalla morte vive con noi, non solo attraverso ciò che ha fatto, ma soprattutto attraverso ciò che dopo di lui riusciremo a fare. 29
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Luciano Caramel
MITI E ARCHETIPI IN GIO’ POMODORO Il passato nel presente e il presente come memoria del futuro A un decennio ormai dalla morte del Maestro, le sculture di Gio’ Pomodoro dislocate a Taormina nella serie di mostre d’arte allestite all’insegna de Il Mito Contemporaneo nel quadro de Il Circuito del Mito restano esemplari nel contesto di questi splendidi luoghi carichi di antiche memorie. Introducendole in questo catalogo, data la lucidità di Gio’ nel mettere a fuoco obbiettivi, modi ed esiti del suo lavoro, nutrito sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso da una continua e innovativa ricerca sulle soluzioni formali, sulle strutture e le stesse materie e tecniche, arricchita da una cultura solida e largamente orientata, inizio lasciando la parola all’artista, attraverso un’illuminante sua lettera, inedita, inviatami nel 1987, quando stavo preparando un testo per l’esposizione nell’Oratorio della Passione della Basilica di S. Ambrogio a Milano di alcuni dei suoi Soli, a cui appunto si riferisce lo scritto. Lavori documentati anche in questa occasione (con L’albero e il sole, 1974, in Corso Umberto I e Sole Produttore, 1975, nell’ex Chiesa di S. Francesco di Paola), che sono tra le creazioni più rappresentative dello spessore significante di Pomodoro nella scultura, con caratterizzanti implicazioni non circoscritte all’ambito specialistico e tecnico del fare “per via di porre e di levare”, né a quello medesimo dell’arte e dell’estetica in senso lato, e invece aperte da un canto anche all’indagine e alla riflessione filologica, storica e filosofica, in particolare proprio sul mito e la mitologia, e dall’altro a quella analitico-scientifica, sulla base dell’assunto “Ubi materia, ibi geometria”. «Perché il tema del “Sole” in S. Ambrogio?», scriveva Gio’ in quella lettera corredata da schizzi di segni simbolici, che cito testualmente. «Per un omaggio – continuava – alla grande Basilica, e a una tradizione remota, ai segni solari che, come nelle rupi o pareti di roccia delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, nei rifugi sparsi sulla crosta terrestre, verso le 4 direzioni astronomiche, sino ad oggi gli umani hanno lasciato. Sono segni radicali, fondanti una coscienza collettiva e universale, da quello della croce, che presuppone all’incrocio dei due assi l’asse fondamentale, l’asse del mondo, a quello gammato, al cerchio che la croce racchiude. Sono segni comuni a razze e civiltà diverse, lontane e prossime, nel tempo e nello spazio. Sono “segni-soglia”, come la linea che separa il giorno dalla notte, l’Ade infero dall’orizzonte di terra e di cielo, segni d’infinito, e sull’asse centrale si avvolge la spirale spaziotemporale infinita, come il tralcio della vigna perenne, simbolo della rigenerazione. Sono i segni fondanti la geometria, lo sviluppo e la crescita del mondo vegetale e animale e minerale astrale. Segni proliferanti, fertilissimi del nostro “comune raccolto”, siano le messi naturali o spirituali. Attorno a questi segni “elementari”, ma densissimi, come il nucleo di una supernova prima della sua nascita, lavoro da anni, come sai. Sono i segni della scultura, le cui direzioni fondamentali sono orizzontale - verticale - circolare. Hai letto il Mulino d’Amleto1? Quando io l’ho fatto, ho trovato un giardino a me noto, dentro il quale mi muovevo e mi muovo da tanti anni. S. Ambrogio è non solo un santuario cri31
stiano (ricorda il serpente sulla colonna all’interno [ora all’esterno], ma un “luogo” dove questi segni compaiono numerosi, e che appartengono all’umanità e alla storia del grande viaggio ininterrotto degli esseri viventi tutti. Il mio è un modesto, personale ma appassionato omaggio a questo tempio solenne, come altri sparsi sulla terra. Un omaggio di un “laico”, se il termine ha un senso, come io credo lo abbia, alla produzione spirituale dell’umanità. Con grande e sincera modestia, conscio come sono che altro non faccio che rilavorare materiali antichissimi i cui depositi grandissimi sono il lascito di infinite esistenze». Rilavorare non significa peraltro per lo scultore «una rivisitazione dell’antico, evocandone i fantasmi sulle rive di una datata mediterranea nostalgia», come senza mezzi termini egli afferma nel 1984 nel catalogo di una mostra a Milano nella Galleria Stendhal di sculture legate al mitologema di Hermes2, rievocato pure a Taormina (nell’ex Chiesa di S. Francesco di Paola, con le opere: Studio per Montefeltro, 1976, Erma ed Erma Ctonia, 1983, Hermes Afrodite, 1984), insieme ad altri, diversi motivi e figure archetipali (da Quadrato della ragione, 1965 e Grandi Contatti Spirale, 1970, nel Teatro Greco Romano e da Guscio, 1965-1974, Albero, 1977 e Figlia del Sole, 1991 in Corso Umberto I, ad Ekateion, 1985, nell’Ex Chiesa di S. Francesco di Paola), in una dimensione di flagrante attualità, tuttavia non immemore, a livello conscio e inconscio, di un passato che non può essere vissuto se non come qualcosa di compromesso con la congiuntura che ci avvolge e inevitabilmente condiziona. Un passato che innerva il presente e che come tale si propone come memoria del futuro, sentito, letto e proposto nella scultura con un’attenzione non accademicamente catalogatoria e storicistica, illuminata dal pensiero dello studioso ungherese Karoly Kerényi, al quale, e al suo celebre testo Miti e Misteri, Gio’ significativamente dedica «per debito di riconoscenza e in tutta modestia» le sculture e la suddetta mostra puntate su Hermes. Da allora si fa sempre più chiara e fondamentale nell’artista la concezione attiva del mito che sottostà e rende vive molte delle sue opere, tra le quali spicca per originalità e novità di soluzioni Ariannaurea, una scultura ambientale polimaterica in più parti progettata e realizzata nel 1985 per l’atrio del Lanificio Picchi di Prato, in evidente, dichiarata sintonia col tema dell’opera. Che Gio’ Pomodoro ha voluto accompagnare con un volumetto3 che riporta quale chiave di lettura lunghi stralci di altri due libri di Kerényi, Nel labirinto e Le figlie del sole, in connessione con «la ricerca del filo di Arianna» e il suo mito, rivissuti nel presente nella destinazione e collocazione della complessa installazione. Non quindi, come notavo nell’introduzione al volumetto citato4, attestamento entro le coordinate della rievocazione commemorativa, archeologica del passato, col rifiuto d’una reale attualizzazione delle radici che ci legano ad un passato anche remoto. Che può realizzarsi solo guardando le testimonianze del passato nel loro essere momenti e risultati della vicenda umana, nel suo unitario dipanarsi 32
lungo i millenni: come qualcosa di vivo, quindi, di non definitivamente concluso. Per Gio’ Pomodoro, come per Kerényi, il mito è mito dell’uomo, e come tale non archiviabile entro nozioni sepolte nel tempo. Silenti, ma comunicanti con la loro sola presenza – con la loro “astanza” direbbe il grande Cesare Brandi, acuto e sensibile nel percepire le voci della memoria storica trasmessa dai capolavori dell’arte, anche proprio scultorea, di epoche remote – le opere di Gio’ dislocate nello storico tessuto urbano di Taormina lo provano ancora una volta, facendoci rivivere nel presente l’esperienza del passato.
Di G.De Santillana e H. Von Dechend, Ed. Adelphi, Milano, 1983. Volume che raccoglie testi connessi alle tematiche care a Gio’ Pomodoro, che me l’aveva segnalato. 2 Gio’ Pomodoro, Koinos Hermes!, Progetti, Sculture in bronzo e in pietra dal 1973 al 1974, Galleria Stendhal, Milano, maggio/giugno 1984, Eurograf, Milano 1984, senza indicazioni di pagina, ma a p.1. 3 Nava, Milano, 1985, per conto della PICCHI spa. Prato. Testo introduttivo di L. Caramel. Senza indicazioni di pagina. 4 L. Caramel, ibidem. 1
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Gio’ Pomodoro
OMAGGIO AI MAESTRI SCALPELLINI DI VERSILIA* Civilizzazione: periodo nel quale l’uomo impara l’elaborazione di prodotti artificiali, servendosi di prodotti della natura come materia prima, per mezzo dell’industria propriamente detta e dell’arte. F. Engels
* Lo scritto riprende in gran parte un precedente testo del giugno 1988, intitolato Riflessioni sulla lavorazione del marmo nelle Alpi Apuane e in Versilia presentato in occasione della mostra collettiva allo Yorkshire Sculpture Park Scultura from Carrara, Massa e Pietrasanta, organizzata da Peter Murray. Il testo è stato poi rivisto e stampato in un fascicoletto a parte, nel giugno del 1989, in occasione della Mostra antologica di Gio’ Pomodoro alla Rotonda di Via Besana a Milano con il titolo Omaggio ai maestri scalpellini di Versilia (Riflessioni sulla lavorazione del marmo nelle Alpi Apuane e in Versilia). 34
Sui monti e a valle, in Versilia, si aggira, in questi nostri giorni, un fantasma chiamato “statuario”, che è anche il nome di un marmo leggendario, le cui reliquie sparse in questo territorio della Toscana, affacciato sul mare Tirreno, testimoniano che un tempo realmente qui si cavava e si lavorava questo meraviglioso, candido marmo carnicino. Il nome è evocato ogni giorno, da Carrara a Pietrasanta, come S. Gennaro a Napoli, con ostinazione e spesso impropriamente, in special modo sui piazzali dei depositi di blocchi di marmo o nei laboratori dei taglia pietra. Chi ha visto una sola delle relique di “statuario puro”, che un tempo anche recente veniva estratto nelle cave delle Apuane, sa che un blocco oggi potrebbe essere convertito, alla pari, con oro. Lo statuario del Polvaccio, o il bianco Porracci, delle cave del Fondone, oggi sono specie estinte, come il bianco Polla di 1a qualità, il bianco piastrone sempre di 1a qualità, o il bianco vestito, delle cave in Arni e a Massa, quasi impossibili da trovarsi. Sulle Alpi Apuane, cominciando da Carrara, nelle zone di Ponti di Vara, di Colonnata, di Ravaccione o di Fantiscritti sono tante le cave dove si estraggono varietà di marmo bianco, che non è lo “statuario puro”. Lo stesso accade a Massa nelle cave delle zone di Forno, o a Seravezza nelle cave della zona del Monte Altissimo, del Fondone, di Tacca Bianca, della Fitta o della Mossa, in cui pare cavò marmi anche Michelangelo. Si cavano altri marmi bianchi anche in Arni, nelle zone del Piastrone, di Pennacci, di Terrone, o delle Tagliate, come in quelle della Garfagnana, sul Pisanino o sulla Tambura. Sono tanti i luoghi delle Apuane da dove vengono estratti i blocchi di marmo nella loro ricca varietà di colore e di grana. Oltre ai bianchi famosi, si cavano o si cavavano, il Calacata di Carrara e di Vagli o d’Arni, i vari arabescati, il Trambiserra, il paonazzetto, il venato del Togno, il venato crocicchio, il piastraio e i vari bardigli, dal costa al cappella, all’imperiale, al fiorito; si cavano le brecce gialle di Versilia, o la breccia giallo viola, il brecciato verde, il corallo rosa di Garfagnana o il rosso collemandina, la breccia di Stazzema, la breccia Medicea, il cipollino verde o il viola isola santa e il fantastico d’Arni, per nominare solo alcuni della lunga serie. Ma da nessun luogo delle Apuane scendono a valle, ora, blocchi del leggendario “statuario puro”, le cui vene si sono perse nei monti, statuario senza impurità, senza macchie o venature, ma bianco latteo immacolato, o avorio chiaro, o rosato carnicino, o ceruleo, dalla pasta trasparente, fine e compatta. Questo prezioso flusso si è interrotto, nonostante la tecnologia, le ricerche e l’attrezza-
tura scientifica estremamente progredite. È molto difficile trovarne anche solo i frammenti, nei fiumi di pietrame che scendono dalle alte cave sui monti a valle, solcando le montagne come fiumi di neve. Ci sono ricercatori infaticabili di questi frammenti residui, che si ammazzano di fatica pur di trovare un sasso di statuario puro nei ravaneti antichi, come qui sono chiamate le discariche di detriti sui pendii dei monti, delle cave antiche. Questo Eldorado di marmo è un labirinto di buchi e di tagli sulle Alpi Apuane, questa catena di monti dell’Appennino Settentrionale italiano, compresa fra la valle del fiume Magra e la valle del Serchio, affacciata sul mare Tirreno, lunga circa 60 Km e larga circa 22 Km. A nord, verso la foce del Magra, vicino al mare, c’è la carcassa di rare e sparse ossa dell’antica Luni, un tempo città fiorente di traffici marittimi, molti secoli prima della nascita della Repubblica marinara di Pisa, più a sud, verso Roma. Dal porto di Luni, ora sepolto sotto la terra, partivano i blocchi di marmo cavati sui monti vicini, destinati alle città del vasto impero romano. La storia di Luni è intrecciata con la storia della lavorazione del marmo delle Apuane. Per secoli essa fu la porta aperta sui mari per cavatori, tagliapietre e mercanti di marmi, famosi anche ai tempi di Giulio Cesare. Ma l’origine della cultura materiale del marmo, nelle Apuane, è sicuramente più antica. Questo genere di cultura si può sviluppare solo lentamente, su basi naturali vaste, con altissimi costi di fatica e d’esperienza umane stratificati: uno strato umano sovrapposto a quello geologico di base. Non ci si improvvisa tagliapietre e cavatori perché il tirocinio è lungo e l’apprendimento lento, perché fondato sulla pratica manuale quotidiana ininterrotta, sull’esperienza diretta, con la necessità dell’invenzione continua di metodi e di tecniche operative connesse alla conoscenza profonda del materiale lavorato. La Roma dei Cesari avrà potenziato e stimolato una realtà produttiva già radicata nel territorio, come più tardi accadde con quella dei Papi. Quel che colpisce in questi luoghi nostri, sulle cave fra i monti o giù a valle sui piazzali e nei laboratori, fra Carrara e Pietrasanta, è la quantità di lavoro e di energie spese in questo mondo di pietra, da tempi immemorabili a oggi. Un tempo lungo di fatiche umane è rappreso in questi luoghi ridenti di luce mediterranea, come pesante nube nera di tempesta, dove non riesco a sottrarmi all’impressione di muovermi in un vasto santuario della fatica umana millenaria. Qui le pietre si possono amare, ma anche odiare intensamente. Questi opposti sentimenti si avvertono in varie circostanze, nelle nostre giornate di lavoro, fra la polvere e il rumore. Ogni minima azione qui, nei nostri luoghi di lavoro, costa fatica, unita ad un’inarrestabile emorragia di soldi, che non bastano mai e di cui sempre più pressante ed elevata si fa la richiesta. L’amore di tagliar pietra si mischia per forza al rischio finanziario e in certi momenti un blocco di pietra può apparire un’avida baldracca, o trasformarsi anche in strumento di morte in agguato, come spesso è successo e schiacciare qualcuno col suo peso. Tentare di descrivere questo mondo particolare dei cavatori e dei taglia pietre senza suscitare il sospetto della retorica è difficile, perché, a volte, alcuni aspetti 35
della sua interna realtà sono tragici e insospettati all’esterno. Ma è il mondo nel quale noi scultori ci muoviamo e di cui facciamo parte, di cui si deve dare conto anche solo parzialmente a chi lo ignora. Con piacere ho potuto leggere i testi di conferenze tenute da Rudolf Wittkower, raccolti nel libro edito da Penguin Books di Londra nel ’77, curato da Margot Wittkower, con il titolo: La scultura raccontata da Rudolf Wittkower. Da anni sto pensando che un approccio più giusto e corretto, ma trascurato dagli studiosi, non solo contemporanei, di storia della scultura, per affrontare il discorso attorno a questa particolare forma di produzione spirituale, tanto diversa da quella delle altre arti, fatta eccezione per l’architettura, dovrebbe essere quello della sua storia materiale, cioè delle sue tecniche e modalità e rapporti produttivi. Affermo ciò non certo animato da spirito di polemica e con rispetto per quegli studiosi che hanno dedicato la loro vita e il loro lavoro in studi attorno alla scultura. Una nebbia fitta avvolge la praxis dell’artifex, dell’artefice archetipo, del maestro scalpellino, tagliatore di pietre, o dello “scultore”, attraverso la quale vengono intravisti, dal destinatario del loro fare, come remoti stregoni, gente diversa, da pubblicità del Plasmon. La qualità affabulante, o fascinatoria, di questa attività, appare come gravata da una antica maledizione biblica, o ibernata e confinata nel ghetto delle arti non liberali, svilita dal fatto che essa si realizza con l’uso delle mani e di materiali, anche quando venga svolta, su commissione, per porre sugli altari le immagini del divino, del potere. Wittkower avverte acutamente, nel suo libro, questo vuoto, o abisso di ignoranza e affronta e introduce (avvalendosi anche del lavoro di altri studiosi che nomina) in questi territori, che tanti storici dell’arte non hanno mai esplorato, o conosciuto superficialmente, di sfuggita. Nel libro si avverte che, in quanto storico d’arte, permangono in Wittkower certe difficoltà a muoversi in questa ignota dimensione. Tuttavia la sua è di certo una rottura, ma non un capovolgimento radicale (egli resta pur sempre ancorato al perno della sua disciplina) del clima di glaciazione, le cui cause restano da studiare e da approfondire, con il quale s’è sviluppato il discorso critico-estetico-storico attorno alla scultura, così come lo conosciamo ancor oggi, alle soglie del duemila. Dal lavoro, con il lavoro, da questa inestricabile foresta di azioni e di gesti ammucchiati giorno dopo giorno, può nascere la scultura, che resta poi da sola, nello spazio vuoto preesistente che la circonda, non certo eterna, come un figlio che si è staccato da noi, ormai solo con se stesso e noi soli senza di lui. Se ha voce e parole non sarà muta, farà magari un piccolo discorso, un balbettio, o saprà dire grandi verità o solo menzogne. Ma può anche essere muta, senza parole da dire, riconsegnata all’inerte dal quale proviene e da cui si è tentato di strapparla. Conoscerne la genesi è importante, per intenderla compiutamente e identificarla, comprendendone la lingua, il discorso. Sapere delle sue radici, della terra dove è 36
stata seminata, riconoscerne il seme, la struttura del tronco, la forma delle foglie, dei fiori e dei frutti, quali uccelli vi nidificano, sapere del suo modo di nutrirsi, dei suoi caratteri distintivi, se è quercia o sambuco, se è selvatica o domestica, se i suoi frutti sono salutari o velenosi o mitici è importante. Ciò è possibile, fuori di metafora, soprattutto conoscendo la sua storia materiale, come, quando e attraverso quali rapporti produttivi è stata realizzata, commessa e posata e da chi. Per sbarazzare il terreno da un nefasto ed equivoco luogo comune, occorre affermare che una schiera folta di ignoti autori-creatori sono inseparabili ed indispensabili compagni di viaggio e di giuoco, degli scultori noti, alberi fra alberi che compongono la nostra foresta. Giuoco iniziato nel paleolitico superiore coi primi scalpellini-cacciatori, nostri comuni progenitori, già antichissimi anche all’epoca di Esiodo, tanto tempo prima dei grandi artefici a noi noti, da Fidia a Michelangelo. Da troppo tempo vado ripetendomi che è necessario e doveroso raccogliere le ricche testimonianze di questa produzione spirituale e materiale antichissima che è la scultura, prima che le specie degli scalpellini e dei fonditori si estinguano. Specie antiche e indebolite senza l’apporto della passione e dell’inventiva di giovani apprendisti, presenti sì, ma su areali sempre più esigui e ristretti. Questa loro incerta esistenza, minacciata, deve fare i conti e li sta facendo, anche con le nuove tecnologie, di cui pure ci si avvale, sia per ridurre gli alti costi di produzione, sia per liberarsi dal duro peso di antiche fatiche. Tuttavia la mano e gli antichissimi e semplici strumenti, quali sono lo scalpello e il mazzuolo (il percussore), restano insostituibili come la maestria nell’adoperarli. Tale maestria, del maestro scalpellino tagliatore di pietre, nell’uso della punta e del mazzuolo, con i quali si sbozza la statua di pietra, dal blocco informe o squadrato, è il frutto di una pratica tenace e sapiente, di conoscenza intima dei materiali che si lavorano, sempre diversi, perché tutte le pietre, ogni pezzo della stessa pietra, hanno una loro identità, come di cosa già viva. Ma il maestro scalpellino sa operare miracoli. A lui si porta un modello che ingrandirà o rimpicciolirà a nostro piacimento, secondo le nostre esigenze, ambizioni, o aspirazioni, coi vari sistemi, quali quello del triangolo, o quello dei punti. Posso testimoniare, per onorare la verità, che io ho visto riprodurre, anche ingigantite, tante opere, che stavano in una mano, dei maestri scultori contemporanei, nei laboratori di Versilia, fra Carrara e Pietrasanta, dove questa razza speciale di bisonti-scalpellini ha una delle sue ultime riserve, non protette. In Versilia, dai quattro angoli della terra, arrivano scultori, con i loro modelli, e da qui ripartono con sculture di varie grandezze e colori, di marmo o di bronzo. Sculture che porteranno giustamente la loro firma, sistemate nei musei, nelle gallerie pubbliche e private, nelle collezioni di amatori d’arte e nelle piazze. Ma che ne sarà dell’ignoto artifex, discendente degli antichissimi cacciatori di mammuth? Se ne perderà per sempre la traccia, la sua storica presenza, la 37
sua identità di carne e di spirito, tutta la sua fatica che lo unisce ai suoi, ai nostri antenati! Che ne sarà della sua sedimentata sapienza, del patrimonio trasmesso oralmente, con il pratico insegnamento, dall’anziano al giovane, nello scorrere dei secoli e dei millenni? Quale ministero se ne occuperà? Nascerà forse una associazione per la protezione dei tagliapietre, del tipo di quelle per la protezione dei santuari della natura? Quello della lavorazione della pietra è un universo dove i gesti e le azioni che si compiono sono fedeli ad un antico codice scarno e archetipo, feriale e dimesso, dove il rito, anche se grandioso in alcuni casi, come quello delle varate di cava, nel momento della estrazione e calata a valle di bancate di pietra del peso di migliaia di tonnellate, è austero, non fastoso, ma mitico. In questi santuari la polvere e i detriti sono dovunque, un sistema di fiumi e di torrenti di pietrame si staccano dalle sorgenti della montagna, dalle cave, attraversano a valle i paesi e i nostri studi e laboratori. Ma fra la polvere e le schegge qui domina l’idea e la necessità del colpo deciso ed esatto, della precisione e dell’attenzione estrema, perché il maestro scalpellino sa e deve insegnare che il peso della pietra non dorme mai. Questo peso è insieme una maledizione e una forza, il cuore e la mente della pietra, è insonne, ma sonoro. Ogni pietra ha infatti il suo particolare suono, ineguagliato dal metallo, come la possibilità dell’estrema perfezione con cui può essere lavorata, anch’essa ineguagliata da altri materiali. Ma le qualità della pietra sono numerose, alcune evidenti, altre celate, le sue varietà sono innumerevoli come i modi di tagliarle e di lavorarle, così come molteplice è il loro uso e la loro destinazione. Usi e funzioni dalle più umili a quelle più rare, dalla utilità quotidiana alla manifestazione necessaria al potere, alla ricchezza, o alla devozione, alla contemplazione della bellezza, o all’adorazione del divino. Le associazioni e corporazioni medievali dei tagliatori di pietra e ancor più anticamente dell’età romana o di quella greca, di quella egiziana o mesopotamica dovevano essere articolate e ripartite in una divisione di competenze e di specializzazioni, rigorosamente. Occorre studiarle! Ciò che sappiamo della cultura materiale della scultura di queste epoche è frammentario, sperso in mille rivoli, all’interno di altre discipline. Sappiamo di più e meglio dell’industria litica della preistoria, ma ciò è rilevabile dagli studi e dalla ricerca antropologica più generale. Mancano tuttavia studi sistematici, scientificamente documentati, di questa antichissima produzione umana, condotti e sviluppati sulle sue peculiari basi “materiali”. Studi che abbraccino culture fra di loro prossime o lontanissime, nel tempo e nello spazio, il loro intrecciarsi o intersecarsi, dalla loro comparsa alla loro sparizione, o dal loro riaffiorare al loro rinascere rigoglioso, su vari luoghi della Terra, in vari tempi storici. In molti musei del mondo, le sculture appaiono come relitti di un succedersi ininterrotto di naufragi, di cui sappiamo poco, a volte niente. Il visitatore, spesso, 38
non sa neppure di quale materiale sono fatte, e i musei trascurano d’informarlo. Il corredo museografico è molto avaro e la regola d’oro del mistero, del silenzio, è imposta alle statue, congelate nella loro impenetrabilità. Tutto ciò ha reso il linguaggio della scultura difficile da comprendere per i più, ma anche per gli specialisti, gli studiosi, gli storici dell’arte, che pure dovrebbero fondare il loro sapere sulla conoscenza approfondita delle tecniche e dei rapporti produttivi delle sculture, oggetti materiali, in primo luogo, del loro ricercare. Ciò viene trascurato, quasi con disdegno, con indifferenza, e ci si accontenta di illazioni e arbitrii “estetici”, di sterili catalogazioni storiografiche, d’interpretazioni e manipolazioni azzardate, se non fraudolente. Mi rendo conto che la creazione di una storia della cultura materiale universale comparata della scultura comporterebbe immense difficoltà ed energie, pure nell’età del computer, lo sforzo congiunto, multidisciplinare, di tanti studiosi. Ma a chi può sfuggire l’importanza di una tale eventualità, che produrrebbe effetti vivificanti su tante altre discipline? Anche fuori della storia dell’arte, degli studi umanistici. Abbandoniamo i sogni futuribili e torniamo nella nostra “riserva di bisonti”, in Versilia. Ancora oggi nella statuaria o in quel che ne resta, di tipo funerario o religioso, il finitore, l’ornatista, che eseguono i particolari più delicati delle statue, come i capelli, i tratti del viso, le mani o le pieghe delle vesti, non sono addetti al lavoro di sbozzatura o di preparazione della statua devozionale, che altri scalpellini di bottega eseguono, prima del loro finale intervento. Ma la statuaria oggi è in grande crisi ed ormai caduta quasi in disuso e queste divisioni sono quasi scomparse, anche perché sempre meno presente è la figura dell’apprendista, del giovane garzone di bottega, oggi quasi del tutto scomparsa o rarissima. Ciò vuol forse già dire che quelle che facciamo sono le ultime sculture di pietra e che, nel futuro, lo scultore dovrà lui medesimo eseguirle, le sue opere, senza più alcun aiuto? Molte cause lontane e vicine nel tempo, concorrono a determinare lo stato oggettivo dell’attuale crisi che è scoperta e visibile, come l’assenza dei giovani apprendisti, nei laboratori di Versilia. Gli scalpellini sono, spesso, figli d’arte, figli e nipoti di scalpellini. Ma ora essi hanno interrotto questa tradizione e i loro figli non imparano più l’arte di tagliare pietre. Ciò per tante ragioni, per grande parte indotte dall’esterno, dalle mutate condizioni produttive e di vita della nostra società. Il loro è un lavoro altamente specializzato, non coercitivo, ben pagato, eppure non vogliono che i loro figli continuino l’esercizio della loro arte. Allora vuol dire che qualcosa di molto profondo, vitale, si è incrinato e ha ceduto. Una centralità è stata colpita a morte. Pietra è diventato sinonimo di passato remoto, di morto, di sepolto. Ad altri materiali è stato affidato il compito ufficiale di rappresentare il presente e il futuro, il progresso e lo sviluppo. La nostra è un’era d’asfalto e di gomma, di metallo 39
e di plastica, di luci guizzanti, di suoni ammassati ed ininterrotti, senza pause, modulazioni e silenzi. Non sono più, i nostri, tempi di costruzione di bianche cattedrali, di pietre ben squadrate e tagliate, tempi del passato, tempi per raccogliersi, isolati o in comune, per contemplare, riflettere a lungo e attentamente, per espandersi con il paesaggio, per muoversi con la chioma di un albero, per perdersi nell’immensa pianura del mare o nella volta di un cielo stellato. I nostri non sono più i tempi dello sprofondamento e dell’innalzamento spirituale. Ciò va detto senza nostalgia, senza recriminazioni e senza melanconia. Oppure possiamo rivolgerci questa domanda: con l’arte del tagliapietra morirà questa capacità comune alle specie, tramandata e sedimentata, di avventure spirituali, già in gran parte a noi ormai ignote, o smarrite, o dimenticate e forse l’arte del tagliapietre muore perché è già morta in noi l’ansia dell’avventura spirituale? E mi domando da che cosa sarà sostituita. Non è per nostalgia che avverto dei vuoti, delle assenze incolmate, l’estendersi quotidiano del deserto spirituale, tensioni senza sbocchi costruttivi e armoniosi, specie tra i più giovani, che sembrano sempre più attardati nella fanciullezza, come smarriti di fronte alle responsabilità che comporta il crescere, il maturarsi, il diventare adulti, o che ne sono impediti, spodestati dal farlo. Il maestro tagliapietre insegnava rudimenti radicali, come il modo di tenere lo scalpello nella mano, la sua inclinazione rispetto al blocco di marmo, il ritmo dei colpi del mazzuolo, le movenze del braccio, l’eleganza e la levità del roteare del mazzuolo, per ore, migliaia di colpi su migliaia di colpi, sulla testa dello scalpello. A ciò corrispondeva il volar via di migliaia di scaglie dal corpo messo a nudo del blocco di pietra. Egli insegnava il modo di lavorare il contro e il verso del marmo e le diverse pietre con i sempre diversi ferri, punte, scalpelli, unghietti, gradine, punte storte, martellina, scapezzino, bocciarda, tutti ferri da fare, da inventare, da ritemperare dopo l’uso, a seconda del tipo di pietra, in una continua sfida, solitaria, con il blocco di pietra. Il maestro scalpellino è stato anche un abile fabbro forgiatore proprio per questo, per l’esigenza di creare questi strumenti, estensione delle sue mani, i ferri da usare per modellare, sbozzare, pestare, levigare, tagliare la pietra, piegarla al suo disegno, al progetto ordinato e sensato. Sapeva come muovere dolcemente i pesi immani come fossero piume, che trasformava in forze dinamiche per mettere ali al blocco, facendolo girare come una dolce e immensa macina. Leve, rulli, squadra, filo a piombo, geometrie fondamentali, come quelle che regolano il moto degli astri, gli erano noti. Esperto del linguaggio, misterioso per molti, dei progetti, dei calcoli di statica, innalzava le perfette foreste delle Città di Dio delle cattedrali, e dei templi, degli obelischi solari e i monumenti immensi del potere. Triangolatore di mappe tridimensionali conosceva le rotte che lo conducevano verso le figure favolose, sepolte dentro il blocco. 40
Se si vive con questa gente, come a me è capitato, si imparano molte cose sulla scultura più che dalla esegesi colta e Iibresca. Si scopre come essi individuano il falso artistico con una rapida occhiata, ignorando date ed eventi storici, così come scoprono la crepa, il difetto, che rendono inutilizzabile il blocco di pietra. Ma sono espertissimi anche nell’arte di truccare i difetti, di mostrare lucciole per lanterne, ma sono rispettosi e leali con coloro che condividono la stessa vita, la stessa polvere, lungo la lenta marcia d’avvicinamento, di disseppellimento, che separa il modello dall’opera compiuta e questa dall’aria, dal libero spazio, nel quale troverà, nel bene come nel male della sua forma compiuta, il suo posto temporaneo, non eterno. Disegno e modello di fronte al grezzo blocco di cava o al pilastro squadrato sono a confronto. Nel disegno-progetto c’è un seme che col modello germoglia, ma l’opera, l’albero, non fa ancora parte della foresta. Si può anche disegnare la figura direttamente sul blocco iniziando lo scavo senza modello. Il rischio diventa molto alto, si può naufragare facilmente. In quest’arte ci vuole pazienza e sapiente cautela. L’aggressione può ritorcersi contro chi bussa con rabbia. La forma c’è: è dentro. Bisogna togliere, tagliare, creare una parvenza, altre successive, riflettendo, girando attorno al pilastro che è immobile e muto con il suo peso. Assieme a quella che si cerca, dentro il blocco, ci sono tante altre figure. Il blocco ha un potere di fertilità difficile da calcolare. Si deve cercare un ago nel pagliaio. Il modello può essere di aiuto. Ma l’opera non è mai né il suo progetto né il suo modello, è molto di più. Si parte da fuori verso un labirinto interno per fare uscire da dentro, verso l’esterno, la propria figura, scavando e togliendo e non aggiungendo. È un agire verso la meta di una liberazione: dall’oscurità tenebrosa alla luce. Il blocco di pietra non è tenera argilla, le dita non lo schiacciano, non lo deformano, non si può togliere e mettere a proprio piacimento, come creta su creta, scavando per poi riempire dove si è tolto argilla, con altra argilla. Il fascinoso giuoco del chiaro-scuro del polpastrello sull’argilla, mobilissima materia che riceve anche l’impronta di un cappello, o i complicati sviluppi di linee e di punti, non appartiene al mondo della pietra tagliata. Strutture e forme intimamente connesse combaciano amorosamente con i loro doppi, i vuoti spazi. Non è questione di spessore di pelle, che è marginale e riguarda piuttosto gli istituti di cosmesi, con tutto il rispetto per le pelli ben curate, o di maggiore o minore levigatezza di superfici. La doppia struttura del vuotopieno, dell’interno-esterno, le direzioni, i rapporti complessi, statici o dinamici del sistema dei pesi e delle proporzioni delle forme, di ogni più piccola parte rispetto al tutto e viceversa, l’intero sistema delle risonanze e dei coinvolgimenti sensoriali, i termini dell’occupazione dello spazio reale tridimensionale, le loro distanze, estensioni, e contrapposizioni, i fulcri dell’energia raggiante o spiralica dei movimenti, della tensione e della torsione: questo e altro sono in giuoco, racchiusi nella dimensione totale del blocco di pietra. Che è il luogo di una sfida amorosa, 41
dove le sconfitte sono più numerose delle vittorie. È un luogo di tenebre da dove è difficilissimo ricavare un barlume di luce che ci illumini. Attorno a questo luogo ci muoviamo insieme, dal cavatore al camionista, agli ignoti discendenti dei cacciatori nomadi delle nostre origini, ricavandone di che vivere, come in quei tempi remoti. Queste sono solo alcune delle tante riflessioni nate dall’esperienza, dalla pratica, dal lavoro e dalla frequentazione continua col mondo dei taglia pietre di Versilia, veri maestri dell’arte loro, a cui va tutta la mia gratitudine e amicizia. Gratitudine per il loro ostinato ricercare, assieme a noi scultori, le statue, nei blocchi informi di pietra.
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Gio’ Pomodoro 1987
PRONTUARIETTO PER LA SCULTURA* Scritti di Gio’ Pomodoro. Dal 1953 al 1959 / Segni in negativo
1) Periplo d’inverno, 1955
2) Geological situation, 1956
3) Crescita, 1957/58 * Prontuarietto per la scultura, in Gio’ Pomodoro, presentazione di Guido Ballo, Milano, Edizioni l’Agrifoglio, 1987, pp. X-XVI. Il testo riprende con varianti e aggiunte un precedente scritto, Prontuarietto per la scultura, pubblicato ne La tradizione del nuovo, V, 15, maggio 1981, pp. 22-26.
Foto 1) Opera esposta alla Biennale del ’56. Appartiene a una serie di lavori di ricerca nel mondo espressivo di Paul Klee, iniziata attorno al ’54. Le nicchie che ospitano i “segni” fusi in argento sono scavati nel supporto di legno. In un primo momento i “segni” èrano semplicemente appoggiati su una superficie di stoffa semidipinta. I “segni” fusi d’argento sono ricavati scavando in negativo degli ossi di seppia, usati come “conchiglia” di fusione. Le porzioni di segni, fusi nell’area limitata dell’osso di seppia, sono stati poi composti fra di loro e saldati insieme. La tecnica della fusione su osso di seppia l’avevo appresa all’inizio degli anni ’50 in una bottega d’orafo pesarese, ed è tecnica usata nell’oreficeria da moltissimo tempo. Questo metodo dello scavo in “negativo” di “segni”, su materiali di supporto, rimanda al metodo più antico, usato sin dall’età del bronzo, della preparazione di stampi per la fusione di oggetti di metallo o a quello della preparazione di stampi dell’industria fittile a monte di quella del bronzo. I materiali con cui è possibile preparare lo “stampo” sono svariatissimi, dalla pietra, all’argilla, al gesso, al talco, ai blocchetti di carbone di legna, alla sabbia pressata, ai materiali “nuovi” quali la plastica, il cemento e così via. Ogni materiale su cui è possibile “tracciare” un’orma è utilizzabile. Il metodo in quanto tale è anonimo. Con la fusione o lo stampaggio i segni o le forme che ne risultano avranno una superficie con le caratteristiche di tessitura peculiari al materiale di cui è composto lo stampo. Porre l’attenzione alla qualità del materiale dello stampo, ai fini della qualità dei “segni” o delle “forme” da ricavare è essenziale. Dall’inizio degli anni ’50 sino al ’58-’59 la mia ricerca tenne conto di questa necessità d’analisi. Tutti i lavori, a eccezione di quelli fusi in fonderia, quelli di maggiore mole, di questo periodo, sono stati quasi per intero realizzati personalmente con metodo artigianale. Queste considerazioni valgono anche per le opere documentate dalle foto 2, 3, 4 e 5. (Foto 2) I “segni-forma” sono in piombo fuso su stampo di osso di seppia. Lo stampo di osso di seppia durante la fusione si brucia, per cui queste opere sono uniche, in quanto lo stampo va perso. Il supporto è in cemento e polvere di ferro ossidata. (Foto 3) Questa è un’opera di grande dimensione, fusa in bronzo in fonderia, coi metodi classici della fusione in cera persa, su cassa-forma (lo stampo) in polvere di mattone e gesso. Le fasi di lavorazione sono più complesse e numerose e comportano vari passaggi prima di arrivare all’opera finita in bronzo. Esse sono: 1a Fase: consiste nella preparazione di un “Ietto” di argilla fresca delle dimensioni, in piatto, scelte come campo base per l’operazione da compiere, consiste nello scavare (togliere) le “orme” (i vuoti dei “segni”). Lo spessore di questo letto può variare secondo le necessità (abbozzo di “progetto”). Su questo letto morbido si opera scavando o premendo corpi per costruire l’intero sistema di “segni-forma” organizzato variamente. L’operazione è analoga a quella compiuta camminando sulla sabbia bagnata in prossimità della battigia del mare. 43
4) Pietra dell’astronauta, 1957/58
5) Fluidità contrapposta, 1958
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Il letto di argilla, con la successione delle azioni di scavo o di pressione o di modellazione si trasforma quindi in uno “stampo”, creato agendo dal dentro verso il fuori, come se si fosse trasformati in un seme che germoglia e si espande nel vuoto dell’aria, che in questo caso però è “solida”, “piena”, essendo… argilla. Ho chiamato “crescite” i lavori di questa serie non a caso. Il letto d’argilla (l’aria, il “vuoto” solido) così preparato può essere catturato, rilevato, colandoci sopra del gesso liquido o della cera fusa, piombo fuso, o cemento liquido. Questa è la 2a Fase: la cattura dell’orma lasciata dalle azioni compiute sul letto d’argilla. Una volta solidificato il materiale colato si toglie l’argilla e l’orma apparirà. Quest’orma è il “modello” che servirà per le altre operazioni di fusioni in fonderia. 3a Fase: il “modello” viene trasformato in cera in fonderia, preparando un “guanto” di gelatina gommosa, sul quale si cola a spessore la cera di fusione, che, dopo essere stata chiusa nella conchiglia di cotto e gesso, verrà bruciata in fornace. La cera bruciata lascerà dentro la conchiglia dei vuoti, che verranno occupati dal bronzo fuso “gettato” al suo interno. La conchiglia viene spaccata e apparirà l’opera fusa in bronzo, in tutto simile al “modello”, all’orma in positivo. Le opere documentate dalle foto 4 e 5 sono state realizzate con lo stesso metodo. (Foto 4) Attorno al ’58 la stesura dei “segni” sul letto di argilla si organizza più fittamente secondo le direzioni principali della trama e dell’ordito, complicata da segni che attraversano diagonalmente i due movimenti organizzati verticalmente e orizzontalmente. L’organizzazione dei segni non è più organico-vegetale, ma è piuttosto di tipo minerale, più mentale che fredda. A questa fase appartengono opere che ho chiamato “libri” e che sono state in grande parte non realizzate in bronzo, e andate distrutte. (Foto 5) Quest’opera del ’58, esposta a Kassel prepara i lavori che chiamerò Superfici in tensione. La trama e l’ordito dei segni in negativo, fra di loro ortogonali, attraversano una superficie modellata ondulata e ne sottolineano l’andamento “continuo” ininterrotto. Ma ancora i segni si rilevano in opposizione alla superficie continua modellata del fondo da cui sorgono. Da qui il titolo di questa serie di opere: Fluidità contrapposte. In queste opere è possibile rilevare che una maggiore e continua ordinata intensità dei segni, della trama e dell’ordito, alludono alla superficie continua, senza più interruzioni o opposizioni, che da questo momento saranno assorbiti e inglobati all’interno della superficie, ponendola in stato di “tensione” e non cristallizzandosi all’esterno di essa. Le valenze di chiaroscuro dei segni non verranno più scaricate fuori, ma saranno sottese all’interno, modificando continuamente la superficie da questi posta in “tensione” e “formata”, come le nervature in una foglia. I “segni” non saranno quindi annullati, ma diventeranno lo scheletro portante attivo delle superfici “tese”.
Da fine 1958 al 1972 / Superfici in tensione Alla fine del 1958 ho realizzato le prime “superfici in tensione”, ponendo in tensione superfici di stoffa o di gomma, modificandole con tiranti e con corpi prementi, e colando del gesso liquido che si solidificava su questo “supporto” in tensione, autoportante, proprio perché posto in tensione. Le forme in gesso così ottenute, dopo aver asportato il tessuto-pelle, venivano poi realizzate in bronzo fuso e levigato sino alla lucidatura specchiante. La fusione in bronzo avveniva secondo il metodo classico descritto utilizzando i “modelli” in gesso da me direttamente preparati. La superficie in tensione di stoffa o gomma fungeva quindi da “Ietto”, il gesso era quindi l’orma delle azioni in tensione con cui la tela era stata modificata. A differenza del “Ietto” di terra la tela aveva uno spessore “virtuale”, non era rigido né pesante, poteva invadere porzioni di spazio molto vaste e articolarsi secondo le tre direzioni dello spazio reale. L’utilizzazione e la scoperta di questo nuovo metodo di lavoro non è stata tutta casuale, ma preparata da un intenso lavoro cosciente che si è sviluppato nella seconda metà del ’58, inizio del ’59, come testimoniano “fluidità contrapposte” e molti altri lavori intermedi. In gran parte è stata determinata dal lavoro manuale e dai materiali usati per compiere le ricerche e dall’attenta analisi delle azioni compiute, in un intreccio fitto e interagente con alcune ipotesi teoriche, una delle quali era la necessità di superare lo stallo della ricerca sui “segni” e riguadagnare una nuova condizione dei processi di determinazione della forma e dello spazio. Ricordo che desideravo far coincidere in un tutto continuo, come un flusso, la “forma” piena con il suo “spazio” vuoto. Con le “superfici tese” credo di aver raggiunto questo risultato di coincidenza, di risoluzione dell’antitesi che governa e insieme sempre insidia non solo le opere prodotte, ma anche i processi formativi delle forme scolpite. Le “pulsazioni” delle superfici in tensione erano costantemente dirette nelle due direzioni opposte simultaneamente, secondo un ritmo fondamentale che è quello della spirale. Le opere di quegli anni sembrano infatti percorse da movimenti d’energia ininterrotta e questa condizione o stato della “forma” scolpita veniva accentuato maggiormente dalla quasi specularità del bronzo lucidato. Queste sono parziali osservazioni a posteriori, riflessioni su un lavoro che è a monte di quanto poi son venuto facendo, le cui regole e metodi sono tutt’ora presenti nel lavoro attuale. Anche la ricerca non può che essere continua, ed è questa a determinare anche lo “stile” di lavoro. Ogni mia opera è legata a quella che la precede o che la segue, anche se questo non sempre accade linearmente (il che sarebbe oltretutto noioso per se stessi e per gli altri), ma ha luoghi e tempi di congiunzione e di consequenzialità variamente dislocati. Inoltre parlare di scultura è arduo, soprattutto non tenendo conto delle istanze contenutistiche, oltre a quelle formalistiche, sottese al “bisogno” di fare scultura. Ma ho promesso un prontuarietto pratico, e rimando ad altri momenti il discorso su 45
6) Matrice I, 1958
7) Uno, 1961
8) La Grande Ghibellina, 1961
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queste essenziali costanti, che presiedono ai processi di determinazione e di produzione delle forme scolpite. (Foto 6) È questa, la foto di un particolare di una delle prime “superfici in tensione”, il cui modello in gesso è stato fuso in bronzo levigato e lucidato. (Foto 7) La foto si riferisce alla scultura Uno, il cui gesso fu formato nel ’61 e fusa poi nel ’62, accostando fra di loro, sino a determinare un leggero spessore, la faccia positiva e quella negativa. Risultano quindi due fronti maggiori, e dei profili periferici netti, che mettono in rilievo la costruzione “strutturale” interna. In alcune opere ho fatto emergere sempre più la “struttura” interna, ispessendo i profili perimetrali. (Foto 8) È questa una delle prime “superfici in tensione” il cui “modello” in gesso è stato tradotto in marmo, anziché in bronzo fuso. Le tecniche di riproduzione in marmo sono anche più accurate e perfette di quelle in bronzo, in più è possibile intervenire ulteriormente per il fatto che le opere di pietra sono piene anziché vuote come quelle di bronzo. (Foto 9) Attorno al ’65 ho realizzato una serie di opere chiamate Radiali, le cui superfici in tensione si sviluppano su una struttura interna predeterminata, secondo le tre direzioni cartesiane dello spazio. Questa fotografata si riferisce a un “modello” realizzato in marmo nero del Belgio. (Foto 10) Dal ’63 al ’69 si precisa una costante del metodo di lavoro, relativo alla scala, alla dimensione delle opere rapportate al corpo umano e alle sue misure medie. A questo periodo appartengono le Folle e i Quadrati Borromini. Le prime hanno un’altezza attorno ai due metri, e una lunghezza, in orizzontale, variabile, mentre i secondi sono quadrati di metri due per due. A parte gli “studi” e i bozzetti, le “superfici in tensione”, di grandi dimensioni, sono tutte rapportate alle misure medie del corpo umano. Questo metodo è fondamentale anche per il lavoro attuale, e nelle ultime opere di pietra le misure sono diventate il tema centrale attorno al quale si sviluppano. (Foto 11) Sul finire degli anni ’60 il perimetro di demarcazione dell’opera e le sue strutture interne diventano, come nei “radiali”, uno scheletro sul quale si sviluppano le superfici e sul quale sono poste in tensione. Questo “scheletro” strutturale portante è progettato e approntato a monte dell’esecuzione in gesso del “modello”. Questa fase segna la fine del lavoro di ricerca attorno alle superfici in tensione e l’inizio di un’altra, che dura tutt’ora. Le ultime superfici in tensione su scheletro portante, realizzate in bronzo o in poliestere sono del 1971-’72 (periodo della mostra a New York alla Martha Jackson gallery). Da questo momento la progettazione della struttura portante verrà fatta in funzione del “blocco” di pietra, preventivamente squadrato, e inteso come blocco “trasparente” nel quale è possibile stendere una fittissima rete di coordinate ortogonali (una trama e ordito tridimensionale).
Dal ’70 all’80 / Le opere in pietra (Foto 12, 13, 14) Le tre opere, tutte in pietra, testimoniano quanto detto più sopra, l’abbandono del metodo di lavoro delle superfici in tensione, la più accentuata cura per la progettazione della struttura portante, disegnata all’esterno delle facce squadrate del blocco di pietra e al suo interno. Le superfici “interne” anche se “tagliate” direttamente nel blocco di pietra, sono morfologicamente prossime a quelle in tensione. Il metodo di lavoro è tutto sotto la regola del “togliere”, regola tradizionale del lavoro sulla pietra (che però coincide col “porre” spazio “vuoto” al posto del “pieno” della materia), e non di quella del “mettere” (il colaggio del gesso liquido sulle superfici di stoffa in tensione). Va ricordato che compare sempre, anche in questi lavori, il valore della “tensione” trasformata in “torsione”, che si preciserà da questo momento sempre più chiaramente. La presenza dei movimenti a “spirale” è a fondamento di questa qualità delle forme scolpite. Sono questi movimenti spiraliformi a essere un’altra costante del mio lavoro di ricerca, che legano fra di loro opere “superficialmente” diverse o che tali appaiono all’osservatore disattento e non convenientemente attrezzato alla lettura delle opere di scultura. Ma questa costante è rilevabile solo a posteriori, a ricerca compiuta, e l’ho riscoperta, criticamente, come costante che attraversa diagonalmente un arco di tempo quasi trentennale di lavoro. La spirale comparirà poi emblematicamente nelle “figure” del sole. Il lavoro di questi anni si articola secondo tre direzioni fondamentali: verticale, orizzontale e circolare. Dal ’70 all’80 le opere saranno eseguite quasi esclusivamente in pietra e molto raramente in bronzo. Queste ultime saranno ricavate da modelli in pietra. (Foto 15 e 16) Le “figure” del sole: sono opere, figure araldiche e simboliche del sole reale, inteso come fabbrica senza proprietari. Sono figure ricavate da tamburi cilindrici, a spessore variabile, ma proporzionale al raggio. Nello spessore sono ricavati andamenti di torsione della periferia rispetto al centro. I progetti di queste figure sono rigorosamente geometrici, sviluppati anche secondo le valenze “simboliche” dei numeri fondamentali (l’l, il 2, il 3 ecc.); tengono conto del valore della simmetria e dell’opposizione dei contrari, propri della figura fondamentale che governa la costruzione e che è la “spirale”. La “spirale” è un’altra costante costruttiva del mio lavoro, percepibile sin dagli inizi (notazione a posteriori) ma qui assunta come cardine e “seme”, sempre persistente. Le figure sono ricavate con la tecnica del taglio diretto del blocco di pietra e le due facce sono uguali e opposte. Con i “soli” m’è stato possibile percepire il valore delle “direzioni”, determinate dagli angoli alle quali ancorare la composizione, e dalla spartizione dell’angolo giro di 360°, in due, tre, quattro, cinque, sei, sino a dodici parti, e oltre, secondo le regole canoniche della costruzione di figure poligonali. In queste opere il sole è “nominato” secondo componenti geometriche e simboliche, in altre opere più recenti è stato assunto come attore. Ho costruito cioè
9) Radiale Tondo, 1961
10) Folla IV, 1963
11) Marat, 1968
12) Contatti Antagonisti I°, 1973/74 47
13) T-verticale-orizzontale, a Unidad Popular, 1973
14) Marat III, 1973
15) Sole Produttore - Comune Raccolto, 1973
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dei “sistemi” plastici-formali atti a misurare il valore temporale del suo moto apparente nella volta celeste. Questo lavoro d’indagine è solo ai suoi inizi, ed apre una dimensione estremamente dilatata d’intervento per il lavoro futuro, in direzione pubblica e collettiva. La foto 16 si riferisce a una “figura” araldica coricata rispetto all’orizzontale, e non rizzata sulla verticale come nel caso della foto 15, posizione questa più propriamente “araldica”. (Foto 17) La porta e il sole è un’opera per la “dimensione esterna” della scultura, commessa da un privato per uno spazio aperto, privato. Le sue dimensioni tengono conto di quei rapporti dimensionali di cui ho parlato più sopra, riferiti alla figura umana, anche se “dilatati”. È un’opera di pietra e questa peculiarità introduce a un’altra riflessione obbligata. La pietra permette molto più agevolmente di altri materiali tradizionali di accedere a questa “dimensione esterna”. Questa dimensione non è solo riferita al collocamento dell’opera in uno spazio fisico-geografico, ma anche ai rapporti di produzione e alla destinazione dell’opera, fuori dalle regole e dai luoghi deputati dell’economia di mercato. Nel caso di La porta e il sole è stato possibile accedere al solo luogo esterno geografico-fisico, in quanto l’opera è collocata in un parco privato. L’accesso di quest’opera nei canali del mercato d’arte corrente non è certo agevolato né dal suo peso, né dal suo volume, né dal fatto che l’opera è stata realizzata, nelle sue dimensioni, proprio per quel determinato luogo al quale è commisurata. La committenza è stata diretta, fra me e l’amatore d’arte, per il quale è stata eseguita. Il suo particolare collocamento allude tuttavia a una committenza di tipo pubblico e a un uso collettivo, “aperto”, alla necessità di riguadagnare un “valore d’uso” per la scultura. È di una certa importanza sottolineare che l’opera è stata eseguita contemporaneamente al Piano d’uso collettivo: a Gramsci, Ales 1977, che più compiutamente ha guadagnato questa “dimensione esterna”, per quanto riguarda i rapporti di produzione. Si tralasciano qui altre considerazioni di tipo iconologico, riferibili all’opera, per restare fedeli ai propositi. (Foto 18) Del Piano d’uso di Ales si è molto parlato e rimando alla pubblicazione stampata a cura di Casa Gramsci di Milano-Ghilarza. Le sole considerazioni sono da farsi per il tipo e forma di partecipazione collettiva che la costruzione del “piano” ha attivato, modificando dal di dentro i processi formativi, sui quali questa partecipazione “creativa” ha fortemente pesato, modificando, anche se in parte, la volontà “progettuale” e il risultato dell’opera. La riflessione fondamentale che ho potuto fare è che operando con il concorso d’una collettività e nei suoi luoghi specifici, con i materiali e la forza lavoro del luogo, il “progetto” non è mai l’“opera”. Ne consegue che il progetto deve necessariamente essere il più possibile “aperto”. Quest’opera pubblica è stata realizzata come atto volontaristico di associazioni e gruppi di persone, non è un’opera commessa da istituzioni pubbliche, regionali o statali. Con la sospensione della vecchia
e molto discussa legge del 2% la committenza pubblica dell’arte è oggi quasi inesistente. Occorre una nuova legge che definisca più compiutamente la funzione sociale dell’arte e non la degradi ad azione di mera decorazione di edifici pubblici, che tenga conto delle autonomie locali e regionali, che aderisca alle diversificazioni dei territori e della loro storia, dove si esplichi l’azione di governo delle amministrazioni, che faccia proprio l’obiettivo di una partecipazione responsabile dei cittadini alla costruzione delle opere rispondenti ai loro reali bisogni, connessi allo sviluppo della convivenza e del primato civile. Vaste zone di territorio di proprietà pubblica, non solo nelle città, sono aree degradate, indefinite, aree che potrebbero servire per l’incontro e la sosta della gente, e che potrebbero diventare anche “ponti” ricostruiti per il raccordo fra i centri storici e le nuove aree di sviluppo urbano, due realtà discontinue incomunicabili delle nostre città, nel nostro Paese. Sono compiti nuovi con cui occorre misurarsi, vicendevolmente, amministratori e amministrati (fra i quali sono anche gli artisti), da cui può derivare una rinascita complessiva e una trasformazione della vita nelle città e nelle campagne. È una strada difficile da percorrere, ma obbligata, non identificabile con le proposizioni dell’“arredo urbano”, dell’opera d’arte intesa come decoro del centro cittadino. L’arte deve poter trasformare il “paesaggio” urbano all’interno delle sue strutture, trasformando anche la “vita” della gente, le loro abitudini, il loro senso comune. Esiste la possibilità concreta di una collaborazione fra architetti e scultori, come ho potuto verificare anche a Ravenna, con la sistemazione dell’area del Ponte dei Martiri a Porta Gaza. Questa sistemazione, voluta dall’amministrazione comunale di Ravenna, s’è realizzata con la collaborazione dei tecnici e dei progettisti dell’assessorato all’urbanistica. Quest’opera è uno di quei “ponti” fra centro storico e nuove aree di sviluppo urbano, di cui parlavo sopra, atti a modificare l’assetto del territorio urbano ricomponendone le fratture, negative per la vita associata e per il suo sviluppo. (Foto 19) Il Luogo di misure, così come la grandissima parte delle opere in pietra, è stato realizzato con l’indispensabile maestria di alcuni maestri scalpellini di Versilia. Senza il loro lavoro queste opere in pietra non esisterebbero, nel loro numero e nelle loro proprie grandezze e pesi. Quest’opera dovrebbe avere un collocamento sulle colline e fra gli ulivi sopra Pietrasanta, in un luogo scansato, fra quelli cari ai cavatori di pietra, insieme agricoltori e scalpellini, ai quali l’opera è dedicata. Questa è governata interamente da numeri e da rapporti di misure. Numeri e misure determinano ogni singola parte dell’opera, che è parte commisurata al tutto, all’insieme dell’opera. Numeri e misure sono anonimi, come le pietre che compongono i muri degli uliveti versiliesi, opera degli scalpellini-agricoltori. Quest’opera è stata interamente autocommessa, ed eseguita con mezzi provenienti dalla compravendita privata di altre mie opere. Le dimensioni totali
16) Sole deposto, 1974/75
17) La porta e il sole, 1975/77
18) Piano d’uso collettivo: a Antonio Gramsci, Ales 1974/77
19) Luogo di Misure, 1978/80
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dell’opera sono in rapporto a quelle dell’uomo medio, e si sviluppano a spirale, a partire dal piano orizzontale di metri 8×8. La pietra usata è quella calcarea di Trani, da me quasi sempre usata per opere di grandi dimensioni, aperte all’uso collettivo.
Sole-luna-Albero 1981-’85 / Sistema plastico e una piazza a Monza
20) Sole, luna, albero Monza 1981/85
(Foto 20) All’inizio degli anni ’80, la società milanese COGEDIL di Monza mi ha commissionato il progetto di una piazza in un complesso edilizio progettato dall’ingegner Urbano Pierini. Una commissione privata per un uso pubblico di una struttura “plastica” e non già una commissione di un ente o di un’istituzione pubblica. Il progetto di allora in questa primavera sarà opera compiuta. Differentemente altri progetti eseguiti per enti pubblici sono sempre, almeno sino ad oggi, progetti… nel cassetto. Molte speranze si sono confuse con i sogni, amaramente, nonostante che il “tetto” della spesa pubblica lasci scorgere, di notte, le stelle, se non piove. Pare che non manchi la voglia di una diversa “qualità” della vita, ma fra il Palazzo e la strada il deserto avanza inesorabile. Ma “deserto” è un termine che designa una condizione naturale ricolma di vita e di inquietante bellezza. Ben diverse sono le periferie delle nostre città e, spesso, anche il loro centro. A onor del vero, ci sono eccezioni, ma rarissime, e il problema dell’assetto del territorio, come si dice, è sempre aperto, non solo da noi. Industriali di Brianza quindi avranno realizzato uno dei diversi progetti di questi anni, a cui ho dedicato molto del mio tempo, sottratto al “far sculture”. Sia detto questo solo per dovere di cronaca, senza polemica, ma con amarezza. Non ignoro che il fine dell’impresa privata è il profitto, ma la piazza di Monza potrà essere “usata” da tutti. Non dimentico neppure che la crescita e lo sviluppo impetuoso e selvaggio delle città ha prodotto anche la desolazione di tante periferie, il degrado dei centri storici. La domanda è se e come si è corretto, o tentato di correggere dove si è operato male. A me pare che il problema rimanga aperto, fatte salve le poche eccezioni di merito, anche per quanto riguarda la consistenza della volontà e della necessaria tenacia d’azione correttiva, di mutamento di rotta. Le difficoltà sono davvero tante, come le competenze, ma si può almeno essere certi che di progetti non manchiamo, per i quali si sono spesi soldi ed energie e che è insensato continuare a produrne. Se ne realizzi un’infima percentuale, anche se in ritardo, con i “piedi dentro il piatto”. La piazza a Monza, sulla via Ramazzotti, servirà di punto d’incontro e di aggregazione per un grande quartiere di residenza, alle spalle del Parco della Villa Reale, che ne era sino ad ora completamente sprovvisto. Milano, aprile 1985
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Città germinale 1981-1982 / Scultura ambientale per l’atrio del Credito Fondiario S.p.A., Roma (Foto 21) L’opera in marmo statuario bianco di Carrara e marmo nero del Belgio, commissionatami dalla Direzione del Credito Fondiario per l’atrio del palazzo progettato dall’architetto Sterbini, è racchiusa in un cubo virtuale di metri 2,50×2,50×2,50 ed è omaggio doveroso ai grandi utopisti, e ai costruttori di città “solari”. I disegni e i modelli esposti e le foto dell’opera compiuta daranno conto, più delle parole, e i disegni soprattutto, in quanto “lingua”, dei contenuti e delle sue forme. Desidero ringraziare qui, l’architetto Sterbini per l’attenta collaborazione avuta, a partire dalla fase del progetto, l’avvocato Nazzaro e il dottor Del Croix, della direzione della Banca romana, per il loro fiducioso appoggio, per li’ realizzazione dell’opera.
21) Studio per Città germinale, 1982
Milano, aprile 1985
Albero-spirale 1984-1985 / Progetto di una scultura ambientale per il giardino di un amico (Foto 22) Non sempre è agevole parlare di un progetto d’una propria opera, prima che questa sia diventata realtà. Troppo spesso l’opera non corrisponde al suo progetto, perché ad opera ultimata e collocata intervengono fattori esterni e preesistenti a questa, difficilmente controllabili, in quanto estranei o casuali, che possono compromettere fatiche e speranze. Nel giardino di un amico con altri “alberi” dovrà competere questo mio “Albero-Spirale” pietroso. Fra le meraviglie di natura gli alberi sono benigni amici, cattedrali misteriose e maestose. Difficile è competere con essi: si rischia d’essere atterrati da una impietosa scure sotto lo stormire d’amorose fronde… Sempre meglio comunque che essere soffocati da cataste d’automobili, come in altre circostanze m’è accaduto. È attorno alla metà degli anni ’70 che incomincio a lavorare intorno a una idea “fissa” che da sempre mi tormentava, gli ALBERI, appunto, perché rapito dalla loro implacabile bellezza e maestà, dalla loro quiete leggiadra, dal labirinto dei loro rami spogli, dallo spiralico movimento di crescita e sviluppo. Movimento ancorato al suolo, da oscure, ctonie radici, e alla luce solare, di giorno in giorno, da stagione a stagione. Movimento oltremodo ricco di chiaroscuri e sorretto da potenti o esilissime strutture architettoniche; movimento doppio, verticale e orizzontale, simultaneo, intrecciato. Movimento-danza, movimento-musica, regno di numeri e geometrie, d’acque e di raggi infuocati, d’energie esplodenti, raggianti o contenute e protette sotto ruvide scorze, di fluidi ascendenti e discendenti, spiralici anch’essi. Alberi produttori di semi e di frutti, dimora di uccelli alati, foglie d’aria fra foglie solari. Ma oltre
22) Spirale ’82, Aeroporto di Malpensa, Milano, 1982
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a tutto ciò mi commuove degli alberi la loro congiunzione modesta fra opposti in apparenza irriducibili, fra terra e aria, fra fuoco e acqua, da cui deriva questa loro solennità e maestà di pacificatori incruenti. È mia speranza di poter mettere a frutto, dopo quasi dieci anni, le esperienze maturate su queste riflessioni, con sculture e progetti di modesta dimensione, con questa tutta nuova e di grandi dimensioni che l’amore per l’arte di un amico mi darà modo di realizzare. I progetti grafici e il modello in scala possono solo annunciare, ma non dar conto dell’opera, che è da fare e da far “crescere” fra le mani, fra certezze e dubbi e indispensabili correzioni o variazioni. La lettura che se ne vuole dare, è quella, come s’usa dire, di “prima stesura”. Dico questo perché è mia intenzione di approfittare d’una occasione che mi viene data, e di non sprecarla. Occorrerà quindi elaborare più a fondo sia il progetto sia i modelli operativi, senza tuttavia modificare l’impianto di “massima” che viene presentato assieme ad altri fogli, annotazioni e variazioni. Il progetto è quindi “aperto” e come tale va inteso e letto. I fogli colorati non traggano in inganno, perché l’opera sarà in pietra di Trani e le colorazioni delle varie parti servono soltanto per l’individuazione delle varie parti costitutive dell’opera, sia per quanto riguarda le piante sia per i pilastri verticali, in assonometria. S’è voluto accompagnare la presentazione di questo progetto con altri di opere già realizzate o prossime ad essere ultimate, fra di loro legate da un filo conduttore o comunque imparentate, non fosse che per fornire alcuni elementi di confronto e di verifica, senza dimenticare quanto più sopra è stato detto a proposito dello stato attuale “aperto” del progetto di “Albero-Spirale” 85. Milano, aprile 1985
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Enrico Mattei
ARTE E SCIENZA A TAORMINA Qual è il rapporto che lega arte e scienza? Si può ipotizzare di aver a che fare con due fattori “opposti”: la struttura positiva e confermata della conoscenza scientifica, da un lato, e l’intuitività dell’arte, prodotto della irrazionalità umana, dall’altro lato. Ma è veramente corretto giudicare l’opera d’arte come un prodotto dell’irrazionalità umana, un esito della emotività non ragionata, priva di regole e di canoni estetici? Mentre la scienza, al suo opposto, sarebbe il prodotto di un perfetto razionalismo, il risultato di procedure ampiamente verificate, la ricerca di una verità univoca, certa e inconfutabile? Le antinomie filosofiche prodotte nel raffrontare l’arte con la scienza male si addicono al paragone contemporaneo. In verità tale impostazione del rapporto arte-scienza è sbagliato, soprattutto se si rivolge lo sguardo al passato, per esempio al Rinascimento italiano. Luca Pacioli, Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, Piero della Francesca non solo erano artisti, ma anche eminenti scienziati e matematici. Gli studi sulla prospettiva di Piero della Francesca avrebbero trovato una loro diretta applicazione e dimostrazione nella pittura di personaggi ed ambienti scalati secondo le regole del disegno geometrico in prospettiva. Il realismo di Leonardo e del Mantegna, e più tardi dello stesso Michelangelo derivano da accurati studi di anatomia compiuti sui cadaveri. La scelta di piante e di animali che adornano i quadri e i paesaggi della pittura del ‘500 e del ‘600 non è affatto casuale. La presenza di certe configurazioni di nuvole nei quadri del Rinascimento fiammingo indica attenzione allo studio dei cambiamenti climatici. La realizzazione di un’opera d’arte quattrocentesca o cinquecentesca non era dunque una questione di ingenuo e buon artigianato manuale, come aveva supposto la critica d’arte romantica dei primi dell’800, ma un’espressione complessa di scienza e di cultura artistica, dove scelte di oggetti, misure, proporzioni e punti di vista venivano attentamente calcolati secondo i “canoni” cioè le regole dell’artista. I canoni dell’artista rinascimentale erano anche canoni riconosciuti dalle avanguardie scientifiche ad esso contemporanee. Dobbiamo inoltre riconoscere che, anche se c’è stato un decadimento dovuto alla mancata comprensione del nesso tra arte e scienza, questa “qualità” culturale dell’arte italiana si è mantenuta attraverso i secoli, e distingue ancora i nostri artisti da quelli di altri paesi, specialmente dall’arte di altri continenti. In Arte e Geometria del 1987 Gio’ Pomodoro sosteneva che nel mondo contemporaneo i rapporti fra Arte e Scienza non sono più «stretti e consonanti» né si trovano in un intreccio «vivo e fertile» di «corrispondenze, risonanze, reciprocità» come era accaduto in altre epoche. Presentando una sua opera, lo scultore rievoca il Cinquecento e il Seicento, i due secoli di Galileo, in cui «Arte e Scienza erano ancora unite» e non si trovavano in uno «stato di discontinuità e disarmonia». Quindi un’opera come La Spirale per Galileo diviene così lo schema di una possibile «riconciliazione» tra l’Arte e la Scienza, secondo l’idea di un doppio movimento «espansivo e contrattivo» verso un centro inaccessibile che le accomuna e le rende affini. La spirale è anzitutto una «costante costruttiva» della scultura di Gio’ Pomodoro, che attraversa un arco molto lungo del suo lavoro come «cardine e seme sempre persistente». Anche in questi lavori compare sempre il valore della
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«tensione» che a differenza delle opere precedenti nominate da Gio’ Superfici in Tensione, è trasformata in «torsione». La presenza dei movimenti a «spirale» è a fondamento di questa qualità delle forme scolpite. A questo punto, però, si pone l’interrogativo: è possibile compiere un passo ulteriore, e tentare di stabilire la correlazione omologica tra strati “alti” e “bassi”, o si tratta di un’impresa avventata, senza alcuna garanzia di serietà scientifica? Per esempio, gli indiscussi raggiungimenti di Erwin Panofsky, lo strato di tecnologia materiale che si può correlare alla forma simbolica della prospettiva rinascimentale, è quello che appunto Marshall McLuhan ha chiamato Galassia Guntenberg, la stampa a caratteri mobili: una tecnologia che impone criteri di funzionamento fondati sulla omogeneità degli elementi impiegati, sulla loro ripetitività, sulla possibilità di ordinarli serialmente, in linee e colonne. Tutto questo è omologo a una griglia ideazionale “alta” fondata sul sistema degli assi cartesiani, a loro volta strumenti per misurare, analizzare uno spazio infinito e omogeneo in ognuna delle tre direzioni canoniche. Gio’ Pomodoro proprio nel 1958 realizza le sue prime “superfici in tensione” ponendo in tensione superfici di stoffa o di gomma, modificandole con tiranti e altre strutture prementi, la tela aveva uno spessore «virtuale», non era rigida né pesante, poteva invadere porzioni di spazio molto vaste e articolarsi secondo le tre direzioni dello spazio reale. Tutto doveva coincidere come un flusso unico, la forma piena con il suo spazio vuoto, attraverso le “superfici tese” aveva raggiunto questo risultato di coincidenza. Pulsazioni che spingevano nelle due direzioni opposte simultaneamente, secondo il ritmo della spirale. Il materiale impiegato come il bronzo lucidato aiutava molto le forme scolpite perché accentuava quel senso di energia ininterrotta dovuta ai movimenti. La monumentalità delle opere nel centro storico di Taormina per arrivare fino al Teatro Greco Romano e sotto verso i Giardini Naxos, non è data solo dalle dimensioni. Gio’ Pomodoro è monumentale nel suo pensiero artistico, lo sviluppo di una scultura in grandi misure si aggiunge solo quando la stessa è collocata in un grande spazio, quando l’imponenza diviene dialogo con lo stesso spazio come in questa operazione siciliana in cui la storia dell’arte si racconta attraverso la storia e viceversa. In un suo noto saggio Marc Augé definiva la correlazione tra evento e storia, informazione e sapere come la doppia quadratura del XXI secolo, evidenziando tutta la natura conflittuale dei rapporti tra queste quattro categorie di oggetti culturali. Un evento è strettamente legato all’informazione. Si può addirittura affermare che la sua entità sia definita proprio in base al numero e al tipo di informazioni di cui è oggetto. Evento e informazione, poi, si collocano nel presente, ovvero, in quella precisa dimensione temporale che si trova al confine tra il passato e il futuro. La storia e il sapere, invece, non possono essere circoscritti all’immediato, in quanto una loro caratteristica intrinseca è proprio il perpetuarsi nel tempo andato e a venire, ma entrambi, così come l’evento e l’informazione, sono oggetti culturali fluidi, oggetto di flussi e flussi essi stessi. Tutto ciò trova stretta correlazione con la mostra di Gio’ Pomodoro a Taormina. 55
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EX CHIESA SAN FRANCESCO DI PAOLA
Studio per Montefeltro, 1976 marmo nero del Belgio, 115Ă—60Ă—90 cm
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Tensen bronzo bianco
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Hermes Afrodite, 1984 marmo rosa del Portogallo, 106Ă—49Ă—49 cm
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Ekateion, 1985 marmo nero Foresta e marmo nero Belgio, 99Ă—64 Ă˜ cm
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Arco, 1973-1988 bronzo lucido, 65,5×130×38 cm
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Forma distesa, 1963-1964 bronzo lucido, 58Ă—143Ă—30 cm
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Erma, 1983 pietra di Trani e bronzo 87Ă—53Ă—30 cm
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Erma ctonia, 1983 marmo petit gris Napoleon e nero del Belgio 92Ă—42Ă—45 cm
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Sole Produttore, 1975 marmo rosso Francia, 97Ă—120Ă—120 cm
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Fuori dal Centro, 2001 acquarelli, ossidi e matita su carta a mano spagnola, 200Ă—200 cm foto Costanza Benetti Genolini, Milano
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Blu e Rosso Fuori Centro, 1999-2001 acquarelli, ossidi e matita su carta a mano spagnola, 200Ă—200 cm foto Costanza Benetti Genolini, Milano
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CENTRO STORICO
Quadrato della Mente II, 1965 bronzo patinato 205Ă—205Ă—58 cm
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Albero, 1977 marmo bianco Statuario 187×184×178 cm
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Folla Grande, 1961-1962 marmo bianco Statuario, 112×255×40 cm
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L’Albero e il Sole, 1974 pietra grigia-gris, 162×179,5×180 cm
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Figlia del Sole, 1991 bronzo patinato verde, base in Sodalite, 188Ă—64Ă—64 cm
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Guscio, 1965-1974 pietra di Trani, 93×67×68 cm
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Contatti Tenaglia, 1970 bronzo patinato, 203Ă—165Ă—206 cm
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PARCO ARCHEOLOGICO DI NAXOS E DELLE AREE ARCHEOLOGICHE DI GIARDINI NAXOS TAORMINA, FRANCAVILLA E DEI COMUNI LIMITROFI
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TEATRO GRECO ROMANO preview
Grandi Contatti Spirale, 1970 poliestere nero, 225Ă—500Ă—108 cm
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Quadrato della Ragione, 1965 poliestere argento, 204Ă—200Ă—30 cm
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TEATRO GRECO ROMANO opere in mostra
Matrice-Contatti, 1960-1962 bronzo patinato, 175Ă—100Ă—112 cm
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Coesistenza III, 1959 bronzo patinato 166×110×82 cm
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AREA ARCHEOLOGICA DI NAXOS
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Biografia Gio’ Pomodoro è nato il 17 novembre 1930 a Orciano di Pesaro, nella campagna marchigiana, vicino a Urbino. Nel 1945 la sua famiglia si trasferisce a Pesaro, dove Gio’ frequenta l’Istituto Tecnico per Geometri, diplomandosi nel 1951. Fra il 1952 e il 1953 presta il servizio militare fra Siena, Bologna e Firenze. In quest’ultima città visita quotidianamente i musei e frequenta l’ambiente artistico che gravita attorno alla Galleria Numero, dove espone anche le sue prime ricerche “informali”. Dopo la morte del padre, Gio’ si stabilisce a Milano con la madre, la sorella e il fratello Arnaldo. L’ambiente artistico e culturale milanese che frequenta in questo periodo è particolarmente attivo. Dopo le mostre tenute insieme al fratello alla Galleria del Naviglio di Milano e alla Galleria Il Cavallino di Venezia, dirette dai fratelli Carlo e Renato Cardazzo, Gio’ è invitato a partecipare alla Biennale di Venezia del 1956, dove espone una serie di argenti fusi su osso di seppia dedicati al poeta Ezra Pound, eseguiti a partire dal 1954. L’anno successivo collabora attivamente alla rivista Il Gesto e partecipa alla mostra Arte Nucleare alla Galleria San Fedele di Milano. Con Dorazio, Novelli, Turcato, Tancredi, Perilli, Fontana e suo fratello Arnaldo andrà a organizzare le mostre del gruppo Continuità, presentate da Guido Ballo, Giulio Carlo Argan e Franco Russoli. Nel 1958 una sua mostra personale, tenutasi alla Galleria del Naviglio, viene presentata dall’architetto Gio Ponti. Alla morte della madre si trasferisce nello studio di via Orti 19, che condividerà con il fratello fino al 1964. Si distacca quindi dal gruppo costituito attorno alla rivista Il Gesto per divergenze teoriche e diverso indirizzo di ricerca. Esaurita l’indagine relativa al segno-gesto automatico, Gio’ approfondisce il problema dell’organizzazione razionale dei Segni e del “far segni” in negativo con una serie di rilievi a cui darà il nome di Fluidità contrapposta. Uno di questi è esposto a Documenta II, a Kassel, nel 1959. Nella seconda metà del ‘58 Gio’ studia e realizza le prime superfici in tensione che presenta a Parigi alla Galerie Internationale d’Art Contemporain nel 1959. Sempre a Parigi, alla prima Biennale dei Giovani Artisti del 1959, espone una tensione in bronzo e vince il primo premio per la scultura insieme ad Anthony Caro. Nel 1961 tiene un’altra importante personale presso la Galerie Internationale. Verso la fine dello stesso anno nasce suo figlio Bruto. Nel 1962 espone a Milano alla Galleria Blu e a Ginevra presso il Musée de l’Athénée e viene invitato alla XXXI Biennale di Venezia con una sala personale, presentato in catalogo da Guido Ballo. Nello stesso anno stringe un contratto di esclusiva internazionale con la Galleria Marlborough, che interromperà nel 1967. Nel 1963 espone a Bruxelles al Palais des Beaux-Arts, con presentazione critica di Giulio Carlo Argan. Nel 1964 la Tate Gallery di Londra acquista l’opera One del 1960, mentre a Documenta III, a Kassel, viene esposta una serie di superfici in tensione. Realizza inoltre due grandi opere della serie Folle, delle quali una sarà acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma, l’altra, la Grande Ghibellina in marmo bianco, dalla collezione Nelson Rockefeller. Nel 1965 inizia i Radiali e i primi studi sulle strutture portanti, esponendo al Louisiana Museum di Copenaghen e al Musée des Beaux-Arts di La Chaux-de-Fonds. Lavora sino al 1966 al ciclo di opere I Quadrati, utilizzando rigorosamente la dimensione di due metri per due; queste opere sono esposte per la prima volta al Kunst- und Museumverein di Wuppertal. Dopo due viaggi negli Stati Uniti, dove soggiorna per alcuni mesi, esegue, fra il 1966 e il 1967, l’opera Black Liberator, dedicata ai neri d’America. Nel 1967 espone alla galleria Marlborough a New York. Nello stesso anno stringe un contratto di esclusiva con la Martha Jackson Gallery di New York, presso la quale esporrà, nel 1971, i suoi nuovi lavori – dai Contatti al Sole di Cerveteri, per Gastone Novelli – nati dall’approfondimento delle ricerche sulla struttura portante e sul campo in tensione. 145
Nel 1968 inizia la collaborazione con Beatrice Monti e la Galleria dell’Ariete di Milano, dove espone diverse volte. Dal 1970 in poi, nel suo studio versiliese di Querceta ai piedi delle Apuane, Pomodoro realizza opere di grandi dimensioni, in pietra, marmo e bronzo. Nel 1972 inizia due nuovi cicli di opere: gli Archi e il Sole Produttore - Comune Raccolto. Nel 1974 espone opere in pietra alla Galleria del Naviglio di Milano, con presentazione critica di Guido Ballo; nell’estate dello stesso anno si tiene a Ravenna, alla Loggetta Lombardesca, la sua prima mostra antologica, dove vengono esposte opere a partire dal 1958. A questa fanno seguito, due anni più tardi, altre due importanti mostre personali, al Castello dell’Imperatore, nel centro storico di Prato e al Musée d’Ixelles a Bruxelles, quest’ultima presentata da Jean Coquelet. Nel 1976 espone una serie di Soli alla Galleria Stendhal di Milano, con testo critico di Paolo Fossati. Nel 1977 realizza, in collaborazione con gli abitanti di Ales, in Sardegna, il Piano d’uso collettivo, grande opera pubblica dedicata ad Antonio Gramsci, di cui esporrà i materiali progettuali e di reportage fotografico a Ca’ Pesaro a Venezia. Sempre nel ‘77 esegue l’opera monumentale La Porta e il Sole per un committente privato. Nel 1978 Gio’ cura l’allestimento scenografico dell’opera di Verdi La Forza del destino, rappresentata nell’estate all’Arena di Verona. Nello stesso anno viene invitato a esporre alla Biennale di Venezia con una sala personale. Nel 1979 inizia la progettazione dell’opera monumentale Teatro del Sole - 21 Giugno, Solstizio d’Estate, una piazza-fontana dedicata a Goethe, commissionatagli dalla municipalità di Francoforte (il lavoro sarà terminato e inaugurato nel maggio del 1983). Dal 1974 al 1980 sono numerosissime le esposizioni collettive a cui Gio’ Pomodoro partecipa, in Italia e all’estero. Nel 1980, in Piazza dei Signori a Verona, Gio’ espone una delle sue opere più significative: il Luogo di Misure. Nello stesso anno, dopo aver curato la scenografia del Flauto Magico di Mozart, rappresentato al teatro La Fenice di Venezia, realizza il complesso architettonico Ponte dei Martiri - Omaggio alla Resistenza, nell’omonima piazza della città di Ravenna. Nel 1981 la Galleria Farsetti di Focette (Pietrasanta) gli dedica una personale, presentata da Carlo Ludovico Ragghianti. Nel 1982 inizia altri due importanti lavori: la scultura d’uso collettivo Spirale ‘82 per la Società Aeroportuale S.E.A., collocata di fronte all’aeroporto milanese di Malpensa, e Sole-Luna-Albero, complesso monumentale di piazza Ramazzotti a Monza, completato nel 1986. Nello stesso anno espone alla mostra Arte Italiana 1960-1982 alla Hayward Gallery di Londra. Nel 1983 Pomodoro – dopo essersi trasferito nel nuovo studio milanese di via San Marco 50 – espone, insieme a Dorazio e a Nigro, allo Studio d’Arte Contemporanea Dabbeni di Lugano e quindi a Volterra, con Tilson e Ipoustéguy, nell’ambito della mostra Le materie dell’opera, presentata da Antonio Del Guercio. Nel 1984 viene nuovamente invitato, con una sala personale, alla XLI Biennale di Venezia e partecipa all’esposizione Il Linguaggio della Geometria al Kunstmuseum di Berna. Sempre dello stesso anno è la grande mostra antologica, con opere dal 1954 al 1984, organizzata dalla città di Pisa, all’interno delle sale di Palazzo Lanfranchi, a cui fa seguito una mostra sul mitologema di Hermes alla Galleria Stendhal di Milano. Nel 1985 lo Studio d’Arte Contemporanea Dabbeni di Lugano allestisce una sua personale; contemporaneamente la città di Lugano presenta per la prima volta al pubblico – in modo completo – il ciclo di sculture dedicato a Hermes, all’interno del Palazzo Civico. Questa mostra è un omaggio di Gio’ Pomodoro a Károly Kerényi, eminente studioso del mito e della religione greca, vissuto lungamente ad Ascona. Sempre a Lugano, nella villa La Favorita, viene installata permanentemente la scultura monumentale Montefeltro - I passi e il volgersi. 146
Nel giugno del 1986 Gio’ viene invitato a esporre le sue opere a Veksø, alla mostra VeksølundKopenaghen, presentata da Jetta Sorensen. Nel 1987, presso l’antico Oratorio della Passione della basilica milanese di Sant’Ambrogio, in collaborazione con il Comune di Milano, viene ospitata la mostra tematica Soli, con presentazione di Luciano Caramel. Nell’autunno dello stesso anno si inaugura alla Galleria l’Isola di Roma una sua mostra personale, con testo critico di Giovanni Carandente. Nel dicembre dello stesso anno si tiene a Messina, nelle sale del Palazzo dei Leoni, una mostra antologica, presentata da Tommaso Trini. Nel 1989 il Comune di Milano gli dedica un’altra importante antologica dal titolo La scultura e il suo disegno, presentata da Guido Ballo e ospitata all’interno della Rotonda della Besana. L’estate dello stesso anno vede inaugurarsi, in piazza Adriano a Torino, la grande scultura in bronzo Sole Aerospazio, donata dalla Società Aeritalia alla città in occasione del XX anniversario della sua costituzione e presentata in catalogo con un testo critico di Paolo Fossati. Del 1990 è la mostra Luoghi scolpiti fra Realtà e Utopia, curata da Caterina Zappia, ospitata all’interno della villa Renatico Martini, a Monsummano Terme. Nel 1991 la Fondazione Veranneman, in Belgio, dedica a Gio’ una importante mostra personale; nell’estate dello stesso anno viene inaugurato il complesso monumentale Luogo dei Quattro Punti Cardinali, collocato all’interno del parco pubblico di Taino, di fronte al lago Maggiore e al massiccio del Monte Rosa: tale opera viene recensita da un testo critico di Dario Micacchi. Nel 1992 il Museo Archeologico di Milano, in collaborazione con l’azienda Johnson, ospita una personale di medaglie eseguite da Gio’ a partire dal 1979 e viene inoltre installato a Pesaro il monumento funebre che l’artista dedica al tenore Mario Del Monaco. Nello stesso anno Gio’ espone a Roma alla Galleria Ugolini e alla XVIII Triennale di Milano; infine, a novembre, viene inaugurata la stele monumentale Spirale per Galileo Galilei, opera in bronzo e granito collocata nel centro storico di Padova, di fronte al palazzo dell’Università: questa scultura è frutto di una lunga collaborazione fra Pomodoro e l’Ateneo, lo stesso dove Galilei ebbe la sua cattedra dal 1592 al 1610 e gettò le basi per la nascita della scienza moderna. Nel 1993 la Genia Schreiber University Art Gallery di Tel Aviv ospita le opere di Gio’ all’interno di una importante mostra personale, intitolata Gio’ Pomodoro - Sculptures & Drawings, curata da Mordechai Omer. Contemporaneamente a questa mostra viene inaugurata l’opera Scala Solare - Omaggio a Keplero, acquisita da un privato donatore e installata di fronte all’ingresso principale dell’Università di Tel Aviv. Nel marzo del 1994 viene installato, all’ingresso della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, il modello in marmo della scultura Sole Aerospazio, dono di Pomodoro alla stessa Galleria Civica; in concomitanza a questo evento si inaugura, presso la torinese Galleria Berman, la mostra tematica Tensioni 1958-1993, presentata da Angelo Dragone. Nello stesso anno Pomodoro partecipa alla mostra The Italian Metamorphosis, 1943-1968, che si tiene al Guggenheim Museum di New York, ed espone in autunno una selezione di sue opere a Milano, all’interno delle botteghe antiquarie del quartiere storico di Sant’Ambrogio, presentata da Alberto Fiz. Nel 1995 è invitato a far parte del board dell’International Sculpture Center (I.S.C.) di Washington D.C. Dopo una personale tenutasi a maggio presso la Galleria Spazia di Bologna, presentata da Giovanni Maria Accame, nell’autunno del 1995 Gio’ Pomodoro è invitato dal direttore dello Yorkshire Sculpture Park, Peter Murray, a esporre le sue opere nel prestigioso parco espositivo britannico, nelle vicinanze di Wakefield e, successivamente, presso la sede dell’Accademia Italiana a Londra. Contemporaneamente il Comune di Venezia, in collaborazione con la Biennale di Venezia e l’azienda Uno A Erre S.p.A. di Arezzo, organizza una importante mostra antologica, intitolata Ornamenti, all’interno degli spazi espositivi della Fondazione Querini Stampalia, volta a documentare la 147
ricca produzione orafa dello scultore marchigiano dal 1954 in poi. Nel corso dell’anno successivo, sempre con la Uno A Erre e la Cesari & Rinaldi, la mostra si trasferirà ad Arezzo, Tokyo e New York. Il 1996 è l’anno della grande mostra antologica allestita nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze. In questa mostra viene presentato, insieme ad altre opere in bronzo e marmo, un grande numero di dipinti su carta a mano di notevoli dimensioni, sul tema caro a Pomodoro del Sole. Nella stessa sede viene esposto anche il progetto e il modello in scala per l’opera monumentale Sole per Galileo Galilei. Durante l’estate dello stesso anno Pomodoro realizza all’isola d’Elba, all’interno della cava di San Piero, una serie di grandi opere in granito e ferro mediante l’antica tecnica lavorativa a secco, dedicate soprattutto alle originarie attività dell’isola. Nel 1997, nel mese di settembre, viene inaugurata la grande scultura Sole per Galileo Galilei, in piazza Poggi sul lungarno Serristori: l’opera, in bronzo e pietra serena, è alta circa nove metri, ed è stata donata da Gio’ Pomodoro e da Franca e Tullio Berrini alla città di Firenze. Nella primavera del 1998 le opere di Gio’ Pomodoro vengono esposte a Padova nelle sale del Palazzo del Monte di Pietà, sede centrale della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che si è fatta promotrice della prestigiosa manifestazione. La mostra documenta, attraverso le sculture e i disegni del Maestro e le fotografie di Lorenzo Cappellini, più di quarant’anni di ricerca plastica e pittorica. Per l’occasione, nella piazza del Duomo, viene esposta una sua grande opera di marmo Sole Caduto - A Galileo. Nel luglio dello stesso anno, la Regione Valle d’Aosta e il centro espositivo St. Benin, ospitano la mostra Gio’ Pomodoro: pietre e marmi 1965-1997, presentata da Antonio Del Guercio. Oltre alle sculture e alle grandi opere pittoriche esposte all’interno del Museo, la città di Aosta accoglie, in tre spazi all’aperto, altrettante opere monumentali dello scultore marchigiano. Durante l’autunno del 1998 si inaugura a Bergamo, negli spazi della Galleria Fumagalli, con la quale inizia a collaborare attivamente, la mostra Gio’ Pomodoro - Sculture e carte 1958/1998; contemporaneamente il Ministero della Cultura egiziano invita Pomodoro, quale ospite d’onore, alla VII Biennale Internazionale del Cairo, dove è allestita una sala personale con grandi opere di scultura e pittura. In novembre la Galleria Berman di Torino dedica a Gio’ la mostra Studi per grandi opere 1954-1994. Nel 1999, all’interno dell’Arte Fiera di Bologna, alcune grandi sculture in bronzo vengono presentate in un padiglione che la Galleria Fumagalli dedica a Pomodoro, mentre durante la primavera dello stesso anno la Fondazione Veranneman ospita per la seconda volta una grande mostra di Gio’ dove, a fianco delle grandi carte e delle sculture, viene esposta anche una selezione di gioielli realizzati dallo scultore. Al termine della mostra la Fondazione Veranneman acquista per il suo parco di scultura la grande opera in marmo bianco di Carrara Sole caduto - A Galileo. Nel mese di novembre viene invitato, quale Master Artist, a tenere uno stage all’Atlantic Center for the Arts di Smyrna Beach in Florida. Nell’aprile del 2000 Gio’ Pomodoro riceve il Premio Internazionale Guglielmo Marconi per la Scultura; a maggio il Comune di Laives e la Provincia Autonoma di Bolzano organizzano una sua mostra dal titolo Sul sole e sul vuoto, curata da Pier Luigi Siena, con testo di Marisa Vescovo. Acquistano inoltre la grande opera in bronzo Scala solare - Omaggio a Keplero attualmente installata di fronte alla scuola di Laives. Nel mese di giugno, su invito del Rettore, Professor Carlo Bo, presso l’Aula Magna del Rettorato della Libera Università di Urbino viene presentata la monografia, curata da Giovanni Maria Accame, Gio’ Pomodoro: opere disegnate 1953-2000. Nel luglio dello stesso anno viene ospitata, nel museo di San Pietro a Colle di Val d’Elsa, Tensioni e Soli, una grande mostra di sculture e disegni. Nel dicembre del 2000 Gio’ partecipa alla prestigiosa esposizione Novecento: Arte e Storia in Italia, curata da Maurizio Calvesi e Paul Ginsborg e realizzata dal Comune di Roma. 148
Nel febbraio del 2001 l’Istituto Italiano di Cultura di Colonia dedica a Gio’ Pomodoro una personale di opere pittoriche e in ottobre, in occasione del vertice G8 e all’interno dell’esposizione Artisti Italiani del XX secolo: dalla Farnesina alla Stazione Marittima, viene inaugurata la scultura monumentale Sole - Agli Italiani nel mondo, donata alla città di Genova e al suo porto dalla società Grandi Navi Veloci. Questa è l’ultima opera monumentale che l’artista riesce a vedere installata. Nell’aprile del 2002 l’International Sculpture Center conferisce a Gio’ il prestigioso premio alla carriera Lifetime Achievement Award in Contemporary Sculpture: è la prima volta che il premio viene assegnato a un artista italiano. In questa occasione, a Milano, la Galleria Giorgio Marconi dedica un omaggio a Gio’ per il conferimento del premio, allestendo una personale di sculture e grandi acquarelli. A luglio, infine, Gio’ partecipa alla quinta edizione della mostra In Chartis Mevaniae, organizzata dai comuni di Bevagna e Spoleto e curata da Giovanni Carandente. Gio’ Pomodoro muore nel suo studio di Milano il 21 dicembre 2002. Negli anni successivi vengono inaugurate alcune opere pubbliche progettate dallo scultore per la collettività: il 1° marzo 2003 la grande Vela in memoria di Carlo Bo installata sul lungomare del centro storico di Sestri Levante; nel giugno 2004, a Orciano di Pesaro, luogo natale di Gio’, Sole deposto e la piazza dedicata all’artista, da lui progettata nel 1986; il 1° maggio 2005, infine, a Carbonia, la scultura monumentale Frammento di Vuoto nella rinnovata piazza Roma.
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Mostre personali 1953 Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Giorgio Perfetti, Amici dell’Arte, Pesaro. 1954 Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Galleria Numero, Firenze. I gioielli dello Studio 3 P: Giorgio Perfetti, Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Galleria Montenapoleone 6a, Milano. 1955 I 3P: Giorgio Perfetti, Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Galleria del Cavallino, Venezia. Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Galleria del Naviglio, Milano. Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Giorgio Perfetti, Galleria dell’Obelisco, Roma. Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Giorgio Perfetti, Galleria La Cornice, Biella. 1956 Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Galleria del Cavallino, Venezia. 1957 Gio’ y Arnaldo Pomodoro, Galleria Bonino, Buenos Aires. Galleria San Babila, Milano. 1958 Gio’ et Arnaldo Pomodoro, Galleria Helios Art, Bruxelles. Kölnische Kunstmuseum, Colonia. Gio’ und Arnaldo Pomodoro: Metallreliefs, Galerie 22, Düsseldorf. 1959 Gio’ Pomodoro, Galerie Internationale d’Art Contemporain, Bruxelles. Gio’ & Arnaldo Pomodoro, Galerie International d’Art Contemporain, Parigi. 1961 Pietre e Gioielli di Gio’ e Arnaldo Pomodoro, Palazzo Massimo, Roma. Gio’ Pomodoro, Galerie Internationale d’Art Contemporain, Parigi.
1962 Gio’ Pomodoro, Galleria Blu, Milano. Arnaldo et Gio’ Pomodoro, Musée de l’Athénée, Ginevra. Gio’ Pomodoro, Felix Landau Gallery, Los Angeles. Arnaldo + Gio’ Pomodoro, Galleria Hilt, Basilea. 1963 Gio’ Pomodoro, Arnaldo Pomodoro, Palais des Beaux-Arts, Bruxelles. 1964 Gio’ Pomodoro, Galleria Marlborough, Roma. Galleria Semina Huber, Zurigo. 1965 Gio’ Pomodoro: opere grafiche 19571964, Galleria del Naviglio, Milano. Gio’ Pomodoro, Musée des BeauxArts, La Chaux-de-Fonds. Gio’ Pomodoro, Dom Galerie, Colonia. Kunst I Beton og Arnaldo og Gio’ Pomodoro, Louisiana Museum, Humlebaek, Danimarca. 1966 Gio’ Pomodoro: Bronzen und Zeichnungen, Kunst- und Museumsverein, Wuppertal. Gio’ Pomodoro, Galleria Buffalmacco, Piacenza. 1967 Gio’ Pomodoro, Galleria MarlboroughGerson, New York. 1968 Gio’ Pomodoro: Bronzen und Marmorplastiken, Farlithographien, Galleria Röthe, Heidelberg. Gio’ Pomodoro, Galleria Martano Due, Torino. Gio’ Pomodoro: Lithographies, Galerie de France, Parigi. Gio’ Pomodoro, Galleria dell’Ariete, Milano. Galleria Rampa, Napoli.
1969 Gio’ Pomodoro to Gastone Novelli, Galleria La Bussola, Torino. Gio’ Pomodoro: Sculptures, Galerie Pierre, Stoccolma. Sculpture: Gio’ Pomodoro, Felix Landau Gallery, Los Angeles. 1970 Gio’ Pomodoro: Graphics, Martha Jackson Gallery, New York. Gio’ Pomodoro: opere grafiche e multipli 1969-1970, Galleria Blu, Milano. Gio’ Pomodoro, Centro d’Arte Editalia, Milano. Gio’ Pomodoro, Galleria Qui Arte Contemporanea, Milano. 1971 Galleria Samu-Castelli, Milano. Gio’ Pomodoro: Ellios, 2RC, Roma. Gio’ Pomodoro, Galerie Francois Mayer, Bruxelles. Gio’ Pomodoro, Galleria dell’Ariete, Milano. Gio’ Pomodoro: Soli, Spirale, Torri, Contatti, Marat, l’Ami du Peuple, Vedetta, Galleria Ariete Grafica, Milano. Gio’ Pomodoro “Contacts”, Seven Sculptures; 1970, Martha Jackson Gallery, New York. Gio’ Pomodoro: gli Ornamenti, Galleria l’Uomo e l’Arte, Milano. 1972 Galleria la Bottega, Ravenna. Gio’ Pomodoro: Ornamentos, Galleria Documenta, San Paolo, Brasile. Gio’ Pomodoro, Galleria Mimma Cortina, Pescara. 1973 Gio’ Pomodoro, Galleria de Il Giorno, Milano. Sculture recenti di Gio’ Pomodoro, Galleria Forum, Trieste. Gio’ Pomodoro: jóias e deshenos, Museu de Arte Moderna, Rio de Janeiro. 151
1974 Galleria Forum, Trieste. Gio’ Pomodoro: opere grafiche, Galleria Cavour, Milano. Gio’ Pomodoro, Galleria Niccoli, Parma. Gio’ Pomodoro: sculture dal 1972 al 1974, Galleria del Naviglio, Milano. Gio’ Pomodoro: sculture dal 1958 al 1974, Pinacoteca, Loggetta Lombardesca, Ravenna. Gio’ Pomodoro, Galleria l’Indiano, Firenze. Gio’ Pomodoro: Sculptures, Galerie Farber, Bruxelles. 1975 Gio’ Pomodoro: i Soli Produttori, Galleria Lorenzelli, Bergamo. Galleria la Bottega, Ravenna. Galleria Stendhal, Milano. Gio’ Pomodoro, Galleria Segnapassi, Pesaro. Gio’ Pomodoro: Sole Produttore, Sculture recenti, Galleria d’Arte Ricerche, Torino. 1976 Gio’ Pomodoro: “Sole Produttore” opere in pietra dal 1974 al 1976, Galleria Stendhal, Milano. Gio’ Pomodoro, Banca Popolare di Milano, Milano. “Albero, Quattro Movimenti, studio per scultura, ’75-’75”, dieci fogli, Galleria Rizzardi, Milano Gio’ Pomodoro, Musée d’Ixelles, Bruxelles. Gio’ Pomodoro: sculture in pietra 19731976, Castello dell’Imperatore, Prato. 1977 Piano d’uso collettivo a Gramsci: Ales 1977, Ca’ Pesaro, Venezia. Gio’ Pomodoro, Galleria 9 Colonne, Trento. 1978 Gio’ Pomodoro: piano d’uso collettivo, Circolo artistico, Fara d’Adda (BG). Galleria CIAC, Udine. Galleria 3A, Torino. 152
1979 Kunsthalle, Libreria Ferro di Cavallo, Roma. 1980 Il progetto non è l’opera: progetti materiali, reportages fotografici di tre opere di Gio’ Pomodoro, Galleria San Carlo, Napoli. Gio’ Pomodoro: luogo di misure 1977/1978, scultura e materiali progettuali, Piazza dei Signori, Verona; Castello Scaligero, Malcesine. 1981 Gio’ Pomodoro: sculture in pietra e bronzo 1976-1980, Galleria Fioretto, Padova. Gio’ Pomodoro: sculture in pietra 1976/1981, Studio d’Arte Melotti, Ferrara. Gio’ Pomodoro: sculture 1968-1981, Galleria d’Arte Moderna Farsetti, Focette (Pietrasanta). 1982 Gio’ Pomodoro: sculture e disegni, Galleria Il Salotto, Como. Gio’ Pomodoro: Disegni, Banco di Santo Spirito, Napoli. 1983 Gio’ Pomodoro: Skulpturen, BfG - Bank für Gemeinwirtschaft, Francoforte. 1984 Koinos Hermes! progetti, sculture in bronzo e pietra dal 1973 al 1984, Galleria Stendhal, Milano. Sala personale: XLI Biennale, Venezia. Gio’ Pomodoro: sculture, disegni, opere grafiche 1954-1984, Palazzo Lanfranchi, Pisa. 1985 Gio’ Pomodoro: quattro sculture monumentali e un progetto, Studio d’Arte Melotti, Ferrara. Gio’ Pomodoro, Studio Dabbeni, Lugano.
Gio’ Pomodoro: Koinos Hermes, omaggio a Károly Kerényi, materiali progettuali, sculture in pietra e bronzo 1984-85, Palazzo Civico, Lugano. Ariannaurea: Gio’ Pomodoro, Lanificio Picchi, Prato. 1986 Gio’ Pomodoro: sculture, Circolo Nuova Italsider, Taranto. Gio’ Pomodoro: luoghi per l’incontro e la sosta della gente, Palazzo Ducale, Pesaro. 1987 Studio Saudino, Viareggio. Soli di Gio’ Pomodoro: sculture ed opere grafiche, Antico Oratorio della Passione, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano. Gio’ Pomodoro: disegni e sculture 1954-1987, Studio Denise Fiorani, Piacenza. Gio’ Pomodoro: marmi e bronzi 19641987, Galleria l’Isola, Roma. Gio’ Pomodoro: la scultura, il disegno, il progetto dal ’54 all’87, Palazzo dei Leoni, Messina. 1989 Gio’ Pomodoro (sculture, disegni, grafica), Studio d’Arte Melotti, Ferrara. Gio’ Pomodoro: omaggio ai Maestri scalpellini di Versilia, opere 1954-1988, Rotonda della Besana, Milano. Gio’ Pomodoro: 35 anni di disegni per la scultura, Galleria 2RC, Milano. 1990 Gio’ Pomodoro: luoghi scolpiti tra realtà e utopia 1973-1990, Villa Renatico Martini, Monsummano Terme (Pistoia). Gio’ Pomodoro: progetto per piazza Castello, Palazzo Galeota, Taranto. 1991 Gio’ Pomodoro: Skulpture, Akwarellen, Veranneman Fondation, Kruishoutem (Belgio). Il Luogo dei quattro punti cardinali di Gio’ Pomodoro, Centro Comune di Ricerca, Euratom, Ispra.
1992 Spirale Aurea 1990-1992, Galleria Ugolini, Roma. Gio’ Pomodoro e Johnson: medaglie 1979-1992, Museo Archeologico, Milano. 1993 Gio’ Pomodoro: sculptures & drawings, The Genia Schreiber University Art Gallery, Tel Aviv University, Tel Aviv. 1994 Gio’ Pomodoro: Tensioni 1958-1993, Galleria Berman 2, Torino. A due passi da S. Ambrogio attraverso le botteghe d’arte, gli atelier delle vie Nirone, Caminadella, Lanzone e Novati, una passeggiata fra le opere di Gio’ Pomodoro, Associazione Botteghe di S. Ambrogio, Milano. 1995 Gio’ Pomodoro: disegni e sculture, Galleria Spazia, Bologna. Gio’ Pomodoro: Ornamenti 19541995, Fondazione Scientifica Querini Stampalia, Venezia. Gio’ Pomodoro: marble and bronze, Yorkshire Sculpture Park, Wakefield (UK). Accademia Italiana, Londra. 1996 Gio’ Pomodoro: sculture di granito all’Isola d’Elba, Territorio di Poggio e di Marciana, Isola d’Elba. Gio’ Pomodoro: sculture a Firenze, Palazzo Vecchio, Sala d’Arme, Firenze. Gio’ Pomodoro: Ornamenti 1954-1996, Basilica Inferiore, Arezzo. Gio’ Pomodoro: Ornamenti 1954-1996, Museum at the Ginza Cloisonne Hall, Tokyo. Arte in Vetrina: Superfici in Tensione 1964-1995, Banca Agricola Milanese, Milano. 1997 Gio’ Pomodoro: Ornamenti 1954-1996, Museum at F.I.T (the Fashion Institute of Technology), New York.
Fontana con scultura bronzea, Banca di Credito Cooperativo, Chianciano Terme. 1998 Gio’ Pomodoro scultura, Lorenzo Capellini fotografia, Palazzo del Monte di Pietà, Padova. Gio’ Pomodoro: Designare, Palazzo del Monte di Pietà, Padova. Gio’ Pomodoro: sculture e carte 19581998, Galleria Fumagalli, Bergamo. Gio’ Pomodoro: Studi per “Grandi opere” dal 1954 al 1994, bronzi, Galleria Berman, Torino. Gio’ Pomodoro: pietre e marmi 19651997, Centro Saint Benin, Aosta. 1999 Gio’ Pomodoro: Akwarellen, Skulpturen, Juweln, Veranneman Fondation, Kruishoutem (Belgio). Alitalia per l’arte: Gio’ Pomodoro, Palazzo Dragoni, Spoleto. 2000 Gio’ Pomodoro: opere disegnate 19532000, Galleria Fumagalli, Bergamo. Gio’ Pomodoro: opere disegnate 19532000, Castello Visconteo Sforzesco, Galliate (NO). Gio’ Pomodoro: Tensioni e Soli, disegni e sculture 1959-1999, Museo San Pietro, Colle di Val d’Elsa. Sul Sole e sul Vuoto, disegni e sculture di Gio’ Pomodoro, Foyer dell’Aula Magna Centro Scolastico di Laives, Laives (BZ). Fiamma Vigo: la Galleria Numero e la promozione della cultura artistica a Firenze 1949-67, Spazio Espositivo di Santa Verdiana, Firenze. 2001 Istituto Italiano di Cultura, Colonia. The Martians come back, Galleria Susanna Orlando, Forte dei Marmi. 2002 Soli: grandi acquarelli e sculture, Galleria Gio’ Marconi, Milano. 2003 Gio’ Pomodoro 1930-2002, Fondazione Ragghianti, Lucca.
Gio’ Pomodoro (1930-2002): 25 opere per l’Università di Bari, Sala Consiliare dell’Ateneo, Università di Bari, Bari. 2004 Gio’ Pomodoro: sentire la scultura, il Flauto Magico e le grandi opere nel Parco della Musica, Auditorium Parco della Musica, Roma. Gio’ Pomodoro e la Figlia del Sole: un percorso espositivo per Forte dei Marmi, Fortino e Giardino Pomodoro, Forte dei Marmi. 2006 Gio’ Pomodoro: un percorso per le due Cave, Mac,n, Monsummano Terme. 2007 Gio’ Pomodoro: acquarelli e sculture, Galleria Berman, Torino. 2008 Per amore e nostalgia: Gio’ Pomodoro, scultura per il cinema Duse 1959-1960, Galleria di Franca Mancini, Pesaro. Le cave di Monsummano Terme: l’ultima utopia di Gio’ Pomodoro, Mac,n, Monsummano Terme. 2010 Gio’ Pomodoro, Villa Recalcati, Varese. Gio’ Pomodoro, Centro dell’Olmo, Taino (VA). 2011 Gio’ Pomodoro: Superficie in tensione, Saletta Reale, Serrone della Villa Reale, Monza. 2012 Gio’ Pomodoro: Il percorso di uno scultore 1954 2001, Palazzo del Monferrato, Palazzo Cuttica, Camera di Commercio, Galleria Carlo Carrà, Alessandria; Villa Ottolenghi, Acqui Terme; Palazzo Magnocavalli, Casale Monferrato; Museo dei Campionissimi, Novi Ligure; Palazzo Guidobono, Tortona; Oratorio di San Bartolomeo, Valenza. 153
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Struttura di contatto presso l’Assessorato Regionale del Turismo Servizio Turistico Regionale di Palermo tel. +39 091 6398011 fax +39 091 6398023 www.turismopalermo.it strpalermo@regione.sicilia.it www.ilcircuitodelmito.it www.regione.sicilia.it/turismo
STAMPATO PER CONTO DI MA Service s.r.l. DA BANDECCHI & VIVALDI PONTEDERA
GIUGNO 2012
R A S S E G N A I N T E R N A Z I O N A L E D I S C U LT U R A E P I T T U R A I N S I C I L I A
II RASSEGNA INTERNAZIONALE DI SCULTURA E PITTURA IN SICILIA www.ilmitocontemporaneo.it
Evento promosso dall’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana PO FESR Sicilia 2007 - 2013 - Linea di intervento 3.3.1.1