Jimenez Deredia - Il Mito Contemporaneo

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R A S S E G N A I N T E R N A Z I O N A L E D I S C U LT U R A E P I T T U R A I N S I C I L I A

II RASSEGNA INTERNAZIONALE DI SCULTURA E PITTURA IN SICILIA www.ilmitocontemporaneo.it


Evento promosso dall’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana PO FESR Sicilia 2007 - 2013 - Linea di intervento 3.3.1.1

ENTE PROMOTORE ASSESSORATO TURISMO, SPORT E SPETTACOLO REGIONE SICILIANA Daniele Tranchida Assessore Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana Marco Salerno Dirigente Generale Dipartimento Regionale al Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana Salvatore Presti Direttore Artistico “Il Circuito del Mito” Filippo Nasca Dirigente Servizio Turistico Palermo Regione Siciliana MA Service s.r.l. Ente Attuatore Massimiliano Simoni Art Director Il Mito Contemporaneo

Evento promosso dall’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana PO FESR Sicilia 2007 – 2013 - Linea di intervento 3.3.1.1

Regione Siciliana Assessorato del Turismo dello Sport e dello Spettacolo

Si ringraziano Sebastiano Missineo Assessore Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana Gesualdo Campo Dirigente Generale Dipartimento Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana Sergio Aguglia Dirigente Servizio Parco Archeologico di Segesta e delle aree archeologiche di Calatafimi Segesta e dei Comuni limitrofi Maria Costanza Lentini Dirigente Servizio Parco Archeologico di Naxos e delle aree archeologiche di Giardini Naxos, Taormina, Francavilla e dei Comuni limitrofi Umberto Spigo Dirigente Servizio Parco archeologico delle Isole Eolie e delle aree archeologiche di Milazzo, Patti e dei Comuni limitrofi Michele Benfari Dirigente Servizio Museo Archeologico Regionale Eoliano “Luigi Bernabo’ Brea” Mauro Passalacqua Sindaco di Taormina Antonella Garipoli Assessore alla Cultura Comune di Taormina Girolamo Fazio Sindaco di Trapani Ester Bonafede Sovrintendente FOSS - Teatro Politeama Garibaldi Salvatore Castiglione Presidente Airgest (Aeroporto di Trapani)

Unione Europea

in collaborazione con:

In collaborazione con: Trapani - Segesta

Palermo

Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana Dipartimento dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana

Servizio Parco archeologico di Segesta e delle aree archeologiche di Catatafimi Segesta e dei Comuni limitrofi

Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell'Identità siciliana Dipartimento dei Beni Culturali e dell'Identità siciliana

Parco Archeologico delle Isole Eolie, di Milazzo Patti e dei Comuni limitrofi

Comune di Lipari

Lipari

Taormina


TRAPANI

Aeroporto Vincenzo Florio Centro Storico Parco di Segesta 10 maggio - 8 luglio 2012

Evento promosso dall’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana PO FESR Sicilia 2007 – 2013 - Linea di intervento 3.3.1.1

Regione Siciliana Assessorato del Turismo dello Sport e dello Spettacolo

Unione Europea

In collaborazione con: Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana Dipartimento dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana

Servizio Parco archeologico di Segesta e delle aree archeologiche di Catatafimi Segesta e dei Comuni limitrofi

Trapani - Segesta Aeroporto Civile Trapani - Vincenzo Florio 91020 Birgi info +39 0923 842502 Centro Storico di Trapani Corso Vittorio Emanuele / Piazza del Mercato del Pesce 91100 Trapani Parco Archeologico di Segesta Case Barbaro - contrada Barbaro - S.P. 68 info +39 0924 952356 Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell'Identità siciliana Dipartimento dei Beni Culturali e dell'Identità siciliana

Comune di Taormina

Parco Archeologico delle Isole Eolie, di Milazzo Patti e dei Comuni limitrofi

Comune di Taormina Assessorato Urbanistica Affari sociali, Cultura

Comune di Lipari


ENTE ATTUATORE M.A. SERVICE s.r.l. Alessandro Marchetti Amministratore Unico Massimiliano Simoni Art Director Giulio Battaglini Project Leader Enrico Mattei Art Curator Andrea Berti Press Office Manager Francesca Caselli Secretary Valentina Bigicchi Producer

M.A. Service s.r.l. - Via Sarzanese, 303 55041 Capezzano Pianore - Camaiore (Lu) www.maservice.it info@maservice.it

Coordinamento generale e organizzazione Claudia Viola Assistente alla produzione Dalila Ardito Assicurazione INA Assitalia ART&Collezioni Agenzia Generale di Viareggio Logistica e Allestimenti M.A. Service S.r.l. Trasporti Autrotrasporti Seardo di Giovannetti Adriano & C. S.n.c. Posizionamento e sicurezza opere Giorgio Angeli Si ringraziano per la gentile collaborazione la Stamperia d’Arte Edi Grafica R2B2, il Laboratorio marmo e granito Studio Giorgio Angeli; Onofrio Lasciato - Capo Segreteria Particolare; Bruno De Vita - Vicario del Capo di Gabinetto dell’Assessore al Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana; Eleonora Cacopardo - Assessore alla Cultura e al Turismo - Comune di Castelmona.

Grafica e cura editoriale Nicola Micieli Testi critici Antonio Aimi Francesco Buranelli Enrico Crispolti Cristina Giammoro Geppe Inserra Fabio Isman Enrico Mattei Antonio Paolucci Pierre Restany Massimiliano Simoni Coordinamento cataloghi Enrico Mattei Fotografie © M.A. Service S.r.l. by Matteo Simoni Tommaso Malfanti Impaginazione e Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera


Il Mito Contemporaneo

JIMÉNEZ DEREDIA LA GENESI E IL SIMBOLO


II R A S S E G N A I N T E R N A Z I O N A L E D I S C U LT U R A E P I T T U R A I N S I C I L I A II I N T E R N AT I O N A L E X H I B I T I O N O F S C U L P T U R E A N D PA I N T I N G I N S I C I LY

Art Director Massimiliano Simoni

................................................................................................................................................................................................................................................................................................. LIPARI TAORMINA TRAPANI/SEGESTA PALERMO


Gio’ Pomodoro Taormina

WWW.I LM ITOC O NTEMPO R ANE O.IT

Vivi, Scopri, Ama la Sicilia con Il Mito Contemporaneo....


Prof. Daniele Tranchida Assessore Turismo, Sport e Spettacolo Regione Siciliana

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La Sicilia è uno scrigno di bellezze naturali, storiche e architettoniche. Un luogo magico, accogliente, crocevia, per secoli, di culture e di religioni. Il Circuito del Mito ideato da Franco Zeffirelli e diretto, nelle ultime edizioni, dal regista Salvatore Presti, nasce proprio per rilanciare questa identità dell’isola restituendole nuovo protagonismo culturale. Da qui l’attenzione anche all’arte contemporanea al centro di questa Rassegna Internazionale di Pittura e Scultura, una novità introdotta da questo assessorato e che, in questa seconda edizione, annovera quattro grandi artisti: Gio’ Pomodoro, Jiménez Deredia, Gian Marco Montesano e Pino Pinelli. Un calendario dentro il grande calendario de Il Circuito del Mito che si rivolge ad appassionati d’arte e di viaggi e che può essere utilizzato come “cartina”, “itinerario turistico” da seguire nella scoperta dell’isola, spaziando così da antichi centri storici a chiese medievali; dalla caledoscopica Palermo alla antica e vivace Trapani, da Lipari nello splendido arcipelago delle Eolie, a Taormina, meta obbligata nell’Ottocento del Grand Tour della giovane aristocrazia europea. Con un’opportunità rara: ammirare sotto una prospettiva nuova monumenti e aree archeologiche. Insieme: opere dell’antichità e del nostro tempo. Il teatro antico di Taormina diventa così spazio espositivo per le forme poliedriche di Gio’ Pomodoro, considerato uno dei maggiori scultori astratti del XX secolo e convinto assertore dell’importanza sociale dell’arte, mentre la strada che porta al tempio di Segesta, è la galleria en plein air delle opere realizzate dallo scultore costaricano Jiménez Deredia che, per l’occasione, ha ultimato Armonia, scultura in marmo di Carrara che rappresenta una donna distesa con una sfera tra le braccia, simbolo del cosmo e della vita. In linea con la prima edizione de Il Mito Contemporaneo, sono stati scelti artisti di fama internazionale e location di grande suggestione. A Palermo, i saloni dell’ottocentesco teatro Politeama ospitano il maestro Gian Marco Montesano con la sua pittura figurativa asciutta e le tele di varie dimensioni che raccontano il nostro passato prossimo: il Novecento e le “storie della Storia” che lo hanno caratterizzato, a cominciare dal senso di smarrimento di fronte alla distruzione della guerra. Infine, nell’area archeologica di Lipari in mostra c’è il lavoro di 40 anni di Pino Pinelli, pittore e scultore di origine catanese, affermato in tutta Europa, tra i principali interpreti della pittura analitica, tra gli allievi e seguaci di Fontana. Quattro artisti diversi tra loro ma accomunati dall’originalità che li contraddistingue. E che, ne siamo certi, saranno in grado di riaccendere, così come è stato per i grandi nomi della prima edizione de Il Mito Contemporaneo, i riflettori della stampa di settore e gli occhi di tanti visitatori. Sulla Sicilia, sulla sua ricchezza di beni culturali e ambientali. Ma soprattutto: sulla sua ambizione e capacità di tornare ad essere protagonista di questo tempo. In una parola, di essere essa stessa, Contemporanea.


Salvatore Presti Direttore Artistico Il Circuito del Mito

Terra delle domande fondanti sulla vita e sulla morte, la Sicilia è luogo filosofico per eccellenza, sospeso tra tragico e idilliaco, fra immaginazione e raziocinio. In cui, per dirla con una definizione di Salvatore Quasimodo, c’è una “permanenza della poesia”. Questa rassegna offre ad artisti italiani e stranieri, ispirazione e nuova linfa creativa e ai turisti un’occasione unica: l’emozione di scoprire, toccare con mano, questa “permanenza” attraverso un percorso originale che accosta il patrimonio storico e architettonico del passato all’arte contemporanea. È una formula già collaudata in diversi Paesi europei e sperimentata in Sicilia nella scorsa edizione de Il Circuito del Mito. Con successo. La prima Rassegna internazionale di Pittura e Scultura ha suscitato l’attenzione di oltre 5 milioni di utenti, tra visitatori reali, buyer, addetti ai lavori, giornalisti di settore. Insomma, con Il Mito Contemporaneo e con l’intero cartellone de Il Circuito del Mito, si è voluto dare spazio a una Sicilia che cambia, attenta alla velocità dei mutamenti, consapevole dei suoi limiti rispetto alla complessità del reale ma percettiva delle sue enormi potenzialità. Rispetto ai moduli interpretativi correnti, assai più aderente all’essenza di quest’isola è la definizione braudeliana della Sicilia come “continente in miniatura”, microcosmo che accoglie in forme miniaturizzate, ma nette, l’eredità di una storia lunghissima e complessa e in cui trovano spazio e ispirazione, artisti diversi e lontani tra loro – per cultura, formazione, modalità espressiva e appartenenza geografica – proprio come i protagonisti di questa rassegna: Gian Marco Montesano, Jiménez Deredia, Gio’ Pomodoro, Pino Pinelli. Interpretare questa complessità e soprattutto rintracciare quella “permanenza della poesia” attraverso la letteratura, la musica, il teatro, il cinema, la danza e l’arte in tutte le sue forme, per la comprensione della galassia - Sicilia, sono gli obiettivi che Il Circuito del Mito si propone. E che questa rassegna centra pienamente contribuendo a rafforzare il turismo culturale sull’isola.

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Dott. Sergio Aguglia Direttore del Parco di Segesta

Con grande interesse ho accolto la richiesta di Jiménez Deredia, d’inserire Segesta nel circuito costituente la mostra Il Mito Contemporaneo, in sintonia con l’assessore Missineo ed il dirigente Campo, del Dipartimento Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana, che prende avvio all’aeroporto di Trapani-Birgi, prosegue in due siti del centro di Trapani e si conclude presso il Parco Archeologico; tale scelta deriva dalla volontà dell’Artista di confrontarsi con un luogo eccezionalmente ricco di carica simbolica, dove l’architettura antica dialoga mirabilmente con la natura, e la storia acquista il carattere del mito. Una mostra d’arte contemporanea, in un luogo di così forti suggestioni, avrebbe rischiato tuttavia di produrre più un effetto riduttivo che una sommatoria di emozioni, dovuto alla possibile interferenza, visiva e percettiva, tra le opere scultoree ed i resti archeologici, già in armonia con il paesaggio. Le sculture di Deredia scongiurano tale timore proponendosi, sotto il controllo dell’artista, in “dialogo” dialettico con l’esistente e ottenendo infine un risultato di mirabile sintesi. L’opera dell’artista costaricano è ricca di simboli della terra d’origine; fra i più ricorrenti la “simmetria polare”, quale emblema di quell’equilibrio filosoficamente denominato “musica delle sfere”. Giustappunto, “dissonante” risulta essere il rapporto tra la scultura e l’archeologia, così come l’intervallo della musica che, all’orecchio, dà l’impressione di “movimento armonico”. Dissonanza e non contrappunto, Schoenberg e non Bach! Le sculture sono state infatti concepite in forma astratta, avulsa dal contesto, dov’è del tutto assente il topos segestano; la particolarissima, speciale collocazione, ha tuttavia prodotto un’offerta artistica affatto nuova, effimera e ad alto valore aggiunto. Nel piazzale d’ingresso una scultura marmorea, col suo candore, spicca in contrasto col fondo in ombra, con la precipua funzione di presentazione della mostra; man mano, avvicinandosi, la prospettiva modifica il fondale, che diviene infine il Tempio a coronamento della composizione scultorea. Pregevole, nondimeno, il rapporto che la Flautista, posta nel centro della scena, realizza con il Teatro, arricchito dalla molteplicità dei punti di vista che vengono offerti al visitatore: all’ingresso, dall’alto, che evidenzia il rapporto con le geometrie dell’architettura; poi a livello, di fronte, con lo stesso fondale paesaggistico della scena; da retro infine, in controcampo con la cavea e quindi con la pietra calcarea dorata a contrasto, in rapporto di figura-sfondo, con la calda “pelle” bronzea della statua. Osservare con l’occhio del fotografo; girare attorno alle opere cercando rapporti cromatici e riflessi del sole, come un tecnico delle luci; creare, con mutevoli punti di vista, differenti fondali, come uno scenografo: così la proposta artistica può diventare un film, che veda regista il visitatore. Forme e materia della scultura, che discendono da una cultura molto lontana; forme e materia dell’archeologia, che discendono da una cultura anch’essa lontana, a Segesta, in terra di Sicilia, in uno splendido contesto ambientale e paesaggistico, trovano, con questa proposta artistica, un eccezionale punto d’equilibrio. 11


Dott. Salvatore Castiglione Presidente Airgest Aeroporto Civile Trapani-Birgi

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È motivo di soddisfazione aver accolto le prestigiose opere del Maestro Deredia all’interno della moderna struttura aeroportuale di Trapani-Birgi. Abbiamo da subito voluto condividere la mission del progetto Il Mito Contemporaneo. II Rassegna Internazionale di Scultura e Pittura in Sicilia ritenendolo particolarmente conducente rispetto all’operazione mediatica che coinvolge l’intero territorio regionale e non solo. Lo scalo aeroportuale di Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” ospita la scultura contemporanea che si confronta con i luoghi del mito, diventando così il ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà. I nostri utenti vengono subito proiettati in una realtà mitologica che trova nel centro storico di Trapani e nel Parco Archeologico di Segesta la sua sublimazione. Grandi opere cariche di poesia ci raccontano la passione dell’uomo per l’arte di plasmare la materia ed esaltano la bellezza dei luoghi e delle antiche vestigia.


Dott. Avv. Girolamo Fazio Sindaco di Trapani

La Città di Trapani si conferma sempre di più come luogo di attrazione turistica, in grado di proporre non solo lo spettacolare scenario delle proprie bellezze naturali, ma anche offerte culturali di grande livello. È con questo spirito e seguendo questa idea che abbiamo accolto con piacere e con orgoglio nella nostra città una mostra prestigiosa, che ha fatto il giro del mondo, concedendo i nostri luoghi più suggestivi, in un percorso che unisce antico e moderno. Una selezione di opere monumentali dell’artista latino-americano Jiménez Deredia è ospitata all’interno dell’Aeroporto Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” per la prima volta deputato a luogo espositivo del contemporaneo, il centro storico di Trapani con il Corso Vittorio Emanuele di fronte alla Chiesa del Collegio dei Gesuiti e la Piazza del Mercato del Pesce. Una parte significativa delle sua produzione artistica è chiamata a sfidare l’Agorà del sito archeologico, la più grande del Mediterraneo, il Teatro e il Tempio Dorico di Segesta, luoghi di culto e di adorazione dall’intatto fascino, creando un ideale ponte di collegamento tra passato e contemporaneo.

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Trapani La mitologia vuole che una falce caduta dalle mani di Cerere oppure di Saturno, il tradizionale dio patrono della città, si mutò in una lingua di terra arcuata sulla quale sorse la città, detta Drepanon (“falce” in greco antico). Nell’Eneide, Virgilio racconta che il padre di Enea, Anchise morì a Drepanum e, dopo la fuga da Didone, l’eroe troiano vi ritornò per celebrarvi dei giochi, i ludi novendiali. Gli Elimi, un popolo stanziato in Sicilia occidentale in epoca protostorica e di cui Eryx (Erice) era uno dei centri principali, furono probabilmente i fondatori del primo nucleo abitativo di Trapani, che doveva sorgere su un un’isola divisa dall’entroterra paludoso mediante un canale navigabile, quale porto commerciale di Erice. Per la felice posizione geografica, Trapani divenne presto una città-emporio. Tra IX e VIII secolo vi si affermò l’influenza cartaginese. Durante le guerre contro i Greci e Siracusa, Trapani si fortificò e si mantenne saldamente alleata alla città punica. Amilcare ne rafforzò la cinta muraria, fece costruire il Castello di Terra, la Torre Pali e la Torre Peliade o Colombaia, e vi trasferì parte degli abitanti di Erice. Drepano (Trapani) fu una delle ultime due roccaforti cartaginesi in Sicilia e mentre l’altra, Lilybaeum (Marsala) era assediata dai Romani, il generale Aderbale, prima di tentare di rompere l’assedio nel 250 a.C., vi portò le sue nuove truppe. L’importante posizione strategica fu utilizzata durante la Prima guerra punica quando i Cartaginesi sconfissero la flotta romana nella Battaglia di Trapani del 249 a.C. Ma alcuni anni dopo, nel 241 a.C., Gaio Lutazio Catulo sbaragliò la flotta cartaginese nella battaglia delle Isole Egadi che pose fine alla guerra. I Romani così conquistarono la città, che chiamarono Drepanum e osteggiarono per la sua fedeltà a Cartagine, per cui Trapani entrò in un periodo di decadenza e si spopolò. Dopo i Romani, dominarono la città i Vandali, poi i Bizantini. Nel IX secolo d.C. con gli Arabi (che la chiamarono Itràbinis, Taràbanis, Tràpanesch), poi con i Normanni che la conquistarono nel 1077 guidati da Ruggero II, la città raggiunse un fervido sviluppo, florida nei commerci e nelle attività culturali. Il porto di Trapani durante il Medioevo fu uno dei più importanti del Mediterraneo. Vi avevano un consolato Genova, Pisa, Venezia e Amalfi, fungendo da scalo verso i loro possedimenti nell’Africa settentrionale. Dopo un breve periodo sotto gli Angioini, Trapani partecipò attivamente alla sollevazione dei Vespri siciliani guidati da Palmiero Abate, e passò nel 1282 agli Aragonesi. Durante il XIV e il XV secolo la città si ingrandì e divenne il centro economicamente e politicamente più importante della Sicilia occidentale. Nel 1459, da semplice Terra diventava Civitas. Nel 1478, Ferdinando il Cattolico concesse alla città il titolo di Invittissima al riguardo «delle gloriose resistenze fatte sempre ai nemici del regno». Il 20 agosto 1535 Carlo V, arrivò a Trapani dopo aver sconfitto la flotta turca. La città si era ormai talmente affermata nello scacchiere geopolitico dell’epoca da meritare dallo stesso Carlo V l’appellativo di “Chiave del Regno”. Nel XVII secolo Trapani conobbe un periodo di decadenza soprattutto a causa 16


delle insurrezioni dovute a carestie [quale quella del 1647 e del 1670-1673] e pestilenze del 1624. Il XVIII secolo vide raddoppiare la popolazione trapanese che passò da circa 16.000 a 25.000 abitanti. Dopo le brevi parentesi sabauda (1713) e austriaca (1720), dalla seconda metà del Settecento inizia il Regno delle due Sicilie (1738), che continuerà fino al 1860. I Borboni procedettero alla bonifica di alcune aree della città e al suo sviluppo urbanistico. In questo periodo i trapanesi si dedicano al commercio e all’industria del sale e alle tonnare. Trapani partecipò attivamente ai moti del 1848-1849, sanguinosamente repressi. Nel 1860 Garibaldi l’avrebbe scelta per lo sbarco che avvenne però nel porto di Marsala essendo quello di Trapani ben presidiato dai Borboni. Nel 1861 Trapani si pronunciò con il plebiscito per il Regno d’Italia. Dopo la Prima guerra mondiale la città visse un periodo di sviluppo: le industrie legate alle saline, alle tonnare, al vino, all’olio ne fecero una città particolarmente dinamica non solo dal punto di vista economico ma anche culturale. Nel 1924 Mussolini, dopo una visita in città, decise di inviare a Trapani il prefetto Cesare Mori che, dopo poco più di un anno, fu trasferito a Palermo con poteri straordinari per la repressione del fenomeno mafioso. La Seconda guerra mondiale vide Trapani impegnata come porto e base sommergibilistica di primaria importanza e, con i locali aeroporti di Milo e di Chinisia, divenne punto di collegamento dei rifornimenti per le truppe dell’Asse in Nord Africa. Bombardata dai francesi, dalla RAF e degli angloamericani che distrussero l’intero quartiere storico di San Pietro, il 22 luglio 1943 gli Alleati giunti nella piazza di Trapani trovarono una città stremata. Segesta Si chiamava Segesta un’antica città, non più abitata, fondata dagli Elimi e situata nella parte nord-occidentale della Sicilia.La vecchia città sorge sul monte Bàrbaro, nel comune di Calatafimi Segesta, a una decina di chilometri da Alcamo e da Castellammare del Golfo.La data della fondazione non è conosciuta, ma da documenti risulta che la città era abitata nel IV secolo a.C. Tucidide narra che i profughi troiani, attraversando il Mediterraneo, giunsero fino in Sicilia e fondarono Segesta, chiamata Aegesta, ed Erice. Questi profughi presero il nome di Elimi. Secondo il mito, Segesta sarebbe stata fondata da Aceste (il primo re), figlio della nobile troiana Egesta e del dio fluviale Crimiso. Virgilio riporta la leggenda secondo cui Segesta sarebbe stata fondata da Enea per far riposare i vecchi e le donne, dopo che queste avevano incendiato le navi poco prima di riprendere il viaggio. Fin dalla fondazione, Segesta e Selinunte furono in guerra fra loro per motivi di confine. Dal primo scontro (580 a.C.) Segesta uscì vittoriosa. Nel 415 a.C. chiese aiuto ad Atene contro l’intraprendenza selinuntina sostenuta da Siracusa. Col pretesto della richiesta gli ateniesi decisero una grande spedizione in Sicilia e assediarono Siracusa, ma furono disastrosamente sconfitti. Gli scontri si conclusero 17


nel 409 a.C., quando Selinunte fu assediata e distrutta dai Cartaginesi, invocati anche questa volta dai segestani. Nel 307 a.C. molti segestani furono barbaramente uccisi o venduti come schiavi dal tiranno siracusano Agàtocle per non aver a lui fornito i richiesti aiuti economici. Agàtocle, dopo la feroce repressione, cambiò il nome della città in Diceopoli (città giusta). Nel 276 a.C. la città si consegnò alla potente armata di Pirro, ritornando sotto l’influenza punica alla dipartita dell’epirota. Nella prima guerra punica (260 a.C.) si alleò a Roma che ne ebbe grande rispetto perché, secondo la tradizione, entrambe le città discendevano dai fuggiaschi di Troia. I Romani la difesero dal tentativo di riconquista cartaginese e le garantirono lo stato di città libera, esentandola dai tributi. Nel 104 a.C. da Segesta iniziarono le rivolte degli schiavi in Sicilia, le cosiddette guerre servili guidate da Atenione e soffocate nel sangue dai Romani nel 99 a.C. Segesta fu distrutta dai Vandali nel V secolo, e mai più ricostruita nelle dimensioni del periodo precedente. Ciononostante, vi rimase un piccolo insediamento e, dopo la cacciata degli Arabi, i Normanni vi costruirono un castello. Questo, ampliato in epoca sveva, fu il centro di un borgo medievale. Se ne perse poi quasi il nome fino al 1574, quando lo storico domenicano Tommaso Fazello, artefice dell’identificazione di diverse città antiche della Sicilia, ne localizzò il sito. Tempio di Segesta Il tempio è stato costruito durante l’ultimo trentennio del V secolo a.C., sulla cima di una collina a ovest della città, fuori dalle sue mura. Si tratta di un grande tempio con sei colonne sul lato più corto, non scanalate. Sul lato lungo presenta quattordici colonne. L’attuale stato di conservazione presenta l’intero colonnato della peristasi completo di tutta la trabeazione. Nonostante gli elementi costruttivi e le proporzioni della costruzione si riferiscano con chiarezza al periodo classico, il tempio ha aspetti peculiari sui quali la storiografia non esprime parere unanime. Primo elemento di dibattito è la sua natura artistica pienamente ellenica, aggiornata alle maggiori espressioni dell’arte della madrepatria, in particolare dell’Attica, ma realizzata in una città degli Elimi, una popolazione di origine incerta, stanziata in Sicilia molto prima dell’arrivo dei coloni greci nella vicina Selinunte. Si ipotizza che nel corso del V secolo a.C., grazie agli scambi commerciali, la città elima abbia raggiunto un tale grado di ellenizzazione da poter importare un sofisticato modello artistico come il tempio dorico periptero, che per le sue canoniche dimensioni e proporzioni si prestava a una larga diffusione. Inoltre è probabile che il progettista e le maestranze impiegate fossero greche. Secondo elemento è l’assenza di vestigia della cella dentro il colonnato, che invece è uno dei meglio conservati del mondo greco. Ciò ha fatto pensare a un tempio ipetro o meglio un luogo sacro privo di copertura e di cella, legato a riti indigeni. In alternativa si è pensato ad una cella interamente a struttura lignea, 18


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come tutta la copertura, e quindi andata persa. Negli anni ‘80 sono state trovate tracce della fondazione della cella, interrate all’interno del tempio, insieme a tracce di costruzioni precedenti. Pertanto l’ipotesi prevalente è che il tempio non sia mai stato terminato, a causa probabilmente di avvenimenti bellici che coinvolsero a lungo la città e che la cella e la copertura non siano mai state realizzate. Tale ipotesi è avvalorata anche dalla mancanza di scanalature delle colonne e dalla presenza, soprattutto sui blocchi del crepidoma, di “bugne” cioè protuberanze destinate a proteggere il blocco durante la messa in opera, che sarebbero state scalpellate via in fase di rifinitura. Il tempio quindi avrebbe dovuto avere un’ampia cella preceduta da un pronaos distilo in antis e un simmetrico opistodomo sul retro. Il colonnato, con interassi uguali su tutti i lati, presenta la canonica doppia contrazione degli intercolumni terminali per risolvere il conflitto angolare oltre ad altri tipici accorgimenti ottici come la curvatura delle linee orizzontali e alla concezione decorativa del fregio che perde, almeno in parte, la sua dipendenza dal colonnato. Tali caratteristiche mostrano una derivazione dai modelli evolutivi attici della fine del V secolo a.C., in particolare dal tempio degli Ateniesi a Delos, ai quali rimandano anche gli elementi decorativi. Gli unici aspetti riferibili ancora allo stile severo sono le proporzioni allungate con 6×14 colonne in luogo delle canoniche 6×13 (doppio quadrato), e le grandi dimensioni in un’epoca in cui i templi divenivano più piccoli. Nel XVIII secolo il tempio fu oggetto di un primo restauro da parte dell’architetto Chenchi. Fu visitato da Goethe e divenne una delle mete del Grand Tour e una della cause della riscoperta dell’architettura greca e del dorico che fu alle radici del neoclassicismo. Teatro di Segesta Il teatro greco dell’antica città di Segesta sito nell’area archeologica di Calatafimi Segesta, può datarsi intorno alla metà del IV secolo a.C. (o al II a.C). È posto alla sommità del Monte Barbaro, opposta a quella del tempio, a circa 440 metri di altezza. Sebbene Segesta fosse una città non greca, il teatro è di canone ellenico. Sette cunei dividono i posti degli spettatori. Le separazioni sono fatte in travertino. La divisione orizzontale del teatro (diazoma) permetteva lo spostamento degli spettatori da una sezione all’altra del teatro. La zona superiore è semidistrutta, e assai poco rimane anche della scena, che secondo gli studiosi sarebbe stata decorata da colonne e pilastri. La cavea ha un diametro di 63,60 mt. Il teatro poteva ospitare oltre 3.000 persone. Restaurato, viene periodicamente utilizzato per rappresentazioni teatrali.

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Massimiliano Simoni

IL MITO CONTEMPORANEO. II RASSEGNA DI PITTURA E SCULTURA IN SICILIA

Art Director

Sei un Mito… sui luoghi antichi e sulle contaminazioni artistiche contemporanee. Spunti per una introduzione critica Prosegue l’ideale cavalcata del Contemporaneo attraverso i luoghi più suggestivi del Mito, in una terra, la Sicilia che in ogni angolo evoca l’Antico.

Massimiliano Simoni nella foto di Bob Krieger

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I nostri Maestri sono i testimoni del genio umano che con sapienza plasma la materia, la nutre di colore e le dà forma. La sfida non li spaventa, anzi vi si gettano con giovanile entusiasmo. Ripercorrono luoghi della loro infanzia, del loro vissuto, della loro fantasia e ci fanno vivere un’esperienza sospesa tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Per chi, come me, cura ogni aspetto di un evento, la gioia non è l’evento stesso, ma il vedere come Artisti di chiara fama si emozionino davanti ai luoghi magici proposti, e da lì traggano nuova linfa per produrre sempre qualcosa di nuovo e irripetibile. Non si tratta di collocare alcune statue in un luogo, un po’ lì e un po’ là, di attaccare quadri at random: è necessario entrare nella spiritualità del luogo, sentirlo, toccarlo. Quando per la prima volta mi sono recato a Segesta con Jiménez Deredia, l’amico Jorge, e con lui ho respirato un’aria pulita e sentito la spiritualità del luogo, ecco, lì è nata la Mostra. Vedere il Tempio, la vallata incantata sottostante, ammirare la forza delle colonne e delle strutture sovrastanti, che, sfidando il tempo, hanno resistito immobili alla storia, e poi scendere e risalire fino al Teatro, e dall’alto guardare il mare e il paesaggio sottostante, di una bellezza unica, è entrare nella notte dei tempi delle Arti. Capire, al di là di ogni laica considerazione, la Genesi dell’Umanità. Capire l’Arte è capire chi con essa si cimenta, o si è cimentato quotidianamente. Aver avuto la fortuna di conoscere una grande figura del nostro Novecento come Gio’ Pomodoro, e averla anche conosciuta attraverso un caro amico di grande sensibilità, che purtroppo oggi non c’è più come lui, non è esperienza che ti lascia indifferente. Il suo laboratorio di Querceta, oggi come allora, non è muto testimone di una vita spesa per l’Arte, ma luogo anch’esso spirituale che racconta una grande esperienza sospesa tra spazio e storia. Solo la diretta conoscenza del Maestro, e il grande rapporto con il figlio Bruto, mi ha permesso di capire come i luoghi taorminesi avrebbero esaltato e manifestato il suo estro, i suoi archetipi scultorei così profondamente attratti dal mondo greco. L’attenta lettura liceale di Miti e Misteri di Karoly Kerènyi, mi fa essere così vicino al suo mito di Hermes, il dio dei ladri. C’era una volta la “pittura militare”, e nei paesi anglosassoni c’è sempre. Là la Gloria, la Patria, gli Eroi si scrivono con la maiuscola, gli sconfitti si rispettano e onorano perché più grande è la Vittoria consacrata nel Mito. In Italia c’è Gian Marco Montesano, sicuramente personaggio d’altri tempi che ostinatamente e incurante di chi lo critica non in senso artistico, ma ideologico, prosegue il suo viaggio


nella nostra storia più recente, racconta tabù della Seconda Guerra Mondiale, e lo fa in una città duramente provata e offesa dai bombardamenti, ferita nella sua lunga tradizione di cultura e offesa nei suoi monumenti. La sua non è mai presa di parte, ma constatazione: in fondo le dittature sono tutte uguali. Il Teatro Politeama Garibaldi non è mero, muto contenitore delle grandi tele e installazioni montesaniane, ma soggetto attivo, parte di un unicum, di un progetto che per Montesano non si chiuderà mai perché troppe sono le storie da raccontare, e ancora di più i falsi miti da dissacrare. Quella struttura, il teatro appunto, c’era quando finiva l’Europa, arsa e devastata, ma il suo Mito, il suo trascorso di millenni gli ha dato la forza di rialzarsi, e come la fenice risorgere dalle proprie ceneri. Cosa c’entra Pino Pinelli a Lipari? Cosa c’entra il Mito Contemporaneo con le sue opere? Tre sono le cose che quando sono sbarcato per la prima volta a Lipari mi hanno colpito: i luoghi, la natura e l’isola stessa nel suo complesso. Tre sono gli elementi fondanti del lavoro di Pinelli: lo spazio (il Castello e la Chiesa di Santa Caterina), il colore (la rocca, le piante, il mare) e la pittura (Lipari). Come ben dice Marco Meneguzzo «Non si tratta di elementi alla pari, ma al contrario essi sono gerarchicamente collocati secondo priorità che l’artista non hai mai mutato: prima lo spazio, poi – “a cascata” – il colore e la pittura. Il primo – lo spazio – è l’elemento originario, il secondo – il colore – è l’elemento necessario all’emersione del primo, il terzo – la pittura – è lo strumento scelto dall’artista come il più efficace al proprio scopo e contemporaneamente costituisce la contestualizzazione storica degli altri due». La sua “pittura disseminata”, i suoi frammenti di geometria e colore si armonizzano con i profumi e i colori mediterranei. Pittura concettuale sì, ma così lontana dall’algidità dei pittori concettuali e minimalisti americani. La sua arte è carica di una cultura millenaria che con forza ci rivela le sue origini siciliane immerse nel Mito della Magna Grecia.

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Massimiliano Simoni

UNA PERSONA SEMPLICE

Art Director

Con Jorge è ormai una lunga frequentazione. Ci conoscemmo nell’ottobre del 2000. Da poco la sua statua di San Marcellino Champagnat, fondatore della Congregazione religiosa dei Fratelli Maristi delle Scuole, per volere di Sua Santità Giovanni Paolo II, era andata ad aggiungersi a quella dei 39 Santi fondatori presenti all’interno della basilica di San Pietro. Il Cardinale Virgilio Noè, Presidente della Fabbrica di San Pietro, così parlò all’inaugurazione: «La basilica accoglie l’opera dello scultore costaricano Jiménez Deredia come espressione di una cultura e di una spiritualità, annunziate attraverso l’esperienza del linguaggio dell’arte contemporanea». Deredia mi parlò della sua Ruta de la Paz, un progetto per la realizzazione di nove complessi scultorei collocati in altrettanti paesi del Continente Americano: dal Canada alla Terra del Fuoco, passando attraverso gli Stati Uniti, il Messico, lo Yucatan, la Costa Rica, la Colombia, il Perù e il Cile. Era come dipanare una sorta di filo rosso, ideale legame di popoli e leggende, miti e tradizioni, vita e simboli, che traeva origine dalle sfere precolombiane in pietra, costruite dagli antichi indiani Boruca della Costa Rica circa 2000 anni fa. Mi disse di come fosse rapito dalla simbologia legata alla sfera, che descrive la trasmutazione della materia e del cerchio: l’essere alla ricerca di se stesso. Capii come questi due elementi indicassero, per lui, una concezione unitaria e globale dell’esistenza e dell’universo, richiamando valori ancestrali presenti nell’uomo. Analizzando e reinterpretando l’importanza di un simbolo ricorrente in molte culture, aveva creato una connessione tra gli elementi sferici presenti in ognuno dei nove complessi scultorei e le principali costellazioni dei paesi interessati, attraverso l’allineamento delle sfere con le stelle. Mi pareva di tornare lo studente che si perdeva nei misteri delle Piramidi, dei dolmen ancestrali di un fascino infinito come la loro collocazione temporale, ma che capiva di trovarsi davanti a un progetto nel quale si svelava la consistenza di valori condivisi e che, attraverso l’opera d’arte, rendeva attuali antichi codici utilizzati dall’uomo nel corso della sua storia. Nacque subito una grande intesa, e dal sodalizio anche grandi progetti: la mostra La sfera, simbolo dell’essere ordinata nell’estate 2005 nel Parco della Versiliana, dove D’Annunzio ebbe grandi frequentazioni ai primi del ’900 componendovi La pioggia nel pineto, e la scultura monumentale Continuacion inserita al centro di una fontana, crocevia importante tra Pietrasanta e Forte dei Marmi. Fu ideata anche una “grande incompiuta”: lo studio per le scenografie di un nuovo allestimento della Turandot di Giacomo Puccini all’interno del progetto “Scolpire l’Opera” della Fondazione Festival Pucciniano… chissà, forse domani… «Dilegua, o notte! Tramontate, stelle! Tramontate, stelle! All’alba vincerò!» Facile farsi rapire da Deredia, persona semplice, dalla personalità complessa e dalla profonda cultura. L’amore per l’arte è totale. Il disegno, la scultura, il teatro, l’audiovisivo, la fotografia, sono un unicum che attraversa la storia e la sua preistoria, l’antico e il contemporaneo, il classico e il moderno.

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Speciale privilegio trattare e parlare d’Arte, e soprattutto farlo con i Grandi che la rendono perpetua e in continuo divenire. Bellissimo attraversare i secoli, le culture, le leggende, attraverso i paralleli. Recarsi a Segesta, farlo per la prima volta ed essere accompagnati da chi da laico ha sviluppato un profondo senso religioso sublimato dalle realizzazioni scultoree, non è cosa di tutti i giorni. I luoghi carichi d’immenso fascino e profondamente spirituali ti fanno fare a occhi aperti salti temporali e culturali di secoli. Arrivati al Tempio eretto dagli Elimi, ci troviamo proiettati 26 secoli indietro, prima dei Greci. Arrivati al Teatro, innanzi a una vista strepitosa che ci fa dire «ma come hanno fatto ad arrivare fin qua?» Scorgiamo Alcamo «Rosa fresca aulentissima»: pensiamo a Cielo d’Alcamo, padre – con Dante – della lingua italiana. Credo negli avvenimenti sincretici e penso a come per il poeta del XIII secolo la “rosa” sia metafora della femminilità e dell’amore, e a come Deredia, che la “donna” conforma e celebra quasi sempre nelle sue plastiche forme, la intenda quale misura dell’universo, generatrice di vita e di amore universale. Lo sviluppo in quattro tempi (quattro sculture) delle sue Genesi, sono pura, alta poesia. Nei luoghi deputati dell’aeroscalo Vincenzo Florio, del centro storico di Trapani e del Parco Archeologico di Segesta, La Genesi e il simbolo trovano la loro sublimazione, attraverso la quale si manifestano un pensiero e una visione della vita, luminosa e illuminata, il senso di un’attualità che va al di là dei modi, delle tecnologie e del consumismo. Il potere della vocazione carnale della scultura derediana ci fa meditare sulla profondità dei nostri rapporti umani, al di là del vuoto esistenziale che la nostra società sta imponendo con i flussi d’informazione globale. Le sue sculture sono messaggi d’amore di energia positiva. Ci mostrano in piena luce, così come in piena sensualità, la verità dell’essere messo a nudo dalla scoperta della sua appartenenza organica della dinamica atemporale dell’universo. La Genesi e il simbolo sono i due messaggi capitali che il Maestro vuol donare alla Sicilia con la sua mostra. Le opere in marmo e bronzo dialogano con la gente e con la storia, e ci infondono la convinzione che si possa vivere l’arte come speranza per ritrovare il senso circolare della vita e creare dei veri ponti di luce con le nostre anime. Il patrimonio antropologico precolombiano mesoamericano del Maestro è la solida base della sua scultura moderna e contemporanea, che con forza e coraggio si confronta, in una sorta di dialogo ancestrale e cosmico, con la genesi dell’arte stessa in un anelito di Utopia mitica.

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Fabio Isman

DEREDIA, UN UOMO VENUTO DALL’ARTE È il primo contemporaneo le cui sculture siano state esposte, a Roma, nei Fori: tra i marmi dell’antica grandezza. E il primo artista non europeo presente nella Basilica di San Pietro: nel Giubileo del 2000, una sua statua mastodontica di San Marcellino Champagnat è stata inaugurata da Papa Wojtyla, all’esterno del transetto; con ispirazione e rigore, anch’essa si rifà a un modello precolombiano (dimenticato, e tuttora denso di misteri), del Costa Rica, dove lui è nato. Fin da giovane, ha voluto vivere sotto le riserve di marmo di Carrara, che costituiscono la cifra della sua esistenza; ma, soprattutto, non si è mai montato la testa: è sempre rimasto il ragazzo che era. Il caso di Jorge Jiménez Deredia è forse unico, e magari irripetibile, nel panorama dell’arte: sembra quasi un Parsifal, «l’eroe purissimo». Non lo sa neppure, ma in certosina modestia e assoluta dedizione, segue un dettame enunciato da Johann Wolfgang Goethe: «In arte, soltanto l’ottimo è buono abbastanza». Nasce nel 1954 a Heredia, paesino del Costa Rica di cui mutuerà il nome; a nove anni, ha già deciso quale sarà la propria strada: uno scultore munito di vocazione. Al museo di San José di Costa Rica, vede le sfere dei Boruca, popolazione vissuta prima della conquista, e ne resta colpito. Dice: «Fabbricate forse 1.700 anni fa, levigando il granito: le uniche sculture astratte prima di Cristoforo Colombo, che approda in Costa Rica nel 1502, l’ultimo di quattro viaggi. Quelle sfere, più e meno grandi, arrotondate con un’esattezza al millimetro, e ancora non si spiega come, erano tantissime: pesavano fino a 15 tonnellate, erano allineate con gli astri e il muoversi del Sole, secondo calcoli e schemi ancora oscuri. Sono state rimosse nel 1940, per far posto alla coltivazione intensiva dei banani voluta dall’americana United Fruit Company, e in buona parte sparite: chi se ne portò a casa una; altre finirono davanti ai palazzi pubblici; poche, purtroppo, nel museo. I disegni di due archeologi americani documentano come fossero disposti alcuni gruppi, in una piccola area del Pacifico, al Sud: testimonianza assai preziosa di una civiltà sicuramente minore, non Maya, né Inca, ma fiorita per quattromila anni». Contrariamente a quanto si dice, anche il Costa Rica possedeva un passato, delle radici. L’arte di Deredia muove da qui. In ogni sua creazione si ritrova l’eco di quelle sfere; spesso, quanto esce dal suo laboratorio-studio ne è un dichiarato sviluppo. Del resto, «il primo verso», scrive Paul Valery, «viene da Dio». È uno scultore provvisto di vocazione, e sviluppa, in assoluto rigore, una propria ispirazione che viene da lontano. Approda in Italia a 21 anni, con una borsa di studio di sette mesi: non si muoverà più. Lui e la moglie Giselle stracciano il biglietto di ritorno, per non incorrere in tentazioni. In Costa Rica, ha già cominciato a lavorare il marmo; ma ora, e qui, è tutto diverso. Sotto le cave di Michelangelo, studia all’Accademia di Belle Arti; e a Firenze, Architettura. «In Accademia, la mia tesi si basava sulla lettura che Jung fa delle deformazioni anatomiche in Giovanni Pisano». Coniuga la circolarità di quelle sfere con l’esperienza del Rinascimento e all’arco a tutto tondo; con «una

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città tutta protesa verso l’alto, che si leva verso il cielo». In Costa Rica, dice, quelle sfere «erano un ponte tra lo spirituale e il razionale; erano il collante di un gruppo etnico: attraverso loro, i Borucas scoprivano parte di loro stessi; giustificavano la propria esistenza». E racconta intriganti leggende, forse memoria infantile poi rielaborata: «Le montagne bianche sono lacrime di stelle; noi veniamo dalle stelle: siamo la polvere delle stelle; il prodotto di un’evoluzione; il derivato di un processo cosmico, cui partecipiamo con l’atto creativo. La verità è scritta nei nostri cuori, e non nelle ideologie. Scolpire è ricordare; il marmo è una superficie soave, che respira: mutarne l’aspetto, pretende la stessa pazienza della goccia d’acqua che, scavandola nella grotta, altera la forma della pietra. La modificazione della materia è un “tempo mistico”: perché ripete ed eterna il miracolo fondamentale della creazione». Lui, in realtà, continua ad aggiornare e tramandare, a rileggere, quel misterioso rituale, ormai mitologico, degli antichi Borucas. Picasso diceva: «La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a quanto ha visto»: anche la scultura? All’inizio, è molto dura. «Ho sempre vissuto alle foci del Magra. Per sette anni, non c’erano i soldi per ritornare in Costa Rica; per undici, quelli per riscaldare la casa: a Esteban, nostro figlio che poi ha fatto l’università e un master, ha lavorato per le Nazioni Unite e la Regione Liguria, di notte, ponevamo i mattoni rivestiti di stracci sotto il materasso, e prima infuocati nel caminetto. Però, non mi sono mai adeguato; né ridotto a lavori che non fossero il mio. Mostravo un disegno a un amico; gli chiedevo 150 mila lire, promettendo che gli avrei realizzato quella scultura: campavamo così. Mia moglie e io abbiamo sempre stabilito di spendere appena un quinto di ciò che ricavavo dalle opere; il resto, serviva per scolpirne altre». Ma Jorge sapeva di non poter fare altro che lavorare il marmo, e poi pure il bronzo, «magari, misurandomi ogni giorno con quei capolavori di semplicità e di profondità», che erano le sfere dei Borucas viste da bambino. Era una sfida, in cui metteva in gioco tutto se stesso: l’arte, scriveva Leo Longanesi, «è un incidente da cui non si esce mai illesi». Nel tempo, sono venute tre Biennali di Venezia (1988, 1993, 1999); le prime sculture più grandi in spazi pubblici: negli Usa, in Sud America, in Francia; infinite mostre in numerosi Paesi. Anche il successo, che lui però disconosce: «I soldi? Un superfluo. In più di un letto, non posso dormire, e se mangio troppo, mi ammalo». Contingenta ancora le entrate, anche se alle esigenze del lavoro ora ne riserva metà, e non più un quinto. Pochi pensano agli investimenti che la vocazione di chi scolpisce pretende: per realizzare negli anni la grande mostra a Roma, nel 2009 ai Fori, in alcune piazze e cortili di musei, a Palazzo delle Esposizioni, «ho scolpito 550 tonnellate di marmo». Si alza alle 6 del mattino, e fa colazione con un bicchier d’acqua; mai un caffè, raramente un bicchiere di vino, e «soltanto in compagnia». Dalle 7 alle 13, e dalle 14 alle 20, lavora nello studio; alle 9 di sera, è già a letto. Scandisce la giornata con l’arte. «Non amo gli spigoli», dice, «perché 29


qualunque piega complica sempre la vita. La forma ideale è quella sferica. Cerco di rappresentare, insieme, quanto vediamo del mondo; ma anche la sua essenza più intima e profonda. Ho realizzato molte mie creazioni, e assunto tante decisioni, solo perché sentivo “dentro” di doverlo fare: quasi me l’avesse ordinato una forza misteriosa. Quella statua in San Pietro, ad esempio, “sapevo” che dovevo riuscire a eseguirla a tutti i costi». San Marcellino Champagnat, fondatore di scuole e vissuto nella Francia post-rivoluzionaria, è alto quattro metri e mezzo; con il piedestallo, quasi cinque e mezzo (più del David di Michelangelo): 32 mila chili di purissimo marmo, 20 mila solo la scultura. Per due volte, il blocco, prelevato «da una delle cave più antiche, a 900 metri d’altezza, in un sito già utilizzato anche dal Buonarroti», non andava bene: «Il primo, di 60 tonnellate, possedeva una vena; l’altro, una vasta macchia. Ma sono stati gentili: li hanno tagliati e rivenduti, non me li hanno fatti pagare». Quando Giovanni Paolo II ha inaugurato la scultura, Deredia era l’unico senza cravatta, e a non baciare la mano del Papa: «La cravatta l’ho portata fino a 13 anni, e dopo mai più; il baciamano a un uomo, mai: mi sembra servile». Perché lui è tutto d’un pezzo: si potrebbe dire, proprio come il marmo che lavora. Il bimbo ai piedi di San Marcellino Champagnat, unica autoconcessione, ha le fattezze del suo Esteban quando era piccolo. Una volta, l’ho accompagnato in Costa Rica. Lì lo riconoscono per la strada, e lo ringraziano, per aver restituito a ciascuno quelle radici che non sapevano più di possedere. Un aeroporto dismesso è diventato un Giardino di sue sculture. Si sta costituendo un grande museo tutto per lui. Nel Paese forse più democratico del mondo (dal 1948, ha abolito l’esercito; e l’allora Presidente Oscar Arias Sánchez è stato insignito del Nobel per la pace nel 1987, per aver provato ad esportare l’idea nei Paesi vicini), gli hanno fatto “impaginare” il passaggio delle consegne tra un Presidente e il successore; e lui ha poi seguito la cerimonia da casa sua, in Italia, perché troppo schivo per raccogliere gli onori. Ma adesso che può farlo, vi ritorna ogni anno. Di tre modelli che inizia, due li distrugge, perché non ne è convinto. Cerca sempre un’ispirazione “alta”: quasi un afflato, che non è mai solo terreno. Da qui certe sue Composizioni cosmiche, in cui si ritrovano le sfere natie. O le stupende Genesi (forse, le sue espressioni migliori e più elevate), in cui, passo a passo, e di solito i passi sono quattro, una sfera, erede di quelle dei Boruca, trasmuta in una donna che sta accovacciata, ripropone il miracolo e il mistero della Creazione. O il Ricordo profondo (e il titolo dice già tutto). Anche Encuentro non ha neppure uno spigolo vivo: è quasi un miracolo di rotondità diverse, come la Flautista, il cui primo esemplare domina, a San José, l’ingresso del Teatro Nacional de Costa Rica. Le sue Genesi le racconta così: «Immagina di piantare un seme nel terreno; con il passare dei giorni, il seme inizia a cambiare forma: si apre, si allunga, cresce e dà vita alla pianta che a sua volta crescerà, si allungherà, si aprirà. Da quella pianta ne nasceranno altre; e da quelle, altre ancora. La mia sfera è quel seme nel terreno; è la pianta che cresce; è la vita che si rigenera. 30


E la donna che io rappresento nella Genesi è colei che vive dentro di sé questo fenomeno meraviglioso di continuità ciclica e trasmutazione della materia». Di Deredia si era come innamorato, purtroppo in limine vitae, Pierre Restany, il grande critico francese che gli ha dedicato uno degli ultimi libri scritti, vate d’altri grandi artisti come Yves Klein, César, Christo, Arman: erano diventati veri amici, anche perché Deredia non passa inosservato. E a Restany interessava quanto sta dietro al suo scolpire. Mi viene in mente un librino introvabile, appena 50 copie pubblicate a proprie spese a Venezia nel 1945, di un grande scultore, Arturo Martini, La scultura lingua morta; tra l’altro, lamenta: «Mai un’indagine seria, né mai l’ansia di addentrarsi, al di là della statua, nell’essenza della scultura». Più di quanto realizza, ancor più di quanto scolpisce, nell’arte di Deredia conta che cosa c’è dietro. Ora, il successo gli permette quasi di scegliere tra gli acquirenti e le mostre; «dei compratori, ricordo forse con maggior piacere una donna con scarsi mezzi, che arrotondava facendo le pulizie a casa nostra. Vede alcuni miei disegni preparatori, chiede d’acquistare una scultura; replico che costa molto: forse troppo per lei; insiste: l’avrebbe pagata un tanto al mese. Le dico di darmi dei soldi quando le fosse stato più comodo. Non ha mai mancato, ogni mese, di portarmeli; me li ha dati tutti: e per lei non erano certo pochi. Ora, il ristorante che mia moglie e io preferiamo è quello della figlia». Mai detto no a un cliente? «Una volta, fuori dall’Europa: ma non svelerò a chi. Aveva acquistato una mia scultura; a casa, possedeva dei Picasso, aveva i rubinetti d’oro; ma quando entrammo, umiliò un cameriere perché gli angoli di un tappeto erano rivoltati all’insù. In seguito, mi ha chiesto altre opere: non gliene ho più volute vendere». Quando ha pensato ad un Autoritratto, a Deredia è uscito un bronzo lungo quasi cinque metri e alto circa tre, che, in realtà, è l’impronta del palmo della sua mano destra, ripetuta quattro volte: «Perché è il mio primo strumento di lavoro: il vero ritratto di ciò che sono». Lavora in uno splendido isolamento: altro che tanti artisti moderni, i quali finiscono per trasformarsi nei committenti dei propri aiutanti. William Morris diceva: l’artista è «il rappresentare dell’artigianato, che si è estinto nella produzione industriale». Ma anche Walter Gropius, tra i fondatori del Bauhaus, predicava che «non vi è differenza tra artista e artigiano: bisogna tornare all’artigianato». E Deredia è davvero l’unico padrone di se stesso. Dei successi, senza iattanza, orgogli, né vanterie, ricorda semmai la fatica per realizzarli. Un Eterno femenino/Eterno masculino lungo cinque metri e alto tre, nei giardini della Casa presidenziale, ha segnato il transito, nel suo Paese d’origine, del millennio. Sull’Atlantico, nel nuovo Duomo di Limón, dove sbarcò Cristóbal Cólon, troneggia un Cristo di cinque metri e mezzo, fortemente evocativo: tre elementi che si compenetrano in maniera inedita e del tutto originale. Nel Guanacaste, nella penisola di Papagayo (dove si è ricavato uno studio davanti al mare per il mese che trascorre ogni anno nel suo Paese), una immacolata Genesi in marmo di Carrara è lunga 18 metri, e larga e alta più di due. Poggia sul pelo d’uno specchio d’acqua senza bordi, e si fonde 31


nel mare e nel paesaggio circostanti. Un’altra creazione segna il lungomare di Pietrasanta (quale toponimo mai più indovinato?), nel luogo d’adozione. Ai marmi tanto adorati, da tempo accompagna anche i bronzi, soprattutto in occasione di mostre (più semplice trasportarli, no?); ma sono «fusioni con la cera persa, come si faceva un tempo». Non riuscirebbe mai a essere astratto; se è lecito coniare un genere, non è nemmeno banalmente figurativo: ma forse, un artista (assai più degli altri) evocativo. Sue opere sono ormai in vari musei del mondo, il primo, in Florida, quello di Boca Raton a Miami, dove ritorna spesso. Venuto dal Paese dei crateri (il suo ne vanta 14, ancora in attività o estinti), Deredia è un vulcano d’idee: sempre alla ricerca dei motivi più profondi per cui, noi tutti, siamo al mondo. Solo questo gli interessa; e l’arte, la scultura che esercita con infinita dedizione, rappresentano lo specchio della sua ricerca. Per «recuperare il senso della circolarità, che esiste da sempre nell’uomo; la sfera è anche l’espressione perfetta della globalità universale che stiamo vivendo». Tiene molto alle superfici: leviga i volti e li pulisce a pelo d’uovo; cesella le vesti; lavora al frullino i capelli dei marmi; nessuno dei bronzi ha patine, nere o marroni, che non siano perfette: talora, anzi, ne sperimenta di inedite. Gli ho chiesto: se, con una bacchetta magica, potesse realizzare un solo desiderio, quale sceglierebbe? Mi ha risposto: «Di sicuro, scolpire un mucchio gigantesco di sculture; non vorrei niente altro, e non potrei fare null’altro». Ha anche pensato un progetto che fa tremare i polsi, la Ruta de la Paz: nove installazioni monumentali in altrettanti Paesi, dal Nord canadese dell’America al Sud della Patagonia, accomunate dai loro simboli circolari dell’età precolombiana: una pura utopia? Soltanto il tempo potrà dirlo. La sua arte, «modello finito di un mondo infinito», possiede qualcosa di laicamente religioso. «Essere artista è credere nella vita», scriveva il suo più famoso collega Henry Moore: «Un simile sentimento, così profondo, può essere definito religioso; un artista non ha bisogno, per vivere e creare, né di una Chiesa, né di un dogma». Forse, gli basta un mito, conosciuto da ragazzo: dall’altra parte dell’Oceano. Copio William Faulkner: «Scopo di ogni artista è arrestare il movimento, che è vita, con mezzi artificiali; e poi, tenerlo fermo, ma in una maniera tale che, cent’anni dopo, all’occhio di un estraneo, torni a muoversi, perché è vita». Ecco perché, quando Jorge mi ha subito raccontato della sua mostra in Sicilia, ne era già entusiasta. Trapani, affacciata sulle Egadi e con il “balcone” di Erice, gli piaceva; ma quando è tornato, dopo parecchi anni, a Segesta, ne è rimasto folgorato. «Uno spazio magico; l’equilibrio perfetto delle colonne di quel tempio di 26 secoli fa è il medesimo delle sfere dei Borucas: proprio quell’equilibrio che io cerco di ricostruire nelle mie sculture. Nelle Odi, Orazio invitava a mantenerlo perfino nelle difficoltà: è un elemento essenziale. Il teatro, mi ha provocato autentici brividi di immensa interiorità. E ho pensato che da molto tempo io vado alla caccia di siti del genere, dove si fondano pienamente l’armonia umana e quella sovrumana». Tornando in Sicilia dopo lunga assenza, ha visitato anche Agrigento e Selinunte; 32


«ma a Segesta è stato subito diverso; ho immediatamente percepito, tutta intera e assai profonda, la magia di cui il luogo è il portatore». In fin dei conti, anche questo tempio, con 14 colonne doriche nei lati lunghi e sei in quelli corti, rimane ancora un mistero: non si sa neppure (le colonne non sono scanalate) se sia stato concluso, o no; rimanda al pieno classicismo greco, tuttavia in una città degli Elimi: un popolo d’incerta derivazione e di cui ancora si conosce assai poco, più antico dei greci che si insediarono nella vicina Selinunte. Così, ha scelto Segesta (o magari è stato scelto da lei?) e, come già in altre occasioni, ha deciso di accompagnare la mostra in un luogo particolarmente significativo (a Firenze, nel 2006, la Limonaia del Giardino di Boboli; a Roma, nel 2009, i Fori e Palazzo delle Esposizioni) con alcune opere nei siti nodali di una città: se a Firenze ed a Roma erano le piazze, magari improntate da Buontalenti e Bernini, o i cortili di alcuni musei in edifici assolutamente storici e di grande passato come Palazzo Altemps, qui sono Trapani e l’aeroporto: un suo ingresso, un suo benvenuto. Le straordinarie posizioni del tempio e del teatro di Segesta, il loro vivere nella natura, affascinano chiunque: ma Jorge Jiménez Deredia ancora di più. Ritiene la mostra l’occasione per un incontro di miti: i suoi ancestrali, e quelli, ancora più remoti, che parlano di Cerere ed Erix; di Ade e Saturno; dei Feaci e di Enea; di amore tra cielo e mare; di Astarte che trasmuta in Venere. Anche qui è costante la ricerca di una protezione degli dei, pur se non attraverso sfere allineate, che traguardavano il sole in certi giorni topici dell’anno. E anche qui c’è tanta Genesi: soprattutto qui. Un archetipo del mondo, nella terra più antica e tuttora più incognita di tutto il Paese, dalla cui Penisola non la separa che un piccolo (eppur assolutamente mitologico) braccio di mare. Ed è piena (sì, anche lei) di Ricordi davvero profondi.

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Francesco Buranelli

… LA MAN CHE UBBIDISCE ALL’INTELLETTO …

Segretario della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa

Dopo aver “conquistato” Roma nel 2009, con una grande mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni e nelle principali piazze della Capitale, il rapporto tra Jorge Jiménez Deredia e l’Italia si arricchisce con una nuova e stimolante tappa in Sicilia, l’antica Magna Grecia. A Trapani: proprio nell’estremo lembo occidentale dell’isola, in un territorio popolato sin dall’età protostorica dagli Elimi poi – per la sua strategica posizione di avamposto commerciale e militare al centro del Mediterraneo – contesa da tutte le potenze che qui si fronteggiarono; passata sotto il dominio dei Cartaginesi, dei Romani, dei Bizantini, degli Arabi, dei Normanni, degli Spagnoli, dei Borboni e finalmente, solo nel 1860, con lo sbarco dei Mille, divenuta italiana. Stretta tra la montagna ed il mare dai mille riflessi è una città mutevole come il suo nome che cambiò con le successive dominazioni, dal mitico Drepanon, al latino Drepanum, all’arabo Itràbinis, Taràbanis, Tràpanesch, per poi diventare l’odierna Trapani. Una città aperta, dunque, ai più diversi influssi, pronta ad accogliere e ad assorbire suggestioni e culture altre, adattandole alla propria indole, con la spiccata caratteristica di essere città multietnica e multiculturale sin dalle origini; una peculiarità indispensabile per capire le ragioni ed i nessi che hanno indotto le diverse Amministrazioni pubbliche ad ospitare la mostra di Jorge Jiménez Deredia, uno scultore nativo del Costa Rica, ma oggi, sempre più, italiano di adozione. Da queste duplici, profonde radici, nasce il desiderio dell’artista – in un incontro che si pone in continuità con la suggestiva mostra di Roma, tra le monumentali rovine della città caput mundi – di una nuova sfida che lo porterà a confrontarsi con un’altra dimensione del nostro bel paese: quella con le origini stesse dell’antichità classica, nell’area archeologica di Segesta, che la leggenda vuole fondata da Enea in fuga da Troia che qui avrebbe celebrato i giochi funebri in onore di Anchise, e poi con Trapani e le diverse popolazioni che hanno convissuto e che si sono ferocemente combattute sul suo territorio, creando una comunità indomita che per secoli ha tratto il suo sostentamento dalla dura vita del mare. Deredia dialogherà con quel che resta di una fiorente città “di frontiera”, posta al centro del Mediterraneo, città che nella prima guerra punica del 249 a.C. resistette, mai conquistata, alla flotta navale romana, che sbaragliò nel corso dell’attacco al porto; la città che nel Rinascimento ricevette l’appellativo di “Chiave del Regno” spagnolo per il ruolo strategico che svolgeva, ma anche città che ha sofferto e subito sconfitte e profonde ferite come il feroce bombardamento delle truppe alleate che, nella Seconda Guerra Mondiale, rase completamente al suolo tutto il centro storico, oppure le recenti distruzioni causate dal violento terremoto della vicina Valle del Belice del gennaio del 1968. Una città orgogliosa e guerriera, Trapani Invittissima – per via “delle gloriose resistenze fatte sempre ai nemici del regno” – che sembrerebbe estranea alla personalità forte e serena di Deredia e alle radici stesse della sua cultura che

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affondano nella società pacifica e non gerarchica (“orizzontale” è spesso definita) del Costa Rica precolombiano. Eppure, a guardare bene, nel crogiolo di civiltà, di religioni, di popoli, di idee che hanno contribuito a “creare” Trapani ritroviamo la stessa potenza spagnola che nel XVI secolo conquistava l’America centrale ed anche quelle stesse forme curvilinee dalle quali ha preso vita l’opera di Deredia, ad iniziare dalla famosa penisola a forma di falce, Δρεπανον per l’appunto, sulla quale si è sviluppata la città e che la mitologia faceva risalire alla falce caduta dalle mani di Saturno che trasformò questa penisola in una lingua arcuata protesa verso mare, per non parlare, poi, delle cupole moresche che ne caratterizzano, ancora oggi, lo splendido paesaggio. Quando nel 1954 Jorge Jiménez Deredia nasce a Heredia, in Costa Rica, era in corso il drammatico e sistematico disboscamento delle foreste operato nella parte meridionale del paese da una company nord americana, la United Fruit, per impiantarvi una rigogliosa e remunerativa coltivazione di banani. In quell’occasione era venuta alla luce una “moltitudine” di perfette sfere di pietra di varie misure, disposte secondo allineamenti e forme inspiegabili che subito attirarono l’attenzione della popolazione e soprattutto degli studiosi. Le sfere variavano per diametro – dai venti centimetri fino ad arrivare ai due metri – e per peso – dai pochi chilogrammi fino a circa 24 tonnellate. Purtroppo gli scopritori delle bolas, anche se incuriositi dalla scoperta, non considerarono minimamente l’importanza del contesto del ritrovamento e le rimossero dai loro luoghi d’origine causando un danno irreparabile alla ricerca archeologica ed alla comprensione del loro significato. Tuttavia queste particolarissime sfere, musealizzate e collezionate da privati, sono divenute segno distintivo ed identitario del Costa Rica. E Jorge Jiménez Deredia consapevolmente le ha acquisite nel suo immaginario, come personale bagaglio culturale, tanto che dai suoi ricordi di infanzia riemerge frequentemente quella giornata in cui, all’età di nove anni, all’interno del Museo di San José del Costa Rica, vide per la prima volta le misteriose bolas scolpite dalla popolazione indigena dei Borucas. Negli anni ’80, quando Deredia si trasferisce a Firenze per studiare alla facoltà di architettura, subisce il fascino dell’arte italiana e, soprattutto, dell’architettura rinascimentale che con le forme perfette ed armoniose non solo richiamano alla sua mente le sfere precolombiane della civiltà Boruca, ma gli rivelano le mille declinazioni possibili della sfera, stimolandolo a dare forma e vitalità alla sua inclinazione artistica. È in questi anni e con questo felice incontro del retaggio culturale preispanico venuto a contatto con il Rinascimento fiorentino che nasce l’arte di Deredia. Il suo interesse subisce “l’attrazione fatale” del monumento che più di ogni altro caratterizza il cielo di Firenze: la cupola di Santa Maria del Fiore, sublime capolavo36


ro del Brunelleschi. La cui doppia e differente curvatura – a sesto di quinto acuto all’interno e più slanciata esternamente a sesto di quarto acuto – dominata dalla lanterna sul cui vertice il Verrocchio pose, nel 1472, una sfera di bronzo, fece scattare nella mente del giovane Deredia il “link” con le misteriose bolas del suo paese. Perfette, ruvide, inconoscibili, pesantemente ancorate alla terra le bolas in Costa Rica; lucida, bronzea, aerea la sfera del Verrocchio. Altro monumento fiorentino che, come egli stesso racconta, influì significativamente sulla formazione artistica di Deredia fu la facciata di Palazzo Medici Riccardi, capolavoro di sobrietà ed eleganza di Michelozzo, che con l’uso del cosiddetto bugnato graduato – cioè dell’impiego di blocchi squadrati in facciata, molto sporgenti al pian terreno, più appiattiti al primo piano, fino alla loro trasformazione in lastre lisce, appena incorniciate, al secondo piano – mette in evidenza il naturale alleggerimento dei volumi verso l’alto e diventa esempio visivo del concetto trasmutativo della materia e del continuo divenire delle cose che in Deredia stava maturando in quegli anni. L’artista stesso dice di sé e della sua visione: “… Io faccio arte per avere delle risposte esistenziali, …. La mia arte è indipendente… Il mio sguardo si rivolge alle culture precolombiane, che ci hanno raccontato la vita. Ho cercato attraverso i simboli il loro modo di capirla e di reinterpretarla secondo il sentimento contemporaneo. Questi simboli ci possono parlare e possono vivere anche nel XX secolo per la loro intensità spirituale … [e tuttavia] sono stati gli artisti italiani, è stato il Rinascimento italiano che mi ha aiutato a decodificare quel grande messaggio che si trova in queste sfere …” Non sembri, a questo punto, inopportuna piaggeria ricordare qui le parole di Michelangelo, che possiamo ora sentir riecheggiare e, con una prospettiva diversa, reinterpretare: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto” (Rime,151). Il Buonarroti riteneva, dunque, che la forma fosse già presente, in tutte le sue rifiniture, all’interno del blocco di marmo, che ne fosse in qualche modo prigioniera e che compito dello scultore fosse quello di liberarla “per forza di tolle”: liberare il concetto, eliminando la materia in eccesso. Deredia, dal canto suo, reinterpreta questo sentire e ci mostra come tutta la sua opera sia già nella compatta sfera di pietra, nell’uovo liscio e insondabile. C’è già tutta: egli non deve far altro che procurarsi gli strumenti per liberarla. Ma vuole accompagnarci, passo dopo passo, in questa “trasmutazione” della materia, ci prende per mano e ci mostra come le forme si generino, prendano sembianze umane e divengano, proprio come il feto nel grembo materno diviene bambino, esseri perfetti. 37


Non toglie pietra in eccesso, in queste opere esposte a Trapani, ma le fonde nel bronzo; lo strumento non è lo scalpello, ma il fuoco. Questo compendio di riferimenti incrociati e di suggestioni artistiche culmina, nel giovane Deredia, nello studio del famoso disegno dell’Homo ad quadratum et ad circulum, più comunemente noto come uomo vitruviano. L’immagine nella quale Leonardo da Vinci, rappresentando le considerazioni di Vitruvio riportate nel famoso trattato De Architectura, interpreta, in perfetta sintonia con il clima culturale dell’Umanesimo, la centralità dell’uomo nella decodificazione delle leggi numeriche e geometriche dell’universo, in cui l’individuo era considerato misura di tutte le cose. L’osservazione di questa semplificazione grafica fa emergere evidenti collegamenti concettuali e forti implicazioni spirituali nell’opera di Deredia che dalla sfera trae origine per dare corpo alle sue figure incentrate sull’uomo, in tutti i suoi molteplici aspetti. L’artista porta però a questa rinascimentale visione antropocentrica una sua non insignificante modifica: la misura di tutte le cose – il significato stesso dell’evolversi eterno della materia – è da individuarsi non nell’uomo, ma nella donna. Protagoniste delle sue opere sono quasi sempre le donne, poiché l’essere femminile è ritenuto dall’artista il più perfetto, non solo in quanto portatore di vita, ma soprattutto perché più duttile, morbido, capace di adattarsi al fluire continuo delle forme, cedevole al trasformarsi della materia e capace al tempo stesso di infonderla di sé. In questo contesto l’allusione alla sfera diventa anche riferimento diretto al ventre materno dal quale l’uomo viene al mondo e dal quale anche Deredia, crea le sue Genesi. È questo, infatti, il titolo dei suoi gruppi scultorei composti da serie di quattro sculture che dalla perfetta forma sferica iniziale si modificano gradualmente fino a trovare il loro significato nell’ultimo stadio evolutivo. In Deredia tutti i passaggi che portano alla realizzazione dell’opera finita ne diventano parti essenziali e determinanti e come tali la compongono quanto, se non di più, della scultura finale che, anzi, resterebbe quasi “incompiuta” in assenza degli stadi dell’evoluzione che l’hanno preceduta: nel fluido e mutevole passaggio da forme geometriche, a forme astratte si genera, come lo schiudersi di un uovo, lo sbocciare di un fiore o la mutazione di una crisalide in farfalla, il “figurativismo derediano”. Questa è la profonda differenza tra Deredia e altri scultori: il processo evolutivo dell’opera parte da una forma geometrica per arrivare all’uomo, o meglio alla donna, attraverso elaborazioni anche astratte che, non solo non vengono nascoste all’interno dello studio dell’artista, ma divengono elemento fondamentale per la comprensione della sua creazione. Tanto che l’opera non può dichiararsi “finita” senza tutti i passaggi che l’hanno preceduta e che ne definiscono forma e fattezze, in una successione “trasmutativa” della materia diventando a tutti gli effetti 38


“genesi” nel più puro significato del termine biblico di “nascita” e di “creazione”. Anche il trattamento delle superfici assume un significato e una valenza particolare in questo processo creativo della materia e delle forme, tanto è vero che da una superficie grezza, scabra e ruvida della sfera iniziale si sviluppano morbidi volumi rifiniti da una alternanza di superfici più levigate, in alcuni casi quasi riflettenti, alla ricerca di effetti luminescenti e chiaroscurali ottenuti – nella continua ricerca di un rapporto intimo e materico con l’opera – o con la sapiente tecnica dell’antica levigatura del marmo, realizzata manualmente dall’artista lisciando personalmente il duro marmo con l’uso della paglia, o con le splendenti patinature del bronzo. L’origine della sua arte da una perfetta forma geometrica come la sfera evoca un facile confronto con la produzione artistica di un altro grande scultore italiano: Arnaldo Pomodoro. In entrambi gli artisti il trattamento delle superfici volto alla ricerca “di luci ed ombre” induce ad un ulteriore parallelismo, ma mentre le sfere di Pomodoro si squarciano davanti allo spettatore alla ricerca del meccanismo interno che in nulla evoca la figura umana, ma anzi la annulla nell’ingranaggio, Deredia è proiettato verso l’esterno ed attratto dalla “genesi” dell’essere che prende gradualmente coscienza e vita dalla perfezione della forma geometrica. Il costante dilatarsi di forme ondulate e arrotondate lo fa avvicinare ad un altro grande artista del secolo appena trascorso, Henry Moore, che ha avuto un cammino artistico per alcuni versi simile a Deredia. Fu, infatti, nelle opere degli anni Venti del Novecento che Moore subì il fascino dell’arte precolombiana che, insieme all’influsso delle possenti figure dei maestri del Rinascimento italiano del calibro di Masaccio e di Michelangelo, lo portarono, attraverso le tematiche cubiste ed astratte, ad un lungo percorso artistico sempre legato alla natura ed alla figura umana, creando forme dilatate con andamenti ondulati e incavati che riecheggiano anche nell’opera di Deredia, nei suoi corpi primitivi dalle curve membra dinamiche nel gioco dei movimenti. Le tre opere di Deredia che ci accolgono all’arrivo, in aeroporto, Ricordo profondo, Sentinella e Genesi Evolución, ci introducono immediatamente nel suo mondo popolato da morbidi giganti di bronzo. La luce ne percorre le superfici, senza svelare il loro mistero, restano impenetrabili all’occhio che non trova dove soffermarsi, invitato a vagare dalla stessa infinita rotondità delle forme, traendo, tuttavia, da questo vagare non inquietudine, ma profonda serenità. Le donne rappresentate nelle sculture diventano simbolo di fertilità, figure distese a contatto con la nuda terra a sottolineare come l’umanità appartenga alla natura. Altre statue di Deredia popolano anche la centralissima Via Vittorio Emanuele; Genesi dell’uovo è il dono di un artista che viene da lontano ad omaggiare le strade di una antica città, sorprendendoci con la sua personale forza espressiva, inedita ed irripetibile sintesi di una esperienza artistica che ha nutrito le sue radici precolombiane con l’humus della cultura classica e le ha materializzate oggi nel 39


bronzo della più antica tradizione greca. L’uovo di Leda, forse, non genera più Elena la più bella di tutte, ma una divinità ancora più antica, una grande madre dalle forme generose e avvolgenti. L’abbraccio del porticato dell’ottocentesco Mercato del pesce accoglie l’Autoritratto di Deredia, in muto dialogo con la Venere Anadiomene della piccola fontana. La grande mano, più volte ripetuta, riassume l’essenza stessa dell’artista, quella man che ubbidisce all’intelletto non è libera, ma chiusa dentro cornici che ne limitano l’azione. Quali sono questi limiti posti alla creatività? La ragione? La natura stessa della materia? Le leggi della fisica o della logica? Il mare di Trapani che fa da sfondo allo spazio misurato della piazza non dà risposte. Quello con Segesta è un incontro diverso, una nuova sfida che porterà l’artista costaricano a confrontarsi ancora una volta con la dimensione dell’antichità “classica”, con le rovine del misterioso tempio, con la pietra corrosa del teatro, con la grandezza perduta dell’Acropoli. Dialogherà con quel che resta della città degli Elimi, un popolo dalle origini ancora non accertate, ma indissolubilmente legata al mito stesso di Enea e della fondazione di Roma: Aegesta, sorella di Roma, civitas libera ac immunis, vede emergere dalla terra le grandi sculture in bronzo di Deredia, forme senza tempo che da un passato antichissimo e da un luogo remoto sembrano capaci di irrompere senza traumi nel XXI secolo; si ha la sensazione che quelle donne velate, siano state sempre lì, ma che solo ora ci accorgiamo della loro presenza. Un velo antico – che riconosciamo nelle tradizioni ancestrali, a lungo protrattesi nella terra di Sicilia (come anche tra le popolazioni dell’America Latina) non ne mortifica né nasconde la femminilità, ma come avveniva nelle antiche civiltà ne esalta la sacralità. Pareja, Ricordo profondo e Si mismo – occupano lo spazio dell’austero tempio dorico – forse mai finito – le cui colonne potenti sembrano sostenere se stesse e, forse, l’azzurro cielo di Sicilia. Silenziose, ma sostanziali presenze si materializzano all’improvviso al nostro sguardo, potenti figure femminili. Anche l’alta silhoutte della Flautista, il cui suono melodioso ed antico intrattiene, oggi come ieri, gli spettatori che si accalcano sugli spalti nello scenografico Teatro scavato nella roccia della montagna, e si avvolgono nel cerchio dell’orchestra, suscitando meraviglia e stupore. La mostra di Deredia conferma il suo nuovo modo di fare cultura e arte; non più solo mostre circoscritte all’interno di uno spazio espositivo, non più solo esposizioni in uno spazio monumentale all’aperto, ma un evento capace di coinvolgere l’intera città e il territorio circostante, per guardare ad un futuro di pace basato sui valori universali dell’arte, della solidarietà e del rispetto dell’ambiente. Sono questi i forti messaggi che emanano le opere di Deredia in dialogo non solo con il paesaggio e la storia che li ospitano, ma soprattutto con la popolazione per promuovere momenti d’incontro all’insegna dell’arte, dove l’uomo dovrà “pensare” e “meditare” sul proprio futuro. 40


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Enrico Mattei

JIMÉNEZ DEREDIA “Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, l’idea in immagine, e ciò in modo che l’idea nell’immagine rimane sempre infinitamente attiva e inesauribile, e pur comunicata in tutte le lingue rimane sempre incomunicabile. Questo è il vero simbolismo, nel quale il particolare rappresenta il generale, non come sogno od ombra, ma come istantanea e viva rivelazione dell’inconoscibile.” Goethe

Jiménez Deredia porta in Sicilia un pensiero e una visione della vita, luminosa e illuminata, il senso di una attualità che va al di là dei modi e delle tecnologie e del consumismo. Il potere della vocazione carnale della scultura derediana ci spinge a meditare sulla profondità dei nostri rapporti umani, al di là del vuoto esistenziale che la nostra società sta imponendo con i flussi d’informazione globale. Le sculture sono dei messaggi d’amore e di energia positiva. Ci mostrano in piena luce, così come in piena sensualità, la verità dell’essere messo a nudo dalla scoperta della sua appartenenza organica alla dinamica atemporale dell’universo. La Genesi e il Simbolo sono i due messaggi capitali che lo scultore dona alla Terra del Mito. Nell’epoca della globalizzazione che tende a omologare tutto, Deredia chiama l’attenzione sull’importanza dei simboli ancestrali che abbiamo perduto o stiamo perdendo. Recuperarli non è un’operazione di archeologia culturale, è al contrario un modo per ritrovarci a noi stessi, per capire la nostra identità profonda, per stabilire una giusta relazione con quel tutto dal quale veniamo e poter così vivere meglio il nostro viaggio della vita e il nostro presente. Il linguaggio dell’arte dialoga così con la gente, con la storia e con il Mito creando ponti di luce con le nostre anime e con la nostra vita. All’interno dell’aeroporto civile è possibile ammirare al primo piano l’opera Genesi Evoluciòn che corrisponde alle numerose sculture che l’artista ha prodotto sotto questo tema, una successione di forme che dalla figura umana arriva fino al cerchio; ricordo che la figura è sempre femminile perché si rapporta al destino della creazione, in particolare perché genera vita a sua volta e in questo modo si scatena un ciclo eterno verso l’infinito. Dalla sfera alla figura umana e viceversa per dare continuazione all’azione generatrice dell’universo, un flusso che attraversa materia e corpi nello scopo di un equilibrio perfetto che indaga sull’origine di ogni cosa. In corrispondenza agli arrivi e alle partenze, al di fuori dell’ingresso all’aeroporto, troviamo Ricordo profondo e Sentinella, due opere monumentali che accolgono o salutano il flusso dei viaggiatori che parte e arriva. Il bronzo rende queste forme rotondeggianti ancora più sinuose e leggere: sembrano gonfie d’aria e questo accentua ancor di più il loro galleggiare nello spazio. Il centro storico di Trapani è il palcoscenico della Genesi dell’uovo e dell’Autoritratto del Maestro. La prima riprende il tema caro all’artista della Genesi e della trasmutazione, entrambe correlate alla vita e in particolare a quel bisogno che abbiamo come persone di riscoprire noi stessi grazie alla riflessione su ogni fattore che ci circonda da vicino e da più lontano nell’universo: riscoprire la nostra spiritualità grazie all’arte. Non bisogna pensare che queste opere appartengano solo all’artista, ma diventano anche parte di noi stessi, stanno dentro tutti noi se 43


ci poniamo davanti ad esse con la responsabilità e la voglia di cercare risposte capendo il rapporto tra la trasmutazione e la nostra vita. Una parte significativa delle sua produzione artistica è chiamata a sfidare l’Agorà del sito archeologico, la più grande del Mediterraneo, il Teatro e il Tempio Dorico di Segesta, luoghi di culto e di adorazione dall’intatto fascino, creando un ideale ponte tra passato e contemporaneo. Deredia presenta l’opera Armonia realizzata in marmo bianco di Carrara e ultimata per l’occasione: posizionata all’ingresso del parco archeologico, attende il visitatore all’inizio del percorso espositivo. Davanti al teatro sono state collocate, come due guardiani pacifici, le opere Pareja e Ricordo profondo, di lato trova spazio Si mismo, una figura giocosa che si guarda allo specchio e ci rimanda al tema di Narciso. Nel Teatro è stata scelta la tematica della musica e l’artista ha posizionato l’opera Flautista, che trova spazio nella parte dell’orchestra. Il suono del paesaggio è la composizione che lei sta eseguendo. Deredia ha usato le seguenti parole: «Chi sente in profondità
è capace di guardare lontano» e ancora: «Il silenzio che emerge da un’opera d’arte
si chiama sinfonia», frasi che ben si sposano con la visione che ci troviamo davanti appena arriviamo al teatro. I simboli fanno parte della nostra vita, dei nostri gesti più comuni, del nostro linguaggio, dei nostri sogni, delle nostre azioni e consapevolmente o no, ognuno di noi ricorre all’uso dei simboli. Generalmente possiedono svariati significati: psicologico, morale, religioso, sintattico, semantico, metaforico etc. oppure possono essere ambivalenti nel loro significato più recondito. È pertanto difficile tradurre l’ambivalenza di un simbolo in descrizioni coerenti. In ogni simbolo è contenuta una fonte inesauribile di conoscenza e di ricerca; la scoperta del mondo dei simboli apre un campo alla riflessione e alla meditazione. Permette a colui che vuole approfondire queste immagini di liberarsi della materia e del tempo, di trascendere il senso convenzionale delle cose, di passare dal tangibile all’inaccessibile, di aprirsi all’ignoto e all’infinito, di elevarsi verso un altro tipo di conoscenza e di trarre profitto dall’esperienza di miliardi di uomini che ci hanno preceduto. In altri termini, la comprensione del simbolo permette alla nostra mente di accedere alla “biblioteca universale” del genere umano. Il simbolo veicola i messaggi codificati nel tempo che la semplice ragione non saprebbe spiegare. Infine, cosa più importante, bisogna essere ben disposti, disponibili, ossia “permeabili” alle associazioni mentali che i simboli ci suggeriscono. La capacità segnica è dappertutto, nelle cose, tra gli animali, mentre quella simbolica è peculiare dell’uomo. Il ricorrere a simboli altro non è che estendere la capacità di una strumentazione extra-organica alla dimensione ideale: le idee degli animali sono gestite dal corpo, dall’apparato sensoriale, e affidate a una memoria organica, con tutti i limiti che ne conseguono. L’uomo, invece, dispone di un sistema di memorizzazione esterno, oggettivo, il che gli consente un’elevata capacità di stoccaggio delle varie nozioni. Con ciò ritroviamo due tra le nozioni 44


che usualmente vengono invocate per definire la cultura dell’uomo: la memorizzazione e la simbolizzazione. Si tratta del resto di due nozioni che vanno assieme e che forse ne costituiscono una sola, se almeno ci si affretta a parlare, come pare opportuno, di una memoria esterna, affidata a sistemi materiali di simboli. Viene in aiuto, a proposito del paragone tra la scultura di Deredia e il mondo della simbologia, la celebre nozione di Erwin Panofsky di “forma simbolica” avanzata nei confronti della prospettiva sottolineando come lo spazio rinascimentale era una costruzione culturale, frutto congiunto di interventi di matematica, astronomia, filosofia, arte; e che a sua volta la forma offerta da pittori e architetti di quella concezione teorica, non era l’immagine in senso rappresentativo, ma il simbolo, cioè in sostanza un’invenzione, una proposta autonoma, una estrinsecazione sensibile. Deredia, infatti, sfonda la barriera visiva della forma, non si ferma a livello epidermico e spinge all’interno verso la dimensione noetica della scultura. Esistono nella sua ricerca e in particolare nella sua produzione, tre livelli differenti di approccio al fare: la dimensione ideale, di “pensiero” che passa subito a quella progettuale che a sua volta sfocia nella cultura propriamente materiale, e riguarda la sfera delle “fughe in avanti”, il momento in cui l’uomo pensa alle possibilità future e si chiede che cosa accadrebbe se usasse strumenti o pratiche mutate rispetto a quelle di cui si serve oggi. Cultura ideale e materiale insieme nell’opera di Deredia, secondo il quale uno scultore deve pensare come filosofo, progettare come un architetto e lavorare come un muratore.

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Jiménez Deredia Trapani/Segesta Piazza del Mercato del Pesce

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B

B CENTRO STORICO DI TRAPANI

4 Corso Vittorio Emanuele

Primo Piano

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A 1

Ingresso

2 A AEROPORTO TRAPANI - BIRGI

................................................................................................................................................................................................................................................. A | AEROPORTO TRAPANI - BIRGI B | CENTRO STORICO DI TRAPANI

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INGRESSO Ricordo profondo, bronzo nero 170 x 220 x150 cm Sentinella, bronzo 120 x 140 x 120 cm

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PRIMO PIANO Genesi Evolución, bronzo 64 x 235 x 35 cm

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CORSO VITTORIO EMANUELE 4

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Genesi dell’uovo, bronzo 130 x 600 x 120 cm PIAZZA DEL MERCATO DEL PESCE Autoritratto, bronzo 270 x 470 x 230 cm


Z IAOLN CUR LTAUER P AIE II R AIISRSAESGSNEAGINNAT EI NRTNEARZNI OAN E ADLIESD CIUSLT T TPUI TRTAUIR NASIIN C ISLIIC AI L I A T EAT RN I OL NEAXLHE B INT IO OFN SOCFUSLC LP N DI NPA II I NIIT EI N RN I OAT NA I BXIH TIO PU TU RTEUARNEDAPA T I INNGT IIN NGS I N C IS LYI C I LY l i aS ni m o oS ni m A r t DAi rr te Dc it roer cMt oa rs M s i amsi sl i amni o i oni

Teatro Teatro

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Tempio Tempio Dorico Dorico di Segesta di Segesta

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Ingresso Ingresso Parco Parco

C PARCO ARCHEOLOGICO DI SEGESTA C PARCO ARCHEOLOGICO DI SEGESTA

.................................................................................................................................................................................................................. ......................................................................................................................................................................................................... C | PARCO ARCHEOLOGICO DI SEGESTA C | PARCO ARCHEOLOGICO DI SEGESTA

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INGRESSO PARCO INGRESSO PARCO 6 Armonia, marmo 90 x 220 100 cm Armonia, marmo biancobianco 90 x 220 100 xcm TEATRO TEATRO 7 Flautista, bronzo 70cm x 70 cm Flautista, bronzo 220 x 220 70 x x70

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TEMPIO DORICO TEMPIO DORICO 8 Si mismo, bronzo 120 cm Si mismo, bronzo 100 x 100 190 x 190 120 xcm 9 Ricordo profondo, bronzo 170 150 cm Ricordo profondo, bronzo 170 x 220 x 220 150 xcm 10 Pareja, bronzo 180 x 345 x 160 cm Pareja, bronzo 180 x 345 160 cm

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AEROPORTO VINCENZO FLORIO TRAPANI IL SIMBOLISMO TRASMUTATIVO E LA SFIDA DELLA FORZA ANTROPOLOGICA DELL’UTOPIA


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Genesi Evoluci贸n bronzo, 64x235x35 cm

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LA FORZA ANTROPOLOGICA DELL’UTOPIA, UNA SFIDA

La scultura quale luogo di manifestazione o visibile sintesi di un “progetto” futuribile del destino dell’uomo, un’utopia antropologica che, fondata sugli archetipi junghiani ovvero le strutture simboliche primarie della conoscenza e della comunicazione, attraversa i secoli e le culture e sancisce, in proiezione cosmica, l’imprescindibile appartenenza dell’uomo allo spirito della natura e, per estensione, al circolo in perenne divenire dell’essere universale. I nuclei generatori del simbolismo primario e della filosofia di Deredia sono state le sfere rituali in pietra rinvenute nella nativa Costa Rica. Uniche testimonianze della originaria cultura Boruca, nella loro perfezione geometrica quei sapienziali “segni” della totalità disposti sul terreno in evidente coordinazione astronomica, sono leggibili quali rappresentazioni simboliche della congiunzione e della corrispondenza tra il nucleo biologico generatore della vita e quello energetico primordiale generatore dell’universo. Il processo generatore della forma scultorea che mira a una compiutezza il cui assoluto è utopico, appunto, sottende una visione del mondo unitaria e in perenne, ciclico divenire. Deredia chiama trasmutazione tale processo relativo alla materia organica e inorganica e allo spaziotempo che con essa si trasforma. Il loro simbiotico trasmutare trova nella sfericità nucleare e plastica della scultura la sua rivelazione fisica e la sua forma simbolica, che investe la molteplice manifestazione della spiritualità, del pensiero, dell’arte dall’uomo espressi nelle diverse culture. Vocazionalmente transculturale, l’utopia antropologica di Deredia parte dalla Genesi e trova il proprio simbolico e materiale compimento nella “sfida” davvero generosa del progetto de La Ruta de la Paz. Ossia un percorso in nove stazioni e altrettante imponenti installazioni scultoree nel Continente Americano, dal Canada alla Terra del Fuoco, quali aree consacrate alla circolazione universale della spiritualità e del pensiero nella visione dell’origine, del cammino compiuto e di quello da compiere che accomuna gli uomini viaggiatori sull’astronave terra nello spazio.

Enrico Crispolti Docente di Storia dell’Arte Contemporanea e Direttore della Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte all’Università di Siena

* Da Enrico Crispolti, La forza antropologica dell’utopia, una sfida; in Deredia a Roma, a cura di Fabio Isman e Jiménez Deredia, catalogo della mostra, Mondadori Electa, Milano, 2009, pp. 22-26, 30-32.

La sfida della forza antropologica dell’utopia* A fronte di una proiezione utopica, sono quantomeno avvertibili due aspetti. Quello che è possibile indicare come una utopia ideologica, quale è stata esattamente, per esempio, quello modernista che ha sorretto l’intenzionalità innovativa progressista di buona parte delle avanguardie artistiche occidentali della prima metà del XX secolo. Vale a dire una proiezione utopica fondata su una convinzione evolutiva di progresso, dunque di temporalità trascorrente, di rettilinearità della storia, in una conseguente contrapposizione fra fattività umana e natura, in una evolutività sostanzialmente antinaturale. E quello che è possibile indicare come una utopia antropologica, consistente nel dialogo con pertinenti fondamenti archetipi, nella ricerca di nessi transtemporali: insomma di un umanesimo antropologico basico, di riscontro cosmico unitario, nell’integrazione profonda uomonatura, considerando l’uomo stesso intimamente parte della natura. Sulla scena del dibattito artistico (ma con ricadute di sollecitante alternativa visione del mondo), Deredia viene certamente a porre una sfida immaginativa di configurazione di destino attraverso la forza antropologica dell’utopia. Il fondamento del suo immaginario plastico è infatti in una dimensione di radicamento antropologico, archetipo specifico, in termini di simbologia plastica, riconosciuto originariamente nell’entità magica della stereometria assoluta delle sfere rituali precolombiane, costaricane, la cui disposizione fu verosimilmente di riscontro astronomico. Ed è proprio su tale fondamento antropologico specifico, riscattato 53


in una sua virtualità monitoria magica, che Deredia costruisce la capacità significativa della propria scultura, intenzionata a ristabilire nessi di rapporto profondo con natura e cosmo, in una temporalità non più storica ma archetipalmente metastorica. Componenti di un rapporto ambientale complesso Nell’operare progettuale plastico di Deredia, quale in misura culminante proposto nella prospezione de La Ruta de la Paz, la dimensione del riscontro ambientale è divenuta fondamentalmente caratterizzante almeno dalla processualità della Genesi proposta nel 1998 nel Museo de los Niños a San José de Costa Rica (quello della Genesi sequenzialmente messo a punto nella sua scultura nel 1985-86). Un dialogo che si stabilisce esattamente in una duplicità di componenti di rapporto ambientale, consistendo queste infatti sia in un rapporto ambientale di riscontro antropologico, sia in un rapporto ambientale spaziale d’impianto topologico. Un rapporto ambientale di riscontro antropologico, che si realizza nel preliminare dialogo immaginativo dal quale sono nati i singoli nove progetti. Vale a dire la ricerca programmatica di un rapporto progettuale con una specificità di immaginario e di connesse ritualità di fondamento culturale ambientale relativamente al patrimonio antropologico di ciascuno dei nove luoghi de La Ruta. Un rapporto progettuale la cui intenzionalità è di un esito di capacità suggestiva emotiva chiaramente di carattere memoriale monitorio, che peraltro ne La Ruta evidentemente si realizza in ogni singolo suo “luogo” quanto nel nesso ideale che progettuale che riconnette i nove “luoghi” in un unico disegno appunto di sfida utopica. E un rapporto ambientale spaziale d’impianto topologico, che si realizza nell’intenzionalità d’organizzazione spaziale di ciascun complesso plastico-architettonico che costituisce una tappa dell’itinerario transcontinentale, un “luogo” dei nove attraverso i quali appunto si snoda La Ruta de la Paz. Esattamente proponendo in ciascuno un dialogo fra scultura e organizzazione architettonica strutturale dello spazio ove, entro e attraverso il quale ogni singolo complesso, nella sua particolarità progettuale inerente il dialogo antropologico, si dispone. Un rapporto ambientale che comporta l’istituzione di una architettonicità complessiva dello spazio di ciascun “luogo”, che costituisce e qualifica la presenza di ogni complesso in un senso di stretta simbiosi collaborativa architettonico-plastica. Ma ove di fatto non è tanto l’entità architettonica a proporsi in termini di virtualità plastica, o comunque anche plastica (come, per intenderci, va facendo tanta architettura recente, sulla scia di esempi quali quelli proposti, per esempio, da Gehry, in cerca di una espressività più o meno perduta o rimossa, ormai fino a un’evidente e deprecata saturazione). Quanto è la scultura capace di farsi di per sé anche architettura, cioè di aprire e ordinare spazio, spazio percorribile, vivibile, emotivamente implicante, in una funzionalità ambientale preminentemente 54


memoriale archetipica. Scultura che infatti crea con propri mezzi una condizione ambientale, di spazio segnatamente plastico organizzato, percorribile, secondo possibili diverse funzionalità pubbliche. Come a metà degli anni Cinquanta del XX secolo ha capito Mathias Goeritz nella famosa Piazza delle Cinque Torri di Città del Messico, erette nel 1957-58 in un ambito urbanistico di nuovo insediamento, gestito da Luis Barragan. Come negli Ottanta-Novanta ha operato Itto Kuetani nel Colle della Speranza eretto a Setola-cho, nella prefettura di Hiroshima, 19841998. Come nei Duemila ha operato plasticamente l’architetto nordamericano Peter Eisenman a Berlino, rielaborando nel Memorial per l’Olocausto, inaugurato nel 2005, un progetto formulato collaborando con Richard Serra. Figurare la processualità della “Genesi” come “trasmutación” L’intenzionalità progettuale plastica che caratterizza l’operare di Deredia non passa né per una mera rappresentatività narrativa, né altrimenti per una deliberata astrazione, ma si realizza nella manifestazione (che è rivelazione) di una processualità di configurazione il cui divenire corre dall’astrazione embrionale all’affacciarsi simbolizzato del riferimento alla figura umana (volto in particolare ed eventuale accenno di corporeità), snodandosi in tutta libertà di una dinamica valenza plastica simbolica fortemente espressiva ed archetipalmente evocativa. Ed è negli anni Settanta che la sua scultura si qualifica in termini di assunzione dialettica di radici di una figurazione simbolica fortemente espressiva, intenzionata dunque a rappresentare non l’esteriorità, ma a presentare simbolicamente l’essenza. Mentre è appunto da metà degli Ottanta che nella sua scultura, ancora in dimensione “da camera”, e dalla fine dei Novanta invece nelle sue proposizioni di scultura ambientale, subentra appunto un’intenzione di configurare progettualmente le tappe evolutive di una processualità di una rivelatoria “genesi”. Un’iconicità dell’essenza, quella alla quale mira dunque il fare plastico di Deredia. Non tuttavia intesa come eventualità d’iconostasi, cioè in termini di astantica staticità iconica simbolica, ma come simbolicità inerente la quasi sacrale patentificazione immaginativa dinamica di quel processo di evocazione di una comune origine genetica archetipica. E ciò nella consapevolezza d’una circolazione di destino ultimativo che ci riguarda (veniamo dalle stelle, polvere di stelle, e dunque siamo implicati in una circolazione cosmica, alla quale occorre riconnettersi come ad una più autentica propria dimensione). È una patentificazione dinamica, che si manifesta esattamente in termini di transmutación, quale evidenza processuale intrinsecamente trasmutativa dell’immagine (e cosa) plastica, da una condizione di astrazione simbolica archetipa (embrionalmente geometrica, in ascendenza cosmica appunto di sfera), a una evidenza essenzialmente simbolica di caratterizzazione umana, nella traiettoria di conformazione plastica che reiteratamente Deredia propone. Esattamente appunto dalla forma stereometrica archetipa; come nelle esemplari sfere rituali “borucas”, costruite e collocate 55


in intenzione di riferimento cosmico nella loro disposizione topografica: corpi stellari, materia prima che non luce, polvere di stelle a livello genetico. Per Deredia, l’entità della scultura non è insomma iconico-oggettuale, non è statica, ma intrinsecamente dinamica, articolata, appunto perché intimamente processuale, rivelando analogicamente – quasi evocato in atto, come in una successione di quadri d’un complesso affresco medioevale – appunto stati del compiersi della transmutación. Perciò Pierre Restany ha potuto parlare per la sua scultura non di proposte di oggetti plastici ma di “itinerari spirituali”, la sua scultura costituendosi di volta in volta, attraverso tale intrinseco dinamismo, come un “oggetto di meditazione”. Ed è in questi termini infatti che la scultura di Deredia si costituisce originalmente in immagine plastica (cioè fisicamente imponente) in una valenza dunque sostanzialmente di evidenza simbolica (anche quando più esplicitamente si manifesti in valenza di riferimento figurativo). E semplicità e politezza della forma, dall’embrionalità organica all’enunciarsi in figura umana, vi suggeriscono una dimensione, trasmutativa, di “tempo mistico”, simbolicamente espletato quale miracolo dell’esistenza nella “trasmutazione” appunto dalla forma astratta, embrionalmente originaria, alla forma vitale, paradigmatica di vissuto. Osservava sempre Restany che gli occhi delle sue figure non guardano lo spettatore ma all’interno delle medesime, se mai inghiottendovi lo sguardo dello spettatore.(...) (...) L’esemplarità processuale della “trasmutazione” genetica Quella che Deredia ricerca e propone con la propria scultura non è una metamorfosi della forma pura, ma la celebrazione appunto d’una simbolica della trasmutazione genetica, nel senso d’una risposta ontologica mistica, rifondando una possibilità di partecipare del destino dell’universo, in una profonda riconnessione cosmica, attraverso la natura. Questa appunto la sua sfida utopica, la cui forza risiede in un patrimonio antropologico specifico originalmente riattinto. La trasmutazione, da sfera a donna, è divenire continuo, e attraverso la trasmutazione lo scultore si dà la possibilità di rappresentare la genesi vitale nel modo più diretto. Per Deredia, l’evidenza dell’archetipo offre sia l’avvio, appunto lo start, sia tuttavia anche il traguardo del processo trasmutativo: dalla sfera come principio archetipico di riscontro simbologico cosmico all’emergenza di figura umana in quanto figurazione simbolica archetipica della realizzazione, appunto trasmutativa, del processo generativo, della vita. Un’evidenza d’archetipo inscindibile da una implicazione processuale, sia come premessa sia come conclusione. Diversamente, per esempio, dal ricorso archetipo in quanto icona di suggestione mitico-magica, come la praticava, per citarne uno, un Roca Rey, peruviano-romano. Sostanziale, d’altra parte, la differenza dinamica dell’archetipo al quale Deredia si riferisce, che è appunto intrinsecamente processuale, diacronico rispetto alla staticità iconico-strutturale (e di tempo di manifestazione) dell’archetipo junghia56


no. Al quale ultimo si deve una sollecitazione di riferimento conoscitivo di propria identità, mentre nella processualità percorsa immaginativamente da Deredia la sollecitazione è soprattutto uno sviluppo d’energia positiva, attraverso la quale si compia una trasmutazione vitale attraverso la materia connessa alla trasformazione cosmica, nel senso di una circolarità dell’universo. La trasmutazione, il cui processo di maturazione genetica dalla forma simbolica primaria, archetipa, di riscontro cosmico (la sfera), all’emergenza della figura umana, nel suo divenire risulta certamente diverso dalla metamorfosi organica che ha affascinato un ambito almeno dell’immaginario surrealista (e non solo). Giacché il processo metamorfico comporta una trasformazione in atto che tuttavia di per sé non implica un divenire temporalmente quanto spazialmente sequenziale, i cui momenti attuano appunto la trasmutazione. La metamorfosi consiste in una trasformazione in atto in sé, nel medesimo corpo o cosa, ove il tempo può appunto riconoscersi soltanto entro la trasformazione in atto di quel corpo o cosa, è temporalità endogena. Mentre la trasmutazione derediana si realizza in una cadenza temporale aperta, che si manifesta attraverso un’evidenza simbolica di momenti successivi. E dunque il processo non tanto trasforma l’entità originaria, archetipico-embrionale, quanto la dispone in una evidenza, direi, di temporalità aperta. E la istituisce a cadenza simbolica appunto di una processualità genetica di natura, universale, cosmica. Ma il processo trasmutativo che restituisce una consapevolezza di nesso cosmico, praticato da Deredia, risulta diverso dalla proiezione immaginativa “spaziale” nella quale era impegnato attivisticamente Fontana, negli anni Cinquanta-Sessanta, che – come peraltro nel caso dell’“idealismo cosmico” praticato da Prampolini negli anni Trenta – comporta il senso di un’esplorazione avventurosamente misteriosa, d’implicazione cosmogonica primordiale quanto di riscontro psichico profondo, nel presupposto d’una ideologia progressista. Mentre per Deredia la questione si pone non in termini di esplorazione misteriosamente euristica (rispondente peraltro, nell’immaginazione prampoliniana, l’infinitamente grande cosmico, con la dinamica intrinseca alla materia e all’organicità terrena) ma di riconnessione cosmica, fondata su certezze simboliche archetipe adombrate dal disegno di costellazioni celesti. In un restituito dialogo di fondamento antropologico – direi sapienziale – astrale, insomma, piuttosto che nella misteriosità di una proiezione cosmica di presunta onnipotenza scientistica. Per Deredia, la sfera è garanzia di totalità, cumulo di energia virtuale. La sfera, di esplicito riferimento archetipo indigeno “boruca”, costituisce dunque soltanto il termine iniziale d’un processo il cui divenire soltanto formula l’immagine plastica nella sua esaustiva evidenza cinetica. Imparagonabile dunque, di fatto, malgrado ogni possibile tentazione al riguardo, risulta con le corsivamente materiche “nature” di Fontana (quelli che chiamava amichevolmente “palloni”), indubbiamente di riscontro cosmico, ma materiale, fattuale e non certo simbolico. Come impa57


ragonabile risulterebbe con l’oggettualità decorativamente preziosa delle sfere di Arnaldo Pomodoro, d’integrità corrotta da una intrusione strutturale interna che ne compromette deliberatamente un’inopinata assolutezza sferica. Una sfida utopica attraverso la progettualità de La Ruta de la Paz La sfida che Deredia pone alle culture occidentali, improntante dall’ideologia del consumismo speculativo più spinto in particolare e in modo asfitticamente crescente nella seconda metà del XX secolo e oltre, è dunque quella di un ribaltamento di tali presunti valori, in nome del recupero sapienziale di simbologie delle antiche culture, originalmente riproponendole, immaginosamente riformulate, nello specifico della problematica, tipicamente di consapevolezza plastica, della scultura contemporanea. Esattamente rinnovandovi la valenza del simbolo, dunque non statico, non da iconostasi simbolica, ma dinamicamente genetico, come può darsi nella dinamica di un simbolismo trasmutativo. Entro la quale si compie una trasformazione del simbolo da concettuale a fisico, nella concretezza soprattutto petrosa della scultura. Questa posta da uno scultore latino-americano, capace, in nome di un proficuo originale dialogo con uno specifico patrimonio antropologico-culturale, è una sfida che si compie in ragione dunque della forza antropologia dell’utopia. La sfida di contrapporre all’effimero estremizzato del consumo ideologico temporale delle ideologie innaturalmente operative occidentali, peraltro oggi più che mai in crisi endogena, un recuperato profondo rapporto naturale, ed estensivamente cosmico, una sollecitazione a recuperare una dimensione di consapevolezza che la materia è trasmutazione connessa alla originaria trasformazione cosmica, è implicazione in una circolarità non prescindibile dell’universo. L’utopia della sfida si precisa appunto nell’utopia progettuale de La Ruta de la Paz, transcontinentale nelle sue nove ideali soste, piazze, momenti di riflessione, ciascuna delle quali costituendo ampissime installazioni monitorie appunto del cruciale evento, riconciliativo, della trasmutazione, implicante una specifica motivazione in rapporto a realtà etnoantropologiche di volta in volta specifiche, nel lunghissimo percorso della Ruta. In una riaffermazione di valenza, tuttora, dunque dell’insegnamento delle culture “primitive”, nella lezione soprattutto di un rapporto profondo con l’universo, nel nome appunto di un’altra aspirazione coraggiosamente utopica quale quella de la Paz. (...)

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Cristina Giammoro

DEREDIA E IL SIMBOLISMO TRASMUTATIVO

Storica d’arte, Genova

Nascita della Genesi

* Da Cristina Giammoro, Deredia e il simbolismo trasmutativo, prefazione di Enrico Crispolti, Edizioni Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2009, pp. 43-46, 48-49, 73-77, 89.

(...) Con il recupero dell’elemento sferico, Deredia conferma la personale visione di un’arte fondata sulla memoria: in primo luogo la propria, popolata da ricordi legati al luogo di origine, e poi, una memoria più lontana, più profonda, una memoria che lui stesso ricerca e trova all’interno della sfera. Dopo aver fatto proprio un linguaggio che decodifica la realtà attraverso la sua rappresentazione simbolica, l’artista individua nella sfera il simbolo per eccellenza, facendo confluire in essa, l’insieme di un infinito numero di simboli, identificando l’oggetto in grado di contenere tutte le realtà possibili e la memoria di ogni cosa. Deredia prosegue oltre e racconta, con la sua opera scultorea, che l’elemento sferico trasmuta, si apre e si ingrandisce fino ad assumere l’aspetto di una donna o, più precisamente la forma che indica la rappresentazione simbolica della donna. Seguendo quindi i passaggi della Genesi, si comprende il messaggio dell’artista: la sfera, elevata a simbolo delle infinite realtà, trasformandosi in essere umano, trasferisce in esso la propria memoria, e l’essere umano è la donna che genera vita a sua volta, riattivando un ciclo eterno. Analizzando l’origine etimologica del termine simbolo, si apprende che deriva dal greco sýmbolon, contrassegno, segno di riconoscimento, connesso a sua volta al verbo sýmballein (sýn = insieme, e bállein = mettere, porre). Nell’antica Grecia, quando due amici o due conoscenti si separavano, spezzavano una moneta, una tavoletta di terracotta o un anello, un oggetto che rappresentasse l’unità. Al momento della riunificazione, bisognava ricongiungere le parti in modo da rimettere insieme, sýmballein appunto, l’oggetto in questione1. L’etimologia ci consente di comprendere che il simbolo non è un intero, ma due parti divise e combacianti. Nel Simposio, Platone racconta che l’essere umano era all’origine costituito dal maschio e dalla femmina, uniti insieme in una primitiva forma sferica (a somiglianza degli astri: il sole per il maschio, la terra per la femmina, e la luna, la rappresentazione della loro unione). Per limitare la forza e la turbolenza di questo essere perfetto, Zeus lo divise a metà, separando i due sessi. Indicando l’attuale condizione dell’uomo e della donna, Platone prosegue scrivendo “ekaston emon estin anthropou sýmbolon”2, che letteralmente significa “ciascuno di noi è simbolo di un uomo”. L’uomo, ridotto quindi a sýmbolon di se stesso, aspira a ricongiungersi con la parte a lui corrispondente, con l’altra metà in grado di ricondurlo alla completezza della forma circolare, attraverso l’atto della procreazione, che va a ristabilire l’originaria identità, caratterizzata dall’unione degli opposti. La sfera derediana è il simbolo di quel ricongiungimento, poiché rappresenta l’equilibrio ripristinato dall’unione dei contrari, e quegli elementi opposti, considerati essi stessi dei simboli, fanno della sfera il “simbolo dei simboli”. Il Simbolismo di Deredia, che trova nella sfera la forma emblematica, non si chiude e non si conclude in essa: la sua essenza è viva, l’attrazione dei contrari di 1 2

Friedrich Creuzer, Simbolica e mitologia, trad. it. a cura di G. Moretti, Editori Riuniti, Roma 2004. Platone, Simposio [191d], a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1979.

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cui è composta sviluppa energia, e questa energia è la spinta propulsiva verso la trasformazione ed il rinnovamento che passano attraverso il tempo e lo spazio. È in quel momento che il Simbolismo diviene Trasmutativo ed è raccontato dall’artista per mezzo della Genesi. Ed è ancora lo studio dell’architettura ad influenzare la scultura, laddove essa va a riflettere le indicazioni di Leon Battista Alberti riguardo alla disposizione ideale sia delle singole parti di un edificio, sia dell’edificio stesso nel proprio contesto naturale ed artificiale. Le sculture della Genesi, materia tangibile che occupa spazi concreti, associate in un unico blocco, danno vita così ad uno spazio virtuale nel quale ogni elemento appare collocato nell’unica posizione possibile, allo scopo di ricreare un complesso perfetto di parti che dialogano tra loro amplificando il valore e l’effetto dell’insieme. Con la Genesi, Deredia elabora quindi la propria idea di spazio ideale, come somma tra ciò che definisce spazio concreto e spazio virtuale, innescando un pensiero che lo aiuta a comprendere e decodificare, dopo il concetto di spazio, quello di tempo: se infatti lo spazio concreto è occupato da materia palpabile e se la materia muta nello spazio, ciò avviene necessariamente attraverso il tempo. Anche in questo caso, l’artista spiega per mezzo della Genesi, la visione di un tempo assoluto, che suddivide in concreto e mistico: il tempo concreto viene così a coincidere con gli elementi della Genesi, con la materia visibile, mentre il tempo mistico è il tempo della trasmutazione, un periodo indefinito ed incalcolabile, che trascorre e muta la materia da una forma ad un’altra. L’opera di Deredia diviene manifestazione dell’universale nel particolare, fondata sullo studio dei processi di una natura che racchiude in sé ogni cosa, comprese le forme perfettamente geometriche, e nuovamente è l’Alberti a sostenere la forza di un pensiero che si va formando nella mente dell’artista: «Che in natura prevalga la forma circolare, è manifesto da tutto ciò che nell’universo dura, si genera o si trasforma. Inutile rammentare il globo terracqueo, le stelle, gli alberi, gli animali e i loro covi, etc., tutte cose che la natura ha fatto tondeggianti»3. (...) La Genesi diviene la massima espressione del Simbolismo Trasmutativo: la sfera, come si è visto, va a determinare il simbolo, mentre il tempo e lo spazio ne stabiliscono la trasmutazione. L’insieme degli elementi che caratterizzano l’opera derediana, attraverso la trasmutazione della sfera che muta la propria forma, richiamano l’idea di un processo nel quale la materia di cui è composto l’universo riesce a trasmettere l’energia che ne ha determinato la creazione. La spinta propulsiva, generata dalla deflagrazione primordiale, secondo la teoria del Big Bang, ha dato vita allo sviluppo della materia e, di conseguenza, allo spazio e al tempo. La materia scopita e modellata attraverso la scultura, possiede, per Deredia, un’origine comune con la materia di cui è fatto l’uomo, con la materia di cui è composto l’universo che trasmuta perché è spinto dalla stessa energia che l’ha Leon Battista Alberti, De re aedificatoria - L’architettura, Firenze 1485. Trad. in: Gorlandi, P. Portoghesi, De re aedificatoria, Milano 1966 cit., VII, IV, pp. 548-551. La forma sferica raccolse i maggiori favori in epoca rinascimentale, seguita dal quadrato come espressione stessa del cerchio (la quadratura del cerchio). Il primo riferimento alla tradizione spetta a Platone, secondo il quale nella creazione del mondo il demiurgo impiega i quattro elementi in giusta proporzione, e conferisce al vivente la forma sferica. 3

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generato. La Genesi racconta anche questo: che l’uomo e l’universo possiedono un’origine comune; che ogni cosa si trasforma, mossa dalla medesima energia, dalla medesima forza e che, secondo le parole di Deredia: «Siamo polvere di stelle, perché è da lì che veniamo e siamo partecipi di tutto quanto ci circonda». (...) Genesi (...) La reinterpretazione delle sfere boruca, passa attraverso differenti gradi di comprensione che comportano l’analisi di ogni singolo elemento caratterizzante l’oggetto. Questa analisi non avviene con il sezionamento del manufatto ma, nel percepirlo come una pergamena, l’artista lo dispiega e ne osserva il contenuto. Ciò che apprende da quella “lettura” viene trasferito nell’opera scultorea, nella Genesi, che diviene il racconto di una vera e propria storia fatta di immagini tutt’altro che statiche, poiché nate dal movimento, e da questo sviluppate. Il simbolo sferico della Genesi derediana porta al suo interno, come si è detto, elementi contrapposti che, generando energia, producono movimento; Deredia lo coglie e lo fa proseguire oltre la sfera, al di fuori di essa, scolpendo forme che trasmutano attraverso un tempo che lui stesso chiama mistico, per concludersi in un tempo concreto e da lì ripartire, nella descrizione di un tempo assoluto che trova nella ciclicità la propria struttura. La concezione del tempo ciclico, che lo scultore costaricano fa coincidere con i fenomeni di crescita, sviluppo e vita nella sua più vasta accezione, risente inevitabilmente dell’antica concezione mesoamericana del tempo, basti pensare al cosiddetto “Calendario Rotondo” del popolo Maya, che ogni 52 anni ricomincia il proprio corso, da capo, con giorni che hanno lo stesso nome di 52 anni prima, o al Conto Lungo, un calendario che ha cominciato a scorrere il giorno della creazione del mondo4. Il tempo della trasmutazione nella Genesi si snoda poi attraverso lo spazio scultoreo che Deredia ottiene sommando allo spazio concreto, occupato dalla materia, lo spazio virtuale della perfetta disposizione delle parti dell’opera, nel contesto scultoreo. Ma lo spazio o, più precisamente, gli spazi della Genesi, vengono creati dalla sistemazione sul piano orizzontale, e verticale, nel caso dell’Immagine Cosmica, del simbolo trasmutativo che, nel rievocare le origini della materia, colloca la realtà del mondo conosciuto, in un universo più ampio, includendo il cosmo e forse, alla fine, mondi da intuire ed immaginare. Tutto questo avviene per mezzo dello spazio trasmutativo che Deredia, come accade per la concezione del tempo, nuovamente percepisce nella cultura della propria terra, e reinterpreta. Unitamente alla sfera, propone come una costante sine qua non, la rappresentazione della donna, descritta attraverso l’utilizzo di volumi sferici, linee abNel Popol Vuh, la raccolta di leggende e storie dei Maya Quiché, l’evento è così descritto: «Soltanto il cielo da solo, è lì; la faccia della terra non è limpida. Soltanto il mare da solo è riunito sotto il cielo; non c’è niente, assolutamente niente che sia incorporato. Tutto è in quiete, non vi è una sola cosa che si muova. Tutto è immobile, fermo sotto il cielo… solo mormorii, increspature, nell’oscurità della notte… Poi [gli dei] si misero d’accordo, unirono le loro parole, i loro pensieri. Poi fu chiaro, essi raggiunsero l’accordo nella luce e poi l’umanità fu chiara, quando concepirono la crescita, lo sviluppo degli alberi, dei cespugli e la crescita della vita, dell’umanità» in Popol Vuh, a cura di Dennis Tedlock; edizione italiana a cura di Laura Lepore, traduzione di Carmen Dell’Aversano, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1998, pp. 64-65.

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bondanti che portano immediatamente ad associare la figura femminile alla sfera stessa. Ed è proprio questa una delle chiavi per riuscire a comprendere la Genesi: laddove la sfera viene interpretata come seme, primo stadio della creazione e le fasi intermedie come momenti di crescita e sviluppo della materia attraverso il tempo, la donna ne rappresenta il risultato, la forma compiuta e perfetta, l’essere in grado di creare a sua volta vita da vita, in un ciclo infinito. (...) La Ruta de la Paz (...) La trasmutazione del simbolo, il tempo e lo spazio sono gli elementi di base sopra i quali Deredia sedimenta il principio costitutivo della Genesi e dell’Immagine Cosmica; ma cosa accade quando queste opere, costruite come segni di legami universali tra l’uomo e il cosmo, vengono inserite in ampi spazi scultorei? Cosa accade se all’interno di questi spazi, disposti in nove paesi diversi, vengono reinterpretati antichi linguaggi simbolici e rappresentate le forme delle principali costellazioni? Per rispondere a queste domande, è necessario risalire ad un incontro che offre a Deredia l’opportunità di ottenere una più ampia visione del proprio lavoro di scultore: l’amicizia con Pierre Restany, con il quale Deredia si confronta in più occasioni dal 2000 al 2003, anno dell’improvvisa scomparsa del critico e storico dell’arte francese. In un breve passo di Plenitud Bajo el Cielo5, nel capitolo dal titolo “Dove si tratta dell’apocatastasi junghiana”, Restany parla della ricerca di verità universali, risposte ontologiche che l’artista decodifica attraverso «(…) la constatazione, o la rivelazione di analogie referenziali tra miti nati da civiltà diverse (…)», ed aggiunge «Questa decodificazione conduce l’artista, capace di assumere la piena consapevolezza intuitiva, all’utopia antropologica sotto tutte le forme. (…) In Jiménez Deredia è la scoperta delle sfere precolombiane boruca che apre la strada ad una apocatastasi6 specifica dell’essere capace di arrivare alla coscienza luminosa dell’armonia dell’uomo e del mondo (…)». Le verità universali di cui parla Restany, e la loro decodificazione sono la spinta incontenibile verso un progetto, che porta Deredia a viaggiare attraverso l’intero continente americano, dal nord al sud America, alla ricerca di quelle analogie referenziali tra miti nati da civiltà diverse o, come direbbe Deredia stesso: «(...) alla ricerca di simboli comuni e ripetuti in modo ricorrente da civiltà differenti e distanti tra loro». Il frutto di queste ricerche è contenuto oggi nel progetto La Ruta de la Paz, un insieme di nove piazze, spazi scultorei progettati per essere costruiti in nove paesi del continente americano, luoghi in grado di riflettere l’efficacia di antichi simboli, depositari di quelle stesse verità universali che Deredia, attraverso l’interpretazione della sfera boruca, riconosce nelle altre civiltà. (...) Pierre Restany, Plenitud Bajo el Cielo. Jiménez Deredia e la sua leggenda, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2001, pp. 94-95. Pierre Restany avanza un paragone tra Jung, Yves Klein e Deredia per quanto riguarda il concetto di apocatastasi, intesa come rigenerazione ottenuta attraverso il giusto impiego dell’energia cosmica e scrive che la decodificazione di verità universali «[…]nella visione di Jung è l’apocatastasi degli alchimisti cristiani, la salvezza del mondo attraverso il giusto impiego di energia. Era fatale in Yves Klein che la rivoluzione blu sfociasse nell’architettura dell’aria e del ritorno allo stato di natura in un eden tecnico». Pierre Restany, Plenitud Bajo el Cielo, ibidem.

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Ricordo profondo bronzo nero, 170×220×150 cm

… dove c’è materia c’è tempo. Noi siamo materia soggetta al fluire del tempo, polvere di stelle che si trasmuta Jiménez Deredia

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Sentinella bronzo, 120x140x120 cm

Chi impara ad ascoltare il silenzio, impara ad ascoltare il suono piĂš profondo JimĂŠnez Deredia

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TRAPANI E LA GENESI DEREDIANA


Genesi dell’uovo bronzo, 130×600×120 cm

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(...) Molti uomini hanno affidato alla filosofia, alla matematica, alla poesia ed alla letteratura la manifestazione del loro pensiero. Jorge Jiménez Deredia lo fa attraverso la scultura. La più fisica delle arti diventa metafisica; in Deredia, la trasformazione del marmo e del bronzo è metafora del processo senza tempo di trasmutazione del Cosmo: materia che prende forma, vuoto che si riempie, ombra che diventa luce, “pensiero scritto nella scultura.” (...) Geppe Inserra

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LA GENESI DEREDIANA Nella Genesi – “monumento alla vita”, la chiamava Pierre Restany – Deredia compie la sintesi simbolica e visiva del principio generatore e trasmutatore universale. Principio che egli identifica e fissa nel luogo plastico-formale della scultura, la quale si espande e si involve nello spazio da essa stessa incluso, essendone parte costitutiva, animata da un impulso vitale proveniente dal profondo. L’entità plastico-volumetrica della scultura si fa poi luogo figurale antropomorfo, segnatamente incontrato nella manifestazione corporale della donna feconda, e generatrice appunto. A un tempo grembo della terra e seno del cielo, la donna: concreta matrice (madre) della vita, dunque segno totalizzante e metafora di ogni processo generatore e trasmutatore che si compia nel creato e rechi come una memoria ancestrale, un segreto e imprescindibile codice genetico, l’impulso che lo rinnova nell’eterno ritorno dello spazio-tempo: dalla cellula all’organismo complesso, dal seme al frutto, dal nucleo di energia deflagrata nel Big-Bang che ha originato l’universo in espansione, agli infiniti agglomerati di stelle e pianeti e molecole molteplici di materia che lo compongono e insieme pulsano e si muovono e si trasformano, e nel loro ruotare consuonano come in un concerto di “sfere” armoniche. La Genesi è il ponte tra la cellula e il seme della vita e la più remota scaturigine dell’universo, dunque immagine e simbolo del divenire ciclico dell’essere, cui appartiene l’uomo che in una sua poetica immagine Deredia chiama “polvere di stelle”.

Geppe Inserra

La Genesi

Giornalista e filosofo

(...) So che gli artisti generalmente non gradiscono suggerire approcci e letture per le loro opere. Ma ti prego di fare un’eccezione per “la Genesi”. Che approccio suggerisci agli spettatori che per la prima volta guardano la tua opera? La prima cosa che ho notato nella gente che guarda la Genesi è che scatta tra lo spettatore e l’opera un rapporto, per così dire, intuitivo. Forse chi guarda non coglie subito l’intera simbologia dell’opera, i sincretismi che si incontrano nelle forme sferiche e circolari, e come questi sincretismi intendano dare il senso dell’armonia del mondo. Però partendo dalla intuizione primaria, che è la trasmutazione, l’universo che si espande, l’immagine della materia che si trasforma, il ventre materno, la figura raccolta, è poi possibile fare una indagine più dettagliata di tutte le trasmutazioni che ho cercato di rappresentare nella Genesi: la lavorazione delle testure, la rappresentazione delle forme, lo svolgersi della trasformazione dalla sfera alla figura umana, tutti i passaggi intendono essere rappresentazioni concrete delle immagini attive che abbiamo dentro. La grande ambizione della Genesi è di descrivere il processo cosmico dal quale veniamo e del quale abbiamo traccia dentro di noi; trasformare in simboli concreti tutto quello che di intuitivo noi abbiamo già dentro: immagini attive che diventano simboli.

* Da Genesi ponte di luce. Geppe Inserra intervista Jiménez Deredia, testi di Geppe Inserra, Mariano Loiacono, Maria Amoretti Hurtado, Pierre Restany, Bandecchi & Vivaldi Editore, Pontedera, 2004, pp. 57-60.

Il seme che si trasforma Ricordo con commozione quando, mentre stavo realizzando la Genesi, i contadini che passavano davanti a casa mia per andare a lavorare nei campi, si fermavano davanti all’opera e mi dicevano: “... Ma è come il seme che si trasforma e produce la vita”. Lo dicevano con semplicità, ma nello stesso tempo con profondità: perché erano in rapporto intenso non con un concetto, ma con un’immagine. 93


Sapevano che quella rappresentazione non era una metafora. Che il seme che produce la vita è immagine di un percorso esistenziale che loro avevano già fatto: dall’incontro dello spermatozoo con l’ovulo, avevano vissuto per nove mesi nel ventre materno, e da questo processo era sbocciata la vita, che li aveva portati ad essere ciò che erano in quel momento. L’arte è sempre, in qualche modo, astrazione e concettualizzazione. Un’opera racchiude sempre in se stessa significati che possono essere colti quando anche lo spettatore percorre lo stesso itinerario di astrazione e di concettualizzazione compiuto dall’artista. Ma l’esempio del contadino dimostra che non è sempre così, cioè non è solo così. Il contadino può provare di fronte all’opera d’arte un’emozione profonda allo stesso modo di un intellettuale. La grande presunzione di un artista è di servire come ponte tra le immagini attive e la loro rappresentazione simbolica e concettuale. Un pensiero scritto nella scultura La Genesi non è soltanto una scultura, è un pensiero che è scritto in quella scultura. La mia speranza è che chi la guardi vi trovi un riferimento spirituale, che essa serva a rapportarsi meglio con la propria interiorità. Se un ragazzo si avvicina a quest’opera e riesce a capire i suoi richiami simbolici, la trasmutazione, riesce anche a capire che rapporto c’è tra quella trasmutazione e la sua vita, a guardare il tramonto, il sole, la luna con occhi diversi, a stabilire un rapporto con tutti i valori ed i processi di immaginazione attiva che vivono dentro di noi. Se almeno una persona, un giovane riuscisse ad azionare una dinamica così, per me credo sia valsa la pena fare l’opera. Rispetto ad ogni altra opera, la Genesi offre la possibilità di entrare nella propria spiritualità, perché l’arte ha questa funzione. Quando leggiamo una poesia come “L’Infinito” di Leopardi, leggiamo qualcosa che non appartiene solo all’Autore, ma sta già dentro tutti noi. Questo è il senso della poesia, dell’arte: guardare in profondità, al di là di tutte le cose, guardare dentro di noi ed immergerci in questo mare, in questo profondo mare.(...)

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Pierre Restany

LA SFERA EMBLEMA DELL’ESSERE AL DI LÀ DEL NULLA*

Critico e Storico d’Arte

Concepito a partire dal principio cosmico della sfera, l’allineamento delle forme della Genesi sbocca nella pienezza della figura umana. La scultura Genesi di Jiménez Deredia – che illustra il processo permanente della transustanziazione, nel corso del quale l’essere trova la sua identità nella dinamica universale del processo stesso –, è un richiamo all’ordine, senza ambiguità né compromessi. Jiménez Deredia è venuto dalla Costa Rica per svelarci l’evidenza di questo fenomeno: l’inesorabile passaggio dal simbolo cosmico in una figura umana. La lettura di questo monumento alla vita è una risposta al problema che l’essere si pone in rapporto alla sua esistenza. È un problema fondamentale per la giustificazione esistenziale dell’essere, ed è una risposta ottimista alla grande tentazione al vuoto che angustia la nostra società moribonda. L’estrema attualità di questa metafora è tanto più affascinante in quanto si riferisce alla cultura di un’etnia fino a qui dimenticata e che era specifica della Costa Rica precolombiana. Mentre le etnie dominanti praticavano la crudeltà sanguinosa di un politeismo votato all’immagine della potenza delle forze naturali, i Borucas riprendevano il problema dell’essere e dell’esistenza: una giustificazione che testimonia una sensibilità razionale fuori dal comune. Questo pensiero, oggi corrente, i Borucas lo coltivavano già 2500 anni fa, attraverso l’allineamento delle loro sfere di granito che testimoniano la loro sensibilità verso questa visione cosmica. A partire da questo riferimento, che sta rivoluzionando l’identità precolombiana del suo paese, Deredia dà forma a un linguaggio di fusione tra spazio e tempo che lascia intravedere una presa di coscienza più direttamente poetica della realtà, al di là degli abusi della comunicazione globale. Il numero 4 gioca un ruolo importante, allo stesso modo della sfera, nella prospettiva assunta dall’artista di un ritorno alla dimensione piena e totale della creatività vitale. Siamo in presenza di un’opera che trova la sua piena giustificazione nel proselitismo naturale che incarna. Deredia non ha paura dell’ampiezza universale di un pensiero e di una visione, di un agire e di un fare. Nessuna frattura, nessuna perplessità è tollerata nella fiammeggiante energia del sistema formale. Se la portata del pensiero è senza limiti, la sensualità delle sue opere testimonia la loro dinamica universale. Deredia dà alla sua visione della vita, luminosa ed illuminata, il senso di un’attualità che va al di là dei modi della tecnologia o del consumismo. Il suo talento e il suo potere di evocazione carnale ci fanno meditare sulla profondità umana dei nostri rapporti umani, in un’azione che non ammette il compromesso, liberata dai piccoli complessi di affermazione o d’identificazione che sono frutto dell’avanzamento del vuoto, ad immagine del suo autore che non ammette il dubbio. Le sue sculture sono dei messaggi di amore e di energia positiva. Ci mostrano, in piena luce, così come in piena sensualità, la verità dell’essere messo a nudo

* Da Genesi ponte di luce. Geppe Inserra intervista Jiménez Deredia, testi di Geppe Inserra, Antonio Pellegrino, Pierre Restany, Brigida Editrice, Manfredonia, 2003, pp. 11-13. 96


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dalla scoperta della sua appartenenza organica alla dinamica atemporale dell’universo, ed infine, per dare più significato umano alla permanenza della sua visione, Jiménez Deredia, costaricano, ci ricorda che più di due millenni fa, in contrasto globale con la mitologia animista di un’epoca lontana, la piccola etnia Boruca viveva già al ritmo dell’essere e del nulla. Parigi, 10 aprile 2003

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Autoritratto bronzo, 270Ă—470Ă—230 cm


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SEGESTA JIMÉNEZ DEREDIA E LA MEMORIA CULTURALE



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Armonia marmo bianco, 90×220×100 cm

Chi non conosce gli antenati che vivono dentro di sé, è destinato a camminare nell’oscurità Jiménez Deredia

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JIMÉNEZ DEREDIA E LA MEMORIA CULTURALE* La prima e decisiva fonte della riflessione esistenziale e filosofica, e contestualmente estetica e artistica, di Deredia sono state le sferiche, esatte e misteriose pietre di coordinazione celeste dei Borucas, popolazione originaria della Costa Rica della quale niente si sa, se non quanto si deduce da quei “segni” compiuti della totalità. Segni nei quali, come osservava Antonio Paolucci «c’era l’idea di assoluto. C’era l’immanenza metafisica, c’era l’oscuro pensiero di Dio, come nella pietra nera del celebre film di Kubrick». Ciò in un contesto di culture originarie precolombiane che pur nella persistenza, che si direbbe animistica, delle forze della natura e delle deità che vi presiedono, avevano diffusamente elaborato una visione analoga della ciclicità del tempo, della natura e della vita in correlazione cosmica, nel corso delle stagioni. Deredia ha disatteso ogni riferimento mesoamericano, relativo a contenuti e stilemi etnografici ai quali altri artisti, non solo originari, hanno attinto motivi di ispirazione, dai muralisti messicani a Moore. Il suo “viaggio” della trasmutazione simbolica è cominciato dalla memoria culturale delle sfere Boruca, l’archetipo alla cui essenza significante ritornerà compiuto il periplo, per nuovamente riprenderlo, perché alla medesima meta, in un progetto ovvero una “sfida” di utopia antropologica, mirano la partenza e l’approdo, con quanto acquisito lungo il percorso. E in corso d’opera e di navigazione ideale, altre rivelazioni e convergenti acquisizioni culturali: dalla misura d’ordine rinascimentale toscana, che governa la partitura plastica come l’architettura della forma edificata, alla complementarietà dinamica dello Yin e Yang taoisti, alla concezione medievale e cristiana dell’armonia delle sfere celesti cui tende lo spirito del credente. Sono memorie culturali di altre civiltà che si fondano su archetipi comuni e che rifluiscono, sincreticamente assimilate e restituite da Deredia in personale trasposizione plastica e formale del principio generatore e trasmutatore, che alimenta la sua scultura e la visione del mondo, a un tempo aperta e armonicamente ritornante, che le è sottesa.

Antonio Paolucci Direttore dei Musei Vaticani

* Introduzione a Il mistero della Genesi nella scultura di Jiménez Deredia, testi di Litta Maria Medri e Fabio Isman,catalogo della Mostra Jiménez Deredia. Firenze, Bandecchi & Vivaldi Editori, Pontedera, 2006, pp. 6-8.

Jiménez Deredia l’ho conosciuto per la prima volta nell’estate dell’anno 2000. Non lui conobbi in quella occasione ma una sua opera, gigantesca, in marmo bianco, grande come il David di Michelangelo. Ero ospite del celebre atelier Nicoli, a Carrara, un laboratorio meraviglioso dove da quattro generazioni una dinastia di artigiani straordinariamente colti e genialmente versatili, traduce nelle dimensioni volute i modelli della scultura internazionale. (...) Ricordo che mi colpì la singolarità della composizione; semplice, essenziale, governata da rapporti proporzionali rigorosi e allo stesso tempo sedotta dalla circolarità, quasi dalla sfericità delle forme. La statua – mi dissero – era destinata a una delle nicchie esterne di San Pietro in Vaticano, tradizionalmente destinate ad ospitare le immagini dei fondatori degli ordini religiosi. In San Pietro, negli anni successivi, ho avuto modo di rivederla la statua di Jiménez Deredia raffigurante San Marcellino Champagnat collocata in una delle nicchie disegnate da Michelangelo ma all’epoca avevo già fatto esperienza di altre opere dello scultore. Così che mi è apparso finalmente chiaro il suo percorso intellettuale e sentimentale. Avventuriero (o alchimista) del “cuore e della ragione” ha definito Pierre Restany Deredia scultore. La formula è felice ed efficace perché ci restituisce con esattezza il senso di un percorso d’arte che ha visto entrare in gioco – bilanciarsi, confrontarsi, e l’uno nell’altro rispecchiarsi – la nostalgia e la memoria da una parte, l’ordine razionale dall’altra. Consideriamo infatti la storia dell’uomo e dell’artista. All’inizio c’è la Costa Rica delle sfere precolombiane Boruca, emblemi di una civiltà antica di quattromila anni. L’approdo è la lucente Carrara delle cave di marmo. In mezzo c’è la facoltà di architettura di Firenze e quindi Arnolfo e Brunel111


leschi, Michelozzo e l’Alberti, ma anche Michelucci, Ricci, Savioli. Il punto fermo, il centro del mondo, il laboratorio dove distillare le idee e sublimare la memoria è oggi per Deredia – al vertice della vita e della carriera – il piccolo borgo di Molicciara che sta fra il marmo e il mare. Si arriva a Carrara da molte parti del mondo perché il marmo è un irresistibile magnete. Prima di essere un medium il marmo che Giovanni Pisano e Michelangelo amarono, è un mito. Anzi è il Mito. E poiché è proprio del Mito trasformare in archetipi eterni le emozioni e le pulsioni di ognuno, nel marmo di Carrara gli scultori stranieri che hanno scelto di diventare toscani, si guardano come in uno specchio. Riconoscono e mettono a fuoco la loro cultura di origine e (se sono bravi, se li soccorre quella fulminea metalogica intuizione che altri chiamano “talento”) sublimano e assolutizzano, nel confronto e nella sintesi con altre suggestioni culturali, quel patrimonio di partenza. Il risultato sarà la proposta armonica e definitiva, il segno identitario che distingue l’artista, quel marchio imperioso inconfondibile che non si può definire in altro modo se non con la parola “stile”. Jiménez Deredia ha vissuto, ha governato e ha portato felicemente al risultato questo genere di esperienza. Giocando insieme con lucida sagacia – direbbe Restany – le risorse del cuore e quelle della ragione. Straniero dell’America Latina egli portava nella mente e nel cuore gli archetipi delle civiltà precoloniali. Erano forme chiuse, presenze silenziose portatrici d’indecifrabili messaggi, le sfere di granito che gli indiani Boruca misteriosamente distribuirono nelle foreste pluviali della Costa Rica. Ma in quegli oggetti arcaici c’era l’idea di assoluto. C’era l’immanenza metafisica, c’era l’oscuro pensiero di Dio, come nella pietra nera del celebre film di Kubrick. Nelle sculture di Deredia quell’impressione iniziatica, quell’imprinting profondo sono rimasti e, in terra toscana, hanno potuto germinare come semi ricchi di frutti. (...) La nuova patria – la Toscana, Carrara e Firenze – ha insegnato a Deredia le ragioni della misura, dell’ordine, della esattezza. Sotto il cielo di Toscana lo scultore della Costa Rica ha capito che il vero visibile è innervato di idee e che le idee si esprimono attraverso rapporti proporzionali, dentro il melodioso ritmo della vita. Ecco dunque risolto e felicemente sopito il confronto-rispecchiamento fra “cuore” e “cervello”. I suoi bronzi e i suoi marmi levigati, intatti (chiusi e autosufficienti come una cosa della natura, come una foglia, come una conchiglia, come un sasso) obbligano a un approccio di tipo assoluto. Sollecitano domande perentorie, prevedono risposte definitive anche quando appaiono polivalenti e ubique perché, come le sentenze dei libri misterici, sono per tutti e per ognuno. In questo senso le sculture di Jiménez Deredia fanno pensare agli ideogrammi e ai totem; di questi ultimi hanno la sacralità, dei primi condividono la complessità e l’ambiguità. (...) La sfera è figura del mondo che è eterno perché è circolare e circolari sono le sue donne, i suoi fiori, le sue palle di bronzo sovrapposte. Opere concluse e perfette sotto il cielo come erano, quattromila anni fa, i misteriosi monumenti di pietra degli indiani Boruca. E tuttavia strette, quelle opere, dentro l’ordine intellettuale toscano che le illumina di misura e di ragione. 112


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ALLE RADICI DI DEREDIA E LE CULTURE INDIGENE DELL’AMERICA*

Antonio Aimi Docente di Letterature Ispanoamericane all’Università di Milano, studioso della storia e civiltà precolombiane

* Da Antonio Aimi, Alle radici di Deredia e le culture indigene dell’America; in Deredia a Roma, a cura di Fabio Isman e Jiménez Deredia, catalogo della mostra, Mondadori Electa, Milano, 2009, pp. 57-61.

Trasmutazione e simboli trasmutativi (…) Deredia non si limita a fare della sfera e del cerchio i simboli fondamentali della sua interpretazione dell’America. Le sue sfere non sono immobili e congelate nel tempo, non sono come le sfere precolombiane della Costa Rica. Le sue sfere e i suoi cerchi cambiano; si muovono; si trasformano in esseri viventi. Spesso, le sue opere, disposte in serie, mostrano esplicitamente la trasformazione della figura geometrica in qualcosa d’“altro”; di solito, una persona o un animale. In altri casi, quando realizza opere isolate, che non fanno parte di una successione logica o tematica, si può intuire la forma originaria da cui è stata generata la scultura che vediamo, oppure osservare una figura che sta emergendo (o scomparendo, dipende dai punti di vista) in una forma geometrica. In altri casi ancora, la trasformazione di un’opera nell’altra avviene componendo e scomponendo forme elementari. (...) Per Deredia, dunque, la trasmutazione rappresentata nelle sue opere non è solo “vera” nei confronti della materia, nel suo caso del marmo, che per l’artista è “il materiale per eccellenza”; ma è la metafora di un processo ben più ampio: di un processo totalizzante, si potrebbe dire, che va dalle trasformazioni delle cellule degli esseri viventi al cosmo. “Per me il niente non esiste, – spiega l’artista – esiste il divenire. Noi eravamo, noi siamo, noi saremo, in questo grande processo di trasmutazione della materia (…). Il niente probabilmente è il tutto. C’è un sincretismo di contrari che s’incontrano nella rappresentazione circolare (…) dove il bianco e il nero, il bene e il male diventano tutt’uno”. I critici d’arte potranno cogliere in queste parole una interessante convergenza con quanto Henry Moore, un altro artista profondamente influenzato dall’arte preispanica, aveva scritto a proposito della veridicità/verità (in inglese Moore usa: true/truth) della pietricità dell’arte azteca: “Nel momento in cui scoprii l’arte messicana, essa mi apparve vera e valida, in parte perché fui all’improvviso colpito dalle sue somiglianze con le sculture dell’XI secolo che avevo visto da bambino nelle chiese dello Yorkshire. La sua “pietricità”, termine con il quale intendo la sua veridicità nei confronti del materiale, il tremendo potere senza perdita di sensibilità, la sua sorprendente varietà e fertilità nelle scoperte formali, il suo avvicinarsi a una concezione piena, tridimensionale della forma, la rende, a mio avviso, insuperata nei confronti della scultura in pietra di qualsiasi altro periodo” (Moore, in Braun 1993, p. 107). A me, tuttavia, sembra importante mettere in evidenza, al di là del comune richiamo alla veridicità della materia nei confronti della forma, che, mentre per Moore il rapporto con l’arte preispanica rimane confinato nell’ambito artistico, per Deredia esiste una continuità sul piano del contenuto. Paradossalmente, infatti, per quanto egli cerchi di spiegare il concetto di trasmutazione e di simbolo trasmutativo creando una sua personale, sincretistica visione del mondo, in cui trovano spazio elementi che vanno dal pensiero taoista (yin-yang), a Jung, alla tra115


dizione cristiana (cattolica/protestante) ecc., la trasmutazione che vediamo nelle sue opere non fa altro che rappresentare, attualizzandola, la visione dell’universo delle popolazioni americane. Questa rappresentazione, però, e ciò lo differenzia dagli altri grandi dell’arte moderna, non avviene sul piano della forma (a parte il richiamo, esplicitato, alle sfere della Costa Rica), ma, come si è detto, sul piano del contenuto. Dove per contenuto non ci si riferisce a ciò che le diverse culture precolombiane avevano prodotto in un determinato momento storico (vale a dire alle loro concezioni religiose o ai loro miti cosmogonici e/o identitari), ma al loro substrato filosofico, ai tratti ontologici, si potrebbe dire, della loro visione del mondo. Deredia, infatti, non rielabora stilemi preispanici (il chac-mool mesoamericano che diventa la Reclining Figure di Moore, l’uncu inca trasformato nella Harmonie der Nördlichen Flora di Klee, i cuchimilcos riproposti da Runcie Tanaka, le “false” teste riprese da Torres García, le anse a staffa, i manici a ponte e i vasi-ritratto delle culture costiere del Perù citati da Gauguin nelle ceramiche del 1886-89 ecc.). Inoltre, egli non fa un lavoro di mera evocazione, come quegli autori (Syzslo, Wiesse ecc.), che danno nomi afferenti al mondo preispanico a opere prive di rinvii agli stilemi dell’arte precolombiana; non riprende e trasforma in arte un elemento della cultura materiale (il nodo dei quipus sviluppato da Eielson), non colloca nelle sue opere “citazioni” d’arte precolombiana come fanno Diego Rivera, Frida Kahlo e gli altri muralisti. No: Deredia fa qualcosa di assolutamente nuovo. Egli realizza opere totalmente collocate nel solco dell’arte contemporanea, le quali ci mostrano dove può portare, oggi, la concezione del mondo delle culture spazzate via dalla Conquista. Deredia, dunque, utilizza e fa vivere nel presente una visione del mondo che sembrava morta cinquecento anni fa e che si poteva, al massimo, intravedere attraverso un’intelligente lettura dei dati archeologici ed etnostorici. Per noi, infatti, il problema del mondo precolombiano, a differenza di quanto avviene, ad esempio con la Cina, l’India, l’Islam, è che esso non solo è condannato ad un’irriducibile alterità, ma a un’alterità ferma a cinquecento anni fa e che, quindi, prende le forme di un esotismo anche affascinante, ma difficilmente comprensibile: le innumerevoli divinità azteche, i sacrifici umani, una religiosità pervasiva e totalizzante, i miti cosmogonici che, inevitabilmente, anche davanti al più volenteroso politically correct, assumono il sapore di favolette stravaganti. Perché al mondo preispanico non è stata data possibilità di far parlare i filosofi e i teologi in grado di spiegare il vero significato di ciò che vediamo attraverso il filtro dell’archeologia e delle fonti etnostoriche. Se la cultura dell’Europa fosse stata cancellata da un’invasione azteca, sarebbe possibile ricostruire la Summa Theologiae dai racconti di un parroco di campagna del XVI secolo? Potrebbe un giapponese di oggi immaginare che Giotto e Michelangelo hanno generato Picasso, o che dai roghi dell’Inquisizione si è arrivati alla secolarizzazione dell’Europa moderna? Ebbene Deredia fa proprio questo: ci fa vedere una delle possibilità, chiaramente una del116


le tante, di una visione del mondo che sembrava cancellata e relegata nei manuali di archeologia o di etnologia. In particolare, egli ci fa vedere che cosa sarebbe potuto nascere e che cosa ancora potrebbe nascere in campo artistico da una concezione della realtà, che affonda le sue radici nel pensiero preispanico. E proprio per questo, proprio perché ne coglie il substrato ontologico, Deredia, a differenza di quanto hanno fatto i muralisti e gli artisti indigenisti, non ha bisogno di raffigurare temi o eventi dell’età precolombiana o della Conquista, o scene “costumbriste”. Queste scelte hanno avuto molta importanza nella storia culturale del Messico e del Perù (in realtà, più in Messico che in Perù, sia per una tradizione e una storia diverse, sia per interpreti di diverso livello); ma riproporle oggi sarebbe scontato, decisamente troppo scontato. Soprattutto se il mondo preispanico non è un riferimento esterno, ma una condizione interiorizzata. Il risultato di questa scelta di campo è un poderoso lavoro di traduzione, che finora non ha precedenti. O meglio, ha dei precedenti solo nei grandi della letteratura ispanoamericana, in autori (di primo acchito viene da pensare al realismo magico), che sono assolutamente moderni da ogni punto di vista (lingua, stile, genere letterario ecc.), ma che fanno rivivere frammenti di una realtà che non avremmo mai immaginato e sembrava perduta per sempre. Come in Hombres de maíz di Miguel Ángel Asturias il nagualismo dei Maya cessa di essere oggetto di studio dell’antropologia per diventare una visione del mondo possibile e ragionevole, come ne La región más transparente di Carlos Fuentes, un romanzo ambientato nel Messico del XX secolo, il lettore finisce par far proprio il punto di vista azteco, rappresentato da Ixca Cienfuegos, e un sacrificio umano si fonde e confonde con un “normale” incidente domestico, così la trasmutazione delle opere di Deredia attualizza la visione del mondo delle culture preispaniche. (...)

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Pareja bronzo, 180×345×160 cm

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Commuoversi di fronte ad un simbolo, vuol dire ascoltare una nota dimenticata JimĂŠnez Deredia

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Per essere un vero scultore bisogna: - pensare come un filosofo - progettare come un architetto - e lavorare come un muratore JimĂŠnez Deredia

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Ricordo profondo bronzo, 170Ă—220Ă—150 cm

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Chi sente in profondità è capace di guardare lontano Jiménez Deredia

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‌ e trasmutandomi vidi spazi aperti e cieli stellati‌ JimÊnez Deredia

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Si mismo bronzo, 100×190×120 cm

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Flautista bronzo, 220×70×70 cm

Il silenzio che emerge da un’opera d’arte si chiama sinfonia Jiménez Deredia

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BIOGRAFIA Jorge Enrique Jiménez Martínez, in arte Deredia, nasce a Heredia, in Costa Rica, il 4 ottobre 1954. Inizia l’attività di scultore negli anni ’70, realizzando opere che evidenziano sia lo sviluppo di forme organiche modificate dall’ambiente, dalla forza di gravità e dalla crescita, sia influenze dell’arte precolombiana. A 22 anni, nel 1976, si trasferisce in Italia e comincia a viaggiare per l’Europa; conosce artisti, critici, teorici dell’arte, giornalisti e mercanti che lo mettono in contatto con i principali movimenti artistici del Continente. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Carrara e, dal 1980 al 1986, frequenta la facoltà di architettura all’Università di Firenze. Il fervore intellettuale di quel periodo spinge lo scultore a una riflessione che segnerà in maniera decisiva il suo lavoro artistico. L’intuizione di una visione globalizzante dell’essere e dell’universo si rafforzano grazie al recupero della cultura del suo paese natale, in particolare le sfere precolombiane degli antichi indiani Boruca che abitarono le terre costaricane. Quei misteriosi manufatti in pietra muovono lo scultore verso studi che riguardano sia la forma e il materiale utilizzato, sia la funzione e la simbologia legata alla sfera e al cerchio. La fase di rinnovamento artistico è sottolineata anche dall’adozione del nome d’arte Deredia, contrazione di “de - Heredia” (da - Heredia, proveniente da Heredia), sua città natale. Nel 1985, compone le prime Genesi, opere che descrivono fasi distinte di mutazione della materia nello spazio attraverso il tempo e pone le basi per la creazione della sua ideologia artistica: il Simbolismo Trasmutativo. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 1988, 1993 e 1999; l’esperienza veneziana è segnata dall’incontro con il celebre teorico e critico d’arte Pierre Restany: l’amicizia e la collaborazione nate allora si rivelano determinanti anche per la crescita artistica e intellettuale di Deredia; infatti, insieme al teorico francese, lo scultore pone le basi per costruire una visione d’identità culturale costaricana capace di comprendere la totalità del processo storico incorporando le culture precolombiane e la loro forte elaborazione simbolica. Nel 1999, riceve il premio “Beato Angelico” per sottolineare la profonda spiritualità della sua produzione artistica e del suo pensiero laico. In occasione del Grande Giubileo del 2000, la Fabbrica di San Pietro commissiona allo scultore la realizzazione della statua marmorea di San Marcellino Champagnat, da collocare nella facciata sud della basilica di San Pietro in Vaticano, all’interno della nicchia centrale del transetto che fu progettata tra il 1544 ed il 1564 da Michelangelo Buonarroti. La scultura viene inaugurata da Papa Giovanni Paolo II, il 20 settembre del 2000 e Deredia diventa, così, il primo artista non europeo presente nel fulcro della Cristianità. Nel 2006, dopo una grande mostra personale allestita nella città di Firenze, riceve la nomina di Accademico Corrispondente della Classe di Scultura, da parte della fiorentina Accademia delle Arti del Disegno, fondata da Cosimo I de’ Medici nel 1563. Nella lunga storia dell’Accademia furono nominati accademici, tra gli altri: Michelangelo Buonarroti, Tiziano, Tintoretto, Palladio e Galileo Galilei. Da giugno a novembre del 2009, Deredia realizza una importante mostra personale nella città di Roma: 60 sculture si collocano in tre musei della città, nelle principali piazze e nei dintorni del Colosseo. In questa occasione, il Foro Romano apre le sue porte all’arte contemporanea ospitando 10 monumentali complessi scultorei dell’artista lungo la Via Sacra. La comprensione della sfera, elemento archetipico elevato a simbolo dell’opera derediana, conduce lo scultore alla concettualizzazione del Simbolismo Trasmutativo, una linea di pensiero oggi espressa nella Ruta de la Paz: un immenso progetto che prevede nove complessi scultorei di grandi dimensioni in altrettanti Paesi del continente americano, dal Canada fino alla Terra del Fuoco in Argentina. In 42 anni di attività, questo singolare artista e pensatore latinoamericano ha creato opere monumentali per musei e luoghi pubblici in 16 diversi paesi di Europa, Asia, Stati Uniti d’America e America Latina e realizzato 46 mostre personali, oltre a partecipare a più di 100 collettive portando nel mondo il suo messaggio di pace e di speranza con la più fisica delle arti: la scultura. 151



Mostre personali 2012 Jiménez Deredia. La Genesi e il Simbolo - Il Mito Contemporaneo, Aeroporto Birgi Vincenzo Florio; Corso Vittorio Emanuele (centro Trapani); Piazza del mercato del Pesce; sito archeologico di Segesta, Trapani/Segesta (Italia). Jiménez Deredia, Etienne Gallery e piazza del Comune, Oisterwijk (Olanda). 2011 Jiménez Deredia and the Symbolism of the Sphere, Legacy Fine Art, Panama City (Panama). Jiménez Deredia sculptures monumentales avec la ville de La Baule, Gare de La Baule – Escoublac; Parvis d’Atlantia; Place des Palmiers; Esplanade Francois André, La Baule (Francia). A selection of Recent Sculptures by Jiménez Deredia, Tresart Gallery, Miami (U.S.A.). 2010 Jorge Jiménez Deredia at Brickell Avenue, US Century Bank, Miami (U.S.A.) EXPO 2010, Shangai (Cina). Galerìa Carlos Woods Arte Antiquo y Contemporaneo, Ciudad de Guatemala (Guatemala). 2009 Deredia a Roma, Palazzo delle Esposizioni; Foro Romano; Colosseo; Museo Romano Palazzo Massimo; Museo Romano Altemps, Roma (Italia). 2008 Jorge Jiménez Deredia at Brickell Avenue, US Century Bank, Miami (U.S.A.) 2006 Il Mistero della Genesi nella Scultura di Jiménez Deredia, Limonaia del Giardino di Boboli; Piazza della Repubblica; Piazza Pitti; Piazzale della Galleria degli Uffizi, Firenze (Italia). 2005 La sfera, simbolo dell’essere, Parco della Versiliana, Pietrasanta (Italia). Galería Spatium.Caracas. Venezuela.

2004 El inicio del conocimiento, Americas Collection, Miami (U.S.A.). El inicio del conocimiento, Galería Ramis Barquet, Monterrey (Messico). 2003 Lecagy Fine Art Gallery, Panama City (Panama). Galería Lucía de la Puente, Lima (Perù). 2002-2003 Legacy Fine Art Gallery, Panama City (Panama). Galería Lucía de la Puente, Lima (Perù). Boca Raton Museum of Art, Boca Raton (U.S.A.). 2002 Galería Espacio, San Salvador (El Salvador). 2000 Museo Amedeo Lia, La Spezia (Italia). 1999 XLVIII Biennale Internazionale d’Arte, Venezia (Italia). 1998 Fiera d’arte Arco, Quintana Gallery, Madrid (Spagna). 1997 Parco del Tettuccio, Montecatini Terme (Italia).

1992 Galería Valanti, San José (Costa Rica). 1990 Modern Art Museum of Latin America, Washington D.C. (U.S.A.). Casa dell’America Latina, Parigi (Francia). Le Marie Trainier Gallery, Washington D.C. (U.S.A.). 1988 XLIII Biennale Internazionale d’Arte, Venezia (Italia). 1987 Museos del Banco Central de Costa Rica, San José (Costa Rica). 1985 Centro Allende, La Spezia (Italia). 1984 Galleria Turelli, Pistoia (Italia). 1983 Dresdner Bank, Bonn (Germania). 1982 Thermal of Bad Nauheim, Francoforte (Germania). Dresdner Bank, Monaco (Germania). 1981 Galleria Cortina, Milano (Italia).

1996 Teatro Nacional, San José (Costa Rica). Galería Valanti, San José (Costa Rica).

1979 Istituto Italo Latino Americano, Roma (Italia). Museo Dino Scalabrino, Montecatini Terme (Italia).

1994 Galería Valanti, San José (Costa Rica).

1978 Casciana Terme, Pisa (Italia).

1993 XLV Biennale Internazionale d’Arte, Venezia (Italia). Gaymu Gallery, Parigi (Francia). Grand Palais (Decouvertes), Parigi (Francia).

1977 Palazzo Comunale, Sarzana (Italia). 1976 Teatro Nacional, San José (Costa Rica). 153


Mostre collettive 2012 Art Miami,. Santa Giustina/Galerie Peter Zimmermann, Miami (U.S.A.). 2011 ARTEBA, Feria de Arte de Buenos Aires, Buenos Aires (Argentina).

1998 Chiostro di Sant’Agostino, Pietrasanta (Italia). Arte&Città, mostra internazionale di scultura, San Giovanni in Persiceto, Bologna (Italia).

2009 Carré D’Oré Contemporary Art Gallery, Montecarlo (Principato di Monaco).

1995 First Art Exposition, Stockholm (Svezia). Art Miami, Miami (U.S.A.).

2008 ARTBO, Feria Internacional de Arte de Bogotá, Bogotá (Colombia).

1994 S.A.G.A., Parigi (Francia). Art Miami, Miami (U.S.A.).

2007 Sculture da indossare, Forte dei Marmi (Italia).

1993 Art Expo ’93, The Foreign Club, Hong Kong (Cina). Fiac ’93, Parigi (Francia).

2005 Art Miami, Miami (U.S.A.). 2004 Art Miami, Miami (U.S.A.). 2003 Art Miami, Miami (U.S.A.). Magnetismi delle Forme. Scultori in centrale, Enel Produzioni (Italia). Exposición de arte Latinoamericano, El Salvador (San Salvador). 2002 Sculture e Scultori, rassegna internazionale di scultura, Pietrasanta (Italia). 2000 Boca Raton Museum of Art, Miami (U.S.A.). Art Miami, Miami (U.S.A.). Galería Espacio, San Salvador (El Salvador). Arte&Città, mostra internazionale di scultura, San Giovanni in Persiceto, Bologna (Italia). 1999 Open 99, mostra internazionale di scultura, Lido di Venezia (Italia). 154

1992 Contemporary Art hall, Bourg-En-Bress (Francia). The Hannah Peschar Gallery, Londra (Inghilterra). Art Miami, Miami (U.S.A.). 1991 Art Expo ’91, Bologna (Italia). Fidelia Villa, Spello (Italia). 1990 Seconda Mostra Internazionale d’Arte Contemporanea, Barcellona (Spagna). Museum of the American States Organization, Washington (U.S.A.). Prima Mostra d’Arte Contemporanea, La Defense, Parigi (Francia). International Contemporary Art Exposition, Innert, Sent (Belgio). 1989 Contemporary Sculpture Languages, Verona (Italia). 1988 Istituto Italo Latino Americano, Roma (Italia). 1986 Renano Museum, Bonn (Germania).


Collezioni pubbliche Città del Vaticano Basilica di San Pietro, Vaticano.

El Salvador Roble group, San Salvador.

Stati Uniti Boca Raton Museum of Art, Boca Raton. Museum of the Americas, Washington. Latin American Medical Surgical Clinic, Houston, Texas. GDS Diagnostic Division of GDS Tecnology, Elkart, Indianapolis. Goldman Group, New York.

Francia Gare de La Baule - Escoublac, La Baule. Giardini dell’America Latina, Porte de Champerret, Parigi. Cristian Dior, Armand de Ponthaud Collection, Parigi.

Italia Rotatoria Via Aurelia, Via Unità d’Italia, Pietrasanta. Palazzo della Provincia, Foggia. Ministero degli Affari Esteri, Roma. Grand Hotel, Verona. Famiglia D’Aloisio, Isernia.

Inghilterra A. Saran Group, Londra.

Costa Rica Centro Comercial Paseo de las Flores, Heredi. Centro Comercial Avenida Escazù, San José. Catedral Metropolitana, San José. Jardines de la Casa Presidencial, San José. Museo de Los Niños, San José. Jardines del Teatro Nacional, San José. Museos del Banco Central de Costa Rica, San José. Museo de Arte Costarricense, San José. Banco Nacional de Costa Rica, San José. Banco de San José, San José. Caja Costarricense del Seguro Social, San José. Clínica de la Caja Costarricense del Seguro Social, Coronado. Banco Banex, San José. Laboratorios Stein, Cartago. Jardines del Recuerdo, Alajuela. Catedral de Limón, Limón. Jardín de esculturas del Museo de Arte Costarricense, San José. Papagayo, ingresso principale del “proyecto Eco desarrollo”, Guanacaste. 155


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Struttura di contatto presso l’Assessorato Regionale del Turismo Servizio Turistico Regionale di Palermo tel. +39 091 6398011  fax +39 091 6398023 www.turismopalermo.it  strpalermo@regione.sicilia.it www.ilcircuitodelmito.it  www.regione.sicilia.it/turismo


STAMPATO PER CONTO DI MA Service s.r.l. DA BANDECCHI & VIVALDI PONTEDERA

GIUGNO 2012


R A S S E G N A I N T E R N A Z I O N A L E D I S C U LT U R A E P I T T U R A I N S I C I L I A

II RASSEGNA INTERNAZIONALE DI SCULTURA E PITTURA IN SICILIA www.ilmitocontemporaneo.it

Evento promosso dall’Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana PO FESR Sicilia 2007 - 2013 - Linea di intervento 3.3.1.1


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