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CURATORE PADIGLIONE ITALIA ALESSANDRO MELIS

intervista di Mariachiara Marzari

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Lei teorizza una “nuova architettura radicale” sottoposta, come gli esseri viventi, alle leggi dell’evoluzione e dell’adattamento. Prima di entrare nel Padiglione, ci delinea in sintesi le basi del suo pensiero di architetto?

Quando mi approccio al mondo della ricerca, parto dal presupposto che una delle principali cause della crisi che stiamo attraversando sia da ricercarsi nel modo in cui concepiamo le costruzioni. Mi riferisco in primo luogo al modo in cui le costruzioni sono concretamente portate a termine, visto e considerato che il 36 % delle emissioni di CO2 derivano direttamente dall’utilizzo degli edifici. È opinione ampiamente diffusa che l’emissione di CO2 derivi in larga misura dall’utilizzo di combustibili fossili nei trasporti, ma dalle ricerche che abbiamo portato avanti attraverso il Cluster for Sustainable Cities, l’istituto di ricerca che dirigo in Inghilterra, sappiamo in realtà che la variabile che più di ogni altra influisce sul volume complessivo di queste emissioni è il modo in cui le città vengono disegnate, con soluzioni che favoriscono l’incremento o il calo di queste stesse emissioni. Noi architetti siamo molto permalosi e amiamo dire che il problema non riguarda l’architettura in senso strettamente disciplinare, ma il modo in cui l’umanità concepisce i propri insediamenti, l’inveramento dei quali ci ha portato a vivere la più grande crisi ambientale che l’homo sapiens si sia mai trovato ad affrontare prima d’ora. Un’esperienza del tutto nuova che in realtà vede l’architettura chiamata in causa in una duplice veste e direzione: in quanto corresponsabile di questa stessa crisi e in quanto disciplina che potrebbe avere un ruolo cruciale nella sua risoluzione. Personalmente non sono così ambizioso da arrivare ad auspicare una “nuova architettura radicale”, non ho le capacità per cimentarmi in un compito così arduo. Mi sforzo piuttosto di lavorare in una direzione più semplice che chiama a raccolta differenti discipline, le quali, pur investite da cambiamenti magari meno rivoluzionari rispetto a quelli apparentemente vissuti dall’architettura, hanno visto stravolte le rispettive tassonomie e le corrispondenti scale di valori. In uno scenario di tali profonde mutazioni è quanto mai significativo perciò registrare come la tassonomia dell’architettura sia invece in linea di massima la stessa da 2000 anni a questa parte. Ciò considerato, non mi sento certo in grado, con il Padiglione Italia che ho l’onore quest’anno di curare, di proporre nientedimeno che una nuova concezione di architettura. Sono convinto, e cercherò di esprimerlo anche in questa importante occasione, semplicemente del fatto che ci troviamo di fronte ad una rivoluzione che l’architettura non può attraversare percorrendo una linea retta. In quasi tutti i contesti disciplinari ogni 30 o 40 anni interviene una rivoluzione a sovvertire completamente l’ordine delle cose. In tutta sincerità non vedo come l’architettura possa essere esclusa da questo processo di fatto ineluttabile.

ALESSANDRO MELIS

Architetto e docente, direttore del Cluster for Sustainable Cities presso l’University of Portsmouth in Inghilterra, curatore del Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2021, Alessandro Melis è uno dei più influenti ricercatori nel campo dell’architettura radicale. Ha fondato, assieme a Gian Luigi Melis, lo studio Heliopolis 21. È autore inoltre di diversi libri e innumerevoli saggi sui temi della sostenibilità radicale e sulla resilienza urbana. Di recente pubblicazione una monografia sul suo lavoro dal titolo Alessandro Melis. Utopic Real World.

Quale ruolo dovrà dunque svolgere l’architetto, e più in generale l’architettura, nel prossimo futuro?

Dovranno mettere in discussione delle certezze. Oggi, come rare altre volte così urgentemente, la realtà in rapida mutazione ci richiede di farlo. Diamo per scontato che l’architettura, per come la intendiamo oggi, sia un’espressione creativa dell’uomo e di conseguenza un processo eminentemente artificiale. Ma cosa intendiamo con “artificiale”? Se ci riferissimo ad un’architettura “ecologica”, potrebbe essere questa considerata artificiale? Il tema, come vedete, è quasi di carattere filosofico. Qual è la natura dell’artificialità? Quando trasformo un albero in qualcos’altro quale processo metto in atto? Nella nostra mente sembra quasi che tutto ciò che è artificiale automaticamente debba rappresentare un’antitesi di ciò che comunemente è considerato ecologico. La domanda basilare è la seguente: è davvero impossibile pensare possa esistere un’architettura intrinsecamente ecologica? Può esistere un’architettura di cui non ci si senta condannati a pagare il prezzo nel futuro a breve, medio e lungo termine? È possibile per noi creare qualcosa che si integri perfettamente con l’ambiente senza stravolgerne gli equilibri, proprio come i castori costruiscono le dighe? A simili quesiti non ho risposte certe da dare. Me li pongo con un approccio aperto, curioso, con una disposizione il più possibile complessa e al contempo ‘semplice’, cercando di andare dritto al nocciolo di tali nodali questioni, contemplando le mille variabili che informano il nostro vivere in mutevole divenire oggi. Il Padiglione quest’anno sarà quindi un laboratorio di ricerca pulsante.

Su quali fondamenti ha costruito questo laboratorio?

In sede di elaborazione del progetto curatoriale mi è venuta in soccorso la biologia dell’evoluzione, disciplina che considero di fondamentale importanza nella definizione di una nuova disposizione del fare architettura, in particolare per quel che ne è derivato dagli studi svolti da questa branca scientifica tra la fine degli anni ‘60 e il 2000, i quali hanno letteralmente stravolto la sua tassonomia. Cosa rende la biologia dell’evoluzione centrale nel nostro discorso? Principalmente il fatto che questa disciplina, in particolare sul fronte della paleoantropologia, affronta molto semplicemente la storia dell’homo sapiens, quindi di tutti noi. La domanda che si è posto Stephen Jay Gould, il più importante biologo dell’evoluzione, è stata la seguente: quanto di quello che l’homo sapiens ha costruito negli ultimi 2000 anni, da Platone in poi, è davvero reale? Quanto, invece, fa parte di una narrazione? Quesiti ai quali Gould si sforza di dare risposte scientifiche, non filosofiche. Il biologo statunitense rileva come la narrazione portata avanti dall’uomo metta l’uomo stesso al vertice della piramide evolutiva. Il che, a suo dire, è pura invenzione; anzi, nel momento in cui l’uomo si è messo al vertice di questa scala, ha iniziato a rivelarsi un essere fortemente anti-ecologico. Sempre secondo Gould, se prendiamo ad esempio un tratto del percorso evolutivo umano di 2000 anni senza renderci conto di come questo rappresenti in realtà nemmeno l’1% del totale del percorso complessivo, finiremo per dare inevitabilmente per scontato che ci siano delle tendenze lineari pressoché obbligate da seguire, inducendoci a costruire di conseguenza il nostro presente e il nostro futuro secondo il rigido dettato di queste linee guida. Gould con i suoi studi e con i suoi elaborati in sostanza dimostra quanto siano pretestuose queste nostre presunte, ‘razionali’ certezze. Ci dice, per esempio, quanto sia probabilmente assai più facile trovare delle soluzioni alla crisi ambientale che stiamo attraversando volgendo il nostro sguardo al tempo profondo, a 200.000 anni fa piuttosto che a 2000. Guardare esclusivamente agli ultimi 2000 anni avrebbe un senso solo se considerassimo quanto fatto in questo lasso di tempo come qualcosa di così avanzato da poterci permettere il lusso di non prendere in considerazione null’altro di più antico. Ma la biologia dell’evoluzione ci dice chiaramente che un simile ragionamento non è servibile. Esiste infatti il concetto di niche construction, “costruzione di nicchia”, elaborato dal biologo Kevin Laland, strettamente collegato al concetto di “resilienza”, termine oggi, ahimè, quanto mai impropriamente abusato e al quale ho dedicato vent’anni dei miei studi, quando ancora la comunicazione non masticava e digeriva indifferentemente tutto. Secondo Laland non esiste un organismo che univocamente modifichi l’ambiente o un unico ambiente che modifichi un organismo: il codice genetico umano deve essere considerato una combinazione di azioni e reazioni che si sono instaurate tra ambiente e organismo. Nel nostro codice genetico tale combinazione quindi esiste già, è come se fossimo intrinsecamente ecologici. È molto interessante registrare come e quanto il rapporto tra uomo e ambiente sia stato centrale in questi diversi ambiti disciplinari. L’idea “positivista” quanto mai dura a morire che l’azione dell’uomo sia in grado di modificare l’ambiente per migliorarne lo stato di vita controllandone processi ed effetti già negli anni ‘80 ha iniziato ad essere demolita, allorché si è scoperto che in realtà tale rapporto risultava assai più dinamico di quanto si ritenesse sino ad allora, dal momento che se è vero che la teoria dei nostri molteplici interventi sul corpo produce delle modifiche profonde all’ambiente, è altrettanto vero che l’ambiente, per tutta risposta, modifica noi in misura altrettanto forte, se non probabilmente in proporzioni addirittura maggiori. Per molti aspetti il concetto di “nicchia” a cui mi riferivo va addirittura oltre: se l’architettura sostenibile mette l’uomo da una parte e l’ambiente dall’altra, la teoria di Laland identifica invece una grande ‘marmellata’ in cui diversi elementi si combinano; non solo uomo e ambiente, ma anche presenze che non catalogheremmo nemmeno come “organismi viventi”, che vedranno o meno la propria estinzione a seconda della capacità di entrare o meno a far parte di questa nicchia, adattandosi al contesto. Ecco quindi a ritrovarci nel cuore vivo dell’idea profonda di resilienza.

Ha utilizzato un linguaggio contemporaneo di tendenza e ricco di citazioni pregnanti per comunicare il manifesto del Padiglione Italia 2021. La più suggestiva tra tutte è l’immagine epocale del podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico che ci riporta al movimento di protesta per i diritti civili degli afroamericani. Quale il significato di questa scelta?

Èfondamentale ribadire che il Padiglione Italia non intende presentarsi come una mera esposizione, ma piuttosto come laboratorio in cui costruire un rapporto di viva e persistente interazione tra chi presenta idee progettuali e chi le assorbe dialogandovi, ossia i visitatori. L’obiettivo è in sostanza quello di creare a tutti gli effetti un soggetto terzo sul terreno della creatività. La nostra più grande aspirazione come team curatoriale non è quella di far trovare dentro al Padiglione le opere di, che so,

CURATORE PADIGLIONE ITALIA ALESSANDRO MELIS

Leonardo, ma quella di far trovare a Leonardo stesso, in veste di ipotetico visitatore, un ambiente simile alla bottega del Verrocchio, dove lui assorbendo il sapere e la pratica artistica poté divenire Leonardo. Per dare seguito il più compiutamente possibile a questa aspirazione ho cercato di lavorare sulla dimensione dell’impatto, aspetto su cui insiste molto l’universo della ricerca anglosassone da cui provengo a differenza dell’ambito latino, nel quale invece il lavoro di ricerca tende ad essere poco comprensibile ai non addetti ai lavori, producendo una sorta di inaccessibilità che non di rado viene addirittura elevata a metro qualitativo direttamente proporzionale al valore della ricerca stessa. In ambito anglosassone una ricerca funziona se comprensibile al maggior numero di persone possibile, misurando anche in questi termini l’impatto che riesce ad avere sulla collettività. La dissemination è parte integrante del giudizio sulla qualità di una ricerca, evidenziandone il valore divulgativo in grado di avvicinare a un dato contenuto il più ampio bacino di persone non addentro alla disciplina a cui lo stesso contenuto attiene. Ispirandoci a questa linea di pensiero, in sede di elaborazione del nostro progetto abbiamo deciso di riservare un’attenzione particolare ai più giovani. Si spiegano così gli evidenti riferimenti al cyberpunk, nel segno di una transdisciplinarità che non interessa quindi solo la comunità scientifica, ma più estesamente un ambito comunicativo decisamente crossover, sia in termini di linguaggi espressivi che in chiave generazionale, miscelando ad esempio i linguaggi del cinema o del fumetto. Il pugno che vediamo nel manifesto ha un’evidente valenza legata ai temi dell’eguaglianza sociale, però qui intesa nella sua massima e più trasversale servibilità, andando quindi oltre il diretto dettato dei movimenti black. Per combattere le disuguaglianze dobbiamo prenderci delle responsabilità politiche e il pugno deve essere letto in quest’ottica: non un richiamo strettamente e tradizionalmente rivoluzionario, ma un invito ad abbracciare con convinzione pratiche di attivismo. Altro aspetto che rende il pugno simbolico è il suo rimando al principio sostenuto da Gould secondo cui la resilienza è contraddistinta da tre caratteristiche fondamentali: diversità, variabilità e ridondanza. Il gesto di Smith e Carlos diventa fondamentale non tanto per il suo significato politico, quanto per la sua forte valenza di rivendicazione della diversità. Se desidero che la città del futuro possa essere resiliente, allora dovrà essere diversa, variabile e ridondante. Grazie agli studi condotti da Heather Pringle noi sappiamo che i soggetti che in futuro si troveranno a disegnare una città diversa, variabile e ridondante dovranno essere a loro volta diversi, variabili e ridondanti, in un rapporto biunivoco e in continuo movimento. Un soggetto privo di pluralità e sfaccettature costruirà una città a bassa capacità di resilienza. Il gesto dei due velocisti afroamericani a Città del Messico ci parla proprio dell’importanza della diversità e della necessità improrogabile di un impegno in questa direzione. Nell’utilizzo di questa potentissima immagine simbolica che il nostro progetto fa in termini di comunicazione, allora, il pugno da un lato richiama la città compatta tipicamente italiana, per certi aspetti medievale, dall’altro lato rimanda a una sorta di artropode, simbolo della natura: l’architettura dovrebbe quindi nascere all’insegna di una resilienza figlia di un patto con la natura. Dobbiamo essere noi a metterci sulla sua lunghezza d’onda e saremo di sicuro noi ad avere una data di scadenza più ravvicinata rispetto alla natura, che della nostra presenza se ne infischia bellamente.

Come viene raccontata nel Padiglione l’architettura che in questo momento si sta sviluppando in Italia?

Dal punto di vista architettonico l’Italia si trova ad affrontare diversi paradossi, da un lato la massiccia zonizzazione, ovvero la suddivisione del territorio di ciascun comune in aree omogenee secondo determinate caratteristiche, che ha distrutto gran parte del patrimonio architettonico italiano, soprattutto nelle periferie; dall’altro lato la tenuta persistente di un altissimo tasso di diversità architettonica, che ha reso il Paese non del tutto ancora omologato. L’Italia presenta dei genotipi di città intrinsecamente ecologiche, a volte anche inconsciamente ecologiche se si segue l’idea di exaptation, secondo la quale non si dovrebbe distinguere tra processi consci ed inconsci. Si dovrebbe dare seguito in architettura ai risultati ottenuti dalle ricerche svolte da Gould in biologia, indagando su tutto ciò che non è figlio del determinismo e andando a concepire costruzioni non destinate a un uso unico e specifico. Credo che l’Italia possa essere il Paese ideale in cui sperimentare una simile ricerca. Sono fermamente convinto che in questo momento, più che inventare una nuova architettura, vada portata avanti una nuova tassonomia di ciò che già esiste, ridisegnando tutto quanto è stato realizzato negli ultimi 200.000 anni, così come hanno fatto i biologi scoprendo una nuova collocazione per l’uomo. Questo permetterebbe a noi architetti di vivere il più risolutivamente possibile una nuova forma di dialettica tra determinismo e progettazione: il marginale diventerebbe centrale, dal momento che rappresenta l’80% di ciò che esiste, mentre ciò che abbiamo sempre considerato centrale diventerebbe più, diciamo così, “newtonianamente minimale”, marginale, dal momento che rappresenta non più del 20% di tutto ciò che percepiamo a livello architettonico.

Come definirebbe quindi il suo Padiglione?

Il Padiglione innanzitutto si configura come lavoro collettivo che nasce dal mio pensiero associativo e che attraverso le direttrici della diversità, della variabilità e della ridondanza viene arricchito del lavoro di chi ho chiamato ad aiutarmi. Per meglio descrivere la cifra curatoriale del Padiglione utilizzerei una frase del genetista Ewan Birney secondo cui «Il genoma è una giungla popolata da strane creature»: è esattamente la dimensione che vorrei il nostro progetto riuscisse a restituire. Approcciandoci al genoma credevamo di trovarci di fronte a una struttura assolutamente razionale, salvo poi scoprire come questo elemento fosse caratterizzato anch’esso da diversità, variabilità e ridondanza, esattamente come vorrei fosse l’architettura resiliente di cui abbiamo bisogno e di cui il Padiglione vuole farsi laboratorio di osservazione.

CURATOR OF THE ITALIAN PAVILION ALESSANDRO MELIS

interview by Mariachiara Marzari

LIVE

You theorize a “new radical architecture” subject, just like living beings, to the laws of evolution and adaptation. Can you please outline the basis of your thought as an architect?

When I think of research, I assume that one of the main causes of the crisis we are living in is to be found in the way of conceiving buildings. I’m thinking, in particular, of the way buildings are actually made, given that 36% of all CO2 emissions come directly from our use of buildings. It is commonly assumed that CO2 emissions are mainly due to fossil fuel used for transportation, but in fact, after researching on this subject at the Cluster for Sustainable Cities we found out that the variable that more than any other influences the overall volume of such emissions is the way cities are designed, with solutions that make these emissions increase or decrease. We architects can be quite touchy, and we love to say that the problem does not depend on architecture as a discipline, but on the way people conceive settlements. The way they did, though, brought about the largest environmental crisis homo sapiens ever faced. A fully new experience that sees architecture as a protagonist in a twofold role: as co-responsible for this crisis and as a discipline that could play a key role in the solution of the crisis itself. Personally, I am not as ambitious as to hope for a “new radical architecture” – that’s above my ability. What I do strive for, however, is to simplify matters and work with different disciplines that, individually considered, may have been revolutionized to a lesser extent than architecture, but underwent changes in their taxonomy and in their hierarchies of values. In a context of such radical changes, it is all the more significant that the taxonomy of architecture changed very little over the last 2000 years. Having said that, I cannot say it is within my means to offer a brand new concept of architecture at the Italian Pavilion, which I have the honour to curate this year. I believe, and I’ll try to express this idea on this important occasion as well, that we are facing a revolution that architecture cannot go through in a simple straight line. In any other discipline, a revolution takes place every thirty or forty years. Honestly, I cannot see how architecture can escape the same undeniable process.

ALESSANDRO MELIS

An architect and a teacher, director of the Cluster for Sustainable Cities at the Portsmouth University in England and curator of the Italian Pavilion at the 2021 Venice Architecture Biennale, Alessandro Melis is one of the most influential researchers in the field of radical architecture. With Gian Luigi Melis, he founded the Heliopolis 21 studio. He also published several books and a lot of essays on radical sustainability and urban resilience.

Which is the role architects, and more in general architecture, will have to play in the near future?

They will have to keep questioning what appears to be certain. This is what a fast changing reality asks us to do and today this is more urgent than ever before. We take for granted that architecture, the way we see it today, is a creative expression of man and, consequently, a primarily artificial process. What do we mean by “artificial”, though? If we thought of “ecological” architecture, could it be considered artificial? As you can see it is almost a philosophical theme. What is the nature of artificiality? When I turn a tree into something else, what process do I put in place? In our mind, it seems that everything that is artificial must be automatically the antithesis of the ecological. Now to the basic question: is it really impossible to think of an intrinsically ecological architecture? Can there be an architecture we are not condemned to pay a price for in the short, medium, or long term? Is it possible for us to build something that integrates perfectly with the environment and does not destroy its balance, just like beavers build dams? I do not have definite answers to any of these questions. I look at them with an open, curious approach. I try to keep an attitude that is both complex and simple, to go straight to the heart of the problem, to keep in mind the myriad variables that make life what it is. The Italian Pavilion will therefore be a pulsating research workshop this year.

Which are the foundations you built your workshop on?

As I was working on the Pavilion’s concept, I reflected on evolutionary biology, a science that I consider to be of fundamental importance to define a new attitude for architecture, in particular for what evolutionary biology discovered between the late 1960s and 2000 which literally disrupted its taxonomy. What makes this discipline central to our discussion? Mainly, the fact that it, and palaeoanthropology specifically, very simply addresses the history of homo sapiens, therefore the history of all of us. Stephen Jay Gould, the most important evolutionary biologist, asked himself the following question: How much of what homo sapiens has built over the last 2000 years, from Plato onwards, is really real? How much of it is only part of a narrative? Questions Gould strives to give scientific answers to, not philosophical ones. He highlighted how the narrative commonly undersigned by humans put humans themselves at the top of the evolutional pyramid. Gould thinks this is a travesty. More: the minute humans put themselves at the top of the ladder, they became anti-ecological beings. Also according to Gould, if we think about any segment in the last 2000 years of human evolution, and we are talking about under 1% of the total, we would end up taking for granted that there are linear trends that we are almost forced to follow. We would feel forced to keep on building our present and our future according to this rigid guideline. With his studies and in his essays, Gould shows how much of a pretext these presumed ‘rational’ certainties are. He tells us, for example, how it would be probably much easier to find solutions for the current environmental crisis by looking deep into the past – at 200,000 years ago, rather than 2000. To look at the last 2000 years exclusively might make sense only if we thought that what we did over the same time period was so advanced that we could afford the luxury of ignoring anything older than that. But evolutionary biology clearly states that such reasoning is untenable. Niche construction is another concept, elaborated by biologist Kevin Laland, that is strictly related to that of “resilience”, a term today, alas, very improperly overused. I devoted twenty years of study to it, when the media wouldn’t chew and digest indifferently everything. According to Laland, there is no organism that single-handedly changes its environment or an environment that single-handedly changes an organism: human genetic code is a combination of actions and reactions that had already been established between environment and organism. In our genetic code, this combination is already present. That means we are intrinsically ecological. It is very interesting to notice how and how much the relationship between man and environment is central in such diverse disciplines. The positivist, die-hard idea that human action is able to change the environment to improve quality of life by controlling its processes and effects was being demolished as early as in the 1980s, when it was discovered that the relationship in question was far more dynamic than was previously thought. It is true that we affect our bodies and thus the environment, though it is also true that the environment, in turn, changes us just as strongly, or even more so. In some regards, the concept of niche I mentioned goes beyond that: if sustainable architecture sees man in one quadrant and environment in another, Laland’s theory sees it all as a combi-

CURATOR OF THE ITALIAN PAVILION ALESSANDRO MELIS

nation, a hodgepodge of different elements. Humans, environments, presences that we won’t classify as living organisms that will meet their extinction, or not, according to their ability to make their way into the niche and adapting to it. And here we circle back to the idea of resilience.

You used a trendy contemporary language full of meaningful quotes to announce the manifesto of the Italian Pavilion 2021. The most evocative of all is the epochal image of the podium for the 200-meter race at the Mexico City Olympics where Tommy Smith and John Carlos stand with their fists raised to the sky. This image takes us back to African-American civil rights protest movement. What does this choice mean?

Allow me to state once again that the Italian Pavilion is not some mere exhibition, but rather a workshop to build a relationship – a living, persistent interaction between those who create designs and those who absorb them through dialogue with you, that is, visitors. The goal is, essentially, to create a third actor in the field of creativity. Our greatest aspiration as curatorial team is not for visitors to find in the Pavilion, let’s say, works by Leonardo, but for Leonardo, if he were to visit, to find a similar environment to Verrocchio’s workshop, where he could absorb what Verrocchio knew and could hone his skills to become Leonardo. How to do this? I worked on the dimension of impact, an aspect that is paramount in research, at least in the Anglosphere compared to the Latin world. In the latter, research tends to be less approachable by non-experts, resulting in an inaccessibility of sorts that quite often is elevated to the status of objective qualitative criteria: the less accessible a piece of research is, the more it is valuable. In the Anglosphere, research is valued if it is understandable to as many people as possible, a measure of the impact it can have on the community. Dissemination is an integral part of the assessment of the quality of a research. It highlights its educational value and may draw the larger public to the discipline itself. Inspired by this line of thought, when drawing up our project we decided to pay particular attention to the younger public. That is why we made references to cyberpunk. We think trans-disciplinarity does not apply to the scientific community only, but more broadly to communication in terms of expressive languages and of generational attitude. It can mix in the languages of cinema or comics, for example. The fist we see in this poster obviously has value in terms of social equality, here intended in its farthest-reaching, transversal usability. It is not a sign of racial struggle alone. To fight inequalities, we must take political responsibilities and the fist must be read from this perspective: not strictly or traditionally revolutionary, but an invitation to embrace wholeheartedly practices of activism. What also makes the image of the fist symbolic is its reference to Gould’s principle that resilience is determined by three essential features: diversity, variability, and redundance. Smith’s and Carlos’s gesture becomes essential not only for its political significance, but for its symbolic reclaiming of a right to diversity. If we want the city of the future to be resilient, then it will have to be diverse, variable, and redundant. Thanks to Heather Pringle’s research, we now know that whoever will plan a diverse, variable, and redundant city in the future will have to be diverse, variable, and redundant themselves – an interlinked, dynamic relationship. The gesture of the two African-American athletes in Mexico City speaks of the importance of diversity and the urgent need for commitment in this direction. By using this powerful, symbolic image, our project on the one hand recalls the typically Italian compact city, in some respects medieval, on the other hand refers to a kind of arthropod, symbol of nature. Architecture should therefore be born in the name of resilience, daughter of a pact with nature. We must tune into nature’s wavelength and we must remember that our best-by date surely precedes that of nature, which doesn’t care about our presence at all.

How is the architecture that is currently developing in Italy being told, or not being told, in the Pavilion?

From the point of view of architecture, Italy is a paradox. On one side, you have a massive use of zoning policies: territory is sliced up, city by city, in uniform areas of mandated use, which has destroyed large part of our architectural heritage, especially in suburban areas. On the other side, architecture is still quite diverse throughout the country, which staved off conformity in the country. Italy shows genotypes of intrinsically ecological cities, sometimes unconsciously so, if we are to follow the idea of exaptation, meaning there is no real difference between conscious and subconscious processes. I believe we should make architecture follow the results of Gould’s research in biology and investigate everything that is not the product of determinism. We should invest on buildings that are not made for a specific, one-and-only use case. I believe Italy can be the ideal country to experiment this. I firmly believe that at this moment, more than inventing some new architecture, we should work on classifying the existent and redesign everything that has been achieved over the last 200,000 years, as did biologists as they discovered man’s new place in the taxonomy. This would allow us architects to be more resolute in the dialectic between determinism and design: the marginal would become central, since it adds up to 80% of what exists, while what we have always considered central would become, so to speak, a “Newtonian minimal”, or marginal, since it represents a mere 20% of all architecture.

So, how would you define your Pavilion?

The Pavilion is, above all, a collective work that arises from my associative thought and follows the guidelines of diversity, variability, and redundancy to become enriched with the work of those I have called to help me. I can try and sum up the curatorial style of the Italian Pavilion with a quote of geneticist Ewan Birney, who once said: “The human genome is a jungle populated by odd creatures.” It is exactly the spirit I would like our project to have. By trying to understand genome, we thought we were going to see an absolutely rational structure, only to find out that it was just as diverse, variable, and redundant just as I would like it to be the resilient architecture we need. The Pavilion is meant to be a workshop to observe it.

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