VENEZIA NEWS - #251-252, May-June 2021

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EXHIBITIONS MUSEUMS

251-252 MAY-JUNE 2021

CONCERTS

venicecityguide

THEATRES FILMS&SERIES CLUBS

Mario De Biasi, Parigi, 1970

Mensile di cultura e spettacolo - n° 251-252 anno 25 - Maggio/Giugno 2021 spedizione in A.P. 45% art.2 comma 20/B - legge 662/96 - DCI-VE

FOOD&DRINKS

ENGLISH INSIDE € 4,50

How will we live together? BIENNALE ARCHITETTURA SPECIAL ISSUE


Sebastiano Girardi Studio Photo by Chong Lip Mun

Venice Design Biennial

Design as Self-Portrait ➀ SPARC* - Spazio Arte Contemporanea Campo Santo Stefano, San Marco 2828A

➁ SPUMA - Space for the Arts Fondamenta San Biagio, Giudecca 800R

Past Forward DESIGNERS FROM THE LAND OF VENICE ➂ Museo Archeologico Nazionale Piazza San Marco 17/52

Pretziada A SELF-PORTRAIT IN DESIGN ➃ Oratorio dei Crociferi, Campo dei Gesuiti, Cannaregio 4904

Walking on Water by JO COPE in collaboration with PIEDÀTERRE Live performance and installation ➄ T Fondaco dei Tedeschi, Ponte di Rialto Performance on the Terrace: May 21 → 22 all day long Installation on the 3rd floor: May 23 → June 27

www.venicedesignbiennial.org

3rd edition May 20 → June 27 Venice 2021



editoriale di Massimo Bran

25 ANNI E SEMBRA DOMANI

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996. Eravamo quattro amici al bar, sì. Letteralmente. Al cazzeggio, da freschi ex studentelli in un maggio veneziano in Campo Santa Margherita, già da tempo epicentro della vita studentesca e da pochi anni motore della prima nightlife veneziana, esplosa lì in un anno per niente banale, in quel 1989 dove tutto finiva ridefinendosi, in un clima emozionale che colorava tutto, più o meno illusoriamente, di nuovo. Gli anni ’80 avevano certo rappresentato il momento del riflusso, del richiudersi ciascuno nel proprio spazio individuale, ma al contempo avevano anche decretato l’affermazione impetuosa dell’urgenza di farsi leggeri, gai, una disposizione fisiologicamente antitetica all’ormai insostenibile ed esaurita pesantezza di un decennio e più di grandi passioni e tensioni politiche, sociali e culturali, finito nel delirio del piombo e del pattume ideologico. In quel decennio new wave Venezia era come sempre un’isola, difficilmente quindi omologabile alle altre terre circostanti. La città era già in piena erosione demografica e però presentava una popolazione studentesca amplissima e di pulsante presenza. Una popolazione di provenienza insieme regionale, nazionale ed internazionale, con migliaia e migliaia di studenti fuorisede affamati di vita, di relazioni, di conoscenza di altri mondi, culture, lingue. In una città senza uno straccio di bar aperto dopo le 21 (a parte i soliti, preziosi Paradiso Perduto, Ai Canottieri, Codroma e morta là…), in uno stato di coprifuoco ante litteram di fatto autoimposto, le case addensate di decine di universitari dalle puglie, dalle persie, dalle france, dalle germanie, dalle americhe divennero degli epicentri di energia vitale fittamente sparsi a macchia di leopardo tra i vari sestieri. Tradotto, feste, cene, incontri senza soluzione di continuità, in cui il di dentro esplodeva di vita, mentre il di fuori si assopiva ammorbato da uno stato crescente di mestizia e immalinconimento. I quattro amici al bar uscivano da quegli anni ’80 vissuti in interni elettricamente vitali con l’urgenza di riprendersi il di fuori, che paradossalmente proprio nel momento in cui l’onda dei fuorisede provenienti da ogni dove era già, ahimé, nella sua fase calante, per il proliferare di nuove sedi universitarie sorte nel frattempo in ogni media e piccola città dello stivale, stava dando segni di tumultuoso risveglio, con un proliferare di locali aperti in ogni sestiere dove non di rado si organizzavano feste e concerti. Erano gli anni in cui era esploso il reggae lagunare, erano gli anni in cui l’onda lunga della Pantera, che aveva chiuso gli ’80 con un recupero dello spazio pubblico da parte dei giovani del cosiddetto “disimpegno”, esercitava ancora il suo influsso attraverso esperienze vitali incubate nel suo alveo, vedi il progetto del Teatro Fondamenta Nuove, nato in quei mesi di occupazione allo IUAV, che porterà in laguna per un decennio e più le migliori sonorità urbane e contemporanee dell’universo mondo, facendo di Venezia quindi non solo una destinazione tradizionalmente museale, ma anche una possibilità in cui misurarsi con i linguaggi contemporanei in divenire. Erano gli anni in cui il neonato progetto Erasmus stava di fatto battezzando 2

una nuova generazione di europei, con studenti che migravano per un anno a consumare esperienze di vita fondamentali in altre città del Vecchio Continente, in un flusso continuo e vitale che più di qualsiasi proclama, legge, provvedimento determinerà le basi sostanziali del nostri farci Europa. E in quegli anni anche Venezia in quanto importante polo universitario subisce una coloratissima invasione di giovani da est, ovest, sud e nord del mondo, sprovincializzandosi ulteriormente dalle sue incrostazioni nostalgiche. Erano gli anni, infine, in cui per la prima volta la Biennale usciva dai recinti dorati dell’Arsenale e dei Giardini “permettendo” ad altre sue mostre collaterali di insediarsi in palazzi e gallerie in città, producendo un’ulteriore svolta epocale nel suo secolare percorso, divenendo ciò che oggi è più che mai, ossia l’epicentro mondiale del contemporaneo che coinvolge per metà anno tutta Venezia. Ebbene, erano quegli anni lì, 25 anni fa, un giubileo praticamente, in cui tra uno spritz e l’altro a bighellonare guardando le calli che si rianimavano con altri colori, lingue, look che quei quattro amici al bar incominciano a pensare che questo processo in divenire aperto, internazionale, ibrido dovesse in qualche modo essere restituito anche in immagini e parole, cercando di disegnare un quadro in continuo divenire in cui questa vita consumata in strada, nei locali, nei teatri potesse essere raccontata in tutte le sue espressioni, declinazioni, proposte. Time Out aveva già da anni segnato la strada, in una Londra che però era clamorosamente più distante da noi di quanto possiamo anche solo immaginare ora, quando ce la troviamo di fatto dietro l’angolo. Quel magazine metropolitano rappresentava un’ispirazione viva di comunicazione pragmatica, utile e insieme cool, di tendenza. Insomma, c’era voglia di incidere in quella direzione anche qui, sì, di provare a scrivere una nuova pagina di questa Venezia impigrita eppure scossa da correnti nuove. Ricordo ancora la scintilla, quel pomeriggio della prima metà di maggio 1996, accendersi nei nostri occhi improvvisa: facciamoci il nostro «Time Out»! E in un amen così fu. Senza un progetto, senza un soggetto giuridico, senza niente, se non l’entusiasmo un po’ naif e assai elettrico che informa sempre le nuove avventure della tarda gioventù, partimmo di corsa verso la costruzione di questo primo foglio ingenuo, eppure già con un suo spiccato, riconoscibile tratto identitario: essere un servizio per chi la città la vuole vivere nelle sue autenticità culturali, selezionando il meglio per davvero. «Venezia News – mensile di cultura, spettacolo e tempo libero tra Venezia, Mestre e Marghera – numero uscito in occasione della Primavera 1996». Così recitava la testata del primo, storico numero. È passato un quarto di secolo. Una vita. Chi ci segue da sempre o quasi sa cosa siamo diventati, come siamo cambiati nel tempo, come abbiamo ridefinito e costantemente riattualizzato i nostri contenuti, la nostra immagine, i nostri prodotti editoriali nel loro insieme. Sempre tenacemente al servizio della città, della sua migliore immagine e


Maggio 1996

Luglio 1996

Febbraio 1997

Maggio 2001

EXHIBITIONS MUSEUMS

251-252 MAY-JUNE 2021

CONCERTS

venicecityguide

SHOWS CINEMA CLUBS

Mario De Biasi, Parigi, 1970

Giugno 2001

Mensile di cultura e spettacolo - n° 251 anno 25 - Marzo/Aprile 2021 spedizione in A.P. 45% art.2 comma 20/B - legge 662/96 - DCI-VE

FOOD&DRINKS...

disposizione, quella meno banale e trita e soffocante, quella che dà del tu al presente urbano in linea con le più vitali capitali culturali del mondo, tra le quali ha il diritto e soprattutto il dovere di stare. Un venticinquesimo compleanno, quindi, che non poteva cadere in un anno banale, no. Ahinoi questo non lo è stato per niente, proprio per niente. Un anno in cui ci siamo chiesti quotidianamente come avremmo fatto a resistere, soprattutto se ce l’avremmo fatta a resistere. Un periodo durissimo, provante, che ci ha scosso tutti dentro e fuori. Come saprete ci siamo presi una pausa di qualche mese per cause di forza maggiore (la città completamente ferma senza eventi ed attività culturali, il nostro pane); un periodo insieme di preoccupazione ma anche di tensione viva in chiave di ridefinizione del nostro futuro. Ebbene, eccoci qui. «Venezia News» rilancia e scommette a muso duro e sorridente sul futuro, presentandosi con un restyling radicale che ridefinisce immagine e contenuti del magazine in un nuovo formato, con una nuova carta e una nuova rilegatura. L’inizio tranchant di una rivoluzione che ci accompagnerà per almeno un anno intero, fino alla Biennale Arte 2022 di sicuro, e che coinvolgerà anche tutto il nostro comparto web. Stiamo infatti costruendo il progetto del nostro nuovo sito, che come il magazine che avete tra le mani sarà sempre più concentrato sulla selezione della qualità dei contenuti da proporre a un pubblico come il nostro che è davvero, mi si perdoni l’abusatissimo termine, glocal. Un antipasto potrete già assaggiarlo con il sito ad hoc che abbiamo creato per TheBAG_BiennaleArchitetturaGuide (thebag2021.venezianews.it), nostra storica guida alla Biennale che trovate allegata a questo nuovo numero in edicola, che restituirà il meglio ma proprio il meglio di questa ripartenza che vuole davvero essere anche una rinascita. Insomma, 25 anni andavano bagnati con il top della riserva in cantina, per un brindisi al domani senza troppa retorica ma con inalterata passione, sempre guidati da una visione aperta verso il mondo, che da noi è sempre stato, e presto di nuovo sarà, di casa. Tra le centinaia di editoriali che in questi anni ho scritto per aprire i 250 numeri (!!) di Venezia News sin qui pubblicati questo è sicuramente stato per me il più difficile da costruire. Perché non sopporto le celebrazioni, i peana, i riti nostalgici autoreferenziali (per quanto adori i coccodrilli sui quotidiani, ma quelli degli altri…; e poi, mica siamo morti!!!). Non sapevo davvero come iniziare. Ho scelto forse la strada apparentemente più banale, prevedibile, quella di ritornare all’atto fondativo, il che potrebbe rappresentare una grossolana smentita a quanto appena detto circa l’insofferenza per le narrazioni nostalgiche. Se così appare, me ne scuso, e però l’intento era profondamente altro, ossia ritornare alla radice per misurare la tenuta di un’identità, la sua servibilità presente e futura, il fatto di poter dimostrare che essere non tanto orgogliosi, ma quanto piuttosto convinti del valore della propria radice non significhi star lì a rimirarla e venerarla, bensì disporvisi con un’urgenza perennemente viva a rimodellarla, riattualizzarla, rinvigorirla, senza per questo disconoscerne la sua costitutiva, originaria natura. È quello che ci piacerebbe fosse Venezia in tutte le sue espressioni, ossia forte delle sue radici, ma capace grazie ad esse di far germogliare sempre nuovi fiori. Il nostro lavoro, la nostra mission come si direbbe oggi, è quella di contribuire nel nostro piccolo ad irrigare quotidianamente le radici profonde di queste piante. PS: un grazie infinito, di cuore, per niente rituale alla redazione e all’intera nostra struttura per la passione e la…resilienza, già!, con cui sono rimasti fedeli a questo media indipendente. Senza questo impegno, questo apporto creativo ed operativo, davvero il futuro non saremmo ancora qui incessantemente a poterlo scrivere e riscrivere.

ENGLISH INSIDE € 3,00

How will we live together?

Maggio 2021

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aw dr

lov e

l’architettura di sauerbruch hutton 3.9.21– 9.1.22

d l i u b

M9 - Museo del ’900 via Giovanni Pascoli 11 Venezia Mestre M9museum.it

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may-june2021 CONTENTS

zoom (pag. 10) 17. Biennale Architettura | Intervista Hashim Sarkis | National

Participations | Collateral Events | Not Only Biennale | Intervista Alessandro Melis, Padiglione Italia incontro (pag. 30) Michele Bugliesi, Fondazione di Venezia | M9 Museo del 900’ tracce (pag. 38) Francesco Bruni, Luna Rossa arte (pag. 44) Fondazione dell’Albero d’Oro | Anish Kapoor Foundation | Berggruen Institute | Georg Baselitz. Archinto | Peter Fischli, Fondazione Prada | Venezia panoramica, Fondazione Querini Stampalia | Bruce Nauman | Alice in Doomedland | Baselitz. Vedova accendi la luce | Collezione Peggy Guggenheim | Ocean Space | L’Arca di vetro di Pierre Rosenberg | Massimo Campigli e gli etruschi | Galleries | Intervista Sergio Risaliti, Museo Novecento Firenze | Intervista Daniele Cavalli, Duskmann | Giambattista Tiepolo musica (pag. 64) Uri Cane | Moog Summer Camp | 65. Biennale Musica preview | Memorie di Atlantide classical (pag. 70) Festival Palazzetto Bru Zane | Intervista Alexandre Dratwicki | Intervista Fortunato Ortombina, Teatro La Fenice theatro (pag. 76) 49. Biennale Teatro preview | Teatro Stabile del Veneto | Danza in Rete | Festival delle 9 Arti cinema (pag. 82) Intervista Tatti Sanguineti, Sonego 100 | Roberto Benigni | Supervisioni | Far East Film Festival | Intervista Giorgio Tacchia, CHILI etcc... (pag. 92) Intervista Alberto Toso Fei | Intervista Gian Mario Villalta, PordenoneLegge | Parole menu (pag. 98) Intervista Ermenegildo Giusti | Venezia, una storia commestibile | Food&Market by Nadia Frisina citydiary (pag. 109) Agende | Mostre a Venezia | Urban Trekking | Books | Screenings | Reservations | Design&More

Mario De Biasi, Parigi, 1970

MAY JUNE

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17. BIENNALE ARCHITETTURA

The real start of Venice cultural recovery. The knowledge industry is asking this Biennale to mark time in progress. Sarkis responds giving this edition a title which is almost prophetic as it was formulated before the pandemic disaster: How will we live together? 114 architectural firms, 61 National Participations, 17 Collateral Events are called to respond this question. zoom p. 10

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ALBERO D’ORO FOUNDATION

A new Foundation in the city is born. Palazzo Grimani Marcello comes back to life by re-discovering the history of the illustrious families who lived in it as well as by carrying out a study of its dispersed art collections. This is the result of an accurate research still underway and a future exhibition project. arte p. 44


COVER STORY

«Perché dovunque s’incontra la vita s’incontra la bellezza. Basta guardarsi attorno per vederla...». Mario De Biasi Ampia retrospettiva dedicata a uno dei più grandi fotografi italiani, instancabile narratore del mondo. La mostra, attraverso 256 fotografie, metà delle quali inedite e vintage, celebra il talento di Mario De Biasi, ripercorrendone l’intera produzione, dagli esordi fino agli ultimi lavori: il fotoamatore neorealista, il fotoreporter di Epoca, il testimone della storia, il ritrattista di celebrità, l’esploratore di mondi vicini e lontani, l’artista visuale, l’interprete di madre natura, il disegnatore compulsivo e creativo. L’intento è di restituire il senso di universalità e il taglio antropologico della ricerca di Mario De Biasi, che ritrova in un semplice gesto quotidiano un forte senso di comunanza tra culture lontane e diverse. Frutto di un’immensa ricerca nell’archivio De Biasi, la mostra curata da Enrica Viganò espone per la prima volta l’intera sequenza della fotografia più celebre e probabilmente più amata del fotografo: una splendida Moira Orfei vestita di bianco passeggia per il centro di Milano, attirando lo sguardo di un gruppo di uomini. È lo scatto Gli Italiani si voltano, realizzato nel 1954 per il settimanale di fotoromanzi Bolero Film e scelta da Germano Celant come immagine guida della sua mostra al Guggenheim Museum di New York, The Italian Metamorphosis 1943-1968. A retrospective on one of the greatest Italian photographers, an indefatigable narrator of the world. 256 pictures, about half of them never published before, celebrate Mario De Biasi’s talent, retracing his career, from his debut to his latest works. Amateur neo-realist photographer, photo reporter for magazine Epoca, witness of history, celebrities’ photographer, explorer of near and far-away worlds, visual artist, interpreter of mother nature, compulsive and creative illustrator. Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003 13 maggio-9 gennaio 2022 Casa dei Tre Oci, Giudecca www.treoci.org

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FONDAZIONE PRADA

“A kaleidoscope of disavowed gestures”, in the words of Peter Fischli, the project explores some breaking points in the history of Italian art over the last 150 years, as new social and cultural values came up.T en sections and over 110 pieces by 80+ artists, Stop Painting offers multiple narratives, all told by Fischli in person. arte p. 46

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URI CAINE

A great hybridist of genres and styles, the Philadelphia pianist arrives at the Squero to resume a speech which was interrupted when the unthinkable became a reality. His concert will focus on his single session album Callithump, fully respecting the order of the pieces. musica p. 64

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FROM ROME WITH LOVE

Palazzetto Bru Zane spring festival brings to Venice an era, the 19th century, and a place, Villa Medici in Rome, which mark a milestone in the career of many French musicians. D’Ollone, Pierné, Debussy and other French composers are waiting for you at San Polo where Palazzetto Bru Zane finally opens its doors to the public. classical p. 70

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PALAZZO MORA PALAZZO BEMBO GIARDINI MARINARESSA OPEN DAILY 10 AM - 6 P M CLOSED ON TUESDAY FREE ENTRY

22.05 – 21.11

VENICE 2021 ARCHITECTURE BIENNIAL WWW.ECC-ITALY.EU WWW.TIMESPACEEXISTENCE.COM

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FB @EUROPEANCULTURALCENTRE IG  @ECC_ITALY


AALTO UNIVERSITY, FINLAND

EDWIN HAMILTON

MIAN WEI

& ARCHITECTURE INTELLIGENCE RESEARCH LAB, SINGAPORE

EEVA-LIISA PELKONEN

MICHIHIRO MATSUO

ABU DHABI UNIVERSITY - NADIA MOUNAJJED, APOSTOLOS KYRIAZIS

EQUATORIAL UTOPIA: 50 YEARS OF

MIGUEL FRANCO BOTTICELLI

A. COLLECTIVE

VISIONARY ARCHITECTURE IN SINGAPORE

MILT FRIEDLY

ADPPRENTICE + LEAP

ERIN MOORE - FLOAT

MIRJANA LOZANOVSKA

ADRIANA TORRES TOPAGA

ESTUDIO RAMOS

MIRKO ZRINŠĆAK

AKIKO SATO

ETH ZURICH - BLOCK RESEARCH GROUP (BRG),

MIT SCHOOL OF ARCHITECTURE & PLANNING

ALPEX ARCHITECTURE

DEPARTMENT OF ENVIRONMENT, FORESTRY AND FISHERIES

- THE LEVENTHAL CENTER FOR ADVANCED URBANISM

AMALGAM STUDIO

REPUBLIC OF SOUTH AFRICA & NONCRETE PTY

MONIKA CASUTT

ANAHUAC UNIVERSITY MEXICO CITY

ETH ZURICH - BLOCK RESEARCH GROUP

MYEFSKI ARCHITECTS

ANDREAS RIMPEL

& ZAHA HADID ARCHITECTS - COMPUTATION AND DESIGN GROUP

NANO ARCHITECTURE | INTERIORS

ANDRÉE VALLEY

WITH INCREMENTAL3D AND HOLCIM

NEW YORK INSTITUTE OF TECHNOLOGY

ANDREW MICHLER

ETH ZURICH - DIGITAL BUILDING TECHNOLOGIES (DBT)

SCHOOL OF ARCHITECTURE AND DESIGN

ANDREY BOKOV

FABIO BASCETTA

NIC LEHOUX

ANNE FLØCHE

FEI CHE & WEIHAN LI - BEIJING INSTITUTE OF FASHION TECHNOLOGY

NOTAN OFFICE

ANTHONY HEYWOOD

FELIPE GONZALEZ ARZAC

NOTE - ARCHITECTURE GALLERY

APT ARCHITECTURE WITH M. PLOTTEL

FORTUNEN ARKITEKTUR AS

NYICAS - NEW YORK INTERNATIONAL CONTEMPORARY ART SOCIETY

ARCHCOOP ARCHITECTURAL STUDIO

FRANZ BRUECK

OGIA - GI SON

ARCHITECTURAL DEMOCRACY

FRONTOFFICE TOKYO

O(U)R - OFFICE OF (UN)CERTAINTY RESEARCH

ARD BODEWES

GEORGES KACHAAMY, PH.D.

PATRICIA MCKENNA

ARIEL UNIVERSITY - SCHOOL OF ARCHITECTURE,

GHERARDI ARCHITETTI

PATRICK AROTCHAREN ARCHITECTURE STUDIO

UNIVERSITA DEGLI STUDI DI FIRENZE - DIDA

GRADE NEW YORK

PAUL CHAMBERLAIN LAB4LIVING

& ACADEMIA DI BELLE ARTI DI FIRENZE

GREENSKINS LAB - UNIVERSITY OF BRITISH COLUMBIA

PAUL EIS

ARKITEKTVÆRELSET

HAPPYCHEAP ARCHITECTURE

PETER C. STITT

ASSOCIAZIONE ARCHITETTI ARTISTI

HARVARD UNIVERSITY GRADUATE SCHOOL OF DESIGN

PETRA KEMPF

ATELIER ONOKO

& REAL - RESPONSIVE ENVIRONMENTS & ARTIFACTS LAB

PONTIFICIA UNIVERSIDAD JAVERIANA DE BOGOTÀ

ATP ARCHITECTS ENGINEERS

HELENE HØYER MIKKELSEN

& POLITECNICO DI TORINO

BALKRISHNA DOSHI

HELENE JACUBOWITZ

PONTIFICIA UNIVERSIDAD CATÓLICA DEL PERÚ

BANGKOK TOKYO ARCHITECTURE

HENRIQUEZ PARTNERS ARCHITECTS

& UNIVERSITY COLLEGE LONDON

BANZ + RIECKS ARCHITEKTEN

HERBERT W.H. HUNDRICH

PORTERFANNA ARCHITECTURE

BARBARA GRYGUTIS

HIDEMI NISHIDA

PROJECT-REALIZATION ARCHITECTURAL STUDIO

BAUDOKU BERLIN - MIRIAM OTTE + LIDIA TIRRI

HOFRICHTER-RITTER ARCHITEKTEN - ÖWG WOHNBAU

QUN WEN - AOE

BAUM

HUAZHONG UNIVERSITY OF SCIENCE AND TECHNOLOGY

RAIL - THINK! ARCHITECTURE AND DESIGN

BETHANY SPRINGER

IIA ATELIER

RESEARCH GROUP OF KNOWLEDGE VISUALIZATION

BILL PRICE

INVIVIA

- ZURICH UNIVERSITY OF THE ARTS

BJØRNÅDAL ARKITEKTSTUDIO

ISTUDIO ARCHITECTS & VIRGINIA TECH WAAC

RICARDO PALMA UNIVERSITY - ARCHITECTURE SCHOOL

BOIR

IVY DESIGN ASSOCIATES

ROBIN DONALDSON, AIA & BRUCE HEAVIN

BRYANOJI DESIGN STUDIO

JAMES BERNARDO CINQUEMANI

ROLF BERTE

BUNQ ARCHITECTES

JIM NICKEL

ROMAN IZQUIERDO BOULDSTRIDGE

BÜRO FÜR BAUFORM

JJRR/ARQUITECTURA

ROOI DESIGN AND RESEARCH

CAPLES JEFFERSON ARCHITECTS

JOCELYN FROIMOVICH & JOHANNA MUSZBEK

ROYAL INSTITUTE OF BRITISH ARCHITECTS

CASPAR LAM & YUJUNE PARK - SYNOPTIC OFFICE

JOE OSAE-ADDO - ARCHIAFRIKA PAVILLION

RUTA KRAU

CATCH 5

JOHN MARX, AIA

RWTH AACHEN UNIVERSITY - DEPARTMENT OF URBAN DESIGN RYOHEI TANAKA - G ARCHITECTS STUDIO SABAH SHAWKAT SAPHIRA & VENTURA ART | DESIGN | ARCHITECTURE SBGA | BLENGINI GHIRARDELLI SCAAA SCULP[IT] ARCHITECTS & JANSEN STEEL SYSTEMS SEVERINO ALFONSO AND LOUKIA TSAFOULIA - THOMAS JEFFERSON UNIVERSITY SIM ATELIERS SOFIA VERZBOLOVSKIS SPATIAL FUTURES LAB - GEORGIA INSTITUTE OF TECHNOLOGY STEPHEN SPARTANA STUDIO SKLIM SWINBURNE UNIVERSITY OF TECHNOLOGY TECHNICAL UNIVERSITY DARMSTADT TECNOLÓGICO DE MONTERREY MÉXICO TERRY MEYER TESTA ASSOCIATES

CELLULE STUDIO

JULIAN ABRAMS

CHIASMA FACTORY INC. SHINGO TSUJI

JULIA RUTHERFOORD ARCHITECT

CHRISTINE CORDAY

JÚLIO CASEIRO ARQUITECTURA

CHRISTOPH HESSE ARCHITECTS

KAMAKURA - SEKKEI KOBO

COBURG UNIVERSITY OF APPLIED SCIENCES AND ARTS

KAREN MCCOY

COLUMBIA UNIVERSITY & THE BERLAGE

KATHERINE JACKSON

CORNELIA HAMMANS

KATHRYN DEAN - DEAN/WOLF ARCHITECTS

COUNTERSPACE

KEELY MACAROW, NEAL HASLEM & MARCUS KNUTAGÅRD

CRISTINA PARREÑO ALONSO

KENG-FU LO - CHAIN10

CRU! ARCHITECTS

KIRSTINE MENGEL

DAG JENSSEN

KOREA NATIONAL UNIVERSITY OF ARTS

DAMARIS BETANCOURT

KRYSTEL ANN ART GALLERY

DANA ARIELI

LASALLE COLLEGE OF THE ARTS

DANIEL WINTERICH

LEBANESE AMERICAN UNIVERSITY

DAVID ANDRÉEN & ANA GOIDEA

LESLEY RICHMOND

DAVID BOOTH

LOD - LALIVING AND OPR DESIGN

DAVID JACOBSON

LONDON SOUTH BANK UNIVERSITY

DAVID YEPEZ STUDIO

LOUISE BRAVERMAN ARCHITECT

DAVIS MCCARTY

LOVE ARCHITECTURE AND URBANISM

DELFT UNIVERSITY OF TECHNOLOGY

LUCILA AGUILAR ARQUITECTOS

DEWITT GODFREY

MAGDA MOSTAFA

DOUG EDMUNDS

MAHL GEBHARD KONZEPTE

DOUGLAS TAUSIK RYDER

MAIS AL AZAB

DXA STUDIO

MAKER MILE

E+I STUDIO

MÁRIO MARTINS ATELIER

EARTHASIA DESIGN GROUP (EADG)

MASAKI KOMATSU

ÉCOLE NATIONALE SUPÉRIEURE D’ARCHITECTURE

MAXWELL MACKENZIE

ET DE PAYSAGE DE LILLE

MELIKE ALTINISIK ARCHITECTS | MAA

TETRO ARQUITETURA THE DIGIT GROUP, INC. (TDG) THE SCARCITY AND CREATIVITY STUDIO TONO MIRAI ARCHITECTS TOSHIHIKO SUZUKI SQOOL TOULOUKIAN TOULOUKIAN INC T SAKHI - TESSA & TARA SAKHI UNIVERSIDAD CATÓLICA DE SANTIAGO DE GUAYAQUIL UNIVERSITY AT BUFFALO - THE STATE UNIVERSITY OF NEW YORK UNIVERSITY OF ARKANSAS FAY JONES - SCHOOL OF ARCHITECTURE + DESIGN UNIVERSITY OF GUELPH UNIVERSITY OF KENTUCKY - COLLEGE OF DESIGN UNIVERSITY OF PENNSYLVANIA URBANSOUP ARCHITECTS AND URBAN DESIGNERS URBAN TRANSFORMATION PROGRAM COLOMBIA VCUARTS QATAR MFA IN DESIGN VERSTAS ARCHITECTS VICTOR ELIAS WALTER HUNZIKER WANTIAN CUI WATERSHED URBANISM WEARABLE X WHIPSAW WINKING · FROH ARCHITEKTEN YBGSNA YIORGOS KORDAKIS

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zoom

HOW WILL WE LIVE TOGETHER?

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L’architettura è, tra tutti i linguaggi espressivi, nelle prime posizioni per capacità concreta di incidere in scelte strategiche e molto legate ai nostri modi di vivere. Non la considero un’arte applicata, ma una disciplina capace di utilizzare tutte le altre espressioni artistiche nonché gli sviluppi della tecnologia in una sintesi che per me è forma d’arte Roberto Cicutto Presidente La Biennale di Venezia


17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITETTURA

LEONI D’ORO LINA BO BARDI

Leone d’Oro alla memoria «La sua carriera di progettista, editor, curatrice e attivista ci ricorda il ruolo dell’architetto come coordinatore (convener) nonché, aspetto importante, come creatore di visioni collettive. Lina Bo Bardi incarna inoltre la tenacia dell’architetto in tempi difficili, siano essi caratterizzati da guerre, conflitti politici o immigrazione e la sua capacità di conservare creatività, generosità e ottimismo in ogni circostanza».

Lina Bo Bardi, MASP building, São Paulo, Brasile - Photo ©Leonardo Finotti

“Her career as a designer, editor, curator, and activist reminds us of the role of the architect as convener and importantly, as the builder of collective visions. Lina Bo Bardi also exemplifies the perseverance of the architect in difficult times whether wars, political strife, or immigration, and her ability to remain creative, generous, and optimistic throughout.”

Rafael Moneo, Kursaal, San Sebastián, Spagna - © M. Moran

Hashim Sarkis

di Marisa Santin

L

a domanda posta inizialmente

dal curatore Hashim Sarkis per la sua Biennale Architettura appare oggi più che mai lungimirante, addirittura profetica: Come vivremo insieme? Sarà una Biennale Architettura ‘espansa’, che raccoglierà le sedimentazioni di quest’anno interrotto per aprirsi ancora di più verso una condivisione delle esperienze ripensata e rivista. Rimane la proposta originaria di Sarkis nelle sue linee generali, con la divisione in cinque grandi stanze tematiche che si sviluppano, tra i Giardini e l’Arsenale, su un concetto di scale progressive: esseri umani, nuclei abitativi, comunità, nazioni e, infine, il mondo, inteso sia come globalità sia come Pianeta. 112 partecipanti alla Mostra principale (architetti, designer, artisti, ricercatori), 61 nazioni e 17 eventi collaterali: La Biennale di Venezia con coraggio, ma anche con grandissimo senso di responsabilità nell’applicazione delle norme anti Covid, non smette di credere nell’insostituibilità della presenza dal vivo, confermandosi forza trainante e ispiratrice dell’intero sistema dei grandi eventi culturali.

T

he theme initially proposed

by curator Hashim Sarkis for his Architecture Biennale appears to be far-sighted, even prophetic today more than ever: How will we live together? An ‘expanded’ edition, inheriting the sedimentations of this interrupted year to open up and embrace new ways in which we can experience, share and inspire culture. Sarkis’ original proposal remains unaltered in its general lines, developed through five large thematic areas (at Giardini and Arsenale) on a concept of progressive scales: human beings, households, communities, nations and, finally, the world. 112 participants in the main exhibition (architects, designers, artists, researchers), 61 nations and 17 collateral events: The Venice Biennale, courageously but still with a great sense of responsibility in the application of anti-Covid safety measures, never gives up believing in the importance of being present.

17. Mostra Internazionale di Architettura 22 maggio-21 novembre Giardini, Arsenale e varie sedi in città, Venezia

RAFAEL MONEO

Leone d’Oro alla carriera «Rafael Moneo è uno degli architetti più innovatori della sua generazione. […] Nell’arco della lunga carriera ha conservato la sua abilità poetica, rammentandoci la capacità propria della forma architettonica di esprimere, plasmare, ma anche di perdurare. Ha inoltre dimostrato un impegno costante nei confronti di un’architettura intesa come atto del costruire». “Rafael Moneo is one of the most transformative architects of his generation. […] Throughout his long career, Moneo has maintained a poetic prowess, reminding us of the powers of architectural form to express, shape but also to endure. He has also been tenaciously committed to architecture as an act of building.”

Hashim Sarkis

Cerimonia di premiazione Sabato 22 maggio Padiglione del Libro, Giardini

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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA CURATORE

La scena del Mondo Intervista a Hashim Sarkis Ciò che lo rende una figura originale nel panorama architettonico internazionale è la sua duplice identità, libanese e americana, e la sua duplicità professionale, nell’ambito dell’architettura e dell’accademia. Oltre all’attività di architetto, Hashim Sarkis ha infatti all’attivo un lungo e prestigioso percorso di ricercatore e docente a Beirut e in alcune fra le più importanti Università americane. Nel suo pensiero le questioni dell’architettura sono sempre collegate sensibilmente ai temi sociali e alle urgenze che la società, nelle sue diverse e contrastanti espressioni, pone. Sono queste le sfide che, secondo Sarkis, il mondo nella sua totalità lancia all’architettura; sfide affrontate nel suo progetto How will we live together? allo scopo di immaginare soluzioni adeguate a risolvere le difficoltà poste dalle questioni globali. In che misura e in quali direzioni la sua visione aperta e multidisciplinare del fare architettura informa questa ‘sua’ Biennale? Il tema della Biennale e tutto il lavoro esposto traggono ispirazione proprio dal “mondo” in senso stretto del termine, in quanto identificano una situazione o un insieme di situazioni globali e interrogano gli architetti di tutto il mondo. In questo senso una Biennale internazionale si riferisce sempre alla condizione del mondo e a come viene vista attraverso la lente dell’architettura. Il mondo come scala di indagine architettonica e come terreno maturo per l’applicazione dell’immaginario architettonico trae ispirazione dagli esempi storici esposti nel libro The World as an Architectural Project che ho scritto in collaborazione con Roi Salgueiro Barrio e Gabriel Kozlowski, nonché dalla ricerca che ho svolto in passato su questo stesso argomento. Direi che lo stesso vale anche per Across Borders, una delle cinque scale dell’esposizione, che guarda proprio al rapporto tra architettura e geografia, un mio interesse di lunga data. E qui voglio rendere omaggio al compianto Vittorio Gregotti, curatore della prima Biennale che ha coinvolto l’architettura per la prima volta in modo diretto e significativo, e alla sua ricerca sulla geografia e la territorialità. Ma dopotutto, anche se alcuni dei temi traggo- no ispirazione dalla mia ricerca e pratica, come avviene con tutti i curatori, ciò non toglie che il lavoro dei partecipanti e dei curatori nazionali porti il tema in direzioni anche molto diverse che non possono che determinare ad un vitale arricchimento. Il Teatro del Mondo di Aldo Rossi è un faro che illumina ancora oggi la sua visione dell’architettura? Mi piace il vostro uso del termine “faro”. La risposta a questa domanda verrà data alla Biennale sotto forma di una piccola sorpresa... Uno dei tratti che connota l’identità di How will we live together? è questa attenzione verso un’idea di progettazione architettonica ai confini dei linguaggi, interpretata da gruppi di lavoro aperti. Si spiega così la selezione di molti collettivi di progettazione nella lista dei partecipanti? Gli architetti hanno sempre lavorato collettivamente. Solo che questa modalità diffusa di progettare connettendosi e connettendo altri linguaggi non siamo mai stati così bravi a restituirla nella sua nodale essenza, il che ha determinato una certa sottovalutazione di quello che è il grande punto di forza dell’architettura intesa come arte che 12

riunisce le altre arti e le altre aree di competenza. Così come si finisce per sottovalutare l’importanza del design come forma di sintesi. La crescente complessità dei progetti architettonici riuscirà a rafforzare il ruolo dell’architettura intesa come professione solo se rafforzeremo la nostra funzione di orchestrare, coordinare, generalizzare, sintetizzare, nonché il nostro ruolo di autori. Il Leone a Lina Bo Bardi, al netto del valore assoluto del riconoscimento, ci piace anche leggerlo come il segno di una progressiva affermazione della rappresentanza femminile nel mondo dell’architettura. Lina Bo Bardi merita tutto il riconoscimento che le viene dato e il Leone d’Oro Speciale alla Memoria viene a sommarsi ai riconoscimenti che ha ricevuto e alla visibilità che il suo lavoro ha ottenuto negli ultimi anni. Riconosco l’importanza del ruolo svolto dalla Fondazione Bo Bardi e da diversi storici e curatori nel nobilitare il suo lavoro, ma Lina Bo Bardi merita ancora di più. Non dobbiamo dimenticare che era anche una donna in un mondo maschile estremamente ostile, per cui merita senz’altro un riconoscimento anche per questo. Abbiamo ancora molta strada da fare prima che la professione possa dare più spazio alle donne e alle minoranze. Mi auguro che questa Biennale ci faccia compiere un passo in avanti in questa direzione. Quanto può contare oggi la materialità nell’architettura alla luce dell’accelerazione dei processi innovativi che sempre più informano il terreno della progettazione? L’architettura non può sottrarsi alla materialità. Anche gli architetti che cercano le espressioni più astratte e meno tangibili devono lavorare moltissimo con i materiali per nascondere la loro materialità. Le tecnologie digitali hanno in qualche modo permesso agli architetti di esplorare ed utilizzare la materialità in modo innovativo ampliando la tavolozza dell’architetto. Ci hanno anche permesso di affrontare in modo più efficiente ed efficace la complessità della costruzione. Ma non ci hanno in alcun modo allontanato dalla materialità, elemento irriducibile della nostra professione. Cosa ci siamo persi con la mancata costruzione dell’Ospedale di Venezia progettato da Le Corbusier? Mi fate rivivere i bei ricordi di un libro che ho pubblicato circa vent’anni fa su un edificio che ammiro da quando ero uno studente di architettura. Questa pubblicazione faceva parte di CASE, una serie di volumi che guardava ai progetti architettonici da una serie di angolazioni diverse: storia, design, tecnologia, paesaggio, urbanistica, ambiente, processo. In questo senso il tema della Biennale porta avanti alcune di queste intenzioni. Quell’edificio rappresenta molte cose anche se non è stato mai realizzato, ma soprattutto rappresenta il rispetto per Venezia da parte di un architetto piuttosto irrispettoso come Le Corbusier. Come immagina il futuro di questa città? Cosa ci aiuterà a migliorare il vivere insieme a Venezia? Negli ultimi anni, con le crescenti minacce poste dall’innalzamento del livello del mare, da un turismo di massa soffocante e dalla pandemia, si è percepita una sensibilizzazione a livello mondiale verso Venezia intesa come punto convergente di una serie di crisi globali e si avverte anche che il mondo intero ha iniziato a stringersi attorno a Venezia per salvarne la bellezza. Sarà quindi la sua bellezza a salvare il mondo.


Photo Jacopo Salvi, Courtesy La Biennale di Venezia

Staging the World Interview with Hashim Sarkis Hashim Sarkis represents an original identity in the international architectural scene. The curator of the Biennale Architettura is not only an architect but he has as well a long and renown activity as a researcher and a lecturer between Beirut and some of the most prestigious American Universities. His originality lies in his dual identity, Lebanese and American, as well as in his dual profession both in the architecture and in the academic fields. The questions of architecture in his thought are always sensibly linked to social issues and to urgent social problems. According to him this is the challenge architecture has to meet. This is as well at the base of his own project, in order to imagine solutions to the difficulties coming from global issues. To what extent and in what directions does your open and multidisciplinary vision of making architecture inform ‘your’ Biennale? The Biennale theme and the work exhibited truly draw from the world literally, in the sense that it identifies a global situation or set of situations and asks architects from around the world. In that sense an international biennale is always about the state of the world and how it is seen through the lens of architecture. The world as a scale of architectural inquiry and as a ripe ground for the application of the architecture imaginary does draw inspiration from the historical examples in The World as an Architectural Project coauthored with Roi Salgueiro Barrio and Gabriel Kozlowski and the research about this topic that I have done in the past. I would also say so is the scale of Across Borders which looks at the relationship between architecture and geography, a longtime interest of mine and here I want to pay tribute to the late Vittorio Gregotti, the curator of the first biennale that involved architecture in a meaningful way and his own research on geography and territoriality. But ultimately, if some of the theming draws from my research and practice, as it does with all curators, I will add that the work of the participants and the national curators takes the theme in very different and very enriching directions. Is Aldo Rossi’s Teatro del Mondo a beacon that still brightens up your vision of architecture? I like your use of the term beacon. The answer to this question is in the form of a little surprise at the Biennale. One of the traits of the identity of How will we live together? is a particular attention to an idea of architectural design at the borders of languages, interpreted by open working

groups. Does this explain the selection of many collective design groups in the list of participants? Architects have always worked collectively. It is just that we have not always expressed it. By not doing that, we miss out on a major strength of architecture as an art that brings the other arts and areas of expertise together. It also misses out on highlighting design as a form of synthesis. The increasing complexity of architectural projects can only add to the strength of architecture as a profession if we strengthen our role as inclusive orchestrators, conveners, generalists, synthesizers, as well as authors. We like to see in the Special Lion awarded to Lina Bo Bardi, apart from its absolute value, the sign of a progressive affirmation of women’s representation in the world of architecture. Lina Bo Bardi deserves all the recognition she can get and the Special Golden Lion in memoriam is only adding to the accolades that she has been receiving and to the visibility that her work has gained over the past few years. I acknowledge the role of the Bo Bardi Foundation, and several historians and curators who have helped elevate her work. She deserves more. She was also a woman in a tough men’s world and for that she also deserves recognition. We have a long way to go before the profession is more inclusive of women and of minorities. I hope that this Biennale will take us a step forward in the right direction. How important can materiality be in architecture today considering the speeding up of innovative design processes? Architecture cannot escape materiality. Even the architects who seek the most abstract and textureless of expressions have to work very hard with materials to hide their materiality. The digital technologies have in some ways enabled architects to explore and use materiality in novel ways expanding the palette of the architect. They have also allowed us to deal more efficiently and effectively with the complexity of construction. What did we miss with the failure to build the Venice Hospital designed by Le Corbusier? You bring back good memories about a book which I edited about twenty years ago about a building that I have admired since I was an architecture student. The book was part of CASE, a book series that looked at architectural projects from a variety of angles, history, design, technology, landscape, urbanism, environment, process. In that sense the theme of the Biennale carries some of these intentions forward. That building represents many things even if not realized, but above all it represents the reverence of a rather irreverent architect like Le Corbusier to Venice. How do you imagine the future of the city? What will help us improve living together in Venice? In the last few years, with the growing threats of rising sea levels, the asphyxiation by tourism, and the pandemic, you could sense that the world has woken up to Venice as being a site of convergence of global crises, and you can sense that the world has begun to rally around Venice to save its beauty. Its beauty is therefore going to save the world.

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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA NATIONAL PARTICIPATIONS

TO BEGIN WITH

THAILANDIA

elephant

Mini tour nell’architettura del vivere insieme ai Giardini, all’Arsenale e in città, fra 14 progetti Biennale e mostre indipendenti A living together mini tour at Giardini, Arsenale and in the city, along 14 Biennale and independent exhibitions Photo Boonserm Premthada, Courtesy Boonserm Premthada

URUGUAY

Próximamente Attorno al tavolo, luogo per eccellenza di narrazioni e di convivenza, possono ‘accomodarsi’ sia la dimensione privata che quella pubblica. La metafora viene sviluppata su due diversi piani concettuali e spaziali: a Montevideo un tavolo nero viene costruito come monumento nella dimensione urbana, mentre a Venezia un tavolo bianco diventa uno schermo per testare prossimi futuri. La proposta uruguaiana comprende anche una serie di conversazioni con invitati provenienti da diverse discipline, fasce d’età e contesti, e un saggio audiovisivo in cui si combinano predizione, finzione e proposizione, verso la costruzione di un possibile atlante degli spazi futuri. Both the private and the public can “sit” at the table considered as a symbol par excellence of narration and coexistence. This metaphor is developed at two different conceptual and spatial levels: in Montevideo, a black table is being built as a monument of Giardini

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Courtesy Próximamente

urban dimension, while in Venice a white table is a screen to test the near future on. The Uruguayan exhibition includes as well a series of conversations among guests belonging to different disciplines, age groups and backgrounds An audio/ video essay combines prediction, fiction and proposition to build a possible atlas of future spaces.

Una vera casa ricostruita come fosse nel villaggio situato nel nord-est della Thailandia abitato dal gruppo etnico dei Kuy e dai loro inseparabili elefanti. In essa emerge in maniera inequivocabile come la vita degli esseri umani sia funzionale a quella dei pachidermi e viceversa. La struttura dei più piccoli aiuta i più grandi a stare in piedi e il tetto dei più grandi fa ombra e protegge i più piccoli. L’installazione presenta inoltre informazioni e documentazione fotografica sull’organizzazione della vita nel villaggio, dai luoghi della quotidianità sociale e lavorativa a quelli dell’estremo riposo. A real house built as it would be in a village in north-eastern Thailand, the place where the Kuy ethnic group lives, together with their beloved elephants. In this house, we may unequivocally see how human life and elephant life are functional to one another. The small ones help the large ones stand, while the large ones provide cover for the small ones. The installation will also provide educational material on life in the village, from daily chores to the place of final rest. Arsenale, Sale d’Armi


EMIRATI ARABI UNITI

PAKISTAN

Wetland

Mapping Festivities

© Sara M. Anwar

La Shaadi Hall (Sala del Matrimonio) ha preso forma a Karachi negli anni ‘80 per supplire alla mancanza di spazi adeguati alle esigenze di un gran numero di immigrati interni giunti nella metropoli, modificando il progetto delle ville famigliari per trasformarle in luoghi adatti ai matrimoni. Nella tradizione sociale del Pakistan il matrimonio riesce a unire aspetti culturali ed economici, fino a creare una nuova tipologia architettonica in grado di generare un cospicuo tessuto industriale, sia su micro che su macro scala. European Cultural Centre Palazzo Mora, Strada Nova, Cannaregio 3659 www.nationalpavilionofpakistan.org www.europeanculturalcentre.eu

Shaadi Hall (Wedding Hall) took shape in Karachi in the 1980s in order to make up for the lack of spaces which could meet the needs of a large number of internal migrants moving to the metropolis. The original design of family villas has been modified to convert them into places suitable to host weddings. In the social Pakistani tradition, marriage manages to combine cultural and economic aspects, creating a new architectural typology capable of generating a substantial industrial fabric, both on a micro and on a macro scale.

PORTOGALLO

In Conflict Photo Skyvision, Courtesy National Pavilion UAE

La produzione di cemento tradizionale genera l’8% delle emissioni mondiali di CO2. I curatori Wael Al Awar e Kenichi Teramoto stanno sperimentando un cemento alternativo a base di acqua salata altamente satura, residuo della desalinizzazione industriale. L’idea di un materiale da costruzione forte e insolubile è stata ispirata dai sali cristallizzati e dai minerali trovati nelle sabkhas (saline) degli Emirati Arabi Uniti. L’intersezione di un antico tesoro geologico con l’innovativa ricerca sulla sostenibilità diventa paradigma per il futuro. The traditional production of ce ment is responsible for 8% or world carbon emissions. The two Emirati curators show an experimental alternative to concrete based on oversaturated saltwater, a waste product of industrial-scale desalination. The idea of a resistant, insoluble building material has been inspired by salt crystals and other minerals found in saltpans in the United Arab Emirates. The intersection of an ancient geological treasure with innovative research on sustainability becomes a model for the future. Arsenale, Sale d’Armi www.nationalpavilionuae.org

Per meglio comprendere l’architettura come processo politico e di trasformazione, In Conflict analizza i casi di sette progetti abitativi portoghesi che hanno generato ampie controversie e dissensi lungo un arco temporale che dalla Rivoluzione dei Garofani del 1974 arriva fino ai giorni nostri. Il percorso si sofferma sui progetti delle torri Bairro do Aleixo a Porto, del complesso residenziale Cinco Dedos a Lisbona, del SAAL Algarve a Meia Praia, del cantiere navale Margueira ad Almada e dell’Ilha da Bela Vista ancora a Porto. Quale relazione tra architettura e conflitti sociali emerge da tale analisi? A questa e ad altre domande il pubblico è invitato a rispondere anche attraverso un programma di dibattiti che si terranno online e in presenza a Venezia, Lisbona e Porto. To better understand how architecture can be a political and a transformation process, In conflict analyses the case of seven Portoguese housing projects that have led to wide-ranging disputes and disagreements over a time span going from the Carnation Revolution in 1974 to the present day. Fondazione Ugo e Olga Levi Onlus Palazzo Giustinian Lolin, San Marco 2893 www.inconflict.pt

© Nelson d’Aires

The itinerary takes us from the Bairro do Aleixo towers in Porto to the Cinco Dedos residential complex in Lisbon, from the SAAL Algarve in Meia Praia to the Margueira shipyard in Almada, and back to Porto with the Ilha da Bela Vista. What relationships between architecture and social conflict does this analysis show? The public is invited to answer these and other questions through a program of online and in presence debates that will take place in Venice, Lisbon and Porto.

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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA COLLATERAL EVENTS ABBAZIA DI SAN GIORGIO

PALAZZO DELLE PRIGIONI

The Majlis

Un Majlis fatto a mano al 100% viene assemblato per dimostrare come sia possibile produrre eticamente e virtuosamente insieme lo spazio comune. Più che la somma delle pareti fisiche di un’entità architettonica, il Majlis è infatti il luogo in cui la cultura viene tramandata da una generazione all’altra. Tecniche artigianali perfezionate nel tempo e risorse rinnovabili come bambù e lana vengono utilizzate per realizzare un edificio contemporaneo sofisticato, durevole e portatile. Un’esplorazione del patrimonio tangibile e immateriale in una comunità globale. Isola di San Giorgio Maggiore caravane.earth

Primitive Migration from/to Taiwan

A 100%-handmade Majlis assembled to show how it is possible to build something for common spaces ethically and virtuously. More than the sum of its components, the Majlis is the place where culture is passed on to the next generation. Craftsmanship refined over time and renewable resources like bamboo and wool are used to create a building that is at once sophisticated, durable, and portable. An exploration of the tangible and intangible heritage in a global community.

CANTIERI NAVALI

Air/aria/aire. Catalonia in Venice

© Jon Tugores

Il ruolo dell’architettura e dell’urbanistica nel contesto di due crisi globali interconnesse: l’emergenza climatica e la crisi della salute pubblica. L’aria diventa l’emblema della nostra sopravvivenza e delle misure di pianificazione urbana sostenibili. Tre aspetti dell’inquinamento atmosferico sono resi attraverso un’esperienza immersiva: la materialità, l’apparente invisibilità e il suo impatto sulle nostre città. Una grande installazione audiovisiva presenta le vulnerabilità dell’ambiente e le opportunità offerte dagli interventi architettonici sulla base di un modello interdisciplinare e partecipativo. Fondamenta Quintavalle, Castello 40 www.llull.cat | www.air.llull.cat

The role of architecture and urban planning within the context of two interconnected global crises: climate emergency and public health crisis. Air is the emblem of human survivability and of sustainable measures of urban planning. Three aspects of air pollution are shown in an immersive exhibit: materiality, apparent invisibility, and its impact on the cities we live in. A large audio-video installation shows the vulnerabilities of the environment and the opportunities offered by architectural interventions using a multi-disciplinary model.

Courtesy Divooe Zein Architects

La profonda interazione esistente tra la ricchissima varietà geologica ed ecologica e la composita teoria di culture che caratterizza la sua società, ha fatto dell’isola di Taiwan un luogo di vita davvero unico. Circondata dal mare, con due terzi del suo territorio ricoperto da montagne e foreste, la restante area dell’Isola è stata sviluppata per usi agricoli, industriali e residenziali a favore di una popolazione attuale di circa 23 milioni di individui. Attraverso l’utilizzo di design audiovisivi e olfattivi che stimolano i cinque sensi degli spettatori, l’esposizione suscita discussioni sulla costruzione di edifici pionieristici e rispettosi dell’ambiente, mettendo in primo piano la relazione unica tra gli esseri umani e la natura attraverso tre asserzioni: Chiedere, Lavorare insieme e Contaminarsi a vicenda. The deep-seated interaction of different aspects of the rich geological and ecological landscape of Taiwan, as well as between ethnically different cultures, gave birth to a unique place for life. Surrounded by the ocean, and with two thirds of its territory featuring mountains or forests, the remainder of the island has been developed for agricultural, industrial, or residential usage. Today, about 23 million people live in Taiwan. The exhibition elicits discussions around constructing pioneering, environmentally friendly buildings, foregrounding the unique relationship between humans and nature through 3 propositions: Ask, Work Together, and Influence Each Other. Additionally, the exhibition unites audiovisual and olfaction designs that stimulate the viewers’ five senses. San Marco, Castello 4209 www.ntmofa.gov.tw

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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA NOT ONLY BIENNALE FONDACO DEI TEDESCHI

EUROPEAN CULTURAL CENTRE

20 maggioMay-21 novembreNovember

22 maggioMay-21 novembreNovember

Maarten Baas. Second Act

TIME SPACE EXISTENCE

© Maarten Baas

Sempre riflesso del tempo in cui viviamo, le opere di Maarten Baas in questo progetto raccontano la condizione di sospensione che stanno vivendo in particolare i teatri d’opera. Quattro lunghi sipari di velluto rosso sospesi nel cortile del Fondaco sono la metafora dell’attimo incerto che passa tra il loro alzarsi e l’inizio dello spettacolo, cos. come display a LED posti sulla riva d’acqua trasmettono in sequenza i titoli di tutte le opere cancellate nel mondo durante la pandemia. Al quarto piano, infine, Baas installa uno dei suoi orologi: qualunque cosa accada, il tempo scorre! Calle del Fontego dei Tedeschi, Ponte di Rialto www.tfondaco.com

© Kenton Thatcher

Maarten Baas’ art is a reflection of the times we live in. This project is the story of the current non-life of opera theatres. Four long red velvet theatre curtains hanging over the Fondaco courtyard are a metaphor of the uncertain time between the moment they are lifted and the moment the show begins. LED displays by the water entrance show the titles of all opera shows cancelled everywhere in the world during the pandemic. At the fourth floor, Baas has installed one of his clocks: whatever happens, time goes by!

VENICE DESIGN BIENNIAL

Design as Self-Portrait Past Forward. Designers from the Land of Venice Pretziada: A Self-Portrait in Design 20 maggioMay-27 giugnoJune

Terza edizione, tre mostre, un tema: in uno spazio di fluttuazione libera l’identità diventa un oggetto di design. Design as Self-Portrait è una collettiva di 20 designer internazionali che indagano il ruolo rilevante che la progettazione assume negli oggetti che scegliamo per comunicare la nostra identità. Past Forward. Designers from the Land of Venice raccoglie le opere di 16 designer che vivono e lavorano oggi a Venezia qui accostate a capolavori d’arte antica. Pretziada. A Self-Portrait in Design è una capsule collection del duo Pretziada in collaborazione con laboratori sardi e creativi internazionali. Design as Self-Portrait SPARC* Spazio Arte Contemporanea Campo Santo Stefano, San Marco 2828A SPUMA Space for the Arts Fondamenta San Biagio, Giudecca 800R Past Forward. Designers from the land of Venice Museo Archeologico Piazza San Marco, Procuratie Vecchie Pretziada: A Self-Portrait in Design Oratorio dei Crociferi Campo dei Gesuiti, Cannaregio 4904 www.venicedesignbiennial.org

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© Joan Porcel

Third edition, three exhibitions, one theme – a space of free-range motion where identity becomes a piece of design. Design as Self-Portrait is a collective exhibition by 20 international designers who investigate the significant role design plays in the objects we choose to present our identity. Past Forward. Designers from the Land of Venice collects works by 16 designers who live and work today in Venice, and approach them to ancient art masterpieces. Pretziada. A Self-Portrait in Design is a capsule collection by duo Pretziada, in cooperation with Sardinian workshops and international creators.

Un gruppo internazionale di 212 architetti, artisti, accademici e professionisti del settore provenienti da oltre 51 Paesi è stato invitato a indagare il rapporto tra spazio e tempo nel vivere contemporaneo, stimolando riflessioni sulla società odierna per traghettare l’architettura verso una dimensione più allargata. Un’ampia selezione di progetti, che spaziano da rappresentazioni concettuali a modelli, da video a sculture, da fotografie a installazioni site-specific, compongono il corpus della mostra, che si sviluppa in ben tre sedi: Palazzo Bembo, Palazzo Mora e Giardini della Marinaressa. Riflettendo su problemi ed effetti del cambiamento climatico, delle migrazioni di massa, dell’aumento del livello dei mari, della rapida urbanizzazione, dei grandi problemi della società, i partecipanti rispondono con i loro progetti alla domanda posta dalla 17. Biennale Architettura How will we live together? An international group of 212 archi tects, artists, academics, and specialists in the sector from over 51 countries were invited to investigate the relationship between space and time, stimulating reflections on today’s society and rethinking architecture through a larger lens. A wide selection of projects, ranging from conceptual works to models, from videos to sculptures, from photographs to site-specific installations, make up the corpus of the exhibition which takes place in three different locations: Palazzo Bembo, Palazzo Mora and Giardini della Marinaressa. Reflecting on the issues and effects of climate change, mass migration, rising sea levels, rapid urbanization, major social problems, participants respond with their projects to the question posed by the 17th Biennale. ECC – Palazzo Bembo Riva del Carbon, San Marco 4793 ECC – Palazzo Mora Strada Nova, Cannaregio 3659 ECC – Giardini della Marinaressa Castello www.ecc-italy.eu www.europeanculturalcentre.eu


PALAZZO MORA

PALAZZO MORA

22 maggioMay-21 novembreNovember

20 maggioMay-21 novembreNovember

When Art Meets Architecture in TIME SPACE EXISTENCE

GHETTO: Sanctuary for Sale in TIME SPACE EXISTENCE Lo studio Henriquez Partners Architects di Vancouver, cerca di ristabilire il ruolo dell’architetto in quanto leader nella creazione dello spazio collettivo che forma il tessuto della nostra vita quotidiana e delle nostre comunità. GHETTO è un progetto teorico sviluppato in collaborazione con l’UNHCR che propone la creazione di città inclusive dove tutti si sentano i benvenuti. Il progetto viene ‘raccontato’ attraverso una doppia visuale narrativa, al centro della quale vi sono da un lato dei turisti americani, dall’altro dei rifugiati iraniani. La sua trama avvincente, che si traduce anche in una graphic novel, ha lo scopo di suscitare un fertile confronto, un serrato dialogo tra le varie componenti che si incrociano, si scontrano, si fondono nel teatro urbano, il tutto condotto con una forte tensione positiva nell’accrescere il senso civico di chi su questi temi si imbatte, sia esso un cittadino, un architetto, un urbanista, un amministratore. ECC - Palazzo Mora Strada Nova, Cannaregio 3659 www.henriquezpartners.com | www.ecc-italy.eu

Sostenibilità, creatività e tecnologia sono alla base dei progetti che Saphira & Ventura Art – Design - Architecture e New York International Art Society promuovono in contesti internazionali per creare network privilegiati tra professionisti e istituzioni pubbliche e private. L’obiettivo è trasformare gli spazi in esperienze esclusive e sostenibili. Protagonisti in mostra un gruppo di architetti, designer e artisti provenienti da Stati Uniti, Canada, Brasile e Cina con i loro 12 progetti tutti concentrati a restituire ciascuno a suo modo una nuova idea di spazio comune, in linea stringente con il tema di questa 17. Biennale. Creative and technological sus tainability are at the basis of the projects that Saphira & Ventura Art - Design - Architecture and New York International Art Society promote in an international context to create privileged networks between professionals and public and private institutions. Their goal is to turn spaces into exclusive, sustainable experiences. The protagonists of the exhibition are a group of architects, designers, and artists from the United States, Canada, Brazil, and China with twelve projects, all focused on returning each in its own way a new idea of common space, coming close to the theme of this 17th Biennale. ECC - Palazzo Mora Strada Nova, Cannaregio 3659 www.saphiraventura.com | www.ecc-italy.eu

Henriquez Partners Architects, based in Vancouver, Canada, try to re-establish the role of architects as leaders in the creation of collective space, which is the essential fabric of our daily life and of our communities. GHETTO is a theoretical project, produced in cooperation with UNHCR, that sponsors the creation of inclusive cities, where everyone feels welcome. The project is “told” through a double narrative view, with a group of American tourists on one side, and Iranian refugees on the other. Its compelling plot, that will be published also as a graphic novel, aims at fostering dialogue between the various components of the urban theatre, all under a strong positive tension towards improved civic sense on all: citizens, architects, urbanists, administrators.

FONDATION WILMOTTE

Re Make Prix W 2020 Winning projects - The Château de la Tour d’Aigues 20 maggioMay-21 novembreNovember

Re Make presenta i progetti vincitori del premio biennale Prix W 2020, giunto alla nona edizione, dedicato al Castello della Torre d’Aigues, situato nel sud-est della Francia. Il concorso nasce attorno all’idea di innesto urbano contemporaneo su preesistenze passate, favorendo l’incontro tra patrimonio e creazione. Rivolto a student e a giovani laureati delle facoltà di architettura in Europa, Prix W 2020 ha selezionato 139 progetti molto competitivi, di cui 9 menzionati e 3 premiati ex aequo. La Galleria espone inoltre i disegni del prestigioso Refuge Tonneau progettato nel 1938 da Charlotte Perriand e Pierre Jeanneret. Re Make presents the winning projects of the biennial Prix W 2020, now at its ninth edition. The award is dedicated to the Castle at La Tour-d’Aigues, in South-Eastern France. The competition is born around the Galleria, Fondaco degli Angeli Cannaregio 3560 www.prixw.com | www.wilmotte.com

idea of contemporary urban fabric grafted onto the existing one, thus facilitating the meeting of heritage and original creation. Prix W 2020 is addressed to students and graduates from European architecture universities. Among the 139 selected projects nine received mentions and three were awarded ex-aequo prizes. The gallery hosts the prestigious Refuge Tonneau designed in 1938 by Charlotte Perriand and Pierre Jeanneret.

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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA CURATORE PADIGLIONE ITALIA

Elogio dell’anomalia Intervista a Alessandro Melis Un laboratorio operativo, a impatto CO2 tendente allo zero, abitato da strane e affascinanti creature, installazioni futuribili intrinsecamente ecologiche protagoniste di un allestimento ideato secondo il principio di connessione che prende la forma del cervello umano e di un genoma, con i temi principali a rappresentare la corteccia cerebrale e i sotto temi a identificarsi invece nelle innervature e nelle connessioni. Alessandro Melis sceglie le Comunità Resilienti come traccia attuale per raccontare il suo Padiglione Italia alla 17. Mostra Internazionale di Architettura in versione cyber-punk. Il lavoro di indagine ad ampio spettro, condotto dal curatore, coglie i passi compiuti dalla ricerca italiana in molti campi, organizzando lo spazio in due aree tematiche complementari: la prima, una riflessione sullo stato dell’arte in tema di resilienza urbana in Italia e nel mondo; la seconda, un focus su metodologie, innovazione, ricerca con sperimentazioni interdisciplinari a cavallo tra architettura, botanica, agronomia, biologia, arte e medicina. Lei teorizza una “nuova architettura radicale” sottoposta, come gli esseri viventi, alle leggi dell’evoluzione e dell’adattamento. Prima di entrare nel Padiglione, ci delinea in sintesi le basi del suo pensiero di architetto? Quando mi approccio al mondo della ricerca, parto dal presupposto che una delle principali cause della crisi che stiamo attraversando sia da ricercarsi nel modo in cui concepiamo le costruzioni. Mi riferisco in primo luogo al modo in cui le costruzioni sono concretamente portate a termine, visto e considerato che il 36 % delle emissioni di CO2 derivano direttamente dall’utilizzo degli edifici. È opinione ampiamente diffusa che l’emissione di CO2 derivi in larga misura dall’utilizzo di combustibili fossili nei trasporti, ma dalle ricerche che abbiamo portato avanti attraverso il Cluster for Sustainable Cities, l’istituto di ricerca che dirigo in Inghilterra, sappiamo in realtà che la variabile che più di ogni altra influisce sul volume complessivo di queste emissioni è il modo in cui le città vengono disegnate, con soluzioni che favoriscono l’incremento o il calo di queste stesse emissioni. Noi architetti siamo molto permalosi e amiamo dire che il 20

problema non riguarda l’architettura in senso strettamente disciplinare, ma il modo in cui l’umanità concepisce i propri insediamenti, l’inveramento dei quali ci ha portato a vivere la più grande crisi ambientale che l’homo sapiens si sia mai trovato ad affrontare prima d’ora. Un’esperienza del tutto nuova che in realtà vede l’architettura chiamata in causa in una duplice veste e direzione: in quanto corresponsabile di questa stessa crisi e in quanto disciplina che potrebbe avere un ruolo cruciale nella sua risoluzione. Personalmente non sono così ambizioso da arrivare ad auspicare una “nuova architettura radicale”, non ho le capacità per cimentarmi in un compito così arduo. Mi sforzo piuttosto di lavorare in una direzione più semplice che chiama a raccolta differenti discipline, le quali, pur investite da cambiamenti magari meno rivoluzionari rispetto a quelli apparentemente vissuti dall’architettura, hanno visto stravolte le rispettive tassonomie e le corrispondenti scale di valori. In uno scenario di tali profonde mutazioni è quanto mai significativo perciò registrare come la tassonomia dell’architettura sia invece in linea di massima la stessa da 2000 anni a questa parte. Ciò considerato, non mi sento certo in grado, con il Padiglione Italia che ho l’onore quest’anno di curare, di proporre nientedimeno che una nuova concezione di architettura. Sono convinto, e cercherò di esprimerlo anche in questa importante occasione, semplicemente del fatto che ci troviamo di fronte a una rivoluzione che l’architettura non può attraversare percorrendo una linea retta. In quasi tutti i contesti disciplinari ogni 30 o 40 anni interviene una rivoluzione a sovvertire completamente l’ordine delle cose. In tutta sincerità non vedo come l’architettura possa essere esclusa da questo processo di fatto ineluttabile. Quale ruolo dovrà dunque svolgere l’architetto e più in generale l’architettura nel prossimo futuro? Dovranno mettere in discussione delle certezze. Oggi, come rare altre volte così

urgentemente, la realtà in rapida mutazione ci richiede di farlo. Diamo per scontato che l’architettura, per come la intendiamo oggi, sia un’espressione creativa dell’uomo e di conseguenza un processo eminentemente artificiale. Ma cosa intendiamo con “artificiale”? Se ci riferissimo ad un’architettura “ecologica”, potrebbe essere questa considerata artificiale? Il tema, come vedete, è quasi di carattere filosofico. Qual è la natura dell’artificialità? Quando trasformo un albero in qualcos’altro quale processo metto in atto? Nella nostra mente sembra quasi che tutto ciò che è artificiale automaticamente debba rappresentare un’antitesi di ciò che comunemente è considerato ecologico. La domanda basilare è la seguente: è davvero impossibile pensare possa esistere un’architettura intrinsecamente ecologica? Può esistere un’architettura di cui non ci si senta condannati a pagare il prezzo nel futuro a breve, medio e lungo termine? È possibile per noi creare qualcosa che si integri perfettamente con l’ambiente senza stravolgerne gli equilibri, proprio come i castori costruiscono le dighe? A simili quesiti non ho risposte certe da dare. Me li pongo con un approccio aperto, curioso, con una disposizione il più possibile complessa e al contempo ‘semplice’, cercando di andare dritto al nocciolo di tali nodali questioni, contemplando le mille variabili che informano il nostro vivere in mutevole divenire oggi. Il Padiglione quest’anno sarà quindi niente di più e niente di meno che un laboratorio di ricerca pulsante.


Alessandro Melis (1969) Architetto e docente, direttore del Cluster for Sustainable Cities, presso l’Università di Portsmouth in Inghilterra, curatore del Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2021, Alessandro Melis è uno dei più influenti ricercatori nel campo dell’architettura radicale. Ha fondato, assieme a Gian Luigi Melis, lo studio Heliopolis 21. Ha pubblicato diversi libri e innumerevoli saggi sui temi della sostenibilità radicale e sulla resilienza urbana.

Su quali fondamenta ha costruito questo laboratorio? In sede di elaborazione del progetto curatoriale mi è venuta in soccorso la biologia dell’evoluzione, disciplina che considero di fondamentale importanza nella definizione di una nuova disposizione del fare architettura, in particolare per quel che ne è derivato dagli studi svolti da questa branca scientifica tra la fine degli anni ‘60 e il 2000, i quali hanno letteralmente stravolto la sua tassonomia. Cosa rende la biologia dell’evoluzione centrale nel nostro discorso? Principalmente il fatto che questa disciplina, in particolare sul fronte della paleoantropologia, affronta molto semplicemente la storia dell’homo sapiens, quindi di tutti noi. La domanda che si è posto Stephen Jay Gould, il più importante biologo dell’evoluzione, è stata la seguente: quanto di quello che l’homo sapiens ha costruito negli ultimi 2000 anni, da Platone in poi, è davvero reale? Quanto, invece, fa parte di una narrazione? Quesiti ai quali Gould si sforza di dare risposte scientifiche, non filosofiche. Il biologo statunitense rileva come la narrazione portata avanti dall’uomo metta l’uomo stesso al vertice della piramide evolutiva. Il che, a suo dire, è pura invenzione; anzi, nel momento in cui l’uomo si è messo al vertice di questa scala, ha iniziato a rivelarsi un essere fortemente anti-ecologico. Sempre secondo Gould, se prendiamo ad esempio un tratto del percorso evolutivo umano di 2000 anni senza renderci conto di come questo non rappresenti in realtà che nemmeno l’1% del totale del percorso complessivo, finiremo per dare inevitabilmente per scontato che ci siano delle tendenze lineari pressoché obbligate da seguire, inducendoci a costruire di conseguenza il nostro presente e il nostro futuro secondo il rigido dettato di queste linee guida. Gould con i suoi studi e con i suoi elaborati in sostanza dimostra quanto siano pretestuose queste nostre presunte, ‘razionali’ certezze. Ci dice, per esempio, quanto sia

probabilmente assai più facile trovare delle soluzioni alla crisi ambientale che stiamo attraversando volgendo il nostro sguardo al tempo profondo, a 200.000 anni fa piuttosto che a 2000. Guardare esclusivamente agli ultimi 2000 anni avrebbe senso solo se considerassimo quanto fatto in questo lasso di tempo come qualcosa di così avanzato da poterci permettere il lusso di non prendere in considerazione null’altro di più antico. Ma la biologia dell’evoluzione ci dice chiaramente che un simile ragionamento non è servibile. Esiste infatti il concetto di niche construction, “costruzione di nicchia”, elaborato dal biologo Kevin Laland, strettamente collegato al concetto di “resilienza”, termine oggi, ahimè, quanto mai impropriamente abusato e al quale ho dedicato vent’anni dei miei studi, quando ancora la comunicazione non masticava e digeriva indifferentemente tutto. Secondo Laland non esiste un organismo che univocamente modifichi l’ambiente o un unico ambiente che modifichi un organismo: il codice genetico umano deve essere considerato una combinazione di azioni e reazioni che si sono instaurate tra ambiente e organismo. Nel nostro codice genetico tale combinazione quindi esiste già, è come se fossimo intrinsecamente ecologici. È molto interessante registrare come e quanto il rapporto tra uomo e ambiente sia stato centrale in questi diversi ambiti disciplinari. L’idea “positivista” quanto mai dura a morire che l’azione dell’uomo sia in grado di modificare l’ambiente per migliorarne lo stato di vita controllandone processi ed effetti già negli anni ‘80 ha iniziato ad essere demolita, allorché si è scoperto che in realtà tale rapporto risultava assai più dinamico di quanto si ritenesse sino ad allora, dal momento che se è vero che la teoria dei nostri molteplici interventi sul corpo produce delle modifiche profonde all’ambiente, è altrettanto vero che l’ambiente, per tutta risposta, modifica noi in misura altrettanto forte, se non probabilmente in

proporzioni addirittura maggiori. Per molti aspetti il concetto di “nicchia” a cui mi riferivo va addirittura oltre: se l’architettura sostenibile mette l’uomo da una parte e l’ambiente dall’altra, la teoria di Laland identifica invece una grande ‘marmellata’ in cui diversi elementi si combinano; non solo uomo e ambiente, ma anche presenze che non catalogheremmo nemmeno come “organismi viventi”, che vedranno o meno la propria estinzione a seconda della capacità di entrare a far parte di questa nicchia, adattandosi al contesto. Ecco quindi a ritrovarci nel cuore vivo dell’idea profonda di resilienza. Crede che l’architettura indaghi altri ambiti per necessità, per deficit di creatività o più per curiosità di maniera? Esiste a suo avviso uno stato di frustrazione “freudiana” perlomeno latente nell’ambiente dell’architettura? Quando ragiono sul concetto di creatività suscito quasi sempre obiezioni da parte di più di un collega: mi chiedono e si chiedono quale possa essere a questo punto il ruolo dell’architetto e dell’architettura nell’odierno contesto storico e disciplinare, con l’incombente dubbio che quella dell’architetto sia divenuta una figura inutile. È interessante a questo proposito riflettere sull’origine dell’etimologia della parola “architetto”, che nasce prima della parola “architettura”. Prima dell’uso che ne fece Vitruvio, mi risulta che questa parola sia stata usata da Aristotele con una curiosa inversione dei due termini. Per qualificare il mestiere e la figura professionale di norma seguiamo la convenzione anglosassone, la quale individua quale funzione prioritaria del lavoro di “architetto” quella di “capo costruttore”: ἀρχι- “guida” e τέκτων “costruttore”. Aristotele invece inverte l’ordine dei due concetti che stanno alla base della radice etimologica, facendo così dell’architetto un “costruttore di principi e idee”. Secondo questa interpretazione, che condivido, l’architetto non perde il proprio ruolo, anzi, ne acquisisce uno ancora più importante in particolare oggi, nel momento in cui si percepisce un evidente vuoto in termini di idee, di visioni. Chi costruisce le idee in questo momento storico? I politici non mi pare che lo facciano; quando va bene trasferiscono le idee in sistemi decisionali con esiti, peraltro, di alterna fortuna. Le altre discipline, poi, non mi sembra abbiano questo obbiettivo; la filosofia stessa non si occupa praticamente più della 21


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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA CURATORE PADIGLIONE ITALIA costruzione del pensiero una volta isolata un’idea, processo invece vivissimo ai tempi de La Repubblica di Platone. Se decidiamo quindi di fare nostra l’interpretazione aristotelica del fare architettura, l’architetto diventa il soggetto che stabilisce come l’uomo si rapporta con l’ambiente che lo circonda, unendo i puntini che collegano tra loro le diverse discipline. Apparentemente nulla di nuovo, dato che è ciò che gli architetti in fondo hanno più o meno consapevolmente sempre fatto nei secoli. Eppure, sembra quasi incredibile a dirsi, oggi vi è più che mai l’urgenza di riesumare questa naturale vocazione interdisciplinare, persasi esageratamente negli ultimi tempi nell’iper-specializzazione, smarrendo la sua funzione di connettore per eccellenza dei vari linguaggi espressivi. La famosa paleoantropologa Heather Pringle è arrivata a collocare la nascita della creatività tra i 200.000 e i 90.000 anni fa: in questo arco di tempo il cervello umano smette di crescere, anche lì smentendo la nostra convinzione che l’intelligenza sia legata al volume della materia cerebrale. Ciò che in questo lungo arco millenario nasce, invece, per poi crescere e crescere, è la nostra capacità di produrre con straordinaria intensità una notevole quantità di interconnessioni all’interno della corteccia cerebrale, con il sorgere di quello che gli antropologi chiamano “pensiero associativo”. Secondo questa teoria creatività e poligrafia sono il frutto dello stesso processo: la capacità di collegare entità non per forza attinenti, arrivando a costruire un terreno di congiunzione 'contaminato' tra scienza, tecnologia e arte. Come mai questa svolta epocale si colloca proprio tra i 200.000 e i 90.000 anni fa? Perché in quell’età ci fu una violenta crisi ambientale che spinse l’uomo a sviluppare capacità di resilienza diverse rispetto alle altre specie animali. Da qui l’idea che la creatività rappresenti uno strumento di resilienza nei momenti di crisi: quando c’è una crisi il pensiero razionale, di default, non basta più; ecco allora attivarsi un meccanismo di emergenza che attraverso la creatività trova il modo di adattarsi alle nuove condizioni che si sono venute a creare. In una disciplina diversa dall’architettura, in questo caso nella paleoantropologia, ho trovato risposte che l’architettura non riusciva a dare. Quando Stephen Jay Gould cerca di spiegare questi concetti scomoda Siegmund Freud, stesso riferimento fatto da voi nella domanda… Secondo Freud l’uomo ha un

innato bisogno di collocarsi al centro di tutto. A ogni rivoluzione che l’umanità ha prodotto è corrisposta una detronizzazione dell’uomo da questo suo ruolo centrale. Il primo esempio classico è la rivoluzione copernicana, la quale dimostra in maniera inequivocabile che il pianeta Terra non occupa il centro dell’universo. Ma siccome a ogni rivoluzione segue una restaurazione, ecco che per reazione viene sancito a-scientificamente che l’uomo è stato creato da Dio quale essere vivente più importante di tutti gli altri. Ci vorrà del tempo perché la teoria dell’evoluzione di Darwin smentisca tutto, identificandoci come un frutto dell’evoluzione delle scimmie, non esattamente la specie più nobile a cui collegarci per la mentalità dell’epoca. Poco dopo sarà la volta di Freud, il quale metterà in evidenza come l’uomo, pur essendo considerato la specie più intelligente, non faccia in realtà quasi nulla attraverso l’intelligenza, elaborando, progettando, inventando il suo meglio piuttosto attraverso la creatività. Secondo la psicanalisi non è l’uomo ad avere il controllo del proprio cervello, ma piuttosto il contrario. La rivoluzione di Stephen Jay Gould non ci colloca quindi più all’apice della piramide evolutiva, ma piuttosto in una giungla di creature che in alcuni casi sono anche più intelligenti o evolute di noi. Nel suo libro Intelligenza e pregiudizio: contro i fondamenti scientifici del razzismo (titolo originale: The Mismeasure of Man, ossia “L’erronea misurazione dell’uomo”) Gould spiega come l’uomo nel corso degli anni abbia selezionato diverse caratteristiche di organismi viventi in quanto espressione del meglio di quanto fosse disponibile in Natura, ignorando che proprio questo processo di selezione di presunte eccellenze in purezza, a partire dall’ossessione per l’intelligenza, lo portasse diritto verso l’autodistruzione. Un’ossessione fallimentare stando alle conclusioni dello scienziato statunitense, per il quale basandoci sui parametri secondo cui si misura l’intelligenza la specie a primeggiare a riguardo risulterebbe essere quella degli artropodi. Ha utilizzato un linguaggio contemporaneo di tendenza e ricco di citazioni pregnanti per comunicare attraverso il sito web comunitaresilienti.com il manifesto del Padiglione Italia 2021. La più suggestiva tra tutte è quella che, attraverso l’immagine epocale del podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico su cui svettano col pugno alzato al cielo Tommie

Smith e John Carlos, ci riporta diritti al clima degli anni Sessanta, segnatamente al movimento di protesta per i diritti civili degli afroamericani. Quale il significato di questa scelta? È fondamentale ribadire che il Padiglione Italia non intende presentarsi come una mera esposizione, ma piuttosto come laboratorio in cui costruire un rapporto di viva e persistente interazione tra chi presenta idee progettuali e chi le assorbe dialogandovi, ossia i visitatori. L’obiettivo è in sostanza quello di creare a tutti gli effetti un soggetto terzo sul terreno della creatività. La nostra più grande aspirazione come team curatoriale non è quella di far trovare dentro al Padiglione le opere di, che so, Leonardo, ma quella di far trovare a Leonardo stesso, in veste di ipotetico visitatore, un ambiente simile alla bottega del Verrocchio, dove lui assorbendo il sapere e la pratica artistica poté divenire Leonardo. Per dare seguito il più compiutamente possibile a questa aspirazione ho cercato di lavorare sulla dimensione dell’impatto, aspetto su cui insiste molto l’universo della ricerca anglosassone da cui provengo a differenza dell’ambito latino, nel quale invece il lavoro di ricerca tende a essere poco comprensibile ai non addetti ai lavori, producendo una sorta di inaccessibilità che non di rado viene addirittura elevata a metro qualitativo direttamente proporzionale al valore della ricerca stessa. In ambito anglosassone una ricerca funziona se comprensibile al maggior numero di persone possibile, misurando anche in questi termini l’impatto che riesce ad avere sulla collettività. La dissemination è parte integrante del giudizio sulla qualità di una ricerca, evidenziandone il valore divulgativo in grado di avvicinare a un dato contenuto il più ampio bacino di persone non addentro alla disciplina a cui lo stesso contenuto attiene. Ispirandoci a questa linea di pensiero, in sede di elaborazione del nostro progetto abbiamo deciso di riservare un’attenzione particolare ai più giovani. Si spiegano così gli evidenti riferimenti al cyberpunk, nel segno di una transdisciplinarità che non interessa quindi solo la comunità scientifica, ma più estesamente un ambito comunicativo decisamente crossover, sia in termini di linguaggi espressivi che in chiave generazionale, miscelando ad esempio i linguaggi del cinema o del fumetto. Il pugno che vediamo nel manifesto ha un evidente valenza legata ai temi dell’e23


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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA CURATORE PADIGLIONE ITALIA guaglianza sociale, però qui intesa nella sua massima e più trasversale servibilità, andando quindi oltre il diretto dettato dei movimenti black. Per combattere le disuguaglianze dobbiamo prenderci delle responsabilità politiche e il pugno deve essere letto in quest’ottica: non un richiamo strettamente e tradizionalmente rivoluzionario, ma un invito ad abbracciare con convinzione pratiche di attivismo. Altro aspetto che rende il pugno simbolico è il suo rimando al principio sostenuto da Gould secondo cui la resilienza è contraddistinta da tre caratteristiche fondamentali: diversità, variabilità e ridondanza. Il gesto di Smith e Carlos diventa fondamentale non tanto per il suo significato politico, quanto per la forte valenza di rivendicazione della diversità. Se desidero che la città del futuro possa essere resiliente, allora dovrà essere diversa, variabile e ridondante. Grazie agli studi condotti da Heather Pringle noi sappiamo che i soggetti che in futuro si troveranno a disegnare una città diversa, variabile e ridondante dovranno essere a loro volta diversi, variabili e ridondanti, in un rapporto biunivoco e in continuo movimento. Un soggetto privo di pluralità e sfaccettature, costruirà una città a bassa capacità di resilienza. Il gesto dei due velocisti afroamericani a Città del Messico ci parla proprio dell’importanza della diversità e della necessità improrogabile di un impegno in questa direzione. Nell’utilizzo di questa potentissima immagine simbolica che il nostro progetto fa in termini di comunicazione, allora, il pugno da un lato richiama la città compatta tipicamente italiana, per certi aspetti medievale, dall’altro lato rimanda a una sorta di artropode, simbolo della natura: l’architettura dovrebbe quindi nascere all’insegna di una resilienza figlia di un patto con la natura. Dobbiamo essere noi a metterci sulla sua lunghezza d’onda e saremo di sicuro noi ad avere una data di scadenza più ravvicinata rispetto alla natura, che della nostra presenza se ne infischia bellamente. Quale potrebbe essere la definizione di questa “architettura oscura” a cui si fa riferimento nella presentazione del Padiglione? È una traslazione che arriva direttamente dalla “materia oscura” della fisica, altra disciplina in cui sono state più volte registrate delle anomalie, degli elementi che hanno innescato delle rivoluzioni, penso alla costante cosmologica teorizzata da Albert Einstein. 24

Da qui ci è venuta l’idea, realizzata poi nel video di Biennale Sneak Peek, di vedere le anomalie come dei portali che potessero darci accesso a nuovi mondi in cui le cose possono essere molto diverse da come venivano solitamente considerate. Universi più o meno paralleli al nostro in cui quello che noi catalogavamo come anomalia qui invece venisse rappresentato come una condizione di normalità. La costante cosmologica si raffigurava come il tentativo di spiegare un’anomalia, una cosa che non era stata ancora compresa, riferendosi al concetto che l’80% dell’universo fosse in realtà costituito da materia oscura. Il concetto di anomalia è poi strettamente legato al suono del Big Bang, la cui scoperta è avvenuta per certi versi grazie ad un’architettura, precisamente grazie ad un’antenna di Bell, uno strumento utilizzato per rilevazioni di natura completamente diversa. Noi architetti diremmo che questa scoperta è stata fatta per caso, ma in fisica esiste un termine per definire questo processo: “serendipity”, a indicare quando scoperte importanti avvengono mentre si sta indagando su altro. Nessuno ha scoperto il fuoco cercando effettivamente di ottenere il fuoco, così come accaduto per il 90% delle scoperte, ottenute attraverso quello strumento che ci rende non i più intelligenti tra le specie umane, ma forse i più resilienti, vale a dire il pensiero associativo. L’architettura oscura definisce proprio questo: la possibilità che un elemento oggi considerato collaterale, marginale, sia in realtà emblema di un mondo sconosciuto ricco di possibilità che sono state trascurate, che ancora non conosciamo e che sovvertono del tutto i principi convenzionalmente accettati come dominanti. Possiamo da qui arrivare allora ad immaginare che esista un’architettura intrinsecamente ecologica, facendo entrare in gioco il concetto che nella biologia evolutiva è descritto come exaptation, introdotto da Stephen Jay Gould e Elisabeth Vrba nel 1982. Eravamo convinti che la selezione naturale funzionasse in maniera assai simile al modo in cui funziona l’architettura: sia nella selezione naturale che nell’architettura, infatti, immagino degli scenari futuri; a tali scenari faccio corrispondere degli utilizzi; a questi utilizzi faccio corrispondere delle forme. Negli anni ‘60, ma anche prima, in biologia si sono invece resi conto che la maggioranza delle trasformazioni negli organismi non avvenivano seguendo questa consequenziale catena, ma secondo un meccanismo di cui non si

conosceva il nome e che poi si è definito con il termine, per l’appunto, exaptation. Secondo questo concetto la selezione naturale non è capace di prevedere gli scenari futuri; il futuro è troppo imperscrutabile perché si possano ipotizzare le condizioni di vita degli anni a venire. Diamine, ma questo è esattamente lo stesso problema che si trova ad affrontare l’architettura! Il concetto di exaptation che si può applicare in architettura allora è proprio il medesimo, ossia creare delle strutture che non siano concepite per un uso specifico prestandosi invece a utilizzi anche imprevedibili, così come sono imprevedibili le condizioni future in cui ci troveremo a vivere. Apriti cielo! Questo principio teorico, proprio della biologia evolutiva, in architettura non esiste, anche se di esempi pratici a riguardo ne avremmo a centinaia da portare. Quante costruzioni (non le definisco architetture per non irritare i colleghi…) sono oggi il frutto di aggiustamenti di tiro rispetto all’utilizzo originariamente previsto in sede progettuale, con esiti a volte più che egregi? Venezia in tal senso è uno degli esempi più eclatanti. Come viene, o non viene, raccontata nel Padiglione l’architettura che in questo momento si sta sviluppando in Italia? Dal punto di vista architettonico l’Italia si trova ad affrontare diversi paradossi, in primis, da un lato la massiccia zonizzazione, ovvero la suddivisione del territorio di ciascun comune in aree omogenee secondo determinate caratteristiche, che ha distrutto gran parte del patrimonio architettonico italiano, soprattutto nelle periferie; dall’altro lato la tenuta persistente di un altissimo tasso di diversità architettonica che ha reso il Paese per buona parte non del tutto ancora omologato. L’Italia presenta dei genotipi di città intrinsecamente ecologiche, a volte anche inconsciamente ecologiche se si segue l’idea di exaptation, secondo la quale, come abbiamo visto, non si dovrebbe distinguere tra processi consci e inconsci. Si dovrebbe dare seguito in architettura ai risultati ottenuti dalle ricerche svolte da Gould in biologia, indagando su tutto ciò che non è figlio del determinismo e andando a concepire costruzioni non destinate a un uso unico e specifico. Credo che l’Italia possa essere il Paese ideale in cui sperimentare una simile ricerca. Sono fermamente convinto che in questo momento, più che inventare una nuova architettura, vada portata avanti una nuova tassonomia di


Ci troviamo di fronte ad una rivoluzione che l’architettura non può attraversare percorrendo una linea retta. In quasi tutti i contesti disciplinari ogni 30-40 anni interviene una rivoluzione a sovvertire completamente l’ordine delle cose. Sinceramente non vedo come l’architettura possa essere esclusa da questo processo di fatto ineluttabile ciò che già esiste, ridisegnando tutto quanto è stato realizzato negli ultimi 200.000 anni, così come hanno fatto i biologi scoprendo una nuova collocazione per l’uomo. Questo permetterebbe a noi architetti di vivere il più risolutivamente possibile una nuova forma di dialettica tra determinismo e progettazione: il marginale diventerebbe centrale, dal momento che rappresenta l’80% di ciò che esiste, proprio come la materia oscura, mentre ciò che abbiamo sempre considerato centrale diventerebbe più, diciamo così, “newtonianamente minimale”, marginale, dal momento che rappresenta non più del 20% di tutto ciò che percepiamo a livello architettonico. Come definirebbe quindi il suo Padiglione? Il Padiglione innanzitutto si configura come lavoro collettivo che nasce dal mio pensiero associativo e che attraverso le direttrici della diversità, della variabilità e della ridondanza viene arricchito del lavoro di chi ho chiamato ad aiutarmi. Per meglio descrivere la cifra curatoriale del Padiglione utilizzerei una frase del genetista Ewan Birney secondo cui «Il genoma è una giungla popolata da strane creature»: è esattamente la dimensione che vorrei il nostro progetto riuscisse a restituire. Approcciandoci al genoma credevamo di trovarci di fronte a una struttura assolutamente razionale, salvo poi scoprire come questo elemento fosse caratterizzato anch’esso da diversità, variabilità e ridondanza, esattamente come vorrei fosse l’architettura resiliente di cui abbiamo bisogno e di cui il Padiglione vuole farsi laboratorio di osservazione. Altro tratto fondamentale che connota questo progetto è la cooptazione funzionale: che senso aveva ideare un Padiglione del tutto nuovo quando potevo riutilizzare materiali, strutture, allestimenti già utilizzati negli spazi delle Tese delle Vergini per la scorsa partecipazione italiana? Ho così osservato e analizzato le strutture create per il Padiglione della Biennale Arte 2019 curato da Milovan Farronato e di concerto con i miei collaboratori, dopo

essermi consultato con i tecnici della Biennale e aver saputo da loro quanto fosse complicato di volta in volta smaltire il materiale di risulta dei disallestimenti, abbiamo deciso di cooptare funzionalmente per l’allestimento della nostra mostra tutto questo materiale ancora lì giacente. In discarica non è stato portato praticamente niente; tutto ha trovato una propria nuova collocazione e un nuovo utilizzo: una vera espressione di exaptation. Entriamo dunque dentro le Tese delle Vergini all'Arsenale, ci guidi attraverso il Padiglione Italia 2021. Il Padiglione è allestito secondo il principio di connessione, a ricreare la forma del cervello umano e di un genoma, con i temi principali a rappresentare la corteccia cerebrale e i sotto temi a identificarsi invece con le innervature e le connessioni. Attraverso le installazioni che occupano il Padiglione abbiamo cercato di dimostrare a nostro modo come l’architettura potrebbe diventare intrinsecamente ecologica: le chiamo “installazioni” per il contesto in cui esse vengono allestite qui in Biennale, ma si tratta in realtà di veri e propri prototipi funzionanti innestati nelle strutture create da Farronato e da noi riutilizzate. Trovate, ad esempio, un’installazione a doppia spirale, disegnata da Ingrid Paoletti e curata dal Politecnico di Milano, realizzata in materiale integralmente biodegradabile, e un progetto interessantissimo del Padiglione neozelandese, ospitato dal Padiglione Italia proprio in virtù del concetto di apertura che vogliamo portare avanti, che presenta una struttura in legno riciclato di kauri, una conifera presente nella terra dei kiwi. Nella zona d’ingresso il pubblico si imbatte in una struttura che si ispira al concetto di spandrel, traducibile con “pennacchio” e che lo stesso Gould mutua dall’architettura: il biologo fa riferimento proprio alla Basilica di San Marco e ai suoi tratti di architettura gotica per spiegare come attraverso il concetto di exaptation una struttura possa prestarsi a usi differenti. Questa struttura è stata a sua volta cooptata

mentalmente da me in ambito cinematografico, precisamente guardando alla coda di Alien, a richiamare in prima istanza un albero e a creare successivamente una vera e propria ‘banca del seme’ in cui collocare sfere con sementi provenienti dall’orto botanico di Padova. Seguendo la linea informata alle idee di commistione e connessione, la mostra prosegue con il bambino cyberpunk raffigurato da Riccardo Burchielli, fumettista della DC Comics, la leggendaria casa editrice di Batman e Superman, e dall’installazione intitolata Genoma, che prende spunto dalla biologia dell’evoluzione che considera la capacità della natura di evolversi e adattarsi ai cambiamenti e alle sfide che le si pongono di fronte. L’espressività delle immagini manifesta, attraverso l’attivazione del pensiero associativo, la volontà di suscitare un dibattito sui temi dell’architettura radicale, della distopia e dell’utopia. Cyberwall è invece un’installazione in ceramica ispirata a miei disegni che grazie alle sue proprietà eco-attive contribuisce a rendere più salubre l’aria. Quindi un’intenzionalità artistica declinata in una funzione protettiva, utilizzando materiale anti Covid. Proseguendo ci si trova immersi nel Laboratorio Peccioli, spazio di ricerca e teatro insieme, progetto virtuoso per riflettere sui centri storici italiani come modelli di sviluppo e ambiti ideali per la sperimentazione attraverso innesti di contemporaneità all’interno della storia. Nel contesto di questo spazio-teatro verranno inscenate delle performance teatrali, in particolare un lavoro di Michele Santeramo legato da sempre alle tematiche del riciclo: a Peccioli infatti, comune in provincia di Pisa, esiste una discarica ‘modello’ attorno alla quale è stata costruita una rete economica alternativa che è diventata un caso di studio virtuoso sul quale abbiamo ritenuto fosse importante anche in questo nostro progetto concentrarsi. Padiglione Italia – Comunità Resilienti Arsenale, Tese delle Vergini www.comunitaresilienti.com

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17. MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITET TURA MAIN EXHIBITION, NATIONAL PAVILIONS & COLLATERAL EVENTS GIARDINI

ARSENALE

AROUND TOWN

AROUND TOWN

NATIONAL PARTICIPATIONS

NATIONAL PARTICIPATIONS

NATIONAL PARTICIPATIONS

COLLATERAL EVENTS

AUSTRALIA AUSTRIA BELGIO BRASILE CANADA Repubblica di COREA DANIMARCA EGITTO FINLANDIA

ALBANIA

Repubblica di ARMENIA

Air/aria/aire. Catalonia in Venice

Repubblica di CIPRO

Charlotte Perriand and I. Converging Designs by Frank Gehry and Charlotte Perriand

Padiglione Alvar Aalto

FRANCIA GERMANIA GIAPPONE GRAN BRETAGNA GRECIA ISRAELE OLANDA PAESI NORDICI

Finlandia, Norvegia, Svezia

POLONIA ROMANIA/1 RUSSIA SERBIA SPAGNA STATI UNITI D’AMERICA SVIZZERA UNGHERIA URUGUAY PADIGLIONE VENEZIA

Ca’ Zenobio degli Armeni Dorsoduro 2596

Artiglierie

ARABIA SAUDITA Sale d'Armi

Associazione Culturale Spiazzi Castello 3865

ARGENTINA Sale d'Armi

Regno del BAHRAIN Artiglierie

CILE

Repubblica DOMINICANA

St. George’s Anglican Church Campo San Vio, Dorsoduro 729/730

GRENADA

Artiglierie

CINA Repubblica Popolare Cinese Magazzino delle Vergini

Castello 2146

LIBANO

Hakka Earthen Houses on variation-Co-operative Living, Art and Migration Architecture in China

EMIRATI ARABI UNITI

Magazzino del Sale 5, Dorsoduro 262

LITUANIA

Chiesa di Santa Maria dei Derelitti Barbaria delle Tole, Castello 6691

ESTONIA Artiglierie

Repubblica della MACEDONIA DEL NORD

FILIPPINE Artiglierie

Palazzo Zorzi, Castello 4390

IRLANDA

PAKISTAN

Artiglierie

Repubblica del KOSOVO Artiglierie

European Cultural Centre, Palazzo Mora Strada Nova, Cannaregio 3659

PORTOGALLO

KUWAIT

Fondazione Ugo e Olga Levi Onlus Palazzo Giustinian Lolin, San Marco 2893

Artiglierie

LETTONIA

ROMANIA/2

Artiglierie

Granducato di LUSSEMBURGO Sale d'Armi

MESSICO

Giardini and New Gallery of Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica Palazzo Correr, Campo Santa Fosca Cannaregio 2214

Repubblica di SAN MARINO

Sale d'Armi

Ateneo Veneto, Campo San Fantin 1897

PERÙ

Sale d'Armi

SINGAPORE Sale d'Armi

Repubblica di SLOVENIA Artiglierie

THAILANDIA TURCHIA

Sale d'Armi

Repubblica dell’UZBEKISTAN Tese Cinquecentesche

PADIGLIONE ITALIA Tese delle Vergini

HOW WILL WE LIVE TOGETHER?

22 maggioMay > 21 novembreNovember 2021 GIARDINI, ARSENALE, AROUND TOWN

Biglietti solo online Tickets online only www.labiennale.org

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Padiglione 30, Forte Marghera Venezia Mestre

Lianghekou

Palazzo Zen, Fondamenta di Santa Caterina, Cannaregio 4924

MUTUALITIES

Spazio Ravà, Riva del Vin, San Polo 1100

Not Vital. SCARCH

Abbazia di San Giorgio Maggiore Isola di San Giorgio Maggiore

Primitive Migration from/to Taiwan Palazzo delle Prigioni San Marco, Castello 4209

Redistribution: Land, People & Environment Campo della Tana, Arsenale Castello 2126

Revive the Spirit of Mosul

UNESCO’s Regional Office for South Europe in Venice Palazzo Zorzi, Castello 4390

Salon Suisse 2021. Bodily Encounters

Palazzo Trevisan degli Ulivi Campo Sant’Agnese, Dorsoduro 810

Skirting The Center: Svetlana Kana Radevic´ on the Periphery of Postwar Architecture

Sale d'Armi

17. INTERNATIONAL ARCHITECTURE EXHIBITION

Connectivities: Living Beyond the Boundaries. Macao and the Greater Bay Area Campo della Tana, Arsenale Castello 2126/A

CROAZIA Sale d'Armi

Espace Louis Vuitton, Calle del Ridotto San Marco 1353

IRAQ

Reale Società Canottieri Bucintoro Dorsoduro 263

Artiglierie

Cantieri Navali Fondamenta Quintavalle, Castello 40

Palazzo Malvasia Palumbo Fossati San Marco 2597

The Majlis

Abbazia di San Giorgio Maggiore Isola di San Giorgio Maggiore

Tropicalia. Architecture, Materials, Innovative Systems Orari aperturaOpening times 22 maggioMay > 31 luglioJuly 11–19 (ultimo ingresso 18.45) 11 am–7 pm (last admission 6.45 pm) 1 agostoAugust > 21 novembreNovember 10–18 (ultimo ingresso 17.45) 10 am–6 pm (last admission 5.45 pm) Chiuso il lunedìClosed on Mondays EsclusoExcept 24 maggioMay, 6 settembreSeptember, 1 novembreNovember Raggiungere le sediReaching the venues dafrom Piazzale RomaVenice bus station dafrom FerroviaVenice railway station perto Arsenale lineelines ACTV 1, 4.1 perto Giardini lineelines ACTV 1, 2, 4.1, 5.1 (linealine ACTV 6 solo daonly from Piazzale Roma)

Squero Castello, Salizada Streta Castello 369

Without Land / Pomerium Isola di San Servolo

Young European Architects CA’ASI, Palazzo Santa Maria Nova Campiello Santa Maria Nova Cannaregio 6024

Young Talent Architecture Award 2020. Educating Together European Cultural Centre Palazzo Mora, Strada Nova Cannaregio 3659 (mostra) Palazzo Michiel, Strada Nova Campo Santi Apostoli Cannaregio 4391 (tavola rotonda e cerimonia di premiazione)


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Si riparte Ti aspettiamo. Prenota la tua visita su guggenheim-venice.it* *prenotazione online obbligatoria

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Intervista Michele Bugliesi

incontro

SCOMMESSE (RI)FONDATIVE

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Uno dei temi centrali nel dialogo interno al mondo fondazionale è stato proprio il meccanismo che ha portato questi soggetti dall’essere meri erogatori a favore di una molteplice serie di soggetti pubblici e privati attivi nella società ad agire quali attori attivi nella programmazione economica e culturale del territorio Michele Bugliesi Presidente Fondazione di Venezia


di Massimo Bran

N

el pieno di un anno memorabile come pochi altri in chiave decisamente negativa, con noi tutti asserragliati tra le nostre quattro mura domestiche a consegnarci (quasi) definitivamente alla virtualità pressoché assoluta, un anno in cui ci è parso che tutto rimanesse congelato in attesa dell’iniezione salvifica ora finalmente a portata di braccio, il mondo ha comunque prodotto i suoi cambiamenti, i suoi avvicendamenti, che sono solo passati, come mai prima però, inevitabilmente sottotraccia. Eppur… si è mosso, sì, sempre e comunque. Anche nella nostra città, particolarmente colpita da questo verticale vuoto che si è impadronito delle sue calli, dei suoi campi, della sua anima, di novità se ne sono registrate parecchie anche sul terreno a noi più vicino, che è poi quello che connota la cifra più alta della città per cui è apprezzata in tutto il mondo, ossia quello culturale. Non poche le figure nuove, note e meno note, che sono state designate a guidare alcuni “ministeri” del fare cultura di questa antica capitale internazionale. Una di queste ha riguardato una delle entità chiave degli equilibri della città cosiddetta metropolitana, vale a dire la Fondazione di Venezia, la cui attività va ben oltre, peraltro, alla “sola” sfera culturale, date le implicazioni sociali dirette e indirette che l’intera teoria dei suoi atti e progetti hanno sul territorio tutto, dalla laguna alla terraferma. Ebbene, da poco meno di un anno questa nodale istituzione ha designato il suo nuovo Presidente, quel Michele Bugliesi appena reduce dalla vitale esperienza come Rettore di Ca’ Foscari ora chiamato a rinvigorire il ramificato delta dei percorsi di questo soggetto da cui dipendono non pochi progetti di rivitalizzazione sociale e culturale della città. L’abbiamo incontrato per cercare di capire quali sono e saranno i punti cardine attorno ai quali intende dispiegare il suo lavoro in questo suo primo mandato presidenziale. Da Rettore di Ca’ Foscari a Presidente di una Fondazione quanto mai nodale nello sviluppo e nel sostegno di percorsi sociali e culturali sul territorio. Come ha vissuto questo passaggio, quali analogie ha trovato tra due istituzioni naturalmente diverse ma al contempo prossime nella loro funzione formativa, ancor più oggi con la Fondazione impegnata in progetti articolatissimi rivolti ai giovani? Conoscevo da tempo la Fondazione e da quando ho capito che la Presidenza poteva

essere un obiettivo perseguibile ho iniziato a guardarla con occhio diverso, pensando a quello che avrei potuto fare cercando di interpretarne i valori e i progetti. Pensavo a come si sarebbe delineato il mio ruolo ed è innegabile che rispetto alla funzione di Rettore il salto ci sia stato. Guidare un Ateneo significa, al di là della vocazione all’innovazione che ciascun Rettore può più o meno avere, operare in un perimetro eminentemente accademico, con stakeholder molto definiti, in primis gli studenti, i docenti, i ricercatori, e con un approccio specifico che difficilmente si può trasferire in un contesto diverso. Esiste però un altro ambito fondamentale, quello che nella terminologia accademica viene riferito come “la terza missione”, definizione abbastanza infelice, a mio avviso, che gli inglesi traducono in un molto più efficace “impact”, e che riguarda quell’insieme di attività con le quali le Università attivano processi di interazione diretta con la società civile, con il tessuto produttivo-imprenditoriale e con le istituzioni per favorire l’applicazione, la valorizzazione e l’impiego della conoscenza e contribuire allo sviluppo culturale ed economico della società. Il terreno di questa “terza missione” non può quindi che sovrapporsi con quello in cui opera un’istituzione costitutivamente territoriale quale la Fondazione di

Venezia, con i suoi orizzonti programmatici nel presente e soprattutto nel futuro: noi agiamo esattamente come generatori di social impact, per produrre reddito da riversare sul tessuto sociale vivo del territorio. Quando ho cominciato a pensare alla Fondazione in questi termini ho capito che poteva esserci unità d’intenti con il mio impegno da Rettore, che mi si sarebbe prospettato un percorso professionale con forti tratti di continuità in un contesto, in un’istituzione in cui avrei potuto far fruttare proficuamente le esperienze maturate a Ca’ Foscari. Fortunatamente è ciò che si sta verificando, anche nella misura in cui cerco di riorientare i progetti della Fondazione secondo le direzioni che mi sembrano più funzionali a recuperare centralità, proprio in termini di social impact. Un altro tratto che connette il mio ruolo passato a quello presente si ritrova nella gestione del museo M9. L’Università svolge infatti due funzioni nel momento in cui interpreta in modo compiuto le proprie istanze di missione istituzionale: da un lato come strumento si potrebbe definire “universale” in riferimento all’ambito di conoscenze che esplora; dall’altro lato come attore impegnato a favore della crescita del contesto in cui opera, una distonia a volte molto difficile da coordinare. La ricerca cosiddetta curiosity driven non ha legami con il territorio, ma deve neces31


incontro

INTERVIEW PRESIDENTE FONDAZIONE DI VENEZIA

sariamente essere promossa e coordinata con gli altri ambiti di attività che caratterizzano la missione universitaria. M9 come Museo del Novecento deve cercare di rendersi universalmente interessante e al contempo parlare alle comunità del territorio in cui si trova. Un museo deve certamente essere un luogo di visita, funzione assolutamente non trascurabile e dalla quale ottiene la maggior parte dei propri ricavi, ma al contempo deve sapersi definire anche quale centro di produzione di contenuti, di interazione con il pubblico e con le istituzioni. Rispetto all’Università, in questa prospettiva il museo ha in realtà una posizione ancora più centrale. Ha colpito molti in questi ultimi dieci, quindici anni la crescita di Ca’ Foscari quale epicentro culturale poliedrico della città: da luogo in cui si “studia e basta” a snodo cruciale della vita culturale e produttiva cittadina, italiana e internazionale, con una teoria di progetti e di eventi di altissimo profilo impensabile fino all’alba di questo secolo. Si tratta di un’evoluzione che l’università italiana ha innescato al proprio interno anche e soprattutto su spinta di impulsi internazionali. Fino a venti anni fa l’unico rapporto tra tessuto socio-economico e università riguardava il trasferimento tecnologico, con la registrazione e la diffusione di brevetti, o rapporti di consulenza, lungo una filiera che nel caso di Ca’ Foscari non era poi storicamente così estesa essendo limitata ai soli ambiti della chimica (per i brevetti) e della consulenza economico-aziendale. Era comunque questo il terreno pressoché esclusivo su cui si misurava il tasso di capacità di ogni singola università di incidere nel rapporto con il contesto locale e i suoi segmenti sociali. Lo sviluppo della cosiddetta “terza missione”, come dicevo poco fa, ha arricchito e articolato moltissimo le attività e gli obiettivi di un Ateneo, individuando percorsi di interazione con la società a più livelli, desacralizzando la dimensione prima di fatto esclusivamente accademica che isolava l’Università dalla vita sociale di tutti e di tutti i giorni. Come Rettore ho vissuto molto più da vicino questa dimensione di connessione tra mondo accademico e mondo esterno di quanto non lo faccia un Professore universitario, e ho potuto coglierne al meglio il significato e l’importanza. Ecco allora che si ripresenta un altro ambito di affinità tra i ruoli 32

di Rettore e Presidente di Fondazione: certo, non mi trovo più a contatto con la parte accademica relativa alla programmazione, mentre posso impegnarmi maggiormente invece in un lavoro di indirizzo strategico e di ricerca di partnership, un’attività in linea con la parte più nuova e dinamica del lavoro che ogni Rettore è oggi chiamato a svolgere. Il ruolo delle Fondazioni di origine bancaria negli ultimi anni è assai cambiato. Da ‘semplici’ soggetti raccoglitori ed erogatori a pioggia di fondi sono divenuti attori impegnati nella produzione diretta di contenuti culturali e sociali. Come sta evolvendo nel tempo in questa direzione l’attività della Fondazione di Venezia? In quali nuovi orizzonti la vorrebbe vedere impegnata in questi prossimi anni del suo mandato presidenziale? Le Fondazioni Bancarie sono relativamente giovani; hanno poco meno di trent’anni e il loro percorso si è consolidato significativamente da non più di dieci anni. Uno dei temi centrali nel dialogo interno al mondo fondazionale è stato proprio il meccanismo che ha portato questi soggetti dall’essere meri erogatori a favore di una molteplice serie di soggetti pubblici e privati attivi nella società ad agire quali attori attivi nella programmazione economica e culturale del territorio. Oggi esiste ancora ben marcata la polarizzazione tra enti che hanno vocazioni più filantropiche e altri che invece sono caratterizzati da un approccio più operativo; penso, tra tutti, all’esempio della Fondazione Cariparo, che mantiene un profilo più filantropico rispetto a quello espresso dalla Fondazione di Venezia. Ovviamente l’operatività di una Fondazione è figlia della sua dimensione; a seconda del patrimonio di cui si dispone è possibile avere un impatto più o meno intensivo sul territorio attraverso iniziative filantropiche che mettano in campo le rispettive competenze o specializzazioni. In questi anni la Fondazione di Venezia ha acquisito consapevolezza degli ambiti in cui intende agire prioritariamente, sviluppando una serie di progetti che l’hanno vista rivestire progressivamente un ruolo di attivatore di altri soggetti, oppure viceversa assumere direttamente un ruolo di vero e proprio coproduttore di progetti e attività in una logica che non prevede rigide linee di demarcazione. Questa vocazione operativa è sempre più presente nella nostra Fondazione, sia nella

sua azione di impatto sociale per le fasce più in difficoltà, sia nel campo dell’innovazione, quale driver di sviluppo economico e sociale. Siamo stati “avvitati su noi stessi” per almeno cinque anni, impegnati nella risoluzione della questione M9 che ha catalizzato fondi e interessi, distraendoci dalle altre attività e ambiti di intervento ai quali dobbiamo invece ridare attenzione. Il paradosso di questa situazione è stato proprio nell’aver affrontato la gestazione del progetto M9 come un problema da risolvere, quando invece credo che debba essere considerata una straordinaria opportunità da cogliere. M9 non è un luogo in cui attirare turisti al museo e clienti a quello che era il progetto iniziale del retail center. Quest’ultimo, in particolare, era inteso come strumento per fare profitto e far quadrare i conti, secondo uno schema che non ha funzionato e che comunque a mio avviso è in palese contraddizione rispetto alla mission che abbiamo chiara in mente: creare contenuti di qualità, e massimizzare il nostro impatto sociale. Ecco allora che il progetto si trasforma da problema in opportunità, con la decisione di rendere M9 un polo di attrazione attraverso i propri contenuti, adatti a famiglie e scuole, giovani e adulti, in dialogo continuo con il territorio e la comunità. Un dialogo che viene promosso dedicandosi al secolo passato come punto di riferimento e di partenza per rivolgersi poi con decisione al contemporaneo e al futuro attraverso le mostre temporanee e tutte le attività associate, progettate per rendere il Museo dinamico e interattivo e creare un ponte tra il Novecento e il presente in cui siamo immersi, a stretto contatto con i grandi temi di oggi: l’innovazione, la sostenibilità, il dialogo multi-etnico e religioso, il racconto del paesaggio, del territorio e dei suoi protagonisti. In questa prospettiva, il retail center perde completamente significato per lasciare spazio a un progetto nuovo, la creazione di un innovation center che renda M9 luogo di formazione avanzata e di attività scientificotecnologica, acceleratore e incubatore di imprese innovative e startup, dedicato ai giovani e sviluppato con i giovani. Seguendo questo sviluppo, M9 diventa allora un viaggio a 360 gradi sul tema dell’innovazione, sia attraverso il Museo, sia attraverso una serie di esperienze concrete e condivise che un centro di energia pulsante è in grado di offrire ai suoi utenti “dando del tu” al futuro. Ovviamente questa vocazione all’innovazione


è molto nelle mie corde e coerente con il mio profilo di ricercatore, e mi permette di pensare a M9 come a un progetto inserito in un contesto esteso, capitolo di un discorso più ampio che vorrei si riflettesse in tutte le azioni della Fondazione, anche in ambito sociale. Un maggiore impegno per il sociale e il welfare rappresenta infatti l’altro indirizzo su cui ho voluto concentrare i miei sforzi, trovando il pieno appoggio degli Organi di Governo della Fondazione: una direzione di lavoro che cerca una maggiore interazione con il territorio e le associazioni. Attenzione però: non attraverso un’azione frammentata in una miriade di piccoli interventi polverizzati, bensì con iniziative strategiche che riescano a penetrare in profondità nel tessuto sociale ed economico, costruendo qualcosa di rilevante a favore dei giovani e della formazione, dei segmenti sociali più fragili, del ripopolamento della città e delle altre tematiche che ci stanno a cuore. Contiamo di poter dare presto maggiori informazioni su queste iniziative rivolte ai diversi comparti della Città Metropolitana; abbiamo molti spunti a riguardo e idee precise su come realizzarli. In sintesi, immagino una Fondazione attivamente impegnata in progetti concreti, capace di catalizzare l’interesse di diversi soggetti e di coordinarne l’azione a favore degli ambiti caratterizzanti della nostra missione, anche attraverso le nuove iniziative e i nuovi indirizzi del polo M9. M9 rappresenta senza ombra di dubbio la grande, rischiosa e ambiziosissima scommessa della Fondazione sul terreno del proprio futuro e anche di un certo futuro sistemico nell’ambito della Città Metropolitana, perlomeno sul fronte culturale, sociale, della riqualificazione urbana. Un progetto di cui si è detto tutto e il contrario di tutto. A noi è sembrata una sfida di altissimo livello sul piano del contenuto, della novità identitaria di essere-museo oggi in Italia, con questa idea quanto mai intrigante di concentrarsi sulla radice ancora viva del nostro essere contemporanei, quella di ieri, del Novecento. Una sfida affascinante e di rara complessità che ha espresso un’altissima qualità di contenuti. Bisognava dedicare probabilmente altrettanta concentrazione, impegno, qualità nella comunicazione, nel marketing, nella definizione e nella cura dei variegati e distinti target 33


incontro

INTERVIEW PRESIDENTE FONDAZIONE DI VENEZIA

potenzialmente interessati a questi stessi contenuti. Forse la fretta di aprire badando pressoché esclusivamente ai contenuti pensando che il resto sarebbe venuto dopo e quasi di conseguenza è stata la ragione principale della iniziale criticità in termini di successo del progetto. Cosa ha in cantiere per rilanciare e ben collocare questo straordinario museo con tutta la sua specificità nell’amplissimo contesto dell’offerta artistico-culturale della città e del Paese? Come pensa di poter davvero fare di questo peculiare spazio culturale ed architettonico il cuore pulsante del centro della Terraferma? Credo che il problema abbia riguardato soprattutto il terreno della comunicazione. Fino a oggi M9 è stato definito “il museo delle tecnologie immersive”: definizione distorsiva rispetto a quello che il museo rappresenta e che ne limita considerevolmente il raggio d’azione e lo stesso interesse. Uno degli aspetti che ci ha fatto sposare la nuova direzione scientifica di Luca Molinari è stata proprio la definizione che lui stesso ha dato di M9 durante i nostri colloqui: “museo della storia materiale del Novecento italiano”. In questa precisa visione le tecnologie mantengono certamente un loro ruolo centrale, ma solo in quanto strumentali al progetto, non in quanto entità da esibire autoreferenzialmente senza costrutto. Da questa idea che abbiamo convintamente sposato, si è potuto dare avvio a un percorso in primo luogo identitario, un processo necessario e propedeutico a permetterci poi di instaurare con il pubblico dei visitatori un dialogo sul presente attraverso la programmazione delle mostre temporanee. Il nodo cruciale è qui, nelle modalità attraverso le quali il focus si sposta, dal cercare attenzione attraverso i wow effects della tecnologia, al diventare luogo in cui si discutono, si dibattono, si osservano e si vivono temi interessanti con un linguaggio comprensibile, attraverso il quale comunicare messaggi chiari e coinvolgenti. M9 deve essere un luogo dove è piacevole andare perché sai di trovare cose interessanti. A fare da complemento a tutto questo c’è la formazione, che potrei definire certamente uno dei pilastri del nostro core business, di cui vogliamo ‘riappropriarci’, curandola per via diretta grazie al nostro personale per sfruttarne al meglio le potenzialità strategiche. Nonostante l’alto grado di scetticismo con cui dobbiamo quotidianamente fare i conti, ho 34

accettato questa sfida perché sono assolutamente convinto che si possa vincere, rendendo questa impegnativa scommessa museale un centro di propagazione di stimoli e di progetti che innervano il territorio. Una delle prime urgenze che ho manifestato quando sono arrivato alla Fondazione è stata proprio la volontà ferma di concentrarsi su noi stessi, sulla radice del nostro progettare, invitando tutti i collaboratori a disporsi strategicamente sordi agli atteggiamenti ipercritici, a volte perfino irritanti, attorno a M9. Quando si è sotto le lenti dei riflettori per delle criticità palesi, la cosa più sbagliata è farsi governare dalla rassegna stampa, dai tempi e dai modi troppo e sempre più spesso semplificatori di una comunicazione che si fa troppo spesso tentare dalla fretta di emettere giudizi e sentenze perentori e sovente non troppo meditati. Dobbiamo ragionare a mente fredda, senza farci coinvolgere da polemiche ad alto tasso di emotività: la riapertura, dopo un periodo che spero non si ripeta mai più, dovrà essere miratamente graduale, condotta con grande attenzione e cura, con azioni ed eventi congrui a questa logica progressiva, così come accaduto con le performance di arte contemporanea con cui abbiamo deciso di sfruttare gli spazi versatili delle scale e degli ampi corridoi di M9. Dobbiamo sottrarci in tutti modi a quella nociva ansia di dover inseguire visto che ora come ora non c’è proprio davvero nessuno da rincorrere. La sfida è con noi stessi, con le nostre potenzialità: una partita difficile proprio perché queste potenzialità sono di livello altissimo e in quanto tali chiedono lucidità e visioni ampie e profonde. La fretta sarebbe ora la nostra peggiore nemica. A quali esperienze museali internazionali dovrebbe più ispirarsi un progetto così innovativo, unico almeno in Italia, quale è M9? Io personalmente sono partito dall’osservazione di quello che fanno i musei nel mondo, incluse istituzioni con una grande tradizione come il British Museum, che fa del comparto educational uno dei pilastri della propria offerta culturale, e della sezione Communities, strumento di dialogo con le comunità locali. Un’idea quest’ultima di cui mi sono innamorato subito e che cercheremo di riprodurre anche a M9. Come il British e come i musei internazionali dovremo cercare in tutti i modi di rendere i nostri contenuti coinvolgenti per la comunità in cui viviamo e a cui ci rivolgia-

mo. Osservando i numeri del rapporto degli advisor reclutati lo scorso anno per fare un quadro dello stato dell’arte, M9 risulta ancora un corpo largamente estraneo rispetto ai residenti del territorio in cui è inserito. Questo è un tema centrale da affrontare e su cui lavorare per invertire la tendenza. La ricerca dei visitatori deve essere certamente un obiettivo per il museo, e però non deve distrarci dal lavoro teso ad affermare un’identità forte culturalmente e radicata presso le comunità locali di riferimento, declinata secondo i diversi pubblici che M9 può raggiungere con l’obiettivo di farli sentire protagonisti attivi di una programmazione che sappia coinvolgerne gli interessi. Per raggiungere questo risultato dobbiamo crescere nello spessore delle attività che proponiamo, cosa che non esclude anche una connotazione su temi “pop”, ma in un quadro generale di coerenza. Raggiunta questa dimensione, M9 non potrà che crescere e trovare partner che lo possano accompagnare in questa crescita. La vendita della Casa dei Tre Oci a pelle è stata vissuta quasi come uno sfregio, una ferita da una certa parte dell’opinione pubblica cittadina, quella più sensibile al fare cultura oltre il dato immediatamente turistico. Certamente la costruzione di un progetto-casa dedicato alla fotografia, di fatto assente prima in città con questo assetto organico pressoché permanente, in un’isola certo da decenni in grande trasformazione, in piena gentrification radical chic se vogliamo usare una formula più che trita, eppure però fuori dalla centralità classica delle grandi mostre in città e pur sempre in una parte di Venezia ancora ad alta residenzialità, ha prodotto un segno, un precedente, direi, a dir poco importante nella prospettiva di un’agognata quanto di fatto inconsistente riqualificazione del centro storico in un’ottica di decentramento dell’offerta culturale. Quali le ragioni profonde di questa sofferta decisione? Quali le responsabilità che avvertite nella futura destinazione di questa ormai storica sede culturale della città? E infine, l’abbandono di questo spazio da voi recuperato all’arte e straordinariamente rilanciato significa un disimpegno per quanto riguarda una vostra azione diretta nell’organizzazione di mostre in particolare fotografiche come sin d’ora avvenuto alla Giudecca, oppure


M9 come Museo del Novecento deve cercare di rendersi universalmente interessante e al contempo parlare alle comunità del territorio in cui si trova. Un museo deve certamente essere un luogo di visita, ma al contempo deve sapersi definire anche quale centro di produzione di contenuti, di interazione con il pubblico e con le istituzioni questo vostro impegno rimane vivo in qualche altro spazio in città? È stata una decisione sicuramente sofferta, ma nell’ordine delle cose se inquadrata nella scelta più generale di riequilibrare il patrimonio della Fondazione alienando parte degli immobili per poter recuperare redditività e quindi risorse da impiegare in attività di su vari settori di azione nel territorio. Una decisione che contestualmente ci vede impegnati a continuare l’esperienza della fotografia nel centro storico della città. Non sarà M9 la nuova “casa della fotografia”: si tratterebbe di una casacca troppo stretta per il Museo e credo rappresenterebbe un depauperamento della città storica che non vogliamo in nessun modo contribuire a determinare. È nostra piena e consapevole intenzione quella di mantenere la legacy dei Tre Oci, e di continuare a svilupparla. Non mancano certo i luoghi in cui poter proseguire questo importante percorso espositivo: troveremo altri spazi in grado di ospitare mostre del livello di quelle allestite in questi anni, e una nuova sede potrà anche superare i limiti strutturali – di dimensione – che la Casa manteneva ancora oggi. D’altra parte, se si guarda all’intero percorso della Fondazione di Venezia per i Tre Oci, emerge anche una valutazione di quest’ultimo passaggio diversa da quella negativa che molti hanno espresso. Acquisita nel 2000, una ristrutturazione preziosa di questo palazzo così prezioso ne ha determinato l’uscita da un lungo periodo di oblio e una valorizzazione unica grazie all’esperienza condotta in collaborazione con Civita Tre Venezie che ha reso i Tre Oci un riferimento nazionale e internazionale per la fotografia e un luogo culturalmente vivo e aperto alla cittadinanza, ancora più importante se parliamo di un microcosmo cittadino come quello della Giudecca. Affidare oggi la Casa a un’istituzione culturale di grandissimo spessore internazionale come il Berggruen Institute rappresenta un altro passo di quello stesso percorso di valorizza-

zione della Casa, certamente di natura diversa ma non meno importante. Una scelta che ha ancora una volta chiuso ogni spazio di pertinenza a quel profluvio di sterili polemiche che si sono trascinate per mesi, via stampa e non solo, attorno a un presunto disimpegno della Fondazione verso il futuro culturale di Venezia. Non solo non è così, ma addirittura con questa scelta abbiamo introdotto in città una nuova istituzione culturale internazionale. Insomma, non proprio una cosa da niente... La città vive in una sempre più cronica dimensione di forbice aperta. Da un lato, anche grazie a un epicentro delle arti contemporanee globali quale è la Biennale, si registra un tasso di internazionalizzazione culturale sempre più spiccato in particolare sul fronte dell’arte ma non solo, con l’insediamento in chiave permanente di istituzioni e fondazioni culturali provenienti da ogni dove che deputano Venezia quale uno dei primi centri mondiali delle arti; dall’altro non si può non registrare una sempre più cronica incapacità di fare sistema valorizzando adeguatamente questa tendenza da parte della classe dirigente veneziana, con un’Amministrazione che decide incredibilmente di permettersi il lusso di non avere in giunta neanche un Assessore alla Cultura, in una città in cui ci sarebbe bisogno di un Ministro della Cultura più che di un semplice assessore. In questo vuoto sistemico, non crede che la Fondazione di Venezia potrebbe e dovrebbe candidarsi al ruolo di connettore di questa nuova ondata di soggetti internazionali insediatisi negli ultimi anni in città, creando delle connessioni sistemiche con le altre istituzioni culturali storiche veneziane? È quello che ho auspicato nelle linee programmatiche della mia candidatura. Sì, credo che davvero ci sia molto da lavorare in questo senso. La Fondazione di Venezia deve senz’al-

tro porsi questo obiettivo, per ruolo, per mission, per radicamento territoriale, per il respiro culturale che anima i suoi progetti e le sue attività, tra cui oggi anche un grande Museo contemporaneo. Non è certo un caso, come ho appena detto, che la nostra ricerca di un acquirente per i Tre Oci si sia senza alcun tentennamento e sin dalla prima ora indirizzata verso un soggetto internazionale attivo nella cultura e nelle arti. Credo che questa crescita così significativa della presenza di istituzioni e fondazioni culturali provenienti da ogni dove in città sia il segnale più virtuosamente in controtendenza alle campane a morto che incessantemente suonano per il futuro di qualità della vita sociale in centro storico. Non capirlo, non lavorare incessantemente su questo, sul creare un terreno di condivisione tra soggetti culturali storici e nuovi è davvero incomprensibile a mio modo di vedere. Certo, la Fondazione non può sostituirsi agli altri soggetti deputati formalmente a occuparsi di questo tema nodale del nostro presente e del nostro futuro, ma per quanto ci riguarda continueremo nel nostro forte impegno nel creare tavoli di confronto e di sintesi tra tutti i soggetti, istituzionali e non, impegnati ad elevare l’offerta culturale della città. Credo sia un dovere da parte nostra contribuire a migliorare i percorsi sistemici di questo straordinario luogo troppo ancora caratterizzato da politiche frammentarie, orfane di visioni concentriche.

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May 22nd 2021> February 27th 2022 Silvano Rubino iSao & Stephanie blake DiDieR Guillon & special guest

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incontro PREVIEW M9

LE PROSSIME MOSTRE Draw, love, build. L’architettura di Sauerbruch Hutton

Un Novecento molto contemporaneo M9 adotta un’innovativa piattaforma software museale Continua il processo di trasformazione e di innovazione del Museo del ‘900 di Mestre. Con la nuova piattaforma tecnologica, M9 si afferma come museo all’avanguardia per un sistema di servizi efficienti ed efficaci non solo ai fini della gestione, ma anche in grado di guidare la riorganizzazione dei contenuti in risposta ai comportamenti di visita. EMMA (Electronic Museum Management Analytics) e il suo modulo SIMPA (Sensor Intelligent Museum Positioning Analytics), progettata da RnB4Culture, fornisce un servizio digitale integrato per la biglietteria, le prenotazioni, la gestione dei servizi e la costruzione di analytics dei visitatori e dell’esperienza di visita del museo. La modularità e la scalabilità della piattaforma offrono un servizio personalizzabile e adattabile, con costi razionalizzati, migliore gestione degli exhibit, bookshop e servizi di ticketing integrati accessibili da desktop o da mobile. Il sistema di analytics permette di analizzare in modo anonimo e aggregato i dati dei visitatori individuando i diversi segmenti di pubblico del museo nel pieno rispetto dei criteri di tutela della privacy. Il sistema di segmentazione dei visitatori è integrato da un ulteriore innovativo sistema di posizionamento, il SIMPA, che grazie a specifici “tag” indossati dai visitatori, e integrati tramite tecnologia UWB (Ultra Wideband) con antenne disposte all’interno del museo, permette, in modo del tutto anonimizzato, di tracciare i percorsi di visita fornendo a curatori e gestori museali informazioni preziose sul grado di interesse dei diversi elementi del museo, sui temi di fruizione, sulla funzionalità degli spazi utilizzabili per migliorare l’esperienza di visita e rispondere sempre meglio alle aspettative dei visitatori. La localizzazione in tempo reale della posizione dei visitatori nello spazio museale consente inoltre molte altre applicazioni, tra le quali il monitoraggio del distanziamento sociale e, grazie a un sistema di segnalazione dei dispositivi indossati dai visitatori, anche la prevenzione di eventuali situazioni di assembramento. «È un nuovo passo verso il potenziamento del nostro sistema museale – ha dichiarato Luca Molinari, direttore scientifico di M9 – e insieme uno strumento innovativo per migliorare la qualità dell’offerta culturale all’interno della mostra permanente, su cui stiamo lavorando per allargare il coinvolgimento verso un pubblico sempre più vasto e trasversale». www.m9museum.it

In luoghi particolarmente sensibili di varie città europee, dove trovare soluzioni ovvie sembrava quasi impossibile, lo studio berlinese di Matthias Sauerbruch e Louisa Hutton ha dimostrato che l’esistente può continuare a esistere ridefinendosi funzionalmente ed esteticamente: M9 il Museo del ‘900 di Mestre da loro progettato è a riguardo una felice ed eloquente espressione. In oltre trent’anni di attività lo Studio ha realizzato un numero importante di progetti capaci di coniugare il dato funzionale, la sostenibilità e il design con l’impiego delle più recenti tecnologie edilizie. La mostra è una meticolosa indagine sul DNA dell’architettura di Sauerbruch Hutton. Grazie a una cinquantina di modelli, tutti corredati da un tablet con contenuti fotografici, audio e video, a disegni e campioni il visitatore potrà sperimentare le creazioni dello Studio berlinese.

Le sfide di Venezia: l’architettura e la città nel Novecento In occasione delle celebrazioni per i 1600 anni della fondazione di Venezia e in contemporanea alla grande esposizione Venetia 421–2021. Nascite e rinascite a Palazzo Ducale, la mostra curata Guido Zucconi e Archivio Progetti, Università Iuav di Venezia, sviluppa uno dei più rilevanti capitoli della storia di Venezia, quello dedicato ai cambiamenti architettonici nel corso del XX e del XXI secolo. Cinque le sezioni di indagine approfondite attraverso immagini, progetti e documentazione: Venezia oltre Venezia: la dimensione internazionale, la Biennale, la città balneare; Venezia oltre Venezia: la dimensione territoriale; La dimensione internazionale nel secondo dopoguerra; La fine del modello espansivo, a partire dagli Anni ‘70; Dopo il 1980, Venezia come laboratorio internazionale per l’architettura nella nuova dimensione residenziale; Venezia, laboratorio internazionale per l’architettura: le nuove attrezzature culturali. M9 Museo del ‘900 3 settembre-9 gennaio 2022 via Giovanni Pascoli 11, Venezia Mestre www.m9museum.it

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Intervista Francesco Bruni

LA LEZIONE DI CHECCO Non credo tanto nei limiti, si tratta di provarci sempre e di dare tutto sé stesso. Poi il limite è qualcosa che ci creiamo noi, non esiste nella realtà di Paolo Lucchetta foto di Carlo Borlenghi

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cresciuto all’ombra del Monte Pellegrino, il promontorio ai piedi del quale c’è Palermo e che divide il golfo del capoluogo siciliano da quello di Mondello, condizionandone il vento e le sue rotazioni. In questi due golfi Francesco Bruni, detto Checco, nato appunto a Palermo nel 1973, ha imparato a interpretare le brezze. Una visione del vento che lo ha portato a fare tre Olimpiadi, cinque volte la Coppa America, di cui quattro con Luna Rossa. Il suo palmares comprende fra le altre cose anche 7 titoli Mondiali, 5 Europei e 15 Nazionali in varie classi, dal Laser all’altura, dalla Star al 49er, senza dimenticare proprio nel matchrace l’iconica Congressional Cup 2010, e l’Europeo Moth a Lagos in Portogallo. Checco da diversi anni ormai ha preso l’abitudine di regatare e spesso con successo, dato che è vice campione mondiale nella classe Moth. Una cosa logica per chi è timoniere di Luna Rossa e di Artemis alla Coppa America di Bermuda! Bruni è cresciuto infatti con la vela più “classica”, come il Laser, ma come tutti i velisti di altissimo livello è poliedrico e nel giro di poche settimane può passare dalla Star al foiling sul Moth, così come fanno i grandi campioni. Il “manico” di Checco è riconosciuto come uno dei migliori al mondo indipendentemente su che barca vada. Siamo diventati amici di lui e della sua famiglia durante l’America’s Cup World Series nel 2012 a Venezia, per poi rincontrarci negli anni a Palermo e San Francisco e risentirci con buona frequenza. Checco, pochi giorni dopo la conclusione della memorabile finale del 17 marzo scorso nelle acque di Auckland, mi ha gentilmente concesso una chiacchierata/intervista, finalmente in vacanza, dalla Nuova Zelanda, in camper con la sua famiglia.

FORZA PALERMO!

P.L. Caro Checco, parlare con te vuol dire navigare con l’immaginazione nei mari del mondo. Mi piacerebbe partire ascoltando il racconto dei luoghi dove è iniziata la tua avventura, del tuo mare e della tua terra, di Palermo, del promontorio del Monte Pellegrino, che condiziona il vento e le sue rotazioni nei due golfi di Palermo e di Mondello, dove si dice tu abbia imparato a interpretare le brezze. F.B. Ovviamente per me è un posto con un particolare significato, dove ho imparato a navigare da piccolo inizialmente con mio padre, che mi portava in barca sul Laser quando avevo tre anni e dove poi ho iniziato con l’Optimist. È un posto caratterizzato tendenzialmente da brezze leggere e da questo forse nasce la fama che io sia particolarmente bravo col poco vento. Credo che proprio perché cresciuti in quei posti, in quel tipo di condizioni, un po’ come i veneziani e i triestini, forse abbiamo un fiuto del vento particolare.

DA PALERMO AD AUCKLAND

P.L. Hai fatto molte campagne di America’s Cup e finalmente quest’ultima da timoniere assieme a James Spithill, diventando il primo timoniere non anglosassone a vincere una regata in America’s Cup. Da Palermo ad Auckland hai compiuto un lungo, bellissimo viaggio, con il mare nel sangue. Quanto ne sei davvero consapevole? F.B. Da Palermo a Auckland è stata lunga, ci ho messo tanti anni prima di arrivare a tenere in mano il timone di Luna Rossa. Una carriera che mi ha offerto l’occasione di ricoprire ruoli importanti su Luna Rossa, come il tattico a San Francisco, nella quale però, come del resto è


Francesco Bruni, detto Checco, è un velista Italiano. Ha partecipato tre volte alle Olimpiadi (1996, 2000, 2004), tutte in classi diverse (Laser, 49er, Star). Ha corso con Luna Rossa alle Louis Vuitton Cup nel 2003 e nel 2007, e poi nelle America’s Cup World Series 2011-2013 e 2013. Quando Luna Rossa si è ritirata dall’America’s Cup del 2017, Bruni si è unito ad Artemis Racing per l’America’s Cup World Series 2015-16. È stato, assieme a James Spithill, timoniere di Luna Rossa durante l’America’s Cup del 2021 ed è stato il primo timoniere non anglosassone ad aggiudicarsi una regata della competizione.

© COR36 | Studio Borlenghi

VENEZIA E IL MARE Tra metà maggio e i primi di giugno Venezia rivive la sua vocazione marinara. Tre gli appuntamenti importanti: la Festa della Sensa (l’Ascensione di Cristo), che per i veneziani coincide con il giorno, quest'anno il 16 maggio, in cui il Doge sul Bucintoro lancia nelle acque davanti a San Nicolò del Lido un anello d’oro come simbolo dello “sposalizio” tra Venezia e il mare; la Vogalonga 1600, in programma il 23 maggio in formato ridotto (solo 500 imbarcazioni e solo voga alla veneta), che quest’anno è un puro atto d’amore per Venezia e la sua laguna; il Salone Nautico, dal 29 maggio al 6 giugno all’Arsenale di Venezia, nel cuore dell’industria storica navale, dove passato e futuro si incontrano. 39


tracce INTERVIEW FRANCESCO BRUNI

normale che sia, nelle prime campagne ho fatto una panchina lunga. Credo quindi di essermi meritato sul campo, dopo lunghi anni di gavetta, il riconoscimento di essere uno dei due timonieri in questa Coppa. Possiamo dire anche che queste barche mi si addicevano, barche nuove che hanno in parte del monoscafo e in parte della barca foiling, ed io nella mia carriera ho fatto vela davvero un po’ con tutto.

AUCKLAND

P.L. Un percorso controvento, come una metafora della vita, tra le onde, con rabbia e con passione; un po’ come la sfida da sfavoriti, ma senza paura, contro New Zealand. Parlaci di Auckland, della cultura maori, di un paese nel quale la vela è uno sport nazionale assieme al rugby; il paese degli inventori dell’AC75, il paese di Peter Burling, il prototipo del velista perfetto: giovane, abituato alle più competitive classi veloci e con un’intelligenza velica fuori dal comune. F.B. Credo che la Nuova Zelanda sia un paese unico se hai la vela nel sangue come me. Un luogo fantastico, bellissimo, che mi affascina da sempre moltissimo e come me tutta la mia famiglia. Un posto che amiamo moltissimo, che in qualche modo ormai ci appartiene dopo aver trascorso qui lunghi periodi. Il fatto che dopo aver concluso questa lunghissima maratona sportiva siamo ancora qui a trascorre le nostre vacanze in camper nel nord del paese, beh, la dice lunga a riguardo.

INTELLIGENZA VELICA

P.L. Come definiresti l’intelligenza velica? F.B. L’intelligenza velica ha molto a che fare con il leggere il mare, capirlo, interpretarlo; è qualcosa che cresce con te e che impari col tempo.

PADRI SPIRITUALI

P.L. Una curiosità: quali erano, quando eri ragazzo, i tuoi idoli sportivi, nella vela ma non solo, quelli che ti hanno indicato la strada, che ancora oggi ti aiutano a portare sulle spalle una certa responsabilità e a lavorare per mesi ad obiettivi inconfessabili, con in testa una sola cosa, vincere? A chi pensi quando nel bel mezzo delle più complesse criticità, per quanto da sempre abituato alle difficoltà, devi attingere a delle forze speciali per superarle? F.B. Di padri spirituali certamente ne ho avuti di importantissimi nel mondo della vela. Ricordo bene Paul Cayard che, quando 40

ero bambino e andavo in Optimist, ci fece sognare tutti col Moro di Venezia e insieme a lui più di recente Torben Grael, un vero mito per me. Un maestro che ricorderò sempre è stato Valentin Mankin, un russo che è stato per molti anni il Commissario Sportivo della Classe Olimpica. Ho avuto la fortuna di essere suo allievo per una decina d’anni se non di più. Da lui ho imparato moltissimo.

CONVIVERE CON IL LIMITE

P.L. Tuo fratello Ganga, alla fine di una telecronaca sofferta, ci ha fatto sorridere citando un proverbio siciliano: «Il vero ‘scecco’ si vede in salita». Immagino si tratti di un detto che si riferisce al fatto di dover convivere con il concetto di limite. Ci sono dei limiti che ti spaventano davvero? F.B. No, sinceramente non ci sono limiti che mi spaventano in modo particolare. Non credo tanto nei limiti, si tratta di provarci sempre e di dare tutto sé stessi. Il limite è qualcosa che ci creiamo no; non esiste nella realtà.

SOLIDARIETÀ COLLETTIVA

P.L. Luna Rossa ha stupito il mondo per la qualità del suo team. Alcuni lo considerano il capolavoro di Max Sirena, amatissimo anche lui, definito il “Leader normale”, l’antitesi della rockstar. Una famiglia allargata, un team di cento persone, talenti super-bravi tecnicamente, ma con una grande attitudine a pensare in funzione del gruppo. Nessuno disposto a tirarsi indietro, sempre pronti a riconoscere e imparare dai propri errori. Parlaci di questa solidarietà collettiva, di questo miracolo italiano. F.B. Devo dirti che è stata una bella sorpresa anche per me. Il gruppo funzionava, il team era molto coeso. Secondo me sono stati molto importanti gli allenatori, più di uno. Philippe Presty, Jacopo Plazzi, Vasco Vascotto hanno fatto un ottimo lavoro per rendere coeso il Sailing Team e il Team in generale.

I DUE TIMONIERI

P.L. La storia umana più bella e apprezzata è stata la convivenza tra i due timonieri, un’invenzione decisiva e geniale. Le differenze tra i tuoi battiti e quelli di Spithill sono la più bella definizione sintetica di due anime complementari del Team. Un’arma micidiale questa dei due timonieri: Checco l’anima latina e Jimmy Spithill il glaciale anglosassone. Con grande sorpresa ed ammirazione per molti giorni tutti noi però sobbalzavamo ogni

qualvolta che, tagliato il traguardo vittoriosi, esclamavi: «Niente festeggiamenti, ragazzi, pensiamo alla prossima regata!». Uno spirito quasi anglosassone che ha stupito tutti, ma in realtà la passione latina covava sotto. Resterà una delle più belle immagini il quasi imbarazzo di Spithill quando lo hai scosso in un abbraccio forse troppo caloroso per un uomo di ghiaccio australiano, strapazzandolo al grido di: « È bellissimo!». Parlaci di questa geniale anomalia. F.B. È stata una scenetta sinceramente carina anche perché autentica, non premeditata e ti garantisco che ci siamo tutti e due comportati in modo naturale. Per lui era normale dire: «It was a good day at the office». Per me è stato altrettanto naturale scuoterlo e dire: «Oh, ma che stai dicendo?». Con Jimmy si è instaurato un bellissimo rapporto. Abbiamo lavorato molto bene insieme, abbiamo imparato credo entrambi uno dall’altro, io sicuramente tanto da lui; insomma, ci siamo trovati benissimo insieme. È stata un


mix tra apparenti opposti che ha funzionato a meraviglia. Non era indispensabile questa trovata del doppio timoniere; si poteva certo fare in altri modi, come peraltro hanno fatto i neozelandesi, però credo sinceramente che sia stato uno dei nostri punti di forza.

CON I FOIL NAVIGARE È UN PO’ VOLARE

P.L. Vedervi navigare con gli AC75 è sembrato come se volaste con barche simili a degli aerei: con più spinta, meno resistenza e velocità impressionanti. Vela o non vela, il tema è finalmente apparso come irrilevante: per vincere bisogna primeggiare in tecnologia, non solo in coraggio, visione, preparazione individuale e organizzazione della squadra. Che sviluppo futuro prevedi per il Foil nella vela in generale? F.B. Il Foil ha invaso il mondo della vela normale. Ormai si usano i Foil anche in oceano, più o meno spinti. È un’invenzione che viene usata nel mondo della nautica a 360 gradi,

se ne vedranno sempre di più sicuramente e le barche cominceranno a utilizzarli il più possibile.

PASSIONE ALL’ITALIANA

P.L. «Siamo italiani, che cavolo!». Questa tua esclamazione ci ha accompagnato con il sorriso per giorni. La spedizione Luna Rossa può essere considerata alla fine una vittoria per la vela italiana, per le aziende e per un equipaggio che ha mostrato grande organizzazione senza perdere la sua anima latina. Perfino dal punto di vista del design, Paul Cayard ha definito Luna Rossa un tipico prodotto made in Italy in stile “Pininfarina”, ovvero un oggetto esteticamente perfetto, ma anche molto efficace sull’acqua. Alla fine quale spiegazione razionale ti dai della passione degli italiani per Luna Rossa? F.B. Credo sia stato un progetto tutto italiano che ha funzionato alla perfezione. Ritengo che abbia ragione Paul: la barca era molto bella, anche dal punto di vista estetico, veloce nelle

sue condizioni. Era un oggetto delicato, ben curato e ben coccolato dallo Short Team e dal Comandante Michele Cannoni. Insomma, hanno fatto tutti un lavoro eccellente. Non è stato facile; abbiamo incontrato tanti, tantissimi ostacoli, però è stato un bel lavoro di squadra.

VENEZIA È LAGUNA

P.L. Hai navigato nei mari del mondo, ma sei stato timoniere di Luna Rossa Piranha nelle World Series del 2012 a Venezia. Che ricordi hai del navigare “lento” della laguna? F.B. Navigare in laguna è stata una delle cose più belle che mi sia mai capitata, sia con il catamarano che con quelle barche di legno bellissime, le sampierote, con le quali ho fatto un paio di regate con i miei amici veneziani. Per cui ho un ricordo stupendo; è stata una poesia quell’evento a Venezia. Abbiamo anche avuto vento a parte l’ultimo giorno, quindi è stato particolarmente bello. È un ricordo spettacolare, ti assicuro che non vedo l’ora di tornarci. 41


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ALLE RADICI DEL BELLO di Mariachiara Marzari

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a Fondazione dell’Albero d’Oro,

istituzione culturale senza fini di lucro, nasce nel 2019 con l’obiettivo di restituire vita e anima a Palazzo Vendramin Grimani, già noto come Palazzo Grimani Marcello, dalla candida facciata in stile rinascimentale interamente ricoperta in pietra d’Istria e impreziosita da dettagli scultorei e inserti di porfido rosso egiziano, di marmo verde antico di Tessaglia e di cipollino rosso iassense. Questa dimora sul Canal Grande torna a vivere attraverso la riscoperta della storia delle illustri famiglie che l’hanno abitata e grazie allo studio delle collezioni d’arte disperse, frutto di un’accurata ricerca tuttora in corso e futuro progetto espositivo. Presentando e confrontando espressioni artistiche passate e presenti, il Palazzo diventa un nuovo luogo di trasmissione, di scambio artistico e culturale aperto al mondo, punto di partenza e destinazione di un nuovo affascinante viaggio, reale e immaginario, nell’arte e nella città. Il nome scelto per la Fondazione è omaggio diretto al ramo dei Grimani dell’Albero d’Oro che animò per secoli il Palazzo. La famiglia diede alla Repubblica un doge, Pietro (dal 1741 al 1752), uomo di grandissima cultura, che fece del Palazzo un vero e proprio cenacolo illuminista, vivacizzato dalla presenza di esponenti di vari rami della cultura, dall’architettura alla poesia, dalle scienze alla filosofia. Oltre che raffinati collezionisti, i Grimani dell’Albero d’Oro furono importanti committenti di opere architettoniche, scultoree e pittoriche sia a Venezia che nei domini di terraferma e d’oltremare. I rivolgimenti seguiti alla caduta della Repubblica (1797) e alle varie divisioni ereditarie provocarono la dispersione delle raccolte d’arte della famiglia. In occasione di questa sua attesissima riapertura ufficiale il Palazzo offre al pubblico un percorso espositivo multiforme, dove protagonisti sono gli spazi stessi e gli oggetti esposti: dipinti delle collezioni della famiglia Grimani dell’Albero d’Oro e opere sia antiche che contemporanee in prestito da collezioni private internazionali. Il percorso è arricchito dalle fotografie inedite di Patrick Tourneboeuf (Parigi, 1966), che raccontano attraverso l’occhio attento dell’architetto e fotografo francese il palazzo prima e dopo i lavori di restauro. Alla vigilia dell’apertura ecco cosa ci ha raccontato Daniela Ferretti, già direttrice del Museo Fortuny di Venezia dal

2007 al 2019 e ora anima curatoriale di questa nuova Fondazione, attorno alla genesi di questa intrigante nuova avventura: «Il progetto è semplicemente nato dalla condivisione di una grande passione per Venezia in particolare e per l’arte in generale, arte intesa a 360 gradi. Un’avventura che nasce da un gruppo di amici, imprenditori e professionisti francesi e veneziani: Gilles Étrillard, Béatrice de Reyniès, Jean-François Dubos, Stéphane Bouvier e io stessa. Lo definirei un “collettivo”, una squadra priva di personalismi che concorre ad alimentare e accrescere una passione comune attraverso singole professionalità differenti. La scintilla è venuta dall’intelligenza illuminata della proprietà, parte integrante del progetto, che anziché destinare Palazzo Vendramin Grimani, come capita purtroppo quasi sempre in questi casi, ad uso turistico, ha voluto preservare e restituire questi spazi a favore della cultura e della città. Il nostro presidente Gilles Étrillard, collezionista e amante di Venezia, Béatrice de Reyniès e tutti i membri del Consiglio siamo partiti da un concetto di fondo: non vogliamo essere un museo. Queste sono le radici del nostro impegno e del nostro lavoro oggi e soprattutto in prospettiva: il Palazzo deve essere un luogo dove l’arte è viva, dove l’arte può e deve esprimersi liberamente. La nostra ambizione è a tal fine anche quella di favorire studi e ricerche attraverso borse di studio per approfondire i temi del collezionismo. Siamo un luogo aperto e questo ci pone anche il dovere di essere parte attiva in città, favorendone la rivitalizzazione, perché Venezia rappresenta una parte rilevante di mondo. La cultura deve essere il motore del futuro. Noi cerchiamo di entrare nel tessuto culturale cittadino sottovoce. Non vogliamo essere una corazzata che si presenta in pompa magna a sirene spiegate; siamo davvero un gruppo di persone che condividono un ideale e lo vogliono condividere con altri ancora, questo è il senso profondo che informa questo nostro progetto. Se la città non è città... diventa un mero esercizio. Noi ci crediamo molto e siamo entusiasti di questa sfida, che, ripeto, vuole trascendere l’effimera logica del mero evento, scommettendo su un futuro a portata di cittadino, residenziale, di passaggio, nazionale e internazionale». Fondazione dell’Albero d’Oro Dal 24 maggio Palazzo Vendramin Grimani, San Polo 2033 www.fondazionealberodoro.org


Siamo un luogo aperto e questo ci pone anche il dovere di essere parte attiva in città, favorendone la rivitalizzazione perché Venezia rappresenta una parte rilevante di mondo Daniela Ferretti

NUOVE FONDAZIONI ANISH KAPOOR FOUNDATION

Nonostante l’annuncio che la grande retrospettiva di Anish Kapoor in programma alle Gallerie dell'Accademia è stata posticipata al 2022, è arrivata la conferma che Palazzo Manfrin a Cannaregio sarà la sede della sua futura Fondazione. Le opere di Kapoor lavorano sulla dimensione fisica e percettiva dello spazio, distorcendo l’immagine dello spettatore e dell’ambiente circostante. Il senso sta nella creazione di una dimensione atemporale, immateriale, spirituale dove gli opposti si attraggono e coincidono in una nuova unità che è allo stesso tempo materiale e immateriale, interiore ed esteriore, temporale e infinita. Nella Anish Kapoor Foundation troveranno spazio la sua collezione permanente, il suo atelier, l’archivio e il deposito, una galleria per mostre temporanee con bookshop, uno spazio laboratorio ricreativo e didattico per conferenze e workshop dedicate a studiosi e artisti, in particolare legati alla scultura come forma d’arte.

BERGGRUEN ISTITUTE

Photo Ugo Carmeni

Photo Patrick Tourneboeuf, Courtesy Fondazione dell’Albero d’Oro

Photo Patrick Tourneboeuf

Il gruppo Berggruen Institute, think tank statunitense ideato e presieduto da Nicolas Berggruen che ha fondato il Museum Berggruen a Berlino e il 21st Century Council for the Future of Europe, ha acquistato dalla Fondazione di Venezia la Casa dei Tre Oci, gettando così in Europa le basi per una sede permanente del Berggruen Institute. Lo spazio diventerà un luogo di incontro e dibattito destinato ad accogliere ospiti, studiosi e policy makers di calibro internazionale. La Casa dei Tre Oci manterrà anche la vocazione espositiva in particolare legata ai linguaggi della fotografia, dell’arte e dell’architettura, in co-operazione con grandi musei ed enti internazionali quali il Museum Berggruen, la Tate, il J. Paul Getty Trust, il MOMA, il LACMA, l’Asia Society, la Fondation Beyeler. Il progetto permetterà di mantenere e accrescere il ruolo chiave della Casa dei Tre Oci, garantendo la valorizzazione promossa e realizzata negli anni da Fondazione di Venezia 45


arte IN THE CIT Y

RITRATTISTICA CONTEMPORANEA Nel Palazzo veneziano che racchiude la spettacolare ricostruzione della Tribuna del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani e la sua collezione di statue classiche, Georg Baselitz (Kamenz, Germania, 1938) realizza dodici tele e le colloca nelle sue originarie cornici settecentesche a stucco nella Sala del Portego, dove fino all’‘800 campeggiavano i ritratti della famiglia Grimani. L’artista tedesco rende omaggio a Venezia e alla sua ricca tradizione artistica, da una parte ristabilendo una continuità storica e dall’altra segnalando una rottura tra la celebrata ritrattistica rinascimentale e i suoi equivalenti contemporanei. È Georg Baselitz. Archinto, la mostra curata da Mario Codognato e prodotta da Gagosian, in collaborazione con Venetian Heritage, Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte e il Ministero della Cultura, che apre il 19 maggio a Palazzo Grimani. Il titolo e i lavori esposti fanno riferimento all’enigmatico ritratto del Cardinale Filippo Archinto che Tiziano realizzò nel 1558, caratterizzato da una pennellata densa che confonde la figura con lo sfondo.

Photo Jochen Littkemann, Berlino. Courtesy Gagosian

Georg Baselitz. Archinto 19 maggio-27 novembre Palazzo Grimani, Ramo Grimani, Castello 4858 palazzogrimani.org

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Niki de Saint Phalle - © Fondazione Prada

I dubbi dell’artista Fondazione Prada apre alla narrazione di Peter Fischli «Lo spettro che riappare continuamente per narrare la storia della fine della pittura è un problema fantasma? E in caso affermativo, i fantasmi possono essere reali?». Questi sono stati i dubbi che hanno guidato Peter Fischli nel processo di concezione della sua nuova mostra per Fondazione Prada, Stop Painting, che apre a Ca’ Corner della Regina il 22 maggio. Nel tentativo di rispondere a queste e altre domande aperte, ha identificato cinque rotture radicali nella storia della pittura degli ultimi 150 anni, in relazione alla comparsa di nuovi fattori sociali e valori culturali, che corrispondono a mutamenti di paradigma nell’arte attraverso il rifiuto e la reinvenzione della pittura: la diffusione della fotografia, l’invenzione del ready-made e del collage, la “morte dell’autore”, la critica della pittura come bene di consumo e la crisi della critica nella società tardocapitalista. La mostra intende anche capire se l’attuale rivoluzione digitale può essere all’origine di una nuova crisi della pittura o, al contrario, può contribuire al suo rinnovamento. L’artista ha concepito la mostra come una pluralità di narrazioni raccontate da lui stesso in prima persona. Il percorso espositivo composto da dieci sezioni inizia al piano terra di Ca’ Corner della Regina con una nuova opera site-specific di Fischli, un modello in scala ridotta dell’intero progetto, definito dall’artista come «una scultura di una mostra di pittura”». Stop Painting riunisce più di 110 opere realizzate da più di 80 artisti e si sviluppa al primo piano nobile del Palazzo seguendo un approccio personale e idiosincratico ed evitando di presentare i lavori secondo un semplice ordine cronologico. Un sistema di pareti temporanee attraversano e sezionano gli spazi espositivi, passando attraverso le soglie che collegano le diverse stanze, formando trame convergenti. Peter Fischli. Stop painting 22 maggio-21 novembre Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina www.fondazioneprada.org


Panoramica infinita La Venezia di Giovanni Biasin, un magnifico organismo urbano

Photo Michele Sereni

Nelle sue indagini artistiche, le cui conseguenti mostre sono seguite come le puntate di un noto Commissario, Giandomenico Romanelli, con Pascaline Vatin, ci riserva sempre delle sorprese. Non sono grandi mostre, quelle le ha già fatte il Professore negli anni passati, ma veri e propri regali inaspettati, come dei bauli che vengono aperti per la prima volta e permettono di scoprire dei veri tesori. È il caso della mostra Venezia panoramica. La scoperta dell’orizzonte infinito, aperta dal 14 maggio alla Fondazione Querini Stampalia, costruita attorno alla più grande veduta di Venezia mai realizzata, quella dipinta nel 1887 dal pittore e decoratore veneziano Giovanni Biasin, conservata nelle collezioni dell’antica e prestigiosa Accademia dei Concordi di Rovigo, che viene esposta per la prima volta alla Fondazione Querini Stampalia dopo il recentissimo restauro conservativo. Le sole dimensioni di questo singolare documento, una tempera su carta, bastano a sottolinearne l’eccezionalità: alta poco più di un metro e settanta, la veduta si sviluppa per ventidue metri di lunghezza. Più che una veduta è un ‘panorama’ della città. Giovanni Biasin, formatosi all’Accademia veneziana di Belle arti, si trasferì presto a Rovigo e diventò il decoratore principe di ville, palazzi, ritrovi pubblici, uffici del Polesine, elaborando e brevettando assieme al figlio un tipo particolare di papiers peints. Affreschi, stucchi, rilievi infatti rivestivano pareti e soffitti in stile moderno. Il grandioso Panorama di Venezia fu

realizzato da Biasin nel 1887 per un padiglione temporaneo dei Giardini a Venezia, che doveva accogliere centinaia di opere inviate da artisti e industrie artistiche da tutta Italia per la sesta Esposizione Nazionale (antesignana della futura Biennale, che nasce poco dopo, nel 1895), che si teneva a turno in giro per il Paese. Utilizzando un lungo rotolo di carta rinforzata e servendosi di colori a tempera assai vivaci, Biasin rappresenta Venezia a 360°. Il punto di ripresa, a livello dell’acqua, è approssimativamente il centro del bacino di San Marco, anche se l’artista introdusse delle varianti e delle forzature prospettiche per consentirsi un più efficace, leggero e narrativo ritratto della città con piacevolissimi dettagli di monumenti, edifici, giardini e imbarcazioni. Attorno a quest’opera straordinaria i due curatori offrono in mostra uno sguardo originalissimo sul tema della veduta a Venezia, una sessantina tra incisioni e dipinti che partono dalle minuscole vignette xilografiche quattrocentesche, concentrate quasi soltanto su Piazza San Marco, e si allargano man mano a scorci sempre più vasti dello skyline di Venezia, fino ad abbracciarne l’intero orizzonte. Venezia panoramica. La scoperta dell’orizzonte infinito 14 maggio-12 settembre Fondazione Querini Stampalia, S. Maria Formosa Castello 5252 - www.querinistampalia.org

Walk the line Dagli anni Sessanta sino a oggi, Bruce Nauman (1941, Fort Wayne, Indiana) ha esplorato linguaggi artistici diversi, dalla fotografia alla performance, dalla scultura al video, sperimentandone le potenzialità concettuali e indagando la definizione stessa di pratica artistica. Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale con il Padiglione USA alla Biennale Arte nel 2009, celebrato negli ultimi anni da numerose e importanti retrospettive, l’artista torna a Venezia ospite di Punta della Dogana. Bruce Nauman: Contrapposto Studies è un percorso espositivo inedito, concepito dai curatori Carlos Basualdo e Caroline Bourgeois, conservatrice della Pinault Collection, in collaborazione con Bruce Nauman stesso, che offre attraverso una serie di installazioni video un’indagine sui temi fondativi del suo lavoro: suono, performance, studio dell’artista, relazione tra corpo e spazio o spazi che occupa, fisici, psicologici, culturali. Dalla sperimentazione con i videoregistratori fin dalla prima comparsa di questi strumenti, all’impiego degli ultimi iPhone e della tecnologia 3D, l’artista americano si è sempre messo nella posizione di un “Beginner Beginning”, un principiante agli inizi. E lo dimostra a Punta della Dogana: Nauman riparte dalla rivisitazione della serie Contrapposto, che dà il titolo alla mostra, uno dei primi lavori in cui sperimentava l’uso delle immagini in movimento – il celebre Walk with Contrapposto del 1968 – e sfruttando le possibilità offerte dall’attuale evoluzione tecnologica supera i limiti precedenti per realizzare qualcosa prima non possibile.

Bruce Nauman: Contrapposto Studies 23 maggio-9 gennaio 2022 Punta della Dogana, Dorsoduro 2 - www.palazzograssi.it

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Gli italiani si voltano, Milano, 1954 © Archivio Mario De Biasi / courtesy Admira, Milano

VALMONT MARIO DE BIASI 2900 FOTOGRAFIE 1947-2003 VENEZIA / TRE OCI 13.05.21 > 09.01.22 Mostra organizzata da / Exhibition organized by

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Con / With

Promossa da / Promoted by

Media partner

Sponsor Tecnico / Technical Sponsor

In collaborazione con / In association with TRE OCI CLUB


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FIAT LUX

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Sulle tracce del Bianconiglio… Fondation Valmont si trasforma nel “paese delle meraviglie”

Photo Francesco Allegretto

Fondation Valmont torna a immergersi in un mondo di fiaba. Dopo Hansel & Gretel – White Traces in Search of Your Self (2019) e Beauty and the Beast (2017), in occasione della 17. Biennale Architettura i curatori Luca Berta e Francesca Giubilei presentano Alice in Doomedland dal 22 maggio al 27 febbraio a Palazzo Bonvicini. La terza mostra tematica di Fondation Valmont riunisce in un progetto collaborativo Didier Guillon, la coppia di artisti Isao e Stephanie Blake e Silvano Rubino, oltre agli allievi dell’organizzazione non profit newyorkese Publicolor, ai quali è stato chiesto di sviluppare un lavoro ispirato a uno dei più celebri passaggi del racconto, ovvero il teaparty del Cappellaio Matto. La mostra si apre con The Garden Dreamers, il giardino incantato dove ha inizio il sogno ad occhi aperti di Alice, a cui gli artisti hanno lavorato insieme trasformando la sala di accesso/uscita in un’oasi meditativa. I visitatori sono invitati a prendere posto sul manto erboso, disegnato da Isao come una sorta di onirico giardino alla francese, per accomodarsi sui cuscini imbottiti d’erba profumata e abbandonarsi alle sensazioni dell’esperienza olfattiva ideata da Guillon, lasciandosi ispirare dalle suggestioni della videoinstallazione di Rubino che cita i passaggi più poetici del romanzo di Carroll. Attraversando il giardino si giunge alla sala allestita da Silvano Rubino, che interroga lo spettatore sulla propria identità – “who are you?” –, in un’interpretazione del testo di Alice che si focalizza sul dualismo tra conscio e inconscio. Parte di un sorprendente arredo sovradimensionato, un’immensa scrivania su cui

è appollaiato un corvo rivela il passaggio da seguire per approdare alla sala Drink Me, che accoglie i visitatori con un’Alice gigante, troppo grande per la stanza in cui si trova e quindi perfetta rappresentazione della sensazione suscitata dalla lettura, in questo caso opprimente. Non si può che lasciarsi (sor)prendere da questa bambola enorme, il cui corpo rimane tuttavia ancorato alla realtà grazie a elementi rigidi, come la mano e la scarpa realizzate in ceramica, materiale preferito di Isao. Il risultato ottenuto è il collegamento dello spazio-tempo del romanzo con quello odierno. La convergenza del percorso dei visitatori con quello di Alice trova infine il suo culmine nella The Room of Tears di Didier Guillon. Sempre attento ai problemi sociali, etici ed estetici che caratterizzano il nostro presente, l’artista collega la fiaba al contemporaneo. Individuate le maggiori dieci sfide che si pongono di fronte all’uomo, Guillon le materializza in vere e proprie gabbie, lasciando al visitatore la possibilità di interagire, aprendole o meno, mentre è avvolto dal blu del “mare di lacrime” della piccola Alice. L’artista invita così ad abbracciare la dimensione assurda della storia e a seguirne il percorso, per infine contemplare la realtà con occhi nuovi. Alice in Doomedland è una mostra dall’inusitata potenza evocativa che guarda il mondo senza compromessi: sarà davvero condannato come annuncia il provocatorio titolo? Non resta che scoprirlo… It’s late, it’s late for a very important date! Alice in Doomedland 22 maggio-27 febbraio 2022 Fondation Valmont Palazzo Bonvicini - fondationvalmont.com

Photo Vittorio Pavan

Vedova accendi la luce è il titolo scherzoso, colmo di affetto e per nulla dissacrante della nuova mostra al Magazzino del Sale ideata dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova. Lo spazio sempre strabiliante concepito da Renzo Piano alle Zattere risplende in maniera assai giocosa, dopo la sosta forzata causa pandemia, grazie ad alcune opere realizzate ad hoc nel 2020 da Georg Baselitz dedicate alla moglie Elke e al suo grande amico Emilio Vedova. La mostra è realizzata su un disegno espositivo predisposto da Fabrizio Gazzarri e Detlev Gretenkort: grandi tele – 300x212 cm – sviluppate in verticale segnano le pareti bianche create appositamente nel Magazzino di mattoni rossi faccia vista, che restituiscono una vibrante esplosione di colore dalla grande carica emotiva. Il pathos manifesta in modo dirompente la comunanza e la condivisione di un rapporto di vita, nel caso della moglie, e di un’intensa e orgogliosa amicizia, quella nutrita per anni e anni nei confronti di Vedova. I due, infatti, erano non solo accomunati da un idem sentire dal punto di vista artistico, ma anche profondamente legati da un’amicizia nata nella Berlino dei primi anni ‘60 divisa dal muro, città in cui Vedova visse per circa un biennio e in cui realizzò l’Absurdes Berliner Tagebuch ‘64. Così Baselitz ricorda in una lettera il suo primo incontro con la pittura di Vedova: «Comperai un quadro di Emilio, il Manifesto universale del 1957, da Rudolf Springer, lo comperai come documento, il mio primo sguardo verso ovest, a Berlino quella volta; un quadro astratto, con un suo fondamento (Piranesi) e una sua veemenza, da innamorarcisi». La suggestione è ritrovare una sorta di metamorfismo pittorico in cui l’attualità e l’unicità del tratto di Vedova emergono attraverso la potenza del sentimento amicale, colmo di rispetto e di ammirazione. Fabio Marzari Baselitz. Vedova accendi la luce 20 maggio-31 ottobre Fondazione Vedova Magazzino del Sale, Zattere, Dorsoduro 266 www.fondazionevedova.org

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arte IN THE CIT Y

L’architettura di una Community Ispirazione, Sostenibilità, Presente: le parole chiave della Collezione Guggenheim

Come si costruisce un museo di successo? Da molti anni punto di riferimento in Italia è certamente la Collezione Peggy Guggenheim, che ha saputo costruire una vera e propria architettura perfetta, costruita su fondamenta solide, responsabili e consapevoli. Certamente sono elementi fondamentali il carisma e la visionarietà di Peggy Guggenheim, l’insieme di capolavori moderni di una collezione come poche al mondo, un palazzo non finito che è diventato iconico, ma soprattutto il costante lavoro di ridisegno di questi stessi elementi attraverso attività di interazione con il pubblico, in cui la qualità, l’inclusione e l’accessibilità sono caratteristiche imprescindibili. Un luogo in cui stare bene, dove il rapporto con l’arte in esso custodito possa stimolare la curiosità, il piacere della scoperta, il pensiero critico. Un luogo in cui la conoscenza del passato possa diventare fonte di riflessione e spunto per costruire il nostro presente e il nostro futuro. Dal 1980, anno in cui Palazzo Venier dei Leoni ha aperto ufficialmente le porte come museo, la Collezione Peggy Guggenheim con le sue innumerevoli attività espositive e di Public Programs ha perseguito infatti la missione di educare il pubblico sensibilizzandolo verso gli altri, la società, il mondo. Anche in questo lungo anno di chiusura e attività contingentate, dove vi è stato un fiorire indiscriminato di iniziative digitali, la Collezione Guggenheim ha saputo mantenere alta l’asticella della qualità anche nella sua offerta in streaming, coinvolgendo sempre più ampie fette di pubblico. La forza è infatti la sua community, i soci di vario livello che la sostengono e partecipano in modo assiduo e 50

attivo a tutte le iniziative proposte. Certo il modello è quello anglosassone, ma con maggior empatia, passione e coraggio, dove tutti, dalla Direttrice allo staff fino ai singoli soci, anche i più piccoli, si sentono parte di una cosa sola, unica e speciale. Ciononostante la Collezione Peggy Guggenheim in questi mesi di forzata distanza dal pubblico ha voluto ripensare al suo modello naturalmente al fine di migliorarlo, ma sempre operando un cambiamento partecipato. Per questo motivo ha individuato dei temi di discussione per il 2021 attorno ai quali verterà il dialogo del museo con il pubblico, in presenza e sui social, e che stanno ispirando la programmazione di questi mesi. “Ispirazione”, “Sostenibilità”, “Presente” sono le tre parole chiave unite tra loro da un quarto sostantivo, “Gentilezza”, intesa come una nuova educazione alla consapevolezza e al benessere individuale e collettivo, una virtù necessaria per costruire relazioni che abbiano un alto impatto sociale e sappiano essere virtuose, una forza in grado di creare una vera e propria interconnessione empatica tra esseri umani. L’arte è di tutti, può essere fonte di conforto e ispirazione; unisce, anche a distanza, e sa guardare oltre la contingenza e Peggy per prima e poi la sua Collezione hanno fatto di questa idea un vero mantra. Se non sei ancora socio, cosa aspetti? Collezione Peggy Guggenheim Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701 www.guggenheim-venice.it

Ultima chiamata L’artista poliedrica – spazia dalla scultura alla cinematografia e fotografia, fino alle installazioni immersive – Taloi Havini, nata nella Regione Autonoma di Bougainville nell’Oceano Pacifico sud-occidentale, alla fine del 2020 ha preso parte a un viaggio di ricerca per la mappatura del fondale della Grande barriera corallina australiana assieme allo Schmidt Ocean Institute. Durante la sua permanenza a bordo della nave oceanografica R/V Falkor, Havini ha osservato i metodi batimetrici di invio e ricezione di impulsi sonori dall’imbarcazione, misurando la velocità del suono per produrre inedite mappature di dati visivi ad alta risoluzione dei fondali oceanici. La risposta di Havini a questa esperienza è Answer to the Call (2021), la nuova commissione artistica di TBA21–Academy. L’opera sonora a 22 canali utilizza un’antica tecnica compositiva che crea un dialogo fra queste diverse modalità conoscitive attraverso un metodo di chiamata e risposta. Utilizzando la propria lingua – l’Hakö – e gli strumenti che evocano i suoi antenati navigatori Havini va oltre la misurazione sonica dello spazio e della distanza, affermando la presenza di una comprensione molto più profonda e ciclica dell’oceano, dello spazio e del tempo. La traccia si evolve includendo fonti d’archivio quali le registrazioni subacquee della mappatura sonar eseguita sulla R/V Falkor, canti di viaggio nell’oceano e un pezzo strumentale composto dal noto musicista di Bougainville Ben Hakalitz. A cura di Chus Martínez, curatrice di Ocean Space per il biennio 2021-2022, The Soul Expanding Ocean #1: Taloi Havini, in corso alla Chiesa di San Lorenzo, è un invito a intraprendere un viaggio in uno spazio di profondo ascolto a distanza ravvicinata con l’artista.

© gerdastudio

The Soul Expanding Ocean #1: Taloi Havini Fino 17 ottobre Ocean Space, Chiesa di San Lorenzo Castello 5069- www.ocean-space.org


Animali fantastici Una straordinaria collezione, messa insieme in trent’anni d’assidua frequentazione di Venezia, che ripercorre in modo originale e coinvolgente la storia del vetro muranese del Novecento attraverso un’angolazione inedita: l’animale di vetro. Quando questo genere di produzione vetraria era ancora relegato all’ambito del souvenir o considerata come una sorta di divertissement da fornace, Pierre Rosenberg, storico Direttore del Museo del Louvre di Parigi, ha dimostrato una passione autentica, svincolata dalle mode e ha creato una collezione quanto mai originale e vasta. La mostra L’Arca di vetro. La collezione di animali di Pierre Rosenberg, a cura di Giordana Naccari e Cristina Beltrami, per Le Stanze del Vetro, fino al primo agosto sull’Isola di San Giorgio Maggiore, con più di 750 pezzi offre una fantastica immersione in questo zoo di vetro. Elefanti, cani, ippopotami, gatti, giraffe, mammut, orsi, pappagalli, pesci, tartarughe, volpi… e persino minuscoli insetti realizzati a lume in scala reale da Bruno Amadi, da un lato incantano per le infinite interpretazioni

del soggetto, mai in atteggiamento feroce, e dall’altro si fanno testimoni di una tecnica millenaria e di una tradizione, quella muranese, di cui questa mostra offre uno scorcio assai personale e originale. Una collezione di rara ecletticità, raccolta mescolando animali celeberrimi come i “pulegosi” di Napoleone Martinuzzi, i volatili di Tyra Lundgren o di Toni Zuccheri per la Venini, esemplari noti della Seguso Vetri d’Arte, gli zebrati di Barovier & Toso o gli acquari di Alfredo Barbini, vicino a quelli di vetrerie meno note o persino sconosciute, seguendo il filo, certamente della qualità tecnica, ma anche dell’ironia e di un gusto completamente personale e distante da schemi e attese. A dimostrazione dell’inesauribile ispirazione del soggetto animalier, la mostra include anche sculture di artisti viventi come Cristiano Bianchin, Marcantonio Brandolini d’Adda, Franck Ehrler, Massimo Nordio, Isabelle Poilprez, Maria Grazia Rosin e Giorgio Vigna.

L’Arca di vetro. La collezione di animali di Pierre Rosenberg Fino 1 agosto Le Stanze del Vetro, Fondazione Giorgio Cini Isola di San Giorgio Maggiore - lestanzedelvetro.org

ispirazione più profonda nei reperti antichi, una sorta di ritorno a una purezza primordiale nella sua arte, a un sapore antico fatto di colori tenui come dipinti ad affresco, di forme plasmate secondo il disegno di statue votive o di anfore, di figure femminili con busti a clessidra che si astraggono in immagini atemporali. La ricchezza tipologica dei reperti in mostra – vasi, statuine, gioielli, sarcofagi, ecc. – permette di rintracciare un alfabeto che si declina in riferimenti puntuali nelle diverse sezioni della mostra: la prima dedicata alla figura umana; la seconda agli animali, la terza con forme e geometrie. Attraverso il richiamo di queste formule espressive appartenenti a una gloriosa civiltà passata, l'arte di Campigli rivela una profonda originalità proprio nella coesistenza tra antichi splendori e attualità, immergendo il visitatore in una dimensione dove il tempo sembra fermarsi o scorrere tranquillo in una quiete imperturbabile.

Massimo Campigli e gli Etruschi. Una pagana felicità 22 maggio-30 Settembre ACP Palazzo Franchetti, San Marco 2842

Romanzo etrusco «[...] Nei miei quadri entrò una pagana felicità tanto nello spirito dei soggetti che nello spirito del lavoro che si fece più libero e lirico». É con queste parole che Massimo Campigli descrive la visita al Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma nel 1928, attribuendole una valenza fondamentale per lo sviluppo della fase più matura della sua produzione artistica. Ed è a partire da queste parole che prende forma la mostra Massimo Campigli e gli Etruschi. Una pagana felicità, curata da Martina Corgnati, dal 22 maggio nelle sale del piano nobile di ACP – Palazzo Franchetti. Atmosfere, segni e colori accendono il dialogo tra trentacinque opere del maestro, dipinti che spaziano dal 1928 al 1966, e una cinquantina di reperti della civiltà etrusca, provenienti dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per l'Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l'Etruria Meridionale. Composizioni volutamente arcaicizzanti di Campigli ritrovano le origini della loro

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arte GALLERIES

SPAZIO BERLENDIS RINCONTRARSI A VENEZIA

COLLECTIVE GALLERY PROJECT MAURIZIO PELLEGRIN

5 giugnoJune-17 luglioJuly

The Red, The Black and the Other

Galleria Michela Rizzo 2 giugnoJune-7 agostoAugust

Gestures: Works on Paper

Galleria Marignana Arte 2 giugnoJune-24 luglioJuly

Also, the Elephants Travel to Venice Nuova Icona 2 giugnoJune-7 agostoAugust

Francesco Candeloro

Francesca Woodman

João Vilhena

Maurizio Pellegrin

Un nuovo spazio dedicato all’arte nelle sue molteplici forme e declinazioni si apre in città. È lo Spazio Berlendis nel sestiere di Cannaregio, a ridosso delle Fondamenta Nuove e a pochi passi dalla Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Un ex falegnameria, facente parte del complesso dello Squero Fassi (detto Squero Vecio), tra i più antichi di Venezia, sapientemente recuperato nel 2019 dalla volontà di Emanuela Fadalti e Matilde Cadenti, che da sempre si occupano con competenza e passione di arte e di architettura, in particolare con la loro attivissima galleria Marignana Arte a Dorsoduro. L’accurato restauro, pur nel rispetto della struttura, conferisce al luogo una forte matrice di contemporaneità con 300 mq di superficie luminosissimi, 250 mq di pareti espositive, altezze importanti, luce zenitale, caratteristiche tecnico-impiantistiche di ultima generazione, predisposizione ad allestimenti di diverse tipologie, accessibilità anche tramite porta d’acqua. Lo spazio prende il nome dall’adiacente corte e da Palazzo Berlendis, che ospitò il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche durante il suo primo soggiorno a Venezia nel 1880. A inaugurare lo Spazio Berlendis il 5 giugno è un progetto espositivo collettivo fortemente voluto da Emanuela Fadalti e Matilde Cadenti dal titolo emblematico Rincontrarsi a Venezia, che riunisce otto artisti affermati a livello internazionale – Francesco Candeloro, Maurizio Donzelli, Maurizio Pellegrin, Fabrizio Plessi, Ferdinando Scianna, João Vilhena, Francesca Woodman, Toots Zynsky – e nove gallerie – Alberta Pane, Beatrice Burati Anderson Art Space & Gallery, Caterina Tognon, La Galleria di Dorothea Van der Koelen, Ikona, Marignana Arte, Galleria Michela Rizzo, Victoria Miro –, che partecipano al progetto ciascuna con un artista. Nel testo di una bellissima canzone di Vinícius de Moraes è scritto che «la vita è l’arte dell’incontro». È infatti nella pluralità delle espressioni degli artisti in mostra – pittura, scultura, fotografia, disegno, installazione –, che è possibile rincontrare origini, bellezza, culture differenti, umanità e semplicemente la normalità del quotidiano. Gli artisti ci mostrano il divenire, lo organizzano, lo plasmano, lo fissano, lo interpretano nel più profondo dei rincontri, finalmente! Spazio Berlendis, Cannaregio 6301 www.spazioberlendis.it

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Nuovo progetto espositivo collettivo dedicato a Maurizio Pellegrin (Venezia, 1956), che si dipana attraverso tre mostre in contemporanea. Nell’artista vive la forte personalità di un collezionista onnivoro, che organizza, cataloga e raccoglie oggetti ritrovati durante i suoi viaggi in tutto il mondo. Compone meticolosamente le sue opere, abiti, strumenti musicali, fili e stoffe, fotografie in bianco e nero e altri oggetti, secondo il suo intricato e personalissimo sistema di organizzazione basato su una intrigante trama iconografica di pura energia, ma anche su un’attenta indagine culturale, geografica e sociale, il tutto originalmente connotato da una passione e da una profonda conoscenza delle civiltà antiche. A new exhibition project presented in three simultaneous exhibitions. Maurizio Pellegrin (Venice, 1956) is an omnivorous collector – he arranges, classifies, and collects objects from his travels abroad. He meticulously composes his works, clothes, musical instruments, threads and fabrics, black and white photographs, and other items, following his intricate and very personal category system based on an intriguing iconography of pure energy and on an in-depth cultural, geographical and social inquiry, coupled with a passionate knowledge of ancient civilizations. Galleria Michela Rizzo Isola della Giudecca 800Q Galleria Marignana Arte, Dorsoduro 141 Nuova Icona, Oratorio di San Ludovico Calle dei Vecchi, Dorsoduro 2552 www.galleriamichelarizzo.net www.marignanaarte.it | www.nuovaicona.org


GALLERIA ALBERTA PANE GAYLE CHONG KWAN. WASTE ARCHIPELAGO 22 maggioMay-24 luglioJuly

Uno sguardo sensibile e inedito ai temi della sostenibilità e alle esperienze partecipative e di condivisione sono l’essenza del lavoro dell’artista britannica Gayle Chong Kwan (1973), vincitrice del Sustainable Art Prize 2019. Giocando con le dimensioni e fondendo il reale e il fittizio attraverso installazioni fotografiche, l’artista costruisce una mostra immersiva e avvolgente, in cui il concetto centrale dell’arcipelago mira a fare emergere, visivamente e concettualmente, l’interconnessione tra azioni e idee che l’uomo mette in atto ed elabora attorno allo scarto e al rifiuto. A sensitive, original gaze towards sustainability and shared experiences are the essence of British artist Gayle Chong Kwan’s work. Chong Kwan was awarded the Sustainable Art Prize 2019. She plays with the size of objects and fuses the real and the imaginary in photography installations to build an immersive, captivating exhibition. The main theme – the archipelago – aims at showing interconnections of actions and ideas developed and implemented around scrap and waste. Calle dei Guardiani, Dorsoduro 2403H www.albertapane.com

IKONA GALLERY FRANCESCO BARASCIUTTI SPAZIALITÀ MINIMA, AN ONGOING PROJECT FinoUntil 11 luglioJuly

Riflessioni sulla luce, motore estetico dell’espressione artistica che illumina oggetti, crea ombre, esalta colori, appiattisce superfici. Lo studio di questo elemento è uno dei pilastri su cui Barasciutti basa tutta la sua pratica fotografica. La serie è costruita da geometrie semplici, basilari, essenziali, che richiamano le figure del quadrato, del cerchio, del triangolo

non solo nella loro fisicità, ma anche come proiezioni in ombre, occupando doppiamente lo spazio: quello presente, della loro figura concreta, e quello adiacente, generato dal loro incontro-scontro con la luce.

Reflections on light – the great protagonist that illuminates objects, creates shadows, highlights colors, flattens surfaces. The study on light is a pillar of Barasciutti’s photographic work. The series is composed of simple, basic, essential geometries that remind the square, the circle and the triangle shapes as physically present and as projected shadows. They take up a double space, the space of the concrete shape and the space of its shadow.

Video-Art, Günther Uecker, co-founder of Zero-Group and Turi Simeti, the last standard-bearer of Italian avant-garde movement. Finally, her new artists: Mohammed Kazem and Arne Quinze. Calle dei Calegheri, San Marco 2566 www.lagalleria.vanderkoelen.de

MARINA BASTIANELLO GALLERY ARTE AL KILO FinoUntil 30 giugnoJune

Campo del Ghetto Novo, Cannaregio 2909 www.ikonavenezia.com

GALLERIA VAN DER KOELEN »ERA – È – SARÀ« I 40 anni de La Galleria FinoUntil settembreSeptember

Per l’anniversario dei 40 anni di attivit. de La Galleria, Dorothea van der Koelen presenta i suoi artisti storici: Lore Bert, più volte ospite d’onore di prestigiose Biennali internazionali, tra cui la Biennale di Venezia; Daniel Buren, vincitore del Premio Imperiale (il ‘Nobel’ dell’arte contemporanea); Joseph Kosuth, inventore dell’Arte Concettuale americana; Fabrizio Plessi, pioniere della video-arte; Günther Uecker, co-fondatore del Gruppo Zero, e Turi Simeti, ultimo testimone dell’avanguardia italiana. Infine i nuovi artisti della Galleria Mohammed Kazem e Arne Quinze.

The jubilee-show presents works of Dorothea van der Koelen’s long-term artists like Lore Bert, who has been more than once guest of honour of illustrious international Biennales, included Venice Biennale; Daniel Buren, winner of Imperial Prize (the Contemporary Art “Nobel”); Joseph Kosuth, inventor of American Conceptual Art; Fabrizio Plessi, pioneer of Italian

Nuovo intrigante progetto ideato e curato da Marina Bastianello, che da molti anni persegue tenacemente la promozione e soprattutto la crescita di giovani artisti. Con un titolo, Arte al Kilo, volutamente provocatorio, viene promossa l’arte contemporanea nei contesti della vita quotidiana, per riflettere sul sistema dell’arte e dell’innovazione in campo artistico. Dopo aver acceso d’arte contemporanea la Hybrid Tower, ora Marina Bastianello mette in mostra le opere di 17 artisti – sculture, video, installazioni – all’interno degli spazi commerciali del mercato di Mestre. A new, incredible project created and curated by Marina Bastianello, who has been working hard for years in sponsoring and forming young talented artists. With a title that is deliberately provocative, Arte al Kilo (“Art by the pound”), Bastianello promotes contemporary art within the context of daily life to reflect on the art system and on innovation in art. This exhibition groups 17 artists and their creations – sculptures, videos, installations – at the city market in Mestre. Mercato San Michele, via Fapanni 35-21, Mestre Marina Bastianello Gallery via Giovanni Pascoli 9c, Mestre www.marinabastianellogallery.com

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arte

NOT ONLY VENICE MUSEO NOVECENTO FIRENZE

L’ora dei Musei Intervista a Sergio Risaliti Una lunga e intensa conversazione con il direttore del Museo Novecento di Firenze, Sergio Risaliti, sulla storia di questo giovane Museo fiorentino che sorge negli edifici che ospitarono l’antico Spedale delle Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. Risaliti offre un excursus articolato e meditato sull’attualità del sistema dell’arte, concentrandosi sulle sfide che dovrà affrontare per veder realizzata l’idea di museo come campus creativo di sperimentazione, educazione e incontro. Un luogo per tutti che necessita del contributo di tutti, politica inclusa, per continuare a soddisfare eticamente l’umano desiderio di bellezza. Ci racconti il suo Museo: come è nato, come si sviluppa il corpus delle collezioni e quali sono i suoi “pezzi forti”. Sono solito affermare che la nascita del Museo Novecento a Firenze ha rappresentato un evento quasi epocale, perché colma un ritardo più o meno di cent’anni. La città, così sospettosa nei confronti dell’arte moderna e del contemporaneo, essendosi troppo adagiata sulla propria grandezza, sul proprio immane patrimonio storico, illusa di un’eternità del proprio mito rinascimentale, ha compreso solo nel 2014 che era necessario valorizzare degnamente anche le produzioni artistiche del XX secolo. Ha compreso che era necessario invertire una rotta che metteva sempre avanti al futuro il passato glorioso senza mai considerare il presente come anticipazione del futuro. A Firenze, mentre tutte le altre epoche avevano dignità di storicizzazione museale, il Novecento non aveva un museo che potesse accogliere, conservare e tutelare la sua arte. Piuttosto recentemente, quindi, si è innescata in tal senso una vera e propria rivoluzione culturale, dovuta anche agli eventi dei decenni precedenti che avevano sbloccato questa sorta di “trauma della contemporaneità”, portando la città a confrontarsi con la sperimentazione artistica del nostro tempo – penso alle mostre al Forte Belvedere, piuttosto che a quelle nelle piazze fiorentine o a Palazzo Vecchio. Riguardo al corpus delle collezioni che hanno dato linfa alla nascita del museo, anche nel nostro caso il motore primo è stato il collezionismo privato, che è poi origine comune della museificazione della città 54

a partire dalla nascita degli Uffizi, del Museo Bardini, dello Stibbert e di altri ancora. Il Museo Novecento nasce prevalentemente dalla collezione Alberto della Ragione e dalla cosiddetta collezione del MIAC – Museo Internazionale d’Arte Contemporanea, progettato e concepito da Carlo Ludovico Ragghianti verso la fine degli anni Sessanta. La collezione “della Ragione”, corpus principale attualmente in mostra, venne donata dall’ingegner Alberto della Ragione nel 1970, poco dopo la terribile alluvione che aveva devastato e ferito Firenze: quasi un segno di risarcimento rispetto a così tanta bellezza oltraggiata. Arrivarono in città duecentoquaranta opere da un progetto portato avanti da Ragghianti che chiese a tantissimi artisti dell’epoca di donare una loro opera per costituire il futuro museo del contemporaneo fiorentino. Risposero in moltissimi, tra questi artisti di primissimo rilievo, un esempio su tutti Lucio Fontana. Queste donazioni non avevano mai trovato però una sede adeguata e prima di giungere al Museo Novecento furono in parte esposte al Forte Belvedere, in un contesto assai lontano da quella che si può e deve definire una sede museale. Solo nel 2014 si riuscirà a dare finalmente alle collezioni una loro collocazione degna ed adeguata. Per i primi anni il Museo ha svolto prevalentemente il ruolo di un deposito concentrato sulla mediazione culturale attorno alla collezione “della Ragione”, per poi trasformarsi radicalmente da un punto di vista identitario con il mio arrivo nel 2018. Il cambiamento si esprime sin da subito attraverso la convinta idea che un museo debba essere innanzitutto un laboratorio di ricerca, di valorizzazione e innovazione culturale capace di portare i

propri contenuti, le proprie ricerche oltre le rigide mura museali, con iniziative in grado di coinvolgere il cuore vivo della città e della società, vedi il progetto Outdoor, un’azione didattica grazie alla quale abbiamo portato fisicamente dipinti e sculture dentro le scuole elementari e medie fiorentine, così come nel carcere di Sollicciano. Pur mantenendo il focus sulla valorizzazione della collezione permanente, ci siamo quindi aperti necessariamente alle avanguardie del secondo Novecento e soprattutto all’aggiornamento dell’attività artistica delle nuove realtà giovanili emergenti. Rimanendo invece strettamente ai contenuti delle collezioni, se dovessi elencare qualche “pezzo forte” indicherei le opere di Morandi, Arturo Martini, Marino Marini, Sironi, Guttuso, Virgilio Guidi, le ceramiche di Fontana e un suo Concetto Spaziale di straordinario valore. Ma poi ancora De Chirico, Severini, de Pisis, Ottone Rosai... Insomma, il meglio del Novecento fino agli anni Cinquanta, a cui si aggiungono poi donazioni di artisti del valore di Carla Accardi o Titina Maselli. Alle istituzioni culturali, oggi più che mai, è richiesto di sviluppare una grande capacità di adattamento alle condizioni ambientali e storiche in cui si trovano a operare. Come sta reagendo il Museo Novecento alle varie chiusure, riaperture ed ennesimi blocchi derivanti da questa logorante e drammatica pandemia? Non ci siamo mai lasciati abbattere da questa situazione: abbiamo sempre reagito, sin dalla prima ora di questa devastante crisi. Abbiamo incrementato l’attività sui social sfruttando al


Sergio Risaliti (1962), laureato a Firenze in Storia dell’arte moderna e contemporanea. Si è perfezionato al Corso Europeo per Curatori d’Arte Contemporanea al Magasin di Grenoble. È uno storico e critico d’arte, ideatore e curatore di mostre e di eventi interdisciplinari, scrittore e giornalista. Ha fondato e diretto sedi espositive pubbliche e private, tra cui Palazzo delle Papesse a Siena, Quarter Centro per l’Arte Contemporanea a Firenze e dal 2018 il Museo Novecento sempre a Firenze, nel 2020 è stato nominato guest curator della sezione di arte contemporanea al Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli.

meglio le opportunità tecnologiche che oggi la rete ci può offrire. Ci siamo accorti tutti, un po’ in ritardo, che i musei vivono una doppia vita: quella reale, come luogo insostituibile di esperienze emozionali al cospetto di opere uniche; quella virtuale, sulle piattaforme digitali, che però necessitano di evolversi giorno dopo giorno grazie a questa vorticosa accelerazione indotta dalla straordinarietà del momento. Credo infatti che la creazione di nuove ritualità digitali vada ben oltre a quelle che abbiamo finora compreso e sperimentato; c’è ancora molto da lavorare e da ricercare in termini di modalità di trasmissione e condivisione del sapere culturale in questi nuovi media. Il nostro museo ha resistito a questo arresto cardiaco verticale portando avanti il programma che ci eravamo prefissati prima della pandemia. Abbiamo aperto le mostre che ci eravamo impegnati a realizzare, quella su McArthur Binion piuttosto che quelle dedicate ai giovani come Irene Montini e Rocco Gurrieri; abbiamo anche portato a termine il progetto di Andrea Francolino e soprattutto la grande mostra su Henry Moore, apertasi il 12 gennaio e richiusasi purtroppo solo dopo tre settimane. Ora siamo in procinto di inaugurare ben altri cinque progetti nell’immediato, appena la situazione lo permetterà. L’attività del museo ha quindi continuato ininterrottamente, con grande passione e serietà. Nell’ottobre del 1967, durante un seminario al Museum of the City of New York, Marshall McLuhan parlava già di “museo elettronico” in merito agli allestimenti e alla comunicazione dell’Heritage. Come

La nascita del Museo Novecento a Firenze ha rappresentato un evento quasi epocale, perché colma un ritardo più o meno di cent’anni

avverte da studioso la massiccia digitalizzazione che sta caratterizzando il sistema dell’arte? Dal mio punto di vista non bisogna instradare l’umanità in una direzione esclusiva e omologante. Il rischio è di anticipare un salto evolutivo attraverso il quale l’uomo tecnologicamente perde la sua umanità, la sua presenza fisica ed emozionale nel mondo. C’è il rischio che nasca nelle persone il vizio di strutturare il loro esistere in completa dipendenza dalle tecnologie, soprattutto da quelle multimediali e virtuali, che vivono di impressionanti accelerazioni di cui non sappiamo ancora leggere fino in fondo e gestire le conseguenze psicofisiche che producono. Una rivoluzione tecnologica di dimensioni forse mai viste prima che ha degli effetti di straordinario impatto anche e soprattutto sul mondo del lavoro, sulle sue tradizionali dinamiche, con allo stato un’evidente crescita della disoccupazione, in sé purtroppo inevitabile nel breve dato che le risorse umane vengono repentinamente, mese dopo mese, soppiantate da quelle tecnologiche, dalla robotica e quant’altro. Si aprono discussioni enormi a riguardo; non vorrei che fossimo incoscientemente trascinati da questa sovreccitazione prodotta dalla pandemia a uno sfruttamento massiccio e acritico della virtualità, dal momento che siamo stati castigati con una sorta di quaresima prolungata fuori dalle circostanze del reale. Nel nostro specifico, poi, non si può mai finire di rilevare che l’esperienza artistica non è un rituale solitario: i musei sono luoghi che creano spazi e momenti di condivisione. Penso all’importanza di questi rituali di

compartecipazione per i bambini e i più giovani, che si trovano di fronte a manufatti realizzati da un’altra persona rapportandosi fisicamente a qualcosa di concreto; esercizio ancor più necessariamente virtuale in un momento in cui anche, e soprattutto!, i più piccoli vivono relazioni e forme di conoscenza sempre più claustrofobicamente virtuali nel divorante universo digitale. C’è poi un altro grosso rischio che si sta correndo grazie a disinvolte quanto incongrue letture di quella che può essere una presunta nuova via della trasmissione del sapere culturale e artistico. Mi riferisco naturalmente alla dilagante riproducibilità virtuale del patrimonio artistico, di per sé anche una spendibile e utile attività accessoria in termini divulgativi, ma assolutamente insufficiente in sé e per sé ad assolvere questa nodale funzione. L’opera d’arte richiede un processo di comprensione molto lento, spesso assai complesso; cercare di semplificarne a tutti i costi il senso per rincorrere il pubblico, per aumentare compulsivamente il numero degli accessi ai rispettivi siti o media digitali, rischia davvero di produrre effetti nocivi nell’approccio all’arte soprattutto nei più giovani, i quali rischiano in questo modo di divenire dei fruitori di mere istantanee da affiancare ad altre ed altre ancora, senza alcuna capacità di discernere e distinguere. È davvero necessario, in particolare da parte di chi ha responsabilità istituzionali, educative, di formazione culturale, un esercizio di straordinario recupero di senso dell’equilibrio. I social annoiano velocemente, i contenuti diventano dopo pochissimo obsoleti; l’esito è una desolante semplificazione, una sorta di promiscuità culturale, di linguaggio 55


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NOT ONLY VENICE MUSEO NOVECENTO FIRENZE

che il più delle volte tende ad inabissare le tematiche affrontate invece di innalzarne il valore. Ogni giorno siamo costretti a combattere contro l’obsolescenza dei contenuti, a ricercare la novità per attrarre pubblico e incrementare i follower. Spesso questa ricerca è forzata e si rischia di cadere nella “buffonata”. Stiamo esasperando e stressando le modalità di comunicazione, questo è un dato di fatto oggettivo. Spero che con il tempo, ce n’è sempre di meno a disposizione però…, si riesca a declinare in positivo, in una direzione di intrigante utilità, la straordinaria potenzialità che i canali digitali potrebbero avere in termini di educazione culturale commisurata al loro linguaggio comunicativo. Una potenzialità che se intelligentemente espressa potrebbe questa sì rappresentare uno straordinario motore di diffusione delle arti e del sapere in generale in una chiave sempre più democratica, facendo dell’accessibilità alle informazioni, ma soprattutto alla formazione, la sua vera carta vincente, una carta che permetterebbe di abbattere barriere culturali e sociali ancora troppo robuste. Per ora è poco più di una speranza, ma la storia insegna che i processi di accelerazione tecnologica pretendono sempre tempo per esprimere i propri effetti nella società.

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Qual è il rapporto del Museo con i giovani visitatori, solitamente poco preparati scolasticamente all’arte moderna e contemporanea, e come lavorate per la promozione dei giovani artisti? Un vero e proprio punto dolente questo: i ragazzi sono poco preparati scolasticamente all’arte moderna e contemporanea e questo fa specie in un Paese come il nostro vocato per eccellenza ai linguaggi artistici, incapace di almeno sufficientemente offrire ai suoi giovani la possibilità di conoscere l’arte del loro tempo in cui si possano riconoscere, scoprire e interrogare. L’arte può essere un potente strumento di decostruzione degli stereotipi, può aumentare un comune senso di tolleranza, curiosità e disponibilità alla conoscenza, alla comprensione dell’altro. È un’apertura mentale necessaria ai giovani d’oggi. Il problema però non si esaurisce solo nel deficit di preparazione scolastica, estendendosi necessariamente anche all’urgenza, alla necessità di un forte investimento sul capitale umano che nei musei non può che essere giovane. Sono naturalmente i giovani che possono entrare meglio in sintonia con le nuove generazioni, capire come strutturare le pratiche museali in modo da rispondere alle loro esigenze. È difficile che persone anziane capiscano come interagire con un ventenne,

quale approccio avere o quale linguaggio utilizzare per definire una trasmissione veloce e di qualità nell’esperienza dell’arte. Per quanto ci riguarda, credo che la relazione con i giovani artisti sia una caratteristica distintiva del nostro Museo, dove contemporaneamente si possono ammirare opere di Moore, di Francolino, piuttosto che quelle di Giulia Cenci, prossimamente protagonista nei nostri spazi. Ospitiamo mostre anche di giovanissimi artisti, vedi, ad esempio, Chiara Gambirasio, che esporrà da noi subito dopo essere uscita da una residenza artistica fiorentina. Stiamo lavorando per aprire due sale del Museo come atelier artistici in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Firenze: ogni sei mesi le sale verranno consegnate a due giovani creativi, augurandoci entro due anni di poter aprire residenze per artisti nei nostri spazi e in Santa Maria Novella, recuperando gli spazi dell’ex Caserma dei Carabinieri. Considerando i tempi attuali ho sin da subito lanciato sui giornali un appello intitolato “Fate presto”, in memoria anche di quel famoso manifesto realizzato da Andy Warhol dopo il terremoto in Irpinia. “Fate presto” perché avevo intuito che ci sarebbe stato un collasso nelle nuove generazioni, un’emergenza vera e propria che avrebbe visto i giovani artisti rischiare di sparire nel mezzo di una crisi


Penso e spero che attraverso i canali digitali si possa realizzare un’educazione culturale commisurata al linguaggio adatto a questi mezzi. Una diffusione sempre più democratica ma che cresce di pari passo al livello intellettivo delle persone economico-finanziaria che si prospettava drammaticamente evidente sin dai primi mesi della pandemia. Gallerie in crisi, collezionisti raffreddati, che magari pensano sia più opportuno investire su nomi ‘sicuri’ e non sulla sperimentazione e innovazione portata avanti da giovani talentuosi. Di fronte a questa emergenza abbiamo poi progettato il premio Wonderful destinato agli under quaranta, di cui stiamo terminando le selezioni, che hanno visto arrivare più di 290 dossier. Siamo l’unico museo, a quanto mi risulta, che ha investito risorse proprie nel pieno di questa inedita situazione per premiare artisti mediamente giovani fuori dai circuiti consolidati, mettendo a disposizione 5.000 euro per ognuno dei quattro artisti premiati i quali poi realizzeranno in Museo una mostra collettiva a luglio, corredata dalla pubblicazione di un catalogo. Il processo virtuoso è quello di accostare mostre dei maestri a quelle dei giovani talenti, altrimenti si interrompe il ricambio generazionale. La storia dell’arte è sempre stata una storia delle avanguardie, con la relativa assunzione di dovuti rischi al fine di sostenere artisti fuori dalle ribalte canoniche. Sono stati i giovani ad aver portato avanti la storia dell’arte e allo stesso tempo il dialogo con il passato. Non è un caso, quindi, che uno dei nostri progetti più importati si intitoli Duel, sorta di duello dialettico attraverso il quale la nuova generazione di artisti si confronta con chi li ha preceduti, scegliendo alcune opere del passato presenti nella nostra collezione con cui rapportarsi. Come lo abbiamo definito nel “Manifesto per i musei del futuro” assieme al direttore del Museo di Capodimonte Sylvain Bellenger e al direttore dell’Accademia di Brera Giovanni Iovane, il Museo è un vero e proprio campus, un’officina di cultura dove si formano e valorizzano non solo artisti, ma anche storici dell’arte, curatori, critici. Per far tutto questo ci vuole una consapevolezza politica che non

sia solo vaga retorica e, naturalmente, adeguati investimenti pubblici che integrino in maniera sostanziale le risorse che si riescono a ricavare da privati illuminati o da partners e sponsor. Recentemente in un articolo lei ha accennato alla nascita di una rivista del Museo Novecento. Può svelarci qualcosa in più? La rivista nasce da una consapevolezza di lunga data circa il nocivo e netto distacco che a tutt’oggi sussiste tra il mondo accademico e il sistema dell’arte. Un divorzio consumato alla fine degli anni Sessanta fra gli storici dell’arte e i critici militanti o curatori. In questi lunghi anni questi due mondi hanno vissuto separatamente. Nell’ultimo decennio l’universo accademico ha cercato di recuperare il tempo perduto visto che l’arte contemporanea non si affrontava in modo disciplinare. La storia dell’arte si è arenata in pratiche fin troppo autoreferenziali e poco aggiornate rispetto al mondo presente: gli storici dell’arte non hanno amato frequentare gli studi d’artista, le gallerie, le mostre e i curatori si sono allontanati da una conoscenza più radicata e approfondita delle vicende artistiche. Ovviamente per fortuna poi vi sono state e vi sono delle eccezioni, naturale. La rivista intende quindi ricomporre l’infranto in collaborazione stretta con le università cercando nel modo più intelligente ed incisivo possibile di far riavvicinare questi due mondi, dato che è negli spazi del museo che essi convivono e si confrontano continuamente. È rilevante il vostro impegno, come Museo, nel promuovere collaborazioni con primarie realtà private, vedi la Galleria Massimo De Carlo, con cui avete realizzato la temporanea su McArthur Binion. Sono previsti nei prossimi mesi altri progetti in questa direzione? Dagli anni Cinquanta collezionisti e gallerie

hanno assolto un compito che spettava allo Stato: senza di loro l’arte moderna e contemporanea in Italia sarebbe stata negletta. Hanno sostenuto gli artisti, la ricerca e hanno pure permesso la conservazione del patrimonio che poi è giunto nei musei. Pure nel nostro caso Alberto della Ragione fu anch’egli un collezionista privato e un gallerista. La riprovazione dei grandi studiosi verso il mercato quindi è una brutta favola, una pecca che ha contribuito alla provincializzazione e all’arretramento culturale del Paese. Un museo deve collaborare necessariamente con partner privati, perché è propriamente questa fitta tela di relazioni che ha sempre caratterizzato la crescita del sistema dell’arte dal TreQuattrocento in poi. Vasari, da primo grande storico dell’arte quale fu, non si vergognava affatto di confrontarsi coi privati, anzi! Il Museo Novecento ha collaborato con molte gallerie, tra cui Hauser & Wirth e Gagosian, ma anche con molte altre italiane, tra queste Mazzoleni, Galleria Poggiali, Laura Trisorio e Raffaella Cortese. Ci rapportiamo anche a istituzioni prestigiose come Fondazione Longhi e Fondazione Moore. È un sistema circolare, globale e variegato, dove tutti concorrono all’obiettivo condiviso del sostegno e della valorizzazione dell’arte affinché abbia una centralità indiscussa nel nostro presente. Lei è guest curator della sezione d’arte contemporanea al Museo e Real Bosco di Capodimonte, che vanta per quanto concerne il Novecento opere di artisti del calibro di Andy Warhol, Kounellis, Alberto Burri, Mario Merz. Qual è il suo pensiero personale e professionale in merito al dialogo tra arte antica e contemporanea? Dopo aver superato il bando, l’incontro con il direttore Bellenger è stato speciale: ho trovato davanti a me un punto di riferimento e un intellettuale che condivide in pieno il mio pensiero. Essendomi formato in Francia, 57


making space for art

since 1984

Curated by Paolo De Grandis, Claudio Crescentini, Carlotta Scarpa

GAM-Galleria d'Arte Moderna and public spaces Campo della Tana, Castello 2126 | Opposite the Biennale entrance

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VENICE 02.09 - 03.10

Campo della Tana, Castello 2126/A | Opposite the Biennale entrance

ROME 16.06 - 17.10

22.05 - 21.11

BIENNALE ARCHITETTURA

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Chiesa della Pietà Cappella | Riva degli Schiavoni

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arte

NOT ONLY VENICE MUSEO NOVECENTO FIRENZE

mi ritrovo in quell’atteggiamento istituzionale così aperto, curioso, colto tipico dei nostri cugini d’Oltralpe. Il tutto in un museo che ho sempre amato tantissimo sin da ragazzo, proprio perché vi vedevo coesistere i miei due mondi artistici di appartenenza, quello antico e quello contemporaneo per l’appunto. Capodimonte vanta una collezione dal Medioevo in poi unica nel panorama italiano e non solo. Negli ultimi anni questa apertura mentale verso questo vitale dialogo tra passato e presente si è espressa qui al meglio con l’iniziativa Incontri sensibili, progetto attraverso il quale Bellenger ha invitato artisti viventi a confrontarsi con alcuni capisaldi della collezione medievale, rinascimentale e barocca. Ne sono nati progetti di straordinario valore, basti pensare a quelli ideati da Jan Fabre e, più recentemente, da Christiane Löhr. Ora anche per il grande parco sono previsti interventi artistici di alto rilievo. Come guest curator mi sento onorato e al contempo a casa mia in un luogo dove posso esplicitare le mie attitudini e visioni che reputano il dialogo tra antico e contemporaneo una disposizione necessaria per vivere nella maniera più dinamica e risolta possibile l’espressione artistica oggi. Passo da pubblicare libri su Michelangelo e Raffaello a testi dedicati a Kounellis e Giulio Paolini, cosa chiedere di più e di meglio? Firenze e Venezia hanno vissuto e stanno vivendo una gravissima crisi identitaria determinata prima della pandemia dall’eccesso di turismo di massa, poi al suo contrario, vale a dire allo svuotamento totale determinato propriamente a questa monocultura totalizzante del turismo globale. Come crede si dovrebbe, anzi si dovrà, agire il più velocemente possibile per ripensare e rimodulare il modello turistico e l’offerta culturale delle città d’arte? Nello specifico del Museo Novecento, crede sia possibile rafforzare l’offerta di arte contemporanea in una città universalmente nota per le sue bellezze rinascimentali? Non c’è alternativa al fatto che questo stato di cose pretenda un radicale cambiamento di orizzonte. Il modello degli ultimi vent’anni ha incrementato profitto e diffuso ricchezza, ma era un gigante dai piedi d’argilla. Questo terremoto pandemico ha messo in ginocchio tutto il sistema che aveva già snaturato e violentato le città d’arte. Negli ultimi anni ci siamo lamentati del turismo di massa e

© Nicola Neri

della trasformazione in negativo del tessuto sociale, della perdita dei cittadini residenti sia a Firenze che Venezia. Un continuo depauperamento della ricchezza che non è fatta solo di profitto economico, non scherziamo: le nostre città sono state quasi desertificate di valori affidandosi alla mera rendita di posizione. Tuttavia ogni grande crisi porta con sé la possibilità del cambiamento o addirittura del ravvedimento; si pensi alla crisi ecologica che sta modificando le nostre abitudini quotidiane e di consumo. Ciò che sta accadendo ci deve far cambiare prospettiva inducendoci a lavorare per produrre un radicale, intelligente cambiamento che sappia tener in vita l’economia delle città senza però replicare il modello degli ultimi anni. Credo che il sindaco di Venezia abbia più di altri detto perché si tengono chiusi i musei: per semplici ragioni di cassa. Come se i musei pubblici vivessero solo per la presenza di grandi quantità di visitatori. Questa non è la funzione dei musei. I musei sono prima di tutto luoghi di educazione, sensibilizzazione e crescita culturale dei cittadini, di tutti i cittadini da zero a più di cento anni. A Firenze in particolare non possiamo ripartire riposizionando il tessuto culturale

a traino dei grandi Uffizi, la “scuola d’Atene” fiorentina, museo straordinario su cui peraltro, ben inteso, ci siamo tutti formati: la città non può ancora pensare di essere attrattiva esclusivamente in qualità di culla del Rinascimento. Deve essere una città attrattiva per il suo protagonismo nel presente, declinato tra moderno e contemporaneo, così come lo è stata e sempre lo sarà per il suo passato, ma non più unicamente per esso. C’è da investire su città creative, città laboratorio, smettere di pensare a Firenze e Venezia come vetrine anche per quello che concerne noi operatori culturali; ad esempio Venezia non può solo accendersi in occasione delle Biennali. Sono riflessioni che dovrebbero fare i nostri politici. È il modello di rendita di posizione in sé a essere sbagliato, perché si è voluto investire su uno sfruttamento bulimico del desiderio di bellezza che tutti certamente meritano di veder soddisfatto almeno una volta nella vita, eppure non possiamo permetterci di trasformare in senso fordistico questo desiderio. Federico Jonathan Cusin Museo Novecento Piazza di Santa Maria Novella 10, Firenze museonovecento.it

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arte

NOT ONLY VENICE DUSKMANN

Crepuscolo 2.0 Intervista a Daniele Cavalli Musica, arte, moda, enogastronomia e, più recentemente, il mondo dei profumi: Daniele Cavalli è un trentenne fiorentino con svariati interessi. Nel suo lavoro un ambito non esclude l’altro, anzi, sono tutti amalgamati tra loro e trovano forza nel contaminarsi. Credo che i più oggi definirebbero Daniele un imprenditore, ma io lo vedo meglio nei panni di un mecenate contemporaneo: ogni sua parola comunica un bisogno creativo da accudire e soddisfare, la necessità di sperimentare e circondarsi di creativi, la voglia di nuovo senza scordarsi delle radici antiche. Duskmann è il suo personale laboratorio dell’alchimista dove far incontrare polarità opposte che si attraggono e generano inaspettati risvolti artistici. Duskmann: perché questa scelta crepuscolare per il nome del collettivo artistico e come questo collettivo si è creato? È un nome fittizio di una persona che non è nessuno se non tutti noi, un nome di fantasia che racchiude in sé la parola “crepuscolo”, poiché la filosofia del collettivo è la ricerca dell’armonia tra gli opposti. Ci piace lavorare partendo da concetti che apparentemente appaiono molto distanti l’uno dall’altro, ma che poi si fondono trovando una loro cifra propria e terza. Il crepuscolo, in quanto momento di passaggio tra il giorno e la notte, è considerabile come metafora di incontro tra poli opposti che però assieme generano cromie uniche, magia. Siamo un collettivo atipico. Il termine “collettivo” implica un sistema a circuito chiuso mentre Duskmann nasce con la pretesa di essere un gruppo a circuito aperto dove, a prescindere da me che ne tiro le fila, ci si avvale di ogni arte e mestiere per giungere a un fine creativo. Vogliamo procedere senza quei limiti dovuti alla conoscenza settoriale o alla tecnica per collaborare con chiunque. L’arte, quindi, per noi non si frammenta in categorizzazioni e l’ambizione del progetto è proprio creare un’identità artistica partendo da infinite capacità, cercando di definire percorsi crossover tra mondi che risultano apparentemente lontani, come nel caso della relazione tra arte e scienza. Duskmann nasce nel 2015 con la prima istallazione, Prelude, frutto della collaborazione con l’artista Edoardo Dionea Cicconi. Nasce da 60

© Duskmann

un’esigenza creativa da tutti noi condivisa e da quel momento è come se si fosse instillato un germe destinato a crescere indipendentemente dagli svariati percorsi che intraprenderemo. Un incubatore di creatività. Sul vostro sito web c’è una sezione denominata “Manifesto”. Dopo averci cliccato appare una scritta “WE ARE” sotto la quale, ritmate da intervalli luminosi di una stroboscopica, scorrono svariate parole dalla forte connotazione identitaria: siete luce, siete notte, siete punk, elettricità, rumore, silenzio, pietra, minimalismo, alchimia, flash (etc.). Qual è la connessione tra queste parole, in che cosa vi caratterizzano e come questo animo poliedrico si traduce nelle vostre opere? Questo contrasto riportato sul sito voleva presentarsi principalmente in chiave ironica: le etichette potenzialmente possono rappresentare tutto, ma in questo tutto anche annullarsi tra loro o magari comunicare qualcosa di altro e sorprendente. Un pittore come mezzo creativo ha sempre i suoi pennelli; un mezzo potentissimo, ma al quale è apparentemente sin troppo vincolato e questo vale per ogni tipo di arte specializzata. L’idea è non avere barriere e approcciare il progetto creativo facendo appello a svariate tecniche e ambiti di conoscenza. Per questo parlavo prima di “circuito aperto”: la possibilità di mettere attorno a un tavolo per esempio un musicista,

un chimico e un pittore. Ciò che ne può venir fuori sta tutto nella loro forma mentis creativa, nella disposizione attraverso la quale questi soggetti interagiscono tra di loro. Per Prelude abbiamo messo in relazione scultura, design e fotografia. Una ricerca fotografica che si sviluppa generando scrigni, un’evoluzione di cornici che indagano minuziosamente il taglio delle linee nelle opere scultoree. Nel 2018 a Palermo avete partecipato a Manifesta 12, cosa ha comportato questa esperienza nel vostro percorso artistico? È stato un passo improvvisato, spontaneo e decisamente importante al tempo stesso. La nostra partecipazione è stata quasi un atto sovversivo nel cuore di Palermo. Abbiamo coinvolto moltissimi visitatori con un’installazione collocata all’interno della Chiesa della Madonna della Mazza, che si affaccia sulla principale strada pedonale della città (Via Maqueda) e che era chiusa da quarant’anni: siamo riusciti a riaprila e ad esporci le nostre opere. La porta principale della chiesa è stata chiusa con un pannello nero che presentava tre piccoli oblò ottagonali. Attraverso questi piccoli oblò l’osservatore poteva vedere all’interno della chiesa un’installazione luminosa che si accendeva per trenta secondi attraverso l’utilizzo di una moneta. Il tutto era possibile solo nelle ore notturne e il cerimoniale legato all’utilizzo della moneta ricorda il momento liturgico dedicato alla raccolta


È attraverso il recupero dell’antico che si fa il nuovo e questo vale soprattutto per la nostra generazione

delle offerte, ma anche più provocatoriamente i peep show. Un altro contrasto. Un peep show spirituale. Si giocava molto sull’effetto sorpresa che coglieva chi, passeggiando per la strada, si affacciava e con stupore guardava attraverso gli oblò. L’installazione è stata molto chiacchierata; questo spirito di interazione, di divertimento attraverso l’arte è fondamentale per noi. È bello giocare con le proprie fantasie e con quelle di chi guarda perché il gioco è creatività. Secondo me un artista dovrebbe far giocare la mente delle persone. In qualità di direttore artistico puoi anticiparci qualcosa sui futuri progetti di Duskmann? Il percorso di Duskmann non vuol essere irrequieto, bensì lento e spontaneo. Abbiamo lavorato ultimamente al progetto Ode al kintsugi. Sono rimasto molto affascinato dall’antica tradizione giapponese del kintsugi, che prevede la ricostruzione di oggetti di ceramica rotti attraverso una pasta di gesso mescolata con l’oro. Dopo l’utilizzo di questa tecnica gli oggetti tornano in vita e qui è racchiuso un concetto filosofico molto importante per me: acquisire maggior valore dopo un momento di rottura, raggiungendo un’unicità. È un concetto molto attuale che si oppone frontalmente al consumismo generalizzato d’oggi. Con l’intervento di maestri orafi siamo riusciti a scalfire monoliti di marmo a forma d’uovo e a ricomporli tramite una lega d’ottone. È un lavoro molto legato all’artigianato, complesso da realizzare, ma che ha reso uniche e preziose queste sculture proprio come prevede il kintsugi stesso. Abbiamo poi in cantiere una nuova idea progettuale legata alle ossidazioni, che ci ha portati a lavorare con un chimico e dei pittori. La tua Firenze e la spinta innovatrice di Duskmann: pensi sarà possibile che la città si affermi anche come culla del contemporaneo?

Secondo me già lo sta divenendo, nel senso che c’è una sensibilizzazione verso l’arte contemporanea assai più viva rispetto agli anni passati. Questo grazie al lungimirante e felice lavoro, ad esempio, di un’istituzione chiave in tal senso quale è oggi divenuto Palazzo Strozzi, piuttosto che al lavoro più in generale della stessa città di Firenze, col nostro Assessore alla cultura Tommaso Sacchi che ben sta operando per differenziare la proposta artistica di questa straordinaria città per troppo tempo rinchiusa nel suo, per quanto inimitabile, recinto storico. Penso che il mondo sia sempre più alla ricerca di autenticità e quando parlo di autenticità intendo quelle caratteristiche che sono molto vicine alla nostra terra, l’Italia in generale ma in particolare la Toscana. È attraverso il recupero dell’antico che poi si fa il nuovo e questo vale soprattutto per la nostra generazione, a cui hanno lasciato un’eredità che non è delle migliori e che si può riscattare puntando sull’autenticità morale. Sento questo desiderio nella gente, io lo sto accogliendo e ciò mi infonde molto entusiasmo. Dopo Manifesta, Duskmann guarda alla Biennale Arte 2022? Che legame ha il collettivo con Venezia? Per un qualsiasi artista Venezia è meta sacra. È un po’ il punto di arrivo, soprattutto la Biennale d’Arte naturalmente per chi opera sul contemporaneo. Visto il nostro animo sovversivo mai dire mai. Potremmo arrivare a Venezia prima di una consacrazione ufficiale, chissà. Sarebbe questo un percorso per noi da prediligere, piuttosto che un suo contrario, ossia sbarcare alla Biennale da già affermati. Resta in me un rispetto immenso per quest’Istituzione, questo è certo. Magari presenteremo un rivoluzionario approccio al tema “liquido”. Federico Jonathan Cusin duskmann.com

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arte REVIEW a cura di Giandomenico Romanelli

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icorrevano, come si sa, nel 2020 i duecento e cinquant’anni dalla morte a Madrid di Giambattista Tiepolo, il più grande narratore e illustratore di favole e miti, di glorie cristiane e di virtù pagane, di romanzi cavallereschi e di metamorfosi ovidiane. Il Covid ha impedito che se ne celebrasse opportunamente la memoria e quindi sono state poche e sporadiche le occasioni per portare questa scadenza all’attenzione della pubblica opinione (chi scrive ha dedicato a quel gigante della cultura settecentesca un’intervista televisiva al telegiornale regionale della Rai nei primi giorni della pandemia che ci ha stretto nella sua morsa e un più lungo articolo nel nostro «Venezia News» del mese di maggio 2020). La Rai, risvegliatasi dal letargo, gli ha dedicato un omaggio radiofonico e uno televisivo. Tutto bene, quindi? Si deve sapere che appartiene alla Rai (che ama fregiarsi del titolo di maggior impresa culturale del Paese) il palazzo della famiglia Labia, tra campo San Geremia e il canale di Cannaregio. Del palazzo settecentesco la Rai ha fatto la propria sede al momento di lasciare il suo precedente insediamento a palazzo Loredan Vendramin Calergi, il formidabile edificio rinascimentale dove vive oggi di vita piuttosto grama il Casinò. Bene. Uno dei cicli ad affresco più importanti e celebrati di Giambattista Tiepolo si trova proprio nel salone centrale da ballo al centro del piano nobile di palazzo Labia. Il salone è una sorta di grande e monumentale

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UN CAPOLAVORO DA SALVARE cubo spaziale le cui pareti sono ornate in pieno della storia d’amore di Antonio e Cleopatra, dominate dalle due grandi scene dello sbarco di Cleopatra e del suo incontro con Antonio e del fastoso banchetto nel corso del quale la regina d’Egitto dà prova del suo fascino, del suo potere, della sua ricchezza e della sua passione per Antonio al quale era approdata dopo la sfortunata e tragica storia d’amore e di politica con Giulio Cesare. I dipinti del ciclo, eseguito attorno alla metà del Settecento, rappresentano il concentrato e l’acme della pittura di storie del nostro artista il quale, avvalendosi, come spesso faceva, della collaborazione del quadraturista Mengozzi Colonna per le architetture in trompe l’oeil, sfodera tutti i suoi strumenti pittorici, tutta la retorica storica ed epica, tutta la sua capacità di seduzione dell’osservatore (condotto fino al patetico e alla commozione) e tutto il fantasmagorico repertorio di figure, di situazioni, di animali e di paesaggio di terra e di mare, di colori, di vesti e armature, di allegorie e di simboli che gli derivavano, come si sa, dall’universo del barocco, dal grande teatro d’opera, da reminiscenze veronesiane e riccesche in pittura e dal Tasso e magari da Metastasio in poesia e Vivaldi in musica. Se a tutto questo si aggiungono poi le fantastiche figure sul cornicione e sul soffitto, le allegorie, le scenette minori, gli scherzi e i capricci disseminati sulle nostre pareti allora chiunque si potrà perlomeno approssimativamente render conto della qualità, dell’originalità e della poesia che connotano questo ciclo. E dell’importanza tout-court culturale che esso racchiude e manifesta in questa inimitabile messa in scena di quanto di più raffinato e struggente, fantasmagorico e sapiente, lirico ed eroico il genio di un secolo intero potesse inventare. Fortunati siamo a goderne la meraviglia se solo pensiamo per un attimo a come miracolosamente si sia conservato alle numerose insidie subite nei secoli. Si pensi solo ai rischi e ai veri e propri danni di guerra che esso ha subito e da cui si è fortunatamente salvato: dalle bombe della Prima guerra mondiale (che distrussero il soffitto, sempre del Tiepolo, della chiesa assai vicina degli Scalzi) agli spostamenti d’aria

e alle onde d’urto derivanti da esplosioni in città e dai bombardamenti di Marghera nella Seconda guerra mondiale; dall’uso sconsiderato dell’edificio quando vennero qui ‘temporaneamente’ ospitate famiglie intere ad altre ancora non meno pericolose avventure che questo insigne capolavoro ebbe il destino di vivere e di cui gravemente soffrire. Gli affreschi di Tiepolo hanno altresì conosciuto alcune importanti campagne di restauri, che non sono tuttavia però riuscite ad assicurare definitivamente (per quanto l’espressione sia piuttosto aleatoria in presenza di testi tanto delicati e tanto provati, oltre che esposti ai rischi del clima veneziano e di strutture murarie antiche e forse non del tutto affidabili) la piena e completa sopravvivenza all’eccezionale ciclo tiepolesco. Il quale, in ogni caso, pur menomato e privato della vivacità delle sue tinte originarie, ancora è possibile ammirare nel suo perseverante splendore nella sala da ballo di palazzo Labia. Ma per quanto? Una dozzina d’anni or sono è stata avviata una campagna di manutenzione, consolidamento e restauro degli affreschi: la cura del progetto, i mezzi d’indagine e d’intervento di cui oggi disponiamo, la tecnologia di nuova generazione cui affidarsi potevano far ben sperare per una possibile nuova vita alle scene di Giambattista a palazzo Labia. Nossignori. I lavori vengono sospesi a livello dei saggi e, quindi, quasi prima di cominciare. Mancanza di fondi. A tutt’oggi non si intravede alcun minimo segnale di ripresa dei lavori. La Rai (la maggiore impresa culturale ecc. ecc.) celebra Tiepolo ma non trova i mezzi per salvare gli affreschi di Tiepolo. Inutile ripetere che un simile ciclo pittorico ha ugual valore culturale e artistico (se fossero possibili confronti di tal natura) degli affreschi di Giotto a Padova, di Mantegna a Mantova, di Veronese a Maser, di Raffaello e Michelangelo nelle Stanze vaticane. Che la Rai dia spesso l’impressione di uno stato di permanente schizofrenia o, addirittura, di marasma senile, è opinione risaputa e condivisa. Ma perché far pagare a Tiepolo (e a noi tutti italiani) le convulsioni della nostra maggior impresa culturale ecc. ecc.? 63


IL SUONO LIQUIDO L’improvvisazione è un muscolo che nella musica classica si è atrofizzato. Ma la musica non si controlla e non rimane identica Uri Caine di F.D.S.

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l nome di Uri Caine evoca subito il concetto

di libertà espressiva, la più grande libertà espressiva che si possa concepire. Lui appartiene certamente alla categoria dei grandi ibridatori di generi e stili, tipica del pianismo degli ultimi decenni e legata ad una formazione classica giovanile che poi curiosità e talento hanno declinato in mille modi: tuttavia, va detto che in lui questa capacità di rivestire tutte le maschere musicali possibili non si esercita solo con i generi, che in lui subiscono una dilatazione enorme che va dal jazz al funk, dall'elettronica all'hip hop, dalla musica classica all'avanguardia, da Bach, Mozart, Mahler e Wagner a Monk e Fats Waller. La caratteristica di Caine è quella di trovarsi a suo agio anche nella molteplicità delle ‘forme sonore’, dal pianismo solo ai piccoli combo in trio o quartetto, dalle grandi orchestre ai grandi quartetti di classica come il Quartetto Arditti fino agli ensemble più laterali (ricordiamo con piacere i dischi da lui registrati delle musiche di Wagner e Mahler con le orchestrine di piazza San Marco: il suono così datato, old-fashioned rivelava comunque un amore totale per la partitura, un grande rispetto filologico per la scrittura). Tecnica sopraffina mai esibita, al servizio di un gusto solido e onnivoro: ci sembrano queste le caratteristiche principali di questo musicista di Filadelfia, lontano insomma dal solipsismo talvolta svenevole di Jarrett o dall'approccio profetico di un Brad Mehldau. Nel 2014 Uri Caine ha realizzato un disco solo al piano, Callithump, registrato in un'unica seduta, senza nessuna alterazione dell'ordine dei pezzi. Un vero e proprio recital, insomma, in cui conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, uno stile fatto di rigore, sobrietà e solidità improvvisativa. Nessuna chiamata alle armi, nessun languore romantico, nessun delirio di potenza, ma un pianismo

equilibrato nella scelta degli approcci stilistici. Si va dal piano stride di Everything is bullshit, alla vertiginosa velocità ritmica di Chanson de Johnson e alla ballad di Magic of her earness. Il disco termina con una vera perla, quella Dotted eyes fatta di echi, effetti armonici, riverberi, accordi stridenti che galleggiano nell'aria rilasciando tutto il loro fascino sonoro per poi spegnersi nella musica del silenzio. Un vero, piccolo capolavoro di sperimentazione. C'è, in questo disco, una luminosità estetica, una raffinata sensibilità tali da configurare la sintesi perfetta tra gusto e abilità, tra strategia espressiva e capacità tecnica: questo equilibrio, solido e trasparente nello stesso tempo, ci rende Uri Caine particolarmente caro, lontano com'è dall'hype mediatico e dalla religione dei culti di altri suoi colleghi, portatore tuttavia di una irrequietezza risolta in un continuo ricercare. E non è certo un caso che il suo maestro sia stato George Crumb, inguaribile sperimentatore di stili, suoni, strumenti. Uri Caine presenta il suo disco Callithump in un solo concert il 19 giugno all'Auditorium Lo Squero dell'isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, prima data di una rassegna, Squero Jazz, organizzata da Asolo Musica che avrebbe dovuto prendere via a marzo dello scorso anno e per fortuna torna adesso, affiancando a Caine un altro fuoriclasse della tastiera come Danilo Rea, in concerto il 5 giugno, titolare di collaborazioni felicissime con Paoli e Mina tra gli altri, convinto che «per fare jazz bisogna sempre cercare strade nuove, altrimenti non si fa davvero jazz». Danilo Rea 5 giugno; Uri Caine 19 giugno Auditorium Lo Squero-Isola di San Giorgio Maggiore www.cini.it


THE BIG WAVE Dal 7 al 10 luglio l’edizione 2021 del workshop Moog Summer Camp, storicamente organizzato da Nu Fest, sezione elettronica di Veneto Jazz, sarà un’edizione speciale, con una borsa di studio, Big Marcello is watching you, intitolata al suo giovane fondatore, Marcello Mormile, prematuramente scomparso e che Veneto Jazz e il mondo dell’elettronica vogliono ricordare sostenendo concretamente la musica e i giovani. Il workshop diretto da Enrico Cosimi, uno dei massimi esperti in Italia del settore, è strutturato in quattro giorni di full immersion, mettendo a disposizione dei partecipanti, materiale di altissimo livello per approfondire il funzionamento della sintesi analogica, partendo dalle nozioni basilari fino alle sottigliezze della programmazione timbrica. Per concorrere alla borsa di studio, che prevede la partecipazione gratuita al workshop e un Premio speciale, il meraviglioso sintetizzatore Moog Subsequent 25, è necessario comporre un brano inedito di musica elettronica che sarà valutato da una giuria dedicata. Il Premio è messo in palio da Midiware, azienda leader in Italia nell’importazione e distribuzione di software e hardware per la produzione musicale, partner del progetto. A tutti partecipanti sarà comunque rilasciato un attestato di partecipazione a cura di Moog e Midiware e il software Arturia Pigments 3 12 months. Durante il workshop i partecipanti potranno inoltre incontrare Adam Holzman, leggendario tastierista di Miles Davis e protagonista del grande concerto finale il 10 luglio negli spazi di Combo a Venezia, sede del workshop, organizzato da Veneto Jazz nell’ambito del progetto Miles& in occasione del 30° anniversario dalla scomparsa di Miles Davis. Info e iscrizioni venetojazz.com/project/moog-workshop

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musica PREVIEW

LA VOCE UMANA Un progetto dall’impronta molto personalizzata, quello pianificato da Lucia Ronchetti, direttrice artistica del 65. Festival Internazionale di Musica Contemporanea – La Biennale di Venezia. Scorrendo il sostanzioso programma vi riconosciamo l’attenzione al legame che le partiture eseguite formano con il luogo d’esecuzione. Un’attenzione caratteristica di molti dei lavori della Ronchetti, dove i luoghi diventano altrettanto determinanti fin già dalla composizione, contribuendo fortemente alle drammaturgie sonore. E saranno i luoghi veneziani a contribuire attivamente alle intenzioni del Festival: su tutti emblematica la Basilica di San Marco dove, martedì 21 settembre, è prevista la prima esecuzione assoluta de Il viaggio della voce (Travelling voices) di Christina Kubisch. Nella proposta della sound-artist tedesca, le composizioni rinascimentali di Adrian Willaert e Andrea Gabrieli della Cappella Marciana si rapportano in un contrappunto vocale inedito alle voci registrate e alle sonorizzazioni elettroniche del Centro di Informatica Musicale e Multimediale de La Biennale di Venezia. Questo evento rappresenta di fatto alcune delle linee programmatiche di Lucia Ronchetti, una riflessione che parte dalla tradizione musicale del ‘500 veneziano e intende promuovere il superamento della linea di frattura tra la quasi totale assenza in Italia di gruppi vocali dediti alla musica contemporanea e la diversa situazione dei paesi europei. Allo stesso modo, anche l’opera processionale Moving still – processional crossing di Marta Gentilucci, prevista per il 23 settembre, si snoda lungo un percorso nel Sestiere di Castello, tra la zona dei Giardini, via Garibaldi e l’Arsenale, incontrando il pubblico in movimento per la città. Numerosi sono inoltre i concerti e gli incontri di divulgazione, da quelli con i compositori alle conferenze di approfondimento, alle lezioni di musica di Rai Radio Tre. Partecipazione diffusa nel Festival del Leone d’Argento di quest’anno: il gruppo Neue Vocalsolisten. Andrea Oddone Martin Choruses – 65. Festival Internazionale di Musica Contemporanea 17-26 settembre | www.labiennale.org

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Le mie letterature La nuova direzione di Lucia Ronchetti È la prima donna a dirigere il Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia: in questa 65. edizione Lucia Ronchetti succede a Ivan Fedele, che lo ha diretto per nove anni. Compositrice prolifica, dedita particolarmente al teatro musicale e alle azioni musicali, quella che lei stessa cataloga come Action Concert Pieces, in cui la dimensione puramente musicale non rinuncia a integrare nel proprio lessico particolarità performative, gestuali. È un tratto specifico del proprio comporre considerare un ampio campo di espressione artistica, spesso letteraria. Numerosi sono gli insegnanti di rilievo che frequenta durante la propria formazione in Italia e in Francia: Mauro Bortolotti, Gérard Grisey, Pierluigi Petrobelli, Françoise Lesure, Riccardo Bianchini fra gli altri. Le sue opere sono commissionate da importanti istituzioni estere, soprattutto tedesche. Sempre dall’estero le prime conferme e nel 2014 la certificazione della propria credibilità artistica: l’opera Esame di mezzanotte per il National Theater di Mannheim, su testo di Ermanno Cavazzoni, regia di Achim Freyer e drammaturgia di Elena Garcia-Fernandez. Commissionata da Klaus Peter Kehr, Esame di mezzanotte è stata giudicata da una giuria internazionale di giornalisti curata da «Opernwelt» la miglior produzione operistica della stagione in Germania. Oltreconfine, lo stile compositivo di Lucia Ronchetti è molto apprezzato e viene riconosciuto come decisamente “italiano”. Si inserisce infatti nella significativa traccia delle composizioni di grandi maestri italiani quali sono stati Malipiero, Luigi Dallapiccola, Bruno Maderna, Nono, Berio, Sylvano Bussotti e Salvatore Sciarrino. Nel tempo hanno sviluppato la riconoscibilità internazionale del teatro musicale italiano che perdura tutt’oggi. Andrea Oddone Martin


65. FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA CONTEMPORANEA

La natura elettronica Generazione felice dal punto di vista musicale quella finlandese degli anni ‘50 del Novecento: nel giro di pochi anni nascono Esa-Pekka Salonen, Magnus Lindberg e appunto Kaija Saariaho. Studi musicali a Helsinki, Friburgo e Parigi, dove vive dal 1982: qui ha frequentato l’IRCAM, la famosa istituzione parigina voluta da Pompidou e affidata a Pierre Boulez per la ricerca musicale legata all’utilizzo dei mezzi informatici ed elettronici, e da questa frequentazione la sua musica ha ricevuto le stimmate decisive. L’interazione tra elettronica e musica acustica, l’esplorazione del confine tra suono e rumore, l’attenzione estrema al suono e alla sua metamorfosi timbrica: sono tutte caratteristiche che avvicinano Saariaho a quella affascinante ‘isola’ della musica del XX secolo che va sotto il nome di “spettralismo”, capace di coniare un linguaggio musicale basato sull’analisi dei fenomeni fisici del suono attraverso gli spettrogrammi (da cui il nome). Contro la musica seriale, contro l’approccio sistemico al creare musica, contro

© Maarit Kytoharju

la considerazione del suono come “oggetto morto” da utilizzare arbitrariamente. Diciamo che gli spettralisti sono gli eredi di Debussy, di Messiaen, di Varese, di Scelsi, con in più la tecnologia informatica a disposizione oggi. Da ragazza Kaija Saariaho amava passeggiare nel bosco dopo la pioggia perché, diceva: «Le foglie umide riflettevano in modo diverso il canto degli uccelli». E già qui, da questo particolare, emerge la chiave espressiva asso-

luta della sua musica, una musica vocata alla esplorazione del timbro del suono, del suo colore in continua metamorfosi. Il Leone d’Oro alla carriera conferitole dalla Biennale, otto anni dopo il riconoscimento nel 2013 a Sofia Gubaidulina, per lo straordinario livello tecnico ed espressivo delle sue partiture vocali, riconosce e sottolinea un dato di fatto: che il rapporto tra Saariaho e la musica vocale ha avuto un andamento ellittico. F.D.S.

Dimensione audio «Per la collaborazione creativa con alcuni tra i più grandi compositori viventi e per lo sviluppo di un repertorio vocale a cappella nell’ambito della scrittura contemporanea»: questa la motivazione del Leone d’Argento assegnato ai Neue Vocalsolisten, gruppo di Stoccarda composto dai cantanti Johanna Vargas, Susanne Leitz-Lorey, Truike van der Poel, Daniel Gloger, Martin Nagy, Guillermo Anzorena, Andreas Fischer. Il 19 settembre al Teatro alle Tese li sentiremo impegnati in due prime esecuzioni assolute: un lavoro per voci ed elettronica del compositore americano George Lewis, commissione della Biennale Musica, e un lavoro di teatro vocale in concerto per sei voci soliste del compositore russo Sergej Newski, con realizzazione ed esecuzione dell’elettronica affidata al Centro d’Informatica Musicale e Multimediale della Biennale di Venezia. I progetti dell’ensemble sono caratterizzati da una personalissima interdisciplinarietà tra teatro musicale, performance, installazione e messa in scena di concerti. Con oltre 30 prime

© Sebastian Berger

mondiali all’anno, il loro lavoro è universalmente riconosciuto come unico nel panorama della musica vocale contemporanea. Con questo retroterra, i Neue Vocalsolisten hanno dato forma al teatro musicale vocale da camera, che contempla lavori di Georges Aperghis, Carola Bauckholt, Luciano Berio, Francesco FiIidei, Luca Francesconi, Gordon Kampe, Mischa Käser, Sarah Nemtsov, Sergej Newski, Katharina Rosenberger, Oscar Strasnoy e Claude Vivier.

Nel progetto VOICE AFFAIRS i Neue Vocalsolisten superano i confini artistici contaminando il repertorio contemporaneo con la scena musicale sperimentale del Libano. Il progetto mette in contatto i cantanti con otto artisti provenienti da Libano, Egitto, Palestina e Israele, che, dal punto di vista della composizione, della musica elettronica, del suono, dell’improvvisazione e del pop d’avanguardia raccontano delle diversità, le contraddizioni, l’esplosività e la poesia di questo ambito culturale. 67


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musica REVIEW a cura di Davide Carbone

SCRITTO NELL'ACQUA C

he il nostro corpo sia composto d’acqua per più della

metà è una verità ormai conclamata. Come altrettanto vero è che difficilmente si può resistere all’infinito ad un richiamo. Quando a chiamarti, poi, è l’acqua, opporre resistenza è inutile. In Memorie di Atlantide, disponibile su Spotify, in 13 canzoni e 48 minuti circa Giovanni Dell’Olivo e il Collettivo di Lagunaria danno concretezza a questi assunti grazie ad un’esperienza di oltre dieci anni di musica popolare veneziana in chiave di contaminazione con generi differenti, provenienti dal bacino mediterraneo. Fin dalla prima traccia, Introduzione-Catabasi, l’impressione vivida è quella di immergere i piedi in acqua dopo tanto tempo, quando si rivive di nuovo una sensazione che sembrava svanita per sempre nelle scorie fisiche e mentali della stagione autunnale e invernale, incapaci però di farci dimenticare del tutto un’esperienza a cui eternamente, invece, ritorniamo. La stessa formazione dello spettacolo portato in scena nel 2019, prima che l’imponderabile diventasse reale, è presente in questo lavoro in studio di registrazione, nel quale l’autore ha voluto mantenere il più possibile intatta la fragranza del sound dell’esibizione dal vivo: Giovanni Dell’Olivo alla chitarra classica, bouzouki, voce cantante e narrante, Alvise Seggi al contrabbasso, Stefano Ottogalli alla chitarra classica, Walter Lucherini alla fisarmonica e Serena Catullo voce, in un’edizione che si arricchisce di due artisti d’eccezione come l’attrice di cinema, performer teatrale e vocalist Arianna Moro e il noto prestigiatore e regista di spettacoli musicali newyorkese Vito Lupo, americano di origini italiane. In questo disco sono raccolti tredici brani registrati nel luglio 2020 a Noale, nello studio ZVUK di Davide Michieletto e Stefano Gaion, a confezionare un lavoro dedicato alla memoria di Bernardo Cinquetti, con un omaggio specifico e diretto con la dodicesima traccia Eterno villeggiante (a Bernardo), cantautore parmigiano e caro amico di Dell’Olivo scomparso nel novembre 2018, e ad Alberto D’Amico, insuperato aedo della venezianità oggi sommersa, scomparso nell’estate del 2020, cui è dedicata La peste è ritornata, vincitrice dell’edizione 2019 del Premio letterario internazionale Città di Moncalieri intitolato a Gianmaria Testa e tristemente profetica nel titolo quanto nel testo, su note delicate e accordi di chitarra trascinanti. Il dialetto di L’acqua che rivarà si fa lingua comprensibile a tutti perché parla di tutti, forte e chiaro a chiunque senta vivido il richiamo di un elemento capace di annegare e dissetare, guarire e far rifiorire la vita, così come l’arabo de L’Occidente Ya habiby arab laya. L’intreccio di prosa e canzoni conduce lo spettatore a ripercorrere, in chiave metaforica, la storia di Atlantide sommersa, intesa come una distopia sia dell’anima propria dell’autore che dell’anima collettiva di una generazione e dei suoi sogni infranti di giustizia ed uguaglianza sociale, perduti in fondo al mare come a seguito di un naufragio. E di naufraghi, migranti e respingimenti di migranti si parla ancora nella metafora narrativa dell’autore, ove la fine di Atlantide rappresenta la fine dell’idea stessa di società aperta ed inclusiva. Ma Atlantide è anche la Venezia dell’infanzia di Giovanni Dell’Olivo, luogo che è stato sommerso e dimenticato dall’egoismo di ciascuno dei suoi abitanti, così come è accaduto ad Atlantide, ricordo sbiadito di una civiltà perduta che si credeva immortale. Ma a noi non potrà mai toccare un simile, definitivo destino…vero? 69


MUSICA MAESTRI! Una musica segreta, composta di nascosto, molto più libera e moderna, lontano dallo stile dell’Accademia

classical

di Fabio Marzari

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A

lexandre Dratwicki , giovane direttore artistico di Palazzetto Bru Zane, ha vinto nel 2004 il Pensionnaire, prestigioso soggiorno di sei mesi a Villa Medici a Roma per motivi di studio. Risale al 1803 per opera di Napoleone l’utilizzo della magnifica residenza immersa nel verde al Pincio, sopra piazza di Spagna come nuova sede, dopo Palazzo Mancini, dell’Accademia di Francia, fondata da Luigi XIV nel 1666 per consentire ai giovani pittori francesi di studiare a Roma. Originariamente l’Accademia Reale inviava artisti a Roma per completare la loro formazione, ma poi l’Istituto di Francia e l’Accademia di Belle Arti organizzarono i Grand Prix di Roma, una speciale borsa di studio per giovani artisti meritevoli. Si aggiunsero nuove discipline, come musica e scultura, ma soprattutto fu la scelta dei borsisti che cambiò: non più forme di nepotismo, ma scelte per merito. Nicolas Poussin fu uno dei primi consiglieri dell’Accademia, Ingres il direttore e tra gli studenti ci furono Fragonard e Boucher. Ancora oggi l’Accademia di Francia accoglie ogni anno, nel mese di settembre, un nuovo gruppo di borsisti, selezionato da una giuria internazionale in base a criteri d’eccellenza attraverso un concorso basato sulla presentazione di un progetto e di un dossier. La selezione è aperta ad artisti e ricercatori di tutte le nazionalità che parlino francese e di età compresa tra i 20 ed i 45 anni al momento del soggiorno a Roma. I candidati possono fare domanda in tutte le discipline e generi della creazione artistica: architettura, arti visive, composizione musicale, design e mestieri d’arte, scrittura di sceneggiature, letteratura, fotografia, scenografia, regia, coreografia, oltre che in storia e teoria dell’arte ed in restauro delle opere d’arte e dei monumenti. Fu così che molti giovani compositori francesi, compiuti gli studi accademici, hanno potuto nel tempo fruire del biennio di studio romano. A loro, ed in particolare a quelli

attivi nel corso dell’Ottocento, Palazzetto Bru Zane dedica il suo festival primaverile, scherzosamente intitolato Tanti baci da Roma, caratteristico saluto da cartolina. Molti tra i vincitori del Prix du Rome sono finiti nell’oblio, altri sono divenuti importanti compositori, tra cui spiccano nel 19° secolo Hérold, Halévy, Berlioz, Gounod, Thomas, Bizet, Dubois, Massenet, Vidal, Debussy, Charpentier e, nel 1897, Max d’Ollone (1875-1959), cui il festival veneziano dedica ora un focus particolare. Palazzetto Bru Zane ospita sei appuntamenti musicali fino al 13 luglio e una mostra sul viaggio in Italia dei musicisti francesi in cui viene raccontata l’atmosfera dei loro soggiorni a Villa Medici, inclusi gli avventurosi viaggi dalla Francia a Roma di questi giovani compositori, generalmente squattrinati, attraverso illustrazioni, caricature e foto d’epoca. Il genere del quartetto, protagonista del festival, diventò obbligatorio per i residenti in Villa come forma di composizione a partire dal 1894. Max D’Ollone, vero gigante del genere, è come dicevamo protagonista e filo conduttore del Festival. Nato a Besançon da una famiglia aristocratica, allievo di Albert Lavignac, André Gédalge e Jules Massenet, vinse il Prix de Rome nel 1897 con la cantata Frédégonde. Il compositore è presente nella maggior parte dei concerti in programma che alternano pezzi per pianoforte solo, mélodies ed estratti di opera (martedì 15 giugno), o duetti per clarinetto e pianoforte (giovedì 8 luglio). A chiusura del festival il concerto del 13 luglio con Trii con pianoforte composti da Max D’Ollone, Gabriel Pierné, Lili Boulanger e Claude Debussy, mentre il concerto di presentazione del festival ha visto già protagonisti tre quartetti sconosciuti di Max d’Ollone, Henri Rabaud e Ferdinand Hérold. L’ascolto dei concerti è disponibile anche in streaming, su Bru Zane Replay. Tanti baci da Roma 14 maggio-13 luglio Palazzetto Bru Zane Chiesa di San Giovanni Evangelista - www.bru-zane.com


PALAZZETTO BRU ZANE 21 maggio h. 19.30

15 giugno h. 19.30

19 giugno h. 19.30

SOLISTI E PIANISTI ACCADEMIA TEATRO ALLA SCALA Il repertorio proposto ha permesso di lavorare indipendentemente dalle tradizioni stabilite dai modelli delle generazioni passate, sollecitando piuttosto la creatività, la soggettività e, in una certa misura, la responsabilità dei cantanti e dei pianisti, ai quali è stata data piena libertà di ‘appropriarsi’ dei brani a modo loro, senza lasciarsi intimidire da illustri precedenti. È stata anche un’occasione per convincerli come anche le opere dimenticate dai posteri possano rivelarsi interessanti e attraenti tanto per l’interprete quanto per il pubblico. Il programma si divide in due momenti distinti, l’uno dedicato alla mélodie, l’altro all’opera lirica.

OLIVIA DORAY soprano MARINE THOREAU LA SALLE pianoforte Per ottenere il suo biglietto per Roma, un giovane musicista deve scrivere, chiuso in una “cella”, una cantata su un libretto prestabilito. Si tratta di dimostrare la portata delle sue capacità evitando di urtare le aspettative accademiche dei giudici, che peraltro continueranno a valutare la sua produzione durante il suo soggiorno a Villa Medici. Tuttavia, a Roma il pensionante non dedica tutto il suo tempo ai lavori obbligati: scrivere mélodies o pezzi per pianoforte, concepiti al di fuori delle richieste regolamentari, gli apriva uno spazio di libertà e gli permetteva di mantenersi in contatto con gli editori parigini.

TRIO QUAI DES BRUMES AMF STRING QUARTET Questo concerto associa alle sonorità gipsy del Trio Quai des Brumes l’eleganza della scrittura per quartetto d’archi, trovando nell’AMF String Quartet un complice di grande efficacia e intuito musicale. Le canzoni di Gabriel Fauré e dei suoi contemporanei, tra i quali spicca l’immenso talento della compositrice Cécile Chaminade, sono state così rielaborate soprattutto ritmicamente, pur nel rispetto delle squisitezze armoniche che le contraddistinguono. Un concerto che mette in luce la ricchezza melodica di queste musiche e la grande potenzialità in termini di scrittura compositiva.

Alla francese

Da Parigi a Roma

Improvvisazioni d’estate

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classical

INTERVIEW DIRETTORE SCIENTIFICO PALAZZETTO BRU ZANE

Analisi lirica Intervista a Alexandre Dratwicki In questa stagione anomala, il Centre de musique romantique française di Palazzetto Bru Zane, nell’ambito delle sue iniziative a carattere formativo e pedagogico, ha inaugurato un’importante collaborazione con l’Accademia Teatro alla Scala di Milano, oggi diretta da Luisa Vinci, che rappresenta un unicum nel panorama internazionale dell’alta formazione per lo spettacolo dal vivo. Nel corso di due sessioni di masterclass a novembre 2020 e a marzo 2021, Alexandre Dratwicki, direttore scientifico del Palazzetto Bru Zane, ha approfondito con cantanti e pianisti che li hanno accompagnati, le peculiarità dell’interpretazione storicamente informata di mélodies e arie d’opera tratte dal repertorio dell’Ottocento francese. I frutti di questi incontri vengono presentati nel concerto del 21 maggio, permettendo così di diffondere il repertorio romantico francese nel modo in cui è stato scritto ed eseguito durante l’Ottocento. Abbiamo incontrato il maestro Dratwicki per addentrarci con lui tra i segreti del belcanto. Maestro, quale importanza riveste in ambito operistico la giusta dizione del linguaggio nell’interpretare un personaggio? Volendo esprimere i concetti in maniera semplice e diretta, possiamo dire che nella musica tedesca l’importanza predominante viene data all’armonia. Penso agli esempi significativi di Schumann, Brahms, Wagner, Strauss, ma anche di Mendelssohn e di Weber. La vita musicale degli autori tedeschi si struttura con la parte orchestrale, e questo già valeva anche per Mozart, in cui tutta la storia viene raccontata anche e soprattutto nell’ambito dell’orchestra. Nella musica italiana si trova non solo una parte vocale, ma anche una dimensione della virtuosità che assume un ruolo primario in Bellini, Donizetti, Rossini, con le reiterazioni che diventano possibili solo ad un tempo e con il dovere dei personaggi di un dramma di vivere esteticamente anche nei recitativi, conferendo anche a questi elevatezza lirica. Nella tradizione francese non si trova un’armonia così ricca come nella tradizione tedesca, con l’uso dell’orchestra, e manca una virtuosità di canto come nella tradizione italiana, salvo rare eccezioni, tutto è struttu72

rato sull’idea del testo; infatti tra i due generi, il grandioso Grand-Opéra e la disimpegnata operetta, prende piede in Francia, nel secondo Ottocento, il genere intermedio dell’Opéra-lyrique (Faust di Gounod, Mignon di Thomas, Manon e Werther di Massenet): vocalità contenuta e conforme a un’espressione linguistica corretta e comprensibile, per soggetti di carattere intimista e sentimentale. Il problema è che se si canta l’opera francese in una maniera troppo lenta, come nella lezione del verismo italiano, alla fine l’armonia diventa troppo lenta per poter essere interessante, non c’è più alcuna vocalizzazione che rimandi al virtuosismo e poi il testo viene completamente rovesciato, perde senso, sembrano personaggi con problemi nel parlare, trascinando troppo a lungo la scansione delle parole. Questo ritmo giusto della parola, che esiste nell’opera francese, si ritrova prima con il ritmo e poi con la qualità dell’effetto teatrale. Ciò che oggi per un cantante diventa importante e difficile però da comprendere, è che per alcune parti di Bellini si deve creare un ‘legato’ di 10 minuti con respirazione quasi assente, mentre in francese la cosa più importante è il ritmo delle parole anche quando non è specificato dallo spartito, con termini che vanno utilizzati con precisione linguistica per dare senso compiuto al ritmo del racconto. In francese nel libretto non succede come per l’italiano, in cui una parola viene ripresa e ripetuta più e più volte, non c’è parola che torna due volte e questa caratteristica del testo è qualcosa di molto particolare. Quando è indicato “recitativo” nella scena musicale, ad esempio in Gluck si può eseguire

tutto lentamente, ma quando è scritto “recitativo col canto” è necessario andare più in fretta, il ritmo diventa necessariamente più veloce. Nella prefazione all’Orfeo ed Euridice scritta a Vienna nel 1762 in collaborazione con il librettista Ranieri de’ Calzabigi, Gluck esplicava la propria poetica espressiva: riportare la musica all’aderenza con il dramma, sfrondandola da orpelli inutili imposti dalla moda e dal divismo dei cantanti; introdurre recitativi ariosi che non interrompevano l’incidere drammatico, mentre le stesse arie dovevano ammantarsi di sobrietà nel canto ed essere strettamente ispirate alla situazione drammatica. In Gluck quando è scritto “recitativo” nella partitura vuol dire “quasi parlato” ed è legato all’idea del tempo: guardando alla sua produzione parigina si vede come a due opere riformate come Iphigénie en Aulide e la revisione di Alceste segua Armide, una partitura improntata allo stile della tragédie-lyrique, ispirata in particolare ad un’altra celebre Armide, quella di Lully. Con Iphigénie en Tauride, Gluck torna nuovamente sui propri passi compiendo quello che è il passo decisivo verso la sua riforma dell’opera. Il recitativo è pressoché scomparso, ora vi sono ampie scene drammatiche, interrotte da ariosi, mentre le arie vere e proprie non hanno più una forma definitiva e sfuggono ad ogni sorta di tipologia; il canto, specie quello di Ifigenia, carico di una nobile emotività, si fa espressione di sentimenti di pregnante umanità. Questo lo si può notare anche ascoltando registrazioni vecchie di almeno una ventina d’anni, in cui i cinque minuti nel passato, sono


Nella tradizione francese non si trova un’armonia così ricca come nella tradizione tedesca, con l’uso dell’orchestra, e manca una virtuosità di canto come nella tradizione italiana, salvo rare eccezioni. Tutto è strutturato sull’idea del testo diventati oggi solo tre. Con una direzione lenta si ha bisogno di voci ‘enormi’ che possono anche non respirare per un dato spazio di tempo: tutto questo riguarda i casting, si rendono sempre più spesso oggi pagine musicali quasi stravolgendole in maniera “wagneristakarajanesca”... Tra i cantanti stranieri, quali sanno meglio impadronirsi della lingua nell’interpretazione dell’opera? Trovo che gli americani siano migliori rispetto agli asiatici, almeno nelle partiture francofone. Hanno una maniera più efficace di mettere in scena la propria personalità, rimanendo attenti però anche ai dettagli nella parte musicale, mentre spesso i cantanti russi e i cantanti italiani sono educati a elaborare la materia musicale facendo tutto quanto è nella possibilità delle loro estensioni vocali, utilizzando ogni dettaglio a loro disposizione. Nella musica francese non esiste il ‘portamento’, accorgimento che prevede l’intonazione di tutte le frequenze intermedie fra una nota e quella successiva, sfruttato soprattutto nel canto. Non si usa voce ‘di gola’ o ‘di petto’ per mettere in evidenza una capacità vocale e non una capacità teatrale, si tratta quindi di educazione musicale differente. Occorre tuttavia precisare che il testo francese risulta più complesso da cantare, perchè la lingua francese esprime una sonorità di “iato”, nel senso che ogni parola si lega alla seguente secondo un ritmo di eleganza e di eufonia. La “liaison” è la tipica maniera di continuare a pronunciare sequenze di sillabe senza interruzioni brusche. Soprattutto i tenori nelle opere in francese necessitano di voci miste da poter usare nell’opéra-comique, ma anche connotate dalla capacità di cantare musica ‘di forza’. È in atto un’importante collaborazione tra Palazzetto Bru Zane e l’Accademia del Teatro alla Scala di Milano in cui Lei ha tenuto delle masterclass. Di che si tratta?

Anche se il Covid-19 ha necessariamente modificato i programmi iniziali che prevedevano due sessioni di masterclass nello scorso novembre e a marzo, in cui con i cantanti e i pianisti dell’Accademia Teatro alla Scala avremmo dovuto prendere in esame e approfondire le caratteristiche dell’interpretazione delle mélodies e arie d’opera tratte dal repertorio dell’Ottocento francese, si sono tenute delle conferenze online sui cantanti francesi dell’800 e le voci francesi, spiegando come si strutturi vocalmente il tenore ‘di carattere’, quali debbano essere le sue le qualità, le specificità della voce e su come debba essere usata nei diversi ambiti di repertorio, come opéra-comique, operetta e altri. Una seconda conferenza è dedicata invece ai luoghi di teatro nell’Ottocento e sui libretti di mise en scène, tutti legati ad una realtà del palcoscenico che anche Verdi e Puccini avevano ben compreso, ritenendo questo meccanismo teatrale francese molto più strutturato rispetto ad altre realtà. Una terza conferenza è su come ritrovare completamente lo stile francese, per esempio la “erre”, impossibile quasi da riprodursi, detta uvulare perché la lingua entra in contatto con l’ugola. Nel canto in francese la pronuncia è fondamentale, il rischio concreto potrebbe essere una resa finale con un forte accento che la farebbe sembrare opera di un bavarese o, peggio ancora, con un suono all’apparenza simile che muta il significato delle parole. Abbiamo registrato molte adesioni a queste conferenze ed io ho inviato una lista di arie sconosciute tra quelle del repertorio di cui si occupa precipuamente Palazzetto Bru Zane: l’idea era quella di impegnare i cantanti nello studio di un’aria mai registrata prima, per rammentare a tutti come a malapena l’1% della musica scritta sia quella che viene eseguita. Ritengo che questo sia un modo di lavorare molto interessante, senza per questo motivo, naturalmente, ridimensionare le pagine più famose e rappresentate. Altro lavoro svolto riguarda la distruzione

delle tradizioni e le riflessioni su come tornare alla verità della scrittura, strutturando insieme la lingua, il personaggio e poi la realtà musicale del pezzo: spiegare perchè sono state prese determinate scelte e riportare i tenori all’esecuzione secondo quanto indicato negli spartiti, anche solo per gioco, per ascoltare le differenze sul ‘pianissimo’, sul ‘fortissimo’, avendo un’idea delle trasformazioni. Non si vuole dire che non si possa cantare così, ma è giusto sapere che la storia della musica era costellata di queste differenze, di queste sfumature di cruciale importanza. Quali lingue dunque sono le più musicalmente complesse? Direi decisamente il francese. Sul tedesco esiste lo schema mentale che contenga molte consonanti, in italiano tutto è al servizio della voce e ci sono meno sonorità. Il ‘problema’ della musica francese è che non c’è la ‘facilità’ della vocalità, non c’è la semplicità di cinque sonorità, e poi ci sono suoni di pronuncia che esistono solo in francese: solo con la ‘erre’…si aprono mondi! Di quali nazionalità sono i musicisti coinvolti nel progetto? Provengono da Asia e Nord Europa, non ci sono cantanti francesi, pochi italiani, alcuni inglesi e americani. I nuovi cantanti studiano bene anche le sfumature, il team dell’Accademia alla Scala è veramente fantastico e sempre desideroso di migliorarsi, condivido in pieno le loro convinzioni su come oggi si debba formare un cantante. Solitamente, il problema degli studenti sono i professori! Alla Scala il team è molto moderno e allo stesso tempo rivolto alla tradizione per ritrovare le autentiche impostazioni della lingua. Fabio Marzari Solisti e Pianisti Accademia Teatro Alla Scala 21 maggio Palazzetto Bru Zane h. 19.30 www.bru-zane.com

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classical

INTERVIEW SOVRINTENDENTE TEATRO LA FENICE

Teatro-mondo Intervista a Fortunato Ortombina Fortunato Ortombina, Sovrintendente e direttore artistico del Teatro La Fenice, dopo la ripresa delle attività musicali in parziale presenza di pubblico ritorna su questo anno incredibilmente ‘altro’, sul modo in cui uno dei teatri più importanti d’Europa ha cercato di resistere e reinventarsi in mesi di assenze, illustrandoci i contenuti che nel breve caratterizzeranno questa prima, agognata ripartenza, in attesa di poter riprendere il prima possibile con la normale programmazione ad emergenza sanitaria finalmente archiviata. Ci eravamo sentiti all'inizio della pandemia e Lei ci ha raccontato di come avete dovuto reinventare tutto, trasformando anche gli spazi interni del Teatro. Gli scorsi mesi hanno registrato una vitalità indiscussa della Fenice, con un successo importante nelle produzioni online e negli spettacoli che si sono potuti tenere tra una zona rossa e l'altra. Dopo un anno vorremmo chiederle come sta oggi il teatro d'opera in Italia e quale lezione è derivata da questa pandemia? Dopo un anno con le porte sigillate abbiamo finalmente avuto la possibilità di riaprire il Teatro lo scorso 26 aprile. Dopo lunghissimi mesi in cui siamo rimasti in vita reinventandoci attraverso lo streaming, peraltro togliendoci non poche e per niente scontate soddisfazioni, quando il Ministro Franceschini ha comunicato la data di ripartenza delle attività non abbiamo voluto perdere neppure un giorno. Non era più sostenibile neppure per i musicisti alla fine di una sinfonia ascoltare questo assordante, fondo silenzio; avevamo un gran numero di visualizzazioni da casa, certo, ma il calore di una sala gremita di pubblico non è sostituibile proprio con alcunché. L’esperienza in streaming si è rivelata un ottimo strumento per mantenere in vita il rapporto tra il Teatro e il suo pubblico, allargato grazie a questa modalità di fruizione ben oltre i soliti confini, ma non posso che ribadire ancora una volta che lo streaming non rappresenta un'alternativa allo spettacolo dal vivo; si tratta di uno strumento funzionale allo spettacolo dal vivo come promozione, ma il momento live è e rimane una dimensione assolutamente imprescindibile. Come sta il Teatro la Fenice? Posso dire che 74

© Michele Crosera

sta bene, sì. L'attività in alternanza tra periodi di cassa integrazione e regolare attività di programmazione artistica ha consentito innanzitutto di preservare la salute dei nostri dipendenti e poi anche indubbiamente di garantire una certa sostenibilità economica al tutto. Eravamo abituati ad incassare 11 milioni di euro all'anno; dall’ultima chiusura del 26 ottobre non abbiamo incassato un solo euro. Eppure ci affacciamo a questa attesissima ripartenza in salute, ben testimoniata da un passo molto importante che La Fenice ha compiuto in questi mesi, ossia la rinuncia ai finanziamenti della legge Bray che consente di poter accedere ad una sorta di mutuo da parte dello Stato. L’articolo 11 della Legge Bray si occupa infatti di Fondazioni lirico-sinfoniche istituendo un fondo di rotazione di 75 milioni di euro rivolto prioritariamente a quelle interessate da gravi problemi di liquidità, purché si vincolino a varare e seguire un piano triennale di risanamento per rientrare nei binari della normalità. La Fenice è rimasta tra i pochissimi enti lirici a non aderire a questa legge, risultato di molti anni di lavoro, di buona amministrazione e di programmazione vincente. La priorità maggiore non era tanto di aprire

il 26 aprile: il punto era piuttosto aprire in un momento in cui ci fosse data la garanzia che non avemmo più chiuso. Devo dire che questo messaggio è stato alla fine ben compreso da parte delle autorità competenti in materia. Naturalmente ci siamo attivati con tutti i protocolli di sicurezza, per non dover tornare indietro, eseguendo tutti i test richiesti con regolarità. Sono settimane che non riscontriamo un positivo al Covid-19, ciò significa che vi è un grande senso di responsabilità da parte di tutti i nostri dipendenti. È percepibile il senso di smarrimento da parte di molti, specie dopo il secondo lockdown giunto quando si credeva di aver lasciato alle spalle il peggio; è parimenti palpabile il grande desiderio di cultura come indice di ritorno alla vita normale. Per ora è ancora necessario il contingentamento nel numero degli spettatori e va seguito un rigido distanziamento dei musicisti durante l’esecuzione dei brani che si vanno a programmare, il che rende i teatri dei luoghi assai sicuri. Ovviamente il persistere di questi limiti, che pure rappresentano un indubbio passo avanti rispetto al blocco totale, limiterà ancora per mesi e mesi la nostra capacità di realizzare delle entrate dalla bigliettazione, voce vitale per le nostre economie naturalmente. Senza farci inutili illusioni, siamo ben consapevoli che almeno fino alla fine dell’anno sarà impensabile tornare a regimi normali. C'è stato un momento, nei giorni più bui, in cui ha temuto di non poter più rialzare il sipario? Qualche momento di profondo sconforto lo abbiamo vissuto, certo, però grazie ad un meraviglioso staff e al senso di responsabilità di tutti i dipendenti abbiamo trovato la carica per non arrenderci. Essendo costretti a cambiare la programmazione ogni due settimane, abbiamo deciso di “mettere in scena” alcuni concerti appena 48 ore prima dell'inizio delle prove e nonostante ciò tutto è andato per il meglio. Calore, messaggi di solidarietà, di vicinanza ci sono giunti da tutto il mondo, non avremmo quindi in nessun modo potuto rispondere a tanto affetto con la paura. Al contrario, al cospetto di simili, copiosi attestati di stima, abbiamo sentito l’obbligo di dover noi per primi infondere ottimismo e fiducia nell’unico, concreto modo che ci era dato conoscere, ossia continuando a suonare e quindi proseguendo con la programmazione. E così abbiamo fatto!


Calore, messaggi di solidarietà, di vicinanza ci sono giunti da tutto il mondo, non avremmo quindi in nessun modo potuto rispondere a tanto affetto con la paura sa enfasi. Il pubblico dei millennials va coltivato bene, con azioni mirate. Iniziative di successo come quella del 26 aprile dimostrano ampiamente come l’opera non interessi solo a un pubblico in età avanzata; si tratta di un luogo comune volgarissimo e privo di fondamento, puntualmente smentito ogni qual volta si crea un’occasione a riguardo dedicata ai più giovani. La loro energia, l’attenzione all’ascolto e la vitalità che sanno esprimere rappresentano un carburante indispensabile per il Teatro. Ho voluto ricordare all’inizio di quel concerto che anche Verdi quando venne in Fenice per eseguire la sua musica era anagraficamente un millennial come loro: la sua musica era stata scritta per parlare ai millennials come lui e come loro.

Il mese di maggio ha quindi aperto un'importante stagione concertistica con il pubblico, sia in sala che in streaming. Ci può illustrare questa prima tranche di programmazione? Si tratta di un quadro il più possibile vario negli stili che vengono rappresentati. Abbiamo aperto con l'Ouverture di Giuseppe Verdi con il baritono Luca Salsi e il basso Michele Pertusi, alla quale è seguita la Quinta Sinfonia di Čajkovskij, concerto diretto da Henrik Nánási. È stata poi la volta dell’atteso ritorno di Myung-Whun Chung alla testa dell’Orchestra del Teatro La Fenice per dirigere la Prima Sinfonia Titano di Gustav Mahler. Mozart e Schubert sono i compositori protagonisti del prossimo concerto in programma sabato 22 maggio, con Alexander Lonquich impegnato nella doppia veste di direttore e solista al pia-

noforte. Avendo battezzato questa ripartenza con Verdi, ci è piaciuto infine chiudere questo maggio di grande speranza con un programma dedicato interamente a Giacomo Puccini in un concerto diretto da Daniele Callegari il 30 maggio. Potrebbe essere questo l'ultimo mese di soli concerti; spero infatti sia possibile per il pubblico alla fine di giugno assistere all'opera sia in Fenice che al Malibran. Grande successo ha registrato l'iniziativa di riservare il primo concerto in presenza alla Fenice ad un pubblico interamente composto da millennials. Quali le potenzialità di questa scelta? Lo dico con il cuore in mano, senza alcuna retorica: il 26 aprile il Teatro La Fenice non lo abbiamo aperto noi, lo hanno aperto loro! Ci tengo a sottolinearlo con una giusta e dovero-

Quali segnali arrivano dal pubblico, anche in funzione della programmazione futura? Abbiamo ricevuto e continuiamo a ricevere segnali molto positivi e lusinghieri, a partire dalla miriade di commenti colmi di ammirazione e affetto provenienti da ogni angolo del mondo durante i concerti on-line. Sono moltissime le persone che non vedono l'ora di poter tornare a Venezia e alla Fenice. Bisogna essere sempre vigili, tenere alta l’attenzione alla sostenibilità di un Teatro dall’attività così complessa ed articolata come il nostro. Quindi nessun passo azzardato o magari figlio di un entusiasmo non supportato da una lucida analisi del tempo che stiamo vivendo, un presente in positivo divenire questo sì, ma ancora lontano da una piena, recuperata normalità. Ciò che è certo è che va mantenuto senza se e senza ma il livello artistico di eccellenza che da sempre contraddistingue la nostra attività e le nostre stagioni, anche, e ancora, attraverso lo strumento dei concerti in streaming, in attesa del ritorno pieno del pubblico in sala, che sarà una delle vere, fondamentali carte vincenti per contribuire a riavviare non solo l’industria dello spettacolo della città, ma la città tutta. È anche per Venezia che facciamo tutto questo, non solo per noi. Fabio Marzari www.teatrolafenice.it

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SENZA PAURA Partiremo proprio dal BLUE e dalle sue infinite variazioni per tracciare il filo dei nostri giorni, illuminare le scosse di un’umanità che sente il bisogno di inventare nuove forme di vita, una Rinascenza universale sotto ogni profilo

theatro

ricci/forte

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49. FESTIVAL INTERNAZIONALE DI TEATRO

di Loris Casadei

S

tefano Ricci e Gianni Forte hanno scelto il Blue come

tema/colore per denominare il 49. Festival Internazionale di Teatro e per, tra le altre cose, «ricordare il freddo dei teatri vuoti durante la pandemia». Beh, apprezzabile l’ironia, dato che difficilmente si ricorderà un’edizione 'calda' come questa. Inaugura il Festival, il 2 luglio, il Leone d’Oro alla carriera Krzysztof Warlikowski, laureato alla Jagiellonian University di Cracovia, la stessa di Malinowski, Szymborska, del regista Zanussi, ma anche di Karol Wojtyla. Fondatore nel 2008 del Variety Theatre di Varsavia, Warlikowski in Polonia è da sempre considerato un personaggio scomodo e scabroso, anche se lui sostiene che è la realtà che viviamo ad essere scandalosa e afferma: «Il mio obiettivo è spogliare questo mondo». Regista teatrale, cinematografico, apprezzatissimo anche nelle opere liriche, usa maschere e gabbie, sia come simbolo di prigionia che di morte, e mette in scena feticci di personaggi celebri, papa Wojtyla tra tutti la rappresentazione forse il più contestata. Viso segnato, quasi un folletto shakespeariano, Warlikowski sceglie come temi prediletti l’Olocausto, la sessualità, l’essere ebrei o appartenenti a minoranze etniche in generale; fa uso di molteplici linguaggi, fra cui il gesto e la danza, e ama scardinare le regole teatrali classiche con l'obiettivo dichiarato di ristabilire un forte contatto con il pubblico. Memorabile (A)polonia, una reinterpretazione del mito greco di Ifigenia con collegamenti televisivi, Skype e interviste con il pubblico in diretta. A Venezia porterà in scena We Are Leaving, tratto da un romanzo di Hanoch Levin, a sua volta ripreso da Kantor. Tre ore e mezza di spettacolo ambientato in stazioni di autobus, sale gioco, nightclub e toilette molto frequentate per i più svariati motivi. L’ironia non manca, ma prevale un senso di tristezza claustrofobica. Non è da meno Kornél Mundruczó con il suo Hard to be a God, che sbatte la violenza in faccia allo spettatore senza troppi veli. Due camion ai lati della strada e un commercio di esseri umani e di droga: lo spettacolo è potente e non solo per il tema, ma per lo stesso allestimento, capace di esaltare l’efficacia di ogni singolo gesto. Un lavoro multimediale si sarebbe detto un tempo, con proiezioni che amplificano ciò che avviene narrando particolari temporalmente sfasati rispetto alla vicenda in scena; e poi musica e canto, e soprattutto tanta danza. Un crossover di linguaggi che non stupisce alla luce del fatto che il regista è conosciutissimo per la sua attività cinematografica. Il Leone d’Argento Kae Tempest ci rilasserà con la sua poesia? Non illudiamoci. Nel recuperare l’arte del verso oralmente esibito con il suo spettacolo The Book of Traps & Lessons, Kae ci parla di un mondo dove le persone uccidono ancora in nome di Dio e del dio denaro che ci sta ammazzando tutti, della solitudine così totale da divenire l'unico tessuto delle nostre relazioni, di giornate trascorse a fissare oggetti, per citare qualche passaggio del suo celebre libro The Bricks that Built the Houses (non è stato scritto nel periodo del lockdown!). Straziante anche In Exitu, testo di Giovanni Testori interpretato dall’artista Roberto Latini. Vele bianche come unico elemento scenico per lasciare spazio alle parole. Il poeta lombardo dà voce ad un tossicodipendente che si prostituisce alla stazione di Milano. Opera estrema, molto adatta per un artista della voce quale Latini, che non vuole «disturbare il testo per lasciar fluire il pensiero degli spettatori», curioso

egli stesso di quel che succede nella comunità teatrale composta dagli attori e dal pubblico. Indomito nelle sue denunce sociali ritorna a Venezia anche Thomas Ostermeier, osannato dalle cattedre universitarie di teatro perché meglio di chiunque altro incarna la figura emergente del Dramaturg. Lo abbiamo visto nel 2015, anno in cui gli è stato assegnato il Leone d’oro, con il variegato e sarcastico Il matrimonio di Maria Braun, spettacolo di grande efficacia drammatica, nel 2013 con Un nemico del popolo di Ibsen e ancora prima, nel 2011, con Hamlet. Quest’anno porterà Qui a tue mon pere, dal romanzo breve e fortemente autobiografico di Édouard Louis. Interprete lo stesso autore, portatore di accuse con tanto di nomi e cognomi nei confronti dei politici francesi che «stanno distruggendo il welfare, piegando corpo e volontà dei più fragili», così come accaduto a suo padre. È frutto di una ricerca sulla parola e sulla voce Nel lago del cor di Danio Manfredini, sorta di viaggio dantesco all’interno di luoghi di reclusione, prigioni o strutture psichiatriche, dove l’autore ha a lungo lavorato. Di Manfredini varrebbe la pena di rivedere anche Ciao Buon Natale (che questa nota possa essere letta come un invito alla ripresa dello spettacolo…). Leone d’Argento nel 2015 con A House in Asia, tra le fila di ricci/ forte torna anche Agrupación Señor Serrano con lo spettacolo The Mountain. Il palcoscenico, se così si può ancora definire, sarà occupato da dispositivi scenici, mentre videoproiezioni spesso discordanti costruiranno una narrazione ad episodi: dalla scalata all’Everest a Orson Welles che semina il panico con il suo programma radiofonico The War of the Worlds nel 1928, passando per un Putin che parla soddisfatto di fiducia e verità. Il pubblico è coinvolto nello spettacolo da un drone che continua instancabile ad osservarlo. L’obiettivo è esplorare e porre domande sul mito della verità, con particolare riferimento al ruolo dei media. Grande curiosità suscita il lavoro di Filippo Andreatta, artista visuale che cura scene e regia di Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro, performance di OHT, l'interpretazione di Barbara Voghera, attrice sensibile affetta da sindrome di down, protagonista dell’assolo Altro Stato di Fondazione Lenz, e lo spettacolo di Paolo Costantini, vincitore della quarta edizione di Biennale College Registi. Da non perdere in nessun modo, infine, l’ungherese Adrienn Hód, performer, danzatrice e coreografa già protagonista al Mittelfest del 2018. Di lei voglio citare una delle sue frasi preferite: «Quando le nostre esperienze e sensazioni sono legittime? Molti sentimenti o stati umani sono “proibiti”, non possono essere mostrati [...] Sull'altare dell'arte puoi fare cose proibite nella vita reale. L'arte è dunque un gioco, un alibi che ci rende liberi». Alla Biennale presenta Sunday, spettacolo che secondo il direttore del Mittelfest possiede un «potere sciamanico. Inizia burlesque per poi trasformarsi in un rituale eccezionale, teso a evocare i nostri sentimenti primari. È una danza straordinaria e terrificante. Credo di aver paura di Adrienn Hód». Esisterà qualcosa di cui anche ricci/forte hanno paura? BLUE – 49. Festival Internazionale di Teatro 2-11 luglio Arsenale, Ca' Giustinian, Teatro Goldoni www.labiennale.org

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theatro PREVIEW

SGUARDI INCROCIATI Autori-registi di culto del teatro di ricerca italiano, riconosciuti a livello internazionale come una delle realtà più rappresentative, provocatorie e impavide della scena contemporanea, Stefano Ricci e Gianni Forte sono approdati alla direzione del settore Teatro della Biennale di Venezia per il quadriennio 2021-2024. Dopo gli anni di formazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico con Luca Ronconi e alla New York University con Edward Albee, Ricci e Forte formano l’omonimo ensemble nel 2005 e l’anno successivo debuttano con Troia’s Discount, che conquista immediatamente l’attenzione di pubblico e critica. Il loro sguardo lucido e feroce sul contemporaneo sfocia in un linguaggio onirico in cui la poesia è l’unico antidoto allo sconforto: Ploutos, da Aristofane, vince il premio della Critica come migliore drammaturgia alla Biennale Teatro 2008. Seguono il lisergico e spietato Macadamia Nut Brittle, Abbastarduna, con la regia di David Bobée, Pinter’s Anatomy e Grimmless, indimenticabile messa in scena al Teatro Fondamenta Nuove per il Festival del 2011, Imitationofdeath, 100% Furioso al NET Festival di Mosca, Still Life, che si aggiudica l’Oscar come miglior spettacolo straniero nel 2017 al Festival Internazionale Teatro Mercosur di Cordoba in Argentina, Darling (ipotesi per un’Orestea), TroiloVSCressida...

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Hold Your Own Kae Tempest: il coraggio di essere sé stessi, a tutti i costi

©Julian Broad

I direttori ricci/forte lo hanno annunciato nel presentarsi: «Non pensiamo ad un solo teatro, ma a diversi teatri possibili... vogliamo aprire feritoie, squarci poetici... Saremo due futuri guerrieri dello stupore poetico». Forse avevano già in mente Kae Tempest, Leone d’Argento 2021, nel pronunciare queste parole? Kae Tempest è contaminazione pura di generi, riprende la tradizione dei menestrelli, dei cantastorie, oggi chiamati “spoken word artist”, cantante, scrittrice di canzoni, poeta e romanziera. Per di più ci tiene a definirsi gender neutral, nel suo rifiuto a riconoscersi in un solo genere, né maschile, né femminile, né altro, e dall’estate 2020 riferisce di sé al plurale. La conosco da tempo grazie ai suoi racconti e a i pochi spezzoni di recitazione in circolazione. Mi affascina il suo parlare, il suo scrivere, il suo cantare, fluido senza interruzioni, con frasi semplici che vanno diritte al cuore. Abituato a Proust e alle sue due pagine fitte per descrivere la schiuma delle onde del mare, mi perdo in questo linguaggio semplice con pochissimi aggettivi, frasi brevi, del parlato di ogni giorno, eppure così poetiche nella loro semplicità. Per lei i critici hanno parlato di Beckett, Joyce, Yeats, talvolta William Blake, da lei stessa talvolta citato ma, se potessi esprimermi

ereticamente, a me vengono in mente le storie omeriche, ancora prima che venissero messe per iscritto. Oggi appena trentacinquenne, nata nel South East londinese, Kae ha iniziato prestissimo la sua attività artistica, prevalentemente in performance a diretto contatto con il pubblico. Il nome, pseudonimo di Kate Esther Calvert, è nome d’arte e Tempest è volutamente un omaggio a Shakespeare. Una volta si definì un “jaybird”, un passero dei querceti e latifoglie, già ricordato da Ovidio come portatore di pioggia. Kae lo associa alla curiosità, alla voglia di comunicare, alla capacità di adattamento, che sono sicuramente doti di quest’artista. Il suo primo libro è stato The Bricks that Built the Houses del 2016, che purtroppo non è ancora tradotto in italiano. I temi sociali non mancano, e le sue parole colpiscono duro: «People are killing for gods again. Money is killing us all. They live under a loneliness so total it has become the fabric of their friendships. Their days are spent staring at things. They exist in the mass and feel part of the picture. They trust nothing but trends». Frasi terribili che la recente pandemia ci ha fatto dimenticare. Meritoria Edizioni e⁄o che nel 2017 ha pubblicato Let Them Eat Chaos e nel 2014 Hold Your Own, titolo italiano Resta te stessa, e lo ha fatto intelligentemente con testo inglese a fronte. Giusto, perché nonostante la bella traduzione di Riccardo Duranti, l’originale dona un ritmo poetico che ti avvolge e ti ricopre. Musica e poesia come redenzione di sé stessa: «Before I had music and rhyming, I was too big and I walked like a boy, and I was too soft for the school that I went to and I was too smart and it made her suspicious. I had to be tenderised» (da Hold Your Own). Attenzione, talvolta le sue poesie picchiano allo stomaco e lasciano in bocca sapore di sangue… Loris Casadei Cerimonia di consegna del Leone d’Argento 9 luglio h. 12 Ca’ Giustinian, Sala delle Colonne www.labiennale.org


49. FESTIVAL INTERNAZIONALE DI TEATRO

Brecce poetiche Al regista polacco Krzysztof Warlikowski il Leone d’Oro 2021 Tra gli ospiti più attesi della prima edizione di Biennale Teatro firmata ricci/forte, il regista polacco Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro alla carriera 2021. «Da più di vent’anni Krzysztof Warlikowski – si legge nella Motivazione – è fautore di un profondo rinnovamento del linguaggio teatrale europeo. Utilizzando anche riferimenti cinematografici, un uso originale del video e inventando nuove forme di spettacolo atte a ristabilire il legame tra opera teatrale e pubblico, Warlikowski sprona quest’ultimo a strappare il fondale di carta della propria vita e scoprire cosa nasconde realmente». Già in fase di presentazione, il direttore Ricci aveva proclamato di non accontentarsi di quello che il reale sembra suggerire ma, al contrario, che è dovere di un regista offrire il proprio personale sguardo per provare a proporre un viaggio diverso, senza dimenticare che la visione arricchita da citazioni cinematografiche o trasfigurazioni del reale può essere un territorio prolifico dal punto di vista artistico. Warlikowski è «un artista libero – scrivono ricci/forte – che apre brecce poetiche illuminando con un fascio di luce cruda il rovescio della medaglia; che rompe la crosta delle cose toccando le coscienze […] offrendoci la visione di una società minacciata da cambiamenti radicali e sempre più assediata da una tentacolare classe dirigente di predatori famelici, evidenziando la violenza nei rapporti sociali e familiari e il bisogno urgente che l’emozione di un puro e semplice desiderio d’amore ci può donare». Warlikowski non è un personaggio semplice da delineare, varie sono le sue esperienze e ricco il suo percorso artistico. Nasce nel 1962 in Polonia, studia a Cracovia storia e filosofia e presto si trasferisce a Parigi per specializzarsi in teatro. Nel 1989 fa ritorno in patria, a Cracovia, dove collabora con il grande regista Krystian Lupa, a sua volta allievo di Kantor. Sulla scena internazionale frequenta personaggi del calibro di Andrzej Wajda, Peter Brook, Ingmar Bergman e Giorgio Strehler. La sua prima produzione è del 1993, Markiza O. / The Marquis of O, dal testo di Heinrich von Kleist, opera che Rossana Rossanda a suo tempo definì “sconcertante esplorazione del femminile e del maschile e dell’eros”.

©Maurycy Stankiewicz

Alla direzione dello Stary Teatr di Cracovia il giovane regista guadagnò subito la fama di “theatre provocateur”. Anche le successive messe in scena di opere di Shakespeare, La bisbetica domata (1998), Racconto d’inverno (1997), La Tempesta (2003) o Il mercante di Venezia (1994), sono legate all’apprezzamento del rifiuto del Bardo di ogni compromesso e al «suo desiderio di descrivere il mondo nella sua interezza e non a piccoli frammenti di realtà». Lo sforzo del regista è cogliere l’essenza di ogni testo, e spesso eventi recenti o da poco scoperti lo portano a vedere il sottofondo di ogni opera con occhi nuovi. Così ad esempio la ripresa di La Tempesta nell’ultima versione è stata legata alla scoperta del massacro di Jedwabne, pogrom antiebreo nella Polonia del 1941. Dopo la prima collaborazione con Strehler nel 1994 per l’adattamento e allestimento della Recherche di Proust, Warlikowski torna al Piccolo di Milano a dirigere Pericle, Principe di Tiro nel 1998. Il successo internazionale gli viene riconosciuto con la direzione di regia di opere liriche nei più importanti teatri d’opera, da Parigi a Londra e Salisburgo. «L’Opera è una prigione […] compito del regista è dare nuova vita a una struttura ossificata e immutabile da secoli», dichiarò nel 2004. A teatro, indimenticabile Phaedra(s) del 2016,

da Racine, con testo riscritto da J.M. Coetzee, dove la bionda eroina, interpretata da Isabelle Huppert, viene vista come una vittima, brutalizzata per il suo amore proibito, tra ballerine e vetrine peccaminose. Ultima sua direzione prima della pandemia e della conseguente chiusura dei teatri è stato l’acclamato From the House of the Dead di Janacek. Warlikowski ha avuto anche il coraggio di riprendere più volte Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, con l’intento di rendere evidente tramite la sensibilità proustiana il declino della civiltà europea, le sue convenzioni morali e l’ipocrisia sessuale. Se Bob Wilson è famoso per il suo blu nelle scene, Warlikowski sembra prediligere invece l’argento. Costante nelle sue opere l’impiego di elementi danzati e il marcato utilizzo di ombre e luci. I tecnici delle luci non devono avere vita facile con lui! La qualità estetica degli oggetti in scena, dei costumi e della proiezione delle immagini è sempre molto curata. I gesti sono precisi anche nella più piccola delle articolazioni. Sicuramente spesso dissacranti, con messaggi non di rado eretici, le sue regie sono però sempre quello che deve essere il teatro: grande spettacolo. Loris Casadei Cerimonia di consegna del Leone d’Oro 3 luglio h. 12 Ca’ Giustinian, Sala delle Colonne www.labiennale.org

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Disruptively Exquisite Proposing modern Venetian and Italian dishes crafted with integrity, Gio’s Restaurant & Terrace is an unexpected haven in the midst of Venice’s contemporary art scene. A destination in itself featuring a selection of contemporary serves and unrivalled views, Gio’s welcomes visitors 7 days from morning until late.

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theatro Una poltrona sotto il sole Grande attesa per i nuovi cartelloni che ci annunciano un’estate a Teatro

Aperto, chiuso, aperto, chiuso e finalmente aperto. I teatri riaprono proprio quando dovrebbero, in tempi ‘normali’, chiudere la stagione, ma chi può ancora fermarli? Gli attori scalpitano, i palcoscenici fremono e i sipari finalmente si alzano. E gli spettatori? Si, staremo in fila, distanziati o congiunti, ma andremo a teatro quest’estate! Segnali che questa ripresa “s’ha da fare” sono incredibilmente evidenti e confortanti. A distanza di una settimana dalle riaperture delle sale il 26 aprile, il Teatro Stabile del Veneto ha infatti registrato il tutto esaurito del primo spettacolo di Trittico Dantesco, prima produzione a debuttare dal vivo lo scorso 5 maggio al Teatro Maddalene di Padova dopo mesi di attività online e palcoscenici virtuali. Un inferno, quale miglior inizio, la prima delle tre cantiche andata in scena dal 5 al 9 maggio, diretta dal regista Fabrizio Arcuri e scritta dal drammaturgo Fausto Paradivino, ha infatti raggiunto il limite massimo dei posti consentiti dalle disposizioni ministeriali anti-Covid, grazie anche a una forte presenza di giovani ansiosi di rivivere l’emozione di uno spettacolo in diretta non streaming. In scena gli attori della Compagnia Giovani del Teatro Stabile del Veneto, selezionati tra coloro che si sono diplomati negli ultimi anni presso l’Accademia Teatrale Carlo Goldoni nell’ambito del Modello TeSeO Veneto – Teatro Scuola e Occupazione, accompagnati dalle musiche originali di Giulio Ragno Favero, bassista del gruppo Il Teatro degli Orrori. Il Trittico Dantesco è continuato nelle settimane successive, mettendo in scena, sempre sold out, dal 12 al 16 maggio Un purgatorio, scritto da Letizia Russo, e concludendo dal 19 al 23 maggio con Un paradiso, firmato da Fabrizio Sinisi, anche quest’ultimo con posti già tutti esauriti. «Siamo entusiasti per la risposta del nostro pubblico. Ritornare dal vivo con gli attori della Compagnia Giovani, il lavoro di tre importanti drammaturghi e la presenza in sala di molti ragazzi è un messaggio positivo per il futuro del teatro – dichiara Giampiero Beltotto, presidente Teatro Stabile del Veneto – Dopo mesi di streaming in cui il pubblico ci è rimasto vicino restituendoci grandi soddisfazioni, questa risposta ci fa sentire ancora una volta che la voglia di ritornare dal vivo è tanta. Non ci siamo mai fermati e continueremo a lavorare per poter dare al nostro pubblico un intrattenimento di qualità e in sicurezza». Proprio in questi giorni siamo infatti in trepidante attesa del cartellone, ci immaginiamo compilato e definito per l’ennesima volta, di una strepitosa stagione estiva, che verrà presentata a breve. Siamo certi che le produzioni che scenderanno in campo saranno ancora più motivate, mettendo sul palcoscenico tutta l’energia di questo nuovo inizio e, noi seduti sulle poltroncine rosse, ci faremo guidare come i marinai con le sirene nei mari del sud. L’attesa è finita, andiamo in vacanza a teatro! www.teatrostabileveneto.it

DANZA CON ME Una nuova vita è l’emblematico titolo della quarta edizione di Danza in Rete Festival, in scena dal 4 giugno al 24 luglio, al Teatro Comunale di Vicenza e al Teatro Civico di Schio, con spettacoli diffusi anche in diverse location delle due città. La nuova rassegna riprende il fil rouge spezzato lo scorso anno dalla chiusura dei teatri, recuperando molti titoli cancellati ma presentando anche interessanti novità, a partire dalla partnership con lo Iuav di Venezia per le masterclass con i coreografi curate da Stefano Tomassini. Il programma, ideato nel segno della contaminazione tra generi con una particolare attenzione per la diretta relazione tra artista e pubblico, si articola in oltre 30 spettacoli, performance, incontri, residenze ed eventi di danza urbana. Numerosi gli artisti e le compagnie in cartellone, tra cui Andrea Galli che inaugura il Festival con De Rerum Natura, Fabula Saltica con il nuovo allestimento di Ballades, la compagnia Naturalis Labor, Francesca Foscarini, Il Nuovo Balletto di Toscana con Bayadère del pluripremiato coreografo Michele Di Stefano, già Leone d’argento alla Biennale Danza 2014, e moltissimi altri… www.festivaldanzainrete.it

NOVE ARTI PER RIPARTIRE Resiliente, eclettico, audace: tre aggettivi che restituiscono lo spirito autentico del Festival delle 9 Arti, organizzato dall’Accademia Teatrale Da Ponte di Vittorio Veneto, in scena dall’11 giugno al 31 luglio, con oltre trenta serate di spettacolo. Prima rassegna dal vivo ad aver spezzato il lockdown del 2020, il Festival torna ad animare anche quest’estate con spettacoli teatrali, di danza, concerti, incontri e momenti dedicati alle famiglie sul palco allestito nel boschetto davanti al Piccolo Teatro Dante. Tra gli ospiti più attesi, Massimo Rigo, volto conosciuto del piccolo schermo (Non uccidere, Un passo dal cielo) con l’intenso monologo Il professore (26 giugno), Niseem Riccardo Onorato, voce italiana di attori come Jude Law e Matthew McConaughey, che svelerà al pubblico i segreti del doppiaggio, e la giovane e talentuosa Federica Girardello, diplomata all’Accademia Da Ponte e approdata ora in tv nel cast de Il Paradiso delle Signore, che torna a Vittorio Veneto con la propria compagnia “Swan” a presentare un ciclo di letture tratte dall’opera di Shakespeare. festivaldelle9arti.it

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Intervista Tatti Sanguineti

100 RODOLFO SONEGO Indubbiamente senza Sonego la cinematografia italiana non avrebbe saputo raccontare e analizzare con tanta lucidità e brillante ironia le vicende del Belpaese

cinema

di Elisabetta Gardin

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T

atti Sanguineti, il pirotecnico critico cine-

matografico, caro amico e sommo collaboratore di «Venezia News» in occasione di più Mostre del Cinema, ha coniato per Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore veneto padre di memorabili commedie all’italiana, l’azzeccata definizione “Il cervello di Alberto Sordi”. Nella sua folgorante carriera Sonego ha lavorato con quasi tutti i più grandi registi italiani, tra tutti Mario Monicelli, Roberto Rossellini, Dino Risi, Luigi Comencini, Vittorio De Sica, e con attori del calibro di Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Laura Antonelli, Claudia Cardinale, Silvana Mangano, Monica Vitti. Tra gli innumerevoli titoli ne ricordiamo alcuni: Totò e Carolina, Un eroe dei nostri tempi, Il marito, Il vedovo, Il vigile, Una vita difficile, La ragazza con la pistola, Lo scopone scientifico, Amore mio aiutami, Detenuto in attesa di giudizio, Il comune senso del pudore, Io e Caterina, Io so che tu sai che io so, Tutti dentro, Un italiano in America. Negli ultimi anni di carriera si dedicherà anche alle fiction televisive, realizzando la serie Linda e il brigadiere e Provincia segreta. Il Veneto lo celebra ogni anno attraverso il Premio Sonego, un concorso per giovani sceneggiatori istituito dal Lago Film Festival nel 2006. Quest’anno, in occasione del suo centenario, per rendere omaggio alla vita e alle opere del grande autore, al Premio a lui intitolato si affianca il progetto 100 Rodolfo Sonego, voluto dal Premio stesso con Fondazione Francesco Fabbri e Piattaforma Lago. Per ricordarlo adeguatamente sono inoltre stati programmati svariati

eventi che si snoderanno in vari luoghi e in diverse città, con la partecipazione di studiosi, sceneggiatori, giornalisti, registi ed ex allievi della “Bottega” dello sceneggiatore. Il sodalizio tra Sonego, bellunese comunista, e l’Albertone nazionale, emblema della romanità e piuttosto reazionario, durò dal 1954 al 2000; eppure, come ci conferma Sanguineti, la cosa rimane un mistero, perché i due erano diversissimi. Così parlava Sonego: «Ecco io – come uomo – sono l’esatto contrario del personaggio che continuo a raccontare e al quale presto le battute che Sordi pronuncia da vent’anni sullo schermo. Culturalmente facciamo parte di due mondi diversi. Non sono mai riuscito a fare leggere ad Alberto una centesima parte della mia biblioteca, né lui è mai riuscito a portarmi in un ambiente o a vivere una giornata come probabilmente lui la vive». Indubbiamente senza Sonego la cinematografia italiana non avrebbe saputo raccontare e analizzare con tanta lucidità e brillante ironia le vicende del Belpaese, le trasformazioni della nostra società, l’evoluzione sociale dell’uomo medio con tutti i suoi vizi, tic, manie, ma anche le sue grandezze, insomma, offrirci uno spaccato tragicomico della vita italiana, a volte malinconico a volte feroce o divertente, ma sempre con una disposizione priva di retorica e di meccanica militanza. Incontriamo Tatti Sanguineti, giornalista, autore televisivo, uno dei più colti e geniali critici cinematografici,


Rodolfo Sonego nacque a Cavarzano in provincia di Belluno il 27 febbraio 1921, ancora giovane si trasferisce con la famiglia a Torino, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. Dopo aver svolto il servizio militare, diviene durante la guerra comandante di una brigata partigiana attiva nel bellunese. Alla fine del conflitto si trasferisce a Venezia, ma ben presto si stabilisce a Roma per iniziare la sua carriera nel cinema. È nel 1954 per Il seduttore di Franco Rossi che realizza la sua prima sceneggiatura, film che vede come primo interprete Albero Sordi, con il quale da quel momento instaura un legame fortissimo che li porterà a lavorare insieme per quarantasei anni e a realizzare ben cinquantatré film. Negli anni ‘80 tornò a vivere nel suo amato Veneto, a Santa Maria di Feletto in provincia di Treviso. Morì a Roma il 15 ottobre 2000.

Il diavolo

Il vigile

IL LIBRO Un libro come abitualmente non se ne leggono sul cinema. Un cinema molto diverso rispetto a quello che vediamo in sala. Lunghe conversazioni fra Tatti Sanguineti e Rodolfo Sonego ricostruiscono, attraverso la rievocazione di volta in volta malinconica, sorridente, abrasiva, feroce di Sonego, molte delle vicende accadute in quell’immane circo le cui attrazioni erano la Mangano, la Lollo o Laura Antonelli, i cui domatori potevano chiamarsi Carlo Ponti o Federico Fellini, e il cui impresario occulto, ben nascosto dietro le quinte, era il suo primo censore: Giulio Andreotti.

Il seduttore

Bello, onesto, emigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata

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cinema INTERVIEW TAT TI SANGUINETI

un ostinato cacciatore di storie poco note, di episodi inediti, di segreti legati al mondo del cinema italiano. Ha conosciuto bene Sonego, su di lui ha scritto un importante libro, Il cervello di Alberto Sordi edito da Adelphi (2015). Ha inoltre curato Diario australiano, la raccolta degli appunti scritti nel 1970 dallo sceneggiatore durante il suo viaggio in preparazione di Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, film campione d’incassi nel 1971 con Claudia Cardinale e – ovviamente – Alberto Sordi. Diario donato a Sanguineti dalla vedova dell’autore.

scomparsa che non mi aspettavo; non avevo capito. In seguito mi sono messo a studiare, a fare ricerche sullo sceneggiatore, arricchendo e ampliando la prima stesura del libro. Dopo ben 15 anni l’ho fatto vedere a Roberto Calasso, direttore di Adelphi, che l’ha pubblicato nella sua versione aggiornata con il titolo Il cervello di Alberto Sordi. A me Sonego ha lasciato un’eredità ingombrante, delicata e oggettivamente pericolosa, ovvero il raccontare dal punto di vista “ministeriale” la storia del cinema italiano del Dopoguerra.

Chi era per lei Rodolfo Sonego? Con Sonego ho avuto un’avventura molto strana. L’ho frequentato nell’agosto del 1999 per un seminario che si doveva organizzare a Venezia sul film di Mario Monicelli del 1955 Totò e Carolina, pellicola dalla storia molto travagliata a causa della censura, che apportò tagli e modifiche, e sulla cui vicenda ho scritto per la Cineteca di Bologna un libro. All’epoca in cui mi sono messo a cercare Sonego bisogna dire che lui era stato totalmente dimenticato, messo da parte, eppure era un genio del nostro cinema. Appena l’ho conosciuto me ne sono innamorato, ho capito subito che era una conoscenza preziosissima, ma purtroppo non ho capito che stava morendo, che era già gravemente malato. Per dodici sedute sono andato a casa sua a Roma partendo da Milano. Purtroppo le prime quattro non le ho neppure registrate, colpa del mio essere antitecnologico, sempre un po’ fuori dal presente, ma poi ho imparato e ho registrato sempre tutto. È stata un’esperienza estrema; nessuno sapeva nulla di questo sceneggiatore bellunese, per alcuni era solo un regista mancato, che aveva abdicato per mettersi al servizio della coppia formata con l’Albertone nazionale. Per molti Sonego era stato uno sperpero di autentico, grandissimo talento. In ogni caso lui, come in un testamento, mi ha raccontato la fantastica storia della sua vita. Ho capito subito che non aveva voglia di farmi incontrare Sordi perché l’attore avrebbe disapprovato questo libro, che inizialmente uscì per la Cineteca di Bologna con il titolo Il cinema secondo Sonego, edizioni Transeuropa. Purtroppo nell’ottobre del 2000 Sonego morì e il volume uscì senza che mi fosse permesso di rincontrarlo, senza che potessimo rifletterci sopra insieme. Lui al termine del libro si era limitato a dirmi: «Sì, non è male». Davvero sono rimasto colpitissimo da questa

Come sarebbe stata la carriera di Alberto Sordi se non avesse mai incontrato Sonego? I racconti di Sonego hanno cambiato il mio modo di guardare a Sordi, probabilmente perché fino a quel momento ero stato troppo concentrato ad amare solo ed esclusivamente Walter Chiari, punto focale delle mie fissazioni. Indubbiamente la carriera di Sordi senza il ruolo fondamentale di Sonego sarebbe stata molto meno importante, non avrebbe mai raggiunto livelli così alti. Sonego disapprovava alcuni film in cui Sordi faceva anche il regista, ma poi arrivava – come ad esempio in Finché c’è guerra c’è speranza – e riusciva a cambiarne la rotta, a risollevare le sorti della pellicola. Si, decisamente Sordi sarebbe stato molto meno di quello che è stato senza Sonego; diciamocelo, sarebbe rimasto un personaggio minore. Nel loro rapporto poi era subentrata come una sorta di diffidenza, di fatica. Forse in fondo Sordi schiacciava Sonego, si sentiva il suo “datore di lavoro”, era lui che lo pagava. Posso dire che Sordi in qualche modo si serviva di Sonego.

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La coppia Sordi-Sonego, con l’immancabile compositore Piero Piccioni, ha dato vita a capolavori e a personaggi che sono rimasti nel cuore degli italiani. I miei preferiti sono Otello Celletti de Il Vigile e Guglielmo, l’impareggiabile dentone del film a episodi I complessi. Per lei qual è il loro film più riuscito? Scelta difficile tra così tante opere riuscitissime e molto diverse le une dalle altre. Forse il film più originale, il più esotico, per me è Bello, onesto, emigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata diretto da Luigi Zampa, mentre il più radicale è Il vedovo di Dino Risi. Poi ci sono film maledetti e sulla carta impossibili come Una vita difficile, opera ‘resistenziale’ che

piaceva persino a Togliatti, e Il sorpasso, capolavoro che Sordi non ha voluto interpretare, un feroce affresco degli anni del boom, ma in fondo trattava dell’omicidio di un giovane perbene. Il ruolo, come tutti sanno, sarà poi di Vittorio Gassman. Sordi aveva infatti molti tabù; non dimentichiamo che era un conservatore, profondamente cattolico e timorato. E la sceneggiatura migliore di Sonego? Confermo che Sonego ha dato il meglio della sua vita a Sordi, dimostrando che l’attore poteva essere tante cose, che aveva mille sfaccettature, un caleidoscopio. La sceneggiatura più sconvolgente forse è quella ideata per Il diavolo di Gian Luigi Polidoro del 1963, girato quasi interamente a Stoccolma. È incredibile se si pensa che Sonego era partito per la Svezia solo con uno spunto, un canovaccio e niente di più: tutto venne pensato lì al momento, calandosi in quella realtà così lontana da lui, raccontando il gallismo patetico di certi maschi adulti italiani, le loro fantasie e frustrazioni. Il film conobbe anche l’avventura di una fortuna americana, con il titolo di To Bed or Not to Bed, ed ebbe importanti riconoscimenti internazionali, tra i quali l’Orso d’oro a Berlino e il Golden Globe per l’interpretazione di Alberto Sordi. Va sottolineato che con Sonego il regista non aveva più una priorità assoluta. Nel suo lavoro si produce un ribaltamento di valori: l’attore diviene più importante del regista. Per lui il regista era una variabile; l’imprescindibile era Sordi. Fondamentale, quindi, il lavoro di scrittura attorno a questa grande maschera. Torniamo a lei. Recentemente l’abbiamo vista nella rubrica Storie di Cinema in onda sui canali Mediaset. A cosa sta lavorando ora? Continuo a lavorare per Mediaset con i miei racconti sul cinema. Ho appena registrato quattro puntate su Tomas Milian. Racconto storie così come le ho conosciute o, a volte, vissute. Ora, tanto per restare in tema, sto preparando le puntate su Alberto Sordi. Diciamo che, come molti, ho passato un anno di vacanza forzata, uscendo pochissimo, rimanendo sempre in casa. Comunque sono ancora costretto a lavorare. Sto cercando di raggiungere la pensione che purtroppo appare ancora lontana; sono occupato a “ricongiungere i filoni pensionistici” della mia lunga storia. Non mi ero accorto di aver lavorato così tanto perché mi divertivo.


Bruce Nauman, Walk with Contrapposto, 1968. Courtesy of the artist and Electronic Arts Intermix. © Bruce Nauman by IAE 2021

Bruce Nauman, Walk with Bruce Contrapposto, Nauman, Walk 1968.with Courtesy Contrapposto, of the artist 1968. Courtesy of the artist and Electronic Arts Intermix. and © Electronic Bruce Nauman Arts Intermix. by IAE© 2021 Bruce Nauman by IAE 2021

BRUCE BRUCENAUMAN NAUMAN CONTRAPPOSTO STUDIES CONTRAPPOSTO STUDIES BRUCE NAUMAN PUNTA DELLA DOGANA PUNTA DELLA DOGANA CONTRAPPOSTO STUDIES VENEZIA VENEZIA PUNTA DELLA DOGANA 23.05.21 – 09.01.22 23.05.21 – 09.01.22 VENEZIA 23.05.21 – 09.01.22 CURATED BY CARLOS BASUALDO

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Venice 16 ottobre 2021 13 marzo 2022 86


cinema

Benigni, corpo e parola Il geniaccio toscano Leone d’Oro Venezia 78 Premiare Benigni con il Leone d’Oro per la sua carriera cinematografica oggi significa rivendicare l’insostituibilità del corpo e della presenza all’interno del pervasivo teatro audiovisivo dell’assenza in cui siamo sprofondati. Significa riconoscere di fronte al mondo il valore della bottega italiana, che ha visto negli anni Ottanta tracimare i comici di corpo e parola, da Benigni a Troisi, prima in televisione, poi al cinema, davanti e dietro la macchina da presa. La nostra bottega comincia nelle piazze, dove rivivono attraverso il richiamo a una memoria popolare epi-filogenetica le figure incarnate dagli attori, che in quegli anni innescano una vera e propria lotta contro e dentro il mezzo di riproduzione audiovisiva, contro e dentro la macchina dello spettacolo e i suoi mezzi pervasivi, che stava dando avvio a una proletarizzazione della conoscenza, intesa come sottrazione del dominio mnestico del sapere in favore di una irreversibile esternalizzazione della memoria e del sapere umani, che scinde corpo e parola. Benigni è un androide. Il suo corpo, nell’inquadratura, introietta e insieme rifiuta il farmaco della parola e del gesto automatici. Li nega. Li sovverte. Fino a reinventarli. Come Chaplin, che metteva il cinema al servizio della storia, e non viceversa. Per questo i suoi film vivono di sceneggiatura più che di messa in scena, all’inizio grazie alla maestria di Vincenzo Cerami, falegname della narrazione cinematografica. Nel dar vita a Il piccolo diavolo (1988), Johnny Stecchino (1991) e Il mostro (1994), la coppia assimila e restituisce la lotta tra l’uomo e la macchina, i cui passaggi epici trovano corpo, gesto e voce nell’imprevedibilità e nella gioiosa tracotanza di Benigni, personaggio-attore e maschera. Lotta che si sostanzia nel contrasto irriducibile tra l’umano e il mostruoso macchinico ne La vita è bella (1997), messa in scena sublime nella sua ricercata e rivendicata ingenuità registica, dell’irriducibilità dell’umano, che resiste, negandola attraverso la sua volubilità e la sua incostanza, attraverso il suo posizionarsi sempre nel solco dell’alterità, alla calcolabilità di ogni azione finalizzata, qualunque essa sia. Sia anche la soluzione finale. Benigni nel far questo questo è insieme Pinocchio (2002) e Geppetto (nel Pinocchio di Matteo Garrone, 2019), atto creativo come atto d’amore. Fusione e separazione. Benigni è oggi soprattutto il suo ritorno al teatro di corpo e parola, nelle sue letture sovversive, piene d’amore e di morale, della Commedia, del Canto degli Italiani e della Bibbia, compresa quella recente e fulminante del Cantico dei cantici letto a Sanremo, che ripristina la fusione originaria di corpo e parola nel febbraio 2020, poco prima che la pandemia tornasse a separarli. Riccardo Triolo

SUPERVISIONI Non possiamo aprire in poche righe il dibattito sul futuro del cinema dopo la recente pandemia, ma due dati sono certi e confermano tendenze in atto da tempo: la grande distribuzione sta assecondando l’esplosione delle piattaforme digitali, acuendo la crisi delle sale; i film di qualità sono drasticamente diminuiti nonostante, a livello quantitativo, la produzione continui a lavorare finanziata dalle Film Commission regionali e dagli Stati. Il pubblico è disorientato ed oggi non è neppure in grado di avere una chiara visione di ciò che il mercato offre. Un ruolo positivo lo possono offrire i Festival più prestigiosi. Scegliamo così il regista Radu Jude e il suo Bad Luck Banging or Loony Porn, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino. Sopportate i primi tre minuti di scene porno con rassegnazione, ma godetevi i trenta minuti successivi di inciviltà quotidiana nella lunga passeggiata della protagonista per Bucarest, poi le curiosità documentaristiche della seconda parte, la pura natura teatrale del terzo atto, che è il processo a questa insegnante che scopre di avere in rete un suo filmato privato di atti intimi con il marito e infine i tre possibili finali offertici da Rude Jadu. È lo stesso regista a dichiarare come non sia tanto interessante la storia, quanto tutto ciò che vi ruota attorno. E così teatro, pittura, letteratura, fotografia riempiono il film. È cinema, si chiederanno in molti? Vorrei difendere il regista rumeno con Besson e Godard, quando il primo ha sempre dichiarato di non essere a favore di una purezza del linguaggio cinematografico e il secondo che asseriva come nel cinema ci si potesse mettere tutto quello che si voleva. Un film paradossale, che ci dona lo scudo di Perseo per vedere le bruttezze della Medusa senza però essere paralizzati dall’orrore. Loris Casadei

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cinema

FAR EAST FILM FESTIVAL 2021

I PIÙ ATTESI BLUE

di Yoshida Keisuke (Giappone) © Roberto Rosolin

Una finestra sul mondo FEFF, un viaggio on the road direzione cinema Blue (in Giappone, il colore del pugile meno quotato) è un buon esempio di cinema sportivo sulla boxe. Gli incontri sul ring sono assai ben resi, con una chiarezza che si oppone al gusto contemporaneo del racconto a flash. Nei personaggi ritroviamo i classici di tanti film sul pugilato: il campione col cervello danneggiato dai colpi, la sua donna che ne soffre, il pugile bravo sul piano della teoria ma che sul ring perde sempre, il dilettante che si rivela di sorprendente bravura (figura originale anche per qualche tocco di commedia sul suo luogo di lavoro). Ma l'abilità del regista Yoshida e l'ottimo montaggio – assai netto e preciso, di una secca sobrietà fra una scena e l'altra – fanno sì che il film scorra senza apparire prevedibile e guidano il racconto con sicurezza fino a una bella conclusione, “aperta”, di perseveranza sportiva.

ENDGAME

di Rao Xiaozhi (Cina) Questa commedia è il remake del giapponese Key of Life (Uchida Kenji, 2012) e del suo remake coreano Lucky Key (Lee Gae-byok, 2016). Un attore disoccupato che vuole uccidersi va al bagno pubblico; qui vede un ricco sconosciuto battere la testa riportando un'amnesia; detto fatto, si scambia d'identità con lui. Ma non sa che l'uomo è un killer professionista. Uno dei due è un attore, l'altro si trova a credere di esserlo; così il film prende una buffa piega metateatrale (condita di citazioni di Stanislavskij!). Xiao Yang è bravo nel ruolo dell'attore; Huang Xiaolei è spiritosa come capobanda psicopatica; ma in particolare il grande Andy Lau, il killer smemorato, è una delizia. Scherza sulla sua età non più così verde, imita il De Niro comico quando fa la faccia piangente, e la situazione gli consente una lezione esplicita di recitazione. Giorgio Placereani 88

Ricordo ancora benissimo il momento in cui l’edizione 2020 del Far East Film Festival veniva confermata, in un’inedita versione digitale e streaming. In un febbraio di inizio pandemia, quando davvero la nebbia era più che mai fitta attorno a tutti noi, la decisione di far slittare ma in ogni modo confermare l’appuntamento più atteso del cinema orientale fu un segnale che superava di slancio i confini del cinema, concretizzandosi poi in un ‘edizione memorabile e impeccabile sotto il profilo dell’organizzazione e soprattutto della qualità del programma. In tempi in cui è obbligatorio navigare a vista, senza certezze, tra permessi e restrizioni, l’annuncio della riapertura delle sale ha ovviamente creato la necessità di adattare tutte le linee progettuali all’evolversi della situazione e per garantire la massima funzionalità agli spettatori che raggiungeranno Udine, gli organizzatori hanno deciso di trasferire il quartier generale del FEFF 23 dal Teatro Nuovo al Visionario e al Cinema Centrale. Non una sala unica, la cui gestione avrebbe purtroppo comportato eccessivi rallentamenti e disagi, ma più sale e un’arena all’aperto, il garden del Visionario, grazie a cui rendere fluida la programmazione e, soprattutto, l’osservanza delle regole. Assieme al FEFF, ovviamente, ecco il fedele il FEFF Campus, scuola di giornalismo per giovani talenti orientali e occidentali capitanata da Mathew Scott, e ovviamente Ties That Bind, workshop di coproduzione Asia-Europa, assieme a Focus Asia, cioè l’area Industry del Festival, a completare un corollario di attività collaterali al Festival che ogni anno registra un fortissimo riscontro di pubblico. Focus Asia, con la sezione Far East in progress (la prima e unica piattaforma europea dedicata ai film asiatici in post-produzione), il project market e un fitto calendario di webinar si svolgeranno dal 30 giugno al 2 luglio, come parte del programma di Ties That Bind. Emblematico come pochi ecco il manifesto del Festival, a firma del graphic designer Roberto Rosolin, “artista fareastiano” stabile ormai dal 2015, con preview legata a questo annuncio che rivela già il taglio cinematografico scelto per il 2021: la stilizzazione di un viaggio on the road, a bordo di una vecchia Volvo. La destinazione? Ovviamente…a est! 23. Far East Film Festival 24 giugno - 2 luglio Udine www.fareastfilm.com


Sala, ti aspetto Mentre l’edizione dello scorso anno del Far East si era svolta in modalità completamente digitale, quella di quest’anno vedrà la dimensione festivaliera “prevalere” su quella in streaming. Ciò significa soprattutto il ritorno alle sale, quelle vere: non più una sala unica come da tradizione del festival di Udine, ma l’utilizzo di due sale (Visionario e Cinema Centrale) e un’arena all’aperto (il Garden del Visionario). Il FEFF si riprende quindi la sala come spazio ideale della visione cinematografica, non escludendo del tutto la fruizione on line, ma facendone una realtà minoritaria. Evidentemente questa decisione è frutto di due diverse considerazioni. La prima riguarda il bilancio estremamente positivo della edizione 2020 rimodellata completamente secondo le modalità dell’online: 30.000 accrediti da 45 paesi diversi, 45 dirette streaming, 10 conferenze stampa e 38 video-messaggi da parte dei registi. Ed anche valutazioni assai interessanti sull’esperienza di fruizione da parte degli spettatori, che hanno preferito in modo quasi plebiscitario la visione

secondo il calendario quotidiano rispetto all’on demand (è indubbia la volontà di riprodurre sia pure da casa le stesse modalità di fruizione tipiche del festival reale). La seconda considerazione è che comunque un festival, oltre che un’offerta di titoli, è anche, e soprattutto, una kermesse pubblica, comunitaria, dove la presenza fisica è il presupposto per un ‘comune sentire’, una condivisione di sentimenti, opinioni, giudizi critici, godimenti, dispiaceri. Qualcosa di molto fisico, insomma. Anzi, un festival di cinema è proprio il luogo in cui questa condivisione fisica trova la sua dimensione ideale, il suo spazio naturale. Per cui la saggia decisione

degli organizzatori del FEFF 2021 di ritornare ad un festival fisico mantenendo comunque una persistenza digitale, non solo ci sembra del tutto adeguata alle mutate condizioni sanitarie del nostro Paese e alla speranza di ritornare presto alla ‘normalità’, ma anche, tra le righe, la conferma di quello che è un festival di cinema: storie per immagini che vengono narrate all’interno di una sala oscura, con davanti un lenzuolo bianco. Si chiama cinema, ha 126 anni, recentemente non se l’è passata tanto bene, tra Covid e piattaforme streaming, ma supererà anche questo momento critico, come ne ha superati tanti altri prima. F.D.S.

Ci vediamo in giro Dopo l'obbligata esperienza online del 2020, il Far East Film Festival torna nel luogo fisico dei cinema; ma non bisogna ignorare che la dimensione online dei festival è venuta per restare. Il futuro sta nella ‘compresenza’ della dimensione fisica e di quella online, che dà a una quantità di spettatori la possibilità di accedere alle proposte, e questa è la mission della piattaforma FAREASTREAM. Detto questo, adesso un'esigenza urgente è di contribuire alla rinascita delle sale cinematografiche dopo la lunga (e in parte ingiustificata) chiusura. A ciò risponde il nuovo pacchetto della Tucker Film, che ha acquistato e distribuisce quattro film importanti del Festival. Infatti, subito dopo la loro presentazione al FEFF 2021, due dei film di punta di questa edizione più due film di punta dell'edizione 2020 verranno distribuiti nelle sale. I due film del FEFF 2021 saranno l'hongkonghese Shock Wave 2 di Herman Yau e il giapponese Wheel of Fortune and Fantasy di Hamaguchi Ryusuke. Interpretato da Andy Lau, Shock Wave 2 di Herman Yau è un thriller

spettacolare sulla minaccia di un gruppo terrorista specializzato in bombe (gli spettatori del FEFF ricorderanno il primo film di questo titolo, che però ha in comune con questo solo il tema delle bombe). Questo racconto di suspense viene esaltato dalla radicalità narrativa di Yau. Assai diverso, Wheel of Fortune and Fantasy, Orso d'Argento al festival di Berlino, è un film delicato che si focalizza sul mondo femminile (con una serie di splendide interpretazioni) per esplorare in tre episodi le “intermittenze del cuore”. I due film del FEFF 2020 sono il cinese Better Days, di Derek Kwok-cheung Tsang, intenso dramma giovanile che ha vinto il premio del pubblico la scorsa edizione ed è arrivato fino alla candidatura all'Oscar come miglior film straniero, e lo stupefacente IWeirDo di Liao Ming-yi (Taiwan), commedia sul disturbo ossessivo compulsivo girata con l'iPhone, che rappresenta forse il climax di originalità dell'anno passato. Giorgio Placereani

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cinema INTERVIEW FONDATORE CHILI

Rivoluzione on demand Intervista a Giorgio Tacchia Dopo una laurea in Economia all’Università Cattolica di Milano, Giorgio Tacchia negli anni 2000 ha iniziato la carriera in Unilever per poi entrare in Fastweb, dove nel 2009 diventa Head of Media & TV. Nel 2012 decide di accettare la sfida come imprenditore fondando CHILI. Oggi Giorgio Tacchia è Presidente e CEO di CHILI, oltre a esserne uno degli azionisti assieme a Paramount Pictures, Sony Pictures Entertainment, Disney, Viacom e Warner Bros. Con oltre 4,5 milioni di clienti, cinque Paesi e più di 40 milioni di fatturato, CHILI è una sorta di Blockbuster 2.0, una piattaforma per guardare film e serie TV on demand senza abbonamento. L’evoluzione è nel DNA di CHILI (e di Giorgio Tacchia), una realtà in continua espansione pronta ad accogliere sempre nuove sfide nell’ambito dell’Entertainment. Quali sono i fondamentali di CHILI? Come nasce la piattaforma e quali gli obiettivi strategici che l’hanno portata a 4,8 milioni di utenti con un aumento di 500mila unità solo nel periodo del lockdown, una library di contenuti tra le più grandi del mercato con 50mila film e una piattaforma tecnologicamente molto avanzata? Di fatto CHILI nasce da una visione strategica e da un viaggio in California. Nel 2010 infatti andai personalmente a Palo Alto per incontrare i rappresentanti delle principali piattaforme all’epoca nascenti. In quell’occasione ebbi l’opportunità di incontrare i fondatori di Vudu ed Hulu, il fondatore di Roku e il fondatore di Netflix, che nel 2010 erano ancora start up. Proprio osservando ciò che loro stavano prototipando – servizi che non erano ancora arrivati sul mercato – compresi un paio di cose fondamentali. Innanzitutto il concetto dell’“over the top”, ovvero poter distribuire contenuti su qualsiasi linea internet ma soprattutto su qualsiasi device. Queste piattaforme per la prima volta avevano inserito il cavo internet all’interno di un televisore, ottenendo così una capacità di distribuire i propri prodotti prima impensabile. Un mercato potenziale che sarebbe diventato di lì a poco enorme, perché se torniamo al 2010, l’unico sistema per distribuire contenuti allora era il set-top box, una specie di “scatola” 90

che installavano in casa e tramite la quale Fastweb o Telecom distribuivano i propri contenuti sulla loro linea internet. Nello stesso momento ho notato che i servizi che queste aziende stavano preparando erano quasi tutti in abbonamento, offrendo una sorta di “basket” che, grazie alla sottoscrizione di un abbonamento da dieci o quindici dollari al mese, proponeva un certo numero di contenuti. Unendo insieme i due pezzi è nata CHILI. Si apriva in quegli anni un mondo di possibilità: all’epoca era già fallita Blockbuster e l’operatore dominante in ambito transazionale era iTunes, ma molto più grande di iTunes era la pirateria. Il nostro pensiero è stato: la domanda di contenuto è pazzesca, l’unico player che esiste è iTunes – anche se non è il suo core business – e tutti quelli che stanno partendo si stanno concentrando su un sistema in abbonamento. L’obiettivo era dunque creare un’offerta che andasse a inserirsi in prossimità di queste piattaforme, nel loro stesso ecosistema, ma in un modo fondamentalmente complementare. In pratica, se loro offrono un servizio in abbonamento, oggi noi invece offriamo un servizio che non richiede abbonamento ma dà la possibilità di vedere i film uno per uno. Abbonandosi a Netflix è possibile vedere The Crown, House of Cards, San Patrignano e via così, ma se si vuol vedere un film della Disney, ad esempio, non sarà possibile trovarlo in quel contenitore ed è

qui che subentriamo noi. Il concetto è quindi al contempo di prossimità a un mercato immenso, che sta crescendo tantissimo con player che offrono servizi in abbonamento, e di complementarietà, attraverso un modello di business totalmente differente, à la carte, senza barriere all’ingresso, con un’offerta molto importante. CHILI nasce così, con una visione strategica molto gradita anche agli Studios, che sono arrivati a investire nella nostra azienda. Da lì si è andati a costituire una library che è la più profonda di tutte, la più ricca, perché include tutti i contenuti degli Studios oltre a quelli di distributori e produttori indipendenti che vanno a garantire la massima varietà. Dove vi collocate nel mercato italiano ed europeo? In Italia nel nostro mercato di riferimento siamo i primi in termini di market share; dopo di noi ci sono iTunes, Google Play, Rakuten e poi i più piccoli. A livello nazionale siamo cresciuti fino a diventare i primi in termini di contenuti distribuiti, ma siamo attivi anche in altri quattro Paesi: Inghilterra, Germania, Austria e Polonia. Abbiamo adottato una strategia più “pull”, non supportata da ingenti budget pubblicitari, e stiamo crescendo nell’ordine dei 100mila nuovi clienti in media al mese, distribuiti tra i vari Paesi, dove l’Italia, che prima rappresentava la totalità delle acquisizioni, ora si è assestata tra il 50 e il 60 per cento su


Oggi ci sono 10 miliardi di televisori già distribuiti sul pianeta, di cui un miliardo connesso a internet. Questo significa che ci sono 9 miliardi di televisori pronti a essere connessi base mese, a dimostrazione che il mercato di CHILI si sta sviluppando velocemente anche all’estero, con dinamiche differenti da paese a paese. In un anno come il 2020, e certamente anche per buona parte del 2021 oramai, tutto il comparto culturale del Paese si è riversato sul digitale, rendendo con un’accelerazione vertiginosa compiuta la rivoluzione dello streaming già avviata da tempo. Cosa ha significato per CHILI questo scarto radicale nella modalità di fruizione dei contenuti culturali? Per molte aziende della stragrande maggioranza dei settori industriali la pandemia da Covid ha rappresentato un problema enorme naturalmente. Diciamo che per noi, invece, questa straordinaria criticità ha avuto un sapore agrodolce, perché se è vero come è vero che la fruizione di contenuti in streaming si è verticalmente impennata assicurandoci, quindi, un’oggettiva crescita in questa direzione, è altrettanto vero che per tutto ciò che riguarda il comparto delle promozioni, dell’organizzazione di eventi, del presidio del territorio su tutto quanto ha a che fare con il cinema le difficoltà che si sono presentate sono state pesanti, a partire dalla immediata contrazione dei budget pubblicitari delle aziende quanto mai fondamentali per il nostro lavoro. È tuttavia innegabile che vi sia stata un’accelerazione considerevole nel processo di adozione delle piattaforme. Nel momento in cui sono stati tutti obbligati a restare chiusi in casa, i vari Netflix, Prime, o, che so, Disney+ – il cui lancio come ricorderete è stato anticipato per rispondere al primo lockdown di marzo 2020 – hanno visto impennarsi in maniera esponenziali il numero dei propri abbonati. Da questo punto di vista, quindi, siamo certamente stati un’azienda anticiclica che ha risposto prontamente a un’esigenza di mercato precisa. Oggi ci sono 10 miliardi di televisori già distribuiti sul pianeta, di cui un miliardo connesso a internet. Questo significa che ci sono 9 miliardi di televisori pronti a essere connessi. È evidente che è impossibile che 10 miliardi di persone al mondo paghino un abbonamen-

to, ma è probabile che le persone gradualmente connettano il televisore e lo utilizzino per guardare YouTube gratis, per vedere il telegiornale, le previsioni del tempo, ed è anche possibile che siano interessati a guardarsi uno, due, cinque, sette contenuti all’anno pagandoli alla carta, anziché in abbonamento. Se a marzo e ad aprile dello scorso anno c’è stata un’accelerazione pazzesca in termini di utilizzo e consumo, avevamo anche previsto che tra giugno e dicembre avremmo avuto il problema di non avere contenuto fresco da offrire sulla piattaforma, perché nel frattempo si erano bloccate le produzioni. A quel punto abbiamo allora deciso di anticipare a ottobre 2020 il rilascio di AVOD, una nuova offerta che sulla piattaforma CHILI permette di vedere determinati contenuti gratuitamente con pubblicità. CHILI oggi è diventata una piattaforma su cui sono presenti sia film che serie tv a pagamento, prodotti nuovissimi, prodotti di catalogo e inoltre una serie di contenuti più d’archivio disponibili gratuitamente con pubblicità, un modello di business quest’ultimo che sembra essere quello che crescerà maggiormente nei prossimi quattro anni e di cui noi siamo uno dei primi player europei, attivi già dallo scorso autunno. Le piattaforme sembrano orientare molto i gusti del pubblico. Come si può conciliare la libertà di pensiero cinematografico con il mercato? La prima risposta è che noi come le altre piattaforme, potendo contare su una profondità di contenuto importante con quasi cinquantamila titoli, abbiamo messo a punto una tecnologia che in funzione di cosa fa il cliente, di come naviga, di cosa vede e di cosa sceglie di acquistare gli si va ad offrire un contenuto tagliato su misura sulle sue abitudini e sui suoi gusti. Codifichiamo la navigazione di milioni di clienti, leggendone gli interessi per poter confezionare una proposta correlata. È evidente che se davanti a uno schermo c’è un bambino che naviga in una certa maniera, non andremo mai a proporgli consciamente un film dell’orrore o una commedia sexy,

anche se all’interno della nostra piattaforma non vi sono contenuti ‘vietati’ o per adulti. Questa tipologia di gestione non può che essere governata da una macchina, dove i contenuti vengono in qualche maniera inseriti in cluster, analizzati e poi proposti al cliente. Al contempo, però, continuo a pensare, e ne sono sempre più convinto, che tutto ciò non può essere affidato solo a una macchina; anzi, oggi più che mai diventa fondamentale formulare una proposta editoriale sempre più articolata con più direzioni possibili da seguire, cercando quindi di guidare l’utente verso altri mondi, smuovendolo dalle comode e consolidate abitudini, perché l’aspetto interessante del nostro lavoro sta proprio nella sfida di riuscire ad aprire la mente del nostro spettatore. Da questo punto di vista l’investimento che abbiamo fatto su HotCorn va proprio nella direzione di provare a stimolare il cliente attraverso delle ‘vetrine’, un blog piuttosto che un magazine, con interviste e schede dei film, in grado di aiutarlo ad aprire le proprie visioni, ad allargare i propri interessi, schiodandolo dalla meccanicità ordinaria, quotidiana di abbeverarsi sempre alle stesse fonti. È un’offerta editoriale che noi proponiamo a prescindere da cosa il cliente clicca. All’interno della nostra offerta troverete sempre, ad esempio, la rubrica “Film scelti dalla redazione”, che non c’entra nulla con le preferenze del cliente. Si tratta di una nostra autonoma proposta editoriale e devo dire che sta funzionando molto bene. Sono suggerimenti, indicazioni frutto della nostra ricerca: se il cliente si interessa, legge, studia e magari guarda, si apre anche quello che poi suggerisce la macchina. Ciò che possiamo fare, e che facciamo spesso, è condividere con i nostri partner e i nostri fornitori di contenuti le analisi, i dati, le statistiche e le ricerche di mercato che conduciamo sui clienti per capire che cosa hanno visto, cosa piace, a che cosa sono interessati, andando anche a stimolare la produzione, anche se non siamo Netflix naturalmente. Non produciamo contenuto in primo luogo perché non ne abbiamo la capacità finanziaria, né organizzativa, e in secondo luogo perché vogliamo essere complementari a quel tipo di servizio che caratterizza invece le varie Netflix, Disney, Amazon… Nel momento in cui dovessimo iniziare a produrre, entreremmo esattamente nel loro mondo, perdendo la nostra complementarietà, quindi anche la nostra forza identitaria e commerciale insieme. 91


Intervista Alberto Toso Fei

CANTASTORIE CONTEMPORANEO Ho un rapporto di profonda identificazione con Venezia. Un rapporto simbiotico che mi spinge quasi a mutare umore con il variare della marea di Elisabetta Gardin

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lberto Toso Fei è orgogliosamente vene-

ziano. Discende da un’antichissima famiglia di vetrai di Murano, è giornalista, scrittore e saggista tradotto in più lingue. Toso Fei è un’autorità in fatto di misteri e leggende. Nei suoi libri, frutto anche del recupero della tradizione orale, si muove tra enigmi e curiosità in un mondo popolato da mostri, fantasmi, streghe, creature notturne, strani eventi; l’antica tradizione si mescola all’uso delle tecnologie più raffinate, come nei due libri-gioco su Roma e Venezia, che hanno dato vita alla saga del The Ruyi. I suoi lavori più recenti sono I segreti del Canal Grande, Misteri di Venezia e Misteri di Roma. Tra gli altri suoi titoli ricordiamo: I tesori nascosti di Venezia, La Venezia segreta dei dogi, Forse non tutti sanno che a Venezia…, Un giorno a Venezia con i dogi, Misteri del Veneto, I luoghi e i racconti più strani di Venezia, Il mistero della donna vestita di nero, Un sacrificio di sangue, Leggende veneziane e storie di fantasmi, Veneziaenigma, Misteri della laguna e racconti di Streghe. I suoi racconti hanno ispirato performance teatrali, opere d’arte, installazioni e hanno dato vita al fenomeno dei ghost tour a Venezia. È inoltre fondatore e direttore artistico del Festival del Mistero. Toso Fei, autentico innovatore nel raccontare Venezia, sul web è ormai una star; non a caso è stato definito “cantastorie tecnologico”. Il suo Venezia in un Minuto, partito su YouTube nel 2015 e diventato in seguito una pagina Facebook, è ancora un clamoroso successo. Durante il lockdown il suo Decamerone Veneziano, in onda a mezzanotte, è subito divenuto un appuntamento imperdibile con quasi trentamila

visualizzazioni. Dal 2016 scrive per «Il Gazzettino» la rubrica domenicale Ritratti Veneziani, progetto di brevi biografie destinato a raccogliere quattrocento ritratti di veneziani e veneziane che hanno lasciato una traccia nella storia (ritratti dall’illustratore Matteo Bergamelli), le cui prime duecento storie sono già state raccolte in quattro volumi pubblicati da De Bastiani e che entro il 2025 vedrà alla stampa un totale di ben otto libri. Ci racconti i suoi ultimi lavori e i progetti in corso. Quest’anno, quello del milleseicentenario, darò alle stampe un piccolo volume di carattere celebrativo, e in autunno spero di poter presentare un ulteriore libro – dedicato ai graffiti veneziani – che è l’esito di oltre tre anni di ricerca e sopralluogo condotti assieme all’epigrafista Desi Marangon: oltre tremila segni – navi, volti, iscrizioni, cronache – sostanzialmente inediti che abbiamo scoperto, studiato, mappato e che saranno raccolti in un volume. Nelle sue opere utilizza antiche leggende, tradizione orale, mescolandole alla tecnologia più innovativa. È questa l’evoluzione dei libri? Fino a che punto ci si può spingere? Fino a dove la tecnologia lo permette, direi! Per Misteri di Venezia, in collaborazione con Nuovostudio Factory e Officine Panottiche, abbiamo realizzato il primo booktrailer totalmente in 3D. Mi capita di fare serate in cui la narrazione si sovrappone ai video, o i luoghi di cui parlo assumono sullo schermo una tridimensionalità. L’aspetto più immediato di


Photo Barbara Zanon

tutto ciò sono i brevi video che propongo sulla pagina Facebook Venezia in un Minuto: 60, 70, 80 secondi di narrazione che scavalcano i limiti offerti da prodotti di lunga durata e raggiungono un pubblico vasto sul web. A dimostrazione che le storie non sono “vecchie”, sono antiche; basta trovare il giusto supporto per attualizzarle e subito ridiventano attrattive. Qual è la sua leggenda preferita su Venezia? Che cosa è rimasto ancora in città di tutte le tradizioni, le storie antiche che ci ha raccontato? Forse è un po’ scontato, ma direi la leggenda del bocolo, il bocciolo di rosa che gli innamorati si scambiano nel giorno di San Marco nel nome dell’amore. Al di là della leggenda in sé, che parla come molte altre di un amore contrastato che finisce per eternizzarsi, ciò che mi colpisce e mi piace è il fatto che nel nome di una pura leggenda si compia un gesto così bello e importante, perché riconosciuto da tutti e collettivo. È forse l’esempio più evidente di come – senza che necessariamente ce ne accorgiamo – le narrazioni finiscano per influenzare le nostre vite e le leggende incidano in maniera molto più che metaforica: quanti veneziani e veneziane si saranno fidanzati nel giorno di San Marco? Allo stesso modo la data leggendaria di fondazione della città, il 25 marzo 421, nel corso dei secoli ha determinato perfino un diverso uso del calendario a Venezia. Come è pensabile che questo non incida nelle vite delle persone? Lei è considerato il cantore virtuale di Venezia: cosa significa per lei davvero questa città? Cosa proporrebbe per far sì che possa perlomeno incominciare a risollevarsi dalla pesante crisi in cui si trova

ora a causa della pandemia, ma identitariamente anche prima, soffocata com’era da questo turismo di massa travolgente? Ho un rapporto di profonda identificazione con Venezia; non potrebbe essere altrimenti. Un rapporto praticamente simbiotico che mi spinge quasi a mutare umore con il variare della marea… È una città che non è solo bellissima e unica: è stata importante nella storia del mondo, ha dato molto alla scienza, alla tecnologia, alla storia dell’economia, all’editoria, all’arte. In una manciata di chilometri quadrati ha preso vita una civiltà alla quale il mondo è debitore di molte cose. La maniera migliore di uscire dalla pandemia, anche approfittando delle occasioni offerte dalle celebrazioni dei mille e seicento anni, dovrebbe essere in un ripensamento della città verso la costituzione di un modello che sia di esempio ad altri, come spesso è avvenuto nella storia. Poche città sono così sostenibilmente proiettate verso il futuro come Venezia. Sarebbe bello e importante dimostrare una volta di più che siamo in grado di pensare a nuovi modelli di gestione del turismo, di contrasto alla gentrificazione della città storica, di controllo di attività e servizi in relazione alla qualità della vita. Modelli da regalare agli altri per rendere Venezia ciò che è sempre stata nella storia, un luogo di sperimentazione, anche sociale, volto al benessere dell’uomo. Rimanendo sulla pandemia il pensiero va alla peste, dalla quale i veneziani furono decimati. Proprio qui venne inventata la quarantena per limitare il moltiplicarsi dei contagi. Lei vede dei collegamenti tra queste due epoche tanto lontane e diverse, ma accomunate da un morbo devastante?

Per la verità vedo evidenze e similitudini nelle forme di contenimento (mascherine, distanze, confinamento), ma grandi differenze nell’approccio. All’epoca non si sapeva nulla del morbo e si procedeva per tentativi. Oggi la ricerca ci svela molto sulla natura del virus e della maniera che ha per attaccare l’organismo; questo ci rende tutti più consapevoli dei rischi che si corrono e dei conseguenti comportamenti da adottare. In più oggi anche nell’isolamento abbiamo la capacità e la fortuna di rimanere in contatto con il mondo, alcuni di noi – non tutti, sfortunatamente – di mantenere persino il lavoro; certamente di coltivare temporaneamente relazioni e rapporti a distanza, esercizio non facile ma che in passato era semplicemente impossibile. Tra tutti, e sono molti, i personaggi dei suoi libri qual è il suo preferito? Un personaggio che nessuno conosce ancora. Si chiama Alessandro Nicoli. Capirete presto perché. Quali sono state le letture e le esperienze che hanno ispirato i contenuti dei suoi lavori e che più hanno influenzato il suo stile? Si tratta di letture molto eterogenee. Certo ho sempre avuto una passione per le leggende e tutti quegli aspetti legati al folklore popolare. Non a caso ho creato e dirigo Veneto Spettacoli di Mistero, festival regionale che si occupa da oltre un decennio di riproporre storie antiche attraverso diverse forme di spettacolo nei luoghi stessi in cui presero vita; si tratta di centinaia di località che propongono le loro storie e intanto si lasciano scoprire. Poi ogni libro, di qualsiasi genere, ti lascia dentro qualcosa che ti può aiutare a vivere meglio. 93


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INTERVIEW DIRET TORE PORDENONELEGGE

Sulle tracce di Dante e Zanzotto Intervista a Gian Mario Villalta Il 21 marzo 2021, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, hanno avuto inizio le celebrazioni per Zanzotto 100, centenario della nascita di uno dei più grandi poeti italiani del secondo Novecento, figura di riferimento per il mondo culturale europeo, un fitto programma di racconti, reading, maratone letterarie, convegni, itinerari ciclopedonali che a partire dalla sua città natale, Pieve di Soligo, si sviluppano lungo colline e strade immerse nei vigneti, sulle tracce della poesia e della vita di Andrea Zanzotto. Pochi giorni dopo il 25 marzo 2021, è stata la volta di Dantedì, la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’aldilà della Divina Commedia, occasione per ricordare in tutta Italia e nel mondo il genio di Dante in occasione dei 700 anni della sua morte, con tantissime iniziative, soprattutto online, organizzate da scuole, università, istituzioni culturali, musei, città. Per parlare di questi due Maestri abbiamo incontriamo Gian Mario Villalta, poeta, scrittore, professore e soprattutto direttore dell’acclamato Festival letterario PordenoneLegge. Gian Mario Villalta come Andrea Zanzotto è un poeta, come Zanzotto è un insegnante e come lui non si è allontanato dalla terra in cui è nato, il Friuli, mentre nel caso di Zanzotto era il Veneto, la sua amata Pieve di Soligo. Ci sono tante similitudini tra lei e Andrea Zanzotto, che cosa ritrova di se stesso in lui? La domanda suscita in me un certo imbarazzo: Andrea Zanzotto giganteggia; non so se mi elevo abbastanza dal naneggiare. Anche se avessi una grandissima stima di me stesso, direi comunque che è meglio andare cauti con i paragoni. Per adempiere in qualche modo al dovere della risposta, posso dire che ci sono caratteristiche ambientali, che coinvolgono la realtà geografica e la sua configurazione naturale, ma prima di tutto segnalerei la comune radice dialettale rispetto a una grande passione per tutto ciò che riguarda il tema della lingua intesa come realtà dell’esistenza, prima e più ancora che come strumento di comunicazione. Ci racconti chi è per lei Zanzotto, il poeta e l’uomo. 94

Una grande intelligenza, una sensibilità acutissima. E una cultura che travalica l’ambito letterario per interessarsi, oltre che delle Scienze Umane in generale, della conoscenza della terra e del cosmo, della medicina e dell’evoluzione umana. Mai per erudizione, però. Tutta questa curiosità, tutto questo sapere è stato sempre rivolto alla necessità di rispondere alle domande fondamentali su sé stesso, sull’essere umano, sulla relazione con gli altri e con il proprio terreno di vita. Un poeta dotatissimo, fin dai primi anni, e inquieto. Un uomo che ha cercato fino all’ultimo di conciliare le parole e il pensiero con la realtà, consapevole che la realtà è fatta anche di sogni, di incubi (e di irrealtà). È stato Zanzotto il suo maestro? Non il solo. Però, soprattutto dopo i trent’anni, sì. A rischio di venire “fagocitato” dalla sua grande intelligenza e potenza creativa. Con il tempo, sempre di più. Perché l’eredità dei grandi maestri non è la “lettera” della loro opera, ma l’impronta esistenziale che l’opera mantiene. E questa impronta per me oggi decisiva è che non c’è poesia senza un impegno assoluto, a costo di farsi lacerare, di perdere orizzonti sicuri di riferimento. Il maggiore lascito di Andrea Zanzotto, come maestro, per me è ancora oggi la consapevolezza che la poesia è l’esigenza di una lingua più vera (che sentiamo dentro la lingua quotidiana) e di una vita più vera (che abita la nostra vita quotidiana). Prenderà parte alle iniziative del Comune di Pieve di Soligo per celebrare i cent’anni dalla nascita del poeta? Sì, sono stato invitato. Ancora mi pare che gli eventi siano in corso di organizzazione. Oltre alle celebrazioni di Pieve di Soligo, sono in via di preparazione molti altri momenti di ricordo e di omaggio, a Padova, a Treviso, a Bologna e in molte altre città italiane. Spesso Zanzotto è stato avvicinato a Dante, il sommo poeta. Quali sono i legami che ritrova tra loro? La memoria e la presenza ‘operativa’ di Dante nell’opera di Zanzotto sono diffuse e importanti. Per converso, sebbene spesso citato, Dante è meno presente nei suoi scritti critici.

Più in generale è come se si trattasse di un terreno necessario e presente, dove dissodare, seminare e raccogliere, così tanto prossimo da relegare in secondo piano l’urgenza di analizzarlo o descriverlo. Per quanto riguarda le analogie, soprattutto due: l’approfondimento del tema della lingua e la capacità di fare poesia con i più vari e vasti strumenti di conoscenza del proprio tempo. Un solo esempio: il Paradiso di Dante unisce la conoscenza dell’angelologia a quella della fisica e della cosmologia del suo tempo; Zanzotto mette insieme psicoanalisi, microbiologia, astrofisica, paleontologia e ne fa materia poetica. Parlavamo di Dante, l’Italia è la patria di grandissimi poeti eppure oggi la poesia non è molto seguita, quali sono le cause per lei? È avvenuta un’interruzione nella continuità culturale della modernità, che aveva raggiunto fino a trenta anni fa – più o meno – una precisa configurazione tra editoria, mondo dell’istruzione e organi d’informazione. Ciò fa sì che, pur essendoci molta poesia interessante oggi in Italia (e anche molto seguita) sia stata abbandonata dai suoi tradizionali referenti a causa del predominio dell’informazione e della sua attuale alleanza con tutto ciò che è audiovisivo, con l’aggiunta dell’abuso dei cosiddetti social media. Ci sono molti stimoli in controtendenza, d’altra parte, anche se non si vedono. La poesia ha bisogno di


Gian Mario Villalta è nato in provincia di Pordenone, a Visinale di Pasiano, nel 1959, si è laureato in Lettere a Bologna, da alcuni anni insegna in un liceo di Pordenone. Ha pubblicato numerosi libri di poesia e di narrativa, nel 2011 con Vanità nella mente ha vinto il Premio Viareggio. Su Andrea Zanzotto ha pubblicato un saggio e in seguito per Mondadori ha curato i volumi Andrea Zanzotto. Scritti sulla letteratura e, in collaborazione con Stefano Dal Bianco, Andrea Zanzotto. Le Poesie e prose scelte.

La poesia ha bisogno di tempo, di mente intenta, di confrontarsi con le aree più profonde della memoria. La poesia è viva. E necessaria

tempo, di mente intenta, di confrontarsi con le aree più profonde della memoria. La poesia è viva. E necessaria. Cosa si potrebbe fare per avvicinare i giovani alla poesia? Dalla risposta precedente risulta che è una questione di sistema. La poesia non può essere confusa con la comunicazione, è un’altra cosa. Credo che la scuola potrebbe essere, oggi, una vera possibilità. Ma la scuola pare costretta a risolvere altri problemi. Quest’anno di pandemia, così difficile e complicato, come ha influenzato la sua creatività, la sua scrittura? Ha influenzato l’intera vita di tutti noi, non solo la pandemia, ma quello che la pandemia ha messo in evidenza sulla nostra vita, i suoi confini reali e le sue essenziali necessità. E ci ha allarmato la nostra capacità di adattamento a condizioni prima impensabili di relazione con gli altri e con il nostro stesso terreno di vita. Per quanto mi riguarda, si è presentata molto forte la dimensione del passato che opera nel presente, mentre sembra che si viva soltanto in una condizione di debito inestinguibile con il futuro. Quali sono i suoi progetti futuri, si sta dedicando alla prosa o la poesia? Vorrei completare un libro di poesie al quale sto lavorando da tempo. C’è ancora, soprat-

tutto, da decidere su alcune scelte nella composizione del libro, che è già quasi tutto scritto. E sono impegnato nell’allestimento di un’antologia poetica. Lei è uno dei fondatori di PordenoneLegge, mi complimento perché avete fatto e continuate a fare uno splendido lavoro, ormai è un festival importantissimo. Cosa avete in programma per la prossima edizione? La principale preoccupazione è sul “come” si potrà fare la prossima edizione. Con una battuta, direi che di mestiere facciamo “assembramenti”, di una speciale tipologia che ci piace molto. Ecco, ci piacerebbe fare, per la prossima edizione di PordenoneLegge, degli assembramenti fitti, molto fitti, di persone intorno a scrittori, poeti, filosofi, donne e uomini della cultura interessantissimi. Elisabetta Gardin 95


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Non vediamo l’ora di riaccogliervi in luoghi di inusitata bellezza e di condividere assieme amore per l’arte, cura del patrimonio culturale e della memoria del passato. Coltivare l’anima ci aiuterà a ricominciare. Presto.

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etcc... PAROLE a cura di Renato Jona

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nno nuovo, vita nuova? Così dice l’adagio che mi è

venuto alla mente riflettendo sul fatto che queste righe saranno pubblicate sul primo numero stampato nell’Anno Nuovo. E il termine “nuovo”, a ben pensarci, può avere tanti significati, assai differenti uno dall’altro. Merita perciò soffermarsi su qualcuno di essi. NUOVO può voler dire: mai oggettivamente usato, o sperimentato, in generale come si usa dire di un prodotto industriale, ad esempio riferito ad una autovettura di una nuova serie. Ma può anche riferirsi ad un uso soggettivo: mai utilizzato o sperimentato in passato da un determinato soggetto, per esempio un abito nuovo, magari rimasto per un po’ di tempo nell’armadio e mai utilizzato, quindi ignoto a chi lo indossa, non ancora da questo direttamente conosciuto, mai sperimentato prima. Nel caso riferito all’anno appena iniziato, il termine “nuovo” si riferisce sicuramente all’accezione più vasta, quella oggettiva: del tutto ignoto a tutte le persone. Il termine “nuovo” è di per sé attraente e spesso può contenere un fascino stimolante. Forse perché elargisce sensazioni ignote (per lo meno a molti soggetti), sollecita la curiosità, l’attesa, desta la fantasia. Il termine “nuovo”, nei suoi molteplici significati, può riferirsi anche più semplicemente ad una produzione nuova, nel senso, ad esempio, del reiterarsi di un fenomeno che ha una cadenza periodica (in natura ad ogni stagione si ha il ripetersi di un fenomeno analogo a quanto avvenuto in precedenza, nella stessa epoca dell’anno). Prendiamo ad esempio una “nuova” produzione di olio, di basilico, di pinoli (chissà perché per esemplificare questo uso molto comune del termine “nuovo” sono ricorso a tre esempi che, magia delle parole, uniti a un certo tipo di formaggio grattugiato e ad un pizzico di sale offrono la delicata ricetta del verde pesto!): nessuno di voi, siamo sinceri, se lo aspettava, nessuno ci sperava… Ma se, come abbiamo visto, il termine “nuovo” tanto ci attrae forse perché contiene il fascino dell’ignoto, lo stesso significato può essere richiamato anche da un altro termine utilizzato con assidua frequenza: SPERANZA, che è un importante ingrediente del nostro sentire, talvolta anche inconscio, delle nostre riflessioni, sul quale merita soffermarci nuovamente e fare qualche considerazione. La speranza, confessiamolo sinceramente, è una componente di rilievo che accompagna la nostra vita quotidiana, che compare in forma tutt’altro che rara, sostenendoci, facendoci augurare possano verificarsi, attuarsi cose piacevoli, migliori, desiderate. Si tratta in effetti di una convinta attesa di cose di cui auspichiamo la realizzazione, perché positive, favorevoli, ritenute utili, desiderabili, spesso risolutive di problemi che ci affannano; un traguardo che potrebbe apparirci talvolta anche al di fuori dei nostri poteri. Quale è lo studente che non spera nel buon esito degli esami? Quale il giovane che non spera di trovare un partner a lui (o a lei) adatto per condividere le bellezze della vita, i sentimenti, le esperienze positive? Quale è il malato che non spera nella guarigione? Nell’antichità questo desiderio generico e intenso, la speranza, era considerato così importante da essere raffigurato addirittura come una dea. E la speranza nelle sue varie manifestazioni si può esprimere non soltanto verso sé stessi, ma anche in forma altruistica, sotto forma di augurio, rivolta ad altri esseri umani a noi legati da stima, affetto, amicizia, amore.

NUOVO/ SPERANZA Questa attesa fiduciosa costituisce anche un valido sostegno durante tutto il corso della nostra vita. Le persone ottimiste sono quelle che vedono il bicchiere sempre mezzo pieno, quelle che danno la sensazione di essere comunque convinte che la loro speranza venga esaudita. Ed è tanto importante l’ottimismo che talvolta, al momento della nascita di un bimbo, i genitori come buon augurio chiamano il neonato addirittura “Speranza”. Nadia, ad esempio, è una forma abbreviata del termine russo Nadezda, che significa per l’appunto “speranza”; oppure, pescando tra altri nomi della stessa matrice semantica, Zita, derivato dallo spagnolo “piccola speranza”. Talvolta, ma la cosa è più rara, ci si può imbattere persino in un cognome dedicato al desiderio di realizzazione positiva. Va menzionato in tale direzione, non possiamo certo ignorarlo, il nostro attuale Ministro della Salute. Ci sia dunque lecito considerarlo di buon auspicio riferendolo alla cosa che viene percepita come l’esigenza primaria di tutti noi, specie in questo periodo, ossia proprio la Salute. Un altro accostamento molto comune è quello tra fortuna e speranza: la prima sembra si riferisca soltanto a una casualità favorevole, indipendente da ogni influenza del soggetto interessato (del resto un tempo anch’essa veniva rappresentata da una dea, ma in questo caso, bendata), qualcosa di assolutamente esterno alla volontà umana; l’altra, la speranza, invece sembra esser favorita nella sua realizzazione da una sostanza, da un atteggiamento ottimistico, quasi si tratti di un contributo umano perché si avvicini la realizzazione delle cose desiderate, delle cose buone. Qualcheduno addirittura sostiene l’efficacia dell’ottimismo quale componente volontaria nella realizzazione dell’auspicio. Abbiamo accennato più sopra alla incredibile frequenza con la quale la speranza compare nella nostra vita. Con la proverbiale saggezza orientale, ci soccorre un proverbio cinese che in proposito constata: «Per quanto lunga sia veste della tua vita, non supererà la statura della tua speranza». “Spero” proprio sia giusto citare in proposito i versi garbati di Gianni Rodari, poeta dall’eloquio semplice, sensibile e profondo, che interpreta il nostro frequente desiderio positivo, il nostro argomento beneaugurante per tutti i lettori, con il suo sogno chiaro e ben definito:

Se io avessi una botteguccia Fatta di una sola stanza Vorrei mettermi a vendere sai cosa? La SPERANZA. Speranza a buon mercato! Per un soldo ne darei ad un solo cliente quanto basta per sei. E alla povera gente che non ha da campare darei tutta la mia Speranza senza fargliela pagare! 97


Intervista Ermenegildo Giusti

C’È VITA TUTTO INTORNO, RIBOLLE IL VINO NUOVO… (Goethe)

di Massimo Bran e Fabio Marzari

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a lunga intervista che segue è il riassunto di

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una piacevole gita “fuori porta” a Nervesa della Battaglia per visitare la nuovissima cantina fortemente voluta da Ermenegildo Giusti, un imprenditore locale che, per usare un’espressione d’antan sempre servibile, “ha fatto fortuna” in Canada alla guida di Giusti Group of Companies, leader nel settore delle costruzioni nella West Coast. Emigrato a 19 anni dal paese dove viveva la sua famiglia, Volpago del Montello, arriva a Vancouver con il fratello, con cui inizia l’avventura nel settore delle costruzioni. La sua è una lezione non solo imprenditoriale, ma anche di amore autentico per la terra d’origine e per le vigne e il vino, con la volontà di restituire in parte la fortuna economica e sociale derivata dalla sua opera imprenditoriale, regalando alla collettività intera importanti opere di recupero paesaggistico e di restauro, tra cui spiccano quelle sui resti dell’Abbazia di Sant’Eustachio, distrutta dai bombardamenti nel corso della Prima guerra mondiale, un luogo simbolo per la cultura occidentale, essendo qui stato scritto da monsignor Dalla Casa intorno al 1550 niente di meno che Il Galateo. Lei ha realizzato una cantina bellissima, quindi anche il suo vino non potrà che essere almeno molto buono… Riconosco il merito per la qualità del nostro vino alla migliore enologa in attività oggi in Italia, Graziana Grassini. Mi sono sentito con lei una domenica mentre ero al mare e l’ho invitata qui da noi a dare un’occhiata alla nostra tenuta e al nostro lavoro. Ha subito vissuto un feeling speciale con questa terra, cogliendone il potenziale ancora non pienamente espresso. Le ho quindi immediatamente proposto di iniziare a collaborare con la nostra azienda. Graziana ha accettato di buon grado ed è stato per lei amore a prima vista, in particolare per la Recantina, un uvaggio presente

in questa zona da sempre come vitigno autoctono. Si tratta di una sfida sia per noi che per lei: avevamo bisogno di lavorare con una persona di livello top, considerato il fatto che abbiamo compiuto un grosso investimento qui a Nervesa, quantificabile in circa settanta milioni di euro, per la cantina e non solo. Quando e come è nato questo suo tenace desiderio di ritornare “matericamente”, è proprio il caso di dirlo, alla sua terra d’origine dopo decenni di successi imprenditoriali nelle Americhe? Sono andato via dall’Italia quando avevo 18 anni e la voglia di tornare ad investire nel mio Paese è emersa una ventina di anni fa, quando è mancato mio suocero che da sempre si occupava di vini e la famiglia di mia moglie non voleva che la tradizione andasse dispersa. Vennero affidati a mia moglie i due ettari e mezzo di cui disponevano; io ho poi comprato i terreni circostanti e da lì è partita l’idea, la voglia di iniziare questa fantastica avventura. A quel tempo la mia intenzione era semplicemente quella di vendere l’uva, non tanto di impegnarmi nell’imbottigliamento, anche se all’epoca già producevo vini francesi. Quando ero ragazzo trovavo quasi inconcepibile anche solo pensare di dover continuare a vivere in Italia. Volevo andare in un posto nuovo dove poter almeno provare a realizzare i miei sogni di costruttore; volevo essere trattato con rispetto, cosa che nel nostro Paese non succedeva troppo facilmente. Era praticamente quasi impossibile da noi per un giovane senza un soldo in tasca ottenere credito, fiducia per le idee che era in grado di mettere in campo. Eloquenti a riguardo i rapporti con le banche, Giusti Wine Cantina, via del Volante 4, Nervesa della Battaglia giustiwine.com


CANTINA

La nuovissima cantina ipogea di Giusti Wine si trova a Nervesa della Battaglia nella zona collinare del Montello, circondata dall’alveo del fiume Piave. Geologicamente si tratta di un suolo antichissimo, che fu per secoli uno dei boschi della Serenissima, ricco di ossidi di ferro e di argilla, la tipica terra rossa del Montello. La costruzione modernissima e tecnologicamente all’avanguardia, si sviluppa su cinque piani che si spingono fino ad otto metri sotto terra. Progettata dall’architetto Armando Guizzo, la cantina è stata realizzata nel pieno rispetto dell’ambiente circostante, riproducendo il movimento ondulatorio delle colline ed è sovrastata da un vigneto che la integra perfettamente nel paesaggio, limitandone l’impatto sia visivo che volumetrico. Dalla sommità si gode una vista sui vigneti che cingono l’edificio a 360 gradi, aprendo lo sguardo fino ai resti imponenti e inaspettati dell’abbazia di Sant’Eustachio che dominano il territorio.

VINO È stata stappata in questi giorni la prima produzione di Rosalia, Prosecco DOC Rosé di Giusti Wine, frutto della collaborazione con l’enologa Graziana Grassini, che così lo racconta: «Abbiamo pensato a un prodotto fatto per durare nel tempo, stabilizzandone il colore, i profumi e il perlage. Si è partiti da uve scelte in parcelle selezionate, per poi dedicare attenzione particolare al colore, con un taglio con il Pinot Nero in presenza dei lieviti». Rosalia, dal gusto secco, intenso e persistente al palato, inizialmente si rivela fresco su fondo sapido, poi cresce esprimendo al naso piacevoli ed eleganti sentori sia di frutta gialla che rossa: nocepesca, ciliegia e profumi floreali di rosa appena schiusa. 99


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dove si veniva scavalcati da chiunque solo perché non si avevano le “giuste” amicizie e conoscenze. Odiavo questo sistema con tutto me stesso. Sono arrivato in Canada senza conoscere una parola di inglese e biascicando qualcosa di francese, con un titolo di studio di terza media in tasca, trovando da subito una profonda considerazione da parte di canadesi e americani. Ho da subito avuto la certezza che qui avrei avuto le mie chances per fare qualcosa di buono e di importante, anche facendo leva sulla forza e sul fascino che potevano suscitare le mie radici. Ero convinto che noi italiani potessimo avere una marcia in più; questo era l’unico attrezzo che mi portavo nel bagaglio, oltre alla poca esperienza come costruttore. Abbiamo da subito io e mio fratello iniziato a vendere 50-60 case all’anno, arrivando presto a 300: eravamo solo noi, in due. Partendo dai telai in legno, la via più semplice per costruire case in fretta da quelle parti, e con il sudore della fronte ci siamo rapidamente fatti strada nel settore, espandendoci sempre di più, arrivando ad avere dopo non molto tempo circa 200 operai alle nostre dipendenze. Siamo poi passati ai palazzi di legno, presto soppiantati dai grattacieli di cemento armato e dall’impegno nel settore petrolifero, dove eravamo visti non di buon occhio inizialmente. È significativo che molti italiani riescano ad avere successo fuori dai confini nazionali, portando la propria italianità ad essere davvero un autentico valore aggiunto in grado di spiccare sul resto. Questo accade perché in Italia non si viene apprezzati per le proprie capacità e spesso si va avanti non per meriti propri. Pur disprezzando il sistema politico italiano, ho cercato nel mio piccolo di esportare un modello che si ispirava al nostro modo sapiente e creativo di produrre manufatti, all’artigianato di alta qualità. Prendiamo l’esempio della ceramica, di cui si occupa una delle nostre società e di cui siamo i principali importatori per il Canada e per la west coast degli Stati Uniti: ho sempre comprato prodotti made in Italy, da Sassuolo ad esempio, mai merce cinese o proveniente da altre zone del mondo. Il che mi poneva in una posizione iniziale di svantaggio in termini competitivi di mercato: il disagio era forte nel dover giustificare come mai fossimo dieci volte più cari rispetto ai competitors cinesi, che per cifre irrisorie erano capaci di realizzare piastrelle all’apparenza molto simili a quelle 100

nostre, rigorosamente made in Italy. Ebbene, ero disposto anche a fallire pur di non rinunciare alla qualità italiana dei nostri prodotti. La scelta è stata premiata, per fortuna. Ma non a caso, badate bene. La qualità paga sempre se valorizzata con intelligenza e visioni commerciali vincenti, ma anche se supportata da una capacità relazionale ineguagliabile, quando ben espressa, come quella italiana. Quando si chiudevano i contratti era normale portare i clienti a cena. E ogni volta era una gioia invitarli in ristoranti italiani, potendo quindi sfoderare come arma un’altra eccellenza, quella gastronomica, oltre alle tante in ambito manifatturiero. Negli anni Settanta, se eri qualcuno, ordinavi bottiglie di vino Capo di Stato e in questo modo si fidelizzava ancora di più la relazione con il cliente. La fidelizzazione se non è tutto negli affari, lo è quasi, perché il dato umano, la capacità di dare esclusività a un rapporto rappresenta un valore aggiunto straordinario anche nelle relazioni commerciali. Una volta stabilito un rapporto di ferrea fiducia nel segno della qualità personalizzata, a quel punto il cliente non ti lascia più. Ho moltissimi clienti con i quali lavoro da sempre praticamente, con cui si è creato un rapporto che va ben oltre il mero, per quanto fondamentale, aspetto professionale. Sono sempre stato orgoglioso di essere italiano. Avrei fatto venti chilometri a piedi se un mio connazionale mi avesse chiesto aiuto o avesse avuto bisogno della mia esperienza. Anni fa, prima di concludere un grosso affare con un grande gruppo, ho scoperto che i rappresentati di questo stesso gruppo erano italiani e ho così offerto loro il mio appoggio logistico in Canada, mettendo a disposizione uffici e mezzi di trasporto. Ho scoperto in seguito che queste persone lavoravano per ENI e che avevano già in mente di rivolgersi a me ancora prima della mia offerta di aiuto. Il mio gesto, del tutto disinteressato, acquistò ancora più valore ai loro occhi, saldando così il nostro rapporto. Noi italiani amiamo pavoneggiarci delle eccellenze del cosiddetto made in Italy, senza poi però riuscire a reggere il confronto con i Paesi che più convintamente e lucidamente decidono di investire nella valorizzazione e nella promozione di eccellenze mirate. Da noi spesso si tende a cavalcare un impulso senza mai metterci la giusta convinzione, tirando un po’ a campare, non sforzandoci mai di vedere

a lungo termine, in uno scenario che ha visto sempre più scemare la creatività che le difficoltà del passato paradossalmente stimolavano, perché non garantivano quella comfort zone che oggi impigrisce il pensiero. Dove e come agirebbe per scardinare questo blocco mentale? Se facessimo un sondaggio sulle esperienze che i turisti ricordano di più di una loro vacanza consumata in Italia, magari in occasione di un soggiorno a Venezia, dubito fortemente che ci sarebbero solo chiese o monumenti impressi nella memoria di chi ha vissuto dei giorni qui da noi. Più probabile che vi sia un momento conviviale ad occupare il centro dei ricordi, magari vissuto seduti ai tavolini del più antico caffè di Piazza San Marco, il Florian, dove a distanza di anni ci si ricorda ancora con piacere cosa si è bevuto in compagnia di amici. Su questo noi italiani dobbiamo puntare, sulla valorizzazione delle esperienze, senza pensare che sia sufficiente avere un patrimonio artistico o paesaggistico di ineguagliabile bellezza per poter incassare un successo assicurato. Inutile avere una Ferrari se non si è capaci di guidare nemmeno un’utilitaria. Probabilmente la diffusione del benessere di questi ultimi anni ci ha atrofizzato un po’ i cervelli. Un tempo l’ingegno era stimolato anche dall’effettiva necessità di dover sopravvivere; ce la facevano in pochi, ma quei pochi erano davvero capaci di portare avanti le proprie idee con coerenza e convinzione. Oggi sopravviviamo decentemente bene tutti, accodandoci e seguendo la corrente che in quel preciso momento ci assicura un ritorno economico. Uno stato che non produce certo urgenza, energia, voglia di inventare nuovi prodotti, progetti, esperienze. Un’energia che invece sembra proprio non mancare in questo progetto “di ritorno”. La vostra scommessa è quella di puntare sull’eccellenza, su una produzione di alta qualità non soffocata dall’urgenza della quantità. Ci parli un po’ di più di questa nuova pagina che state scrivendo grazie alla collaborazione con Graziana Grassini. Tempo fa con Graziana, che io davvero considero la migliore enologa al mondo, abbiamo voluto testare la bontà dei vini italiani. In questi casi l’unico metodo da seguire è l’assaggio, inutile perdersi in discorsi teorici. Beh, il Sassicaia di cui da anni la nostra enologa


La nostra tenuta di Nervesa della Battaglia ricorda nella forma un corpo disteso sul terreno e allo stesso tempo, con le proprie salite e discese, rappresenta gli alti e i bassi della vita di ognuno di noi segue la produzione in Toscana ha stravinto il confronto con gli altri rossi di gamma, un vino davvero stratosferico. Non so cosa Graziana abbia fatto al vino: il suo tocco inconfondibile ha regalato delle annate davvero indimenticabili. Confrontandoli con questa eccellenza toscana, o con altri importanti rossi che abbiamo assaggiato, in particolare quelli delle categorie bordolesi, i vini del nostro territorio finivano purtroppo sempre ultimi, e di gran lunga. Com’era possibile? Secondo Graziana infatti il nostro terroir, il rapporto cioè che lega un vitigno al microclima e alle caratteristiche minerali del suolo in cui è coltivato, è addirittura migliore rispetto a quello della Toscana. Quando Graziana è arrivata da noi, dopo aver preso in mano la terra e assaggiato alcuni chicchi d’uva, mi ha subito detto: «Questo è un Sassicaia!». Se poi viene rovinato perché non si sa come macinarlo o perché le semenze vengono rotte nel modo sbagliato facendo venir fuori l’amaro, quello è un altro discorso. Sapevo ad esempio, sempre per rimanere nel nostro Veneto, che nei Colli Euganei si sarebbero potuti produrre dei grandissimi vini anche in più larga scala, eppure non si è mai stati in grado sino a pochissimo tempo fa di valorizzarne in pieno la specificità. …pur avendo una particolarissima terra vulcanica da poter valorizzare, assai simile a quella siciliana in grado da decenni oramai di produrre grandi vini dalla spiccata mineralità. Esattamente. Riuscire a valorizzare un territorio elevando la qualità media dei vini che vi si producono è possibile solo costruendo progressivamente una sorta di alleanza sistemica tra i produttori. Se vogliamo spingere il nostro territorio nel mondo, non possiamo dire «Giusti Wine è l’unico in grado di fare vini

di qualità». Bisogna favorire e promuovere un lavoro di squadra con le altre realtà che condividono i criteri dell’eccellenza nel vino, senza aver paura della concorrenza, perché se si porta avanti la propria attività senza rinunciare ai propri valori, la qualità migliore emergerà e farà primeggiare i più meritevoli quando capaci di confrontarsi seguendo le regole. O ci si sintonizza subito su questa lunghezza d’onda, o siamo destinati a far saltare il banco molto presto, perché il mondo funziona in maniera assai diversa rispetto a come siamo abituati a pensare noi italiani. Quando apro una bottiglia di vino la persona che ho di fronte vuole sapere da dove vengono le materie prime che hanno portato a quel risultato. A parte il vino buono, è da valorizzare la narrazione che sta dietro a un dato vino, il cosiddetto storytelling. Tutto il mondo lo fa, dobbiamo farlo anche noi. A tal fine mi sono confrontato con i sindaci del territorio e ho messo a disposizione i nostri spazi, lasciando loro l’iniziativa per organizzare eventi che portino avanti questa linea, questa visione aperta e sistemica, evitando così anche di essere etichettato dall’opinione pubblica come il “foresto arricchito” che si impegna solo perché gà i schei. Di una cosa sono più che certo, ossia che arroccandoci dietro ai vari «il nostro è meglio» siamo destinati a finire in un vicolo cieco, imboccando una direzione del tutto autoreferenziale incapace di farci crescere globalmente. Eppure mi pare che ci siano specchi a sufficienza in grado di restituirci quali siano le strade giuste da perseguire; mi sembra che vi siano state nel passato, e vi siano pure nel presente, in vari settori produttivi, parecchie occasioni cui ispirarsi, da cui trarre insegnamento. Eppure le lezioni sembrano non bastare mai, poiché le visioni anguste,

ottusamente particolaristiche sono sempre vive e vegete. Prendiamo l’esempio di Montebelluna, anni fa autentica vetrina mondiale del settore calzaturiero sportivo. Ora cosa rimane? Assolutamente niente. Spariti i soldi, sparito tutto. Perché non abbiamo l’umiltà di imparare dagli errori che abbiamo fatto in passato? Come possiamo fare perché possa rimanere qualcosa anche dopo di noi? Ovviamente il contesto non aiuta. Abbiamo una classe politica che nella maggior parte dei casi si dimostra disonesta e attenta solo al proprio tornaconto e a livello gerarchico anche i sottoposti, per avanzare di carriera, sono portati a non comportarsi certo meglio dei loro superiori. Parlo con mia moglie e ci diciamo: «Abbiamo sbagliato tutto!», siamo stati educati a seguire l’esempio dei nonni, a rispettare gli anziani e adesso vediamo tutti questi valori completamente stravolti e calpestati. Per sanare questa situazione, per evolvere in modo più rispettoso e aperto il modo di vedere e di vivere il mondo nostro e il mondo tutto, credo sia ora davvero fondamentale saper compiere un passo indietro e ammettere di aver commesso molti, moltissimi errori. Voglio credere che non sia ancora troppo tardi per rimediare, sì. Tra le novità emergenti nella produzione vinicola di questo territorio vi è il Prosecco rosè, vino che negli ultimi anni ha goduto di una grande spinta promozionale, riscontrando in verità per ora più apprezzamenti all’estero che in Italia. Come vi state approcciando a questo nuovo prodotto? Sempre che sia un prodotto di vostro primario interesse, s’intende. Assolutamente sì, lo è, eccome! Il Prosecco rosè curato da Graziana Grassini è in fase di imbottigliamento proprio in questo 101


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periodo e promette grandi cose. Prima producevamo esclusivamente un rosè chiamato Chardonnay Pinot Noir, che vendiamo a circa 5 euro alla bottiglia. Il problema di questo vino è che in molti supermercati viene venduto a 2,50 euro, a volte addirittura a meno. Siamo alla follia! A un prezzo del genere, totalmente insostenibile, non è in alcun modo possibile offrire un prodotto di qualità. La soluzione è perciò quella di investire più sulla qualità e meno sulla quantità, portando avanti l’eccellenza italiana, visto che come Paese relativamente piccolo questo dobbiamo fare, non certo immaginare di poter vincere le sfide commerciali globali in termini di quantità. Il discorso relativo al prezzo del vino è emblematico in tal senso: pagando il mosto a 1,55 euro, come si può pensare di vendere il prodotto finito ad appena 1 euro in più? Ecco che allora si comprano vini di dubbia provenienza a 25 centesimi, con la connivenza di chi dovrebbe controllare la filiera della qualità e che invece volge la testa da un’altra parte facendo finta di niente, ancora una volta per un tornaconto personale. In altri Paesi, in primis come sempre in Francia, è stata portata avanti una politica capace di rigorosamente valorizzare il terroir e tutte le rispettive caratteristiche di conformazione del territorio, vedi il caso dell’Alsazia per esempio. Qui in Italia, invece, ormai ogni bianco frizzante è definito “Prosecco”, il che rappresenta davvero una follia, con conseguente, totale svalutazione del marchio e del territorio. Qual è la sua opinione a riguardo e quali le concrete proposte per fornire più rigore qualitativo all’intera filiera produttiva del vino? È soprattutto la zona di Valdobbiadene e di Conegliano a soffrire maggiormente di questa stortura. Il problema è che tra DOC e DOCG non c’è poi tanta differenza e a livello imprenditoriale e politico non si è mai spinto sul serio per creare un’autentica nicchia di qualità. Penso, ad esempio, al caso del Cartizze, che quest’anno non ha dato i risultati sperati un po’ certo per la tempesta che c’è stata, ma più di un po’ anche per non aver saputo compiere sforzi efficaci nella promozione del territorio. Se viene giù grandine a Valdobbiadene non può esserci uva per il Prosecco: come si spiegano allora le vendite accresciute rispetto agli anni precedenti? Da dove potrà mai provenire l’uva? È evidente 102

che c’è qualcosa che non va. Anche la proposta di abbandonare il nome “Prosecco” è una pessima idea, tipico modo di risolvere il problema all’italiana, facendo tabula rasa e peggiorando ulteriormente la situazione: ci abbiamo messo più di un secolo a promuovere questa nostra eccellenza nel mondo, che senso ha ora buttare all’aria tutti gli sforzi sin qui fatti? Non si risolve così una crisi! A livello politico, poi, gli errori sono troppi: non posso offrire finanziamenti per piantare vigneti un anno e poi magari l’anno successivo chiedere indietro una quantità maggiore di denaro perché i vigneti piantati sono troppi e quindi vanno sradicati. In questo momento ci troviamo con migliaia di ettari in più rispetto a quelli che dovrebbero esserci. Chi ha permesso tutto questo sbagliando i calcoli deve essere semplicemente mandato a casa o messo a fare altro. L’incompetenza non deve essere tollerata un minuto di più! Quali sono i vostri metodi di coltivazione in un contesto che registra immancabili polemiche attorno all’utilizzo di pesticidi? Personalmente, pur non arrivando al fanatismo imperante oggi, nutro un rispetto ancestrale per la Natura e per i suoi ritmi. La mia famiglia è insediata qui da ormai tre secoli. Un tempo la fauna di questi territori comprendeva lepri e conigli, pernici, quaglie e fagiani, ma da quando sono comparsi alcuni concimi è sparito tutto. Noi non usiamo diserbanti o cose simili, no. Abbiamo piantato

alberi per favorire la nidificazione, scavato dei fossati a circondare le nostre terre e ora vediamo ricomparire alcuni di questi animali, che sembravano non poter tornare più ad abitare queste terre. E invece anche qui, ancora una volta, la Natura ha confermato la propria capacità di guarire sé stessa appena gliene viene data anche una minima possibilità. Utilizziamo le stesse tecniche adottate da mio padre e mio nonno per curare i filari, soprattutto ora che grazie alle nuove tecnologie, attraverso l’utilizzo di nuovi macchinari, possiamo lavorarne due alla volta. Credo davvero che i diserbanti debbano essere eliminati del tutto: ci rendiamo conto o no di quanto queste sostanze nocive penetrino nelle radici delle piante, arrivando poi sulle nostre tavole attraverso il vino che produciamo? Inutile perdersi in dissertazioni filosofiche; basterebbe questo ragionamento elementare per indurci tutti ad abbandonare ora e per sempre queste pratiche scellerate. Personalmente sono contrario anche all’adozione di pratiche cosiddette “biologiche”, molte delle quali prevedono l’utilizzo del verderame, sostanza il cui smaltimento può richiedere tempi infiniti, fino a 400 anni! E non mi riferisco qui ovviamente alla pompetta che utilizzava mio padre portandola sulle spalle, bensì ai trattori con cisterne enormi che effettuano 25-30 trattamenti l’anno. Sono un convinto sostenitore degli ibridi, ossia degli innesti che vengono fatti su diversi vitigni per renderli più resistenti, come nel caso dei nostri Sauvignon, Merlot o


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Cabernet. Si tratta di una tecnica che è in uso dagli anni ’60, non certo di ultima generazione quindi; io ci credo moltissimo, sono stato uno dei primi ad utilizzarla qui da noi. Sono immensamente felice che questo pensiero venga ora condiviso anche dalla nostra enologa Graziana Grassini. In futuro tutti i nostri vitigni saranno ibridi: voglio arrivare a non spruzzare niente di niente cercando di non alterare in alcun modo la Natura, verso la quale nutro un amore viscerale. In una mia tenuta ho fatto realizzare un laghetto diventato poi habitat per più di 5000 rane, che magari mi “daranno una mano” facendo da insetticida naturale. Sono queste le forme di equilibrio da ricercare attraverso progetti, interventi che possano facilitare il nostro lavoro e al contempo rigenerare la natura. Ovviamente è più facile spruzzare veleno una volta al mese che mettersi a curare la pianta dedicandole prezioso tempo, osservandone il comportamento e adattandosi alle sue esigenze. È più comodo per i più, insomma, piegare con queste scorciatoie la Natura al proprio volere. Meno macchinari e molta più passione: la questione è mentale, riguarda una visione del prossimo futuro più aperta, intelligente e anche produttiva in termini di qualità. Un approccio che deve estendersi e applicarsi peraltro a tutti i settori della nostra vita sociale e produttiva, vedi in primis le condizioni di sporcizia in cui ancora versano molte, troppe nostre città. È venuto a mancare il rispetto 104

per l’ambiente che ci circonda e in cui poi noi stessi ci troviamo a vivere, appena messo piede fuori dal nostro cancello di casa. Davvero uno stato di cose che non riesco e non voglio in alcun modo accettare. Possiamo parlare per un anno intero di questo, ma il vero insegnamento si può dare solamente con l’esempio: dovremmo andare per strada io e il sindaco a raccogliere cartacce e bicchieri di plastica, magari chiamando anche qualche privato cittadino ad accompagnarci, meglio se assieme a qualche figlio adolescente. Piccoli grandi gesti simbolici e concreti al tempo, azioni che avrebbero un impatto più forte di cento campagne di comunicazione “corrette”. Da parte mia la disponibilità c’è, anche tra un’ora! Ci illustri un po’ la vostra non certo ordinaria cantina. La nostra tenuta di Nervesa della Battaglia ricorda nella forma un corpo disteso sul terreno e allo stesso tempo, con le proprie salite e discese, rappresenta gli alti e i bassi della vita di ognuno di noi. Quando abbiamo pensato al progetto della cantina, ammetto di non aver badato a spese perché guidato dall’irrefrenabile ambizione di realizzare un desiderio, disposizione che per fortuna posso dire di aver potuto assecondare nella costruzione della gran parte dei nostri edifici. Il dato fondamentale in sede progettuale per me era che la cantina fosse concretamente immersa nel territorio senza

poter essere vista da fuori, con le viti nel periodo di maggior fioritura a nasconderla. Di fatto è, lo posso dire senza falsa modestia, la cantina più moderna d’Europa. E questo non perché siamo più bravi degli altri, ma semplicemente perché abbiamo dispiegato un lavoro di puntuale attenzione in tutti i vari processi progettuali e poi produttivi verso la tutela e la valorizzazione dell’ambiente che ci circonda, attraverso un utilizzo tutt’altro che parsimonioso delle nuove tecnologie e delle nuova modalità costruttive, “costringendole” a un’applicazione all’insegna della più concreta armonia con la natura. Una cantina così sarà bella anche tra 40-50 anni. Quando siamo andati a Venezia alla Soprintendenza per la tutela del paesaggio per ottenere l’approvazione dei lavori, i permessi ci sono stati concessi subito, senza cambiare il progetto di una virgola, anche perché avendo già lavorato in passato con le Belle Arti sapevo quali fossero gli aspetti progettuali più importanti per loro in sede di valutazione, il che mi ha permesso di costruire un percorso progettuale che potesse soddisfare le loro aspettative di “guardiani” del territorio senza stravolgere i nostri desideri, le nostre idee. Ovviamente sarebbe stato possibile realizzare la cantina con un investimento infinitamente minore, ma non sarebbe stato quello che avrei voluto e che secondo me sarebbe durato nel tempo, sia dal punto di vista tecnologico che architettonico.


Alla base delle scelte progettuali che informano la costruzione non di una mera cantina, ma di una idea intrigante e futuribile di cantina, vi è sempre quella che io considero il cardine di ogni scommessa imprenditoriale, vieppiù quando si ha a che fare con un particolare tipo di prodotto quale è sicuramente il vino: contribuire a far sì che un settore, in questo caso direi di più un territorio, sia in grado di costruire le sue credenziali per guadagnare un’alta reputazione in termini di qualità a livello globale, inducendo, stimolando i competitor di casa a elevare la cifra della loro qualità produttiva e di immagine, costruendo così insieme un sistema vincente scevro da gelosie e stupidi particolarismi. Solo così si può immaginare di competere con gli altri sistemi internazionali che caratterizzano i più organizzati territori del vino. Un’impresa difficile, certo, soprattutto in contesti in cui la mentalità provinciale ha radici profonde, eppure obbligata. Con i miei terreni io posso produrre circa 2 milioni e mezzo di bottiglie. Al momento ne vendiamo circa 500.000 all’anno e stiamo crescendo. Se non fosse scoppiata la crisi pandemica saremmo di sicuro arrivati a quota 750.000 quest’anno. Ma non importa, so che è solo una questione di tempo, perché quando si lavora guidati da lucide visioni i risultati quasi sempre arrivano. E poi se fossi stato guidato dall’esclusivo interesse del profitto puro e rapido avrei continuato ad investire all’estero,

dove peraltro ho comunque continuato a lavorare anche nell’ultimo periodo. Ma questo è un progetto diverso. Certo, dev’essere anche questo un business, però qui c’è un dato più, diciamo così, fondativo. A costo di ripetermi, lo ribadisco forte e chiaro: è necessario investire sul territorio e spingerlo oltre i propri confini geografici, senza campanilismi e con la voglia di collaborare mettendo da parte gelosie e rancori. Sono un imprenditore abituato a vincere; di solito porto l’asticella non ad un’altezza comoda per me, a molti centimetri più in alto da quella che già ho saputo saltare prima, convinto comunque di poterla superare. Spero che lo stesso spirito animi l’impegno anche di altri che qui lavorano nel nostro stesso settore. Io so di farcela a saltare oltre certe altezze, ma so anche che insieme salteremmo tutti più in alto ancora. Lavorerò forte per questo, garantito, nella piena convinzione che attraverso l’impegno e la passione ognuno di noi può arrivare dove vuole. Prima ha parlato di un suo interesse per il collezionismo d’arte. Da dove nasce questa passione? Da piccolo amavo dipingere, anche se questa cosa non piaceva molto a mio padre, il quale mi esortava con parole nemmeno troppo dolci ad andare a lavorare anziché perdere tempo in quelle che lui considerava frivolezze. La sento ancora la voce di mio padre che mi rimprovera per la perdita di tempo rappre-

sentata dal “tenere un pennello in mano”, o per avere i capelli leggermente più lunghi del dovuto: per queste ragioni, per queste mie passioni, in sostanza per il mio autentico modo di essere ero considerato una specie di lazzarone. Già allora avevo viva in me la tensione ad andare oltre i recinti angusti di casa, del paese, delle convenzioni provinciali. Nasce allora, pur non essendone naturalmente a quel tempo pienamente consapevole, il mio desiderio di esplorare il mondo, la mia curiosità di andare a vivere in altri paesi con altre culture. Dopo che mio padre è scomparso ho ricominciato a coltivare questo interesse affidandomi ad un maestro di pittura con cui dipingevo nel mio studio in Canada, studiando la materia per cercare di migliorare. Rembrandt è il mio pittore preferito e la mia passione per l’arte è sempre viva e crescente, sia da un punto di vista espressivo personale, del mio dipingere, sia da quello inerente al collezionare. Spero quanto prima di poter organizzare una mostra in cui mie opere e opere da me collezionate dialoghino con questo fascinoso, innovativo luogo del fare vino immersi nella natura, con un allestimento che ripercorra l’intera storia delle tenute, proponendo al visitatore un percorso al contempo parallelo ed intrecciato tra arte e territorio in grado di poter restituire al meglio una storia fatta di amore per il lavoro e di passione per le cose belle. Guardo con interesse anche al cinema. Abbiamo in mente un progetto per la produzione di un film incentrato sulla figura di Donald Gordon Mc Lean, il giovane pilota canadese che il 4 febbraio del 1918 nella sua prima missione di guerra perse la vita proprio in una delle nostre tenute. Morì a soli diciannove anni, mentre combatteva nelle truppe aeree britanniche alleate al fianco dell’Italia contro gli austroungarici e i tedeschi. Era arrivato in Italia il 25 gennaio del 1918, assegnato alla 45° Squadriglia inglese di stanza a Fossalunga di Istrana. Il suo aereo fu abbattuto dopo un breve scontro a fuoco con tre aerei tedeschi. A lui abbiamo dedicato un monumento nella nostra Tenuta Amelia, sul versante nord del Montello: la statua è stata realizzata dall’artista italo-canadese Armando Barbon. La nostra famiglia, in onore di questo giovane pilota canadese, ha finanziato la ricostruzione del biplano inglese Sopwith Camel MT2494, ad opera della Fondazione Jonathan Collection di Nervesa della Battaglia. 105


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FOOD&MARKET a cura di Nadia Frisina

PANE QUOTIDIANO

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Venezia è una città che parla. Lo fa con il rumore dell’acqua, con il verso dei gabbiani, con il vociare delle calli, magari sopito ma non del tutto azzerato, e lo fa anche attraverso la propria toponomastica: Calle del Forno, Calle del Scaleter (“pasticciere” in dialetto veneziano), Calle de le Beccarie (le “macellerie”) rimandano alla vita quotidiana del passato e al cibo, forse davvero l’unica costante che accompagni la vita di una città attraverso i secoli e le umane vicende. Venezia, una storia commestibile di Pierangelo Federici è un racconto delle leggende e delle ragioni storiche che, durante mille anni di storia, hanno condotto a mettere insieme gli ingredienti per creare i piatti della cucina veneziana. Accompagnato da illustrazioni originali di Pietro Ricca, il testo descrive gli aspetti curiosi e in parte inediti di una città unica al mondo e con chiarezza spiega come quelle ricette tradizionali possono essere realizzate oggi a casa di ognuno, nel solco tracciato dalla rubrica Veneziani a Tavola che ogni mese potete trovare proprio qui su «Venezia News», ogni volta alle prese con un’intervista possibile o magari meno, ma solo per motivi strettamente ‘anagrafici’, non certo tematici. Al centro di tutte le interviste, una storia che del cibo ci parla e con il cibo ci parla, raccontando ricette dalle radici ben radicate nella tradizione veneziana, a volte seguendola passo passo e altre invece con facoltà di spaziare tra odori, sapori e stagioni. Venezia, una storia commestibile di Pierangelo Federici Edizioni Lunargento

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otate ormai da secoli alla coltivazione dei terreni a destinazione agro-

alimentare, le splendide Isole della laguna di Venezia regalano alla città copiosi raccolti e prodotti dal sapore davvero inconfondibile. L’abbondanza di sali minerali di questi territori, baciati dal sole e dall’acqua della Laguna, conferisce ai prodotti dell’orto peculiari caratteristiche e un gusto straordinario. Seconda per estensione solo a Venezia, l’isola di Sant’Erasmo vanta terreni dedicati all’agrolagunare ormai da secoli. Noto per le sue eccellenze enogastronomiche, il borgo di Sant’Erasmo si risveglia in questa stagione, ripagando le fatiche dei contadini e deliziando le tavole dei veneziani. Un vero e proprio scrigno sito al centro della Laguna, l’Orto della Serenissima è una meta ambita per gli amanti del biologico, capace di accontentare i palati più esigenti. I verdi campi del borgo sono attraversati da canali, da macchie di alberi e da terreni argillosi, che vengono spesso sommersi dalle alte maree e dai moti ondosi.


L’ORTO DELLA SERENISSIMA È SEMPRE IN ZONA VERDE L’abbondante raccolto di ortaggi e di carciofi riaccende l’entusiasmo nelle Isole della Laguna IL MIELE DI BARENA

PROPRIETÀ BENEFICHE DEL CARCIOFO

IL CARCIOFO VIOLETTO

IN CUCINA VINCE LA MAMMA

Proprio in questi terreni, sabbiosi e salmastri, ha vita una ricca vegetazione autoctona, unica nel suo genere e legata alla terra emersa e alla Laguna. Tra le piante più famose il limonium, conosciuto anche come “fiorella di barena”. Durante l’estate, quando la pianta si riempie di fiori, gli apicoltori trasferiscono le proprie arnie dalla collina alla laguna: da questa apicultura nomade nasce l’ormai rarissimo miele di barena. Paradiso per gli chef, l’isola di Sant’Erasmo offre una ricchissima varietà di frutta e verdura, con la produzione di prelibati prodotti come cipollotti, asparagi, melanzane, fiori eduli e il famosissimo carciofo violetto. Durante la seconda domenica di maggio (in periodo ordinario e non di Covid) il borgo di Sant’Erasmo fa festa e celebra questo straordinario prodotto, tenero e spinoso, dalla forma allungata e dal colore viola cupo, una vera prelibatezza. I veneziani adorano il carciofo a tal punto che della pianta non buttano via proprio niente, dalle castraure ai botoi, dai cuori ai cardi; la pianta del carciofo viene esaltata da antiche ricette della tradizione veneta in tutte le sue forme.

CASTRAURE E BOTOI

I prodotti agroalimentari di Sant’Erasmo raggiungevano il mercato di Rialto a bordo di imbarcazioni chiamate caorline, spinte un tempo dalla forza delle braccia dei vogatori. La corsa oggi è per accaparrarsi le preziose castraure, il primo fiore del carciofo, che viene sapientemente reciso per consentire lo sviluppo di ulteriori carciofi laterali chiamati botoi, recisi anch’essi in boccio. Dal sapore tenerissimo, le castraure sono disponibili solo per pochi giorni e il loro numero è limitato e oggetto di una vera e propria disputa per contendersi il maggior numero di esse, rivendute a caro prezzo agli estimatori della delizia. Nei bacari, le antiche osterie di Venezia, le castraure si gustano lesse e condite con un filo d’olio, aglio, prezzemolo e pepe.

Cynara per gli antichi Romani e articiochi in dialetto veneziano, l’origine dell’attuale nome non è né greca né latina, ma araba: “al-kharshuf” oppure “harsciof”, che letteralmente significa “pianta spinosa”. I carciofi sono un vero e proprio toccasana per il nostro organismo. Il potassio, il ferro e le fibre aiutano i processi biliari depurando il nostro organismo. I carciofi in cucina sono una questione di famiglia. Tra le tante ricette trionfa ancora la ricetta della mamma. Mia madre li prepara in tegame. Dopo averli ben mondati in acqua acidula, rimuove le foglie esterne e ne recide le punte e poi prepara un soffritto con olio di oliva e aglio. A questo punto dispone i carciofi a testa in su, sul fondo di una pentola larga. Tra le foglie dei carciofi inserisce dei pezzetti di formaggio pecorino, delle lamelle d’aglio, un po’ di pepe nero in grani e una spolverata di pangrattato. Irrora il tutto con brodo caldo, copre con un coperchio e lascia cuocere i carciofi a fuoco lento per circa un’ora e mezza, facendo attenzione di aggiungere del brodo quando serve se il fondo si dovesse asciugare troppo. Il risultato vi assicuro è una vera prelibatezza!

L’ERBA DEL VICINO È SEMPRE LA PIÙ VERDE

In circa mezz’ora di vaporetto da Venezia si raggiungono Sant’Erasmo e le Isole della Laguna, ed è un piccolo viaggio sempre piacevole. Eppure approdare sulle Isole della Laguna è di per sé un viaggio, sembra quasi di entrare in un’altra dimensione, dove a dominare è il verde, la tranquillità della campagna, la semplicità della gente, che con sapienza interpreta e asseconda i ritmi della natura, vivendo in simbiosi con essa. La storia della Laguna si intreccia con la vita della sua gente, in un ritmo dinamico e incessante che si ripete e si rinnova. Un legame indissolubile quello tra i veneziani e la Laguna che dalla preistoria arriva fino ai giorni nostri. 107


A MAJEST IC SE T T IN G FOR CONTE M PO RA RY C UISIN E

©2021 Marriott International, Inc. All Rights Reserved. All names, marks and logos are the trademarks of Marriott International, Inc., or its affiliates.

Apotheosis of taste, beauty, and style, with unmatched panoramas over the Venetian lagoon. Join us for a delightful tasting journey of indigenous and seasonal ingredients, and aromas that recall the city’s heritage trade routes.

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TERRAZZA DANIELI


may-june2021 pag. 110 pag. 114 pag. 115 pag. 116 pag. 119 pag. 120 pag. 123 pag. 124

Un mese di ripartenza nel segno dell’architettura. La città si anima di mostre, eventi, incontri, aprendosi piano piano anche alla fruizione dal vivo. Teatri, sale concerti, spazi pubblici, magnifiche terrazze diventano il nuovo terreno della socialità ritrovata

citydiary

agenda exhibitions urbantrekking etcc... books screenings reservation design&more

109


110

venerdìFriday

sabatoSaturday

:musica

domenicaSunday

sabatoSaturday

Arena di Verona h. 20.30

Tributo a Ennio Morricone

IL VOLO

Auditorium “Lo Squero”, Isola di San Giorgio Maggiore h. 15/17.30

Piano solo “Squero Jazz”

P. 64

sabatoSaturday

DANILO REA

5

Giugno

Al Vapore-Marghera h. 19

World music

ROSITA KÈSS

29

Al Vapore-Marghera h. 12

Jazz-Bossa Nova

MORENO DONADEL PAOLO ANDRIOLO DUO

23

Villa Belvedere-Mirano h. 14.30

Nella cornice di EstOvest Festival, Echidna Cultura presenta un percorso narrativo tra interventi musicali, testimonianze di artisti, creatori e un dialogo tra un ambientalista ed un musicista attorno al tema del Pianeta e della musica che ad esso si ispira.

BIOGRAFIA DEL PIANETA

Al Vapore-Marghera h. 19

Folk-blues

BEDROOM SYMPHONIES

Al Vapore-Marghera h. 12

Pop

CARLOTTA ZENTILINI

22

Al Vapore-Marghera h. 19

Electroacustic

PETER KARP BAND

21 domenicaSunday

lunedìMonday

QUARTETTO DI CREMONA

Viale Cappello 6, Cartigliano www.ticketone.it/artist/nomadi

VILLA MOROSINI CAPPELLO

Parco Belvedere, Mirano www.echidnacultura.it

VILLA BELVEDERE

Rigaste Redentore 2, Verona www.eventiverona.it

TEATRO ROMANO

Via Tommaseo 10, Vittorio Veneto festivaldelle9arti.it

PICCOLO TEATRO DANTE

Fondazione Cini Isola di San Giorgio Maggiore www.cini.it

AUDITORIUM “LO SQUERO”

Piazza Bra, Verona www.comune.verona.it

ARENA DI VERONA

Via Sottovenda, Galzignano Terme anfiteatrodelvenda.it

ANFITEATRO DEL VENDA

Via Fratellli Bandiera 8, Marghera www.alvapore.it

AL VAPORE

INDIRIZZI

Teatro Romano-Verona h. 21.15

Omaggio a David Bowie “Verona Jazz 2021”

PAOLO FRESU Heroes

mercoledìWednesday

30

martedìTuesday

venerdìFriday

lunedìMonday

lunedìMonday

Musiche di Schubert, Haydn

ORCHESTRA DEL TEATRO OLIMPICO ENRICO BRONZI violoncello

14

Ingresso/Ticket € 15/10 Teatro Comunale-Vicenza h. 20

Tiziano Baviera violino Alberto Franchin violino Sara Dambruoso viola Tommaso Tesini violoncello Fabrizio Meloni clarinetto Musiche di Webern, Brahms “Stagione Sinfonica 2020-2021“

QUARTETTO NOÛS

07

Ingresso/Ticket € 5 Palazzo della Ragione-Padova h. 19

Musiche di Dall’Ongaro “Veneto Contemporanea“

violoncello

MARCO ANGIUS direttore FRANCESCO DILLON

04

Ingresso/Ticket € 25/20 Teatro Toniolo-Mestre h. 19.30

Musiche di Schubert, Liszt “La musica ritorna al Toniolo“

EMANUELE SARTORIS pianoforte

pianoforte

MASSIMILIANO GÉNOT

01

Giugno

Ingresso/Ticket € 15/10 Teatro Comunale-Vicenza h. 20

Cristiano Gualco violino Paolo Andreoli violino Simone Gramaglia viola Giovanni Scaglione violoncello Musiche di Bach “Stagione Sinfonica 2020-2021“

Ingresso/Ticket € 5 Teatro Verdi-Padova h. 19

Musiche di Mancuso, Fedele, Castiglioni “Veneto Contemporanea“

PASQUALE CORRADO direttore FRANCESCO D’ORAZIO violino

31

Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 19

Funky-pop-soul

ALICE & THE DANDIES

27 venerdìFriday

sabatoSaturday

FAUST

domenicaSunday

P. 74

martedìTuesday

giovedìThursday

Auditorium C. Pollini-Padova h. 19

Musiche di Schubert “Veneto Contemporanea“

WOLFRAM CHRIST direttore

30

Ingresso/Ticket € 15/10 Teatro Comunale-Vicenza h. 20

Musiche di Poulenc, Stravinski “Stagione Sinfonica 2020-2021“

pianoforte

DAVIDE SANSON direttore ALEXANDER LONQUICH

Ingresso/Ticket € 77 Teatro La Fenice h. 18

Dramma lirico in cinque atti Musiche di Gounod “Stagione Lirica 2020-2021“

FAUST

28

Ingresso/Ticket € 77 Teatro La Fenice h. 18

Dramma lirico in cinque atti Musiche di Gounod “Stagione Lirica 2020-2021“

27

Ingresso/Ticket € 260/27 Arena di Verona h. 20.45

Opera in quattro atti Musiche di Verdi “98. Opera Festival 2021“

AIDA

26

Ingresso/Ticket € 300/27 Arena di Verona h. 21

Melodrammi Musiche di Mascagni, Leoncavallo “98. Opera Festival 2021“

CAVALLERIA RUSTICANA PAGLIACCI

Ingresso/Ticket € 77 Teatro La Fenice h. 18

Dramma lirico in cinque atti Musiche di Gounod “Stagione Lirica 2020-2021“

FAUST

25

agenda MUSICA, CLASSICA, TEATRO, CINEMA


sabatoSaturday

domenicaSunday

giovedìThursday

sabatoSaturday

Teatro Romano-Verona h. 21

Pop d’autore “Rumors Festival”

LA RAPPRESENTANTE DI LISTA

Villa Morosini Cappello-Cartigliano h. 21.30

Musica d’autore

NOMADI

26

Anfiteatro Del Venda-Galzignano Terme h. 21

World music

BOMBINO E ADRIANO VITERBINI

24

wickeddubdivision.bandcamp.com

Live Studio Session

NORTH EAST SKA JAZZ ORCHESTRA & WICKED DUB DIVISION

ONLINE

martedìTuesday

22

Teatro Romano-Verona h. 21.15

Piano Variations on Jesus Christ Superstar “Verona Jazz 2021”

STEFANO BOLLANI

20

Auditorium “Lo Squero”, Isola di San Giorgio Maggiore h. 15/17.30

Piano solo “Squero Jazz”

P. 64

sabatoSaturday

URI CAINE

19

Arena di Verona h. 21

Pop

EMMA

Anfiteatro Del Venda-Galzignano Terme h. 21

Latin-folk-experimental

HELADO NEGRO

6 venerdìFriday

sabatoSaturday

domenicaSunday

lunedìMonday

martedìTuesday

mercoledìWednesday

domenicaSunday

Ingresso/Ticket € 77 Teatro La Fenice h. 19

Musiche di Puccini, Mascagni, Ponchielli

DANIELE CALLEGARI direttore

30

Ingresso/Ticket € 35/45 Teatro La Fenice h. 19

Musiche del repertorio classico

GIOVANI VOCI ALLA FENICE

26

Ingresso/Ticket € 15 Teatro Verdi-Padova h. 19

Musiche di Chopin, Shostakovic “Stagione concertistica 2020-2021“

OLEG CAETANI direttore LUKAS GENIUŠAS pianoforte FRANCESCA TIBURZI soprano ANDREA MASTRONI basso

25

Ingresso/Ticket € 25/20 Teatro Toniolo-Mestre h. 19.30

Musiche di Bach, Taverner “La musica ritorna al Toniolo“

CORO DEL FRIULI VENEZIA GIULIA MARIO BRUNELLO violoncello ANNA MOLARO direttore

24

Ingresso/Ticket € 15/10 Teatro Comunale-Vicenza h. 20

Musiche di Bach, Brahms, Strauss “Stagione Sinfonica 2020-2021“

I FIATI DELL’ORCHESTRA DEL TEATRO OLIMPICO DAVIDE SANSON direttore

23

Ingresso/Ticket € 35 Teatro La Fenice h. 19

Musiche di Mozart, Schubert

ALEXANDER LONQUICH direttore

22

Ingresso/Ticket € 15/5 Palazzetto Bru Zane h. 19.30

Mélodies ed estratti da arie di opera francese

SOLISTI E PIANISTI ACCADEMIA TEATRO ALLA SCALA P. 70

21

:classical

111

martedìTuesday

giovedìThursday

sabatoSaturday

lunedìMonday

martedìTuesday

Ingresso/Ticket € 241/27 Arena di Verona h. 20.45

Riccardo Muti direttore Musiche di Verdi “98. Opera Festival 2021“

AIDA IN FORMA DI CONCERTO

22

Ingresso/Ticket € 15/10 Teatro Comunale-Vicenza h. 20

Musiche di Schubert, Mozart “Stagione Sinfonica 2020-2021“

FILIPPO GORINI pianoforte

21

Ingresso/Ticket € 300/47,50 Arena di Verona h. 20.45

AIDA IN FORMA DI CONCERTO

Riccardo Muti direttore Musiche di Verdi “98. Opera Festival 2021“

Ingresso/Ticket € 15/5 Palazzetto Bru Zane h. 19.30

Mélodies francesi rivisitate in chiave gypsy-jazz

TRIO QUAI DES BRUMES AMF STRING QUARTET

19

Palazzo della Ragione-Padova h. 19

Musiche di Mozart “Veneto Contemporanea“

GÉRARD KORSTEN direttore

17

Ingresso/Ticket € 25/20 Teatro Toniolo-Mestre h. 19.30

Musiche di Corelli, Albinoni “La musica ritorna al Toniolo“

PAOLO POLLASTRI oboe QUINTETTO ANEDDA

Ingresso/Ticket € 17,25/5,70 Palazzetto Bru Zane h. 19.30

Musiche di Gounod, Massenet, Debussy “Tanti baci da Roma“

pianoforte

OLIVIA DORAY soprano MARINE THOREAU LA SALLE

15

Ingresso/Ticket € 15/10 Teatro Comunale-Vicenza h. 20

“Stagione Sinfonica 2020-2021“

Piazza delle Erbe-Padova www.opvorchestra.it

PALAZZO DELLA RAGIONE

PALAZZETTO BRU ZANE

San Polo 2368 www.bru-zane.com

Via dei Livello 32-Padova www.opvorchestra.it

TEATRO VERDI

Piazzetta Malipiero 1-Mestre www.comune.venezia.it/toniolo

TEATRO TONIOLO

Campo San Fantin 1965 www.teatrolafenice.it

TEATRO LA FENICE

TEATRO COMUNALE

Viale G. Mazzini39-Vicenza www.tcvi.it

Via C. Cassan 17-Padova www.opvorchestra.it

AUDITORIUM C. POLLINI

Piazza Bra-Verona www.arena.it

ARENA DI VERONA

INDIRIZZI


112

mercoledìWednesday

:theatro

giovedìThursday

venerdìFriday

P. 81

sabatoSaturday

domenicaSunday

giovedìThursday

In occasione delle celebrazioni dei 1600 anni di Venezia il Teatro Toniolo presenta un ciclo di conferenze online

UNA FAMIGLIA DI TEATRANTI: I CASANOVA Dalla Commedia dell’Arte alla nascita del teatro veneziano

ONLINE

27

Teatro Maddalene-Padova h. 16

(vedi mercoledì 19 maggio)

TRITTICO DANTESCO UN PARADISO

23

Teatro Maddalene-Padova h. 18.30

(vedi mercoledì 19 maggio)

TRITTICO DANTESCO UN PARADISO

22

Ingresso/Ticket € 5 Sala Calendoli, Teatro Civico-Schio h. 19.30

giovedìThursday

venerdìFriday

Ingresso/Ticket € 16/11 Sala del Ridotto, Teatro Comunale Vicenza h. 20

Coreografie di Claudio Ronda Compagnia Fabula Saltica Nuovo allestimento 2021 “Danza in Rete”

BALLADES

Ingresso/Ticket € 14/10 Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 20.45

Scritto e diretto da Edoardo Fainello Accademia Teatrale “Da Ponte” “Festival delle 9 Arti”

WELCOME TO PARADISE

11

Piattaforma Zoom h. 17.30 iscrizioni: infocultura@comune.venezia.it

Conferenza online a cura di Alberto Toso Fei (vedi giovedì 27 maggio)

CARLO GOLDONI E CARLO GOZZI, LOTTA PERENNE L’affaire Gratarol e un prete a teatro; Antonio Vivaldi e la rivoluzione musicale

ONLINE

10

Ingresso/Ticket € 5 Teatro Astra-Vicenza h. 20

Creazione di Lucrezia Maimone liberamente ispirata alle opere grafiche di Lorenzo Mattotti “Danza in Rete”

SIMPOSIO DEL SILENZIO P. 81

venerdìFriday

mercoledìWednesday

Ingresso/Ticket € 5 Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 19.30

Spettacolo per bambini di Ponte 4 Kids “Festival delle 9 Arti”

VIOLA E LE PAROLE

30

Ingresso/Ticket € 14/10 Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 20.45

In scena Massimo Rigo Regia di Alberto Giusta “Festival delle 9 Arti”

P. 81

sabatoSaturday IL PROFESSORE

26

Ingresso/Ticket € 5 Teatro Spazio Bixio-Vicenza h. 19

Idea e coreografia di Giselda Ranieri “Danza in Rete – Off”

T.I.N.A. THERE IS NO ALTERNATIVE

25

Ingresso/Ticket € 14/12 Piazzale di Fabbrica Alta-Schio h. 21

CENERE CENERENTOLA

Regia e coreografia di Luciano Padovani Naturalis Labor “Danza in Rete”

Ingresso/Ticket € 5 Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 19.30

ROMEO E GIULIETTA

Adattamento per bambini a cura di Little Shakespeare Company Accademia Teatrale “Da Ponte” “Festival delle 9 Arti”

mercoledìWednesday

23

Ingresso gratuito su prenotazione/Free admission upon reservation Anfiteatro di Palazzo Toaldi Capra Schio h. 17

di Nicolas Grimaldi Capitello “Danza Urbana”

KURUP

Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 20

LA DODICESIMA NOTTE

domenicaSunday

(vedi sabato 19 giugno)

20

h. 12.30/18.35

di Musquiqui Chihying (2020, 28’)

THE SCULPTURE

h. 12/17.20

DE OYLEM IZ A GOYLEM

venerdìFriday di Omer Fast (2019, 24’)

28

Teatrino di Palazzo Grassi

“Lo Schermo dell’Arte Festival”

h. 14.20/19.50

di James Crump (2020, 55’)

SPIT EARTH: WHO IS JORDAN WOLFSON?

h. 14/19.15

di Bruno Moreschi & Gabriel Pereira (2019, 15’)

RECODING ART

h. 12.30/18

di Emily Jacir (2019, 43’)

LETTER TO A FRIEND

h. 12/17.30

di Rudolf Herz (2019, 18’ 46’’)

P. 122

giovedìThursday SZEEMANN AND LENIN CROSSING THE ALPS

27

Fondation Valmont, Palazzo Bonvicini

di Stanley Kubrick (1968) Parallelamente alla mostra Alice in Doomedland una delle sale di Palazzo Bonvicini ospita la proiezione (tutti i giorni, durante l’orario di apertura) del capolavoro di Stanley Kubrick che rafforza ulteriormente l’attrattiva visiva del progetto, trasponendolo in forma cinematografica. Il film esprime insospettabili echi dell’Alice di Lewis Carroll: innanzitutto la loro comune dimensione mitica, in grado di nutrire l’immaginario contemporaneo di più generazioni e capace di assumere carattere di universalità, evocando temi profondi a partire dal geniale inconscio di un unico creatore. Ne consegue che sia per Alice che per 2001, l’opera diventa pretesto per un fervido viaggio estetico, in cui si entra con tutti i sensi e in cui è possibile immergersi secondo le modalità alle quali siamo più sensibili, dando vita a opere-fiume e opere-monumento che danno vita a nuovi mondi composti da sorprendenti dialoghi.

P. 49

giovedìThursday

2001: ODISSEA NELLO SPAZIO

22

:cinema

di Nicolò Targhetta Con Marco Zoppello e Michele Mori Stivalaccio Teatro “Segnali di Primavera”

NON È SUCCESSO NIENTE

Teatro Maddalene-Padova h. 18.30

(vedi mercoledì 19 maggio)

TRITTICO DANTESCO UN PARADISO

venerdìFriday

sabatoSaturday

5

21

(vedi mercoledì 19 maggio)

Teatro Maddalene-Padova h. 18.30

Concept, coreografia e costumi Nicola Galli Musiche di Banchieri, Henry, Ligeti, Penderecki, Radigue, Xenakis “Danza in Rete”

DE RERUM NATURA

Ingresso/Ticket € 5 Sala Calendoli, Teatro Civico-Schio h. 19.30

di Italo Calvino Con Matteo Cremon “Segnali di Primavera”

UN RE IN ASCOLTO

4

Ingresso/Ticket € 5 Sala del Ridotto, Teatro Comunale Vicenza h. 20

TRITTICO DANTESCO UN PARADISO

20

Ingresso/Ticket € 20/12 Teatro Maddalene-Padova h. 18.30

di Fabrizio Sinisi Con gli attori della Compagnia Giovani del Teatro Stabile del Veneto Regia di Fabrizio Arcuri

TRITTICO DANTESCO UN PARADISO

19

agenda MUSICA, CLASSICA, TEATRO, CINEMA


113

venerdìFriday

sabatoSaturday

giovedìThursday

Piattaforma Zoom h. 17.30 iscrizioni: infocultura@comune.venezia.it

Conferenza online a cura di Alberto Toso Fei (vedi giovedì 27 maggio)

CARLO GOLDONI E CARLO GOZZI, LOTTA PERENNE L’affaire Gratarol e un prete a teatro; Antonio Vivaldi e la rivoluzione musicale

ONLINE

03

Giugno

Ingresso/Ticket € 6,5/5 Teatro Astra-Vicenza h. 20.30

di e con Paola Rossi e Carlo Presotto “Ritorno in famiglia”

COMINCIA A CORRERE

29

Ingresso/Ticket € 10 Teatro Astra-Vicenza h. 20.30

di e con Marta Dalla Via “Ritorno in famiglia”

RIFLESSIONI SUL COMICO

Ingresso/Ticket € 5 Sala Calendoli, Teatro Civico-Schio h. 19/20.30

di e con Anna De Franceschi Musica e suono Michele Moi Stivalaccio Teatro “Segnali di Primavera”

FULL METAL GINGER

28

Piattaforma Zoom h. 17.30 iscrizioni: infocultura@comune.venezia.it

legate alla storia del teatro veneziano orchestrato dallo scrittore veneziano, Alberto Toso Fei. Gli approfondimenti si tengono su piattaforma Zoom e analizzeranno la storia curiosa e minimale del teatro veneziano e dei protagonisti che ne fecero le fortune, oltre a una serie di aneddoti gustosissimi e sconosciuti al grande pubblico. Tre momenti dal vivo nei quali vi sarà la possibilità di interloquire con il pubblico: dalla Commedia dell’Arte alla “televisizzazione” del teatro veneziano con Cesco Baseggio, passando per Gozzi e Goldoni, Ruzante e Gallina e raccontando mille divertenti aneddoti sulla vita teatrale veneziana, senza dimenticare i grandi teatri in città, la sfera musicale, inscindibilmente legata ai teatri cittadini.

sabatoSaturday

domenicaSunday

sabatoSaturday

Ingresso/Ticket € 5 Sala del Ridotto, Teatro Comunale Vicenza h. 20

Coreogeafia e regia di Nicolas Grimaldi Capitello Performer Eleonora Greco, Nicolas Grimaldi Capitello e Francesco Russo “Danza in Rete – Off”

REMEMBER MY (LOST) FAMILY

Ingresso/Ticket € 5 Sala del Ridotto, Teatro Comunale Vicenza h. 18

Coreogeafia e danza di Pablo Girolami Danza di Giacomo Todeschi (versione estesa) “Danza in Rete – Off”

MANBUHSA

Ingresso gratuito su prenotazione/Free admission upon reservation Palazzo Chiericati- Vicenza h. 17

Ideazione e coreografia di Fabrizio Favalei Danza di Vincenzo Cappuccio “Danza Urbana”

THE HALLEY SOLO

Ingresso/Ticket € 14/10 Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 20.45

Adattamento e regia di Edoardo Fainello Accademia Teatrale “Da Ponte” “Festival delle 9 Arti”

LA DODICESIMA NOTTE

19

Ingresso/Ticket € 10 Sala del Ridotto, Teatro Comunale di Vicenza h. 20.45

di e con Chiara Frigo “A Casa Nostra”

HIMALAYA_DRUMMING

di e con Silvia Gribaudi

A CORPO LIBERO

Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 20.45

(vedi venerdì 11 giugno)

WELCOME TO PARADISE

13

Piccolo Teatro Dante-Vittorio Veneto h. 20.45

(vedi venerdì 11 giugno)

WELCOME TO PARADISE

12

Via Goffredo Mameli 4, Vicenza teatrospaziobixio.com

TEATRO SPAZIO BIXIO

Via S. Giovanni di Verdara 40-Padova www.teatrostabileveneto.it

TEATRO MADDALENE

Viale Giuseppe Mazzini 39, Vicenza www.tcvi.it

TEATRO COMUNALE DI VICENZA

Via Pietro Maraschin 19-Schio teatrocivicoschio.net

TEATRO CIVICO

TEATRO ASTRA

Contrà Barche 55-Vicenza www.teatroastra.it

Via Tommaseo 10, Vittorio Veneto festivaldelle9arti.it

PICCOLO TEATRO DANTE

INDIRIZZI

Ingresso/Ticket € 5 Sala del Ridotto, Teatro Comunale di Vicenza h. 20

Ideazione, coreografia e danza di Chiara Frigo, Silvia Gribaudi “A Casa Nostra”

MEMORIE DI INTIME RIVOLUZIONI

F.A.Q. LAB

Performance collettiva ideata da Andrea Rampazzo

sabatoSaturday

Campo San Samuele www.palazzograssi.it

TEATRINO DI PALAZZO GRASSI

Palazzo Bonvicini Calle Agnello, San Polo 2161 fondationvalmont.com

FONDATION VALMONT

INDIRIZZI

Teatrino di Palazzo Grassi

“Lo Schermo dell’Arte Festival”

h. 14.30/19.30

KALA AZAR

di Janis Rafa (2020, 91’’)

h. 12.40/18.10

di Ben Anthony (2020, 53’)

KEITH HARING: STREET ART BOY

h. 12/17.30

HAUNTING

domenicaSunday di John Menick (2020, 32’)

30

Teatrino di Palazzo Grassi

“Lo Schermo dell’Arte Festival”

h. 14.30/19.40

di Serge July, Daniel Ablin (2018, 52’)

#JR

h. 13.45/19

di Dani Gal (2020, 34’)

THREE WORKS FOR PIANO

h. 12.50/18.20

BECOMING ALLUVIUM

di Thao Nguyen Phana (16’ 40’’)

h. 12.20/17.50

di Flatform (2020, 24’)

HISTORY OF A TREE

h. 12/17.30

di Anna Franceschini (2019, 14’ 47’’)

BUSTROFEDICO

29

Teatrino di Palazzo Grassi

“Lo Schermo dell’Arte Festival”

h. 14/19.30

AALTO

di Virpi Suutari (2020, 103’)


exhibitions IN VENICE

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI VENEZIA

Between space and surface Arthur Duff, Ludovico Bomben, Francesco Candeloro 21 maggioMay-11 settembreSeptember Magazzino del Sale 3, Dorsoduro 423 www.accademiavenezia.it

ALMA ZEVI

Luisa Lambri / Bijoy Jain (Studio Mumbai) 14 maggioMay-31 luglioJuly Salizada San Samuele San Marco 3357, 3208

BIBLIOTECA NAZIONALE MARCIANA

Leon Löwentraut. Leonismo a Venezia

22 maggioMay-27 giugnoJune Sale Monumentali, Piazza San Marco 13/a

CASA DEI TRE OCI

Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003

FONDATION VALMONT

GALLERIA ALBERTA PANE

22 maggioMay 27 febbraioFebruary, 2022 Palazzo Bonvicini Calle Agnello, Santa Croce 2161A

22 maggioMay-24 luglioJuly Calle dei Guardiani, Dorsoduro 2403H

Alice in Doomedland

FONDAZIONE BEVILACQUA LA MASA

Elena Cologni Pratiche di cura, o del cur(v)are

17 maggioMay-4 luglioJuly Palazzetto Tito, Dorsoduro 2826

FONDAZIONE EMILO E ANNABIANCA VEDOVA

Baselitz. Vedova accendi la luce 20 maggioMay-31 ottobreOctober Magazzino del Sale Zattere, Dorsoduro 266

FONDAZIONE GIORGIO CINI/1

EST. Storie italiane di viaggi, città e architetture

13 maggioMay-9 gennaioJanuary, 2022 Fondamenta delle Zitelle, Giudecca 43

12 maggioMay-8 luglioJuly Sala Carnelutti Isola di San Giorgio Maggiore

COLLECTIVE GALLERY PROJECT

FONDAZIONE GIORGIO CINI/2

Maurizio Pellegrin

The Red, The Black and the Other Galleria Michela Rizzo 02 giugnoJune-7 agostoAugust Gestures: Works on Paper Galleria Marignana Arte 02 giugnoJune-24 luglioJuly Also, the Elephants Travel to Venice Nuova Icona 02 giugnoJune-7 agostoAugust Galleria Michela Rizzo, Giudecca 800 Q Galleria Marignana Arte, Dorsoduro 141 Nuova Icona, Oratorio di San Ludovico Calle dei Vecchi, Dorsoduro 2552

COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM

Palazzo Venier dei Leoni DaFrom 26 aprileApril Dorsoduro 701

CONCILIO EUROPEO DELL’ARTE

BORGOALIVE!

22 maggioMay-21 novembreNovember InParadiso Art Gallery Giardini della Biennale, Castello 1260

EUROPEAN CULTURAL CENTRE

TIME SPACE EXISTENCE 22 maggioMay-21 novembreNovember Palazzo Bembo Riva del Carbon, San Marco 4793 Palazzo Mora Strada Nova, Cannaregio 3659 Giardini della Marinaressa, Castello

FONDACO DEI TEDESCHI

Maarten Baas. Second Act

Venezia è tutta d’oro. Tomaso Buzzi: disegni fantastici 1948-1976 20 maggioMay-1 agostoAugust Biblioteca del Longhena Isola di San Giorgio Maggiore

FONDAZIONE GRIMANI DELL'ALBERO D'ORO

Palazzo Vendramin Grimani

Apertura ufficialeOfficial opening 24 maggioMay San Polo 2033

FONDAZIONE PRADA

Peter Fischli. Stop Painting

FinoUntil 24 luglioJuly Dorsoduro 141

14 maggioMay-12 settembreSeptember Santa Maria Formosa, Castello 5252

FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA/2

Un’evidenza fantascientifica. Luigi Ghirri, Andrea Zanzotto, Giuseppe Caccavale

Re Make. Prix W 2020 Winning projects. The Château de la Tour d’Aigues

FONDAZIONE WILMOTTE

21 maggioMay-21 novembreNovember Galleria, Fondaco degli Angeli Cannaregio 3560

Mara Fabbro e Alberto Pasqual. È per sempre

7 maggioMay-31 agostoAugust San Marco 4303

PALAZZO FRANCHETTI

Massimo Campigli e gli Etruschi. Una pagana felicità

22 maggioMay-30 settembreSeptember ACP, San Marco 2842

FinoUntil settembreSeptember Calle dei Calegheri, San Marco 2566

PALAZZO GRIMANI

»ERA – È – SARÀ« I 40 anni de La Galleria GALLERIE DELL’ACCADEMIA

Il ‘nuovo’ corridoio Palladiano

DaFrom 26 aprileApril Campo della Carità, Dorsoduro 1050

Georg Baselitz. Archinto

19 maggioMay-27 novembreNovember Ramo Grimani, Castello 4858

PALAZZO MORA/1

When Art Meets Architecture in TIME SPACE EXISTENCE

GALLERY CASTELLO 925

20 maggioMay-21 novembreNovember ECC - Palazzo Mora Strada Nova, Cannaregio 3659

22 maggioMay-21 novembreNovember Fondamenta San Giuseppe, Castello 925

PALAZZO MORA/2

Marco Agostinelli. QVA QuaranTime Video Art and New Generation IKONA GALLERY

Francesco Barasciutti Spazialità minima, an ongoing project

FinoUntil 11 luglioJuly Campo del Ghetto Novo Cannaregio 2909

LE STANZE DEL VETRO/1

L’Arca di vetro La collezione di animali di Pierre Rosenberg FinoUntil 1 agostoAugust Isola di San Giorgio Maggiore

M9/1

Museo del ‘900

Arte al Kilo

Venezia panoramica. La scoperta dell’orizzonte infinito

PALAZZO CONTARINI DEL BOVOLO

1GALLERIA VAN DER KOELEN

FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA/1

FONDACO MARCELLO

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Nancy Genn: Inner Landscapes

DaFrom 26 aprileApril Via Giovanni Pascoli 11, Venezia Mestre

14 maggioMay-17 ottobreOctober Santa Maria Formosa, Castello 5252

20 maggioMay-31 ottobreOctober Calle del Traghetto, San Marco 3415

GALLERIA MARIGNANA

22 maggioMay-21 novembreNovember Ca’ Corner della Regina Santa Croce 2215

20 maggioMay-21 novembreNovember Calle del Fontego dei Tedeschi Ponte di Rialto

Wallace Chan. TITANS: Un dialogo tra materiali, spazio e tempo

Gayle Chong Kwan. Waste Archipelago

MARINA BASTIANELLO GALLERY FinoUntil 30 giugnoJune Mercato San Michele, via Francesco Scipione Fapanni 35-21, Venezia Mestre

OCEAN SPACE/1

Territorial Agency: Oceans in Transformation FinoUntil 29 agostoAugust Chiesa di San Lorenzo, Castello 5069

OCEAN SPACE/2

The Soul Expanding Ocean #1: Taloi Havini

FinoUntil 17 ottobreOctober Chiesa di San Lorenzo, Castello 5069

PALAZZO CINI

L’Ospite a Palazzo. San Giorgio e il drago di Paolo Uccello

28 maggioMay-1 novembreNovember San Vio, Dorsoduro 864

GHETTO: Sanctuary for Sale in TIME SPACE EXISTENCE

20 maggioMay-21 novembreNovember ECC - Palazzo Mora, Strada Nova, Cannaregio 3659

PUNTA DELLA DOGANA

Bruce Nauman: Contrapposto Studies

23 maggioMay-9 gennaioJanuary, 2022 Dorsoduro 2

V-A-C ZATTERE

Non-Extractive Architecture: Progettare senza estinguere

FinoUntil 31 gennaioJanuary, 2022 Dorsoduro 1401

VENICE DESIGN BIENNIAL

Design as Self-Portrait Past Forward. Designers from the Land of Venice

Pretziada: A Self-Portrait in Design 20 maggioMay-27 giugnoJune Design as Self-Portrait SPARC* Spazio Arte Contemporanea Campo Santo Stefano, San Marco 2828A SPUMA Space for the Arts Fondamenta San Biagio 800R, Giudecca Past Forward. Designers from the land of Venice Museo Archeologico Piazza San Marco, Procuratie Vecchie Pretziada: A Self-Portrait in Design Oratorio dei Crociferi Campo dei Gesuiti, Cannaregio 4904

VENICE GARDENS FOUNDATION

Echoes of the Forest. Maria Thereza Alves, Jimmie Durham

19 maggioMay-5 giugnoJune 3-17 settembreSeptember The Human Garden, Serra dei Giardini Reali, San Marco


urbantrekking CHASING FOOTPRINTS IN THE CIT Y

a cura di Mariachiara Marzari

Segni indelebili di modernità In uno spazio urbano come Venezia il tempo “architettonico” sembra essersi fermato. In realtà, a ben osservare architetti di fama internazionale hanno lasciato più di un segno contemporaneo in città. Innesti di estrema eleganza nel pieno rispetto del tessuo ubano. Tracce esemplari TEATRINO GRASSI

Tadao Ando

Tadao Ando sagoma architettonicamente lo spazio contraddistinguendolo come un’opera nuova, che viene di fatto inserita in un contesto storico e che con esso si confronta. Costruito nel 1961, il Teatrino era ormai in stato di abbandono quando nel 2013 François Pinault ha deciso di intervenire con un progetto di trasformazione completa, realizzando un modernissimo auditorium di 225 posti che ospita una programmazione culturale ricca e articolata (proiezioni, concerti, conferenze). Il risultato è un parallelepipedo uniforme ricoperto interamente di marmorino cemento, approccio minimalista tipico dell’architettura di Tadao Ando, che preserva, esaltandolo, lo stato originario dell’edificio.

CHIESA DI SANTA MARTA

Vittorio De Feo

Nei primi anni 2000 la chiesa di Santa Marta, di origine trecentesca, con struttura romanica e mattoni pieni, è stata oggetto di trasformazione da parte dell’Autorità Portuale su progetto di Vittorio De Feo (1928–2002), divenendo sede per nuovi servizi di accoglienza, in grado di ospitare spazi espositivi o per conferenze, una sala proiezioni o un piccolo teatro. Al rigoroso restauro conservativo delle murature antiche, la nuova architettura progettata da De Feo appare come un innesto in legno e acciaio che crea una struttura indipendente e contemporanea in sapiente equilibrio con l’antico.

FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA

Mario Botta

L’intervento di Mario Botta segna un rinnovamento profondo della sede della Fondazione Querini Stampalia, un ampliamento che comporta la riorganizzazione degli spazi dell’intero complesso. Dalla fine del 1994, l’architetto ticinese interviene sulla nuova ala in continuità con il restauro di Carlo Scarpa. Cercati ed espliciti sono i rimandi, nell’essenzialità delle linee, nell’accostamento o nella contrapposizione di materiali e di colori: pietra e metallo, bianco e nero, grigio e rosso. Botta articola tutti i servizi – ingresso, biglietteria, bookshop, caffetteria – intorno a una corte coperta che diviene vero fulcro dell’intero complesso. Il progetto si completa con l’auditorium da 132 posti attrezzato con sofisticate tecnologie.

FONDAZIONE VEDOVA

studio RPBW Renzo Piano Building Workshop

Lo spazio del Magazzino è stato rispettato senza nessun intervento sulle originarie pareti in mattoni né sulle capriate che sostengono la copertura. Sul pavimento in masegni di pietra è stato appoggiato un impalcato in doghe di larice, leggermente inclinato, che accentua la percezione prospettica del Magazzino. Nel fondo sono archiviate, perfettamente allineate in una struttura metallica, le opere. Al centro delle capriate e per quasi tutta la lunghezza del Magazzino è fissato un binario lungo il quale si muovono dieci navette robotizzate, dotate di bracci mobili ed estensibili e di un argano, che prelevano le opere dall’archivio, le portano nello spazio espositivo e le posizionano nel punto previsto. (Movimentazione al momento non attiva a causa dell’allestimento temporaneo per la mostra Baselitz. Vedova accendi la luce).

FONDACO DEI TEDESCHI

Rem Koolhaas, OMA (Office for Metropolitan Architecture)

Nel 2009 il gruppo Benetton, proprietario dell’immobile, commissiona allo studio di Rem Koolhaas la trasformazione in un department store dei 9000 metri quadri dell’antico fondaco costruito nel XIII secolo per ospitare le attività di commercio tra veneziani e mercanti tedeschi. L’intervento di restauro aggiunge elementi contemporanei nel rispetto di una memoria che non si può cancellare ma aggiornare. Un innesto hitech come le scale mobili (oggetto feticcio di Koolhaas) trasporta l’edificio di matrice trecentesca verso il futuro, mentre la terrazza in legno open-air è la versione estesa dell’altana veneziana 2.0. 115


etcc...

INCONTRI, LABORATORI, PRESENTAZIONI

TBA21–ACADEMY’S OCEAN SPACE BIENNALE OPENING PROGRAM

In occasione dell’apertura della 17. Biennale Architettura, Ocean Space organizza incontri, conversazioni passeggiate itineranti, canti popolari veneziani e molto altro, offrendo la possibilità al pubblico di vivere la Chiesa di San Lorenzo in modo diverso e coinvolgente. La partecipazione è gratuita, previa registrazione su www.eventbrite.com.

DESIGN IN PRATICA. PRATICHE DI DESIGN VIRTUOSO

20 maggio h. 10.30

Joe Velluto Studio ripercorre vent’anni di vita professionale con una selezione di progetti, anche inediti, esempio di un design che ha l’ambizioso intento di guidare la forma mentis di chi osserva e compie azioni ogni giorno, attraverso un percorso di otto pratiche che originano dall’ibridazione tra una realtà progettuale concreta e il Nobile Ottuplice Sentiero buddhista.

ARK RE-IMAGINED – THE EXPEDITIONARY PAVILION

20 maggio h. 18

Conversazione con Rashad Salim, in occasione del primo Padiglione Nazionale iracheno alla Biennale Architettura. Salim, artista ed espositore del Padiglione, dialoga con Markus Reymann, direttore di TBA21-Academy, sul progetto Ark ReImagined e la sua presenza a Venezia come il “padiglione di spedizione”. Il progetto infatti ritorna alle origini dell’eredità architettonica irachena, celebrando l’architettura locale, le imbarcazioni e l’ecologia del sistema fluviale Tigri-Eufrate.

OCEANS RISING

21 maggio h. 10-12

Presentazione (anche in diretta streming) del catalogo della mostra attualmente in corso a Ocean Space Territorial Agency: Oceans in Transformation. Oceans Rising che raccoglie saggi, conversazioni e interviste per sottolineare la rapida trasformazione degli oceani.

SKY WITHIN US

21 maggio h. 17

Conversazione tra la curatrice di Ocean Space, Chus Martínez, e il Direttore Markus Reymann sul programma The Soul Expanding Ocean e sulla mostra attualmente in corso The Soul Expanding Ocean #1: Taloi Havini.

THE OTHER SIDE OF THE AIR

22 maggio h. 12

Lo studio di Ben Hakalitz presenta l’installazione sonora Answer to the Call insieme al musicista Ben Hakalitz e all’artista Taloi Havini, che raccontano al pubblico le raccolte sonore e gli strumenti utilizzati per realizzare l’installazione visibile a Ocean Space.

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NOWTILUS

22 maggio h. 18

vera e propria opera d’arte relazionale. Recentemente si è costituito anche il primo studio d’arte Atelier dell’Errore Big in cui alcuni partecipanti al progetto si dedicano professionalmente alle arti visive. Luca Santiago Mora, fondatore e direttore artistico dell’Atelier dell’Errore, illustra la filosofia che si cela dietro un’esperienza in cui l’errore è considerato una grande opportunità e il principale espediente per immaginare nuovi mondi e nuove possibilità.

Per il ciclo Nowtilus. Storie da una laguna urbana del 21esimo secolo, il programma di podcast curato da Enrico Bettinello e Alice Ongaro Sartori, l’appuntamento A Liquid Songbook, dedicato alla musica veneziana e alle canzoni popolari della Laguna. Il progetto prevede una performance a cappella di D’AltroCanto Duo e Maria Bergamo sul repertorio popolare legato ai temi esplorati da Nowtilus, come il rapporto tra la città e l’acqua.

www.guggenheim-venice.it

22 maggio h. 19

ONLINE

BREATHING TOGETHER

Ocean Space ospita Breathing Together. Introducing the Ocean Fellowship 2021, una presentazione degli Ocean Fellows relativa all’installazione di Taloi Havini riflettendo sullo spirito di fratellanza e sui loro approcci polifonici. Ocean Space, Chiesa di San Lorenzo Campo San Lorenzo, Castello 5069 www.ocean-space.org ONLINE

CONVERSAZIONI SULLA FAUNA DEL VENETO

Sciacalli, gatti selvatici, scoiattoli, ma anche aironi, fenicotteri, gru, salamandre, lucertole e trote. Sulla varietà della fauna a vertebrati del Veneto si focalizza il ciclo di incontri organizzato dalla BAS, Biblioteca di Area Scientifica e dal Dipartimento di Scienze Ambientali Informatica e Statistica dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Le conferenze sono gratuite previa iscrizione: bit.ly/3lOr6K5.

INQUADRAMENTO SULLO STATO ATTUALE DELLA FAUNA ITTICA DELLE ACQUE DOLCI

21 maggio h. 15.30 [piattaforma Zoom]

MITI, MUSE E MODELLE: LA GUERRIERA E MADRE FERTILE

24 maggio h. 15 [piattaforma Zoom]

«Non avevo tempo per diventare la musa di qualcuno», affermò l’artista Leonora Carrington. Essere un’artista donna, ovvero affermare il potere di creare immagini e non solo di ispirarle, era già in sé una battaglia. Nel 1941 Leonor Fini dipinge una pastorella-guerriera circondata da un esercito di sfingi, un’alternativa alle raffigurazioni surrealiste del potere femminile. Per tradizione la fertilità viene enfatizzata come fondamento del potere matriarcale, un concetto che si trova negli oggetti provenienti dalla Guinea e dalla Nigeria conservati nella Collezione Peggy Guggenheim e collezionati, per gli archetipi che incarnano, da molti artisti, incluso Pablo Picasso. Il workshop online (riservato ai soci Guggenheim) esamina come le artiste hanno creato una mitologia personale per sfidare le formulazioni del femminile universale grazie alla fusione di più identità.

Interviene Paolo Turin, Bioprogramm.

www.guggenheim-venice.it

11 giugno h. 15.30 [piattaforma Zoom]

ONLINE

I MAMMIFERI ALLOCTONI

Interviene Mauro Bon, Museo di Storia Naturale G. Ligabue di Venezia.

CONSERVAZIONE DI UNA SPECIE PROTETTA, IL CANIS AUREUS

18 giugno h. 15.30 [piattaforma Zoom]

Interviene Luca Lapini, Museo Friulano di Storia Naturale Comune di Udine. bibliobas@unive.it ONLINE

IL BELLO DI SBAGLIARE L’ATELIER DELL’ERRORE Con Luca Santiago Mora

22 maggio h. 15 [piattaforma Zoom]

La Collezione Peggy Guggenheim presenta un incontro di formazione online sull’esperienza artistica dell’Atelier dell’Errore. Fondato nel 2002 come laboratorio di arti visive dedicato ai ragazzi e ragazze della neuropsichiatria infantile dell’Ausl di Reggio Emilia, l’Atelier dell’Errore si è rivelato, nel corso del tempo, una

AFROPEAN BRIDGES 2021

Giunto alla sua terza edizione Afropean Bridges è un ciclo di dialoghi virtuali, incentrato sull’identità degli europei di origine africana, organizzato dall’International Center for the Humanities and Social Change dell’Università Ca’ Foscari Venezia, curato da Shaul Bassi, Igiaba Scego e Vittorio Longhi.

ALESSANDRA DI MAIO & E.C. OSONDU 24 maggio h. 18

Alessandra Di Maio insegna Letteratura inglese all’Università di Palermo. Lavora su studi postcoloniali, migratori, transnazionali e sulla diaspora, con un focus speciale sull’Africa. E.C. Osondu è uno scrittore nigeriano vincitore del Caine Prize e di un Pushcart Prize. È autore di This House is Not For Sale, e della raccolta di racconti, Voice of America. Quando il cielo vuole spuntano le stelle è stato pubblicato in Italia nel 2020.

JOHNY PITTS & SHAUL BASSI

27 maggio h. 18

Johny Pitts è curatore della pluripremiata rivista online Afropean.com, vincitore del premio ENAR (European NetworkAgainst Racism) e autore di Afropean: Notes From Black Europe (pubblicato in italiano come Afropei, EDT, 2020). Shaul Bassi è Direttore del Center for the Humanities and Social Change e professore di Letteratura inglese presso l’Università Ca ‘Foscari. Online sul sito hscif.org/afropean21

UN POMERIGGIO A VILLA MEDICI P. 70

25 maggio h. 18

Nell’ambito del festival Tanti Baci da Roma, Palazzetto Bru Zane presenta la conferenza Un pomeriggio a Villa Medici. Questo incontro fittizio tra i compositori vincitori del Prix de Rome nell’Ottocento (impersonati da Alexandre Dratwicki) e un pensionante del 1975, Claudio Ambrosini, permette di affrontare in modo originale i grandi ideali dell’Académie de France a Roma nel corso degli ultimi due secoli: libertà creativa, scambi culturali tra Francia e Italia, dialogo tra discipline artistiche, inserimento nell’ambiente professionale europeo. Un’occasione per scoprire gli aspetti nascosti di quei soggiorni romani, che non furono sempre idilliaci, tra depressione, rifiuto dello stile accademico, abbandoni e… storie d’amore impossibili. Palazzetto Bru Zane, San Polo 2368 bru-zane.com

LETTURE IN MOVIMENTO

27 maggio h. 17.30

Torna nella Corte dei bambini di M9 l’appuntamento con Letture in movimento, progetto promosso dall’ENS – Ente Nazionale Sordi, rivolto a bambini udenti e non, da 6 a 10 anni. Partendo da una lettura animata a cura di Susi Danesin, tradotta in LIS, i bambini sono incoraggiati da Isabella Moro ad accompagnare e interpretare il racconto con gesti e movimenti del corpo, creando così un momento di condivisione, accessibile a tutti (iscrizione obbligatoria: t. 0410995941 o ufficiogruppi@m9museum.it).

M9 Museo del ‘900, via Pascoli 11-Mestre www.m9museum.it

DENTRO/FUORI Un’esplorazione dei Giardini 5 giugno

Per il ciclo In & Out, uno speciale laboratorio riservato ai soci Family Card della Collezione Guggenheim. I partecipanti saranno sfidati a ricostruire creativamente le diverse idee di interno ed esterno, apertura e chiusura, perimetri e confine, nei diversi spazi dei Giardini della Biennale, attraverso i progetti esposti e i luoghi espositivi. www.guggenheim-venice.it


EACH OF THE TEN ROOMS IS CHARACTERIZED BY A PRECISE IDENTITY. DURING THE RESTORATION, THE HISTORY AND TRADITIONS OF VENICE WERE CAREFULLY PRESERVED, …

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books READINGS & REVIEWS

PAGINE DI ARCHITETTURE The World as an Architectural Project

di Hashim Sarkis and Roi Salgueiro Barrio with Gabriel Kozlowski The MIT Press, 2020 Con un’esposizione abbondante di tematiche, Hashim Sarkis dimostra che per più di un secolo architetti e urbanisti non hanno smesso di progettare possibili organizzazioni e concezioni del Pianeta. Nel fare questo hanno costantemente riflettuto sulle ripercussioni delle diverse correnti estetiche, sociali e politiche e sull’impatto e sui possibili usi delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. In questo senso piuttosto che indulgere nel cliché megalomaniacale dell’“architetto demiurgo”, il libro adotta una posizione di riflessione disciplinare, nella quale considerazioni metageografiche e olistiche testano i limiti delle posizioni etiche ed estetiche. Portare l’architettura ai suoi confini estremi più ambiziosi diventa un’esigente forma di interrogazione che stressa il pensiero architettonico. Nel mostrare quali attitudini si sono rivelate alla scala del mondo come progetto architettonico, il libro cerca di ispirare un rinnovato impegno verso le questioni globali. Nel sottolineare che l’immaginazione spaziale è costitutiva dell’immaginazione sociale si forza il concetto che il pensiero dello spazio può incoraggiare e contribuire a proporre altri modi di immaginare ‘mondi’, che l’architettura deve essere complementare ad altri media e che questo ci può portare ad un più necessariamente collettivo ripensamento del nostro Pianeta.

Lina Bo Bardi. Il diritto al brutto e il SECS-Fàbrica da Pompéia

di Luciano Semerani, Antonella Gallo Clean Edizioni Nel 1982 in riferimento alla mostra al SECS di San Paolo Lina Bo Bardi disse: «Questa piccola mostra è un esempio di diritto al brutto, base essenziale di molte civiltà, dall’Africa all’Estremo Oriente, che non hanno mai conosciuto il ‘concetto’ di bello, campo di concentramento obbligato della civiltà occidentale. Da tutto questo processo è stato escluso qualcuno ancora meno fortunato: il Popolo. E il Popolo non è mai Kitsch». Rivendicare questo diritto è un sovvertimento dei valori borghesi bigotti. Di certo un desiderio di inclusione, di introiezione e appropriazione del mondo è il carattere principale della natura molto femminile di Lina, ed è in questo modo che il brutto entra a far parte della poesia.

L’architettura della città di Aldo Rossi

Le Corbusier Venice Hospital (Case Series)

Il Saggiatore L’architettura come atto collettivo, in cui si uniscono due urgenze umane come l’intenzionalità estetica e la necessità di costruire un ambiente propizio alla vita. Dalla sua prima edizione nel 1966, L’architettura della città è stato il testo che più ha influenzato la riflessione urbanistica, restituendo centralità alla grande questione rimossa della forma, un saggio e insieme la dichiarazione di poetica di uno dei più importanti architetti e intellettuali italiani. Attraverso una rassegna di città ideali e di luoghi reali – da Berlino a Stoccolma, dal foro di Roma all’antico teatro di Arles divenuto un quartiere abitato –, Aldo Rossi costruisce un testo spartiacque della letteratura urbanistica.

Prestel Publishing 2002 L’Ospedale di Venezia, progettato nel 1965 da Le Corbusier e mai realizzato, è l’epitome incontrastato dei Mat-building, una tipologia di edifici a struttura bassa e tentacolare sviluppata alla fine degli anni ‘50 che sta tornando alla ribalta nell’architettura contemporanea. Le Corbusier disegnò l’ospedale analizzando il tessuto edilizio veneziano con particolare attenzione al rapporto tra l’orizzontalità dell’edificio e quella del paesaggio lagunare. L’edificio avrebbe dovuto ‘emergere’ dalla laguna sviluppandosi su tre livelli aventi funzioni diversificate, articolati attorno a un sistema di pieni e vuoti per generare spazi complessi e flessibili.

di Hashim Sarkis

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screenings

LO SCHERMO DELL’ARTE

a cura di Davide Carbone

Per favore, guardate il nostro film sullo schermo più grande possibile e portate tutti quelli che conoscete a vedere tutti i film premiati quest’anno. Tornate al cinema!

Per l’ottavo anno consecutivo, Palazzo Grassi ospita al Teatrino dal 27 al 30 maggio Lo schermo dell’arte Film Festival, progetto unico dedicato alle molteplici interazioni tra cinema e arte contemporanea, con un programma di quindici film, firmati da importanti video-artisti e registi internazionali, selezionati tra i video presentati nell’edizione 2020 del Festival fiorentino, nato nel 2008 e diretto da Silvia Lucchesi. Tutti i film sono a ingresso libero su prenotazione obbligatoria.

Frances McDormand

Giovedì 27 maggio h. 12/17.30

FILM, SERIE, FESTIVAL

SZEEMANN AND LENIN CROSSING THE ALPS

(Rudolf Herz Germania, 2019, 18’46’’) Un viaggio a bordo di un tir che trasporta un gigantesco mezzo busto di Lenin. Il film è una lunga intervista e ci offre, a anni di distanza dalla morte di Szeemann, un ritratto intenso del poliedrico e coltissimo curatore. Venerdì 28 maggio h.14/19

AALTO

(Virpi Suutari, Finlandia, 2020, 103’) La vita e l’attività di uno dei grandi protagonisti dell’architettura e del design, Alvar Aalto, e della sua prima moglie Aino, una coppia che con le sue iconiche creazioni ha definito il segno del design scandinavo. Sabato 29 maggio h.12/17.30

BUSTROFEDICO

(Anna Franceschini, Italia, 2019, 14’47’’) Realizzato come evento speciale per la chiusura del Padiglione Italia della 58. Biennale di Venezia del 2019. Domenica 30 maggio h.12.40/18.10

KEITH HARING: STREET ART BOY

NOMADLAND

di Chloé Zhao (USA, 2020) È successo di nuovo: il vincitore del Leone d’Oro a Venezia ottiene anche l’Oscar come miglior film. In un anno di desertificazione filmica pandemica, le opere più significative sono state facilmente identificate ed in particolare è spiccato Nomadland, film scolpito sul corpo e sul volto della protagonista, sprofondata, suo malgrado, tra gli emarginati della globalizzazione e del turbo capitalismo. La vera carta in più di quest’opera è proprio Frances McDormand: i detrattori potrebbero affermare che il prodotto sia stato studiato a tavolino per consacrare la brava attrice, ma di certo il tragico affresco di questa umanità alla deriva, annientata dalle crisi finanziarie e dalle rivoluzioni tecnologiche, nel lungo crepuscolo del sogno americano, non può lasciare indifferenti gli spettatori. Andrea Zennaro 120

(Ben Anthony, UK, 2020, 53’) Il film è un’immersione nella scena underground della New York degli anni ‘80 nella quale il mondo del rap e dei graffiti si fonde con l’estetica new wave e dove Haring si fa promotore di un’arte accessibile a tutti, composta da un vocabolario figurativo che è diventato ed è tutt’oggi un’icona globale. www.palazzograssi.it


RIFKIN’S FESTIVAL

IL CATTIVO POETA

Sue, addetta stampa cinematografica e Mort Rifkin, suo marito, docente in pensione e appassionato di cinema, decidono di trascorrere una vacanza in Spagna e prendere parte al Festival del cinema di San Sebastian. Come tutti i viaggi, le vicende prenderanno presto una forte piega introspettiva, mettendo in discussione ogni certezza e creandone di nuove, magari apparenti, in un gioco registico sapientemente orchestrato dal tre volte premio Oscar Woody Allen, anche in questo caso ‘ombra’ autobiografica che accompagna tutto il film. Fotografia curata dal grande “scrittore della luce” Vittorio Storaro. Dal 6 maggio

Gli ultimi anni di vita di Gabriele D’Annunzio, magistralmente interpretato da Sergio Castellitto, in un’istantanea dell’Italia fascista e della sua sciagurata alleanza con la Germania nazista, che proprio il comportamento turbolento del Vate mette costantemente a rischio. Giovanni Comini è stato appena promosso Federale, il più giovane che l’Italia possa vantare. Ha voluto così il suo mentore, Achille Starace, segretario del Partito Fascista e numero due del regime. Comini viene subito convocato a Roma per una missione delicata: dovrà sorvegliare proprio D’Annunzio e metterlo nella condizione di non nuocere... Dal 20 maggio

CRUDELIA

COMEDIANS

Il nuovo lungometraggio Disney in live action esplora gli esordi ribelli di una delle più celebri cattive del papà di Topolino: la leggendaria Crudelia De Mon. Ambientato nella Londra punk-rock degli anni Settanta, la pellicola vede una strepitosa Emma Stone nel ruolo della protagonista Crudelia, mentre Emma Thompson è la Baronessa, direttrice di una prestigiosa casa di moda che strappa la giovane Estella dall’oscurità come stilista emergente. La loro relazione mette in moto una serie di eventi e rivelazioni che portano Estella ad abbracciare il suo lato malvagio e a diventare la prorompente, alla moda e vendicativa…Cruella! Dal 28 maggio

Sei persone, esauste e sfiancate dalla loro vita grigia, che aspirano a diventare comici. Dopo aver completato un corso serale sulla stand-up comedy, i sei personaggi devono affrontare la prova finale: salire sul palco. Mentre cercano di far ridere il pubblico nella sala del club, tra gli spettatori siede un esaminatore, incaricato di scegliere soltanto uno tra loro, il migliore, per inserirlo in un programma televisivo. Comedians di Trevor Griffiths è un testo teatrale scritto alla fine degli anni Settanta ed è stato giudicato dalla critica come una delle pièce più riuscite del teatro inglese contemporaneo. Dal 10 giugno

di Woody Allen (USA, 2020)

di Craig Gillespie (USA, 2021)

di Gianluca Jodice (Italia, 2021)

di Gabriele Salvatores (Italia, 2021)

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È PER SEMPRE MARA FABBRO - ALBERTO PASQUAL a cura di Alessandra Santin

7 maggio - 31 agosto 2021 Scala del Bovolo San Marco 4303 Venezia

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reservations VENUES, CLUBS, RESTAURANTS, BACARI

a cura di Fabio Marzari

L’ora di Punta

CLUB DEL DOGE

La terrazza rappresenta una delle migliori esperienze sensoriali della città. Come trovarsi in un dipinto di Canaletto, potendo gustare nel contempo le squisite proposte gastronomiche dello chef Daniele Turco con un servizio impeccabile in grado di rendere indimenticabile il momento. The Gritti Palace campo Santa Maria del Giglio 2467 t. 041794611 www.clubdeldoge.com

CIP’S CLUB Photo Maris Croatto

Photo Maris Croatto

Photo Punta Conterie

Murano: l’isola che c’era e che vuole tornare ad essere protagonista, centro universale della lavorazione del vetro artistico, in profonda crisi di identità da decenni, pur con qualche eccezione virtuosa da parte di imprenditori/maestri vetrai che portano avanti coraggiosamente e caparbiamente il loro lavoro, credendo nella bellezza in primis della loro isola e nella forza dei loro prodotti, molto spesso del tutto equiparabili ad opere d’arte uniche e preziose. Un altro aspetto interessante e poco frequentato riguarda la storia industriale di Murano, in cui esistevano realtà produttive che nei periodi di maggior fulgore occupavano fino a 3000 unità. Esemplare è la storia delle Conterie, che nel 1898 unirono 14 aziende locali per fondare la Società Veneziana per l’Industria delle Conterie, che utilizzerà per la sua produzione un’enorme area di 22.000 mq situata nel cuore di Murano, tra Palazzo Giustinian e la Basilica di San Donato. In origine con il termine “conteria” si intendeva qualsiasi tipo di perla in vetro. Fu a partire dai primi del ‘900 che il termine venne usato per indicare la produzione e la lavorazione di perle che venivano ricavate esclusivamente dal taglio di una canna forata. Il capannone eretto in quest’area fu la sede di una delle società industriali più importanti nella storia dell’isola, tanto da raggiungere 18 forni per l’arrotondamento delle conterie, 3.000 addetti totali (tra il 1940 e il 1970) e 45.000 quintali di perle prodotte. La crisi portò alla chiusura definitiva e all’abbandono del complesso di capannoni e altri edifici da parte delle diverse maestranze nel 1993, anche se di fatto l’azienda chiuse i battenti nel 1986. Dove un tempo si trovavano l’ambulatorio medico della grande fabbrica al piano terra e gli uffici dei dirigenti al piano superiore, una nuova destinazione d’utilizzo totalmente volta alla belle vie ha trovato corpo oggi con Punta Conterie. Le superfici collegate tra loro da una maestosa scala ricoperta di mosaico, interamente recuperata alla sua originaria bellezza grazie ad un fortunato ritrovamento nelle soffitte dell’edificio di alcune scatole di tessere vitree originali, lavorate e tagliate a mano, si aprono in spazi mirabilmente restaurati, con un importante soffitto a cassettoni decorato e con una scenografica terrazza di ragguardevoli dimensioni situata giusto a metà tra il Canale Grande e quello di San Donato. Uno spazio multifunzionale dedicato al design, all’arte vetraria e visiva e all’enogastronomia contemporanea in cui emerge in ogni dettaglio la passione per la storia di Murano da parte di due imprenditori visionari e illuminati, Dario Campa e Alessandro Vecchiato, che si sono assunti il gravoso compito di riportare all’antico fascino questo straordinario sito di archeologia industriale. Dopo un soft opening nel 2019, Punta Conterie è pronta a deliziare i suoi ospiti nelle differenti declinazioni del suo carattere che spaziano da InGalleria, dedicata a progetti espostivi temporanei, a Vetri Restaurant, in cui sperimentare una nuova proposta culinaria di ricerca, da Vetri Bistrot, per un’offerta gastronomica fresca e leggera, a Vetri Café, per pause di gusto salate e dolci con piccola pasticceria di produzione propria, da InGalleria Shop, dove trovare libri, riviste, piccoli oggetti di design, a Fioraio Green Boutique, dove ci si delizia con i profumi e i colori di fiori, piante ed essenze. Un luogo plurale in cui potersi abbandonare al piacere di perdere comodamente lo sguardo tra le architetture lagunari immersi nelle buone pratiche del gusto in una delle più belle terrazze di Venezia e dintorni. Punta Conterie Fondamenta Giustinian 1, Murano - t. 0415275174 www.puntaconterie.com

Impossibile eguagliare la terrazza sull’acqua protesa sul bacino di San Marco. In aggiunta l’iconica accoglienza di uno dei luoghi più esclusivi al mondo per una tavola di raffinata semplicità, legata indissolubilmente alle delizie del vicino territorio. Belmond Hotel Cipriani, Giudecca 10 t. 041240801 www.belmond.com

HARRY’S DOLCI

I piatti che hanno reso celebre la cucina e i cocktail di Harry’s bar nel mondo, serviti con stile unico in una rilassante terrazza affacciata sul canale della Giudecca, in cui il tempo piacevolissimo della tavola fa il pari con il bellissimo paesaggio di contorno. Giudecca 773 t. 0415224844 cipriani.com

LOCANDA CIPRIANI

Un luogo fantastico, una veranda spettacolare, un giardino delicato e mutevole nei colori, sospeso nell’incanto di Torcello. Cucina di tradizione, preparata in maniera superlativa. Non bastano le iperboli per parlare di un locale da provare almeno una volta nella vita! Torcello, Piazza Santa Fosca 29 t. 041730150 www.locandacipriani.com

HOSTARIA IN CERTOSA ALAJMO

Una terrazza con vista metafisica verso la città dagli sguardi infiniti. Un’offerta di cibo sempre capace di mettere d’accordo il km 0, la varietà e la fantasia secondo la filosofia Alajmo. Ottima sosta anche per drink speciali e ricchi spuntini gourmet. La Laguna in versione smart&chic! Isola della Certosa t. 3470787755 www.alajmo.it

DA CELESTE

Il pesce freschissimo preparato secondo i dettami della cucina tradizionale veneziana, rispettando il ciclo delle stagioni. Una terrazza suggestiva e molto accogliente in un angolo autentico di Laguna, in cui lo sguardo ritrova gli orizzonti perduti di un tempo antico. Sestier Vianelli 625, Pellestrina t. 041967355 www.dacelestepellestrina.com

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design&more a cura di Fabio Marzari

#backtolife

#backtolife è un progetto di economia circolare e di empowerment femminile che segna la ripartenza di una nuova stagione al McArthurGlen Noventa di Piave Designer Outlet. Una collezione di 100 borse uniche e numerate, create da Carla Plessi, i cui proventi della vendita saranno destinati in toto alla Casa Famiglia San Pio X di Venezia. Ci parlano dell’iniziativa Renata Allacevich, direttrice della Casa Famiglia, Daniela Bricola, general manager dell’Outlet, e naturalmente Carla Plessi. www.mcarthurglen.it/noventadipiave

RENATA ALLACEVICH

Come è nata e come opera la Casa Famiglia San Pio X? È nata più di 100 anni fa per volere di Pio X e fa parte della Diocesi di Venezia. Nel maggio 1999, dopo un anno di esperienza, alcune coppie veneziane dichiarano al Patriarca Marco Cè la loro disponibilità ad assumere direttamente la responsabilità di Casa Famiglia San Pio X, affiancando il personale professionale che opera nella Casa. Questa modalità di gestione è unica in Italia; altrove troviamo la presenza di singoli volontari che affiancano saltuariamente gli operatori professionali, mentre nella nostra Casa gli sposi, chiamati “familiari”, che prestano la loro presenza collaborano a pieno titolo con gli operatori. Nel tempo la struttura è andata via via migliorando, tanto da ottenere nel 2014 per la prima volta dalla Regione Veneto l’accreditamento istituzionale in qualità di struttura sociale e comunità educativa mamma-bambino, permettendole così di operare a pieno titolo in collaborazione con i Servizi Sociali e Sanitari. 124

Questa bellissima iniziativa ci ha molto stimolato e coinvolto in questi mesi. È stata una grande opportunità, anche se dopo l’entusiasmo iniziale confesso che sono subentrati dei timori sulla tenuta del progetto da parte delle nostre ospiti, particolarmente fragili e vulnerabili. Carla Plessi è stata davvero capace di inserirsi, cosa tutt’altro che scontata, in un mondo diverso da quello che normalmente si è abituati a vivere. Abbiamo coinvolto nel progetto principalmente ex ospiti, persone che già hanno compiuto un tratto importante del loro percorso. Le ospiti attuali non sono ancora pronte, hanno la testa piena d’altro e vogliamo che il loro approccio con la realtà possa avvenire in modo graduale e non traumatico, ripartendo da una progressiva riappropriazione del bello nella quotidianità. È fondamentale circondarsi di bellezza e poterla offrire anche a chi della vita ha conosciuto finora solo grandi privazioni. Da veneziana credo che questo progetto rappresenti una piccola ma importante traccia di città “normale”, che guarda alla ripresa delle sue attività artigianali attraverso il recupero attivo di persone che non chiedono altro che di voltare pagina nel proprio percorso esistenziale.

DANIELA BRICOLA

Come McArthurGlen Noventa di Piave Designer Outlet è entrata nel progetto? Il centro è stato aperto nel 2008, abbiamo una discreta quantità d’anni alle spalle. Ci siamo insediati in un territorio bellissimo che ci piace molto valorizzare e a cui siamo molto legati. Noventa di Piave Designer Outlet conta circa 170 punti vendita, si è sviluppato attraverso cinque fasi, di cui l’ultima completata durante i mesi della pandemia. Viviamo #backtolife come un’aspirazione alla ripartenza, fiduciosi che la prossima estate possa segnare in parte un ritorno alla normalità anche per il nostro business. Tuttavia il settore del turismo avrà bisogno di parecchio tempo prima di ritrovare numeri interessanti dall’Europa centrosettentrionale e dall’area balcanica. Serve inoltre poter riaprire in sicurezza nei fine settimana, nei prefestivi e nei festivi. Abbiamo bisogno di riportare molte persone a visitarci in condizioni di assoluta sicurezza. Per fare ciò abbiamo messo a punto in questo anno e mezzo di pandemia delle buone pratiche di distanziamento per costruire un clima di piena tranquillità per i nostri clienti: per noi la sicurezza viene prima di ogni altra cosa. Il 75% dei nostri dipendenti è di sesso femminile e quasi tutti appartengono alla fascia anagrafica 25/40 anni, quella in cui la disoccupazione femminile è più elevata. Nostro prioritario obiettivo è quindi quello di difendere e valorizzare il lavoro delle oltre 170 aziende presenti a Noventa di Piave Designer Outlet. Siamo un operatore importante che opera commercialmente su un settore di prima rilevanza quale è la moda, ma per noi è fondamentale integrare nel nostro operato la responsabilità sociale, i temi della diversità, dell’inclusione e della valorizzazione del lavoro femminile. Grazie alla disponibilità di Carla Plessi, alla sua creatività e alla sua visione, e grazie alla Casa Famiglia San Pio X, abbiamo dato vita a questo bellissimo progetto di economia circolare: 100 borse che compon-


gono una capsule collection, messe in vendita per un periodo limitato in uno spazio ad hoc che abbiamo messo a disposizione all’interno dell’Outlet. Il ricavato, al netto dei costi di produzione alternativi alle donazioni di materiale fatte da varie aziende – che si sono rese subito disponibili ad assecondare il progetto, aiutando in concreto con la fornitura gratuita di materiale come campionature, fine pezze, tirelle o pellami e soprattutto macchine da cucire –, andrà tutto alla Casa Famiglia. Oggi nella responsabilità sociale d’impresa si parla molto di bellezza. L’aspirazione alla bellezza nelle sue varie accezioni è ritenuta, a ragione, un elemento molto importante. Abbiamo accompagnato nel lavoro le ospiti della Casa Famiglia, che sono ospiti particolari, molto delicate, volubili e fragili, e le abbiamo guidate ad avvicinarsi a un mestiere in cui poter trovare una propria, nuova autonomia. Siamo riusciti ad arrivare in fondo col sostegno delle volontarie della Casa Famiglia e delle ospiti, riuscendo a completare con successo un progetto così delicato e complesso in un momento difficile come questo. Inizialmente lo avevamo congelato, poi posticipato, ma alla fine siamo arrivati al traguardo e questo ci riempie davvero di grande orgoglio. Non vi è successo che non sia frutto di buone sinergie e di buona collaborazione fra tutti i soggetti in campo. E qui l’interazione tra le varie componenti è stata davvero incisiva e fruttuosa. 2014 per la prima volta dalla Regione Veneto l’accreditamento istituzionale in qualità di struttura sociale e comunità educativa mamma-bambino, permettendole così di operare a pieno titolo in collaborazione con i Servizi Sociali e Sanitari. Questa bellissima iniziativa ci ha molto stimolato e coinvolto in questi mesi. È stata una grande opportunità, anche se dopo l’entusiasmo iniziale confesso che sono subentrati

CARLA PLESSI

Come nasce l’idea delle borse solidali? Il progetto ha potuto prendere corpo grazie alla fondamentale collaborazione del Noventa di Piave Designer Outlet. Era il momento successivo all’Acqua Granda del 2019 e mi aveva particolarmente colpito il fatto che Venezia, oltraggiata dalla violenza della natura e soprattutto dall’incuria dell’uomo, non avesse riscosso almeno in un primo momento l’interesse mondiale che avrebbe meritato, come ad esempio era accaduto a Parigi dopo il rogo di Notre Dame a seguito del quale si era scatenata una gara di solidarietà internazionale. Ho pensato così in quel momento che le mie borse e la loro vendita potessero rappresentare un piccolo ma concreto contributo a sostegno della città. Appena messo mano al progetto, il dramma del Covid e l’emergenza conseguente hanno inevitabilmente posto in secondo piano la “questione Venezia”. Ecco perché abbiamo deciso di integrare il progetto con la solidarietà verso la Casa Famiglia, una decisione vincente che ci ha permesso di occuparci di una realtà poco conosciuta contribuendo a darne la dovuta visibilità. La solidarietà e la generosità da parte delle aziende hanno rappresentato un elemento che ha impattato molto positivamente sul nostro lavoro infondendoci una notevole carica di entusiasmo: tutti si sono subito mobilitati per donare con allegria, empatia, senza fare calcoli di convenienza. Tra le varie imprese che hanno aderito al progetto, molte provengono dal Triveneto: i raffinati tessuti d’arredo sono di Rubelli; Peserico e Lardini hanno fornito pregiati tessuti per l’abbigliamento; il cuoio vegetale è stato fornito dalla Conceria friulana Pietro Presot; il broccato proviene dal rinnovo degli interni dell’hotel di charme Ca’ Maria Adele a Venezia; Juki ha donato le macchine da cucire. Forse è un effetto ‘positivo’ del Covid, ma è un fatto che in questi mesi tutti noi abbiamo dovuto guardarci allo specchio, ripensare alle nostre vite, provare a capire come vogliamo

vivere i prossimi anni, se avremo la fortuna di poterli vivere. Questo progetto è diventato uno specchio per le nostre anime, perché ci ha messo a confronto con chi sta peggio, con chi è ammalato, con chi affronta le difficoltà quotidiane della vita. Il primo giorno che sono venuta in Casa Famiglia ero reduce da una notte insonne; mi chiedevo come potessi presentare delle borse a queste donne che avevano così tanto sofferto. Mi è parso subito chiaro, invece, come l’elemento della borsa potesse rappresentare, anche in un contesto così particolare, un tratto di comunanza femminile, perché elemento di sana frivolezza che appartiene a tutte le donne, di tutte le età, di tutti i colori, di tutte le estrazioni, di tutti i vissuti. Tutto ciò mi ha fatto molto pensare al valore della borsa, che in questo caso diventa borsa etica. Il bello è un diritto fondamentale per tutti: quando ti abitui al bello, come dice mio marito (Fabrizio Plessi, ndr), non torni più indietro e ha perfettamente ragione. Ricercando il bello inevitabilmente si migliora. Non ho mai pensato neppure per un momento che non ce l’avremmo fatta, sebbene ci siano stati dei momenti molto difficili. Tutti hanno desiderato intensamente, con tutto il proprio portato umano e fattivo, che questo obiettivo, questo progetto si concludesse positivamente. E così è stato. Non posso non ringraziare tutte le amiche che mi hanno aiutato a raggiungere questo alto scopo con straordinario entusiasmo e concreta collaborazione: è stato un grande regalo della vita. La passione per le borse è nata casualmente. La borsa per me è sempre stata un accessorio molto importante dell’abbigliamento, come del resto per la maggior parte delle donne. Tuttavia mai avrei pensato che a un certo punto della mia vita mi sarei messa a crearne io, di persona. Seguo sempre questo procedimento: non disegno mai prima i modelli, parto dal materiale e li creo. Sono sempre stata affascinata dai materiali, dai tessuti, dalle pelli, che a volte raccolgo nei miei viaggi. In questo progetto però, dato che aziende importanti si sono rese disponibili a donarci le materie prime, non ho scelto personalmente i materiali, impegnandomi esclusivamente in un esercizio di creatività. Un esercizio che mi è molto piaciuto: adattarsi al materiale, dover “piegare un po’ il capo” e cercare di tirar fuori il meglio con quello che avevamo a disposizione è stato un lavoro intrigante. Moltissimi gli aneddoti anche divertenti, soprattutto sorprendenti, che potrei raccontare di questa esperienza di “trasformazione”, in tutti i sensi proprio. Tra tutti, esemplare la storia del secchiello: come è possibile da una suola di scarpe trarre un secchiello? Apparentemente non lo è… Eppure Eugenia Presot è stata capace di addolcire questo materiale piegandolo alle mie esigenze. 125


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staff

Mensile di cultura, spettacolo e tempo libero Numero 251-252 - Anno XXV Venezia, 1 Maggio 2021 Con il Patrocinio del Comune di Venezia Autorizzazione del Tribunale di Venezia n. 1245 del 4/12/1996 Direzione editoriale Massimo Bran Direzione organizzativa Paola Marchetti Relazioni esterne e coordinamento editoriale Mariachiara Marzari Redazione Chiara Sciascia, Davide Carbone, Marisa Santin Speciali Fabio Marzari Grafica Luca Zanatta Distribuzione Michele Negrisolo

Hanno collaborato a questo numero Katia Amoroso, Loris Casadei, Sergio Collavini, Fabio Di Spirito, Federico Jonathan Cusin, Pierangelo Federici, Nadia Frisina, Elisabetta Gardin, Renato Jona, Paolo Lucchetta, Franca Lugato, Andrea Oddone Martin, Daniela Paties Montagner, Giorgio Placereani, Livia Sartori di Borgoricco, Riccardo Triolo, Delphine Trouillard, Luisa Turchi, Andrea Zennaro, Massimo Zuin Si ringraziano Hashim Sarkis, Roberto Cicutto, Alessandro Melis, Michele Bugliesi, Francesco Bruni, Daniela Ferretti, Sergio Risaliti, Daniele Cavalli, Alexandre Dratwicki, Fortunato Ortombina, Tatti Sanguinetti, Giorgio Tacchia, Alberto Toso Fei, Gian Mario Villalta, Ermenegildo Giusti, Carla Plessi, Daniela Bricola, Renata Allacevich, Giandomenico Romanelli, Emanuela Caldirola, Cristiana Costanzo, Claudia Gioia, Francesca Buccaro Traduzioni Andrea Falco, Patrizia Bran Foto di copertina Mario De Biasi, Courtesy Casa dei Tre Oci lo trovi qui: Bookshop Gallerie dell’Accademia; Qshop (c/o Querini Stampalia, Santa Maria Formosa); Alef (c/o Museo Ebraico, zona Ghetto); Mare di Carta (Fondamenta dei Tolentini); Studium (zona S. Marco); Toletta, Toletta Cube e Toletta Studio (zona Campo San Barnaba) e in tutte le edicole della città. Direttore responsabile Massimo Bran Guida spirituale “Il più grande”, Muhammad Alì Recapito redazionale Cannaregio 563/E - 30121Venezia tel. +39 041.2377739 redazione@venezianews.it www.venezianews.it venezianews.magazine

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Redazione Venezianews

Stampa Tipografia Valentini di Valentini Silvano Via D. Gallani 17 - Cadoneghe (Pd) La redazione non è responsabile di eventuali variazioni delle programmazioni annunciate

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