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Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi.

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p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #12: Epilogo (Ivan Pozzoni) p.4 Rachid (Valerio Evangelisti) p.6 Livido – Capitolo I (Francesco Verso) p.8 La villa dell’Aviatore (Alda Teodorani) p.10 Vian (Francesco Aprile) p.11 Box Doccia Idromassaggio (Paolo Gamerro) p.12 SEMIAUTOMATICA #7 (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #18: La canzone della nave (S.H. Palmer) p.14 PIRATERIA SERIALE #4: Dexter 8 (Pierluca D’Antuono)

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it

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dove siamo editoriale

C’è uno spettro che s’aggira per le nostre pagine, un fantasma resistente che abbiamo evocato – un po’ per caso – in ottima compagnia: il passato. Ce ne siamo accorti, come altre volte, alla fine, sfogliando e rileggendo un numero davvero ricco e prezioso, grazie a ospiti speciali e a prime volte importanti. Si apre con Ivan Pozzoni e l’intensa cavalcata di Epilogo; seguono due tra i più bei regali mai fatti aVERDE:l’orgoglio, la vendetta e la passione di Rachid (diValerio Evangelisti) e il primo capitolo di Livido, l’ultimo romanzo di Francesco Verso, vincitore del Premio Odissea Delos Books 2013; c’è un nuovo inedito di Alda Teodorani, che con La Villa dell’Aviatore sorprenderà non poco i suoi lettori; c’è il bel esordio su VERDE di Paolo Gamerro con Box Doccia Idromassaggio. Chiudono le rubriche Semiautomatica (Simone Lucciola), Blitzrecenzion (S.H. Palmer) e Pirateria Seriale (Pierluca D’Antuono). Le illustrazioni del mese sono di Francesco Aprile.


Ivan Pozzoni

Nei miei occhi rovinati dalle cicatrici vedi rabbia, rifiuti tossici urbani, bicchieri di cicuta, ricci di mare con aculei intinti nell’alkermes, stress, cuba libre diluiti nell’acido acetilsalicilico, un contratto, molto vantaggioso, da responsabile sottopagato. Nei miei occhi rovinati dalle cicatrici vedi brindisi sobri a sconfitte ricorrenti, scottanti kebab in città francesi di confine, notorietà immortale su riviste cieche, desideri frustrati d’adolescenti crudeli, canzoni d’amore e d’anarchia (quasi sempre nella vita, d’anarchia), anime diverse ciclotimicamente in divorzio, o in chiaroscuro. Nei miei occhi rovinati dalle cicatrici vedi sbarre, catene di cessi sudici, assalti di rinoceronti albini contro headhunters ubriachi di cocaina o di bellezza, cieli lebbrosi dell’hinterland milanese, bestemmie di magazzinieri delusi dalla vita e dalla logistica distributiva, sentimenti da harem, vodka e cozze marinate. Ma, nei miei occhi rovinati dalla cicatrici trova sangue, chi muore, trova lacrime, chi piange, trova vino, chi ha sete, trova amore, chi non fugge. Arrivederci. Ivan Pozzoni collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2013 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Androgini, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen e Scarti di magazzino con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni; tra 2009 e 2013 ha curato diverse antologie poetiche e volumi di saggistica; tra 2009 e 2012 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis) e Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press). È direttore culturale della Limina Mentis Editore; è direttore de L’arrivista - Quaderni democratici; è direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre Edizioni). VERDE

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TI ODIO POESIA

Epilogo


Rachid Valerio Evangelisti Io, Rachid, nato in Palestina e vissuto in Siria, giuro che mai e poi mai rinnegherò il santo nome di Allah. Sono venuto in Afghanistan come ero stato in Cecenia, per difendere l’Islam dai nuovi crociati che cercano di distruggerlo. Mi sono battuto con onore e mi sono arreso solo quando il nostro comandante mi ha detto di farlo. Gli americani potranno cercare di umiliarmi, ma io conserverò fino all’ultimo la mia dignità. È inutile che adesso, col sacchetto ridicolo che mi hanno messo in testa e con le strisce di plastica che mi feriscono i polsi, tentino di piegare la mia volontà. Un soldato di Allah non si lascia spaventare dal buio, né dall’obbligo di tenere corpo e testa piegati in avanti, né dalle percosse. Resisterò, perché così comanda il Misericordioso. Resisterò anche sull’aereo che mi sta per portare nella terra di Satana. Sono ormai due ore che siamo decollati. Fatico molto a respirare. Ma cosa conta la mia sofferenza? Brucia ancora nella mia mente il ricordo dei fratelli sepolti vivi, a… Laggiù, dietro il carcere. Quanti erano? Cento? Duecento? Alcuni imploravano pietà, ma la maggior parte di loro erano dignitosi. Molti perdevano sangue dalle ferite, e sapevano che comunque non sarebbero sopravvissuti a lungo. I vecchi sembravano rassegnati, però erano pochi. L’età dei più era all’incirca la mia: vent’anni. Gridavano ancora le loro maledizioni, mentre i camion coprivano con la sabbia la fossa in cui erano distesi. A tanti erano state serrate le labbra con un cerotto, ma non a tutti. Chi non poteva pregare o gridare lo faceva con gli occhi. Non credo che i soldati americani capissero parole o sguardi. Osservavano indifferenti, e lasciavano fare ai loro servi afgani. E’ in nome di quei martiri che io, Rachid, terrò duro. In fondo, la ridicola tuta arancione che mi hanno fatto indossare prima di salire in aereo mi torna comoda. Mi ripara dal freddo. Mi dispiace solo di non vedere i miei fratelli in Allah, a causa del cappuccio. Ce n’è uno che urla, forse per una VERDE

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ferita. Alcuni piangono, tuttavia sono pochi. Io li comprendo, è per via dell’età. Sono poco più che bambini. Stare curvi, stretti dalle cinghie e con le ginocchia che urtano la bocca, fa male. Ma cosa conta, dopo tutto quello che ha sopportato la nostra gente? Il mio fratellino è stato uno dei primi a essere uccisi durante l’Intifada, Aveva solo sette anni. Ecco, è a lui, a Mohammed, che dedico il mio sacrificio. A lui e ad Allah, che sia benedetto. Nessuno degli americani parla la nostra lingua. Imprecano nella loro, fatta di sillabe rabbiose, Intuisco che vogliono che stiamo zitti. Forse è per via della voce rauca di un adolescente. Dice che ha bisogno di orinare. Chissà se gli americani lo capiscono. Magari la scambiano per una minaccia. Mi sembra di udire il rumore di uno schiaffo. Il mio bisogno è opposto: vorrei bere. Da quante ore siamo in volo? Direi due o tre. Non ho idea di quanto disti la terra di Satana. Allah lo sa, ed è a Lui che mi affido. Ora tutti abbiamo bisogno di orinare. È passato tantissimo tempo, e il freddo è penetrato sotto la tuta. Le proteste si fanno corali, ma vengono soffocate dai colpi. Gli americani si stanno innervosendo, si direbbe. Io so che è inutile pregarli: non hanno cuore. In Afghanistan, per colpire noi, hanno fatto un’ecatombe. Inutile, non hanno coscienza. Io non li supplicherò mai, nemmeno per pisciare. Che Allah li maledica. Le contrazioni della vescica stanno diventando dolorose. A un tratto sento che l’orina mi cola tra le gambe. Stringo ancora di più le ginocchia, per non darlo a vedere. Ciò che non mi aspettavo era di cominciare a defecare. La diarrea mi cola da dietro e mi immerge nel bagnato. Ciò che accade a me forse sta succedendo a molti, perché il fetore è orrendo. Mi vergogno tantissimo. Gli americani imprecano e picchiano. Anch’io ricevo un colpo dietro la nuca, violentissimo. Ma il dolore conta poco: è la vergogna che mi ferisce. Tutto mi aspettavo salvo l’improvvisa puntura


La nausea è peggio della diarrea e del dolore; ormai persino della vergogna. Tento di trattenere i conati, ma poi il sacchetto che mi serra la testa mi si riempie di vomito. Adesso vorrei sollevarmi. Non ci riesco più. Non riesco a fare nulla, se non vomitare con la gola in fiamme. Ho una percezione molto indistinta di ciò che mi circonda. I suoni mi giungono attutiti.Anche gli odori, ma è che il vomito mi ha ricoperto il naso. Per fortuna mi scivola lentamente lungo il collo, e libera piano il sacchetto. Cerco di aggrapparmi alle immagini forti della mia vita, quelle che mi hanno dato la fede. Mio nonno che stenta a credere che gli israeliani abbiano potuto davvero sradicargli tutte le piante di ulivo. Mia madre che si dispera davanti alla nostra casa distrutta dai bulldozer, con me avvinghiato alle sue gonne. Il cadaverino di Mohammed portato a braccia dai vicini. Evoco anche immagini di vendetta: le due torri della ricchezza abbattute a New York, e gli americani che fanno esperienza di ciò che noi subiamo ogni giorno. Ma c’è poco da fare. Sono visioni vacue, che si perdono nel nulla e non suscitano sentimenti. L’unica realtà che mi rimane è la nausea. Me la porto dietro nell’incoscienza in cui sto sprofondando. Tante punture… credo. Non sono più lucido… Siamo arrivati, credo. Fa un caldo orribile. Mi tolgono il sacchetto di testa per mettermi degli occhiali dalle lenti nere. Per un attimo vedo i miei fratelli. Tutti nudi come me (non sapevo di essere nudo).Tutti coperti di vomito ed escrementi. Rannicchiati su se stessi come scimmie. Forse ci portano alla doccia…

Prima che mi mettano gli occhiali, vedo un uomo che mi sembra enorme. Con una siringa in mano. Dopo… capisco… sempre meno. Sono in ginocchio, in un cortile rovente. Adesso io sono lucido. Stanno per farmi un’altra puntura. Eccomi sveglio, finalmente. Sto curvo in una gabbia. Di nuovo la diarrea. Le sbarre sono roventi, sotto il sole. Io… sono… Rachid, nato in Palestina. Io sono… da una settimana mi impediscono di … dormire… Rachid… Ho deciso di mozzarmi la lingua tra i denti e di soffocarmi da solo… Allah mi… Punture… Punture e diarrea. Nella gabbia. Rachid… dignità… Rchd… dgn. Valerio Evangelisti su Wikipedia

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sul braccio. Non ho dubbi, è una siringa. Ma cosa vogliono farmi? Tento di tenermi fermo, perché l’infermiere, se è un infermiere, fa tremare l’ago. Sento, in tanto freddo, il calore lieve di un rivolo di sangue che mi corre fino all’avambraccio, e poi si dirama tra le dita. Attorno, i più hanno smesso di urlare. Si odono invece colpi di tosse e conati di vomito. In mezzo ai piedi avverto lo scorrere di liquami, certo l’orina e le feci dei miei fratelli. Anche il mio sedile è tutto inzuppato. Iniziata la diarrea, non sono più riuscito a controllarla. Esce ogni tanto, a piccoli fiotti. Il dolore allo stomaco è così forte che non lo avverto nemmeno più. Un sibilo sottile riesce a sovrastare i rumori gorgoglianti che riempiono l’abitacolo. Sembra uno spray. D’improvviso capisco: ci stanno deodorando, oppure disinfettando.

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Livido

Francesco Verso Tutto ciò che ami un giorno ti respingerà o morirà. Tutto quello che hai creato un giorno verrà gettato via. Tutto quello di cui sei orgoglioso finirà in immondizia. Chuck Palahniuk, Fight Club

Setto lo zoom a 10x e la osservo dal picco di Colle Vasto, una delle colline su cui passo le giornate a frugare tra cumuli di spazzatura. Nelle pause per rifocillarmi e ogni volta che non sento più le dita dalla fatica, sprofondo nel sedile da pilota e estraggo il binocolo militare dalla tuta. Alba se ne sta dietro la vetrina dei Cieli Boreali, a duecento metri di distanza, e non si accorge di nulla mentre sceglie una crociera volante per clienti indecisi o un’escursione romantica a coppie desiderose di salvare la loro relazione. Aumento lo zoom a 13x: le sue unghie d’avorio sfogliano i dépliant con tanta grazia che mi pare assurdo come quella stessa carta, impreziosita dal suo profumo, il Revirging, possa finire qui, tra le mie mani lerce di schifezze. Eppure è la stessa materia organica. Eppure mi vergogno a entrare nei Cieli Boreali, catalogo deforme alla mano e mostrarle il viaggio che vorrei fare. Insieme a lei. Il profumo che resta attaccato alla carta non viene cancellato così presto dalla palta. Mi sento chiamare dal basso. «Peter! Vedi di darti una mossa o ti rimuovo dal turno di oggi.» Ai piedi della collina, il caposquadra reclama il mio tempo. Lo ignoro, perché tanto non ho molto da perdere. La paga giornaliera, un misero K, non è niente di cui sentirò la mancanza. Al contrario, la visione di Alba, nella divisa dell’agenzia di viaggio e il cartellino argentato con su scritto il nome, non ha prezzo. I capelli colorati con l’henné, raccolti in VERDE

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una coda, le danno un’aria socievole con cui sa convincere chiunque a prendersi una vacanza invece di restarsene a casa in compagnia dei rimpianti. «Ti ho detto di muoverti! Al prossimo richiamo vedi che salti il giro di paga.» Per oggi posso ritenermi soddisfatto. Nello zaino ho un blister mezzo pieno di pillole di Mentax non scadute e del tabacco Ecorette da rivendere a Junkland. Infilo il binocolo nel marsupio, scendo dal sedile e proseguo zoppicando per una stradina fangosa fiancheggiata da pile di televisori, scocche di computer, monitor sfondati e schede annerite. Mi immergo in una nube di cenere punteggiata di verdi e ambra – le schegge acuminate dei circuiti stampati. La cortina di fumo non proviene da un unico incendio, ma da tante colonne di vapore che si alzano dalla cintura dei fuochi. Decine e decine di figure si muovono e si agitano nella foschia acre. C’è chi raschia materiali, chi setaccia pattume e chi attizza le fiamme; di solito è Rasha il fuochista oppure Norbert al posto suo. Gli altri della squadra, Duggan e Pongo raccattano e portano via a braccia grovigli di cavi multicolori: siamo noi i facchini di Colle Vasto. Mi copro il naso con la maglietta e mi avvicino a Rasha, un bambino poco più in carne di me, a cui piace giocare acon il fuoco. Ogni giorno indossa un turbante diverso con cui si protegge i polmoni. Ho smesso di portare la mascherina l’anno scorso.


È stato lui a dare fuoco alla scuola. Per sbaglio, ci tiene a sottolineare Rasha. Ora bada ai falò con maggior giudizio. Con aria assorta, ipnotizzato dalle lingue di calore, dà un colpo col bastone ai due fuochi che sta attizzando insieme, poi si china e sparisce nel vortice di fuliggine. Quando ne riemerge, dallo pneumatico che usa come combustibile estrae un rotolo di filo di rame e lo bagna in una pozzanghera: il risultato è la sua paga giornaliera. Nell’aria c’è puzza di una miscela di sostanze che ci pioveranno in testa, magari non a noi, ma a quelli a nord di Cali Nova. Se solo il Tuwim alitasse in quella direzione… Ora Rasha può consegnare il metallo di recupero al caposquadra che lo porterà

alla ricicleria. Se gli va bene, ci tira fuori un K. Gli poggio la mano buona sulla spalla e lui ricambia. Nel nostro mestiere è meglio non aprire bocca per salutarsi. Non provo neppure a riscuotere la paga e imbocco il pendio scosceso in direzione dell’uscita, sul lato del fiume Akeren. Forse mio fratello avrà un lavoretto per me, più tardi. Charlie ha fatto questo mestiere prima di me e mi ha raccontato che gli abitanti della megalopoli, finché è stato possibile, hanno preferito mantenere i rifiuti “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Oggi è diverso. Oggi ognuno ha la palta che si merita. La municipalità ha vietato la spedizione e la vendita di immondizia altrove, per cui ognuno deve arrangiarsi come può oppure viverci nel mezzo. Per questo sono nate le UPU — Unità Pulenti Urbane — cassoni automatizzati col compito di promuovere il riconsumo. Le UPU prima valutano e poi spostano nei siti di stoccaggio qualsiasi prodotto che abbia una parvenza di rivendibilità. Il mercato di secondo, terzo e chissà quale altro consumo è comunque in concorrenza con il lavoro di quelli che contendono loro il valore residuo dei rifiuti abbandonati al proprio destino. Alla fine, la spesa fatta gratis in discarica vale bene una giornata di lavoro sottopagato. Estratto da Livido di Francesco Verso, (Delos Books) Capitolo I - Cieli Boreali

Francesco Verso è stato finalista al Premio Urania 2004 con Antidoti Umani, vincitore del Premio Urania 2008 con e-Doll – Il fabbricante di sorrisi, finalista al Premio Italia 2011 con Sogno di un futuro di mezza estate, vincitore del Premio Odissea Delos Books 2013 con Livido (di cui pubblichiamo un estratto del primo capitolo). Segnalato al Premio Robot 2013 per Il livello dell’assassino. VERDE

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La villa dell’Aviatore Alda Teodorani La vampira ogni sera dava una festa e ogni sera nella villa migliaia di lampade si accendevano, le pietanze più pregiate ed esotiche riempivano l’enorme tavolo ellittico della sala, l’orchestra iniziava a suonare e gli invitati ballavano tutta la notte, fino allo sfinimento; le lunghe tende bianche ondeggiavano nell’aria notturna e a volte, verso mattina, si sentiva il suono di un biplano che sorvolava la casa. Era l’aviatore che aveva fatto costruire la villa: tornava dall’oltretomba per rivedere i luoghi che aveva tanto amato. Ogni sera, quando la musica stava per iniziare, gli studenti del quartiere si mettevano in fila fuori dalla villa per poter entrare. La vampira si affacciava al suo balcone e lanciava una rosa rossa tra di loro: chi la recuperava poteva passare la notte con lei e se fosse stato fortunato, o abbastanza bravo, la vampira gli avrebbe concesso il dono della vita eterna nutrendosi di lui e dandogli un po’ del suo sangue. Si sarebbe tagliata un polso e lo avrebbe avvicinato alle labbra del giovane morente che da quel momento in poi sarebbe diventato il suo schiavo. Alcuni non ce l’avrebbero fatta. Di altri lei si sarebbe nutrita e poi ne avrebbe fatto gettare i corpi in cantina, dove si diceva che nelle lunghe notti di noia, lei giocasse con i loro cadaveri. Oppure avrebbe aperto la porta della stanza ai suoi cani, lasciando che si nutrissero dei loro corpi. Era una donna bella, di alta statura, aveva quel fascino sottile, indefinibile, che poche donne posseggono e che ti fa invaghire di loro qualunque età o aspetto abbiano. Robert una sera era entrato nella villa della vampira ma diversamente dagli altri non era morto, né lei si era nutrita di lui. VERDE

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Lo aveva semplicemente introdotto nella camera della sorella, Angela, immortale come lei ma che soffriva di un’insanabile malinconia da quando l’uomo che amava, il giovane aviatore che aveva fatto costruire la villa, era morto precocemente di tubercolosi negli anni Venti; Angela dormiva quasi sempre, anche di notte, mentre la notte avrebbe dovuto nutrirsi. Quando il suo sposo era morto, lei aveva pianto talmente a lungo, urlando giorno e notte frasi sconnesse, che s’era danneggiata le corde vocali e la sua voce era cambiata per sempre. Poi Angela aveva preso a guidare il piccolo biplano dell’aviatore. A lui piaceva decollare la mattina, subito prima dell’alba, sorvolare le colline dolci che attorniavano la sua casa. Ogni stagione aveva i suoi colori, ogni stagione portava una diversa pennellata al suolo: in primavera tutto era verde, d’un verde che pareva penetrare dentro il cuore, aprirlo e succhiarne ogni goccia di sangue. Poi arrivavano i papaveri, rosseggiavano come un’onda che si frastagliava su se stessa quando il vento la colpiva ripetutamente, e poi ancora altri fiori gialli, e poi quelli azzurri. La gran calura estiva spazzava via tutto con il suo alito rovente: restava l’erba secca e gialla, che lentamente si decomponeva nell’autunno, fino a seppellirsi da sé nelle zolle ghiacciate dell’inverno. La mattina, l’aviatore volava sul suo aereo finché vedeva il sole spuntare e la meraviglia, ogni giorno rinnovata, della luce che accendeva il cielo. E poi la malattia lo aveva rinchiuso in un luogo dove non avrebbe mai più visto alcun colore, solo una notte profonda e nera.Angela conosceva la rotta perché aveva volato spesso con lui, e lui l’aveva addestrata a pilotare. Sul biplano dell’uomo che aveva amato, si chiedeva se


stava volando nello stesso esatto punto, pensava che, se ci fosse riuscita, avrebbe ritrovato un po’ di lui, della sua essenza. Ma poi, lentamente, s’era rassegnata e sul suo volto era calato un velo nero, la disperazione aveva lasciato tracce tangibili, e improvvisamente era diventata adulta, e immortale: il dono gliel’aveva fatto sua sorella, convinta di strapparla via al dolore. E invece l’aveva condannata a soffrire per sempre. Non aveva più volato. Non fino a quella notte.La vampira sperava di riuscire aguarire Angela dalla sua malinconia procurandole un uomo che la potesse amare quanto aveva fatto l’aviatore e, su invito della vampira, Robert si era steso sul letto bianco, sotto il baldacchino decorato di veli. Non aveva nessuna intenzione di insidiare la donna, della quale intravedeva la sagoma sotto le coperte. Eppure quella notte si erano baciati. Avevano fatto l’amore. Probabilmente s’erano ritrovati vicini

nel sonno, in quello strano momento in cui il respiro è come se s’acquietasse, come se al centro della notte perdesse la pesantezza per cominciare a volare. Lei aveva risposto al suo bacio quasi lo aspettasse e in quel momento lui s’era reso conto che era come se lei ricordasse. Come se rivivesse i loro baci, il modo lento, profondo, di fare l’amore. Quella notte era stato come se avessero ripetuto un rituale, s’erano allacciati quasi sanguinando dalle ferite che entrambi s’erano procurati vivendo, ferite mai richiuse. La luna arguta li sovrastava, pennellava argento sui loro corpi e nella stanza dalla grande finestra aperta. Settembre faceva incalzare l’autunno, la loro pelle s’increspava di freddo nel dormiveglia ma non avevano voluto coprirsi. Più tardi Robert s’era svegliato. Una luce lattiginosa colmava la stanza, era solo nel grande letto. Fuori, un suono sovrastava tutto. Inizialmente non aveva compreso cos’era quel rumore, poi, quando s’era affacciato alla finestra, aveva visto il biplano dell’aviatore rullare sulla pista ai piedi della collina e aveva capito: aveva capito molto di più di quel che era in suo potere. S’era alzato, era corso giù, alla pista, per intercettarla, per fermarla. Ma lei era già sopra di lui.Troppo lontana. Incontro al sole. Pareva passata un’eternità quando il suono era ricomparso, era spuntato il biplano, rombando, e Robert nemmeno aveva fatto in tempo a rendersi conto di cosa stava succedendo che l’apparecchio s’era avvitato e poi s’era schiantato sul grande tetto a terrazzo della villa con un boato insospettabile per un velivolo così piccolo, così fragile, sollevando una nuvola di polvere fitta e oscura. Robert era corso dentro, aveva salito le scale, s’era precipitato ad aprire la porta del tetto, subito dalla soglia erano caduti mattoni e calcinacci, l’aereo aveva distrutto parte del terrazzo ma la cabina di guida era là, a pochi passi da lui. Lui ansante si era precipitato ad aprirla. Dentro c’era solo cenere. VERDE

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Francesco Aprile ha aderito al movimento letterario New Page di F. S. Dòdaro. Nell’aprile 2011 fonda il gruppo di ricerca e protesta artistica Contrabbando Poetico, firmandone il primo manifesto. faprile.wordpress.com.


Box doccia idromassaggio Paolo Gamerro L’altra sera, mentre stavo sbranando la mia ragazza insieme al mio vicino di casa Arturo Lodovini, mi è venuto in mente un pensiero, cioè che sarebbe bello possedere un box doccia idromassaggio con il seggiolino – o se volete chiamatela poltroncina – all’interno. Così, quando mi faccio la doccia e mi insapono e penso alla vita, posso stare comodamente seduto e rilassarmi meglio. Su internet, la rete delle reti, avevo già visto tempo fa i prezzi di questi emozionanti box e avevo notato che non erano poi così alti: si aggiravano dalle settecento alle novecento euro. Me lo posso permettere ho pensato, mentre divoravo la figa della mia ragazza, ridotta a carne martoriata sanguinante, tutto mentre il mio fidato amico e vicino di casa Arturo Lodovini aveva in bocca pezzi di lingua, unghie, dei peli e lei gridava come una scrofa scannata. Tuttavia, non riuscivo a staccare la mente dal pensiero del box doccia idromassaggio. Dato che faccio un lavoro giovane e dinamico (lavoro in un importante negozio di elettronica situato in un centro commerciale in periferia), mi capita spesso di camminare veloce per tutta la giornata, e anche se indosso scarpe da corsa, la sera ho le gambe dolenti e stanche, quindi stare in piedi nella doccia sta cominciando a diventare un problema. Mi farebbe piacere sedermi su uno di quei seggiolini da box doccia cosicché

anche i miei piedi possano rilassarsi e io possa trovare refrigerio e pensare alla vita mentre i getti d’acqua calda mi massaggiano e mi tonificano e mi fanno stare benissimo. Dopo che il mio amico Arturo Lodovini ha reciso a morsi la carotide della mia ragazza e il sangue è schizzato ovunque imbrattandoci per bene, lei se ne è andata in brevissimo tempo, è diventata gelida, poi di un blu grigiastro e poi era in paradiso insieme al mio cane lupo Rex, che ho fatto a pezzi il mese scorso. Arturo, dopo, ha detto che era stanco e che voleva andare a casa a guardare Uomini e Donne in televisione. Ho detto ok, che mi andava bene. Poi sono salito su in camera da letto, ho acceso il mio avveniristico computer, mi sono connesso alla spaziosa rete delle reti e sono andato a controllare i prezzi dei box doccia, sapete com’è, per vedere se c’erano offerte.Alla fine l’ho trovato a nemmeno seicentocinquanta euro con in omaggio un libro di Baricco, un affare, vengono a montarmelo la settimana prossima. Paolo Gamerro è nato nel 1983 e si è laureato all’Università Cattolica di Milano in Lingue e Letterature Straniere con specializzazione in Scrittura Creativa. Il suo primo romanzo è uscito nel 2011 (Milano Horror, Chinaski Edizioni). Nel 2013 ha pubblicato un ebook di sette racconti inediti dal titolo Violenza Domestica (Lahar Magazine).

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Figlio mio ipotetico, ti odieranno e ti invidieranno per quelle quattro renette bacate che ti ho lasciato. Ma tu lucidale, bonificale, rimpolpale, e quando e se saranno dure come palle da cannone, SBATTIGLIELE IN FACCIA CON TUTTA LA FORZA CHE HAI. E ora tirami una sega, Ruyard Kipling.

Épater le bourgeois con tanti braccialetti di stelle stroncate dai cofani delle Mercedes, ottimi anche come tirapugni per spaccare i vetri, ottimi come corpi abrasivi per rigare le fiancate. Rubare candele e lumini votivi nelle sacrestie per illuminare spelonche senza corrente elettrica, bersi una cassa di birra giocherellando con la cera. Farsi le canne al cimitero, utilizzando i loculi come scalini. Arrampicarsi sui tralicci dismessi dell’Enel, appendersi per le ginocchia e lasciarsi penzolare nel vuoto a testa in giù. Correre all’impazzata lungo le rotaie illuminate, rincorsi dal diretto Napoli-Roma delle 21:45. Appoggiare le cento lire sui binari per ricavarne medaglioni. Salire sui vagoni fermi al deposito ed accendere tutte le luci. Ravanare nell’immondizia alla ricerca degli scarti della pizzeria di fronte. Rullare cicche dai mozziconi trovati sul pavimento. Incendiare i secchioni dell’immondizia e spingerli in fiamme giù da una discesa. Svitare le targhe d’intitolazione delle strade. Andare al mare vestiti di VERDE 12 12

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nero. Offrire sigarette intinte nel petrolio, improvvisare food fights con esplosioni di bigné alla crema, abbandonare su un tavolo bottiglie di piscio raffreddate in frigorifero. Quando stavamo alla casa dello studente era un po’ come stare in galera: c’era la possibilità di stringere grandi amicizie dettate almeno all’incipit dalla disperazione. Fredi contava compiaciuto le manate nere lasciate sui muri dagli inquilini precedenti e mi diceva che quelle erano tutte scopate. A me la cosa non solo non divertiva ma inquietava. Mi immaginavo coppie di neaderthaliani pelosi che si rotolavano grufolanti nel mio letto, emettendo grida di piacere in idiomi e dialetti sconosciuti. Senza contare le sborrate sedimentate sulle coperte militari in lana grezza, riconoscibili a distanza di anni. Gli scaldabagni erano pieni zeppi di calcare, ti ci potevi fare una doccia e mezza ogni sei ore. E poi c’erano questi maledetti stanzini singoli, grandi come un loculo, dove per tutta la notte dalla tua branda sentivi il rumore di tutti gli sciacquoni di tutti i cessi del palazzo. «Sei fortunato, t’è toccata la singola». «Mi ci fai scopare sabato notte, che viene la mia ragazza dalla Svizzera?». Per sfogarmi della nostra sorte disegnavo sui mobili. Beata gioventù, ci hai portato a delle batoste che manco il Settimo Cavalleggeri.


BLITZRECENZION

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S. H. Palmer

BLITZRECENZION

La canzone della nave

La bussola l’ho sistemata: mi lascio abbracciare dalla chiglia di legno, braccia antiche e possenti. Mi addormento sotto le stelle. Chissà quando arriverò a casa. (shanduziopalmer.tumblr.com)

http://www.youtube.com/watch?v=rKlaV-9Vzsk Fotografa il codice QR con il tuo cellulare e guarda il video di youtube

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Leggo su Facebook una miriade di post che festeggiano il ritorno di Dexter, ma rispondo solo a quello che riporta la citazione a Death Note (Uccidi un uomo e sei un assassino, ne uccidi migliaia sei un conquistatore, li uccidi tutti e sei un Dio, Dexter 2x07), con un istintivo e poco apprezzato Uccidi una serie e sei uno sceneggiatore della Showtime. Banale? Scontato? Altezzoso? Senza dubbio: almeno quanto il serial killer dei serial killer oggi, all’inizio dell’ottava, e per fortuna ultima, stagione. La verità alla portata di tutti è che Dexter ormai è un altro da almeno tre anni: tanti ne sono passati dalla superba e insuperata season finale della quarta stagione – la migliore, a nostro parere – quella di Trinity, Lundy e Rita a mollo nella vasca. Non che questo ci abbia impedito di continuare a seguirlo con puntualità e apprensione, ma le nostre aspettative, come le ambizioni di chi lo scrive, sono scemate gradualmente e con costanza, quasi impercettibilmente, fino ad esplodere con fragore in questa premiere di una domenica di fine giugno calda e piovosa. Se la quinta era un’onesta brutta stagione, VERDE

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la sesta un’inutile speculazione e la settima uno sgorbio senza testa, l’ottava parte subito come un punto interrogativo senza punto: basti dire che l’asso nella manica è Charlotte Rampling – più fuori luogo di Jacqueline Bisset in Nip/


Tuck 4 – nel ruolo della dottoressa Evelyn Vogel (che finezza affibbiare un nome teutonico alla protagonista de Il Portiere di Notte e di almeno altri 80 film!), nell’ennesima riproposizione della minaccia proveniente dall’esterno, pronta a svelare l’identità del nostro eroe, o in alternativa a concorrere, corrodendolo dall’interno, alla sua autodistruzione. Contemporaneamente, qualcuno ha deciso che Debra pagherà la scelta funesta (e para-mafiosa) di trasformarsi, suo malgrado, in assassina fuori-legge per difendere l’amato fratello con une saison en enfer fatta di droghe, alcool, fuga dal lavoro, tentazioni di confessioni, omicidi insensati ed escapismo maledetto d’accatto: colpo di scena, davvero.

è: ammazzerà la donna che ama (Hanna) perché ha scelto la famiglia (Deb), eliminerà la dottoressa Vogel per non essere scoperto, non farà fuori la sorella (è previsto uno spin-off incentrato su di lei) perché sarà lei, nell’incapacità di tradirlo/denunciarlo, a ucciderlo. Accidentalmente. Negli ultimi 10 minuti della dodicesima puntata.

I personaggi secondari, come ormai da sette stagioni a questa parte, restano relegati al ruolo di sgargiante tappezzeria caraibica: parliamo di Batista, Masuka e Matthews, ma una mansione d’onore spetta a Joey Quinn, il fratello gemello dell’affascinante e ineffabile poliziotto ambiguo, misterioso e corrotto che aveva esordito nella terza stagione, all’epoca degno erede del sergente Doakes, ormai perfettamente al suo agio nel ruolo di animale da monta della serie. E naturalmente non abbiamo dimenticato la Hanna McKay di Yvonne Strahovski: semplicemente glissiamo, con eleganza e magnanimità.

Di seguito, i minutaggi da non perdere delle ultime puntate delle stagioni 5,6,7:

Dexter Morgan, il serial killer dei serial killer che negli anni ci ha stregato grazie alla sua incapacità sociopatica di provare sentimenti, al suo umano e disperato bisogno di maschere e normalità, con le sue contraddizioni e le sue incongruenze, le sue debolezze e le sue convinzioni puntellate dal piglio fascistoide di repubblicano medio al crepuscolo dell’era Bush, non c’è più. Oggi c’è una serie che ha deciso di esaurire lentamente, e senza correre ai ripari, la potenza e la ricchezza di un personaggio amato per le sue devianze, puntando tutto sul banale primato dei legami di sangue e sulla variazione noiosa e superficiale del solito familismo amorale elevato a modello, più che fardello. Alla fine Dexter, ci scommettiamo, pagherà per quello che fa, non per ciò che

Il punto di forza della serie resta sempre lo stesso: se siete rimasti indietro, magari alla quarta stagione, e avete voglia di rimettervi in carreggiata, giusto in tempo per assistere ai nudi di Aimee Garcia AKA Jamie Battista, nessun problema, vi bastano solo 5 minuti! Non ci credete?

5x12 da 34’25’’a 37’15’’: Dexter (in compagnia di Lumen, la fiamma del caso) è sulla scena del crimine dove ha appena ammazzato la minaccia dell’anno, quando Deborah, all’improvviso, irrompe armata; non lo scopre (2 minuti e 50’’ ca); 6x12 da 49’43’’ a 50’13’’: Dexter è sulla scena del crimine dove ha appena ammazzato la minaccia dell’anno quando Deborah, all’improvviso, irrompe armata; lo scopre (25 secondi ca); 7x12 da 51’24’’ a 53’49’’: Dexter è sulla scena del crimine insieme alla minaccia dell’anno quando Deborah, all’improvviso, irrompe armata; lo scopre; ammazza per lui (2 minuti e 25’’ca). (Pierluca D’Antuono)

Dexter su serietvsubita

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Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi.Â


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