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dove siamo editoriale

Ci sono numeri che nascono per caso e prendono forma da soli e altri che si fanno attendere perché hanno bisogno di più tempo. Sono quelli che ruotano attorno a una idea sfocata, un nome da confemare o una illustrazione fuori formato. Quelli che zoppicano sono i nostri prediletti perché, dopo la stampa, vanno accompagnati passo per passo, e poi ci sono quei numeri, i nostri preferiti, che ci piace leggere e rileggere dopo averli chiusi. È così che nasce un numero di VERDE, con i racconti che scriviamo e quelli che avremmo voluto scrivere noi ma abbiamo avuto la fortuna di scoprire. Le domande che negli ultimi tempi ci rivolgono più spesso sono, in ordine di originalità: «Qual è il futuro di VERDE?»; «Qual è la prospettiva della vostra rivista?»; «Progetti per il futuro?». Le risposte sono: «Questo»; «Nevskij»; «Libretti Verdi (almeno due, prima di fine anno)». E questa dovrebbe essere una notizia. Un indizio? Pastic(c)he e I Figli della Lama. Usciamo a ottobre, per il diciottesimo mese consecutivo, con il numero 17 e sei autori (su 9 presenti) per la prima volta sulle nostre pagine (unico precedente: il numero zero). I versi del mese sono del maestro Gian Ruggero Manzoni (sì, il Manzoni che preferiamo, quello di Pesta duro e vai trànquilo/Dizionario del linguaggio giovanile e di centinaia di altri titoli, tra poesia, narrativa, teatro e pittura). I racconti di Pier Paolo Di Mino, Alberto Joe Kossovo, Carrascosa Project e naturalmente della nostra Alda Teodorani, con un inedito mesmerizzante che

ci ha mozzato il fiato. Chiudono le nostre rubriche Semiautomatica (sempre più bella), Blitzrecenzion (sempre più Berlin) e Pirateria Seriale (con Fabio Giovannini). Le illustrazioni del mese sono di Marco Teodorani. Il nome è una garanzia. Da ammirare. LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE!

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p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #15: Il Passo della Morte (Gian Ruggero Manzoni) p.4 Baro Rom (Pier Paolo di Mino) p. 6 La lunga morte del signor F. (Alda Teodorani) p. 8 Braccia e Cielo (Marco Teodorani) p.10 Frantumi (Alberto Joe Kossovo) p.12 SEMIAUTOMATICA #10 (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #21: Alexander Platz (S.H. Palmer) p.14 PIRATERIA SERIALE #5: Person of Interest (Fabio Giovannini) p.15 Somos Todos Carrascosa (Carrascosa Project)

indizi

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PARTNERS IN CRIME

Niente è doloroso per la mente umana quanto la calma mortale dell’inattività e del disincanto

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for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY

VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it


Gian Ruggero Manzoni

TI ODIO POESIA

Il Passo della Morte

1 – Oh cuore… cuore di tenebra, dalla tua bocca esce il bacio di una moralità riacquistata. Verso un arcipelago di isole incarni la nave e il timone. Se fossi un venditore d’idee, ti porterei a disprezzare la vita, ma sono un porta insegne che non reca virtù, all’infuori di quella di mostrare passaggi. 2 – Le occasioni ci rivelano agli altri, ma non a noi stessi. Quando si sceglie un percorso, spesso si dubita di ciò in cui si crede. Ma andiamo, ché l’anima possa incontrare l’albero e il monte. A giorni mi confesserò. Finisca qui il terrore dell’incerto. Si apra il sasso della felicità e del piacere amoroso. Spedisci lettere al globo. Mai riceverai risposte, se non dal tuo volere. Già è molto, non ti lasciare al cordoglio e all’abbandono. 3 – Sollevato il bavero del cappotto, adori la tempesta e la magia di quelle luci. Ancora procedi solo, ma dentro al petto stai scrivendo alla tua donna, perché ti racconti una storia. Non temere. Scrivile, che lei aspetta. Se così è, fammi un cenno, e avrai il mio saluto. Quando il saluto è già narrazione e, il cenno, il perduto ascolto. 4 – Distaccato, non vuoi il fastidio. I tuoi vasi contengono vino e resine. Ciondoli ubriaco di suggestioni. Hai infine lasciato i libri per il respiro. Ti sei privato di tutto e di tutti. Di tutti e di tutto hai appoggiato la fronte sul muschio e sui tronchi. Biforchi il ramo, tessi la canapa, inganni gl’insetti, il rosso divampa, il giallo riscalda, il nero aiuta, il bianco stempera. Il grigio implora i nomi. Sei tu, ora, che tracci la pista e l’esistere delle canzoni. 5 – Col rasoio ti sei tagliato i polsi, ma, il suicidio, non ti ha avuto. Errore dopo errore, la collezione di noi si fa strada. Dolce il tuo «non avere rimpianti», che porta i muscoli al brillio degli occhi. Cade la pioggia. Cade il cielo di stelle. Cade il cosmo dell’orgoglio. In un canestro, raccogli foglie di passate effusioni. I fuochi divampano al di là del bosco. Ti sussurro, in punta di voce: «Invecchiando si diventa più folli, ma anche più partecipe ai lutti, così come, più immuni alle colpe.» 6 – Si chiamava il Passo della Morte quell’imbuto che m’indicasti ai margini dell’Appennino? Sappi che l’ho sognato, poi l’ho mischiato con le ore. Oltre il Passo una quercia mi ha sospirato: «La coscienza è ben mutevole regola… la falsa coscienza non conosce sé medesima.» Quindi sono entrato nella chiesa, ho acceso candele e ho recitato l’orazione del luogo e il salmo del perdono… il salmo, della totale abnegazione. 7 – Vicino alla zero, i battiti si fanno lenti. Resta l’abito del monaco, l’abito dello spettro o la testa… che si spoglia dei grandi cimiteri. Guarda! Le regine ti aprono il sentiero mentre, le contadine, lo percorrono con sopra il capo le fascine di rovi. Muraglie si ergono come visioni. Si alza da terra l’uomo, vola il suo cappello, un bambino lo prende a fiondate. Così direi, come nel sogno: «Ogni giorno è sempre giorno; ogni notte è leggenda e indugio erotico di emozioni.» 8 – Pochi sanno essere antichi; pochissimi sanno essere moderni; nessuno sa essere muto e cieco. Posta a riposo la mente, l’interesse non plasma più i vizi e, tantomeno, i pregi. Nulla è più naturale e più ingannevole del credere di essere nati. Scorto l’obiettivo, l’arco si abbassa e la freccia cade. Tanto basta. Tanto ci appaga. 9 – Tu, al mio fianco, ancora scrivi e reciti. La carta ci avvolge lentamente. Le dita premono, ma sono leggere. Tippete tappete… tippete tà. Insieme intoniamo uno scioglilingua, con un filo d’erba fra i denti. Tu ammiri incuriosito il mio ciondolo, io soppeso i tuoi misteri. Balliamo anche, poi ritorniamo seri. «Dove cresce il mare?», tu mi chiedi. «In cima alla tua matita», io rispondo ambizioso, ma umile insieme. Poi tocchiamo il sole e la luna, quindi mangiamo pane con uva e farro col miele… per scacciare gli orsi, i corvi, i lupi, e ogni feroce apparenza. 10 – Per i soldati semplici la guerra è un mestiere pericoloso… un lavoro assurdo per guadagnarsi da vivere. Nei fanti, col tempo, lo sfidare il nulla e l’assoluto è un compito al quale nessuno li ha destinati… se non per conquistare o difendere nazioni, se non per renderli prigionieri di un modello nel quale i passaggi non sono riti di assoluzione, non liturgie, non celebrazioni, per quella semplicità che travalica ogni cessazione e ammonisce la giovane foga… la giovane incapacità di rendersi conto che il vuoto è pieno e, il pieno, non ha mai conclusione. Tu mi chiedi: «Ma ce la faremo a non morire?» Io ti rispondo: «Ce la faremo ma, adesso, abbraccia i tuoi ricordi e non ti preoccupare del dopo.»

Gian Ruggero Manzoni è nato nel 1957 a San Lorenzo di Lugo (RA), dove tuttora risiede. Poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, al suo attivo ha oltre 40 pubblicazioni con editori quali Feltrinelli, Il Saggiatore, Scheiwiller, Sansoni, Skirà/ Rizzoli, Moretti & Vitali, Diabasis. Alcune sue opere sono state tradotte in Grecia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, Argentina, Uruguay, USA. Ora dirige la rivista d’arte, letteratura e idee ALI. VERDE

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Baro Rom

Non ci credi? Eppure è così. Guarda nel foro del tendone, proprio dove indica la bocca del cannone. Ci siamo nati in questo circo e chissà quante volte ci hai guardato. Ma ora guarda bene, con attenzione. Quella stella, quella lì in alto, piccola ma luminosa come il fondo di una birra illuminata sotto i fari del bancone di un bar notturno, quella stella è mio padre. So cosa si dice in giro, ma se vuoi sentire le cose come sono andate da uno che le sa, fidati. Dicono che mi ha abbandonato. Ma non può essere. Magari la storia l’ha messa in giro mia madre, «quel bastardo ci ha abbandonato» diceva spesso. Va bene, lo diceva spesso. Ma con le lacrime agli occhi. Da donna innamorata. Sai come sono le donne, e sai come era mio padre. Mio padre era bello. E forte. Forte con il petto largo e certe braccia che ti sollevava una mucca prendendola per i garresi. Lei lo amava. E pure lui amava lei. E amava me, che quando sono nato e mamma è rimasta chiusa a casa con i capelli raccolti in testa e il fazzoletto

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in testa, lui ha cucinato per me, e pare solo carne di cinghiale e salsicce ben pepate, e poi ha dato una grande festa, con il pane per gli altri bambini, ma anche con musica e tutto il resto, che ci erano venute non so quante famiglie e pure il tribunale dei vecchi, e giù a godere a peperoni, involtini e birra per tre giorni e tre notti. Mio padre bevve un barile di quella buona e suonò come suonava lui, e sai che era bravo, che quando pizzicava le corde si fermava il cielo ad ascoltarlo, e raccontò tutta la storia della sua vita fino agli antenati. Si levò il fiato dal petto per farmi la festa come si deve. Ci amava. Ma sai come andò? Scoppiò la guerra. Quella grande. Quella buoni contro cattivi, con tutti quei morti. E mio padre dovette andarci. Non è che poteva non andarci. Cioè, poteva pure non andarci, perché noi zingari del circo non ci abbiamo l’obbligo, ma lui ci andò. So cosa dicono, che aveva un conto in sospeso con un tizio e che era meglio per lui se spariva. Ma non è così. Io ero piccolo, ma a me

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Pierpaolo Di Mino


lo disse il vero motivo, perché non era un padre di quelli che trattava i bambini da bambini. Mi disse: «sarei pure contrario, ma un uomo, se scoppia, alla guerra ci deve andare». Ci ho ripensato per tutta la vita a questa sua frase, e mi sono convinto che mio padre ha ragione. Era un tipo, ecco, che sapeva avere ragione. Per questo nella guerra se la cavò bene, e divenne un eroe. Era forte e ragionava bene, e, se vuoi ti faccio leggere la lettera di un generale, dove ci è scritto nero su bianco che mio padre era un eroe, che, in un non so quale deserto d’Africa, aveva vinto una battaglia decisiva entrando nel campo dei nemici. Avevano fatto finta di arrendersi, pare, e poi sul più bello li aveva uccisi tutti. Ti dico io: aveva fretta di tornare a casa da me, e si era inventato questo trucco. Se tu l’avessi conosciuto, avresti detto: è un uomo pieno di trucchi. Infatti, proseguiva la lettera del generale, mio padre lo condannavano a morte per diserzione, perché aveva fretta, e tutto insieme aveva sconfitto i nemici, e se l’era data a gambe levate. Nella lettera del generale si sentiva un sorriso di ammirazione. Pieno di trucchi mio padre, perché è ovvio: voleva tornare a casa da me, e allora aveva disertato il suo esercito, aveva sconfitto quello avversario, era diventato insieme un eroe e un traditore, si era fatto tutto il deserto a piedi, e appena arrivato all’oceano ci si era buttato dentro. Sapeva nuotare meglio di un pesce. E si mise a nuotare. Qui dicono che sia stato mangiato da una balena, ma che alla fine la balena lo abbia sputato perché era un osso troppo duro da digerire. Altri dicono che sia stato catturato dai pirati, che lo volevano uccidere, ma lui come ultimo desiderio gli chiese di raccontare la sua storia, e tutti i pirati a ridere e piangere, e, insomma, alla fine lo fecero il loro capo, e come capo dei pirati girò per tre anni mietendo paura e dolore. Io credo più a quest’ultima storia, e nelle isole del sud ancora oggi raccontano di un marinaio forte, bello, astuto, stanco di guerra che

una volta ha ucciso un gigante facendo felice tutti gli abitanti dell’isola. Il marinaio era uno che voleva tornare a casa, cioè da me: era mio padre. Dicono che il gigante fosse figlio di un dio, o qualcosa del genere, che prese in odio il marinaio e gli diede tanti guai per non farlo tornare a casa. Dirai, superstizioni di isolani. Ma sta di fatto che mio padre cominciò a perdersi per mare. Quanti porti, e isole deserte, e terre di morti ha visto mio padre! Ma anche quante donne ha amato, e in quante lo hanno ricambiato, bello e forte come era. Per questo mia madre, capisci, parla di lui con dispetto. Ma lui voleva tornare, e infatti è tornato. Qui al campo nostro. E io me lo ricordo. Lì per lì non lo riconobbi, ma lui mi chiamò: «Sei Zorro, ragazzo? Sai chi sono io?». E gli dissi di sì, gli dissi che sapevo chi era perché la mamma me lo aveva detto. «Bene», mi rispose lui, e io gli dissi: «Sei tornato, allora?». Ma lui mi rispose e mi disse una cosa che io ci ho ripensato per tutta la vita a questa sua frase, e mi sono convinto che mio padre ha ragione. Mi disse: «Siamo zingari. E si torna solo per ripartire». E io ci rimasi male, lì per lì, lo ammetto. E alzai le spalle, triste, ma lui mi diede uno schiaffo, ma leggero, sul viso e mi disse: «Sono tornato per te, andiamo dentro il tendone. Ti devo insegnare una cosa. Un grande uomo», così disse, ma dicendolo alla zingara, Baro Rom, «deve saper volare». E si mise nel cannone e diede fuoco alla miccia. Dicono che l’ha ucciso come un cane uno a cui aveva fatto chissà che, ma io l’ho visto volare quella notte. Si mise nel cannone e via, per insegnarmi come si fa. Insomma, come un grande uomo. Io quella notte l’ho visto diventare una stella. E ora che sono grande, farò lo stesso. Guarda. Pier Paolo di Mino ha ideato la rivista R! e le raccolte Visiorama e Il Re operaio. Ha scritto con M. Di Mino il film Fine Pena Mai, il romanzo Fiume di tenebra, Il libretto rosso di Garibaldi e quello di Pertini. Con TerraNullius organizza il Flep!. Da solista ha creato 113 religioni, scritto il racconto in versi Storia aurea.

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La lunga morte del signor F. Alda Teodorani Fino al mio trentesimo compleanno non avevo mai avuto a che fare con la morte. I miei vecchi nonni erano viventi e godevano di ottima salute. Le anziane zie di mio padre, due donne ossute, dalla forza insospettabile, stavano ancora meglio di me. In casa mia, un appartamento al nono piano di un palazzo nel cuore di Roma, non era mai entrato un animale, a parte un pipistrello per sbaglio, una sera d’estate: la bestiola aveva iniziato a svolazzare in camera dei miei, strillando in un modo che non avrei mai ritenuto possibile per qualcosa di così piccolo. E poi se n’era volato fuori dalla finestra. Una volta avevo chiesto a mio padre perché non potevo avere un cane o un gatto e lui mi aveva risposto che era per risparmiarsi sofferenza. Volevano evitarmi, i miei genitori, il triste spettacolo della morte. Poi, una notte di primavera, mio padre era morto nel sonno. Mia madre lo vedeva ogni giorno negli specchi e gli parlava dal suo letto (dove s’era stesa subito dopo essere tornata dal funerale, rifiutando acqua e cibo); parlava allo specchio dell’armadio di fianco a lei. Ogni tanto si sedeva sul letto e parlava allo specchio del comò di fronte. «Tra poco arrivo, aspettami mi raccomando,» diceva. Lo aveva seguito nel giro di un paio di mesi. Diventai freddo, distaccato da tutto. La loro scomparsa, gli inevitabili documenti da preparare, i pianti di mia sorella che giorno e notte aveva iniziato a torturarmi, esigendo da me risposte che non avevo, mi spingevano sempre più in un territorio nebbioso, dove la luce lentamente si spegneva come in una sera d’inverno. Avevo smesso di scrivere. Non lavoravo più ai miei articoli e nemmeno ai racconti. Annotavo solo i miei sogni. Sognavo che i miei genitori erano ancora vivi, ridevano passeggiando e si tenevano per mano, oppure sognavo che andavamo insieme da qualche parte, al cinema o al ristorante, oppure ancora con papà facevo l’immancabile, chilometrica fila alle poste. Una mattina, mentre mi vestivo, avevo notato che sul mio petto e sul collo erano comparse delle macchie grigiastre. Nei giorni e nelle settimane seguenti avevo consultato un dermatologo, un altro e poi ancora un altro. Mi avevano dato lozioni per VERDE

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la pelle, saponi dall’odore nauseante, spray antimicotici, pasticche di ogni tipo. Non era cambiato nulla. Natale si avvicinava e il mio umore ingrigiva sempre più come i giorni bui che parevano voler morire sul nascere. Natale arrivò un’altra volta, il giorno della vigilia disposi le nostre vecchie cartoline di auguri su tutti i mobili e preparai un albero con le decorazioni che mia madre e mio padre avevano acquistato insieme fin dai primi tempi del loro matrimonio. Li sentivo lì, accanto a me, mentre disponevo i festoni. Mi osservavano dalle poltrone del salotto, quelle poltrone scomodissime che mia madre s’era sempre affannata a riempire di cuscini, del tutto inutilmente. Poi mia sorella entrò nella stanza. Era ancora in camicia da notte e ciabatte, non si era pettinata. Prese un festone e cominciò ad avvolgerselo attorno alle spalle e alle braccia. Cantava una canzoncina di natale fissando il nulla. Uscii dal salotto e tornai in camera mia. Era un inverno strano e cupo. Ogni giorno, a mattina inoltrata, Dicembre sgranava tutte le collane della regina delle nevi in perle di ghiaccio che cadevano sull’asfalto rimbalzando. Ogni notte sognavo i miei genitori, ogni notte mi prendevano per mano. Alla mia routine quotidiana s’era aggiunta da qualche tempo un’altra occupazione. Quando mi svegliavo, annotavo i miei sogni, facevo colazione, poi una doccia, quindi affrontavo le macchie che si stavano diffondendo nella parte inferiore del petto, verso la pancia, con la crema prescritta dall’ultimo dermatologo che mi aveva visitato. All’inizio di gennaio (il mese in cui di solito comincio a credere che dopotutto il mondo non si spegnerà e che il calore della primavera potrebbe farcela un’altra volta a tornare), avevo ricevuto un telegramma. Il testo annunciava la morte di Flaminio Labari, il mio mentore, che avevo conosciuto qualche anno prima a Pesaro e che mi aveva incoraggiato a scrivere il mio primo libro. Restai fermo a fissare quelle poche righe. La mano mi tremava a tal punto che il foglio cadde a terra. Feci per raccoglierlo, ma non riuscivo a piegarmi, né a muovermi. Il mio corpo era di


Andai da un altro dermatologo, che si vociferava fosse il migliore di tutti. Mi prescrisse delle sedute in un solarium e l’ennesima crema. Dopo le prime lampade abbronzanti, le macchie iniziarono a scurirsi, a spelarsi a brandelli come succede con le scottature al mare. Non credevo che fosse per effetto dei raggi ultravioletti, me le figuravo come la materializzazione cutanea di un crepuscolo grigio e carico dell’umidità densa e appiccicosa che precede la pioggia, che si stava diffondendo dentro il mio corpo, infestandolo dall’interno per poi uscire a contaminarne pure l’involucro. Mia sorella mi disse che era la maledizione dei nostri morti. E i miei cari continuavano a morire. Era come se il fantasma della morte rossa stesse devastando i luoghi a me cari, privandomi di tutti i miei affetti. La notte li sognavo. Spesso si coricavano con me, mia sorella più di frequente che altri, a volte si schieravano in piedi attorno al letto, mentre i loro corpi in decomposizione si liquefacevano. A volte qualcuno di loro si stendeva su di me mentre dormivo. Mi risvegliavo con il loro odore nelle narici, il pigiama ne era impregnato. Non riuscivo più a dormire, sapevo che appena avessi chiuso gli occhi sarebbero riapparsi. Il mio respiro si stava facendo affannoso, faticavo a camminare. Non parlavo più. Sentivo la bocca impastata e molle, i denti si spezzavano mentre masticavo. Non mangiavo quasi più nulla. Nelle lunghe ore che passo in silenzio, mentre il mio corpo lentamente e senza dolore si decompone nel mio letto e questa condizione di morte della carne mi avvicina sempre di più ai miei cari, mi chiedo se verrà mai qualcuno a piangere sulla mia tomba. Sono l’unico sopravvissuto.

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ghiaccio. I pensieri correvano febbrili ma ero totalmente immobilizzato, come in quei filmacci di serie B, dove il protagonista capisce e sente tutto ma non può muoversi. “Sto morendo,” pensavo, “allora, è questo che si prova?” Ero solo. Mia sorella era fuori da qualche giorno, e non mi aveva detto dove sarebbe andata. Pensai che mi avrebbe trovato al suo ritorno, con i piatti ancora da lavare e il letto sfatto. E poi tutto tornò alla normalità. Sentii il sangue che riprendeva a circolare, riportando un po’ di calore alle membra intirizzite. Solo dopo, quando ero finalmente riuscito a alzarmi e camminare mi venne la voglia di uscire, di incontrare gente. L’orologio faceva le due. Era notte fonda. Nessuno dei miei amici sarebbe stato ancora in giro a quell’ora. Me ne andai in bagno, aprii lo sportello del mobiletto dei medicinali e buttai giù due sonniferi, senz’acqua, sperando che facessero effetto in fretta. Quella notte sognai mio padre. Era lontano da me, a piedi, fermo sui binari di un passaggio a livello. Agitava le braccia come volesse avvisarmi di un pericolo. Avevo il cuore in gola, sapevo che stava per succedergli qualcosa di brutto. E ancora, ero consapevole del fatto che era già morto da tempo, quindi quello non poteva essere altro che un sogno. Mentre sentivo in lontananza il rumore del treno che stava arrivando, mi dicevo non è possibile, non è giusto che io perda mio padre un’altra volta.Mi ero svegliato nel mezzo della notte sudando freddo. Dalle persiane aperte potevo vedere la luna, una luna enorme e inverosimile, che inargentava tutta la stanza. Mi ero alzato, ancora intorpidito dal sonno, percependo soltanto che c’era qualcosa di strano e di diverso nel mio letto. Avevo sollevato il lenzuolo e alla luce lunare avevo visto il materasso brulicante di vermi, che si divoravano a vicenda, strisciando in mezzo a un terriccio da cui emanava un fetore disgustoso. Era come se tutto fosse una scenografia che si ampliava e prendeva forma mano a mano che guardavo. E poi la mattina dopo m’ero svegliato come al solito, quasi non fosse successo niente. Ricordavo solo quella orribile scena del mio letto coperto dai vermi, come se fosse stato il fondo di una fossa. Poi più nulla. Ma, in bagno, mi accorsi che non c’era più bisogno dello specchio per vedere la macchia grigiastra che si stava estendendo sul mio corpo. Ormai aveva ricoperto tutto il torace. In superficie, la pelle si sfaldava e le cellule morte cadevano come forfora. I bordi erano verdastri, unti. Andai al pronto soccorso. Mi dissero di rivolgermi a un dermatologo. Mi diedi del deficiente e me ne tornai a casa, pervaso da un senso di impotenza.



La ricerca di Marco Teodorani si muove tra descrizione del visibile e rappresentazione dell’interiorità in un percorso che va dalla pittura di sinuose figure femminili sino all’astratto. L’artista sviluppa un’espressività fatta di puro colore che riflette un’esperienza non mediata dal disegno o dalle forme. Tra l’altro ha esposto in: Cromaticos (Castello Estense, Ferrara), Collettiva Circolo Artistico Bolognese, Jyl, C.arte e Necessità (Massa Lombarda), illustrazione per l’audiobook 15 Desideri. Le sue tele sono in mostra permanente presso Bottega Gollini di Imola. www.pinterest.com/marcoteodorani


Frantumi Alberto Joe Kossovo DaVarsavia al Michigan ormai era un attimo. Ci voleva giusto un po’ di ottimismo anni Ottanta e qualche frase buttata lì per caso e ti ritrovavi in America a due passi da Detroit. Il mondo si era così rimpicciolito che tutto era uguale, tutto era vicino, tutto faceva schifo nella stessa identica maniera e tutto sapeva di vomito marcio espulso inconsciamente da qualche alcolizzato. Ti girava la testa solo perché tutto intorno a te girava, non eri quindi tu il problema. Erano gli altri. Tutti gli altri. Tanto la gente alla fine se ne fotte e pensa solo al proprio giardinetto e a quale quadro mettere nel salotto, se quello tutto blu o quello tutto rosso. I contorni e le sfumature non avrebbero avuto alcun senso. Che poi tutto sommato Detroit era solo una città come un’altra, con alberi secchi ai lati delle strade dei quartieri residenziali mentre nelle periferie ogni urlo equivaleva ad un colpo di pistola o ad un taglierino nella tasca di qualche tossico. A dirla tutta era meglio Varsavia: lì si respirava lo schifo del mondo che era ad un tiro di schioppo ma quantomeno ti rendevi conto di essere salvo, o almeno avevi l’illusione di esserlo. Addirittura le nuvole suggerivano il punto esatto in cui cominciava l’inferno vero e quindi avevi l’impressione di essere

ad un passo dal baratro umano ma di tenerti ben saldo alla realtà, al caldo di qualche bidone riempito a nafta avariata e lontano da quelle nuvole viola intenso, dalla pioggia chimica, dai fumi tossici e così via. Lo vedevi con i tuoi occhi e pensavi fosse meglio tenerlo sotto controllo senza spingerti mai fino a quelle nuvole. Ma la realtà era comunque alterata e deviata dal progresso, dalle persone, dai pavimenti, da stalinisti strafatti di atropina e Averna, da qualche sostanza allucinogena pescata nel mar Caspio o chissà dove e dalla vita stessa. Non c’era niente da fare, la realtà non esisteva, anzi, esisteva male. I ponti abbattuti da folli che li facevano saltare in aria per il loro insindacabile gusto nel vederli distrutti, i lampioni storti


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nelle strade, pneumatici in lattice che esplodono, canzoni anni ‘20 a profusione, l’acqua marcia che usciva dai rubinetti di cucine fatiscenti perché ormai non si mangiava che barattoli di circuiti elettrici. Tutto era stato rubato. Anche il pensiero coerente. Vigeva incoerenza mista a illogicità e a sprazzi di organismi mutati che vivevano una vita propria, intensa ma breve. Ogni giorno poteva capitarti di imbatterti in una lingua di fuoco sbraitante che attraversava le strade ed i tuoi pensieri per poi ricadere nel silenzio più inquieto tornando da dove era venuta. Da Varsavia ad Amburgo erano poco più di 45 centimetri mentre per Katowice si doveva prendere un aereo di linea della Aeroflot con dentro un effige di Jan Palach. Era il lusso più sfrenato. Sedili in pelle di legno austriaco dell’Ost-Tirol appartenuti al principe di Lienz, lattine di birra Jupiler scadute che bagnavano e facevano marcire quelle stesse sedie austroungariche, scariche elettriche gratuite per gli avventori e bomber neri con interni arancioni come se piovesse. In due giorni arrivavi a Katowice, ma quando cercavi di uscire da quel demenziale trabiccolo eri troppo ubriaco per parlare e quindi biascicavi parole confuse con l’intento di aggrapparti a quel cazzo di primo gradino della scaletta per scendere dall’aereo, ma non ci riuscivi e intanto l’aereo ripartiva e tu ti ritrovavi ancora attaccato a quei sedili che ormai detestavi più di ogni altra cosa al mondo ma che comunque toccavi estasiato per via della Storia che era passata da lì. Per via dei culi importanti che ci si erano seduti. E poi il tuo. Non c’era niente di strano. Il mondo andava così e tu ne facevi parte, volente o ignorante. Nolente non era un’opzione prevista. Non esisteva più alcun sentimento in quel mondo infimo e ripugnante. Tutto era a lasciar passare sperando non toccasse a te, sperando in un piccolo attimo di lucidità, sperando in non si sa bene che cosa o menando le mani contro l’aria e brandendo una bottiglia vuota di vodka

ucraina di quart’ordine. Regimi oligarchici comandavano sulle masse ignare di tutto, strade che non ti portavano che a pisciare su di una discarica a cielo aperto, fulmini che sceglievano di cadere solo su poveri cristi qualunque, tanfo fetido di acidi urici che penetravano le menti oltre che i corpi, il sole ormai un ricordo lontano. E poi l’America. Rimaneva un sogno a cui aggrapparsi, una tenue speranza di un domani passabile, una flebile luce al neon che attirava a sé ormai solo reietti dalla civiltà, prostitute settantenni e aspiranti mafiosi con un contratto stagionale per la coltivazione delle patate. Nessun vecchio politico all’orizzonte di una modesta villetta a schiera di una Springfield qualsiasi, giù nello sprofondo per un’illusione che durava mezzo secondo. Ma per qualcuno quell’illusione era ancora reale, come il mondo in cui vivevano, e allora ci si metteva in fila per un posto nell’Olimpo del buco di culo del nonsisadove. Lontano da quelle nuvole minacciose, almeno. Ma non andava proprio così. L’irrealtà era che dovunque si avesse intenzione di andare, alla fine ci si ritrovava sempre nel posto di partenza, qualunque esso fosse e chiunque fosse a volerlo. E allora tanto valeva lanciare tante piccole bombe a mano su di un prato verde ora rancido e nauseabondo, tanto valeva passare così la giornata nell’attesa che l’inferno passasse anche da te, in una comoda berlina con la radio accesa, per portarti via da quel disgusto di paese, via da quel disgusto di mondo, incurante del resto e di ciò che stavi per lasciare. Tanto meglio così. Alberto Joe Kossovo nasce a Roma nel 1983 tra i fumi di scarico di una via a medio scorrimento, scrive dall’età di 15 anni su fogli già usati. Non lavora, studia, è sano di mente quanto basta per poter mettere in riga quattro parole ed un concetto che poi viene distrutto dallo scontro con la realtà delle cose. Pubblica racconti, è appassionato di cinema e dorme poco.

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BLITZRECENZION # 21

S. H. Palmer Il colore dei capelli, quello dell’anima. Un altro tono di rosso. Il cancello dello Zoo è chiuso, stavolta è chiuso davvero. (shanduziopalmer.tumblr.com)

BLITZRECENZION

Alexander Platz

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PIRATERIA SERIALE Attenzione! spoiler! Siete preoccupati che qualcuno possa spiare tutti i vostri dati personali su Internet? Vi inquietano le telecamere di sorveglianza che occhieggiano a ogni angolo di strada? Allora Person of Interest è destinato a centuplicare le vostre paure. Tutto, infatti, ruota intorno a un gigantesco cervello elettronico dotato di un programma che raccoglie ogni possibile informazione sui singoli individui, fino a poter stabilire, tramite calcoli e algoritmi, se una determinata persona sta per trovarsi al centro di un avvenimento pericoloso o violento. L’unica cosa che il programma non può indicare è se quella determinata persona sarà vittima o artefice dell’atto criminoso. A gestire la macchina, frutto di intrighi governativi mai chiariti, c’è un misterioso mister Finch (il Michael Emerson ben noto agli appassionati di Lost per la sua interpretazione dell’ambiguo Ben Linus) e l’atletico John Reese (Jim

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Caviezel, già Gesù Cristo per Mel Gibson), ex agente Cia diventato barbone. Oggi alla terza stagione, Person of Interest ha avuto una fase un po’ ripetitiva, dove si reiterava sempre la stessa situazione: Finch e Reese dovevano sventare un delitto previsto dalla macchina e capire se l’individuo al centro del crimine fosse “buono” o “cattivo”, vittima o carnefice. Poi la serie ha ripreso tono, grazie anche alle scene d’azione che fanno di Reese una sorta di rude James Bond (è sempre vestito in completo nero con camicia bianca senza cravatta) e alla relazione bizzarra tra i due protagonisti. Imprevedibile, comunque, era la virata iperrealistica della serie. Quella che sembrava una fantasia di sceneggiatori televisivi allucinati, si è rivelata plausibile e attualissima, con lo scandalo “Datagate”, grazie alle rivelazioni di Edward Snowden sui programmi di intelligence e sorveglianza di massa sulla Rete creati segretamente dai governi Usa e inglese. Altro che telefilm di intrattenimento! Ci spiano davvero! (Fabio Giovannini) Fabio Giovannini, grafomane e poligrafo, ha pubblicato più di 50 libri di immaginario e politica (l’ultimo, Delitti politici, Stampa Alternativa 2013). Vive a Roma con il suo alter ego Ivo Scanner, autore neo-noir (ultimo libro, l’antologia di racconti Pedofobo, Cut-up 2011).


Somos todos Carrascosa Carrascosa Project S’immaginò al posto di Passarella con la Coppa in mano, il generale Videla avrebbe voluto stringergli la mano e ricevere un sorriso di ringraziamento, Jorge Carrascosa avrebbe preferito spaccargliela quella mano e prenderlo a calci in culo. Tarantini, il giocatore che lo sostituì sulla fascia sinistra, chiese a Videla di alcuni suoi amici desaparecidos e ricevette per sua fortuna solo spinte ed insulti. Jorge fissa in faccia il suo allenatore Menotti dicendo «Io non gioco», le cose che ha visto non gli sono piaciute, gli sembra un brutta storia a cui è meglio non prendere parte. La gioia passeggera dei tifosi non serviva a niente. Donne argentine invocavano giustizia e verità in Plaza de Mayo, davanti al Palazzo. Dal 1976, il giorno del Golpe (Jorge se lo ricorda bene, rimase sconvolto e ancor più del solito rimase in silenzio al contrario dei compagni) erano morte quasi 20000 persone, c’era La Tripla A (Alianza Anticomunista Argentina) il cui ideatore, Louis Rega, se ne stava vicino a Videla a guardare il loro mondiale. Jorge avrebbe voluto prendere a calci in culo anche lui. Vicino a Videla (c’era anche Licio Gelli, membro della P2, ma di questo Jorge non ne sapeva ancora nulla, come non sapeva che alla P2 era iscritto Berlusconi), c’erano Massera, Agosti, Astiz. Jorge guardava la finale, l’arbitraggio senza sorpresa fu dubbio, scandaloso (e italiano), vide gli olandesi perdere e andare via senza salutare.Anche Cruijff rifiutò la convocazione. Carrascosa vide la Coppa passare di mano e, quando tutto era oramai finito, si concentrò sui rumori nell’aria fino a sentire le urla dei torturati alzarsi nel silenzio. Ricordò la sua ultima partita in nazionale, nel 1976 contro la DDR, ricordò il suo unico gol, ricordò le persone che lo chiamavano El Lobo, il giorno in cui decise di non partecipare al mondiale dei colonnelli e dei desaparecidos, poi gli raccontarono di quella marmellata peruviana, del grano spedito in Perù, di Kissinger e degli Stati Uniti, sempre presenti, sempre pronti con le mani tese. Con coraggio, attorno ai trent’anni, Jorge Carrascosa lasciò non solo la nazionale, ma anche il calcio: era un fanculo a Videla, per non essere partecipe della sua gioia. Dopo

Peron, Jorge pensava che le cose sarebbero andate meglio. Le torture alla Escuela de Mecanica de la Armada, vicino allo Stadio Monumental di Buenos Aires, dove era in corso la finale tra Olanda e Argentina, cessarono per poche ore. Anche il maoista Paul Breitner disse no alla convocazione. Jorge aveva sentito tutto, le conosceva bene quelle storie, seppe dell’Operazione Barrido e dei costi per il mondiale (800 milioni di dollari), delle donne in Plaza de Mayo, del Perù e dei suoi compagni desaparecidos. Jorge Carrascosa, senza alcun risentimento, finita la partita, spense il televisore, s’avvicino alla finestra aperta e, accendendo un sigaro (glielo aveva regalato Menotti dopo il gran rifiuto) tentò d’ascoltare le urla dell’esultanza pensando che l’inferno fosse finito e che l’Argentina fosse diventata un terra migliore, intrisa d’acqua e non di morte. Pensò a cosa sarebbe accaduto se avesse convinto altri giocatori a non giocare, ma Jorge in quel momento aveva fatto una scelta d’umanità, senza alcuna strategia e il pensiero si interruppe lì. Jorge s’immaginò sotto le mani dei torturatori, senza possibilità di reagire, condannato a morte, e poi s’addormentò sognando di giocare in un campo diverso, in un calcio diverso. Uno striscione è apparso recentemente durante una importante partita di calcio. Mentre una parte di tifosi urlava scimmiottando cori razzisti (erano in due, subito allontanati e immediatamente pentiti grazie all’intervento di persone più sagge) altri, sbeffeggiando i nazisti e pensando a godersi la partita, hanno appeso uno striscione che recitava SOMOS TODOS CARRASCOSA! Carrascosaproject è un collettivo di scrittrici e scrittori, a luglio è uscito il loro primo libro: Latinamerica (a 22 mani), scaricabile gratis dal loro sito. Ad ottobre esce El Lobo (a 4 mani). Carrascosaproject ha sotto cura il blog di scrittura http://postnarrativa.org, una scrittura e progettualità che va dalla rivisitazione fiabesca al racconto storico, dal visionario al racconto erotico, una matrice politica (chiaramente antifascista), un’espressione collettiva, generazionale, contraddittoria. Per saperne di più visitate il blog! VERDE

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