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dove siamo editoriale

Settembre è un mese importante per noi perché in questo mese tornano le nostre serie tv preferite in streaming, si torna al cinema (escono nelle sale film da lungo tempo attesi, roba di qualità e anche robaccia ma l’imporante è ripartire); in questo mese, ancora, le narrazioni che noi distribuiamo e delle quali ci nutriamo acquistano rilevanza grazie al FLEP, festival delle letterature popolari (creatura generata dagli autori di TERRANULLIUS, che sta crescendo dannatamente bene grazie al duro lavoro di questa compagine di cui abbiamo ospitato, ospitiamo ‘sto mese e ospiteremo ancora rappresentanti) che si terrà a Roma dal 19 al 22 settembre all’Aranciera di San Sisto e soprattutto grazie al Circolo degli Artisti, (luogo storico della musica, un po’ di meno negli ultimi tempi) che il 18 settembre alle 19,30 ospita la crew di VERDE, arrivato oggi al suo sedicesimo numero. Lo avreste mai detto? Noi sì. You want it, you have it! LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE! Toni Bruno - Pertini http://tonibrunostory.blogspot.it/

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p.2 Edit p.3 TI ODIO POESIA #14: Letargo (Sonia Caporossi) p.4Un giorno dopo l’altro (Lorenzo Iervolino) p. 6 1993 (Pierluca D’Antuono) p. 9 Il cardinale sucato (Toni Bruno) p.10 Riverside (Alda Teodorani) p.12 SEMIAUTOMATICA #9 (Simone Lucciola) p.13 BLITZRECENZION #20: Cocaina gratis (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #9: Camilla parte II (Luca Carelli)

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it


Sonia Caporossi Esterrefazioni Traboccano Dai confini di questo continente Suburbano Cavalcavia Che conduce nella zona del buio Argine Sotto pressione Dopo anni di calma piatta Ăˆ il mio cuore che parla Ăˆ il mio cuore che saluta Buttando fuori in affanno Dalla trincea delle frasi sconnesse Le carcasse di parole decomposte Da ere di silenzio 05/10/1992 VERDE

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TI ODIO POESIA

Letargo


Un giorno dopo l’altro Lorenzo Iervolino Un giorno dopo l’altro il tempo se ne va le strade sempre uguali, le stesse case. Un giorno dopo l’altro e tutto è come prima, un passo dopo l’altro, la stessa vita. (Luigi Tenco, 1966)

Quando è iniziato tutto ciò? Con le assemblee di fabbrica, con le manifestazioni, con la prima mediazione dei sindacati? O molto dopo, quando Giorgio ha rifiutato l’aiuto di suo fratello, poi i suoi soldi una volta che lo Stabilimento Antonini era ormai un blocco di lamiera graffiata dalla ruggine, la cassa integrazione terminata, la produzione neppure riuscita ad emigrare in Ucraina. O forse solo recentemente il peggio ha preso forma, con le telefonate a conoscenti, a conoscenti di conoscenti, le scatole dei vestiti invernali lasciate a casa di Donato, dalla radio le voci dei terremotati di Finale dell’Emilia, di Modena, immobilizzati in una tragedia distante duecentocinquanta chilometri, costretti dalla paura a dormire in macchina per notti intere. Proprio come loro. Lo sportello si apre e il rumore che Giorgio sente alla sua destra, oltre il sedile vuoto, è uno squarcio, una voragine, una sciabolata nell’aria sconquassata dalla pioggia, che solo adesso gli pare infrangersi con maggiore pesantezza sull’asfalto già caldo delle prime ore del mattino. Perché ci hai messo tanto? Cos’è successo?, vorrebbe chiedere ad Erika che entra in macchina e richiude piano lo sportello. Dietro di loro i bambini stanno ancora dormendo, sul sedile lungo, abbracciati ai cuscini come fossero immersi in una nuvola, o aggrappati ad uno zucchero filato gigante, Luca col pollice in bocca, Francesca che pare addirittura sorridere. Giorgio però non chiede nulla. Neanche Erika, per qualche istante, dice niente. Si asciuga le guance con le mani. Poi la fronte, la bocca. Ad ogni movimento di lei, Giorgio VERDE

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sente qualcosa gonfiarsi nel petto. Una bolla, pensa. Un pianeta. Un pianeta che toglie il respiro. Ho fatto il giro almeno venti volte, dice Erika inghiottendo aria e lasciando che i capelli le sgocciolino nuovamente sugli occhi, sul giacchetto aperto, sul sedile. Non c’è nessuno, aggiunge, entriamo adesso! Giorgio rimane in silenzio. Al di sopra di quelle parole appena ascoltate, vede occhi quasi materni, o caritatevoli, o addirittura falsi in quanto si sforzano (secondo lui) di non essere sfiniti, di non essere disperati. Oppure, a guardarli meglio, Giorgio ha la certezza (o il terrore?) che negli occhi di sua moglie non ci sia, neanche in questo momento, nessuna accusa nei suoi confronti. E se le avessi raccontato del fiume, si chiede, mi guarderebbe in modo diverso? Erika intanto sistema il cuscino sotto la testa di Luca, che per un attimo aveva perso la presa del suo mega zucchero filato. Poi si allunga con tutto il busto verso il sedile posteriore. Tra l’esplosione di oggetti dalla cappelliera mancante, afferra una borsa di tela vistosamente deformata. La adagia tra i suoi piedi e questa emette rumori di ferraglia. Prima di risedersi dà un bacio a Francesca che pare non aver smesso di sorridere nei suoi sogni. Poi, entrambi, per un attimo (o per molto di più?), si voltano ad ascoltare il respiro lento dei bambini. Al fiume si era fermato tornando dalla banca, una di quelle volte (quante, per l’esattezza?) in cui Girolami, il Direttore, si era negato. In cui un funzionario gli aveva detto che l’Ufficiale giudiziario li aveva avvertiti, lui non poteva farci niente, e aveva ripetuto le parole cattivo pagatore come un mantra,


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aggiungendo che, ormai, con diciotto rate di mutuo non pagate la casa sarebbe andata all’asta, il tempo che gli rimaneva per starci dentro era un’incognita. Giorgio era salito sul muretto dell’argine. Aveva guardato giù, l’acqua docile d’inizio giugno; aveva pensato a Santirosi Giovanni, che proprio in quel punto (o forse in un altro punto) si era lasciato cadere, operaio carrellista che lui aveva incrociato solo qualche volta, e che se non fosse stato per l’articolo sul giornale non si sarebbe ricordato nemmeno il nome. Oppure era la volta in cui camminando vicino all’argine gli era tornato in mente il loro fiume, lontano da lì: l’acqua aveva sommerso la valle, allagato i campi, bloccato intere famiglie in casa, affogato di terra umida e paurosa la mattina del paese. Dopo ore incalcolabili Giorgio ed Erika si erano trovati soli, lui con gli stivali zuppi, la terra fino alle labbra, le mani immobili arrese alla fatica della pala, gli occhi rossi grattati dai granelli; lei con un impermeabile corto da uomo, datole da qualcuno chissà chi, le ginocchia nude, uno straccio sulla testa quasi completamente bagnato. La sensazione che il pericolo era lontano. Forse non così lontano, ma fermo e, per entrambi, che si conoscevano di nome e che per nome conoscevano tutti i componenti della famiglia dell’altro, quella sembrò – per motivi non solo legati alla stanchezza e all’affanno – una tregua. Si erano addormentati insieme, vicini, sfiniti, senza sapere se gli ultimi dispersi del paese erano stati ritrovati. E ora, dov’era finito quel giorno? Come poteva calcolare la distanza da quel momento? Giorgio dall’argine aveva pensato al salto, al vuoto, al suo cadavere gonfio e liscio che avrebbero ritrovato a valle forse due o tre mattine dopo. Ma non aveva avuto il coraggio di muoversi. Né in avanti, né indietro. Era rimasto lì a dondolarsi tra due paure diverse. Quanta stanchezza, allora, o disperazione, o rabbia, sarebbe stata in grado di trattenere, e dissimulare, lo sguardo di sua moglie, se l’avesse saputo? In strada Erika tiene i bambini sotto le sue ali, che poi sono braccia, ma che funzionano come ali che proteggono dalla pioggia, dallo scorrere lento dei secondi e dei respiri che attraversano quelle stradine periferiche

sotto la prima luce del mattino. Le loro otto scarpe calpestano la pioggia, senza far rumore. Giorgio imbocca l’ultimo vialetto, e per un attimo gli vengono in mente i piedi da morto di Santirosi Giovanni, grandi e scuri che si intravedono sotto il lenzuolo grigio nella foto sul giornale, il pianto di donna dalla radio durante i funerali dei diciannove operai rimasti schiacciati sotto i capannoni crollati durante il terremoto in Emilia. Diciannove di cui si conosceva la tragedia. Diciannove come lui e Santirosi Giovanni. Diciannove che sull’argine del fiume, Giorgio, non può negarsi di avere per un istante perfino invidiato. Erika gli indica una porta gialla, o forse marrone, ma diventata gialla nel disinteresse del tempo. Giorgio si guarda intorno. Dietro le altre porte del corridoio gli sembra di percepire degli sguardi. Porte che paiono bare allineate. Se avesse tempo di contarle forse si accorgerebbe che sono diciannove. Pure quelle. Infila il piede di porco tra i due bordi di legno ed inizia a tirare verso di sé, a tirare, tirare, con tutta la forza che ha in corpo, finché con uno schiocco che sembra uno sparo, o un crollo, o il rumore stesso dell’incredulità, la porta gialla, forse marrone, cede e si spalanca davanti a loro.

Lorenzo Iervolino è redattore di Terranullius. Autore della trasmissione radiofonica La Staffetta - Storie ribelli e Cronache perdute e membro della Direzione Artistica di FLEP! Per i 40 anni di Vogliamo Tutto, di Nanni Balestrini, realizza un reading concerto che gira l’Italia. Lavora come ricercatore di Storia del territorio.

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1993 Il 9 novembre 1985 l’allora Presidente del Consiglio riferisce alla Camera sulla Crisi di Sigonella. Nel suo discorso paragona Arafat a Mazzini e l’OLP alla Giovine Italia. Contesto la lotta armata del popolo palestinese, dice, non perché credo che non ne abbiano diritto, ma perché non risolverà il problema. Dai banchi dell’MSI, Mirko Tremaglia in testa, si sollevano cori di sdegno e dissenso. La verità della Storia, dice il Presidente, è che anche Mazzini, padre della nostra Patria, concepiva, disegnava e progettava assassini politici. La Presidente della Camera Nilde Iotti annuisce e sorride sorniona. Ugo La Malfa è nervoso; si guarda attorno smarrito e la telecamera lo inquadra mentre si gratta il polpaccio sinistro. Contestare la legittimità di un movimento che vuole liberare il proprio Paese dall’occupazione straniera, continua il Presidente, e contestare la legittimità del ricorso alle armi, significa andare contro alle leggi della Storia. Le proteste costringono Nilde Iotti a intervenire. Ce l’ha in particolare con un deputato missino che non riesce a riconoscere: ma chi è quello lassù? chiede a un questore. Il Presidente ha diritto di parlare, ammonisce, lasciatelo terminare. Basta. Il Primo Ministro, spazientito, solleva il braccio destro e zittisce platealmente il contestatore con un perentorio Smettila cretino, lasciami parlare, piantala! La stampa critica duramente le parole del Capo del Governo. Si dirà che il paragone non regge perché, prima che incompatibile storicamente, è incomparabile per ragioni di logica. Repubblica scrive che le cospirazioni organizzate da Mazzini miravano a combattere e a vincere politicamente l’avversario, non a seminare indiscriminatamente terrore e angoscia. Era lotta politica aperta contro regimi tirannici, dice Lucio Villari, mentre quello di Arafat, conclude, è terrorismo contro inermi civili, VERDE

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Pierluca D’Antuono nichilista come certe pagine dei Demoni di Dostoevskij. Otto anni più tardi, il 30 aprile 1993, il Segretario è all’Hotel Raphael, a Roma. Sono le sei del pomeriggio quando si affaccia alla finestra della sua suite. Duecento persone sono assembrate davanti all’ingresso dell’albergo. Lo stanno aspettando. La sera prima il Parlamento ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere per quattro dei sei capi d’accusa che gravano su di lui. Nel suo editoriale Scalfari scrive che è il giorno più grave della nostra storia repubblicana dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. I due avvenimenti hanno la stessa valenza dirompente ed eversiva, dice il direttore; forse, si sbilancia, c’è addirittura un filo nero che li lega l’uno all’altro. Alle 20 il Segretario chiede se la macchina è pronta. Si, Presidente, è pronta, gli rispondono. Bene, dice lui, andiamo. Gli uomini della sua scorta e gli agenti di polizia gli suggeriscono di uscire dal retro, per non andare incontro alla rabbia dei dimostranti che si accalcano sempre più numerosi. Ma il Segretario non risponde e a calci apre la porta della suite e quella dell’ascensore. E poi, come se avesse una scopa volante incollata alla schiena, esce dal Raphael rigido e minaccioso come un blocco di porfido ipertrofico. La scena dura 30 secondi: il Segretario sorride, i corpi e le teste ruotano all’unisono verso di lui e la Thema marrone già accesa che sta per ingoiarlo. All’improvviso comincia a piovere. Non sono nuvole quelle che si rovesciano sulla berlina presidenziale, ma sassi, accendini, scarpe, lattine, bottiglie, pacchetti di sigarette, un reggiseno, un ombrello, preservativi usati, banconote accartocciate e una montagna di monetine, accompagnate dal mantra esasperato Vuoi-Pure-Queste?, come se fosse il ‘77. Il Segretario è già in macchina, ma una manciata di cento lire lo ha colpito


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sicuramente. Quando l’auto è lontana, persa nel tempo e nello spazio delle belle piazze romane in primavera, due agenti si avvicinano all’ingresso, si guardano attorno e senza pensarci si inginocchiano sul tappeto di monetine luccicanti che asfaltano di zinco i sampietrini neri. Le loro pistole spuntano dalle fondine macchiate e scucite e oscillano secondo precisi movimenti delle anche. Li guardo dall’alto e mi chino a raccogliere un gettone per chiamare in redazione. Quando il mio sguardo incrocia i loro occhi illuminati, gli agenti si rialzano in fretta. Mi chiedono i documenti e mentre mi identificano, a chilometri di distanza, il Segretario commenta la contestazione con la seguente dichiarazione: purtroppo in Italia non esiste la pena di morte. Il Segretario non ancora lo sa, ma quella sera qualcosa ha avuto luogo oltre il luogo: il suo viso era appena diventato, nell’immaginario collettivo di una Nazione, l’emblema assoluto del Male. II giorno dopo io e Elena ci trasferiamo nel nostro nuovo appartamento sulla Cassia. La sera prima mi ha detto che vuole divorziare, perché essere sposati è come essere sepolti, ma non vuole che ci lasciamo. Cosa c’è di sbagliato in me? le ho chiesto guardando i miei calzini sporchi e bucati ai piedi del letto. Cos’altro dovrei essere? ho implorato mentre sentivo il suo respiro rallentare e il sonno toglierle le parole. Quella notte dormiamo a casa dei suoi genitori che ci svegliano alle sette, come se dovessimo andare a scuola, e ci portano la colazione a letto, come se fossimo malati. Il padre mi sorride mentre bevo il caffè. Mi porge una sigaretta ma dice di non accenderla a letto. Appoggia entrambe le mani sulle mie spalle e poi più su, sulle guance, e

con un sorriso cieco mi dice: devi crederci, Direttore, è tutto vero.Tutto sta per cambiare, ci aspettano giorni felici. Finiranno di pagare la nostra nuova casa tra 35 anni. È il loro regalo di nozze. Faccio di tutto perché un mio pezzo venga pubblicato il giorno dopo sull’edizione nazionale. Mi dicono che non è possibile perché sono appena arrivato, ed è una storia delicata che va trattata con i guanti. Lo so, rispondo con enfasi, ma so anche di aver assistito a un evento storico che non si ripeterà mai più e che aprirà degli scenari pazzeschi che ora nessuno di noi può immaginare. Ci vuole mestiere, ribatte il mio capo struttura, non basta l’entusiasmo. Io insisto: ma lo sapete che tutto sta per cambiare e adesso ci aspettano giorni felici? La rivoluzione in Italia non si può fare, dice lui, perché ci conosciamo tutti. Ma se non posso scrivere, incalzo, che ci lavoro a fare qua? Il mio interlocutore non ha più nulla da dire e allora tutti mi guardano sorpresi e dispiaciuti, ma nessuno ha il coraggio di dirlo finché qualcuno scoppia a ridere,


risucchiando in un grugnito tutta la mia tensione. Non ci stiamo capendo, dice il capo struttura. Tu il pezzo me lo scrivi, anzi. Ne scrivi quattro. E allora di che stiamo parlando? domando. Adesso te lo spiego, continua lui. Tu scrivi. Passi tutto a Gambetta. Gambetta corregge. Gambetta firma. Noi pubblichiamo. È più chiaro? Vorrei avere la possibilità, mi ha risposto nel sonno, di ricordare meglio certe cose. Ci nutriamo l’una dell’altro. Dove arriveremo, a condividere anche le endorfine? Adesso abbiamo una casa, possiamo stare insieme lo stesso, non c’è più bisogno di essere sposati. Sono così stanca che non riesco neanche a dormire, e mi sento una bugiarda e una ladra. Io ti amo per quello che non sono e non ho bisogno di quel che adesso abbiamo. Voglio sospirare in eterno. Voglio dimenticare le espressioni e ricordare tutti i volti. Voglio riprovare il conforto di sentirmi triste.Voglio restare insieme a te. E voglio il divorzio. Per questo. Elena è partita per Seattle il giorno dopo il trasloco. Sta scrivendo la prima biografia italiana dei Nirvana. A settembre pubblicheranno il loro nuovo album, ma io sono troppo occupato per interessarmi a loro: la rabbia adolescenziale paga bene, poi si diventa vecchi e noiosi. Il nostro appartamento è ai margini della città, dove l’asfalto balugina nel verde e il vento rinfresca l’aria anche in estate. Il comprensorio è stato appena costruito, è nuovo e disabitato e sembra di vivere in una meravigliosa città di stelle dentro al sole, o viceversa. Al giornale dicono che il Segretario è fottuto, che i pezzi di Gambetta sono molto buoni e ora vogliono venti cartelle per uno speciale che uscirà a fine mese. A luglio la Democrazia Cristiana si scioglie, sepolta fino al collo in voli che Pindaro avrebbe definito contradditori. Alla televisione qualcuno interviene per dire che è finita una fase politica e culturale. Morta una cultura se ne fa un’altra, io non ne farei una grande tragedia. Quell’uomo ha le spalle grandi, la forfora gialla e una giacca che comincia a stargli stretta. VERDE

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La notte non dormo più perché ho paura di non sentire la sveglia. La casa è grande e vuota e occupa per intero l’ultimo piano del comprensorio. Sento i gatti miagolare sui tetti e i cani piangere nei recinti polverosi. Le cicale friniscono eccitate e il mio respiro fatica a starle dietro. Una notte sento un tonfo spaventoso che riecheggia nella mia testa per ore. Se chiudo gli occhi le mie paure esplodono. Le orecchie sibilano e allora fisso il soffitto con le mani incrociate sul petto e nelle ossa il terrore di alzarmi. Una mattina il Segretario riceve il venticinquesimo avviso di garanzia e dal giornale mi telefonano sei volte in un’ora. Il Segretario dice che questo è un rogo, una persecuzione e che ha bisogno di meditare. Sono in ritardo sulla consegna. Le giornate passano in fretta. Dopo una settimana decido andare in redazione. Quella notte ho sognato di arrampicarmi sul corpo di Elena lanciandole addosso il mio cordone ombelicale, ma più salivo e più quello si stringeva attorno al suo collo. Sono arrivato fino al mento, e allora i suoi occhi sono esplosi e la testa è rotolata per terra. Prima di uscire chiamo il giornale e chiedo di Gambetta. Mentre parliamo sento un odore di carne putrefatta che si incolla ai miei vestiti e dal basso, come un incendio fumoso, sale lungo tutte le scale. Mi copro il volto con un lembo della camicia e corro a piano terra dove, davanti all’ascensore, trovo il corpo di un bambino accartocciato su di sé, affogato nel suo stesso sangue e circondato da una pozza nera e secca, alta un dito, che si proietta sui muri e le porte. Ha il cranio fracassato e gli arti incatenati ad interiora blu e viola lunghe come una tenia. Non ci sono mosche e non ci sono insetti, c’è solo un grosso topo nero che sta mangiando il suo piede. Il corpo è qui da una settimana, dalla notte in cui l’ho sentito precipitare. I cani non piangono più e i gatti stanno dormendo. Nessun altro poteva salvarlo, perché abito solo io in questo maledetto comprensorio. Penso di essere stupido, o che forse potrei essere felice. La verità è che mi odio, e che voglio solo morire.


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Toni Bruno, nato a Catania nell'82, vive e lavora a Roma. Ha disegnato per Newton Compton, L'UnitĂ , Misfatto e altre riviste. Ha pubblicato Non mi uccise la morte, la storia di Stefano Cucchi, scritto da Luca Moretti (Castelvecchi Editore), Lo psicotico domato (NPE) e Per un fascio di rose (Mondo Bizzarro Gallery). Ha illustratto il booklet di Siamo Guerriglia, l'ultimo album della Banda Bassotti. VERDE

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Riverside Alda Teodorani La città, tutta stesa da un lato del fiume, dà un’idea di dolce pigrizia, anche se vorrebbe essere - e lo è - molto operosa. Sembra il set di un film in certi punti, o anche la raccolta dei luoghi da mettere in un romanzo, con le rive del fiume che sembrano giardini pieni di salici, con gli orti dei pensionati, o con il vento freddo che spira dalle colline coperte di neve nei giorni d’inverno. Ci sono zone di questa città dove ho studiato che ospitano laghi di silenzio, specialmente nei giorni d’estate, quando non c’è nessuno che cammina per strada. All’autodromo, proprio in quei giorni, risuonano i motori potenti di auto in corsa: spesso sono gare clandestine, ragazzi che sono riusciti a trovare un varco nella recinzione o hanno sfondato una rete. Da ragazzina andavo sempre in quei campi attorno all’autodromo. Io e Vincent ci stendevamo sull’erba, aspettando di vedere le prime moto passare, e invariabilmente i sorveglianti ci trovavano e ci cacciavano via a parolacce. La città è cresciuta attorno all’autodromo, baracchette che vendevano gelati o “piadine” si sono ingrandite, son diventati luoghi di ritrovo per la gente del posto anche quando non ci sono le corse. Ho incontrato Gianluca, dopo tanti anni, proprio qui, sulla riva del fiume. Era seduto su una panchina con i suoi amici e mi aveva chiesto se volevo fumare con loro. Più tardi avrei usato quell’episodio per la scena di un racconto, ma Gianluca allora era già morto. La sua moto era troppo potente per lui, è caduto in curva e si è spaccato la testa. Non conoscevo nessuno dei suoi amici né dei suoi parenti e così ho dovuto, semplicemente, leggere la notizia di poche righe vicino a una sua

foto che non era in grado di riprodurre la stupenda complessità del suo viso su un giornaletto locale. Torno qui con mio fratello. Hanno costruito un grande patio nella parte che scende verso il fiume. Commento acida con Marco la ricerca di eleganza del posto, sfociata in una irritante pretenziosità. Poco più in là, sulla riva, i gazebo bianchi della festa dell’Unità circondano il luna park. Quella strana accoppiata non stride, ma abbaglia nel sole troppo caldo di un giugno che sembra infinito. Non sono sicura di voler stare ancora qui. Guardo le donne vestite a festa, con orologi e occhiali di marca. Guardo gli uomini che fanno combriccola tra loro, annoiandosi senza voler darlo a vedere. Poi guardo le rare coppiette. Sfogliano i giornali senza rivolgersi la parola; stasera se ne andranno a cena in pizzeria insieme ad altre coppie annoiate come loro. Non trovo nulla da sabotare, così mi siedo inquieta, osservando il fiume. Mi passano accanto i fantasmi di quello che è stato, sembrano spinti dall’acqua verdastra. Rabbrividisco, dico qualcosa a mio fratello, lui risponde: «È vero, questo posto sembra fatto apposta per ispirare la follia. Hai mai saputo di quella ragazza morta annegata proprio qui sotto?». Faccio cenno di no con la testa. Il fiume si ferma ad ascoltare mio fratello che parla: «L’hanno trovata legata proprio là, vicino a quel tronco. Lui veniva a scuola con me alle medie e me ne ero accorto, sai, che era un tipo cattivo». Fa una pausa mentre io penso ai cattivi del cinema e dei romanzi. Sono così scoperti nella loro follia, mentre nella realtà spesso nessuno se ne accorge. Marco se n’è


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accorto? I suoi compagni lo picchiavano spesso, da bambino, e io andavo furente a casa loro, minacciando i genitori di denunciarli. Era così esile..., così indifeso. «Era il pupillo del prete e serviva la messa. Andava in giro con gli scout, partecipava a tutti i raduni». Immagino il ragazzo scout che incontra la sua prima donna, che le infila le mani tra le gambe, che trova un mostro. Ha paura di quella fessura calda e umida, che potrebbe divorarlo se non sta attento. Ha paura anche di quell’altro mostro, quello che ora gli si muove nei pantaloni, e scappa via. Cosa farà la notte? Si limita a cercare di pensare ad altro? Si masturba, poi corre dal prete a confessarsi? «Lei non ne poteva più. Ci avevano provato molte volte e non c’era stato niente da fare. Le piaceva ma sicuramente non potevano continuare così. Lo ha raccontato a tutte le sue amiche e alla fine gli ha consigliato di trovare un dottore che lo curasse dall’impotenza». Lei gli ride in faccia quando per l’ennesima volta il suo cazzo si ammoscia mentre sta per penetrarla. Lui vorrebbe costringerla a prenderglielo in bocca ma lei non ci sta. «Sei pazzo» gli dice. È una scena vista tante volte nei film, possibile che lei non si renda conto di quanto sta rischiando? «L’ha legata e poi l’ha trascinata sulla riva del fiume. le ha tenuto giù la testa, sott’acqua, finché non è morta. Poi ha legato l’altro capo della fune all’albero e se n’è andato. Quando ha visto arrivare i carabinieri a casa sua, il giorno dopo, li ha

seguiti senza protestare. E quando lo hanno interrogato ha detto: «Lei aveva il demonio dentro e io volevo purificarla». Marco tace, ora. Ha finito il suo gelato e il fiume ha ripreso a scorrere. Penso a quante storie avrebbe da raccontare quest’acqua. Quanto potrebbe dire questo fiume a cui noi, nonostante ci sia passato addosso il cattolicesimo, riusciamo ancora ad attribuire una personalità, una vita propria, come ai tempi degli dei silvani. Sorrido, perché a questo non ci avevo mai pensato. Guardo l’orologio. Il treno parte tra venti minuti. È giunto il momento di salutare Gianluca e tutti gli altri.


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La prima volta che ho incontrato Alda Teodorani eravamo entrambi seduti sui gradoni dell’ufficio postale di Piazza Bologna e portavamo avanti una conversazione il cui minimo comun denominatore era la musica, nonostante l’abbigliamento all-black che già ci accomunava e aveva fatto forse piazza pulita di ogni dubbio. Alda mi disse che stava cercando i dischi di Fausto Rossi in arte Faust’o, un cantante italiano scomparso dalle scene che sarebbe sicuramente piaciuto anche a me. Io l’avevo già sentito nominare in termini entusiastici sul diretto Formia-Roma delle nove e quarantacinque e mi offrii di fare delle ricerche, cosa che poi effettivamente feci (che strano: erano anni che non seguivo un suggerimento implicito o esplicito, anni di Manu Chao e Primus e senti l’ultimo dei Pearl Jam e però questo o quel gruppo black metal sinfonico folk apocalittico ionico ionico ionico hanno fatto un disco che dovresti avere). Non molti anni dopo telefonai a casa di Fausto, mi aveva dato lui il numero, e parlammo per circa tre ore di un sacco di cose, molte delle quali ce le siamo tenute per noi. Ci risentimmo poi ancora una volta ripromettendoci di rimanere in contatto, perché l’idea di un’intervista si era trasformata in uno scambio di battute con una persona che non era affatto scomparsa e non era affatto irraggiungibile, se il tuo scopo era realmente parlare alla persona. Ho pensato molto ad Alda, e a come le concatenazioni di parole indichino piste, se ti prendi la briga di raccoglierle. Erano bei tempi quando c’erano le lire italiane, se non altro avevi la possibilità di andare alla Suburra o a Porta Portese o in una baracca napoletana di Formia e comprare ad esempio un chiodo VERDE

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da motociclista, un impermeabile alla Tenente Colombo, una felpa fintoAdidas con cappuccio, un paio di Levi’s usati, un giubbotto jeans smanicato, un cappellino degli Yankees. Il tutto senza premeditazione, semplicemente passavo di qui e ho notato questo, posso provarlo? Ma lo stesso vale per le cataste di compact disc e vinile che riuscivi a comprare con cento o duecentomila lire ricavate non prendendo l’autobus, facendo la spesa giornaliera essenziale, fotocopiando un manuale, prendendo l’entrata laterale della mensa di economia e commercio. Sostare novanta minuti in libreria, sfogliando gli elefanti Garzanti e mettendoti sotto il braccio intere bibliografie, settanta o ottant’anni della vita di un poeta, e sentirsi un gran signore. Ma anche pranzare e cenare al cinese un giorno sì e uno no, e sentirsi doppiamente un gran signore perché i cinesi loro sì che sanno come trattare un avventore anche molesto. Allora si poteva fumare nei ristoranti, ricordo il mio posacenere pieno. Ricordo le mangiate interminabili con Frederik, ricordo le scatole rotte alle cameriere, ricordo quella volta che andai a pranzo con Antonella e Stefano ed ero già ubriaco alle due di un pomeriggio assolato. Su I fiori del male – quaderno trimestrale di poesia, cultura letteraria e arte – trovo stralci di un’epistola fantastica dell’ultimo Lucini al futurista Marinetti: «[…] voi avete bisogno di rumori, di clamori, di fanfare, di tutto il bataclan meetingaio ed antipatico delle giostre, delle lizze, dei caroselli, delle parate, delle mille sciocchezze amene colle quali si alimenta la follaccia follaiola e stercoraria del giorno: io rimango nella mia serenità […]». Impromptu illuminato di un anarchico terminale.


BLITZRECENZION

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S. H. Palmer Noi premiamo l’iniziativa, perché riflessione non è roccherrò. Noi ve la diamo, perché ve la meritate. (shanduziopalmer.tumblr.com)

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Cocaina gratis

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storie nere

STORIE NERE Luca Carelli

Il 2 luglio 1985 Edvige Porta è seduta nel suo ufficio. Sono le nove e trenta di sera quando la donna, 50 anni, capelli chiari, occhi scuri, single senza figli, telefona ai genitori per avvisare che farà molto tardi. Come sempre, risponde il padre, poi le chiede se ha cenato. No, dice Edvige, non ho ancora cenato. Chiedo a tua madre di prepararti qualcosa? domanda il padre. Sì papà, grazie, risponde lei, ma niente carne per favore. Niente carne, risponde il padre. Edvige è funzionario del servizio economato della USL 1/23 di Torino (da cui dipende l’ospedale Sant’Anna della dottoressa Bianca Tovo), lo stesso ufficio dove lavora Marina Di Modica. Lo stabile è deserto, il portiere stacca alle 20 ma l’ingresso resta accessibile per tutta la notte. La mattina dopo, alle sette, il signor Porta prepara il caffè alla figlia e le porta la colazione a letto, ma la stanza è vuota. Nello stesso momento, al secondo piano di Corso Vittorio Emanuele III, alcuni colleghi rinvengono Edvige legata a una sedia con del nastro adesivo nero, coperta di sangue e di lividi, la faccia un miscuglio di carne rossa e viola. Dalla cassaforte dell’ufficio mancano 50 milioni di lire. La donna è morta a causa delle percosse subite e per le coltellate – più di dieci – ricevute. Che cosa succede, si chiede 18 anni dopo un giornalista televisivo, quando in una città le donne svaniscono nel nulla e i loro corpi non vengono ritrovati? Cosa dovrebbe fare un giornalista come me in assenza di prove per collegare casi simili tra di loro? Indagare. Ed è quello che farò. Nel 2003 c’è un giornalista televisivo che segue da vicino le prime indagini su Paolo Stroppiana. Questa è merda inutile, pensa il giornalista, tutta merda vecchia e inutile. Il giornalista però pensa che è pur sempre un inizio e che c’è differenza tra una merda d’inizio e un inizio di merda. La prima cosa che scopre è che Marina Di Modica non è

l’unica donna scomparsa ad aver conosciuto Stroppiana. Prima di lei c’è stata Camilla Bini, quattordici anni prima. È l’8 agosto 1989 ed è l’ultimo giorno di lavoro per Camilla Bini, 34 anni, padre italiano e madre somala. La donna, impiegata alla Bolaffi, sta per partire per la Puglia con un’amica. L’ultima persona ad averla vista è la sua vicina di casa, che attorno alle 18:30 la invita a bere una bibita nel suo appartamento. Parlano di mare, di spiagge, di lavoro, di relax e di gatti randagi, poi si augurano con affetto buone vacanze. Nei giorni precedenti Camilla è andata più volte in un’agenzia di viaggio del quartiere per organizzare la partenza. La donna dovrebbe rientrare dalle ferie il 28 agosto. Per venti giorni nessuno la cerca. Le indagini partono male e in ritardo e solo in seguito alla denuncia dei suoi datori di lavoro. Cosa è successo a Camilla? Nel suo appartamento tutto è apparentemente in ordine, non ci sono segni di collutazione e non manca nulla. Eppure gli agenti trovano il frigorifero pieno e, sul tavolo della cucina, due bicchieri e due tazzine di caffè, una delle quali macchiate di rossetto, del tipo che Camilla non usa. Perché Camilla avrebbe dovuto fare la spesa e riempire il frigorifero il giorno prima di partire? In quei giorni il giornalista televisivo viene a conoscenza di una serie di cose. Le più importanti sono: le impronte digitali sui bicchieri e sul tavolo non sono state rilevate; i vicini di casa di Camilla e i genitori della donna non sono mai stati ascoltati dagli inquirenti; nel 1998, è primavera, Giuliana Bini contatta il magistrato che indaga sulla scomparsa della sorella ma viene a sapere che nessun fascicolo sul caso è mai stato aperto; nell’agosto del 1989 una collega e amica di Camilla avrebbe ripetutamente cercato di contattare la donna e non riuscendovi avrebbe chiesto aiuto a Beatrice Della Croce di Dojola. A questo punto il giornalista televisivo deve

Camilla

VERDE

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fermarsi, tornare indietro e rileggere le ultime sei pagine di appunti fitti e disordinati che si affastellano nella sua Moleskine Nera. Ha perso il filo. Il 9 agosto 1989 Camilla Bini sarebbe dovuta partire in Puglia con Beatrice Della Croce di Dojola, impiegata della Bolaffi ma soprattutto fidanzata di Paolo Stroppiana. I tre colleghi si frequentano anche al di fuori delle ore di lavoro. In quei giorni d’agosto un’amica di Camilla cerca inutilmente di contattare la donna, ma poi si rivolge a Beatrice. Perché proprio a lei, si chiede il giornalista? Durante il processo di primo grado per l’omicidio Di Modica, indagando sulle abitudini sessuali di Paolo Stroppiana, si scopre che l’indagato ha avuto una relazione con Camilla Bini, sostituita anni dopo da Marina. Nell’ottobre del 1996 l’uomo, durante un’intervista televisiva, incalzato dalle domande, giura di aver avuto con entrambe le donne esclusivamente rapporti di lavoro superficiali. Brutto bastardo, urla Giuliana Bini davanti alla tv, nel salotto dei suoi genitori. Eravate fidanzati, lo sai, sussurra grattandosi l’avambraccio sinistro, mentre una lacrima le riga lentamente il volto. Perché fare la spesa il giorno prima di partire? Perché riempire il frigorifero alla vigilia delle ferie? Perché due bicchieri d’acqua e due tazzine? Perché solo una delle due macchiata di rossetto? Perché un rossetto che Camilla non usava? Perché non raccogliere le impronte digitali sulle tazzine e sui bicchieri? Perché? Perché? Perché? Nel 1990, durante una pausa pranzo in ufficio, Beatrice Della Croce di Dojola è in compagnia di due colleghi. Il discorso cade su Camilla. È vero che dovevate partire insieme per la Puglia? chiede l’uomo giovane e in camicia bianca. Sì, è vero, risponde Beatrice. Tredici anni dopo il giornalista televisivo riesce a intervistare la coppia del momento, Paolo e Beatrice. I giornali e le tv parlano solo di loro, è un colpo sensazionale. Il giornalista ha appena appurato che l’amica di Camilla, nei giorni successivi alla scomparsa, aveva contattato Beatrice perché a conoscenza del viaggio in Puglia che le due donne avevano organizzato. È vero, Beatrice, che tu e Camilla dovevate partire insieme per la Puglia? domanda il giornalista. Non esiste, risponde lei, io odio la Puglia. E dove dovevate andare allora? domanda il giornalista. Da nessuna parte, risponde la donna. Puoi essere più precisa? Le ho semplicemente proposto

di venirmi a trovare a casa mia a Santa Margherita Ligure, ma lei voleva andare in Puglia. È vero, domanda il giornalista, che Paolo e Camilla avevano una relazione? Nel modo più assoluto, risponde la donna. Nel modo più assoluto si o no? Beatrice guarda dritto in camera e, come levitando, trattiene il respiro fino a un attimo prima di scoppiare e poi dichiara: il soprannome di Paolo è cuore di panna. Può bastare, no? Cos’è successo a Camilla? conclude serio il giornalista. È stata vittima di una stagione infernale. Nell’estate del 1985 un gruppo di medici dell’ospedale Sant’Anna di Rivoli si aggrega a una spedizione scientifica dell’Univeristà di Torino. Gli studiosi si trovano nel monastero di Bardan, nella regione del Kashmir, a 3600 metri di quota. Il 9 agosto, durante un’escursione, Fiorella Rolfo, 33 anni, medico fisiatra, si sente male e chiede all’amica e collega, dottoressa Bianca Tovo, di fermarsi, ma la donna prosegue con il gruppo e Fiorella resta sola, nei pressi di un fiume. Più tardi verranno ritrovati il suo zaino e gli effetti personali. La dottoressa Rolfo è svanita nel nulla. Al ritorno in Italia una troupe televisiva intervista Bianca Tovo. L’intervista avviene all’aeroporto di Milano Linate. I giornalisti, in sequenza, domandano alla dottoressa: perché Fiorella è stata lasciata sola; che tipo di problema fisico aveva accusato Fiorella; se è vero che Fiorella soffriva di una grave forma cronica di depressione; come si sono svolte le ricerche della donna; se pensa che è morta; perché ne è così convinta; come è morta allora; cos’ha da dire ai genitori che la stanno ascoltando. Il 14 aprile 2011 Paolo Stroppiana viene condannato in via definitiva a 14 anni di reclusione per l’omicidio preterintenzionale di Marina Di Modica. Il 22 aprile il caso di Camilla Bini, tutt’ora irrisolto, viene riaperto. (FINE) Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. Lettura consigliata: Enrico Compagnoni, Il Filatelico, Kaos Edizioni 2009. VERDE

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18 SETTEMBRE 2013 ORE 19,30

VERDE A MERCURIO

ROMA CIRCOLO DEGLIARTISTI VIA CASILINA VECCHIA 42


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