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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 5 anno I ottobre 2012

S.H. Palmer Ottavia Spisni Alda Teodorani Max Cabrerana Federica Lemme Pierluca D’Antuono Sergio Gilles Lacavalla Deny Everything Distro 2.0


dove siamo editoriale

La pelle è un organo, l’organo più esteso che abbiamo. Su internet si trovano fotografie di incidenti stradali, corpi investiti sulle autostrade, martoriati. Nemmeno immaginate su che lunghezza può estendersi una pelle umana. Ci sono interi romanzi e film dedicati alla pelle, ai serial killer che scuoiano le loro vittime. Il corpo non può vivere senza pelle. Il corpo della scrittura non ha le stesse proprietà del corpo fisico. Ci sono scrittori che lo truccano, lo abbelliscono, lo dipingono a colori vivaci, eppure alla lunga il trucco si scioglie, i colori si scrostano. Potrai ingannare un editore in cerca di facili guadagni ma non un lettore. Il lettore non è un idiota, bisogna essere onesti, veri, con lui, non lo puoi prendere in giro per sempre. A noi di VERDE piace la scrittura scarna, non convenzionale, come l’immagine di copertina di questo mese: un corpo scarnificato, disegnato dal grande anatomista Govard Bidloo (1649-1713), e questo è il motivo per cui anche la testata di ottobre viene proposta diversa dal solito. Perché VERDE non è un colore. Il resto lo lasciamo scoprire interamente a voi. LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE!

VERDE

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suicideautop.tumbrl.com

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p.2 Editoriale p.3 TI ODIO POESIA #5: Apocalisse (Ottavia Spisni) p.4 I dolci li ordiniamo alla fine (Pierluca D’Antuono) p.6 Pavlov Effect (Max Cabrerana) p.8 Muccassassina (Alda Teodorani) p.9 Apocalyptical Marshmallow Crunchers cap VIII (S.H. Palmer) p.12 IN-DISTRO #5 (Deny Everything Distro 2.0) p.13 BLITZRECENZION #11 Nella mia vita (S.H. Palmer) p.14 FICTIOTEQUE #3: Carnazza (Federica Lemme) p.15 ROCK CRIMINAL #3: Kingston, Babilonia (Sergio Gilles Lacavalla)

indizi

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PARTNERS IN CRIME

Mi viene la nausea al solo pensiero di mettere la penna sulla carta, per qualsiasi motivo, letterario o altro. Questa mia incapacità di agire sta aumentando.

denyeverythingdistro.blogspot.com

for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY

VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista verderivista.blogspot.it


Ottavia Spisni Mi ferisca la luce quando il male nel mondo appare. Io sto. Godiamo per il tanto che abbiamo (sentenza). Ma il tanto che abbiamo cos’è? Se fossi nuda avrei questo tanto. Ho la faccia bagnata di pioggia. Ho la febbre. Il corpo più intelligente di me dice: stasi. Ho la febbre e non posso muovermi: dov’è il tanto che ho? Stasi. Nuda e statica Ho bisogno di una coperta. (da Variazioni sull’amore e sul niente)

TI ODIO POESIA

Apocalisse

Ottavia Spisni (1977) ha conseguito una Laurea Magistrale in Filosofia e Storia delle Idee con una tesi sul fenomenologo Erwin Straus, pubblicata per Amazon con il titolo Conoscenza e Mondo nella “fenomenologia” di Erwin Straus (Why the Mind is not in the Head?). Si è anche laureata in Ermeneutica Filosofica con una tesi sulla scrittura, Bataille e Agamben. Nel 2004 ha pubblicato presso l’editore Tracce di Pescara il volumetto di poesie Dalla Fisica alla Mistica. Dal 2011 compie numerosi viaggi in Asia facendo volontariato soprattutto per aiutare i cani di strada, assieme al fantastico KAT Centre. http://www.katcentre.org.np/ Ha pubblicato un libro sul Bhutan e un libro sul Nepal (Legends and Images from Secret Bhutan, Blurb. Nepal, a Photographic Journey, Blurb). Il suo blog: www.alaelunaedharma.blogspot.it FB: https://www.facebook.com/alaelunaedharma Email: ottavia.spisni@gmail.com Academic page: http://unito.academia.edu/ottaviaspisni VERDE

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I dolci li ordiniamo alla fine Pierluca D’Antuono I cani si rincorrevano disegnando per terra traiettorie di polvere che conducevano alla fontana o sotto la grande quercia davanti al parcheggio; si fermavano d’improvviso, sdrucciolando come vecchie gomme bruciate e poi fissavano spauriti un punto invisibile nell’aria, con le orecchie tese a uncino e la bocca spalancata: allora il più veloce s’acquattava alle spalle del più smarrito per infilare, come in una presa, il lungo muso eccitato di bava sotto la coda che s’elettrificava in una frustata e dava smalto allo slancio per una nuova sgroppata lungo le stesse trame polverose di prima – e così per ore. Nero soltanto si sottraeva all’attacco e, acciambellato sotto una panchina, allungava il collo tra le putrelle divelte srotolando la lingua in una busta di pane fresco appena sfornato. Ogni volta che il muso di Nero spuntava come una gemma tra le sbarre in fiore, le mani dell’uomo che reggevano la busta lo stringevano fino a farlo lacrimare; ma lui restava là, e dopo un attimo di smarrimento, si stropicciava con le zampe ed era già pronto per un nuovo assalto, che l’uomo stroncò sul nascere scomparendo nel buio. Nero provò a inseguirlo sollevando un polverone, ma la VERDE

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strada era vuota e l’odore era ormai svanito. Naso a terra, continuò l’esplorazione davanti al ristorante, dove trovò soltanto un cellulare in mille pezzi e una donna bionda stesa al suolo, fredda e immobile come una pietra. Le sue mani esplodevano di sapori forti e speziati a cui non poteva resistere; si consolò leccando per bene i palmi e le dita e il viso profumato. Sull’asfalto, ai piedi della donna, il braciere di una sigaretta brillava ancora come un led incantato. È il nostro primo appuntamento e io sono in ritardo. Sul marciapiede, come in un domino di lamiera, le automobili si arrampicano dalla caditoia sotto il cordolo della banchina all’ingresso del ristorante. Al terzo giro lascio la macchina in seconda fila e, nel silenzio dell’acqua gelata che bulica nelle polle dei nasoni, finisco la sigaretta davanti alla vetrina illuminata, mentre il vento preme sul nastro adesivo che dolcemente fissa il cartellone rosa con la fotocopia di una vecchia recensione e il menù della serata scritto a mano. Leila è seduta al tavolo e parla al cellulare. Appena mi vede, si scusa con gli occhi e fa segno


di averne ancora per poco. Sorrido riprendendo fiato e mi sento già meglio: se la telefonata dura abbastanza il mio ritardo è cancellato. Attorno a noi i tavoli sono quasi tutti vuoti. L’ingresso è alle nostre spalle ed è coperto dal rinfianco di un arco. Leila inarca le labbra ogni volta che sorride; quando parla, gli occhi si distraggono contraendole il viso, eppure la trovo più attraente che in foto e penso che mi piacerebbe dirglielo. Appena il cameriere arriva con i menù, Leila chiude il telefono e lo saluta stringendogli la mano. Io non conosco quasi nessun piatto e non so da che parte cominciare; Leila propone di ordinare per entrambi e chiede al cameriere di portare subito una bottiglia di Duca di Castelmonte. Il vino è buono e mi rilassa: ne bevo subito due bicchieri mentre Leila sceglie le portate. Affianco a noi, c’è solo un tavolo occupato da due ragazzi e una ragazza. La ragazza è seduta di fronte ai due che parlano ad alta voce e ridono rumorosamente. Il loro tavolo è imbandito ed è pieno di colori forti e accesi: il verde del pistacchio, il dorato dei fritti, il rosso del sugo profumato. Mezz’ora dopo aver ordinato, il vino è quasi finito. Leila è inquieta, regge in grembo il suo cellulare e dal suono della vibrazione mi accorgo che sta scambiando messaggi con qualcuno.

Mi verso l’ultimo bicchiere e faccio segno al cameriere di portare un’altra bottiglia. «Sei molto bella Leila. Più che in foto» le dico. Leila mi guarda con i pollici sullo schermo, come se cercasse di ricordare qualcosa, poi le cade il cellulare dalle mani e la batteria si perde da qualche parte sotto il tavolo. Ci alziamo insieme per raccoglierla e appena sono in piedi barcollo un po’. Ho molta fame. «Scusami», mi dice lei, rimontando a quattro zampe il cellulare sul pavimento, «ma devo fare una telefonata. Torno subito!» Mentre corre via, mi giro a guardare i suoi capelli biondi e mi accorgo che la ragazza affianco a noi porta una fede al dito. I due amici al tavolo continuano a parlare fissandosi negli occhi. Sono protesi l’uno verso l’altro e le loro mani si sfiorano. La ragazza va alla cassa a pagare e i due escono dal locale. Al nostro tavolo intanto arrivano le caponate, i tortini di verdure, cipolle, zucchine e pomodori ripieni e le panelle calde. «Manca qualcosa?», mi chiede il cameriere. Le terrine dei tortini sono bollenti e le caponate profumano di mare. Sento il sapore dei capperi e qualcosa di dolce mi si scioglie in bocca stringendomi il cuore. «Manca il vino» gli dico. I dolci li ordiniamo alla fine. VERDE

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Pavlov Effect Max Cabrerana Finora Cassio ha sparato solo a sagome umane disegnate sui muri. Ha sparato a manichini senza braccia, a barattoli senza tappo. Ha sparato a tutto tranne che cose vive. Ora è arrivato il momento di una cosa viva. Gimmy Tenaglia dice a Cassio che conta fino a cinque. Se non si decide a sparare gli da un calcio nelle palle. «Uno, due, tre, quatt…» Cassio ci tiene alle palle. «E che fretta c’hai d’ammazzarlo?» «E che io, secondo te, c’avrei tutto il giorno da perdere?» Cassio solleva la pistola e grida: «BANG! BANG!» Si fa cadere le braccia come se la pistola pesasse cento chili, tira indietro la testa. Abbaia, ride, ulula. E menomale che ha pippato solo mezzo grammo da stamani. A questo punto Gimmy Tenaglia si rende conto di aver fatto una minchiata a portarlo nella vecchia fonderia, a vedere se oltre ad ammazzare rifiuti è capace di premere il grilletto contro una cosa che respira. Si inizia con i cani, poi le gambe di chi non paga regolare il pizzo, poi la faccia di chi ti vuol fottere il business. Questo è l’iter, nella banda. «E vaffanculo,» fa Gimmy Tenaglia e molla a Cassio una tale sberla sulla capoccia che ora sì che gli parte un colpo. Il proiettile colpisce la catena, la spezza. Scintille, fischi, pezzi di ferro schizzano in ogni dove. Il frastuono dello sparo. Dopo, tutto quello che si sente è un respiro catarroso e asmatico. Gimmy e Cassio sbiancano come fantasmi vittoriani. Un American Pitbull più una cagna di Mastino Napoletano più un Rottweiler uguale un Bandog. Un Bandog non è un cane, è un cinghiale VERDE

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che abbaia. Questo Bandog di 90 kg si dà una sgroppata come se uscisse da un bagno. Un bagno di ferro e fuoco. Pellaccia nera, cicatrici di morsi, punti di sutura, linee viola melanzana e giallo vaniglia che sembra disegnato da Pollock. Le orecchie, la coda, mozzate a due mesi per non farle diventare una presa facile nei combattimenti con gli altri cani. Labbra cadenti, rosa a pois, bavose, imbrattate di terriccio. La lingua che penzola fuori e gronda saliva. Il muso schiacciato. Gli occhi umidi che scrutano ovunque. Dice Gimmy Tenaglia: «Ora… ora fai il bravo. Volevamo solo giocare. Noi due, A.Mi.Ci.» E Cassio: «Ah sì, devi chiamarti Lucifero.» Ora che è più vicino, riesce a leggere un nome sul fianco destro, stampato in gotico, a fuoco. Marchiato come un vitello. LUCIFERO. Cazzo di nome, pensa. Ammesso che LUCIFERO sia il nome e non lo sponsor. Lucifero si dà una lappata al muso. Mugola. E non è un buon segno. «Ti avevo detto di tenere la pistola stretta!» fa Gimmy. La pistola, nel rinculo, è volata via da qualche parte nel buio, tra le carcasse di motorini rubati, elettrodomestici ridotti a colabrodo, manichini con le tette e la faccia spappolata. Riviste porno ungheresi. Tra i vecchi macchinari arrugginiti di quella fonderia abbandonata dagli anni Ottanta, che alle pareti ora sono disegnate figure umane bucherellate dai colpi di proiettile. Croci celtiche cazzi vari. Graffiti tipo: Poliziotti brucierete! Lucifero è abituato al buio. Passa giorni, che dico, settimane, nella completa oscurità. Senza cibo, senza acqua. Poi, all’improvviso lo mettono in una stanza


con una luce fortissima sparata in testa. Tipo terzo grado. Gli fanno trovare una gallina che schiamazza. Un gatto appeso al soffitto per la coda. Pavlov Effect Un Pavlov Effect è un riflesso in risposta a uno stimolo costante. Tipo: luce uguale roba da azzannare. Da fare a pezzi. Carne e ossa da stritolare. La stessa luce sparata sul muso, Lucifero se la trova nell’arena, nei combattimenti con i cani. A quel punto, tutto quello che Lucifero si trova davanti è spezzatino. Ora, in quel buco di merda che la banda usa come poligono di tiro, tutto quello che si riesce a vedere, è all’interno del perimetro illuminato da una lampada al neon. Questa della luce al neon è uno dei motivi per cui Lucifero è veramente incazzato. Un altro, è che sono tre giorni che non mangia. Gimmy con la coda dell’occhio ha visto la pistola dietro di sé, a un paio di metri. Lucifero guarda Cassio, poi Gimmy, poi Cassio, poi abbassa il muso, solleva la schiena. Il moncherino della coda c’ha come un’erezione. «Non fare scherzi, cuccia!» dice Gimmy che è sempre più vicino alla pistola. Cassio è un bagno di sudore, fa qualche passo indietro verso la porta d’uscita. Giura sul dio dei cani che se esce di lì, si iscrive a qualche associazione cinofila. Lucifero inizia a latrare, a sbuffare, con il fiato che esce come il vapore da una locomotiva canina. Se avesse un qualche pensiero traducibile in parole, non vorreste saperlo. Adesso Gimmy è vicino alla pistola, con il braccio destro stirato all’inverosimile dietro la schiena, sente l’acciaio con la punta dell’indice. Si alza in piedi e Lucifero è come se c’avesse le ali. Un urlo che non si capisce se umano o animale o cosa. Gimmy di riflesso spara. Se esco vivo di qui, San Francesco in confronto è un bracconiere, prega Cassio quando il proiettile calibro 22 gli frulla il ginocchio destro nella consistenza di in un budino. Cassio lascia strisce rosse di sé

sul pavimento di cemento grezzo continuando a strisciare fuori della porta. Gimmy con gli occhi sbarrati, la testa mezza staccata dal collo è bello e che morto. Pace all’animaccia sua. Cassio con le mani tremanti arpiona il terreno, si trascina. La gamba è come se gli avessero dato fuoco. Sente dietro di sé biascicare, sbuffare, chock chock di ossa sgranocchiate. Se solo potessi farmi una tiratina di bamba, pensa. Adesso, qui, ora. Un’altra cosa che Lucifero non fa da chissà quanto tempo è scopare. Ai tempi d’oro, un altro dei momenti in cui usciva dal box era per creare altri piccoli Luciferi per l’arena. Quando lo mettevano insieme ad una cagna, le luci erano sempre tenute basse. E non per creare atmosfera, ma perché Lucifero invece di scoparsela la cagna, se la mangiava. Cassio è fuori dalla porta. A quel punto si sente un peso sopra. Una cosa che sbava e ansima. Poi, zampe che lo stringono ai fianchi, dei colpi sulla schiena ripetuti a mille all’ora, tipo coniglio, tipo mandrillo, tipo riccio. Tipo, avete capito. Gesù, Maria, prega Cassio. San Francesco. Oddio. Lucifero ci mette neanche un minuto. Cassio trattiene il respiro. Gli occhi semichiusi. Vede Lucifero passargli sopra. Lucifero solleva una zampa e marca il territorio. Sbadiglia. Poi scompare verso i campi della periferia. Lucifero che quello che succede non importa. Ma quella cazzo di luce del primo pomeriggio, quella palla infuocata lassù nel cielo, lo manda maledettamente in bestia.

Max Cabrerana ha scritto racconti e sceneggiature di fumetti che sono stati pubblicati su siti letterari, riviste e antologie, tra le altre Underground Press, Toilet, BooksBrothers. Nel 2010 è uscita per la Cut-up Edizioni la sua raccolta di racconti Brasarsi. VERDE

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Muccassassina Per Roberta M. Quando le hanno detto andiamo a Muccassassina stasera le è sfuggita una risata. «Che cavolo è?» ha chiesto continuando a ridere anche se nessuno dei suoi amici sta ridendo. «Come, non lo sai?» le ha chiesto Carlo con la sua voce monotona – sembra sempre sul punto di addormentarsi e Roberta si secca ogni volta, perchéccazzo, un po’ di entusiasmo potrebbe mettercelo, almeno quando è con lei. Poi prende gli occhiali dalla borsa, perché non le va proprio di farsi fissare da quelle facce fantasma e li mette. Ora ci vede. Le macchie bianche son diventate volti. Oh, God, meglio per modo di dire… un brivido di ribrezzo. Valentina ha gli occhi cerchiati di nero, potrebbe pure provarci a cambiare mascara, ché questo le sbava sotto e sopra gli occhi ogni sera e sembra sempre una maschera tragica. L’altro amico di Carlo, non ne ricorda nemmeno il nome, sembra uno zombi e fuma una sigaretta dietro l’altra con un accanimento che potrebbe avere per titolo «vogliomettereilcatrameneipol monietenercelofinchémiammazza». Poi ci sono altri due o tre sconosciuti ancora peggio e a questo punto è proprio meglio non saperne il nome… Roberta sospira, si toglie gli occhiali rassegnata e le facce ridiventano macchie. Meglio così. È stanca. Carlo ha voluto scopare per tutta la giornata, proprio oggi che lei non ne aveva nessuna voglia. E vabbé, domani è lunedì e se va bene non si vedranno per altri due o tre giorni. «Bé, ditemi cosa è ’sta Muccassassina»

Alda Teodorani esclama, perché gli altri nel frattempo hanno ricominciato a parlare tra di loro di tutto fuorché della serata e lei vorrebbe capire se è il caso di filarsela con un finto mal di testa o restare a vedere se riuscirà a divertirsi almeno stasera anche se non le pare che quelle cime di Carlo e dei suoi amici riescano a partorire un programma interessante. Carlo le si è avvicinato, mormora: «La smetti di farmi fare queste figure di merda? Riesci a capirlo quando è il momento di fermarti?» «No, non lo capisco…» sibila Roberta e trattiene a stento un “vaffanculo” che le preme proprio dietro i denti… e lui, a voce più alta per compiacere gli altri, ha detto: «Ma tesoro è un locale bellissimo, serate divertenti e tanta birra. Poi a mezzanotte si spogliano tutti…» «sai che divertimento con ’sto freddo» lo ha interrotto Roberta, voce sarcastica. Ma lui non ci ha fatto caso e gli altri nemmeno, però forse sarebbe arrivato il momento di togliersi dal centro della Galleria Colonna dove convogliano gelidi tutti gli spifferi del mondo e mirano dritti alla gola. E in effetti, finalmente, anche gli altri sembrano aver capito. Alla fine, più che finalmente, perché Roberta sta battendo i piedi da mezz’ora. Certo quelli non sono cime e poi non sanno nemmeno che cosa sia il linguaggio del corpo. Raggiungono le loro macchine parcheggiate in doppiafila che hanno già bloccato due autobus e causato un concerto di clacson. Salgono ridendo, del tutto indifferenti al casino. Roberta si sente avvampare


e si rannicchia dentro il bavero del cappottone nero. Sente il cellulare che suona per un messaggio, ma adesso non le interessa. Controllerà più tardi chi si sta annoiando a tal punto, di domenica sera, da mettersi a inviare short message. O chi, sempre per noia, le manda una mail alla sua casella di posta. Ora no. Non ha credito per rispondere. E poi c’è Carlo lì vicino che le legge sempre tutti i suoi sms. No, proprio meglio di no. Il traffico del centro si snoda come un serpente illuminato e lei è soffocata dall’odore di chiuso dell’auto, dalla puzza dei gas di scarico che filtra dai finestrini, dal sudore di Carlo e dalle sigarette di… cazzo, si può dimenticare il nome della gente tanto in fretta? Il locale è buio ben oltre la soglia di cecità. Mentre avanzano verso il bar illuminato, Roberta calpesta un po’ di piedi, poi il rumore martellante all’inverosimile della musica le impedisce di sentire se i proprietari di quei piedi abbiano o meno protestato. Vicino al bar c’è la ressa e Roberta non se la sente di affrontarla, allora scuote Carlo per un braccio. Ora che il chiarore del bar è più vicino può intravvederlo in faccia, anche se senza occhiali non riesce a distinguerne l’espressione. «Vado a sedermi là» urla mentre con un gesto vago indica un punto dove sembrano esserci poltrone libere. Poi si stufa delle ombre e tira fuori gli occhiali. Accanto a lei due ragazzi stanno facendo sesso. Uno dei due, sembra il più giovane, è in ginocchio su una poltrona. L’altro lo ha abbrancato per la vita con le braccia, gli sta piegato sopra come un rospo e stantuffa senza tregua. Roberta li fissa incantata. Non riesce a distogliere lo sguardo e nemmeno vuole. Entrambi la sentono e si girano verso di lei. Il più giovane la guarda con occhi appannati, mentre l’altro tira fuori la

lingua e la dimena oscenamente su e giù. Poi muove le labbra in una frase, a lei pare che stia dicendo: «sento l’odore della tua fica», ma no, non è possibile, quello era un film ma la situazione era analoga: in un carcere–manicomio un pazzo si aggrappa urlando alle sbarre mentre passa di lì Clarice Starling, agente dell’FBI, che incontrerà il dottor Hannibal Lecter, detto Hannibal il cannibale. Roberta sorride agli amanti, suvvia ragazzi pensa ma non dice, ché sarebbe inutile, per un attimo medita che anche lei vorrebbe avere quella facilità di lasciarsi andare, farlo lì con uno sconosciuto, ma questi son pensieri da anni Settanta e non da nuovo millennio, nell’epoca dell’Aids e del sesso virtuale. E pensa ancora, assurdamente, che vorrebbe essere al suo computer a scrivere, invece di star lì nel casino, e che sarebbe arrivato il momento di cominciare a dire di no, e non fare tutto quel che le chiede Carlo, solo perché quando, il sabato e la domenica, tutti gli altri si stanno divertendo o fanno finta di divertirsi lei non ha il coraggio di restare da sola a casa. Questo rafforza le sue catene, a chi confessare del resto che alla musica e alla gente preferisce uno schermo di computer nella penombra, uno schermo bianco da riempire di parole, e magari la musica di sottofondo, un pezzo per pianoforte, l’ideale è Chopin, perché le parole anche se inglesi rompono la concentrazione… Basta. Basta piangersi addosso, lì c’è uno spazio libero, ora è meglio sedersi. Si butta sulla poltrona, chiude gli occhi. Poi le torna in mente il messaggio sul cellulare. È Stefano, probabilmente immerso in una delle solite crisi depressive da week end. «mi facevo frustare gratis da una puttana sadomaso a milano.lei mi amava+poi l.amore è FINITO». Le dispiace di non potergli rispondere. E poi chissà se è vero.


Cap. VIII *Bum around, sit my bum, scrap your bum* S.H. Palmer ULTIMO CAPITOLO - RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI L’ultima guerra contro il nulla ha distrutto il mondo, i desideri e la memoria di ogni cosa: gli unici sopravvissuti sono i Randagi del Macello, bambini mangiatori di libri antichi, detentori della saggezza storica predestinati alla rieducazione futura del popolo, e un gruppo di masticatori di tabacco inumidito di benzina, che coadiuvano la realizzazione del “progetto”: la ricostruzione del passato dimenticato, una grande opera di recupero della memoria della civiltà (o della barbarie) perduta. Ho deciso, a un certo punto, di buttare giù pensieri per l’indagine di H**. Non so se potranno servirgli un giorno, ma non importa; ho deciso di dare la mia visione delle cose ancora una volta, anche se questo mi ha recato spesso più danni che lode. Ho deciso anche di trascrivere la storiella del cemento verde per i Randagi; spero che ci facciamo uno spuntino decente. Dovrei trovare qualcosa per scrivere, da qualche parte. In tutta la vita non ho fatto altro che prendere decisioni estreme per cercare di tenere sempre vivo il legame che sentivo con Sparta. Il sociale, nel senso canonico del termine non mi ha mai intrigato necessariamente. Per un lungo periodo della vita ho creduto che ingaggiare battaglie feroci contro la mediocrità fosse la migliore risposta allo stagno intellettuale che ci circondava. Il periodo successivo della crescita mi portò a rivedere alcune posizioni passando dallo stato di Partigiana della Vendemmia Emotiva, a quello di Eremita Zen Bum Don’t Touch. In realtà, non mi interessavo molto di ciò che ritenevo superficiale, quindi cominciai a prestare attenzione a pochissime faccende selezionate: il teatro britannico di fine Novecento, le canzoni per bambini, il cibo micro-contaminato e le persone che sputano dritto negli occhi. Provavo un’attrazione tenace verso le scarpette da ballo, quelle con le punte di gesso, sebbene le avessi indossate pochissime volte e ne ricordassi ancora pienamente il dolore e le piaghe dignitose inferte e la sfumatura successiva di ferocia nell’incarnato. Durante la piccola digressione autoriferita mi sono resa conto di poter contare su un’amica del Macello che possiede ancora alcuni dischi di vinile intaccati ma almeno un po’ funzionali: per buttare giù un parere senza puntellare le unghie sul foglio ho bisogno dell’atmosfera adatta. La questione è stata surreale, come il resto della vita in effetti. Ecco, più o VERDE

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meno, come si svolsero i fatti, quel giorno. Più o meno. Nella piccola stanza di cera ristagnava l’odore del gesso. I vinili furono collocati anni fa in una piccola scatola di cartone ondulato marcio e lercio. All’entrata, sopito, un esemplare di pechinese grigio frugava col nasuccio le mie bende, affondando le zampine morbide sul collo dei miei piedi. Avevo i piedi fasciati. Lei, l’amica, saltella leggiadra col sorriso sulle labbra tinte di rosso e mi ricorda la vicenda della fata acrobata che non tocca mai terra muovendosi agilmente tra lunghe corde perché di pavimento, credo, non ce ne era rimasto granché: credo di averla letta quando avevo vent’anni, quella storia. Quando me la ricorderò per intero la riverserò per lei, l’amica fatata. In questo istante ella ride come sempre ha riso. Il modo ingegnoso con in quale il suo compagno le ha permesso di continuare a far girare il vinile l’ha preservata dal consumarsi di dolore per via dell’abbattimento materiale e spirituale dei teatri e della teatralità. Ama la Fata Confetto. Parla e redige accurate analisi del personaggio e dell’opera in sé: ogni qual volta ci vedremo saremo due fiocchi di neve e confetto, i piedi bendati di rosa e d’argento. Non riuscirei certo a buttar fuori qualcosa di gradevole in assenza della Fata Confetto. Non che necessitassi effettivamente di ascoltare la seconda variazione e manco la prima, il solo fatto di avere materialmente quel vinile tra le mani mi accordava e sintonizzavaa cuore e mani in pochi secondi. Col disco sotto al braccio, salutando cordialmente, me ne andai piroettando con un fouetté en tournant seguito da un enjambement: deittica e sinestetica. Il tragitto verso casa prese una piega situazionalista. Col vinile sotto al braccio sinistro


e la sigaretta accesa tra le dita della mano destra, pensavo. Forse non avevo più voglia di scrivere. Tanti, migliori o peggiori di me che fossero, avrebbero aiutato H** nel suo triste/greve/lieve interessante fardello social-ristrutturante: come le creme che usava sua madre. Il percorso nuovo era lastricato di mattoni dall’anima irregolare. Le piante dei piedi venivano continuamente punzecchiate ed umiliate, e le bende sarebbero dovute presto esser cambiate. La meta sempre più lontana; il tragitto sempre più lungo; il giorno sempre più breve. Col disco sotto il braccio sinistro, la sigaretta tra le dita della mano destra e gli occhiali da sole sulla fronte mi sono resa conto di essermi persa. Eppure non noto/vedo/sento/c’è niente di pericoloso per me in questo momento, così ho cominciato a scrivere seduta per terra, su uno di quei mattoni acuminati. Ho cominciato a scrivere una testimonianza e un testamento (per comodità, un testimoniamento): Non mi è mai interessata molto la storia, perché non credo abbiano mai saputo insegnarcela: la riprova di questo è che dopo innumerevoli conflitti e brutture siamo arrivati a questo punto; la riprova di questo è che tutti si sono meravigliati quando l’ultima carneficina ha falciato via tutto. Si sono meravigliati dei fatti. La lettura degli accadimenti è stata sempre così superficiale da farci dimenticare gli orrori più feroci, tanto da coglierci spropositatamente disarmati: sempre disattenti, noi. Totalmente impreparati. Ognuno in quegli anni bigi e grigi era preoccupato per i disordini politici e allo stesso modo non se fregava un po’ un cazzo nessuno. Sono cresciuta senza un punto di riferimento al di fuori delle mura domestiche. Siamo cresciuti in questo modo un po’ tutti, noi di quella generazione che ha cominciato a capire qualcosa nel millenovecentonovanta e qualcosa di più. In fondo ho sempre invidiato i miei genitori perché avevano idee più chiare, su cosa non so, ma sono sicura fossero più chiare. Non ci capivo mai nulla di partiti e nomi e riforme e di norme, ma facevo finta di nulla. E mi sforzavo. E mi sono sforzata tanto. Davvero. Poi capii: non c’era nulla da capire, perché non esisteva più nulla. Un momento. Dal basso della mia giovinezza di quegli anni non era mai esistito nulla, ma sentendo

parlare gli adulti percepivo che prima del gran casino e delle reti private che hanno privatizzato anche i cessi di casa, qualcosa ci doveva essere stato: ce lo facevano anche studiare a scuola! La scuola. Che disastro. Prima avevo atlanti con la Germania divisa e la Russia enorme color rosa cipria. In pochi anni dovetti ricomprare tutto perché la situazione si capovolse. La scuola. Che disastro. Maestre e professori non erano sicuri di niente e le nostre facce di quasi adolescenti un po’ brufolosi ed un po’ no, già parecchio ribelli con i capelli tinti e le scarpe pesanti alla fine degli anni novanta, erano enormi punti interrogativi: bocche spalancate e stomaci vuoti. Ricordo chiaramente la svolta poco democratica del mondo che vivevo, causata dall’inflazione di sedicenti sinistroidi e liberali liberi pensatori. Sono stati loro, con i loro abiti orrendi, a spingere ciurme di pirati destrorsi da quella parte. I liberali veri, i socialisti veri dovevano solo nascondere la faccia nell’assistere a quelle sfilate indecentemente ignoranti. E che nascondevano la faccia questo lo so di per certo. Non sono mai stata né di destra né di sinistra per quanto questi termini possano/potessero/ potranno avere (più) un significato. So di essere un pessimo esempio e so anche che il mio testimoniamento non ti sarà di nessun aiuto, caro H**: vivo sui fili di nylon colorati che uniscono le persone. Curo il mantenimento della dignità di un sacco di cose, ma non credo in niente; eppure riesco ad aggrapparmi per centinaia di volte allo stesso appiglio sincero. Per non tornare, per non andare, per non fermarmi. Per non soggiogare nessuno: ci si impiccherà un giorno a quei fili di nylon, dicevano tutti. Eppure sono ancora qui e io ti voglio bene per quanto possa valere e nel mio piccolo cerco di darti una mano: e adesso mi devi una pestilenza ghiacciata. Almeno una. Per sempre, finché dura. Terminata la digressione ho alzato lo sguardo accorgendomi di quanto fosse già giorno. La confusione era passata e la strada illuminata stava lì, dritta davanti a me. In quel preciso momento mi sono resa conto che senza l’ausilio di demoni antichi non sarei riuscita a sopravvivere. Albeggiava e io mi sentivo Vivien Leight. (FINE)

Nata a Brentwood il 3 febbraio 1971, S.H. Palmer è la più giovane e significativa esponente dei DISTRUZIONISTI, oscura avanguardia romana di fine anni'80, nata in seno agli ambienti di estrema destra della capitale, dove Palmer si trasferisce nel 1985. Poetessa, narratrice, autrice di numerosi testi teatrali e di romanzi dai temi controversi (su tutti APOCALYPTICAL MARSHMALLOW CRUNCHERS, la sua opera maggiore), dopo aver a lungo lottato contro una insidiosa depressione post-disintossicazione, muore a San Severo il 27 dicembre del 2004, a soli 33 anni. VERDE

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Deny Everything Distro 2.0

Se in Italia c’è una realtà underground che può essere accostata a Lamette [vedi Verde #4 issuu.com/verderivista/ docs/verdequattro] per costanza, sbattimento, sincerità e qualità dei risultati, questa è Punk4free. Il progetto nasce nel 2003, in una “lercia stanzetta di irc” dall’incontro tra Sberla (unico membro originario superstite di p4f) e altri volenterosi punx. Inizialmente l’idea è caricare su internet dei video e qualche demo. Come nelle migliori tradizioni, il sito si trasforma in una webzine dedicata al punk hardcore italico in tutte le sue sfaccettature, dallo “street” più becero all’impegno politico lucido e coerente, con una bella strizzata d’occhi all’hackeraggio. Il tutto condito con una straripante goliardia punk, specie nel primo periodo. Nel corso degli anni le cose sono cambiate anche perché p4f ha sempre raccolto molti collaboratori che si sono dati il cambio ma che hanno permesso aggiornamenti giornalieri, almeno a partire dal 2005 (anno dell’ingresso di Joel, altro membro iperattivo). Al momento ci sono circa una ventina di persone che si sbattono per il sito!!! Così le altre webzine cedevano il fianco e Punk4free resisteva. Ha resistito alla concorrenza di myspace, facebook e compagnia bella come se nulla fosse e anche oggi non passa giorno senza che l’homepage del sito sia aggiornata con almeno una novità. In questo modo è diventato il network più completo e aggiornato sulla scena punk-hc, nonché memoria storica degli ultimi 8 anni di controcultura, nonché etichetta d.i.y., nonché collegamento concreto tra realtà diverse (date un’occhiata ai banner) e continua ad essere una cronaca in presa diretta del presente. Ormai è difficile pensare la scena punk italiana senza Punk4free. Come farebbero tutti quelli che ai concerti ti dicono «suono in quel gruppo, trovi il nostro demo su Punk4free»? Tutto questo senza cedere a protagonismi, a cadute di stile o passi falsi: i tipi di p4f sono simpatici, cordiali e rigorosi, nessuno di loro fa questo per lavoro, perciò tanto di cappello e supporto incondizionato! Basta sfogliare le pagine per immergersi nella tonnellata di articoli, racconti, videoclip, documentari, comunicati e riflessioni libertarie anche se il punto di forza del progetto è la sezione download che conta (ad oggi, 25 settembre 2012) 1078 album, 34 bootlegs, 76 fanze e 23 ebooks in free ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY www.myspace.com/denyeverythingdistro denyeverythingdistro.blogspot.com denydistro@gmail.com VERDE

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download. Una mole impressionante di files generosamente condivisi e che sono il risultato di 9 anni di appassionata raccolta in giro per l’Italia: un lavoro davvero certosino. E poi c’è la distro, anzi le distro. Quelle che i vari collaboratori, distribuiti in varie regioni, si portano dietro. Ecco un altro vantaggio del network non solo virtuale: essere presenti contemporaneamente in più luoghi. Avendo un microscopio puntato sul presente è chiaro che anche le loro coproduzioni siano tutte degne di nota e non certo fossilizzate su un solo genere. Segnalazione d’obbligo per la compilation in doppio cd uscita da qualche mese che raccoglie ben 60 gruppi, «un nuovo passo per ribadire le logiche dell’autoproduzione e per portare avanti la rivolta del copyleft piu’ intelligente e del DIY piu’ ignorante». Un lavoro del genere ha bisogno di supporto morale ma anche economico, perciò non sarebbe male se qualcuno si facesse vivo con gli amici di p4f con una donazione anche minima. Mettetevi comodi e digitate www.punk4free.com, vi si apriranno le porte del mondo punk, così come è oggi, nel bene e nel male. Contatti: www.punk4free.com


BLITZRECENZION

La risposta è 42 (shanduziopalmer.tumblr.com)

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BLITZRECENZION

S. H. Palmer Nella mia vita

http://www.youtube.com/watch?v=zI0Q8ytD44Y

Fotografa il codice QR con il tuo cellulare e guarda il video di youtube

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BOUTIQUE DI CRONACHE CINELETTERARIE

federlca Lemme

CARNAZZA un film di ENZO TULPA RIGHEIRA PRODUCCIÓN Genere: B movie esoterico Sheena è l’indiscussa regina della letteratura sieropositiva. Nasconde un oscuro passato nelle pieghe luttuose di abiti dentro cui DaVe si sta perdendo. Con la testa tra le tentacolari stoffe, il teenage dream della poesia inglese abbandona gli orgasmi nascosti tra le pallide cosce di Sheena. Orgasmi fuori dalla violenza della stabilità. Sbagliati. Senza limiti. Privi di strategie e del comune senso di una storia. Densi solo di atmosfera e sensazione. La paura piomba anima e corpo e, cercando controllo, nuova luce e verità in promesse new age, DaVe vola verso una setta messicana. È un corollario di sogni infranti dalla ruggine degli aghi dove le ali sono annodate alle catene emostatiche imposte da un santone da bancarella vegan. L’orgasmo dell’eroina dello spirito in Messico diviene solo un pubblico supplizio senza nome. Il sapore dello sperma di DaVe si trasforma in quello di chiunque, lontano dall’erotico rapace che leccava elettriche scosse nella fica palpitante di Sheena. Lei che ora cerca di disintossicarsi dai resti di quel seme ma continua a volere il sapore del suo cazzo masturbandosi nel televisore spento di un motel dell’Inghilterra. Fottendosi da sé, mentre sui muri scoscesi squilla il telefono per annunciarle che suo fratello Dee Dee sta perdendo sé stesso in un cancro mortale. Partirà con lui. Viaggiando verso l’indefinito. Fino a un giorno ferito dalla luce della mescalina. Sulle rive del Rio Bravo abitato dalla voce dissolta della Santa Muerte, quando, per un solo pugno di dollari, il corpo livido dei cavalieri vegani viene abbandonato dalla bestiale umanità del santone dentro un allevamento di polli. Il sesso secco e privo di vita si trasforma in un giocoso habitat per il becco degli uccelli. DaVe riesce a fuggire. Dee Dee decide di prendere il sopravvento sopra il suo incancrenito destino peccando di hybris e annegando la testa nella spigolosità delle pareti rocciose di Messico e sangue, sino al decesso in un mattino sovrannaturale. DaVe e Sheena sono nudi sopra sotto bordi di cielo in cui i loro infranti sogni compongono un temporale di fuochi. Il sesso di lei gocciola. Gli occhi sono inceneriti dall’apocalisse che le ha spezzato il cuore. Il cazzo di DaVe è ancora teso. Pronto a sputare una poesia. Il corpo trema. Una parte di lui è andata via per sempre. Con la pura gioia che lo rendeva diverso. Forse ciò che sembra alba non lo è mai. Gli occhi del teenage dream piangono. Tende una mano a Sheena. Lei sta allungando il braccio. Uno sparo. Lo schermo ricoperto di sangue. Chi abbia sparato e chi sia morto non è dato saperlo. Magari nessuno dei due, oppure entrambi. Svelarlo non è l’intento di Enzo Tulpa: ex attore porno, ex allievo di Jodorowsky. Già ex regista, perché Carnazza è il suo primo e ultimo film. VERDE

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Sergio Gilles Lacavalla

59640 # 3 Kingston, Babilonia

Se la provvidenza non fa il suo dovere bisogna darle una mano. Meglio se armata. La canna della Browning 9mm di Dennis Lobban, detto “Leppo”, si poggiò sulla testa di Peter Tosh. «Sono andato in carcere al posto suo. Quando gli trovarono la ganja (leggi marijuana) dissi che era mia e lui allora mi disse che avrebbe provveduto alla mia famiglia fintanto che ero dentro. Ma un cazzo! Io ero venuto a chiedergli di regolare i conti. “Non ti do più un soldo!” urlava. Ho sparato, avevo perso la testa.» Si discolpava, quel balordo che entrava e usciva di prigione e ogni volta Peter Tosh era lì ad aiutarlo. Ma lui non si accontentava mai. «Volevo solo che facesse il suo dovere» insisteva “Leppo”. Certo, intanto, l’11 settembre 1987, si presenta dopo il tramonto a casa del musicista reggae a Barbican, periferia di Kingston, con due complici, e sotto il controllo delle armi intima a Tosh, alla sua fidanzata Marlene e ai loro ospiti, Carlton “Santa Davis”, Michael Robinson, Doc Brown, Free I Dixon e sua moglie Yvonne, di tirare fuori i soldi. Urla: «I soldi!» «Non abbiamo soldi in casa» risponde Tosh. «Ho detto i soldi!» Poi “Leppo” prende un machete in cucina. «Ti taglio quella cazzo di testa!» «Lascia stare il mio uomo!» interviene Marlene. «Non ci sono soldi in casa!» Fu l’ultima cosa che Peter Tosh pronunciò. “Leppo” esplose un colpo che ferì di striscio alla testa Marlene e passò nella bocca di Yvonne. Furono credute morte. Poi uno dei complici di Lobban disse a Tosh «questa notte tu morirai» e a “Leppo” «fai quello per cui sei venuto». “Leppo” esplose due colpi sulla fronte di Tosh. Il commando sparò anche agli altri. Tosh morì durante il trasporto verso l’ospedale, Brown sul momento, Dixon dopo tre giorni di coma, “Santa Davis” e Robinson, creduti morti anche loro, si salvarono. I tre rapinatori erano fuggiti sicuri di non aver lasciato testimoni. Il giudice condannò a morte Dennis Lobban, (la pena sarà commutata il 21 luglio 1995 in ergastolo). I suoi complici non furono mai identificati. Si dice che siano stati uccisi dalla malavita per le strade di Kingston. O dalle forze dell’ordine per eliminare coloro che sapevano. «Non sembravano ragazzi del ghetto» disse Michael Robinson. «Sembravano più dei poliziotti.» Il Primo Ministro Edward Seaga del JLP, l’11 maggio del 1981, quando Bob Marley muore per un melanoma, arrivò alla conclusione che se l’attentato al profeta rasta ed ex compagno di Tosh nei Wailers, avvenuto due giorni prima del concerto del 5 dicembre 1976 organizzato dal partito allora al governo, il PNP, era fallito, ci aveva pensato la provvidenza. Adesso ritenne che la provvidenza andasse aiutata. «Quella sera mi trovavo a Jones Town in una drogheria al 3 di Crook Street, ci rimasi fino alle 22.00. Io e Peter siamo cresciuti nello stesso ghetto, era un fratello» sostiene oggi “Leppo”. I vicini dicono che la famiglia di Dennis Lobban economicamente non se la passi più tanto male. E che è meglio che lui resti in carcere. VERDE

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Mi viene la nausea al solo pensiero di mettere la penna sulla carta, per qualsiasi motivo, letterario o altro. Questa mia incapacità ’di agire sta aumentando.


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