protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 10 anno II marzo 2013
Se Gesù fosse stato eliminato 20 anni fa, i bambini di scuola cattolica, invece di portare delle croci appese al collo, indosserebbero catenine con tante piccole sedie elettriche.
VERDE
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p.2 Editoriale p.3 TI ODIO POESIA #9: Desordre (Sonia Caporossi) p.4 Sogni e bisogni (Alda Teodorani) p.7 Una veronica perfetta (Pierluca D’Antuono) p.9 Nessuno sa com’è morto Nessuno. La polizia indaga (Max Cabrerana) p.11 IN-DISTRO #7: Suicide Autoproduzioni (Deny Everything Distro) p. 12 FICTIOTEQUE # 6: Castelli di cristallo (Federica Lemme) p.13 BLITZRECENZION #15: SanVito (S.H. Palmer) p.14: SEMIAUTOMATICA #3 (Simone Lucciola) p.15 PIRATERIA SERIALE #2: Dark Mirror (Essegei Procaccini)
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PARTNERS IN CRIME
VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it
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dove siamo editoriale
Un urlo disperato dipinge di orribile i muri di questa storia; ma a ben vedere, più che orrore, è una faccenda di confusione. Il benecomunismo si è finalmente infranto sull’altare di un fatalismo posteriore, e adesso ci aspettano giorni in cui ogni cosa sembrerà possibile. La situazione, più che eccellente, ci sembra eco-sostenibile. In questo fronte di incertezza generale registriamo, con stupore da entomologi, il sollievo di una seduzione, che per i più vale anche da consolazione: non è stato necessario nemmeno muoversi per attestarsi il merito passivo di uno sguardo fermo sui mille schermi vittoriosi, che trasmettono diligentemente la sfilata di un disordine che non tifa rivolta, ma l’ammansisce in un oceano di contraddizioni. Abbiamo visto le migliori menti della nostra generazione stiparsi la testa di grilli rabbiosi. I nostri avevano un solo colore: il VERDE. p.s. il mese prossimo compiamo un anno: preparate le candeline, noi pensiamo alla torta.
Sonia Caporossi Cantami cuore in festa l’istinto di distruzione Libera autonomie che tardano a divenire Annulla i desideri attonizza istanti gravidi Recalcitra l’attrazione dell’essere un pieno ME Liberami dal male, liberami dal male Liberami dall’essere, fammi resuscitare Torno nel magro abbaglio dell’essere un oltre – umano Né pienezza, né intenzione, una vana ipocrisia La punta di questo iceberg nasconde un’idea sismica Una montagna lunare nel cielo terremotato Vacui – motus mi ottenebra, nel seno intemperanza Non posso più fuggire l’essenza del mio ME Liberami dal male, o pigro cuore in festa Fammi tornare in pietra, fai di me solo un ricordo Poni la libertà a capo delle catene Annullami a nulla, sparisci e ti prego fammi bere Fammi tornare colla, saldami in ceralacca Fossilizzami in petrolio ed erodi le mie pene Arriva per me cuore in festa Arriva per me nella morte Annulla, annullami, amami Ristrettezze d’assoluto nel cappotto extralarge Dello stupido e interdetto essere Questo Dio che purtroppo io sono Crepa per me, Cristo in croce Arriva per me, morte in festa Arriva per me, mio dolore. 17/02/2004
VERDE
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TI ODIO POESIA
Desordre
Sogni e bisogni (Maslow) Alda Teodorani Ero davanti alla mia scuola, un edificio grigio alto cinque piani, di cemento mai verniciato, grandi portoni neri e disperazione alle finestre di cosa fare una volta fuori da lì. Avevo fumato cannabis negli ultimi due anni di corso praticamente ogni giorno, prima di entrare, nascosto con Paola dietro un muretto, e ogni giorno eravamo arrivati in ritardo, eppure i miei voti erano sempre buoni, però, a pochi minuti dall’inizio di quello che doveva essere il mio esame di maturità, non riuscii a trovare la forza per spingere il battente del portone ed entrare. Me ne restai là fuori, seduto sul gradino della casa di fronte, osservando la caserma dei Vigili del fuoco alla mia sinistra, guardandoli muoversi nel cortile con le loro mimetiche verdi. Fino a quel momento avevo pensato di essere felice. Ora capivo che non ero mai stato davvero felice perché avevo sempre paura di perdere. Quella sera non tornai a casa e quando la fame si fece più acuta, verso mezzanotte, mi misi a frugare nei bidoni fuori dal supermercato per trovare qualcosa da mangiare, dividendo la mia cena frettolosa coi topi che abitavano in quella zona. Da quel momento la mia vita è cambiata radicalmente, immagino che i miei genitori mi abbiano cercato, ma non mi hanno mai trovato. Ho fatto in modo che non mi trovassero. Da quel momento le mie uniche preoccupazioni sono state bere, mangiare e dormire, trovare un posto sicuro per farlo, e trovarne uno un po’ appartato per pisciare e cagare. Ogni tanto, mi capitava di conoscere qualche persona nuova, ogni tanto facevo sesso, scopate frettolose e orgasmi poveri, quasi come mi mancasse un liquido dentro ad arricchirli. Non mi fregava un cazzo degli altri, se cercavano di portarmi via il mio pasto ringhiavo come un cane ma non mi sono mai fermato più di una notte in un VERDE
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posto. Poi, spinto dal freddo dell’inverno che avanzava, ho trovato rifugio alla casa cantoniera sulla vecchia statale che nessuno usava più. Da poco era stata costruita una nuova strada, voluta da un politico perché gli faceva comodo per tornare a casa più velocemente la sera. La statale era stata lasciata a se stessa: dalle vaste crepe nell’asfalto spuntavano le prime piante pioniere, la pianura era deserta, il grano era stato appena seminato e la raccolta sarebbe avvenuta solo a tarda primavera. La casa si trovava in mezzo ai campi, era l’ambiente ideale per stare per conto mio senza essere disturbato. C’era anche un orto che, inspiegabilmente, pareva animato da vita propria e mi fruttava un po’ di cibo. Quando l’orto non bastava e avevo davvero molta fame facevo lunghe escursioni con la bicicletta, rubata al supermercato: rimediavo qualcosa da mangiare nelle case deserte. Era un pomeriggio nebbioso e cupo di dicembre quando arrivai alla casa rosa. Niente auto parcheggiate nel vasto cortile, nessuno. La stalla, come è successo in molte case di campagna quando le bestie da soma sono state sostituite dai motori, era stata trasformata in garage e il grande portone rosso era aperto. Sapevo per esperienza che là dentro avrei potuto trovare una porta che conducesse in cucina. Ero entrato, ed eccola lì la tipica porta di legno smaltato di bianco, la maniglia di acciaio inox: mi sentivo tranquillo, come fossi a casa mia, l’avevo aperta con noncuranza, ero entrato. Dentro la grande cucina piastrellata di bianco, accanto a un caminetto spento, c’era un vecchio che mi guardava con i suoi occhi acquosi, leggermente sporgenti. Le palpebre inferiori staccate un poco
dall’orbita lasciavano intravvedere un solco sanguinolento. Non gli avrei fatto niente se non avesse urlato. E invece lo aveva fatto. La sua voce era uscita a fatica, all’inizio, come il rombo appena avvertibile e lontano che precede il tuono. Poi s’era innalzata, blaterava qualcosa sulla sua casa, sulla mia presenza lì e continuava a urlare sempre più forte, insopportabile. Me ne sarei andato se non avessi avuto tanta fame. E invece avevo preso l’attizzatoio dal camino e l’avevo colpito in testa. Avevo continuato a lungo. Non so il momento esatto in cui è morto, non ne ho idea. Forse non stavo nemmeno guardando. Avevo frugato negli scaffali, trovando una gran quantità di cibo. In un cassetto c’erano anche dei soldi. Avevo trascinato via tutto dentro un sacco di juta trovato dentro il garage, arrancando sulla bicicletta. In seguito l’avevo fatto ancora e ancora. Ogni volta una specie di gioia selvaggia galoppava dentro di me, e una volta tornato alla mia casa in mezzo ai campi mi sentivo bene e al sicuro. Sicuro di avere sempre qualcosa da mangiare, sicuro di non essere mai trovato e punito per quel che avevo fatto. E avevo ragione: in mezzo a quel nulla, non c’era niente che potesse raggiungermi. Per la maggior parte del tempo dormivo, mangiavo, mi masturbavo. Ogni tanto andavo a procurarmi il cibo, a volte mi chiedevo se i giornali avevano parlato della gente trovata morta nelle fattorie, o di quella bambina tanto pallida che avevo violentato in un sottoscala. A volte mi stendevo sul letto guardando il soffitto, il pensiero oziava sul mio passato ma non mi
veniva mai in mente un granché. Con il ritorno del tepore, il desiderio di stare in mezzo alla gente e di parlare con qualcuno s’era fatto sentire talmente forte che avevo raggiunto con la bicicletta il tracciato della ferrovia, poi m’ero avviato a piedi sulle rotaie. Avevo camminato fino al tramonto, mangiando ogni tanto un pezzo di pane e un po’ di formaggio. Ero arrivato in città il giorno dopo. Avevo cercato il municipio e la sede dei servizi sociali. Avevo chiesto assistenza e un lavoro, mi avevano accontentato. È stato cosi che sono diventato un bravo cittadino, quello che chiamano un uomo onesto. La vita alla casa colonica era ormai qualcosa di molto lontano, tanto lontano che non ci avevo più pensato. Ora tra i
colleghi di lavoro, al call center dell’ufficio fiscale, avevo degli amici, che vedevo la sera del sabato per una bevuta o durante la settimana per giocare a calcetto. È questo che si fa quando si hanno degli amici. E poi una ragazza del reparto acquisizioni aveva iniziato a mettersi a sedere accanto a me al pub. Aveva gli occhi un po’ troppo vicini, i capelli di un biondo un po’ troppo scuro e il naso un po’ troppo grande. Ma per quello che avevo in mente di fare con lei andava benissimo. E così, un sabato sera dopo l’altro passato a casa sua, nel suo grande letto con le lenzuola bianche di sua nonna, è successo quel che non avrei mai né pensato né voluto. Perché l’amore è un bisogno, non lo sapete? Le chiesi di sposarmi. Adesso che ci penso, affacciato al settimo piano, è come se un grande verme dalle bocche a ventosa, di quelli che si vedevano nel laboratorio di scienze a scuola, fosse scivolato dentro di me in qualche modo che non capivo, e avesse deposto le sue uova nel mio intestino, come se i suoi figli avessero cominciato a circolare nel mio corpo, sotto la mia pelle. È come se improvvisamente tutto quello che ero fosse stato contaminato da qualcosa di altro, che prima non conoscevo. È un bene, è un male? Non lo so. Ho continuato a vivere la mia vita così, con le mie abitudini, un giorno dopo l’altro. Ogni tanto c’era qualcosa che si muoveva da qualche parte, tra lo stomaco e la gola, come un senso di ansia per qualcosa di brutto che sta per succedere. Mi sono messo a dipingere. Prima ho immaginato dei grandi alberi con le foglie pungenti e accartocciate, su un fondo dorato. Sono alberi che esistono solo nella mia mente, è questo il loro fascino. Ho dipinto donne con la pelle grigia su un fondo nero. Donne con il seno grande, i capezzoli enormi, che però avevano il volto velato, erano senza braccia o senza gambe, oppure senza occhi. Come se mancasse sempre qualche pezzo, erano bambole rotte che non si potevano aggiustare. Ho venduto anche qualche quadro, ho esposto in una galleria e la sera del vernissage mi VERDE
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sono sentito al centro dell’attenzione. E poi un giorno mi sono svegliato con questa idea, che tutti i miei amici avevano dei bambini e io no. Perché io no? Cosa avevo di diverso dagli altri? Pensavo alle guanciotte paffute di un bel pupo tra le mie braccia. Pensavo che gli avrei insegnato a giocare a calcio, saremmo andati alle partite e sarei stato il suo migliore amico. E poi l’ho detto a mia moglie. Che dovevamo avere un bambino, o anche due o tre. E lei era felice. Quando lei è rimasta incinta abbiamo deciso di comprare una casa. Avevo sempre pensato che la felicità fosse un tetto, e io lo stavo raggiungendo. Stavo risolvendo tutta la mia vita. Ho trovato un attico al settimo piano con un grande terrazzo. La sera avremmo cenato là fuori con i nostri bambini, avremmo acceso le torce alla citronella, avremmo portato fuori la tv e avremmo guardato cartoni animati o programmi televisivi. Abbiamo stipulato un contratto, e il giorno che ci hanno dato le chiavi mia moglie doveva andare dal ginecologo. Ho mal di testa, le ho detto, vado a casa. Era vero, sono andato a casa, la mia nuova casa. L’abbiamo comprata insieme ma io lo so che è più mia che sua, come il bambino che lei farà sarà più suo che mio. Sono uscito in terrazzo, avevo portato una bandiera dell’Italia e l’ho attaccata al punto più alto, vicino alla parabola della televisione satellitare, e poi mi sono affacciato dal mio settimo piano. Ho pensato a quello che ero e una sensazione di vuoto mi si è dilatata dentro alla testa, così forte che ho pensato potesse farla gonfiare e esplodere, con tutto il cervello che scoppiava di fuori come quando ti casca un cocomero. Mi sono sentito ancora in quel modo, come se qualcosa di estraneo e strisciante si fosse impossessato di me. Continuavo a stare affacciato al balcone, stringendo forte il ferro tondo del parapetto. Guardavo giù, le teste della gente che si muovevano, si fermavano, si incrociavano. E in un attimo mi sono accorto che non avevo mai realmente saputo di cosa avevo bisogno.
Una veronica perfetta
Pierluca D’Antuono
Sono nato nel più grande comprensorio della Cassia, in una casa bellissima vicino alla Tomba di Nerone. Ho passato tutti i pomeriggi della mia infanzia a disegnare sulle pareti del terrazzo fessure e crepe con diritti paurosi, finché un rovescio più violento catapultava le palline nel verde infinito del Veio, tra alberi soffici come nuvole e pascoli immobili nella nebbia. Quando pioveva, le corde della racchetta si intridevano di gocce di rugiada che esplodevano nell’aria insieme al mio sudore. D’estate la meccanica si fondeva sotto al sole, le corde si allentavano e il ferro del manico mi incendiava i palmi viscosi; il tramonto arrivava troppo in fretta, annunciato dal rombo della Rolls di mio padre che rientrava a casa dagli allenamenti, distrutto e silenzioso come ogni sera. Allora aveva 33 anni, era alla sua ultima stagione e si sarebbe ritirato alla fine del campionato, nel giro di pochi mesi. Ogni volta che mia madre gli chiedeva qualcosa sulle sue giornate, rispondeva sempre allo stesso modo: «Non sopporto più il rumore del pallone. Sono stanco». L’unica immagine che conservo di lui è quella di un uomo esausto con gli occhi pesti, la barba sfatta, la schiena ricurva e le spalle chiuse su se stesse. Era il capitano della sua squadra, il giocatore più amato dalla curva, il più pagato dalla società, ma qualcosa, irrimediabilmente, lo turbava nel profondo. Impiegò i suoi ultimi mesi con noi a guardarsi dentro, alla ricerca di una verità, la più diretta, finché un sabato mattina di maggio è uscito di casa e non è più tornato: semplicemente svanì sulla Cassia e non lo rivedemmo mai più. Il giorno dopo avrebbe dovuto giocare la sua ultima partita. Da allora non sono più andato a scuola. Passavo le giornate sul terrazzo a fucilare le pareti con schiacciate esagerate e veroniche perfette. Un mese più tardi mia madre scoprì che il conto in banca era in rosso e non
avevamo più niente. Abbiamo lasciato casa la sera stessa senza portare nulla, neanche la mia racchetta. Nemmeno una pallina. La nostra domestica ci aveva consigliato di cercare casa a Cesano: suo cognato ci avrebbe affittato un appartamento con due camere senza balcone. Alle nostre rimostranze sulla distanza dalla stazione (quattro chilometri), aggiunse anche una 126 rossa vecchia di 35 anni, più dell’età di mia madre. Cesano era piena di pendolari russi e rumeni che lavoravano a Roma e tornavano a casa solo per dormire. Qualcuno diceva che c’era anche una famosa scrittrice che non usciva mai di casa e nessuno aveva mai visto; probabilmente non esisteva, o forse era solo un fantasma. In paese, di giorno, giravano solo i militari baresi in ferma breve che passavano il tempo tra i due panifici e il bar della stazione, dove bevevano gratis. Mia madre trovò presto lavoro in un ristorante di Bracciano. Lasciai la scuola definitivamente e non facevo più niente. A volte sognavo di cadere dal letto e di precipitare sui dolci prati del Veio, planando lentamente su una discesa di palline gialle, calde e morbide come la lana delle pecore che guardavo dall’alto, tra un lob e un tweener sul mio terrazzo. Avevo nostalgia di casa, ma più di tutto mi mancava la mia racchetta. La palestra abbandonata di Cesano era dietro la chiesa, nascosta dalla malerba che ne ricopriva l’ingresso. La sede di Forza Nuova era dall’altra parte della strada: in dieci, tra cui i miei vicini di casa – due fratelli gemelli della mia età che si distinguevano soltanto dal colore degli abiti che indossavano (solitamente differenziati per semplificazione incrociata, tipo frazioni: blue jeans e maglietta bianca il primo, pantalone bianco e maglietta blu il secondo) – avevano inaugurato la sezione da pochi VERDE
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mesi. Il primo obiettivo che si diedero fu di occupare la struttura per riqualificarla e metterla a disposizione della cittadinanza. Ricevuto l’assenso dal prete, entrarono nella vecchia costruzione poco prima di natale e ci trovarono sei famiglie moldave che vivevano lì dentro da quando le loro case erano crollate. In paese lo sapevano tutti, ma fu lo stesso un’epifania; i militari espressero la loro riconoscenza e alcuni di loro presero la tessera di FN, cosa che alla fine feci pure io, perché i gemelli me lo chiedevano tutti i giorni e poi perché qualcosa dovevo pur fare (l’idea dell’occupazione non mi dispiaceva: col tempo, mi dicevo, sarebbe potuto arrivare anche il tennis). A inizio febbraio finì la bonifica. Decidemmo di restituire la palestra alla città la mattina dell’11. Quel giorno c’era quasi tutto il paese: le mamme non mandarono i bambini a scuola e le nonne uscirono di casa per la prima volta dall’estate. Mancavano solo mia madre e gli uomini, al lavoro come sempre, ma c’erano i militari, il prete e pure i chierichetti. Pochi minuti prima delle dieci i vetri delle finestre scoppiarono improvvisamente e l’ingresso si riempì di blocchi di porfido divelti dalla Baccanello. Urla selvagge e cori da stadio si imposero fatalmente sotto un cielo grigio che minacciava tempesta, mentre il panico esplose e la palestra si svuotò nel giro del pianto di un bambino. Un commando al gran completo – erano due volte noi – di Casapound sfondò la porta e ci si lancio addosso. Avevano deciso di rovinarci la giornata. In quel momento ero attraversato da scariche di elettricità perverse che non potevo contenere e mi facevano impazzire. Un piacere così non lo avevo mai sperimentato: era meglio del tennis, più potente della nostalgia di casa, più appagante di non andare a scuola e dormire la mattina e masturbarmi a letto fino a VERDE
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svenire. Percepivo distintamente ogni cosa: gli strilli bestiali degli invasori, l’immanenza del nostro blocco, i pianti dei bambini, le urla delle mamme, un televisore acceso con le campane di San Pietro che risuonavano solenni e un annuncio trasmesso in mondovisione che tacitò ogni cosa attorno a me. Non era possibile. Non potevamo crederci. Papa Ratzinger si era appeno dimesso. Davanti alla televisione accesa, pietrificati come statue di gemma, i più si portarono le mani tra i capelli, qualcuno rabbrividì dal freddo, uno dei gemelli scoppiò a piangere
come il bambino che era. Benedetto XVI aveva rinunciato al soglio di Pietro. Nessuno poteva ipotizzare cosa sarebbe successo, ma sapevamo già da allora che i barbari non avrebbero tardato e presto li avremmo sentiti premere alle porte di Roma. Era un’illusione trovare rifugio in una palestra abbandonata. Non sarebbe bastata neanche la migliore delle mie veroniche perfette. Due settimane dopo ci furono le elezioni. A inaugurare la palestra venne Grillo. La cristianità piangeva ancora, commossa e impazzita, ma Cesano aveva un nuovo Pietro. E attorno a lui si stringeva.
Nessuno sa com’è morto Nessuno. La polizia indaga
Max Cabrerana
In questa stanza c’è Fog, Larry Fog, legato mani e piedi, con una palla di gomma rossa come bavaglio. Sono passati venticinque anni dal suo ultimo film, e in questo momento non sta proprio bene, come quando riusciva a cavalcare un Mustang ruotato sul fianco, a impugnare la Winchester più veloce del West, ad offrire alla cinepresa il suo miglior profilo da figlio di puttana, in pellicole memorabili come Spaghetti aglio, olio e polvere da sparo o Nessuno uccide nessuno…Nessuno uccide tutti. Entrando in un saloon, quando le porte gli sventolavano dietro, pure alle sputacchiere, per la fifa, veniva la gola secca. I suoi pantaloni di pelle nera, il cinturone a vita bassa, le due Colt calibro 45, lo Stetson calato ad altezza bocca, che non era una bocca, ma un taglio sulle guance, il sigaro ciondolante sulla sinistra che gli durava cinque o seicento ciak. I primi piani dei suoi occhi erano centellinati. Se Larry calava il suo sguardo su di te era per condannarti a morte. Un’ora dopo essersi rasato, il nostro Ragazzo delle Vacche aveva una barba tanto dura e ispida da poterci grattugiare una forma intera di Grana. Larry Fog: per lui l’America della frontiera erano i Canyon dell’Almeria o del Gennargentu, città come Tombstone e Carson City erano riproduzioni in 2D di facciate di cartongesso dipinte, con le scritte Saloon, Bank, Sheriff. I film con Larry come protagonista, al botteghino, facevano incassi stellari. Questo almeno finché il pubblico non ne poté più di tutti quei cowboy, quei messicani, quelle pistole, quei cavalli e di tutta quella polvere. È allora che Larry Fog si ricicla nei poliziotteschi, nelle commedie sexy, in parti minori di sceneggiati televisivi. Quei ruoli gli calzano come uno smoking su Toro Seduto. Poi, venticinque anni di silenzio. C’è chi dice che si è arruolato nella legione straniera o si è convertito al Buddismo Zen, tipo Steven Seagal. È un po’ una legge dell’universo: gli attori prima o poi passano da stelle a meteore. E le meteore, generalmente, finiscono in un buco nero di alcool, cocaina e antidepressivi. Ma Larry era diverso. Si era semplicemente fatto crescere la barba, i capelli, i debiti con le banche. Così come Scrolla Lancia nasce a Messina e
per darsi un tono internazionale si fa chiamare Shakespeare, all’anagrafe Larry Fog è Lauro Nebbia, nato a Roma e residente a Testaccio, mica nel New Mexico. Ora fa il bidello alla Garbatella. Poteva andare peggio. La sua nuova vita, fosse un film, si intitolerebbe Il Signor Nessuno. Una parte scomoda, un personaggio contraddittorio: così Tonino Malaria, giovane regista indipendente, aveva definito il suo ruolo, dopo avergli annunciato l’intenzione di girare un prequel del suo capolavoro Toc Toc, c’è Nessuno?… Sì, è meglio che preghi! Prima che Larry attaccasse il telefono con un «mavattenaffanculotestadecazzo!!!», Malaria era riuscito ad aggiungere: «Un’interpretazione che la rilancerà nel mondo del cinema, una rivincita pro…» Poi il telefono squillò di nuovo. «Cinquemila euro, esentasse.» «Vediamoci», risponde il nostro. Malaria è seduto al tavolo di un bar. Agita in faccia a Larry il copione di Quel figlio di puttana del padre di Nessuno. «Se lei non accetta, signor Fog, il film non si fa!» «Diecimila euro, o niente.» «Seimila.» «Ok, ma voglio i cestini a pranzo e a cena.» Prima donna del cazzo, pensa Tonino. Il personaggio di Larry, Lee Yin, vende piscio e zucchero in giro per il West, spacciandolo per elisir di lunga vita, e poi fa un figlio con una prostituta squaw, che chiamerà Gian Maria. Il figlio, per questo, non lo perdonerà mai. La vendetta si consuma nella scena finale, quando Gian Maria chiude la partita scaricando a Lauro Nebbia, alias Larry Fog, un intero caricatore: da quel giorno di vendetta onomastica si farà chiamare Nessuno. «Una nuova saga western», la chiama Tonino Malaria. Lavoro sicuro per almeno otto, dieci anni. Nemmeno un cantiere sulla NapoliSalerno. Ma il produttore, con l’avanzare delle riprese, si persuade del fatto che il film è «unammerdatotale» e che i centomila euro investiti nella pre-produzione andranno VERDE
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irrimediabilmente in fumo. Quelli sono i soldi del boss Vito Calò Zazzarone, frutto di spaccio, pizzo e nigeriane. Un modo come un altro per riciclare denaro sporco. Il Boss aveva accettato di finanziare il film solo a patto che suo figlio avesse il ruolo del protagonista e suo cugino quello del becchino del villaggio. «Ti do una settimana. Me ne fotto se invece di un western giri Guerre Stellari o ‘na robba de’ zombi, ma il film ‘a da fa’ soldi», intima il Produttore. Tonino Malaria escogita un piano diabolico perché i media ne parlino, nella speranza che almeno qualche copia venga distribuita, anche solo in un commissariato di polizia. (Forse al commissariato meglio di no.) È a quel punto che tira fuori Il Pakistano dal cappello. Il Pakistano, di Fuorigrotta, chiamato così negli ambienti gay per via dell’abbronzatura perenne. Si diceva che il bisogno di Larry di tenere perennemente qualcosa in bocca, fosse il solito Toscano o una stele di erba gramigna, fosse tutt’altro che casuale: insomma, nonostante i suoi modi da duro, gli davano del culo chiacchierato. Manca una settimana alla fine delle riprese quando Larry incontra per caso Il Pakistano, nel solito bar dove fa l’aperitivo. Il Pakistano, dal bancone, lo dardeggia con focosi sguardi lussuriosi. Larry lo nota, tira giù l’ultimo sorso di Negroni e gli si avvicina allungando la mano. «Sono Fog. Larry Fog.» Il Pakistano simula entusiasmo, stupore e ammirazione. «Con chi ho il piacere di parlare?» chiede Fog. «Nessuno», risponde il Pakistano. Larry s’accende un Toscanello. Un mezzo sorriso. Un’occhiata alla patta dei pantaloni del Pakistano. Di armi se ne intende: una canna calibro 25. O forse 30.
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Ora Larry Fog è nudo come un verme. Indossa solo i suoi stivali texani di finto serpente. Un bavaglio di pelle nera torchiata gli scherma il viso; una palla di gomma rossa gli serra le mascelle. In gergo BDSM le chiamano gang ball. Le palle di Larry sono viola cianotiche, legate da un laccio che sale su fino al collo, assicurato all’asta porta abiti dell’armadio. Il Pakistano, dopo aver nascosto la videocamera, ha seguito scrupolosamente tutte le indicazioni di Larry. Come annodare, come e quando stringere mentre lui viene, come e quando lasciare. Oddio, non proprio scrupolosamente. La fase critica è sopraggiunta dopo l’applicazione della gang ball: Larry a quel punto non riusciva più a parlare, le corde e i lacci erano troppo stretti. Il Pakistano doveva solo farsi fare un pompino, mentre lo riprendeva di nascosto. Magari una spolverata di coca, un set di vibratori sullo sfondo, per i cinquecento euro che Malaria gli ha promesso. Malaria però non gli aveva mica fatto una lezione di nodi marinareschi. Quando Larry comincia a schiumare dalla bocca, quando le sue palle da viola si fanno blu cobalto come il suo volto, quando gli occhi sembrano solo orbite rovesciate, ormai è troppo tardi. L’ultima scena ripresa dalla telecamera è il primissimo piano del Pakistano sudato e marcio che dice: «Malaria, per questo casino minimo mi devi organizzare una serie di provini per tutti i reality show del Pianeta, più diecimila euro sull’unghia.» Dissolvenza in nero. Gli inquirenti non scartano nessuna ipotesi sulla morte di Lauro Nebbia: un suicidio godereccio, un omicidio altruista, una sega sbadata. Indagano a trecento sessanta gradi su quello che, se fosse un film, si intitolerebbe Nessuno sa come è morto Nessuno. La polizia indaga.
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Deny Everything Distro 2.0 Torniamo a rovistare nell’underground più nascosto: è il turno di SUICIDE autoproduzioni. I più scaltri avranno notato che il logo della distro in questione compare tra i coproduttori di Verde fin dal primo numero. Ma nessun conflitto d’interessi, il senso di questa rubrica è segnalare le realtà più stimolanti del sottobosco d.i.y. perciò luci puntate su un nome che meritava qualche riga già dalle prime uscite della vostra amata rivista. Suicide. Leggetelo come volete a seconda delle sonorità che preferite, in italiano, inglese o francese, ma il concetto resta piuttosto esplicito. Il losco figuro dietro Suicide non conosce vie di mezzo, ha intenti belligeranti sia quando si sporca le mani con musica & rumori, sia quando partecipa all’organizzazione di eventi incatalogabili, sia quando si lancia in folli imprese editorial-letterarie. Jesus Adentro, questo il suo nick online, è un volto noto della Roma underground ed è impossibile elencare gli innumerevoli progetti non-solo-musicali cui ha preso parte (è stato anche uno dei boss di Deny Everything nella versione 1.0!). Da una decina d’anni attraversa pacificamente scene musicali ostili tra loro e mondi contro-culturali diversi, senza abbagli modaioli e mantenendo sempre un’etica di ferro. Per questo la sua è un’etichetta senza etichette, una realtà che non conosce generi né restrizioni, portata avanti con cura maniacale dei dettagli. Dice lui: «Autoproduzioni DIY musicali, letterarie, creative, per un’agiografia dell’ecatombe esistenziale - contro ogni vitalismo.» Suicide nasce a maggio 2012, oltre a Verde nel pentolone ci sono delle pietanze già pronte quando leggerete queste righe ed altre che rimarranno in cottura lenta ancora per un po’. Il filo conduttore delle produzioni “suicide” è un profondo senso di disagio esistenziale. Basta dare un’ascolto al cd-r di Giovanni, anonimo chitarrista che traspone in musiche delicate l’essenza della vecchiaia più disperata, non un concept album ma una vera e propria ossessione per capelli bianchi, corpi sformati e dentiere, problemi alla prostata, campi da bocce e ospizi. O, in direzione diametralmente opposta, alle ricerche sonore di terroristi cacofonici come Negativeself e A Happy Death: fischi, scrocchi e suoni marci, nessuno spazio alla melodia. Sullo stesso piano sonico anche il prossimo split-tape tra il guru Maurizio Bianchi e i
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più giovani Museo della Tortura, mentre si passa all’anarco-punk delle origini con una coproduzione pilotata da Sometimes Records: la stampa su vinile di tutte le registrazioni delle Antigenesi. Sul versante cartaceo il disagio si concretizza nella terribile fanzine AdDiocane: manie depressive, potere degli psicofarmaci e altre amenità che non sto ad anticiparvi. Anche la distro non è una semplice distribuzione, Jesus ha creato una cordata itinerante di etichette romane. Il concetto è semplice: c’è un’iniziativa, un concerto o un reading? Ecco che Jesus si carica le sue cose e alcune produzioni di altre realtà romane e le espone al pubblico ludibrio. Naturalmente senza mettersi in tasca nemmeno 50cent. Così se il contenuto delle sue produzioni è disagevole, dietro tutto questo non può che esserci un approccio “politico”, un modo di affrontare la triste realtà a suon di impegno costante e attitudine collaborativa. Ogni mossa “suicida”, sia la stampa di un dischetto o la presenza fisica a un concerto, è un tassello di sovversione, una personale spinta a cambiare lo squallido stato di cose che tutti abbraccia. Questa è Suicide, mica una distro del sabato sera. E questa è la sua battaglia. Contatti: http://suicideautop.blogspot.it/ VERDE
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STORIE NERE BOUTIQUE DI CRONACHE CINELETTERARIE
federlca Lemme
CELESTICA
CASTELLI DI CRISTALLO Neon Indian Edizioni, 2013, 13,50 € L’ultima rappresentante degli esordi elettro letterari presentati da Fictioteque si chiama Celestica. Un corto caschetto s’intravede tra il cappuccio della felpa che cade nera sopra la pelle più bianca di un foglio. La sigaretta si contorce come penna tra le dita smaltate, sino ad arrivare alle labbra che, tinte con un rosso silenzioso, dicono di sentirsi molto lontane dal resto dei giovani narratori italiani come la celebrata Viola Di Grado. E anche dalla poesia, sottolinea la bocca che ogni tanto sorseggia birra. Celestica non si percepisce scrittrice ma dj. Sostiene che scrivere, per lei, significa campionare e mixare parole per far muovere, come in una pista, le più sfrenate emozioni dei lettori. È così che dai rumori nascono i rhumori e gli/i (r)umori. Nessun artista inventa la parola, ma la rielabora per creare e (de) generare. Fino ad arrivare a una melodia inaudita. È per questo che il suo esordio porta un nome che cita la musica (Crystal Castels) contemporanea poco impegnata e non vuole essere definito letteratura. L’agghiacciante bellezza della narratrice di origine fiorentina non si appassiona all’interesse semplicistico nei confronti dei Nobel. Cameriera, sprovvista di laurea, presso il Buddha-Bar di Parigi, afferma di non sopportare i lettori di Saramago che affollano i bus italiani. La sua scuola sono stati i vinili. I libri che valgon l’occhio sono pochi: «Dostoevskij e Genet sono sinfonia. Se voglio fare un leggero after (dark) ho Haruki Murakami. Perché dovrei punirmi con Ammaniti?» Tutte queste ragioni non la spingono però ad assumere pose alla Courtney Love, è molto graziosa sia nel sorseggiare alcolici che nella disapprovazione letteraria, o ad allegare musica da ascolto al suo libro. Sono le sue stesse parole a fabbricare dodici tracce che, senza titolo, possono essere ritenute racconti o episodi di un concept in cui appare, sottile come una linea d’orizzonte, un filo conduttore: la trascendenza degli umani limiti. S’intravedono fatiche operaie che richiamano i toni della Björk di Dancer In The Dark e fotogrammi sadomaso alla Tokyo Decadence in cui le sonorità di Ryuichi Sakamoto si (con)fondono alle selezioni del Buddha-Bar, il tutto tra esoteriche posture corporee eseguite a ritmo di una downtempo alla Thievery Corporation. Sono storie cosparse d’incensi e tacchi a spillo dove tutti i separatismi ideologici s’infrangono come castelli di cristallo, sino a dissolversi nel puro suono. Perché mai l’autrice direziona la parola verso la morale o la conclusione. Le righe di Celestica compongono un libro che potrebbe essere inserito negli odierni scaffali di elettronica. E che, proprio per dirla con Murakami, non sembrano sospirare altro che Dance Dance Dance! Mangiate e muovetevi dentro questo corpo letterario pieno di grazia. VERDE 12 12
BLITZRECENZION S. H. Palmer Tutto questo sole e tutta questa luce non riusciranno a coprire il fermento che abbiamo dentro. Come ragni che non riescono a smettere di ballare. Come canzoni che non riescono a smettere di suonare.
(shanduziopalmer.tumblr.com)
http://www.youtube.com/watch?v=EQHCTT2t1lE
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BLITZRECENZION
San Vito
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VERDE
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#3 La poesia che parla di sé e/o a Un se stessa: perché? Che senso grande ha ricercare il significato della scrittore è poesia all’interno di un testo Bianciardi, se ti poetico, o rivolgersi alla poesia rendi conto che come se un concetto inanimato prima di dattiloscrivere potesse interloquire? Ma anche una pagina si è semplicemente tirare in ballo documentato sul campo e ha ingoiato un vocabolario. la parola poesia all’interno di Un grande scrittore è una poesia. Se la poesia è ποιέιν, Bukowski, se vai oltre la “fare ad arte”, essa dovrebbe narrazione delle sbronze e ti compiersi nel ritmo, nel concetto accorgi che cambia registro o anche solo nel semplice scorcio, passando dal comico al grottesco purché costruito ad arte. A che al malinconico alla tragedia scopo – se non per un paravento con il ritmo indifferente di un autoreferenziale – buttare via la mitragliatore. Un grande scrittore pagina per parlare a un’ipotetica è Gadda, se hai il fegato di leggerlo tutto senza troppe interruzioni. poesia invece di passare all’atto pratico? Come dire che il fare Un grande scrittore è Roland viene tirato in ballo nel fatto, con Topor, se trovi ancora i suoi libri in giro. Un grande scrittore è un niente di fatto. Poe, e su questo non ci sarà mai dissertazione alcuna. Un grande scrittore è “bitter” Bierce, che qualcuno ce lo ritrovi nel Messico. Baudelaire. Un grande scrittore sarebbe Lautréamont. Stephen King, se non mandasse a Basta, grazie. puttane nelle ultime dieci pagine romanzi fino ad allora impeccabili (affanculo lui,Tales from the Crypt e Farfalle, gabbiani, fantasia, ali, il bisogno di mostruosità striscianti femministe,puttane,doppelgänger, degli adolescenti americani). maledettismi, pudicismi, arcaismi, Un grande scrittore non è grecismi, sentenze da Baci necessariamente un anarchico Perugina. Tutto quello che non antisociale anacoreta aruspice autoprodotto voglio vedere in una poesia. autodistruttivo E comunque offendendo chi apocrifo. «Molto bene, torni scrive di queste cose non domani per la B», disse il medico smetteranno di scriverle. So live omosessuale al suo paziente and let live (you know you did uranista e muto.
you know you did you know you did). VERDE
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La prima cosa che salta all’occhio guardando Black Mirror è la grandissima mole di carne al fuoco, e soprattutto di spezie utilizzate per insaporire il tutto. Il background culturale della serie è piuttosto ricco e probabilmente supera l’immaginazione di chi scrive, ma non possono non venire in mente i nomi di Robert Sheckley e Richard Matheson, fautori di quella fantascienza sociologica che ha costretto i lettori a una seria rivalutazione dell’ordine costituito (a loro modo i due autori sono da considerarsi dei veri e propri sovversivi), immaginando mondi terribili (ossia: terribilmente possibili). Partendo da uno spunto che può ricordare il primo bellissimo episodio del Decalogo di Kieslowski (Onora il padre e la madre, da non confondersi con la traduzione italiana dell’ultima fatica di Sidney Lumet), Black Mirror ipotizza quello che potrebbe succedere se davvero portassimo a compimento quel processo vagamente tsukamotiano di completa fusione con le tecnologie di comunicazione. Non si parla quindi di un lontano futuro distopico, ma di una plausibile ipotesi del tutto verosimile, ed è forse questo l’aspetto più inquietante di tutta la serie, autentico colpo di fulmine per molti spettatori, la cui grandezza
risiede tuttavia nel format stesso. Il fatto di adottare la formula dell’episodio autoconclusivo significa ripercorrere diversi anni di storia della televisione e prendere il tipico formato destinato all’intrattenimento disimpegnato (questo ovviamente senza volerne inficiare la validità, il riferimento alla serie Ai confini della realtà è assolutamente nobile), affidandogli l’ingrato compito di generare un senso di inquietudine nel malcapitato spettatore. Black Mirror gioca pericolosamente con le emozioni più nascoste della società e ne mostra il lato più oscuro (in quest’ottica il titolo acquista un significato lampante), e il risultato si può riassumere in un aggettivo: shockante, soprattutto sulla lunga distanza. (Essegei Procaccini) http://serietvsubita.org/category/black-mirror/
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Essegei Procaccini ha 32 anni, o quasi. Ha scritto varie cose su vari siti, è possibile visionare suoi scritti nei magazine on line Sentireascoltare, Roarmagazine, Rapmaniacz e anche qui. Essegei non vi darà mai link, ma la possibilità di riempirlo di insulti e pareri al magico indirizzo sebastianprocaccini2012@ gmail.com
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Se Se Ges첫 Ges첫 fosse fosse stato stato eliminato eliminato 20 20 anni anni fa, fa, ii bambini bambini di di scuola scuola cattolica, cattolica,invece invece di di portare portare croci croci appese appese al al collo, collo, indosserebbero indosserebbero catenine catenine con con tante tante piccole piccole sedie sedie elettriche. elettriche.